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Notizie 1-15 novembre 2018
I turisti israeliani premiano la Sicilia ma per ragioni di sicurezza
di Flora Bonaccorso
"Oltre 5.000.000 di passeggeri sono transitati, da maggio a settembre 2018, dall'Aeroporto di Catania", rende noto l'ufficio statistiche della Società Aeroportuale di Catania (SAC).
Tra i fattori che hanno determinato un flusso turistico di questa portata c'è Israele, che ha visto incrementare il movimento "da e per" di circa il 30%. Ma gli addetti ai lavori conservano un atteggiamento cauto: ragioni di sicurezza spingono i turisti israeliani a scegliere la Sicilia come meta delle proprie vacanze, non una vera e propria programmazione politica. Per quanto riguarda invece il flusso verso Israele, il più importante tour operator siciliano specializzato nel turismo religioso, Oby Whan, nel 2019 ha confermato voli charter da Catania per Tel Aviv ogni mercoledì dal 17 aprile al 25 settembre.
(Messinaweb.tv, 15 novembre 2018)
Lascia il ministro della Difesa. Rischio elezioni anticipate
di Rolla Scolari
Le dimissioni del ministro della Difesa Avigdor Lieberman e il ritiro dei deputati del suo partito - Yisrael Beiteinu - dalla coalizione di governo rischiano di anticipare le elezioni programmate a novembre 2019 in Israele. Il premier Benjamin Netanyahu conserva ora una magra maggioranza: 61 su 120 seggi alla Knesset, il Parlamento israeliano. Ad innescare la crisi è stato il cessate il fuoco raggiunto martedì dal governo israeliano con il movimento islamista palestinese Hamas che controlla Gaza, dopo ore di lancio di razzi dalla Striscia verso Israele e raid aerei israeliani. «Una capitolazione al terrore», così Lieberman ha definito ieri la tregua raggiunta dal governo, invocando misure più dure contro le fazioni armate palestinesi.
Sotto pressione
Da mesi, quando la situazione sembra precipitare a Gaza, il premier Netanyahu si trova sotto pressione da parte dei suoi alleati politici della destra più radicale per un intervento armato che possa mettere fine alla instabile situazione nel Sud del Paese. Il primo ministro, però, ha detto a inizio settimana di voler evitare una «guerra non necessaria». Le sue considerazioni sono anche politiche. Come spiega Anshel Pfeffer, del quotidiano liberal Haaretz, Israele con le dimissioni di Lieberman entra in campagna elettorale. E il premier non vuole farsi dettare l'agenda politica, come tenta di fare Lieberman. Il ministro dimissionario lotta per la propria sopravvivenza - il suo partito ha appena sei seggi alla Knesset - ma a ritrovare una rilevanza nel futuro assetto politico del Paese. La sua mossa ha come obiettivo dunque quello di indebolire la figura di difensore della sicurezza di Netanyahu, imponendo in campagna elettorale proprio la questione che il premier vuole il più possibile tenere lontano dalle urne: Gaza, il contenimento di Hamas, il conflitto israelo-palestinese. «Il premier vuole che le elezioni siano invece incentrate sulla sua figura di leader forte, sulla minaccia iraniana, sui buoni rapporti con Donald Trump», sottolinea Pfeffer.
Resta il fatto che mancano figure politiche alternative a uno dei leader più duraturi della storia del Paese, a un politico capace di tornare sempre sulla scena. La tensione in Israele resta altissima, ieri sera a Gerusalemme un uomo ha assalito con un coltello un poliziotto ferendolo. L'aggressore è stato a sua volta colpito ed è in condizioni gravi.
(La Stampa, 15 novembre 2018)
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Il falco Lieberman anticipa la corsa alle urne in Israele
Il ministro della Difesa si è dimesso: «Netanyahu troppo debole con Hamas»
di Roberto Bongiorni
Accusare il premier israeliano Benjamin Netanyahu di essere morbido con Hamas più o meno equivale a rimproverare a Donald Trump di intrattenere relazioni amichevoli con l'Iran.
Se c'è un primo ministro israeliano che si è contraddistinto rispetto ai suoi predecessori per il pugno di ferro contro il movimento islamico, padrone della Striscia di Gaza dal 2006, questo è proprio Netanyahu, conosciuto anche come Bibi il falco. Premier ininterrottamente dal 31marzo 2009, Bibi ha autorizzato durissime operazioni contro Hamas che sono costate la vita a moltissimi civili palestinesi (come "Margine di Protezione", nel 2014, dove ne morirono quasi 1.500 ).
Eppure agli occhi del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, furioso per i razzi lanciati da lunedì dalla Striscia contro Israele, l'accordo di cessate il fuoco (pur non formale) raggiunto grazie alla mediazione dell'Egitto, altro non è che «una resa al terrorismo». Ieri mattina Lieberman ha così annunciato le proprie dimissioni durante una conferenza stampa: Israele «guadagna la tranquillità a breve termine a costo di gravi danni a lungo termine per la sicurezza nazionale», ha dichiarato.
Avrebbero potuto trattarsi di semplici dimissioni. Non sarebbe stato nemmeno tanto difficile trovare un sostituto a Lieberman per il ministero più ambito in Israele, quello che dà maggiore prestigio. Per quanto il candidato più accreditato fosse uno sfidante di Bibi, ma più falco di lui.
Ma c'è un fatto, che non è un dettaglio. Lieberman, 60 anni, ministro della Difesa da due, è anche il fondatore e leader del partito Yisrael Beiteinu. Insieme alle dimissioni l'ormai ex ministro della Difesa ha annunciato anche il ritiro dei suoi deputati dalla coalizione al governo. Yisrael Beiteinu è un piccolo partito, più a destra del partito conservatore, e di maggioranza, il Likud. Ha solo sei seggi in un Parlamento che ne conta 120. Ma senza gli onorevoli di Lieberman, Netanyahu si ritroverebbe con una maggioranza davvero risicata, un solo seggio in più. Un filo sottilissimo a cui sarebbe appeso il suo Esecutivo.
Ecco perché con queste dimissioni potrebbe scattare la nuova campagna elettorale israeliana. Le prossime elezioni politiche erano previste per il novembre 2019. Ma a questo punto non è escluso che Netanyahu possa decidere di anticiparle in primavera.
Le dimissioni di Lieberman non rispondono però a una mossa a sorpresa dettata dall'impulsività . Tutt'altro. Nato e cresciuto nell'ex repubblica sovietica della Moldavia, Lieberman conta su un elettorato la cui spina dorsale è composta dagli ebrei russi arrivati durante le grandi immigrazioni ebraiche in terra di Israele dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Spesso si trattava di persone, non ricche, a cui il Governo ha data una casa negli insediamenti a condizioni particolarmente vantaggiose. Non sono religiosi ortodossi, ma sono accesi nazionalisti.
In un momento in cui una parte consistente dell'opinione pubblica ha mostrato la sua insofferenza per le minacce che provengono dalla Striscia, Lieberman ha voluto cavalcare lo scontento. Le foto diffuse dai media israeliani dei sacchi di dollari provenienti dal Qatar e diretti a Gaza, e il sostegno da parte del Governo di Gerusalemme a 15 milioni di donazioni provenienti dai Paesi del Golfo destinati a pagare gli stipendi dei funzionari pubblici di Gaza, hanno creato molto malumore. Altro elemento pur minore che ha contribuito alle dimissioni di Lieberman è stato il mancato accordo sulla leva militare per gli ultra ortodossi. Argomento molto sensibile in Israele.
La politica israeliana è dunque di nuovo in fermento. E la cornice sembra restare la stessa: le tensioni con il movimento islamico Hamas. Che sono riesplose lunedì.
Seguendo un copione già visto tante volte ognuno rinfaccia al nemico di aver dato il via alle ostilità. Hamas sostiene di aver lanciato i razzi dopo che, domenica, sette suoi miliziani sono stati uccisi in uno scontro a fuoco con militari israeliani. E Israele accusa i miliziani di Hamas. La situazione, come accaduto diverse altre volte, è sfuggita di mano. Ai lanci di razzi (almeno 400 da lunedì) nel sud del Paese, Israele ha risposto con pesanti bombardamenti aerei sulla Striscia. Il bilancio dei morti di questi giorni di violenze sono 11 militanti, un soldato israeliano, un palestinese residente in Israele. Probabilmente non saranno gli ultimi di questa ennesima escalation.
(Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2018)
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Israele, governo in bilico. Via il ministro della Difesa. «Resa ai terroristi di Gaza»
Si dimette Lieberman, contrario al cessate il fuoco con i palestinesi. Netanyahu rischia le urne
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, origine sovietica, abitante degli insediamenti, difensore sincero dei diritti umani laici, capo del partito Israel Beitenu, è un duro. Non ha mai pensato che con i palestinesi e tanto meno con Hamas una pace sia possibile. E ha sempre desiderato fare qualcosa che mettesse in seria difficoltà il suo mentore e premier Benjamin Netanyahu. Stavolta potrebbe costringerlo alle elezioni. Ieri si è dimesso mentre ancora echeggiavano nell'aria gli ultimi boati della quasi guerra con Hamas. Una guerra dolorosa, con distruzioni, morti e feriti nelle città e nei kibbutz del Sud, gente terrorizzata, sirene in attività per l'ininterrotta sequenza di bombardamenti di Hamas sulla popolazione seguita dalla reazione dell'esercito su Gaza.
Lieberman ha detto che la risposta di Israele è stata inconsistente, che il governo è incapace di promettere un futuro diverso alla gente che si vergogna ormai «di guardare negli occhi»; il governo «si è arreso al terrorismo di Hamas», e ha elencato due episodi. Il primo: il fatto che sia stato consentito che venerdì passassero nella Striscia i 15 milioni di dollari dal Qatar. E la decisione di accettare con una riunione di gabinetto tormentata (è durata sei ore ed è finita senza un voto) la tregua di cui l'Egitto è stato mediatore. Nelle ore della scelta di Lieberman a Gaza si svolgevano celebrazioni trionfalistiche con spari e distribuzione di dolci mentre i capi di Hamas si vantavano di aver vinto la guerra e distrutto il governo israeliano. Intanto nelle strade del Sud di Israele, coi campi bruciati dagli aquiloni infuocati, i confini assaliti da decine di migliaia di palestinesi, la vita civile distrutta, la gente si riversava per protestare contro la decisione di accettare la tregua senza bloccare Hamas.
Per Netanyahu «un leader non prende la decisione più immediata e comoda, ma quella più giusta, valutando i modi e i tempi migliori per reagire». In sostanza il premier nel corso di questi mesi ha sostenuto una linea moderata, come da consigli di tutto l'apparato di sicurezza, Mossad compreso, secondo il principio «quiete in cambio di quiete». È una linea audace dato l'odio infinito di Hamas, la linea jihadista e omicida strumento di potere dentro Gaza. La speranza è che un po' di benessere possa aiutare ad acquisire un intervallo di pace.
Lieberman è il politico che disse «se sarò ministro della Difesa dirò a Ismail Hanje: se in 48 ore non restituisci i nostri ragazzi (due corpi di soldati uccisi e due giovani perduti nelle mani di Hamas, ndr) sei morto», e che segue la linea di optare per una strenua difesa di un territorio assediato come Israele. Netanyahu cerca di evitare di mandare i giovani nella Striscia, una vera palude di morte senza prospettiva di soluzione politica. Mentre tutto il suo sforzo è concentrato sulla sicurezza al Nord. Il paradosso è che la sinistra guidata da Tzipi Livnì, pur di attaccare Netanayhu, si è alleata con la linea di Lieberman. Ora si aprono giorni di incertezza sulla sorte del governo Netanyahu che in Parlamento ha una risicata maggioranza (61 su 120), mentre il ministro dell'Educazione Bennet minaccia l'uscita del suo gruppo se il premier non lo nomina subito erede di Lieberman.
(il Giornale, 15 novembre 2018)
Lieberman ha fornito ad Hamas un vittoria politica inestimabile
Perché le dimissioni di Avidgor Lieberman sono state un regalo enorme ai terroristi di Hamas
Le dimissioni di Avidgor Lieberman dalla carica di Ministro della Difesa dello Stato di Israele sono state un errore politico che pochi comprendono, non certo conforme alla persona che dell'astuzia politica aveva fatto la sua miglior arma.
Con le sue dimissioni Lieberman ha fornito ad Hamas una vittoria politica del tutto inaspettata, forse addirittura superiore a quella che avrebbero ottenuto provocando un attacco di vaste proporzioni alla Striscia di Gaza, che poi era quello a cui miravano i terroristi palestinesi.
Basta dare una scorsa ai siti web palestinesi per capire come la retorica palestinese stia sfruttando le dimissioni del Ministro della Difesa israeliano.
Parliamoci chiaro però, quando Lieberman sostiene che il cessate il fuoco è una resa di Israele al terrorismo di Hamas, ha perfettamente ragione. E' la sua scelta di dimettersi che è sbagliata perché oltre a dare una apparente vittoria militare ai terroristi gli fornisce una micidiale arma di propaganda....
(Rights Reporters, 15 novembre 2018)
Quelli che continuano a scherzare col fuoco
Pur di ripristinare la calma, Israele ha accettato di far entrare a Gaza enormi somme in contati dal Qatar: ma a quanto pare non serve
Più di sei mesi fa, un editoriale del Jerusalem Post lanciava un avvertimento sugli episodi di terrorismo incendiario e su quella che allora si presentava come una modalità di aggressione ancora relativamente nuova per Hamas. I palestinesi avevano iniziato a usare dispositivi incendiari appesi ad aquiloni come un'arma semplice ma devastante, facendoli atterrare a caso nei campi delle comunità ebraiche attorno alla striscia di Gaza. Da allora, l'"intifada degli incendi dolosi" è cresciuta fino a includere tutta una serie di aerostati incendiari e persino un paio di casi accertati di utilizzo di falchi con inneschi legati alle zampe. Migliaia di ettari di alberi e colture sono stati distrutti con queste armi a bassissima tecnologia. Gli incendi hanno causato un danno enorme alla fauna selvatica, sia per gli animali uccisi direttamente dalle fiamme, sia per quelli i cui habitat sono andati distrutti. Interi raccolti e beni agricoli sono stati rovinati. Gli incendi praticamente incessanti hanno anche generato un serio rischio per la salute dei residenti nella zona occidentale del Negev, in quell'area che i giornali israeliani chiamano otef 'Aza (letteralmente "l'involucro di Gaza")....
https://www.israele.net/quelli-che-continuano-a-scherzare-col-fuoco
(israele.net, 15 novembre 2018)
Che cosa è successo davvero a Gaza
Perché Israele non ha reagito ai bombardamenti di Hamas con un'operazione militare
di Ugo Volli
Tutti sappiamo che nei giorni scorsi ci sono stati una serie di gravi incidenti a Gaza e dintorni. Una missione segreta, forse di raccolta di informazioni ma di cui non conosciamo l'obbiettivo e lo svolgimento, è stata scoperta e ha subito un'imboscata. Un tenente colonnello israeliano particolarmente stimato è stato ucciso e un altro ufficiale ferito. Nell'operazione di salvataggio la squadra dei terroristi che li aveva assaliti è stata distrutta, con sette morti dalla loro parte, fra cui un alto dirigente militare di Hamas; un'altra dozzina è stata ferita. In rappresaglia a queste perdite i terroristi hanno spedito quasi cinquecento fra razzi e colpi di mortaio su obiettivi civili in Israele, uccidendo una persona (il caso ha voluto che fosse un lavoratore arabo di Hebron, che dormiva in una casa di Ashkelon e ferendone in diversa misura parecchie altre. Iron Dome ha abbattuto quasi tutti (ma non tutti) i razzi che apparivano diretti su luoghi abitati. L'aviazione israeliana ha risposto distruggendo una settantina di obiettivi militari e uccidendo una dozzina di terroristi. Dopo un giorno l'incidente è finito: Hamas ha chiesto il cessate il fuoco e il gabinetto di guerra israeliano ha deciso di non procedere con l'operazione di terra che era pronta.
Gli abitanti delle comunità intorno a Gaza hanno protestato, e giustamente perché la loro vita è spesso resa difficilissima dagli attacchi missilistici e dai palloni molotov dei terroristi. Meno giustamente l'opposizione di sinistra (che rivendica l'eredità dei governi di Peres che ha consegnato quasi tutta Gaza all'Autorità Palestinese e di Sharon che ha sgomberato gli ebrei da quel che restava) ha attaccato il governo come incapace di difendere il paese. Ma questo sta nella dialettica democratica e saranno gli elettori a decidere chi ha ragione. All'estero e anche in Italia ci sono stati alcuni generali da salotto che senza alcun diritto politico o morale e soprattutto senza alcuna competenza hanno predicato l'occupazione di Gaza o la sua "distruzione", dando dell'imbelle a Netanyahu.
In realtà il problema di Gaza non è risolvibile, può solo essere delimitato. Cerchiamo di guardare le cose dal punto di vista freddo di chi deve prendere le decisioni per Israele. A Gaza vi è un milione e mezzo di persone che non c'è modo di fare magicamente scomparire. Buona parte fra loro appoggiano i terroristi, che sono forti di parecchie decine di migliaia di uomini armati e hanno usato tutte le loro risorse per preparare tunnel e bunker di difesa, fortemente minati. Questi e i loro centri comando, le loro fabbriche e i loro depositi di armi, sono accuratamente sistemati vicino o sotto case d'abitazione, ospedali, scuole. Naturalmente non è possibile, per ragioni etiche e anche politiche, pensare di "spianare la striscia" con bombardamenti, come scrivono alcuni stupidi o provocatori. Né Hiroshima né Dresda possono essere esempi per l'esercito israeliano. Chi fosse così pazzo da tentarlo, provocherebbe la distruzione morale e probabilmente anche politica di Israele.
L'esercito israeliano può però conquistare sul terreno quest'incubo militare, ma a prezzo di molte decine o centinaia di morti suoi, e di migliaia o decine di migliaia di morti arabi, in buona parte civili. Ci sarebbe un prezzo politico altissimo da pagare, non solo sulle piazze occidentali ma anche nelle relazioni fondamentali che Israele sta costruendo con gli stati arabi contro l'Iran, che è il vero nemico pericoloso. Questa è la ragione per cui l'Iran sta finanziando Hamas esattamente per risucchiare Israele in un'operazione del genere.
Una volta conquistata Gaza, bisognerebbe decidere che farne. Tenerla occupata, senza avere eliminato tutti i terroristi fino all'ultimo (il che è impossibile), ci sarebbe un'emorragia continua di morti e feriti nell'esercito, a causa di attentati. Inoltre dovrebbero stare qui truppe che servono a difendere il Nord, richiedendo richiami massicci di riservisti, con i problemi conseguenti. Lasciarla vorrebbe dire restituirla a Hamas, che ha radici profonde nella striscia e quadri anche all'estero; o darla alla Jihad islamica, che è espressione diretta dell'Iran, o consegnarla a Fatah, cioè ad Abbas, ammesso che volesse e sapesse tenerla; ma non bisogna farsi illusioni, il movimento non ha meno propensione al terrorismo di Hamas. Più probabilmente ne uscirebbe una specie di anarchia, in cui le bande terroriste competerebbero fra loro sulla capacità di infliggere danni a Israele.
Si potrebbe infine fare un'operazione limitata come le precedenti, l'ingresso di qualche chilometro nel territorio di Gaza, con distruzione di risorse e organizzazione terroriste. Ma il risultato sarebbe solo provvisorio come nei casi precedenti. Al prezzo di qualche decina di morti fra i soldati israeliani e di qualche centinaia o migliaia di terroristi (ma anche di civili), e di costi politici notevoli, si restaurerebbe per un po' di tempo la calma. Purtroppo se c'è una cosa che a Hamas non manca sono i ricambi militari, dato il lavaggio del cervello che ha inflitto alla popolazione. Le perdite, come è accaduto in passato, sarebbero presto ripianate.
Guardiamo ora l'altro lato della bilancia, sempre con la lucidità al limite del cinismo che occorre in questi casi. Hamas ha usato 500 missili in un paio di giorni, ottenendo un morto e qualche ferito. Di fatto non ha danneggiato Israele se non nel morale degli abitanti vicino alla Striscia, costretti a subire un logorante bombardamento nei rifugi. Ma sul piano militare non è accaduto nulla di significativo. Anzi, si è dimostrata con chiarezza l'impotenza del terrorismo dei missili. Hamas avrebbe potuto continuare una settimana o un mese, senza fare davvero male allo stato ebraico. Anche il tentativo di concentrare nel tempo e nello spazio il bombardamento non ha avuto esiti: ci sono stati 80 missili lanciati in un'ora su un territorio limitato, e Iron Dome ha retto. Si può dire che questa occasione abbia dimostrato che l'arma dei razzi, almeno di quelli a corto raggio di Hamas, è spuntata. (Per quelli molto più sofisticati di Hezbollah e dell'Iran il discorso potrebbe essere diverso.) Come del resto non sono decisivi i loro tunnel e gli assalti in massa alla frontiera. Hamas è nell'angolo, può gridare vittoria quanto vuole, sul piano militare, come su quello politico è perdente.
In nome della "deterrenza" bisognava fare un'operazione di rappresaglia e entrare a Gaza, come Hamas ha in sostanza invitato a fare? No, era una trappola. Così ha valutato l'esercito israeliano e così ha deciso il gabinetto di guerra e Netanyahu. Israele è interessato alla calma, non vuole avere perdite inutili, non vuole offrire il fianco alla propaganda antisemita, sa che la guerra vera è quella del Nord, con Iran, Hezbollah, Siria (e dietro, almeno in parte la Russia). Ha scelto una linea razionale, non emotiva. Non si è fatto tentare dalla logica di "punire" Hamas per le sue provocazioni, ma ha badato al calcolo dei propri interessi. Non ha consentito che si lacerasse la trama del dialogo con i paesi sunniti. Non ha dato armi propagandistiche ai boicottatori. Non ha mostrato debolezza, ma lucidità.
(Progetto Dreyfus, 14 novembre 2018)
Analisi lucida e realistica. Israele è in guerra e ci resterà a tempo indeterminato. Qualcuno ha detto che in Medio Oriente ormai non si vincono più guerre. Gli impazienti che vogliono a tutti i costi la pace, ogni tanto, pur di ottenerla, si mettono a chiedere sfracelli che possano risolvere il problema una volta per tutte. Se guerra deve essere, è saggio combatterla nel migliore dei modi, con il massimo vantaggio e il minimo prezzo. Gli israeliani borbotteranno un po, ma alla fine se ne faranno una ragione. M.C.
La via della seta arriva fino in Israele e in Palestina
di Gabriele Battaglia
Appesi alla grata ci sono una tuta e un'abaya, il caffettano nero e rosso da donna. Stanno in bella mostra dietro al banchetto del venditore. Al di là della grata, reticoli di filo spinato, poi una terra di nessuno di pochi metri e quindi un muro che divide il bazar palestinese dall'insediamento israeliano. Al mercato della città vecchia di Hebron, anche la struttura metallica simbolo della divisione e dell'occupazione può diventare architettura commerciale.
"Vedi tutta questa roba?", dice Abdallah, la guida che organizza delle visite nel centro della città formalmente palestinese ma progressivamente erosa dall'insediamento israeliano. "Al 90 per cento viene dalla Cina. Là ci sono aziende di import-export con a capo un cinese e un palestinese, sono loro che ci inondano con questa merce a buon mercato".
Poco prima avevo visto delle cover per smartphone di pelo rosa e perline inequivocabilmente made in China.
"Anche a me avevano offerto di andare in Cina a lavorare per una di quelle imprese", racconta Abdallah. "Ma dicevano che se poi non mi fosse piaciuto avrei dovuto pagarmi il biglietto di ritorno in Palestina. E allora ho capito che non era un gran lavoro". E ride.
Tra il 24 e il 27 ottobre, il vicepresidente cinese Wang Qishan ha visitato Israele e Palestina. C'è una foto in cui sembra pregare al muro del pianto.
In Israele, Pechino cerca innovazione, ma anche il segreto del suo successo
Cosa sta succedendo? Dopo tutto, un uomo del Partito comunista deve essere ateo e dare "il buon esempio". Il partito-stato spesso perseguita le religioni se si sente minacciato da un'autorità morale che sfugge al suo controllo, come per l'islam in Xinjiang e la demolizione delle chiese protestanti nel sud della Cina. Ed ecco che anche il plenipotenziario di Xi Jinping si fa fotografare in atteggiamento raccolto, se non in preghiera, al muro del pianto. Diciamo allora che se in Italia si dice "Parigi val bene una messa", per il vicepresidente Wang "Gerusalemme val bene un pianto".
Nei suoi tre giorni in Israele e in Palestina, ha infatti partecipato al vertice israeliano per l'innovazione con il primo ministro Benjamin Netanyahu, un evento a cui partecipavano anche Jack Ma di Alibaba, Eric Schmidt di Google e David Marcus di Facebook. Lo scopo era quello di rafforzare la collaborazione tra Cina e Israele, in particolare nel campo dell'information technology. Proprio mentre si inasprisce la guerra commerciale con gli Stati Uniti, per Pechino è fondamentale rafforzare la cooperazione in ambito tecnologico con altri partner.
La Cina cerca in Israele non solo innovazione, ma anche il segreto in base al quale un paese meno popolato di una città cinese di medio livello - poco più di otto milioni di abitanti - ha un tale successo tecnologico, che si basa su una osmosi estremamente efficiente tra università e mondo degli affari, scrive The Diplomat, tralasciando però il fatto che "il settore dell'innovazione israeliano è legato a doppio filo a sicurezza e difesa, è funzionale a Israele sia sullo scacchiere geopolitico, sia all'occupazione dei Territori palestinesi, e per questo riceve una gran quantità di fondi pubblici", come mi dice un'operatrice della cooperazione internazionale a Gerusalemme. "Se dovessimo trovare un paese dove l'industrializzazione e l'innovazione militare all'ombra del conflitto abbiano un impatto positivo sulla crescita del pil, questo sarebbe Israele", scrivono Mark Broude, Saadet Deger e Somnath Sen sul Journal of Innovation Economics & Management.
Anche da questo punto di vista, la Cina, che si sente accerchiata dal containement statunitense e al tempo stesso crea uno stato di polizia in Xinjiang, vede in Israele un modello potenzialmente simile al proprio, solo più efficiente.
Il South China Morning Post di Hong Kong ha scritto che Israele produce start-up, la Cina le compra. È questo per esempio il caso di Alibaba, che lo scorso maggio ha investito 26,4 milioni di dollari in Sqream, un sistema innovativo di gestione dei dati (database management system) nato a Tel Aviv. Secondo The Diplomat, Pechino è particolarmente interessata a tecnologie mediche, al cosiddetto settore cleantech (depurazione delle acque, desalinizzazione e gestione dei rifiuti), nonché ai software e alle tecnologie collegati alla produzione automobilistica. Circa un terzo degli investimenti nel settore hi-tech israeliano proviene dalla Cina continentale e da Hong Kong, dicono funzionari di Tel Aviv.
Ma non di sola tecnologia si tratta. Tre anni fa l'impresa cinese Sipg ha vinto il bando per l'espansione del porto di Haifa, riporta Haaretz. Sarà inaugurato nel 2021 e l'azienda cinese, che controlla anche il porto di Shanghai, lo gestirà per 25 anni. Un'altra impresa cinese, la Pmec, ha vinto la gara per costruire un nuovo porto ad Ashdod e lo sta finendo prima del previsto, scrive il Jerusalem Post. Sono due tasselli importanti lungo la One belt one road, la nuova via della seta, a due passi dal canale di Suez e a tre dal Pireo, il porto greco che la Cina controlla già.
Ci sono poi i turisti cinesi, il cui numero in Israele è costantemente aumentato. Nel 2017, sono stati 114mila, il 41 per cento in più rispetto al 2016.
La scommessa geopolitica
Infine, Tel Aviv può essere anche un mediatore politico tra Pechino e Washington.
Pallottoliere alla mano, il commercio bilaterale tra Cina e Israele ha superato nel 2017 i dieci miliardi di dollari, per un aumento del 200 per cento negli ultimi venticinque anni.
Wang non ha però dimenticato i palestinesi, con cui la Cina ha relazioni fin dai tempi di Mao. A Pechino c'è un'ambasciata di Palestina nonché palestinesi ormai di una certa età, venuti qui negli anni settanta-ottanta grazie a borse di studio e mai più ripartiti.
Nel 1965, la Cina riconobbe l'Organizzazione per la liberazione della Palestina e Mao ricevette a Pechino i suoi rappresentanti con tutti gli onori, consentendogli di aprire un ufficio diplomatico.
Fin dal 1988, la Cina ha riconosciuto lo stato di Palestina, con i confini del 1967 e con capitale Gerusalemme Est. Questa formula è stata ribadita nel 2017 da Xi Jinping. Arafat aveva visitato la Cina ben 14 volte ma non solo: a tutt'oggi, Pechino non considera Hamas un'organizzazione terroristica e all'Onu ha condannato gli insediamenti israeliani. Se le relazioni diplomatiche tra la Cina e Israele risalgono al 1992, quelle tra Pechino e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina sono dunque ben precedenti, scaturite spontaneamente dalla comune frequentazione del movimento dei non allineati.
Che ne è oggi di tutto ciò?
Wang Qishan è andato a Ramallah e, con il primo ministro dell'Anp Rami Hamdallah, ha dato il via libera ai negoziati per stabilire un'area di libero scambio tra la Cina e la Palestina.
Gli accordi commerciali bilaterali sono il modo in cui la Cina si rapporta al mondo esterno e i mezzi d'informazione di stato cinesi hanno ovviamente enfatizzato l'importanza di questo memorandum d'intesa: hanno sottolineato che, nel 2017, il volume degli scambi tra la Cina e la Palestina ha raggiunto i 69,28 milioni di dollari, un aumento del 16,2 per cento rispetto a un anno prima. E con il libero scambio aumenteranno ancora, dicono trionfanti a Pechino.
Tuttavia non è possibile mettere sullo stesso piano i rapporti sino-israeliani e quelli sino-palestinesi, al di là dei volumi di scambio così diversi.
Karim Al Jaadi è nato a Damasco, figlio della diaspora palestinese, ma vive a Pechino da 40 anni, spedito lì da studente con una borsa di studio dell'Olp e mai più ripartito. Oggi commercia in caffè, olive e generi alimentari di ogni genere che produce e rivende in Cina ma, prima che le autorità cinesi chiudessero tutti i locali della Sanlitun Lu, Karim gestiva il Dareen cafè, il locale dove si mangiava forse il miglior cibo mediorientale di Pechino.
Per lui, la ratio di un futuro libero commercio sino-palestinese è chiara: "Molti qui pensano alla mia terra solo in termini di conflitto e povertà, quando invece cominceranno a vedere sui prodotti l'etichetta Made in Palestine, scopriranno una diversa Palestina, saranno interessati e compreranno. Cosa? Soprattutto articoli in pelle e anche tessili. Il fatto è che la forza lavoro cinese costa sempre di più, quindi perché non delocalizzare anche nei Territori?".
I Territori palestinesi rischiano di diventare solo terra di sbocco per merci made in China
Ragionamento errato, secondo Clara Capelli, economista dello sviluppo che vive a Gerusalemme: "I lavoratori palestinesi costano meno solo per gli israeliani e infatti è dall'occupazione - cioè da sempre - che lavorano per loro, perché conviene. Ma la loro economia in realtà è drogata di aiuti e rimesse, usano la stessa valuta degli occupanti, lo shekel, e tutto questo ha un effetto inflattivo. Quindi non è vero che sia in assoluto economico delocalizzare lì".
Insomma, Karim pensa che anche i palestinesi possano beneficiare di ciò che un po' tutto il mondo spera: ritagliarsi una fetta dell'enorme mercato cinese, dove si stima che la fascia di popolazione "ad alto reddito" arriverà a 480 milioni di persone entro il 2030. Ma quel ceto medio sarà davvero interessato ai prodotti in pelle delle piccole manifatture palestinesi?
Il punto è che da un lato c'è "l'unica democrazia in Medio Oriente" - come recitano gli stessi israeliani - e quindi l'unica fonte di stabilità regionale, perfetta per soddisfare le aspettative di una superpotenza di nuovo conio come la Cina, interessata a tecnologia, commercio e investimenti.
Dall'altro c'è invece una terra che ha lavoro in eccesso, un'economia legata all'agricoltura e ai servizi a basso valore aggiunto, che importa prodotti manifatturieri e tecnologie e che ha pochi capitali. Con queste caratteristiche legate alla particolare situazione politica che vivono, i Territori palestinesi rischiano di diventare solo terra di sbocco per merci a basso valore aggiunto made in China, così come già lo sono per quelle made in Israel.
Lo scenario che abbiamo già visto a Hebron.
In Palestine ltd. Neoliberalism and nationalism in the Occupied territory, Toufic Haddad scrive che "secondo la camera di commercio di Hebron, tra il 1970 e il 1990, circa 40mila persone - fino a un terzo dei residenti a Hebron - lavoravano in 1.200 piccoli calzaturifici. Nel 2013 ne rimanevano solo 250 che impiegavano quattromila lavoratori. La maggiore concorrenza arrivava dalla Cina".
Chiedo a Karim, il palestinese-ormai-pechinese, come può funzionare un accordo di libero scambio in un paese che tra l'altro non ha il controllo dei propri confini, dato che eventuali merci passeranno comunque per Israele, che gestisce le dogane e di fatto il 70 per cento degli introiti dell'Autorità palestinese. Annuisce, aggiungendo: "Israele controlla perfino tutta l'acqua che entra nei Territori".
Tuttavia - mi lascia intendere - al di là di quel pellame che i cinesi forse compreranno e forse no, lui ritiene che un trattato di libero scambio con la Cina sia soprattutto un dispositivo politico, una specie di garanzia implicita da parte di Pechino che di fatto sancisce, una volta di più, che la Palestina esiste. Un riconoscimento importante, anche a costo di farsi invadere dalle merci cinesi. La Cina, con il suo peso politico da nuova superpotenza, può forse tenere aperto il rubinetto della metaforica acqua.
Qui sta la responsabilità di Pechino.
La Cina propone da tempo la formula onnicomprensiva della Belt and road initiative, cercando di coinvolgere tutti i partner in una strategia win-win - dove vincono tutti - basata su accordi bilaterali di libero scambio. Nei più scottanti dossier internazionali, cerca di recitare la parte di "potenza responsabile", equidistante e amica di tutti. Ma, si chiede un recente articolo di Al Jazeera, in Palestina si può davvero essere equidistanti e amici di tutti?
Il caso palestinese, nei suoi contrasti accentuati, rende ancora più evidente quanto avevamo già visto in Kirghizistan e più in generale in tutti i luoghi attraversati dalla nuova via della seta: il "libero scambio" non è necessariamente una ricetta "buona" per definizione, può tradursi in un miglioramento o una sciagura a seconda delle circostanze particolari. Basti pensare che i due terzi dei proventi dell'Autorità nazionale palestinese arrivano dai dazi doganali.
Certo, il libero scambio di cui parla Pechino è sempre "con caratteristiche cinesi", non corrisponde necessariamente a standard internazionali, si adatta alle circostanze, è più che altro una formula flessibile. Si auspica così che la Palestina non diventi solo terra di conquista.
(Internazionale, 14 novembre 2018)
Due giornate di guerra tra Hamas e Israele: undici morti. Poi scatta una fragile tregua
Il timore della comunità internazionale è un'escalation simile a quella del 2014 che portò a un vero e proprio conflitto
di Valerio Sofia
Crescono le tensioni insieme al conto delle vittime nella Striscia di Gaza, dove si è riacceso lo scontro tra palestinesi e israeliani. Da lunedì è battaglia, e dalla Striscia sono partiti centinaia di razzi contro Israele che ha risposto con pesanti bombardamenti. Il conto dei morti, in costante aggiornamento, è di dieci palestinesi e un israeliano ucciso, mentre sono numerosi i feriti.
Gli aerei israeliani poi hanno distrutto la sede della televisione di Hamas, l'organizzazione che governa la Striscia e che da mesi organizza manifestazioni anche violente al confine israeliano, costate a loro volto un pesante tributo di vittime. Domenica notte c'è stata addirittura un'incursione delle forze speciali israeliane nella Striscia, e il premier Benjamin Netanyahu che era in visita a Parigi ha interrotto i suoi incontri per tornare in patria.
Si è trattato - dicono a Tel Aviv - di «un'operazione importante per la sicurezza di Israele», negando però che fosse un tentativo di sequestro o una uccisione mirata. Fatto sta che l'operazione è finita con un conflitto a fuoco a Khan Yunis, nel sud di Gaza: gli israeliani hanno perso un ufficiale, i palestinesi sette uomini tra cui Nour Barake, capo delle Brigate palestinesi nella zona, numero due di Ezzedim Al Qassam.
Da allora lo scambio di razzi e di raid aerei si è intensificato e non accenna a diminuire. Le violenze sono le più gravi dalla guerra del 2014, e alcuni giornali ventilano l'ipotesi che ci sia il rischio di un nuovo vero e proprio confronto armato, dato l'accumulo di tensioni negli ultimi mesi, dalle giornate della Rabbia allo spostamento dell'Ambasciata Usa a Gerusalemme. Tutto questo nonostante la schiarita degli scorsi giorni: proprio la scorsa settimana infatti Hamas e Israele avevano raggiunto un accordo, che oltre a fermare le violenze aveva garantito l'arrivo di gasolio e finanziamenti qatarioti a Gaza per pagare gli stipendi fermi da mesi.
Adesso però non solo è tutto di nuovo in discussione, ma si può dire che la situazione è ulteriormente peggiorata e la parola è tornata alle armi. Ora bisognerà attendere gli sviluppi. E infatti anche possibile che Netanyahu e Hamas non vogliano disperdere l'impegno e la credibilità politica profusi per raggiungere una tregua, la stessa tregua annunciata ieri sera dalle autorità di Gaza senza però ricevere una conferma ufficiale da parte del governo israeliano.
(Il Dubbio, 14 novembre 2018)
Israele: si dimette Avidgor Lieberman. Hamas e Jihad festeggiano
Il Ministro della Difesa israeliano si è dimesso in palese disaccordo con Netanyahu per il cessate il fuoco con Hamas
Il Ministro della Difesa di Israele, Avidgor Lieberman, si è dimesso dalla sua carica a causa della decisione del Governo di accettare il cessate il fuoco con Hamas.
«La domanda che viene posta è: perché ora? Per quanto mi riguarda il cessate il fuoco di ieri insieme all'intero processo per raggiungere un accordo con Hamas, significa capitolare al terrorismo», ha detto Lieberman alla stampa per poi invitare il Premier, Benjamin Netanyahu, ad indire elezioni anticipate.
«Trattando con Hamas, Israele potrà forse raggiungere una situazione di tranquillità nel breve termine» ha etto ancora Avidgor Lieberman «ma la sicurezza a lungo termine subirà un gravissimo danno»....
(Rights Reporters, 14 novembre 2018)
Missili su Israele
Così Netanyahu prova a fermare a Gaza quella che secondo lui è una "guerra non necessaria"
Offerte di trattative e nuovi attacchi. Due esperti ci raccontano alcuni dettagli rilevanti dello scontro a Gaza.
di Rolla Scolari
MILANO - Quattrocento missili di Hamas su Israele, raid dell'esercito israeliano nella Striscia di Gaza, proposte di trattative e nuove minacce. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito lo scontro "una guerra non necessaria", ma ha molte pressioni da parte dei suoi alleati di governo. E la crisi umanitaria a Gaza è molto grave.
Milano. Lo schema si ripete da mesi, ogni volta che Israele e Hamas sono sull'orlo di una guerra. L'intensità degli attacchi aerei israeliani non si placa, centinaia di razzi continuano a essere lanciati da Gaza su Israele. E intanto, sia da una parte sia dall'altra si accenna a un possibile cessate il fuoco.
Così ieri, mentre le brigate Ezzedine al Qassam, braccio armato del gruppo islamista che controlla Gaza dal 2007, minacciavano più profondi attacchi contro Ashdod e Beer Sheva, il leader di Hamas Ismail Haniyeh segnalava l'interesse del movimento a trattare: la cessazione del lancio di missili contro la fine dei raid aerei. Dall'altra parte, il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva già detto di voler evitare una "guerra non necessaria", anche se su di lui aumenta la pressione degli alleati politici della destra più radicale per trovare una soluzione militare ai cicli di violenza a Gaza. Il suo gabinetto per la sicurezza nazionale, dopo un incontro d'emergenza durato sei ore, ha dato ieri indicazione all'esercito di continuare gli attacchi, e fatto sapere allo stesso tempo di cercare la via del negoziato, attraverso la mediazione di Nazioni Unite ed Egitto.
Nell'attesa di risultati concreti nelle trattative, cresce il numero delle vittime. Da domenica a martedì pomeriggio, secondo l'esercito israeliano 400 razzi sarebbero stati lanciati su Israele da Gaza, cento intercettati dal sistema antimissilistico Iron Dome. L'aviazione israeliana ha colpito oltre cento obiettivi nella Striscia. In Israele, nella città costiera di Ashkelon, un lavoratore palestinese della Cisgiordania è rimasto ucciso quando un razzo ha colpito l'edificio in cui si trovava, mentre due vittime ieri a Gaza hanno portato il bilancio dei raid israeliani a sette morti, tra cui cinque miliziani delle fazioni armate palestinesi.
L'ultimo ciclo di violenze è stato innescato domenica da un'azione delle forze speciali israeliane nella Striscia andata male, sventata da Hamas. Sette palestinesi e un ufficiale israeliano sono rimasti uccisi.
Da quando Hamas è al potere a Gaza, ci aveva spiegato ad agosto, l'ultima volta che la Striscia sembrava sull'orlo di un conflitto, l'ex capo del Mossad, Efraim Halevy, "Israele sostiene di arginare Hamas, con la deterrenza. Hamas sostiene di usare i razzi per difendersi. Viviamo in una deterrenza reciproca da oltre dieci anni. Nessuna delle due parti vuole pagare il prezzo di mettere fine a questa deterrenza. Hamas non è pronto a una guerra totale contro Israele, e Israele non è pronto a terminare il controllo di Hamas sulla Striscia, perché significherebbe prendersi la responsabilità di quasi due milioni di palestinesi che a Gaza vivono in una situazione terribile". Non è un caso che proprio pochi giorni fa, 15 milioni di dollari provenienti dal Qatar abbiano riempito le casse delle autorità di Gaza per il pagamento dei funzionari pubblici. Il presidente palestinese Abu Mazen, che controlla la Cisgiordania ed è rivale politico degli islamisti, ha in parte tagliato il flusso di denaro pubblico che, nonostante la divisione politica tra Autorità palestinese a Ramallah e Hamas a Gaza, continuava ad arrivare nella Striscia. I 15 milioni sarebbero parte di una donazione di 90 milioni del Qatar da versare in sei mesi con approvazione di Israele, che in passato ha bloccato somme in arrivo dal Golfo. L'aiuto finanziario del piccolo emirato avrebbe contribuito, assieme alla mediazione egiziana, ad arginare in queste settimane le tensioni lungo il confine, dove per mesi da marzo la popolazione si è riversata ogni venerdì in protesta contro Israele.
Sebbene Hamas riceva soldi dal Golfo, ci spiega Tareq Baconi, dello European Council on Foreign Relations e autore di "Hamas Contained: The Rise and Pacification of Palestinian Resistance", il gruppo non ha appoggi paragonabili a quelli che Bashar el Assad ha in Siria da Iran e Hezbollah. E' sempre più isolato. In Israele, scrive il quotidiano liberal Haaretz, "il pubblico e i media esprimono crescenti preoccupazioni per l'erosione della deterrenza israeliana nei confronti di Hamas", e fanno pressioni sul premier che, con le elezioni politiche del 2019 in avvicinamento, non è interessato a un conflitto. Hamas è nello stesso dilemma: una nuova guerra porterebbe devastazione a Gaza e un malessere sociale incontrollabile per la leadership interna. Dall'altra parte, però, il gruppo non vuole apparire arrendevole, per preservare la propria deterrenza.
(Il Foglio, 14 novembre 2018)
15 novembre - presentazione "La Sfida di Israele. Come è nato lo stato ebraico"
Giovedi' 15 novembre 2018, alle ore 17:30, presso il Museo Ebraico di Roma, in Via Catalana/Largo XVI Ottobre, avra' luogo la presentazione del libro "La sfida di Israele. Come e' nato lo stato ebraico" di David Ben Gurion ed edito da Castelvecchi.
David Ben Gurion ripercorre in questo libro, pubblicato nel 1963 dopo le dimissioni da Primo Ministro, il cammino che, dalle audaci iniziative dei giovani pionieri nella Palestina di inizi Novecento, porto' alla fondazione e ai primi travagliati anni di vita del nuovo Stato. Attivista, statista, leader militare, tutti gli aspetti dell'instancabile attivita' del "padre della Patria" emergono in un racconto che e' anche il bilancio di una vita dedicata alla causa sionista. Continui richiami biblici inquadrano le vicende contemporanee nella millenaria storia del popolo ebraico. Un acuto e imprescindibile punto di vista del protagonista di quegli anni cruciali sulla sfida che, allora come oggi, caratterizza la storia d'Israele. Nato in Polonia, Ben Gurion si trasferi' nel 1906 in Palestina e poi, nel 1911, a Istanbul, allora capitale dell'Impero ottomano. Fatto ritorno a Gerusalemme, nel 1914 fu espulso e si reco' in esilio negli Stati Uniti, dove rimase fino al 1918, quando rientro' in Palestina con la "legione ebraica" britannica. Nel 1930 ebbe un ruolo decisivo nella nascita del Mapai, partito della sinistra sionista di cui divenne il leader indiscusso. Nel 1939 guido' l'opposizione al Libro Bianco britannico, che limitava drasticamente l'immigrazione ebraica in Palestina, pur ribadendo l'appoggio alla Gran Bretagna nella guerra contro Hitler. Fu tra i fondatori dello Stato di Israele, di cui proclamo' l'indipendenza il 14 maggio 1948 e di cui fu Primo Ministro quasi ininterrottamente fino al 1963. Si ritiro' dalla vita politica nel 1970.
(Geopolitica, 13 novembre 2018)
Hamas ha scelto l'escalation
Quali le alternative a una guerra aperta contro il gruppo terrorista che controlla la striscia di Gaza?
Scrive l'editoriale di Ha'aretz: Ancora una volta, come in un ciclo inevitabile, i razzi volano verso le comunità israeliane attorno alla striscia di Gaza, gli abitanti di queste comunità corrono nei rifugi, le batterie "Cupola di ferro" intercettano i missili al meglio delle loro capacità, interviene l'aeronautica, nuvole di fumo si stagliano su Gaza, si tengono drammatiche consultazioni nel quartier generale dell'esercito e si iniziano a contare morti e feriti.
Questo ciclo distruttivo deve essere fermato immediatamente: non con la minaccia di distruggere Gaza, e nemmeno con dichiarazioni come quella fatta dal primo ministro Benjamin Netanyahu in conferenza stampa domenica a Parigi, quando ha detto: "Non esiste una soluzione diplomatica per Gaza come non esiste una soluzione diplomatica per l'ISIS". Ma la soluzione non è militare, è politica. I residenti di Gaza hanno bisogno di posti di lavoro, elettricità, carburante, generosi investimenti e un piano d'emergenza per una rapida ricostruzione. Al di là dell'aspetto umanitario, sono gli interessi di sicurezza di Israele e la tranquillità per le comunità vicine a Gaza che richiedono queste condizioni. A breve termine, Israele deve frenare la sua risposta e non farsi trascinare in un'operazione militare su vasta scala, che causerebbe morti inutili da entrambe le parti e renderebbe la situazione di Gaza ancora più intollerabile. Anche se è circondato da ministri bellicosi, Netanyahu deve insistere nell'implementare ciò che ha detto due giorni fa: "Sto facendo tutto il possibile per evitare una guerra inutile. Ogni guerra reclama vite umane. Non ho paura di una guerra, se è necessaria. Ma faccio di tutto per evitarla se non è necessaria"....
(israele.net, 14 novembre 2018)
Scuole ebraiche, educazione ebraica
Cominciò tutto nel 1925. Oggi bisogna misurarsi con la formazione 4.0
di Piero Di Nepi
E' il 26 dicembre del 1922: il filosofo Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione, dichiara l'intenzione di stabilire sulla religione cattolica e sull'insegnamento di essa la base fondamentale "del sistema della educazione pubblica e di tutta la restaurazione morale dello spirito italiano". Gli ebrei italiani usufruivano largamente e con profitto delle strutture educative nazionali, che andavano crescendo, anno dopo anno, in qualità e prestigio. L'educazione religiosa dei giovani era affidata alle ore pomeridiane dei Talmud Torà, istituiti ovunque ci fosse una collettività ebraica. Ma già nel 1925, con la fondazione di una scuola elementare, la Comunità cominciò a dotarsi di valide strutture per l'educazione primaria. Neanche i rabbini più autorevoli riuscirono a trovare qualche ragione di compiacimento. L'istruzione rigorosamente laica che il Regno d'Italia aveva garantito divenne ben presto un ricordo. "Laico" sta naturalmente per "non cattolico". Inutile ogni riferimento ai dibattiti e alle polemiche di oggi, dopo quasi novanta anni di inquinamento di una verità semplice: lo Stato deve essere neutrale tra le fedi, e l'educazione religiosa è affidata all'iniziativa di quanti intendano, giustamente, provvedervi. Le leggi razziste antiebraiche del 1938 mutarono di nuovo, e crudelmente, le regole della partita. Studenti e professori ebrei furono espulsi dalle scuole di ogni ordine e grado, e dalle università. Si dovevano trovare soluzioni d'emergenza. In poche settimane, e con scarsi mezzi finanziari, dopo la rovina economica cui la legge del 1938 esplicitamente condannava gli ebrei d'Italia, nacquero il Ginnasio Inferiore e Superiore, e poi i Licei e gli Istituti Magistrali. Già con l'anno scolastico 1938-39, per il corpo insegnante si utilizzarono professori famosi nel mondo: erano stati cacciati da tutte, ma proprio tutte, le università italiane, anche le più prestigiose. Passata la tempesta, dopo il 1945 si cominciò a ragionare sul senso e sul futuro delle scuole nelle comunità ebraiche d'Italia. Le scuole avrebbero dovuto essere un ponte per la continuità della buona cittadinanza, in attesa di tempi migliori. Con il sostegno finanziario delle organizzazioni ebraiche che aiutarono - dopo la Shoah - le comunità superstiti, anche a Roma furono avviate strutture di formazione professionale, aperte a tutti i cittadini. Ma occorreva prima di tutto difendere un'identità minoritaria, esposta alla pressione religiosa e ideologica della cultura dominante. Lentamente, gradualmente, nel mondo ebraico prese a svilupparsi un movimento inarrestabile di ritorno all'identità nella tradizione. Anche in termini forti, benché il fondamentalismo non appartenga alla psicologia collettiva degli ebrei. La ferita vera, e mai più rimarginata, era stata quella del 1938: gli ebrei italiani che a decine avevano combattuto sotto le bandiere di Garibaldi e dei Savoia, che avevano militato sia tra i mazziniani che tra i monarchici, che avevano la più bella collezione di medaglie d'oro e d'argento "alla memoria" guadagnate durante la prima guerra mondiale sulle colline del Carso e sulle rive del Piave, si erano visti ritirare la cittadinanza attiva -peggio che i carcerati - e sequestrare oltre i beni (spesso scarsi, a dispetto di ogni luogo comune) anche - e soprattutto - l'onore e la dignità. I nazisti avrebbero assassinato i corpi, il fascismo aveva distrutto anime e menti già nel 1938. Dai giardini d'infanzia fino alle Università dei Littoriali, bambini e bambine, ragazzi e ragazze - spesso i primi e le prime della classe - erano stati cacciati senza un attimo di esitazione. Occorreva dare un senso nuovamente accettabile ad una tradizione e ad un'appartenenza che sembravano aver precipitato ogni singolo individuo nella notte e nella nebbia di un odio antiebraico mai sperimentato in precedenza. Il nuovo pogrom di massa non s'era accontentato di qualche migliaio di vite ebraiche: le aveva cercate tutte. E occorreva, infine, costruire personalità non condizionate dai traumi dei genitori. Insomma, un ebraismo anche propositivo, tranquillizzante, appagante.
Negli anni dell'immediato dopoguerra, dunque, bambini e bambine ricevevano alle elementari il primo imprinting: nozioni di lingua, storia e cultura ebraiche, ben inserite in un percorso di introduzione ai valori della cultura nazionale e di preparazione alla cittadinanza attiva che si sarebbe completato con la scuola media inferiore. Per gli ebrei romani il miracolo economico, se pure arrivò, arrivò con qualche anno di ritardo. Nel frattempo bisognava formare personalità solide, integre. Ai ragazzi e alle ragazze del secolo passato, forse fino al 1970, si insegnava che nelle scuole statali bisogna primeggiare: non per dimostrarsi più bravi e intelligenti, ma perché l'ebreo - per definizione - parte svantaggiato, e dunque deve esprimere particolari capacità. Oggi parliamo d'altro, anche tra ebrei. Comunque, la conservazione di una specifica identità ebraica è dunque affidata quasi esclusivamente alle nostre scuole. Il mondo ebraico non sfugge alla regola. L'educazione dei giovani e giovanissimi costituisce il principale capitolo di spesa per ogni gruppo di ebrei che voglia continuare a definirsi tale, soprattutto nelle diaspore. Sono due i capisaldi della formazione di questa moderna identità nei giovani: il ricordo dell'ultima, terrificante persecuzione ed il rapporto psicologico con lo Stato di Israele, vissuto sia come garanzia di sopravvivenza che restituzione di un diritto troppo a lungo negato, e dunque - in qualche modo - "risarcimento" storico. E infine, l'adempimento quotidiano dei precetti tradizionali costituisce il terzo, fondamentale elemento di preparazione alla vita adulta. La missione è chiaramente delineata. Occorre formare giovani che dovranno trovarsi in parità di mezzi nel confronto con un mondo attento alle capacità individuali, che non intende sciupare risorse, che non perdona errori. Anche per gli ebrei, se non si accetta l'idea che sia l'istruzione la vera garanzia per il futuro di ogni collettività, non ci sarà un futuro, quale che sia. Nelle intenzioni dichiarate, per l'attuale classe dirigente ebraica, la cura amorosa delle scuole è la base di ogni buona e corretta amministrazione. "Sarebbe preferibile chiudere una sinagoga piuttosto che una scuola": regola antica, continuamente ricordata e ripetuta. Senza scuola non c'è identità, e senza identità non potrebbero esistere i luoghi simbolici dell'identità. A Roma, inoltre, esistono situazioni assolutamente specifiche. Qui la Comunità appare caratterizzata da una presenza importante di ceti popolari. Soltanto una parte dei giovani passava nei licei. E così nel 1973 si decise di fondare il Liceo Scientifico "Renzo Levi". Nelle intenzioni, la Comunità si dotava di un percorso formativo per l'istruzione superiore e lo costruiva su valori ebraici. In seguito, fu aggiunto anche un corso di tecnica aziendale che durò un buon quarto di secolo. Una scelta probabilmente giusta, dettata dalla speranza di aiutare in modo pratico e concreto le famiglie del piccolo e piccolissimo commercio. Le periodiche riforme della scuola inflitte al sistema dai governi della Repubblica ne resero infine assai grama e poco produttiva la vita didattica. Arrivò infine anche il tentativo del liceo classico, finito dopo una breve esperienza. Oggi abbiamo, come è noto, liceo scientifico e liceo linguistico. Il liceo delle scienze umane si avvia alla conclusione. La crisi economica e la chiusura complessiva della società, che si arrocca negli spazi protetti dei privilegi di casta, sottraggono ormai alla scuola italiana la tradizionale funzione di "ascensore sociale". I giovani e le famiglie sono preoccupati, temono il futuro e vorrebbero certezze. Le nostre scuole hanno di fronte una mission molto difficile. Fallire non è un'opzione
(Shalom, ottobre-novembre 2018)
Picchi in visita ufficiale in Israele per una conferenza sul cyber
TEL AVIV - Il sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, Guglielmo Picchi, e il sottosegretario di Stato per la Giustizia, Jacopo Morrone, si sono recati in visita ufficiale a Tel Aviv in occasione di una conferenza sul Cyber.
Con l'occasione, hanno visitato la Casa d'Italia a Gerusalemme, il Museo d'Arte ebraica italiana U. Nahon e l'antica sinagoga di Conegliano Veneto, accompagnati dall'Ambasciatore in Israele Gianluigi Benedetti.
Ricevuti da Sergio Della Pergola, Presidente della Hevrat Yehudei Italia beIsrael, gli illustri ospiti hanno potuto visitare le sale del Museo ricevendo delle spiegazioni su parte degli oggetti esposti.
In precedenza il Presidente del Comites Gerusalemme, Beniamino Lazar, aveva accolto gli ospiti nei locali della sinagoga, spiegandone la storia e facendo una rapida carrellata sulla collettività italiana in Israele e Gerusalemme, spiegando le origini storiche degli italiani sparsi in tutto il paese. Presente all'incontro anche Leone Paserman, già Presidente della Comunità ebraica di Roma.
(aise, 14 novembre 2018)
Ebrei perseguitati nei Paesi arabi. L'odio precede la nascita d'Israele
Il saggio di Bensoussan (Giuntina) riporta l'attenzione su fatti tragici che molti non vogliono affrontare. In Francia l'autore ha attirato su di sé accuse di razzismo.
di Paolo Mieli
Sotto l'occupazione tedesca della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) alcune case di ebrei furono saccheggiate e alcune donne ebree furono stuprate da musulmani. «In generale gli autori di queste violenze furono incoraggiati dai tedeschi», ha scritto Norman Stillman anche se, «temendo disordini di maggiore ampiezza, il comandante tedesco intervenne per mettere fine a quegli incidenti». Quegli «incidenti», in ogni caso, furono ricondotti in tema di responsabilità all'occupazione nazista. Ma lo stesso Stillman notò, non senza sorpresa che «i saccheggi di case ebraiche ad opera degli arabi furono più gravi dopo che i tedeschi si ritirarono dalla città». Proprio così: le violenze antiebraiche in Tunisia nel corso della Seconda guerra mondiale sono cresciute dopo il ritiro dei nazisti. E quando arrivarono gli Alleati, Philip Jordan, corrispondente di guerra britannico, scrisse che «tutti gli ebrei della città avevano subito saccheggi dagli arabi e che erano state rubate persino porte e finestre». Anche, se non soprattutto, dopo che i soldati con la svastica se n'erano andati.
Come mai? E perché subito dopo il mondo arabo si è svuotato dei suoi ebrei nel corso di appena una generazione (1945-1970)? Tra l'altro quasi senza espulsioni palesi, eccetto l'Egitto
Perché questo strappo così rapido da una terra sulla quale gli ebrei vivevano da oltre duemila anni? Georges Bensoussan ha scritto un libro, Gli ebrei del modo arabo. L'argomento proibito, che sta per essere pubblicato da Giuntina, nel quale analizza le vessazioni a cui sono stati sottoposti gli israeliti in quell'area geografica da molto prima che esplodesse il conflitto tra Israele e i palestinesi. Gli ebrei sono stati costretti ad abbandonare quelle terre in una misura davvero rimarchevole: se ne dovettero andare novecentomila persone nel secondo dopoguerra, nell'arco di poco più di due decenni. Un esodo che, secondo Bensoussan, «mise fine ad una civiltà bimillenaria, anteriore all'Islam e all'arrivo dei conquistatori arabi». Come è potuto accadere? «Più del sionismo e della nascita dello Stato di Israele», risponde l'autore, «sono stati l'emancipazione degli ebrei attraverso l'istruzione scolastica e l'incontro con l'Occidente dei Lumi a provocarne la scomparsa in quei Paesi, quindi il loro riscatto, un evento inconcepibile per l'immaginario di un mondo in cui la sottomissione dell'ebreo aveva finito per costituire una pietra angolare». Generalmente, scrive Bensoussan, «ci dicono che le società ebraiche d'Oriente sarebbero declinate con il conflitto arabo-israeliano e che l'antigiudaismo arabo sarebbe una ricaduta del conflitto palestinese». Ma «questa tesi è smentita da moltissimi testimoni occidentali riguardo agli anni 1890-1940, siano essi amministratori coloniali, militari, medici, giornalisti o viaggiatori». Tutti raccontano «della virulenza di un sentimento antiebraico, ad ogni evidenza variabile a seconda delle regioni e dei periodi, senza connessione alcuna con la questione palestinese».
Bensoussan è uno storico francese ebreo nato nel 1952 in Marocco. Timido, ha sempre scelto di starsene in disparte. Non ha mai amato il palcoscenico letterario. Fino al 2015 non godeva, anzi, di grande notorietà, nonostante avesse scritto diversi libri, avesse ricevuto importanti premi, fosse stato nominato direttore editoriale del Mémorial de la Shoah. Che cosa è allora che lo ha portato alla ribalta nel 2015 quando aveva 63 anni? Nel corso di una trasmissione radiofonica su France2, Répliques, gli sfuggirono (o forse le pronunciò intenzionalmente) le seguenti parole: «Il sociologo algerino Smaìn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia è risaputo ma nessuno vuole dirlo l'antisemitismo arriva con il latte materno». Era la citazione di un ragionamento altrui, anche se ad ogni evidenza Bensoussan lo condivideva nel merito. Comunque sarebbe passata inosservata se non fosse sceso in campo il «Movimento contro il razzismo e per l'amicizia tra i popoli», accusando lo storico d'aver fatto sue «parole antiarabe e razziste» per di più «in un servizio pubblico». Il Movimento chiese alla radio nonché ai responsabili del Mémorial di prendere le distanze da Bensoussan, e lo trascinò per ben due volte in giudizio. Radio e Mémorial lo misero in quarantena assai prima della sentenza definitiva e pochi solidarizzarono con Bensoussan: tra questi meritano di essere ricordati Pierre Nora, Alain Finkielkraut e, dall'Algeria, Boualem Sansal. Dopodiché la sua vita fu praticamente distrutta. Infine nel 2018 è arrivata la definitiva assoluzione, ma ormai sarebbe stato difficile per lui recuperare una qualche serenità. Ma, con ostinazione, Bensoussan ha continuato a studiare le condizioni in cui gli ebrei vivevano nel mondo arabo quando lo Stato di Israele non era ancora neanche all'orizzonte. Mettendo in evidenza anche i (pochi) caratteri positivi di quella coabitazione con il mondo musulmano. In un quadro per il resto agghiacciante.
All'inizio del XVI secolo il frate francescano Francesco Suriano descriveva con queste parole la vita degli israeliti in Palestina: «Questi cani, gli ebrei, sono calpestati, picchiati e tormentati come meritano. Vivono in questo Paese in una condizione di sottomissione che le parole non possono descrivere. È una cosa istruttiva vedere che a Gerusalemme Dio li punisce più che in ogni altra parte del mondo. Ho visto questo luogo per lungo tempo. Essi sono anche uno contro l'altro e si odiano, mentre i musulmani li trattano come cani
Il più grande obbrobrio per un individuo è di essere trattato da ebreo». E ancora: «Ovunque scrive nel 1790 l'inglese William Lemprière a proposito degli ebrei di Marrakech sono trattati come esseri di una classe inferiore alla nostra. In nessuna parte del mondo li si opprime come in Berberia
Malgrado tutti i servigi che gli ebrei rendono ai mori, essi sono trattati con più durezza di quanto farebbero con i loro animali». La stessa immagine che usa l'abate francese Léon Godard nel 1857, di ritorno da un viaggio: «Gli ebrei in Marocco sono considerati tra gli animali immondi
La tolleranza dei prìncipi musulmani consiste nel lasciare vivere gli ebrei come si lascia vivere un gregge di animali utili». «Se un musulmano li colpisce», prosegue Godard, agli ebrei «è proibito, pena la morte, di difendersi eccetto che con la fuga o con la destrezza».
A ridosso della Seconda guerra mondiale, il Marocco fu relativamente al riparo dalle esplosioni di violenza antiebraica. Molto relativamente. Nel Maghreb, qualcuno sostiene, la popolazione musulmana non avrebbe gioito per le misure antiebraiche promulgate da Vichy. Avrebbero perfino manifestato solidarietà nei confronti dei perseguitati. Ma secondo Bensoussan (e con lui, adesso, la maggioranza degli storici) «la popolazione musulmana tutt'al più rimase indifferente». In Tunisia (finché fu una colonia) le autorità francesi fingevano di non vedere le persecuzioni antiebraiche per evitare di affrontare la maggioranza araba. Lo stesso accadde in Marocco dopo i pogrom di Oujda e Jérada (giugno 1948): le stesse autorità francesi raccomandarono a quelle locali «di usare indulgenza» (nei confronti dei responsabili degli atti antiebraici) al fine di «evitare ogni esplosione di violenza da parte araba».
E nel secondo dopoguerra dopo la nascita dello Stato di Israele (1948)? Ad eccezione dell'Egitto, sostiene lo storico, non ci sono state praticamente espulsioni di ebrei dal mondo arabo. E la Tunisia è stato il Paese più tollerante. Qui la Costituzione del 1956 assicurava che gli ebrei erano cittadini come gli altri e potevano «esercitare qualsiasi professione». Tuttavia «dovevano sempre aspettare più degli altri le necessarie autorizzazioni amministrative» e, per così dire, «elargire più bustarelle». Anche sotto la guida del presidente Bourghiba, gli ebrei furono a poco a poco estromessi dai posti più importanti («eccetto che al Ministero dell'Economia dove non c'erano musulmani competenti per rimpiazzarli»).
Nel 1960 gli ebrei rappresentavano ancora il 14% della popolazione di Tunisi, ma nel Consiglio comunale della capitale ce n'erano solo due su sessanta membri (il 3%). Poi venne la «guerra dei Sei giorni» (1967) e per gli israeliti furono dolori. Scriveva in una lettera del 7 giugno 1967 a Georges Canguilhem Michel Foucault che all'epoca insegnava all'università di Tunisi: «Qui lunedì scorso c'è stata una giornata (una mezza giornata) di pogrom. È stato molto più grave di quanto abbia detto "Le Monde", una cinquantina buona di incendi. Centocinquanta o duecento negozi ovviamente i più miserevoli saccheggiati, lo spettacolo della sinagoga sventrata, i tappeti trascinati per strada, calpestati e bruciati, gente che correva per le strade si è rifugiata in un edificio al quale la folla voleva dar fuoco. E poi il silenzio, le saracinesche abbassate, nessuno o quasi nel quartiere, i bambini che giocavano con le suppellettili rotte
Quanto successo appariva manifestamente organizzato
Se poi a questo si aggiunge che gli studenti, per "essere di sinistra" hanno dato mano (e un po' di più) a tutto questo, si è abbastanza tristi. E ci si domanda per quale strana astuzia (o stupidità) della storia il marxismo ha potuto dare occasione (e vocabolario) a tutto ciò».
Al Cairo, nel 1927, dall'oggi al domani, la legge egiziana chiude agli ebrei l'accesso agli impieghi pubblici. Qui nel 1950 (ben diciassette anni prima di quel che si sarebbe venuto a creare dopo la guerra dei Sei giorni), Sayyd Qutb, successore di Hassan el-Banna a capo dei Fratelli musulmani, pubblicò un manifesto, La nostra battaglia contro gli ebrei, che conteneva parole inquietanti. «Gli ebrei», si poteva leggere in questo testo, «hanno ricominciato a fare il male
Allah inviò loro Hitler per dominarli; poi la nascita di Israele ha fatto provare agli arabi, i proprietari della terra, il sapore della tristezza e della sofferenza».
In Siria dopo il 1945 imperversa una violenza antiebraica che spinge la maggior parte dei 15 mila ebrei del Paese ad andarsene; tutte persone che sono poi scomparse da ogni «memoria ufficiale». Nei confronti degli ebrei rimasti si ebbero attentati come la bomba che colpì un'istituzione ebraica a Damasco nel 1948,e le altre che nel corso dell'estate di quello stesso anno, uccisero decine di israeliti. Analoghe violenze si ebbero in Yemen. In Libia rimasero solo cinquemila ebrei su trentacinquemila e questa minoranza «fu progressivamente spinta a partire, strangolata socialmente e assoggettata a un clima di paura». A Tripoli nel 1961 la legge stabilì che a ogni ebreo che intrattenesse «rapporti ufficiali o professionali» con Israele (vale a dire, per la maggior parte dei casi, con i loro connazionali trasferitisi nello Stato ebraico) sarebbero stati confiscati i beni.
Ma perché di tutto questo si comincia a parlare in modo esplicito soltanto adesso? La storia degli ebrei del mondo arabo, risponde Bensoussan «è stata a lungo confiscata». Il più delle volte è stata scritta da degli ebrei di corte ed è per questo che solo recentemente si è emancipata dalla visione irenica di un tempo. A lungo il racconto ufficiale illustrava un universo sereno di un "mondo che abbiamo perduto", una visione storica unita a un pensiero consolatore, «tanto grande era il dolore di mettere a nudo una vita da dominato». Più si scendeva in basso nella scala sociale e «più la memoria ebraica diventava dolorosa», mentre coloro che coltivavano una memoria felice, «il più sovente provenivano da ambienti agiati, dove i contatti con il popolino musulmano erano generalmente limitati al personale di servizio». Accade così, conclude lo studioso, che «scrivere la storia degli ebrei dell'Oriente arabo mette a nudo i rapporti di servitù mascherati da racconti folcloristici». Una complicazione che ha fin qui impedito di raccontare la vera storia degli ebrei nel mondo arabo.
(Corriere della Sera, 12 novembre 2018)
Haber, l'ebreo che inventò le armi chimiche
Cento anni fa finiva il primo conflitto mondiale: fondamentale la figura del chimico tedesco che sviluppò la micidiale Iprite l'arma di sterminio che gli valse il Nobel. Fuggì dalle leggi razziali di Hitler ma un suo pesticida fu usato nelle camere a gas.
di Massimo Capaccioli
Esattamente 100 anni fa, alle 11 del mattino dell'll novembre 1918, entrò in vigore l'armistizio negoziato a Compiègne dai delegati del Kaiser con gli Alleati. Una settimana prima, a Villa Giusti, nei pressi di Padova, l'Austria s'era arresa agli Italiani. Si chiudeva così, con la clamorosa sconfitta delle Aquile Nere, la Grande Guerra, dopo quasi un lustro di scontri dissennati e di logoranti attese nel fango delle trincee. Un dramma architettato e gestito nel più totale sprezzo della vita umana e con l'impiego criminale di veleni chimici e psicologici. Logorati nel corpo e nello spirito, i reduci dal massacro tornarono a casa per scoprire che, nonostante il sangue versato, l'ottuso odio verso l'altro era semplicemente passato dai campi di battaglia alle piazze. Apparentemente tutto era cambiato. Caduti quattro imperi ritenuti eterni, completata l'unità territoriale dell'Italia, affermata la candidatura degli yenkee a ereditare, senza un adeguato apprendistato come si vede anche oggi, ruolo e rango delle grandi culture della Vecchia Europa. Novità importanti e potenzialmente foriere di un futuro sereno, all'ombra effimera della Società delle Nazioni, promossa con utopica ingenuità da W oodrow Wilson. E invece i milioni di morti avevano fertilizzato il seme del nazionalismo più gretto. Un cancro che in soli vent'anni avrebbe riportato il mondo alla guerra globale, e prima ancora anestetizzato le coscienze di quelli che, per paura o per comodo, non videro o non seppero vedere gli olocausti in Africa, in America Latina, in Germania, in Russia e in Cina.
Contorsioni di un'umanità che, tra il 1914 e il 1915, aveva inneggiato alla guerra con futuristico entusiasmo, immaginando enormi vantaggi a spese degli altri e al prezzo di minimi sacrifici. Colpa dell'ignoranza e dell'attitudine al plagio, si dirà. Questo è certamente vero, come insegnano millenni di storia. Il popolino è un gregge belante che non pensa, né individualmente e men che meno collettivamente, e che si lascia manovrare con bastone e carota. E gli intellettuali, cioè coloro che invece riflettono con la loro testa - o credono di farlo - e in particolare gli scienziati? Domanda legittima e intrigante. Infatti, se "la guerra è madre di tutte le cose e di tutte è regina", per dirla col greco Eraclito, è altrettanto vero che dall'inizio del Novecento la scienza prese a svolgere negli umani conflitti un ruolo di matrigna, bella sì, ma con la mela avvelenata in mano come nella favola di Biancaneve. "La fisica ha conosciuto il peccato", sarebbe stata la confessione di Robert Oppenheimer, dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki.
Indubbiamente la Grande Guerra non fu un conflitto genuinamente high-tech, almeno nel significato che questa espressione avrebbe assunto 25 anni dopo, né un determinante stimolo al progresso tecnologico. Fu piuttosto l'esaltazione della seconda rivoluzione industriale. Essa fece leva sulla capacità di organizzare una produzione di massa, con molte innovazioni, frutto più del lavoro dei tecnici che di autentici sviluppi del sapere. Si pensi, per esempio, al proliferare degli aerei, ai dirigibili, ai tank e agli U-boat; alla produzione massiccia di armi pesanti e automatiche, di veicoli su gomma e su ferro, o di chilometriche matasse di filo spinato; al telegrafo; alla gestione dei rifornimenti e delle vettovaglie per milioni di soldati sepolti nelle trincee. In questo contesto come si schierarono gli scienziati dei diversi paesi in guerra, a cominciare dall'Italia? Quali furono i loro ruoli, i loro crimini, e i loro successi? Quale la lezione da imparare, che tuttavia non è stata imparata?
In una stagione di patriottismi esasperati, mitigata dal buonsenso di pochi, gli uomini di scienza si schierarono per la guerra, o almeno presero le parti del proprio paese contro le pretese degli avversari. Successe in maniera eclatante nella Germania imperiale. Il 4 ottobre 1914, a seguito della generalizzata reazione di condanna per aver violato la neutralità del Belgio nel tentativo di aggirare le difese francesi, 93 intellettuali tedeschi sottoscrissero e diffusero un manifesto per difendere le ragioni del proprio impegno patriottico: "Credete pure che noi combatteremo questa battaglia sino alla fine come un popolo civile, cui l'eredità di un Goethe, di un Beethoven, di un Kant è altrettanto sacra quanto il suo focolare e la sua zolla". Tra i firmatari più illustri, i matematici Felix Klein e Walther Nernst, il chimico Fritz Haber (nella foto a destra) sulla cui tragica figura ritorneremo a breve, e il celebre fisico Max Planck. Gli inglesi reagirono prontamente. Il 21 ottobre seguente, 150 studiosi stilano un contro-manifesto per denunciare la Germania come "il nemico comune dell'Europa e di tutti i popoli".
In Italia la situazione era resa più complessa dal sovrapporsi di elementi diversi e in qualche misura contrastanti. Guerra o pace? E se guerra, con chi, visto il sussistere d'un patto di alleanza difensiva con gli Imperi centrali? Ma chi era il nemico naturale e storico se non l'invasore del patrio suolo? Gli scienziati del piccolo Regno d'Italia, pochi e per lo più matematici perché il governo post-unitario non poteva permettersi di investire nelle discipline più costose, si schierarono per la guerra a fianco dell'Intesa, servendo fedelmente il paese dalle aule universitarie e dalle trincee del Carso. Uomini veri e grandi studiosi come Vito Volterra, Federigo Henriquez, Tullio Levi Civita e Gregorio Ricci Curbastro, che presero posizione per le ragioni espresse con lucida semplicità da Salvatore Pincherle subito dopo la fine del conflitto: "All'indomani del giorno fatale in cui le Potenze Centrali, svelando ad un tratto un disegno lungamente preparato, scatenavano sul mondo esterrefatto un turbine i cui orrori hanno sorpassato ogni immaginazione, i maggiori dotti della Germania, i capi di quell'esercito della scienza che si riteneva non conoscesse confini di nazioni, gettavano la maschera al pari dei loro governanti; ed un manifesto celebre che, se le idee cui s'ispira dovessero prevalere, segnerebbe davvero la bancarotta della scienza, dichiarava che le dottrine valgono in quanto giovano ad attuare quelle idee di egemonia che il militarismo tedesco si preparava a tradurre in realtà". Un j'accuse ex post non diverso da quello ex ante del matematico francese in una lettera all'amico Volterra: "La ringrazio molto vivamente per i suoi calorosi auguri per il trionfo della Francia sui barbari, la cui condotta richiama le invasioni di un tempo. Il Tedesco, come ho sempre pensato, è civilizzato solo in apparenza; nelle cose più piccole è grossolano e privo di tatto, e molto spesso un complimento di un Tedesco si traduce in una gaffe enorme. Amplifichi questa grossolanità innata e avrà gli orrori che noi vediamo oggi. Inoltre, manca di franchezza e si serve di un groviglio filosofico per giustificare i suoi crimini; è tempo ormai che questo immenso orgoglio sia abbattuto e che l'Europa possa respirare per un secolo. Tutta l'Europa dovrebbe sollevarsi contro questi nuovi Vandali che pensano di sottomettere tutte le nazioni". Una sola voce illustre fuori dal coro, quella di Benedetto Croce, filogermanico convinto.
In questa saga dei più alti valori e dei massimi orrori, dalla più fitta nebbia della ragione emerge la figura di Fritz Haber, carnefice e vittima di quella follia collettiva che trasforma l'homo sapiens in carne da cannone. Era nato da famiglia benestante di religione ebraica perfettamente inserita nel tessuto sociale prussiano. Laureatosi in chimica con prestigiosi maestri, iniziò a lavorare ai fertilizzanti azotati, scoprendo un meccanismo di sintesi dell'ammoniaca. Era la chiave di volta per risolvere il problema della fame e delle carestie in un mondo sempre più brulicante di bocche da sfamare. Fritz era ormai avviato a diventare un grande benemerito dell'umanità quando scoppiò la guerra. Convinto che "in tempo di pace uno scienziato appartenga al mondo, in tempo di guerra alla sua patria", si arruolò volontario con il grado di capitano, mettendo il proprio straordinario talento a servizio della causa prussiana. Serviva un'arma nuova per stanare gli avversari dalle loro trincee. "Scienza e industria devono essere al servizio della guerra, sfornando nuove armi per sbloccare lo stallo sul Fronte Occidentale", aveva dichiarato il comandante in capo Erich von Falkenhayn. Così Haber sviluppò la micidiale Iprite, il gas mostarda che egli sperimentò personalmente sul campo di battaglia, prima contro i Russi e poi contro l'Intesa. Per il dolore, la moglie, anche lei chimica, si suicidò sparandosi al cuore. Nonostante questi crimini, un'umanità dimentica gli concesse il premio Nobel nel 1918, negandolo ancora per tre anni ad Einstein che invece era stato contro la guerra. Poi venne il nazionalsocialismo e Ha ber entrò nel mirino di Hitler. Le leggi raziali naziste lo costrinsero a emigrare, nonostante la mediazione tentata da Max Planck, cui Hitler rispose: "Se la scienza non può fare a meno degli ebrei, noi in pochi anni faremo a meno della scienza". Morì nel 1935, nel viaggio verso la Palestina. Nel frattempo aveva sintetizzato un pesticida per l'agricoltura che venne usato efficacemente nei campi di sterminio tedeschi. Qualche volta la sorte è persino più cattiva degli uomini.
(Il Mattino, 11 novembre 2018)
Stop di Riad ai viaggi alla Mecca dei palestinesi
Negati i visti necessari al pellegrinaggio. Sospetto accordo con Israele per spingere Giordania e Libano a naturalizzare i rifugiati.
di Gian Micalessin
Può essere la soluzione della questione palestinese. O la sua definitiva cancellazione. Ma anche la scintilla di un colossale incendio capace di risvegliare la rivolta a Gaza e in Cisgiordania per poi arroventare Beirut e Amman. Certo è che da qualche mese, stando al sito «Middle East Eye», i palestinesi di Gerusalemme Est, come quelli residenti in Libano e Giordania, si vedono rifiutare i visti per l'Arabia Saudita indispensabili per il pellegrinaggio alla Mecca. Dietro la mossa, stando a fonti giordane e libanesi, vi sarebbe un accordo segreto tra Israele e Arabia Saudita per spingere Amman e Beirut a naturalizzare i 634mila e i circa 500mila rifugiati palestinesi ospitati, rispettivamente, dai due stati arabi. La mossa, potenzialmente rivoluzionaria, metterebbe implicitamente fine a tutte le discussioni sul cosiddetto «diritto al ritorno», una delle questioni che da 70 anni impedisce la conclusione di qualsiasi negoziato di pace tra Israele e l'Olp. Ma le mosse saudite potrebbero avere dimensioni ancor più vaste. L'eliminazione del «diritto al ritorno», considerato «inalienabile» dai palestinesi e inaccettabile da Gerusalemme, diventerebbe il presupposto per l'avvio di quel piano di pace tra Israele e Olp messo a punto dal principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman e Jared Kushner, il genero di Donald Trump.
Per il presidente americano, azzoppato dalle elezioni di medio termine, la conclusione di un accordo di pace miraggio di tanti suoi predecessori, rappresenterebbe la svolta per una nuova candidatura alla Casa Bianca e per un posto nella storia. Ma a dividere sogni e progetti dalla cruda realtà c'è un oceano tempestoso disseminato di scogli insidiosi. Il primo è la carica assolutamente devastante di un piano capace di innescare la rivolta di quelle masse palestinesi che per generazioni si sono tramandate lo status di rifugiati nel nome di un «diritto al ritorno» custodito come un totem irrinunciabile. Per non parlare dell'altrettanto esplosiva contrarietà di Libano e Giordania, pronti a tutto pur di non garantire la cittadinanza ai rifugiati palestinesi. E a rendere la faccenda ancor più scottante s'aggiunge la questione religiosa. Impedendo ai palestinesi il pellegrinaggio alla Mecca che ogni buon musulmano deve, in base al Corano, intraprendere una volta nella vita l'Arabia Saudita, regno Custode dei Luoghi Santi dell'Islam, finisce per violare uno dei pilastri della religione. Una violazione che diventa sacrilega se raccontata come conseguenza di un'intesa con Israele. Ipotesi non peregrina visto che la Fratellanza Musulmana - a cui fa capo Hamas ed era assai vicino il giornalista saudita Jamal Khashoggi eliminato dal principe saudita Bin Salman - non vede l'ora di isolare Riad. E ad appoggiare la Fratellanza non c'è solo la Turchia, ma anche quel Qatar da cui trasmette Al Jazeera, il più potente e incendiario megafono del Medio Oriente.
(il Giornale, 9 novembre 2018)
Adler in Israele con il pensatoio dell'«hi-tech»
di Davide Frattini
TEL AVIV - Viste dal trentesimo piano le case costruite dai templari tedeschi nel 1871 sembrano ancor più fuori tempo massimo, pressate dai grattacieli della Tel Aviv che vuole crescere verso l'alto. Le fattorie di quei pionieri sono state trasformate nei caffè dove si ritrovano i giovani imprenditori israeliani che vogliono crescere più veloce degli altri. Qua attorno è stata inventata Waze (l'applicazione per navigare nel traffico acquistata da Google per oltre 1 miliardo di dollari) e a un centinaio di metri passa la tangenziale che porta verso Gerusalemme gli ingegneri di Mobileye, così avanti rispetto ai concorrenti nel progettare i sistemi per le automobili senza guidatore da spingere Intel a comprarsela per 15 miliardi.
La mobilità del futuro come la vede anche Paolo Scudieri che ieri ha firmato un accordo con l'Autorità per l'innovazione tecnologica israeliana proprio per attingere alle idee generate nel Paese con il più alto numero di startup pro capite al mondo. «L'intesa consentirà alla nostra attività di ricerca e sviluppo di crescere fino a livelli che in passato avremmo solo potuto immaginare», commenta. Il padre Achille nel 1956 seppe intuire che quel poliuretano espanso tastato e testato durante un viaggio in Germania sarebbe diventato il futuro per l'imbottitura di divani e poltrone. Il figlio Paolo che quella comodità da salotto poteva essere portata dentro le automobili. Così Adler, di cui è presidente, da Ottaviano in provincia di Napoli è diventata una multinazionale con 65 stabilimenti in 23 Paesi ed è la prima azienda italiana a cooperare con l'Autorità israeliana.
L'intesa dà la possibilità di valutare in anteprima i progetti e di avere il sostegno israeliano nell'eventuale sviluppo: tra i primi individuati, un trattamento per i tessuti uscito dai laboratori dell'università Bar Han e una tecnica per produrre componenti leggeri come la plastica e resistenti come il metallo. Israele parteciperà anche al Borgo 4.0 promosso da Adler in Irpinia: un villaggio «smart» dove sperimentare gli «auto idi» come Ii chiama Scudieri e dove attrarre intelligenze locali e internazionali, come spera Valeria Pascione, l'assessore che spinge il piano per la Regione Campania.
(Corriere della Sera, 9 novembre 2018)
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Auto senza pilota, accordo Adler a Tel Aviv
Adler Plastic (holding presieduta da Paolo Scudieri a capo del gruppo italiano leader nella componentistica automotive) e il Governo israeliano hanno siglato a Tel Aviv un protocollo d'intesa dedicato all'innovazione nell'ambito della mobilità, compresa quella a guida autonoma.
Pil di Israele
L'hi-tech da solo genera il 13% del Pil nazionale e il 50% delle esportazioni
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Innovazione
Israele fornirà all'azienda supporto per individuare innovazioni tecnologiche
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Scudieri
Questa operazione rappresenta una pietra miliare per l'azienda
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di Laura Cavestri
TEL AVIV - Un club esclusivo, in cui, per la prima volta, trova posto un imprenditore manifatturiero italiano, in una platea di amministratori delegati.
Firmato ieri pomeriggio a Tel Aviv, nella sede della Israel Innovation Authority, l'accordo tra il Governo italiano e Adler Plastic (la holding di controllo del gruppo Adler Pelzer, la multinazionale dell'automotive, con sede a Ottaviano, nell'hinterland napoletano: 1,4 miliardi di fatturato e 11mila addetti su 80 siti produttivi nel mondo), guidata da Paolo Scudieri.
L'accordo - sottoscritto da Amiram Appelbaum per l'Autorità israeliana per l'Innovazione tecnologica, braccio operativo del Governo israeliano sul fronte delle intese con le multinazionali e da Paolo Scudieri per Adler Plastic - prevede che lo Stato d'Israele fornisca all'azienda italiana un sostegno per l'individuazione di innovazioni tecnologiche interessanti. Se Adler Group troverà innovazioni di suo interesse, la Israel Innovation Authority finanzierà le startup locali che le offrono e la multinazionale napoletana darà il suo contributo attraverso il supporto dei suoi centri di R&D. Non solo. In aggiunta all'accordo di base con Tel Aviv, Adler Group ha proposto (ed è stato accettato) l'inserimento e lo sviluppo del progetto Borgo 4.0, cioè l'ambizioso progetto di dotare un'area dell'alto Irpino di infrastrutture e connettività per la sperimentazione su strada dell'auto senza pilota.
Per radicare la propria attività di scouting in Israele, Adler Group ha già aperto un Osservatorio tecnologico in partnership con la Inlight a Tel Aviv, fondato da Roberta Anati, presso la Azrieli Sarona Tower. Obiettivo, coprire lo scouting e l'integrazione delle innovazioni del settore sia israeliane che italiane. Adler sarà, per ora, l'unica azienda manifatturiera privata italiana a beneficiare di questa "piattaforma" per il trasferimento tecnologico, assieme a multinazionali del calibro di Microsoft, Intel, Audi, Unilever, IBM, Philips, Renault, P&G.
«Questo accordo rappresenta una pietra miliare nella storia di Adler - ha affermato Scudieri, visibilmente emozionato - perché Israele è uno di Paesi più tecnologici al mondo e maggiormente in grado di fornire soluzioni nei campi più appetibili per il nostro settore, l'automotive, e per la manifattura in generale: connettività, cybersecurity, ricerca avanzata sui materiali. L'accordo consentirà alla nostra ricerca e sviluppo di crescere a livelli sinora inattesi. E darà una spinta decisiva al progetto di ricerca sulla mobilità intelligente di Borgo 4.0, perché diventi un punto di riferimento internazionale».
In un mondo globale, in cui per accedere a piattaforme di sviluppo, finanziamenti e opportunità occorre anche avere l'ambizione di una crescita dimensionale, le imprese italiane non devono temere di diventare multinazionali, devono volere una forte verticalizzazione e credere nelle loro specializzazioni, che poi sono valorizzate nelle catene internazionali del valore» ha sottolineato Maurizio Tamagnini, amministratore delegato di Fondo Strategico Italiano, che ha recentemente acquisito una quota di minoranza di Adler Group, con un investimento modulare che arriverà complessivamente a 200 milioni di euro.
L'hi-tech in Israele è un settore che, pur impiegando appena l'8% della forza lavoro, da solo genera il 13% del Pil nazionale e il 50% delle esportazioni. Un ecosistema che ha saputo attrarre 5 miliardi di dollari nel solo 2016, e, negli anni, ha accolto oltre 300 multinazionali hi-tech venute da ogni parte del mondo per aprire centri di ricerca e sviluppo in Israele.
Un ecosistema in cui dialogano e investono privati, venture capitals, università e il governo israeliano. Con un afflusso sempre più consistente di investimenti dalla Cina. Anche perché se ogni anno nascono circa 1.400 start up, oltre la metà sono quelle che falliscono. E il governo israeliano interviene proprio perché quello delle start up è un business ad alto rischio e perché il fallimento di un'esperienza non abbia un impatto negativo sul sistema; ad esempio consentendo ai dipendenti di una società fallita di potersi facilmente ricollocare in un'altra con le proprie competenze acquisite o di essere assorbiti da una multinazionale.
(Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2018)
«Brigata Ebraica, Sala ospiti la mostra a Milano»
Appello dopo che i partigiani dell'Anpi e gli antifascisti hanno contestato l'esposizione a Lodi.
di Davide Romano*
Il Comune di Lodi ha deciso, a partire da oggi 9 novembre, di ospitare una mostra su una pagina della Liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo e subito sono piovute le contestazioni. Dai nostalgici del fascismo? Macché, da parte di estremisti di sinistra. Com'è possibile? Semplice: ci sono di mezzo gli ebrei sionisti, quei «cattivoni» della Brigata Ebraica che combatterono in Italia contro i nazi-fascisti e che di lì a qualche anno fonderanno l'unica vera democrazia in Medio Oriente: lo Stato di Israele. Da parte di questi fanatici di sinistra contestare chi ha fatto nascere due democrazie evidentemente è un dovere morale.
Per questo l'esposizione non ha avuto il patrocinio dell'Anpi di Lodi (pur avendo quello dell'Anpi milanese) e soprattutto sarà contestata all'inaugurazione dal Fronte Palestina con il supporto del gruppo Memoria antifascista. Tutte sigle sedicenti antifasciste che manifesteranno contro chi ha combattuto ed è morto per sconfiggere il nazi-fascismo. Situazione curiosa, ne converrete. Ma che ci porta a riflettere su quanto il termine antifascista sia sempre più usato in tutta la sua ambiguità. Diciamola tutta: non avendo più il coraggio di definirsi comunisti, in troppi si nascondono dietro l'antifascismo per avere la legittimità di salire in cattedra e dare del fascista a tutti gli altri. Sono la perfetta incarnazione della frase attribuita a Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in fascisti e antifascisti».
La pagina di storia patria che costoro non digeriscono è quella della Brigata Ebraica, quella scritta dagli ebrei sionisti che peraltro avevano una caratteristica particolarmente nobile: erano tutti e 30mila volontari. Solo a 5mila di loro fu permesso di combattere sotto le insegne della Brigata Ebraica, gli altri si arruolarono nell'esercito britannico ordinario. La mostra realizzata dal nostro Centro studi vuole ricordare questi eroi e raccontare una pagina di storia. Niente di più. Inquieta vedere come tutti i combattenti che hanno partecipato alla Liberazione possono essere ricordati senza problemi, tranne uno specifico gruppo: quello ebraico. A 80 anni dalle leggi razziste, il pregiudizio e la discriminazione non sono morti. E insieme ad essi un'altra eredità del fascismo - propria anche del comunismo e dell'islamismo - resiste: la pericolosa tendenza a voler riscrivere la storia a proprio uso e consumo per motivi politici. Dalle foibe alla Shoah, il nostro Paese ha già visto troppe volte la storia maltrattata o sottaciuta per convenienza da politici e istituzioni. Per questo lancio una proposta al sindaco Sala: ospiti la mostra della Brigata Ebraica, lanci questo segnale di diversità e contribuisca a combattere il pregiudizio.
* Direttore del Museo della Brigata ebraica
(il Giornale - Milano, 9 novembre 2018)
Il Qatar propone una coalizione anti-israeliana e anti-saudita
Il Qatar ha proposto la nascita di una nuova coalizione militare, politica ed economica per affrontare le sfide regionali e in particolare per opporsi a Israele e Arabia Saudita.
Secondo quanto riferisce la stampa irachena a lanciare la proposta durante la sua visita a Baghdad è stato il vice primo ministro e ministro degli affari esteri del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al-Thani.
Stando a quanto si è potuto apprendere, il Qatar avrebbe proposto una coalizione militare, politica ed economica formata dallo stesso Qatar, dalla Turchia, dall'Iran, dalla Siria e dall'Iraq...
(Rights Reporters, 9 novembre 2018)
Il "liberal" Trudeau condanna il Movimento BDS. "E' una minaccia all'esistenza di Israele"
In un discorso alla Camera dei Comuni Justin Trudeau si è scusato per la decisione del Canada di respingere la MS St. Louis, un transatlantico tedesco che trasportava più di 900 ebrei in fuga dalla persecuzione nazista. Erano stati precedentemente respinti da Cuba e dagli Stati Uniti.
Dopo che il Canada li ha respinti, i rifugiati sono stati costretti a tornare in Europa. Più di 250 tra i 900 rifugiati in seguito morirono per la persecuzione nazista. Trudeau ha dichiarato: "... il governo liberale di Mackenzie King non è stato toccato dalla situazione di questi rifugiati. Nonostante la disperata richiesta della comunità ebraica canadese, nonostante le ripetute richieste dei due membri del governo, nonostante le numerose lettere di canadesi preoccupati di diverse fedi, il governo ha scelto di voltare le spalle a queste vittime innocenti del regime di Hitler ". Mentre si scusava, Trudeau ha poi condannato la "insensibilità della risposta del Canada" e ha detto: "Siamo spiacenti di non esserci scusati prima".
Dopo essersi scusato per l'ingiustizia storica verso i rifugiati ebrei, il primo ministro ha continuato a condannare l'antisemitismo moderno e il modo in cui il popolo ebraico continua a subire crimini di odio, una dichiarazione in cui ha inserito anche il movimento pro-palestinese BDS. "Secondo le cifre più recenti, il 17% di tutti i crimini di odio in Canada è rivolto agli ebrei - molto più alto pro capite di qualsiasi altro gruppo. Esistono ancora negatori dell'Olocausto. L'antisemitismo è ancora troppo presente. Le istituzioni e i quartieri ebraici sono ancora oggetto di atti vandalici con svastiche ", ha affermato Trudeau prima di condannare il BDS e sostenere il "diritto di esistere" di Israele.
"Gli studenti ebrei si sentono ancora sgraditi e scomodi in alcuni dei nostri campus universitari e universitari a causa di intimidazioni relative al BDS. E' il diritto all'esistenza di Israele che è ampiamente - e ingiustamente - messo in discussione".
(Fonte: l'AntiDiplomatico, 8 novembre 2018)
Ministro israeliano propone un piano per collegare Israele con paesi del Medio Oriente
Yisrael Katz, il ministro israeliano dei trasporti, si è recato in Oman, per una conferenza internazionale, per discutere la sua proposta di un nuovo sistema di trasporto via mare, oltre ad una ferrovia che collegherà Israele ed il Medio Oriente.
Durante il Congresso mondiale dell'International Road Transport Union di Mascat, Katz ha presentato la sua proposta, intitolata "Strade per la pace regionale", creando una rete di trasporto merci tra Israele e Giordania, e da questa, collegata con altri paesi arabi.
Israele diventerebbe così il punto focale per le spedizioni in Medio Oriente via mare, e le merci verrebbero spedite via ferrovia verso la Giordania.
Secondo agenzia stampa Ma'an News, Katz sostiene che la sua proposta farebbe rivivere la ferrovia Hijaz, la linea dell'era ottomana che collegava Damasco a Medina, attraverso la regione dell'Hijaz in Arabia Saudita, con una diramazione al distretto di Haifa, lungo il Mar Mediterraneo.
L'inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha pubblicato una dichiarazione, sul suo account Twitter, elogiando la proposta di Katz, che cerca di stabilire una rotta commerciale che collega l'Europa con Israele ed il Golfo Persico, attraverso la ferrovia.
(Infopal, 8 novembre 2018)
Ma gli ebrei americani gli hanno voltato le spalle
Non serve essere il presidente più filoisraeliano della storia: la comunità ebraica resta «liberal».
di Fiamma Nirenstein
L'antisemitismo ha aleggiato come un fantasma, dopo la strage di Pittsburgh, sulle elezioni americane, ed è diventato imprevedibilmente una parola chiave. E forse la tragedia che ha dovuto subire la più grande comunità ebraica del mondo, il desiderio di voltare quella pagina macchiata di sangue, causa almeno in parte la preferenza ebraica per gli oppositori del presidente. Una preferenza che si collega con la tradizione liberal della comunità americana, ma che adesso assume un carattere paradossale, dopo le tante, sostanziali prese di posizione di Trump favorevoli a Israele, la messa al bando del trattato con l'Iran, il passaggio dell'ambasciata a Gerusalemme, i suoi legami familiari col mondo giudaico (la figlia e il genero ebrei). Paradossale, a meno che non si consideri cosa fatta il divorzio fra gli ebrei di quella diaspora e Israele.
Ancora numeri precisi sul voto non li abbiamo, ma il 71 per cento votò per Hillary Clinton nel 2016 e oggi il 74 per cento si dichiara democratico; solo il 34 approva il suo approccio alla politica internazionale, ovvero a Israele. Il divorzio è evidente: secondo l'American Jewish Committee il 77 degli israeliani approva il modo in cui Trump ha gestito i rapporti fra i due Stati, e solo il 34 per cento degli americani è d'accordo. Il 59 per cento degli americani vuole uno Stato palestinese, e solo il 44 per cento degli israeliani ormai ci crede.
Subito dopo l'attentato Trump è stato accusato quasi di averlo causato: gli ebrei liberal americani sono stati in testa a questa interpretazione. Nessuno è andato a prendere Trump all'aeroporto di Pittsburgh, 82mila persone hanno firmato una lettera di biasimo: «Hai rinvigorito gli antisemiti».
A questo atteggiamento si collega una crescente divaricazione fra la diaspora e Israele: quel mondo ebraico sembra non avere in nessun conto se il loro presidente è il più amichevole mai visto verso Israele. Gli ebrei americani mettono a rischio il piano di pace in preparazione che potrebbe saldare il mondo arabo sunnita agli interessi israeliani e anche a quelli dei palestinesi. Sostenuta da JStreet, il movimento degli ebrei di sinistra americani, è stata eletta la prima palestinese al Parlamento, la democratica Rashida Tlaib, antisraeliana quanto si può esserlo. Una strana situazione. Trump può d'un tratto domandarsi se gli ebrei sono amici o nemici, e Israele è lo Stato Ebraico.
(il Giornale, 8 novembre 2018)
«Rashida ci darà voce»: la Palestina celebra la deputata Tlaib
Festa nel suo villaggio. Netanyahu non si preoccupa, i media sì: aumentano i parlamentari Usa vicini ai palestinesi.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Siamo felici per la nostra famiglia e per Beit Ur al Fouka. Dio darà a Rashida la forza per svolgere bene il suo compito. È una donna forte e coraggiosa, non ha esitato ad attaccare frontalmente Trump».
Bassam Tlaib ieri, rispondendo alle nostre domande, non riusciva a contenere la gioia per l'elezione alla Camera dei Rappresentanti Usa di sua nipote, Rashida Tlaib, che con Ilham Omar, di origine somala, forma la coppia delle prime donne musulmane che entreranno nel Congresso. «Siamo stati in contatto con Rashida in questi giorni, è molto felice. A gennaio, quando si insedierà ufficialmente, faremo una grande festa nel villaggio e speriamo di rivederla al più presto». Le elezioni americane di midterm hanno portato una buona notizia alla piccola comunità di Beit Ur al Fauka, meno di mille persone, e l'opportunità per una rivincita sul più famoso villaggio gemello, Beit Ura Tahta, dove a distanza di 40 anni gli abitanti si vantano ancora di essere stati determinanti per la conversione all'Islam di Cat Stevens.
La speranza di Bassam Tlaib è che sua nipote, oltre a svolgere il suo mandato al servizio dei cittadini americani, porti al Congresso la voce della Palestina e quella del villaggio colpito dalle politiche di Israele. Situato a ovest di Ramallah a ridosso della «linea verde» tra Israele e Cisgiordania, Beit Ur al Fouka ha subito dopo il 1967 la confisca di molte terre.
Grazie al successo di alcuni dei candidati proposti dai democratici, il Congresso è l'immagine, molto più che in passato, della composizione sociale attuale degli Stati uniti. E le musulmane Ilhan Omar e Rashida Tlaib, assieme alla giovane di origine portoricana Alexandria Ocasio-Cortez, incarnano questo cambiamento.
«Abbiamo cambiato il corso della storia in un momento in cui pensavamo fosse impossibile. Se continuerai a crederci, allora crederai sempre nelle possibilità di qualcuno come me», ha dichiarato Tlaib alla Cbs, mostrandosi consapevole della svolta rappresentata dalla sua vittoria elettorale.
In Israele invece le cose si guardano con occhi ben diversi. Il Congresso resta saldamente pro-israeliano ma da gennaio si potranno ascoltare al suo interno voci diverse sul Medio Oriente e la questione palestinese. La cosa non preoccupa più di tanto il governo Netanyahu - forte anche dell'alleanza di ferro con Donald Trump - ma in casa israeliana si pensa alle elezioni future che potrebbero portare nel Senato e nella Camera degli Usa molti più parlamentari che la pensano come Tlaib. La neo parlamentare di recente è passata dal sostegno alla soluzione a due Stati (Israele e Palestina) a quella per lo Stato unico democratico per ebrei e palestinesi, perdendo così l'appoggio di JStreet, un'organizzazione ebraica progressista ma ancorata ai due Stati. Tlaib peraltro vede con favore il taglio degli aiuti militari statunitensi a Israele.
L'altra parlamentare musulmana eletta Ilhan Omar, nata in Somalia ed eletta in Minnesota, riconosce il diritto dello Stato ebraico di esistere ma descrive Israele come un «regime di apartheid» colpevole di «azioni malvagie».
I media israeliani ieri davano un certo risalto anche allo spoglio delle schede elettorali nel distretto di San Diego dove il repubblicano Duncan Hunter, travolto con la moglie da scandali e accuse di corruzione, era impegnato in una battaglia all'ultimo voto con il democratico Ammar Campa-Najjar, nato e cresciuto a Gaza e con il padre ex impiegato dell'Autorità nazionale palestinese, che in più occasioni ha mostrato il suo attaccamento personale e politico alla terra d'origine.
Sarà da scoprire anche la linea sul Medio Oriente che avrà al Congresso Alexandria Ocasio-Cortez che, pur avendo di recente moderato il tono dei suoi attacchi alle politiche di Israele, continua a sostenere apertamente il diritto dei palestinesi a essere liberi e indipendenti.
(Il manifesto, 8 novembre 2018)
La sinistra odia Israele e protegge i musulmani
Giornali e intellettuali rossi si sono mobilitati per la questione delle mense a Lodi, ma se nella stessa città l'Anpi si oppone a una mostra sugli ebrei va tutto bene.
di Francesco Specchia
C'è qualcosa di tragico - una ripulsa della Storia, una vigliaccata, un grottesco cortocircuito ideologico- nella vicenda che oggi coinvolge la Brigata Ebraica. Ossia uno dei più valorosi commandos antinazisti di sempre, oggi colpevole di appartenere ad un popolo, quello ebraico, accusato di sterminio di massa e, praticamente, di nazismo.
Mi piacerebbe che gli stessi giornali "di sinistra" che insorsero per la terribile vicenda della mensa scolastica di Lodi negata ai figli degl'immigrati; che l' orgogliosamente ebreo Gad Lemer; che perfino la Piazza pulita dell'amico Corrado Formigli (fu giustamente il primo a denunciare la discriminazione della preside a Lodi); che tutti costoro, insomma, oggi, si schierassero contro la furia ideologica dei presunti partigiani del Lodigiano. I quali non solo hanno declinato l'invito a partecipare alla bella mostra sulla "Brigata ebraica" già allestita con successo nella sinagoga Bet Shlomo di Milano e dedicata all'eroica formazione sionista che contribuì alla Liberazione; ma hanno pure declinato in modo sdegnoso, rivolgendo accuse pesantissime allo Stato d'Israele che «si è dotato di armamento nucleare rifiutando qualsiasi controllo della comunità internazionale, occupa illegalmente i territori palestinesi e il Golan siriano, tiene sotto assedio la popolazione di Gaza, pratica la segregazione e la discriminazione nei confronti della popolazione arabo-palestinese, utilizza anche l' assassinio nei confronti dei dirigenti palestinesi e di civili inermi».
Le altre sigle
I partigiani di Lodi, nella loro tenace azione "antifascista" contro gli ebrei sono sostenuti, per inciso, dall'immancabile Fronte Palestina il quale sta organizzando le truppe per il prossimo, illivorito presidio pubblico contro la mostra a Lodi domani sera. Il Fronte Palestina non è un coro di boy scout. Trattasi di un'organizzazione tignosamente ideologica che annovera, tra i suoi leader, Francesco Giordano detto Franco. Giordano ha fatto parte della Brigata 28 marzo responsabile dell'omicidio di Walter Tobagi il 28 maggio 1980 a Milano. Condannato a 30 anni e 8 mesi per aver fatto da copertura al gruppo di fuoco, l'uomo è uscito di prigione nel 2004, scontando l'intera pena ridotta a 21 anni in appello. Per dire, una personcina.
Anpi e pattuglia di filopalestinesi incazzati, dunque, contro una mostra storica che celebra la Brigata Ebraica. Ossia il Jewish Infantry Brigade Group, quel corpo militare composto da 5000 ebrei volontari che operò, sotto il comando del canadese Emest Frank Benjamin, in Italia e in Austria; e che fu voluto da Winston Churchill su mandato delle Società delle Nazioni nel 1941 quando l'avanzata del feldmaresciallo Rommel pareva essere inarrestabile.
Plotone indomito
La Brigata era un plotone d'indomiti che risultò determinante per la sconfitta del nazifascismo in Europa. Solo che a Lodi non tutti lo sanno. L'altro aspetto assurdo di tutta la vicenda lodigiana è che Roberto Cenati, presidente dell'Anpi Milano, è schierato contro i colleghi lodigiani a favore della stessa Brigata Ebraica («Chi la offende ingiuria l'intero patrimonio storico delle Resistenza italiana»). E lo
stesso vicesindaco di Lodi delegato alla cultura, Lorenzo Maggi, ha evocato nel paradossale comportamento di Anpi Lodi e Fronte Palestina le leggende orribili dei libelli antisemiti medievali secondo cui gli ebrei si macchiavano di omicidi rituali. La qual cosa, nel racconto allucinato di questi giorni, a 80 anni delle leggi antiebraiche e con il solito rigurgito di fascisterie latenti a sinistra, quasi quasi non stona. Il vero problema è che ci stiamo assuefacendo a queste idiozie. Vorremmo, appunto, che coraggiosi colleghi anche - diciamo così - di segno politico opposto se ne prendessero carico. Mah ...
(Libero, 8 novembre 2018)
«Il mio è un canto d'amore"
Ha perso due figli in guerra. Uriel, nel 1998, in Libano. Eliraz, nel 2010, nella Striscia di Gaza. Un dolore immenso con cui convivere, che si è inciso nell'anima ma che non l'ha fatta desistere dal suo impegno di testimonianza e amore. L'israeliana Miriam Peretz, madre coraggio e simbolo di un paese che ha scelto di non arrendersi alle minacce e al terrorismo, ci insegna a guardare avanti, a non perdere la fiducia nel futuro per quanto dure siano le prove da superare. ''Ho scelto di essere felice - ci spiega - di svegliarmi la mattina ed essere felice, perché dopo aver perso i miei figli ho capito che la vita è in assoluto il dono più grande. Quando riceviamo un regalo siamo felici, perché allora quando ci svegliamo la mattina non lo siamo? Abbiamo appena ricevuto il dono più straordinario di tutti, la vita, dobbiamo essere felici, dobbiamo scegliere di essere felici. Non è Dio a scegliere per noi, siamo noi gli unici responsabili della nostra felicità. E' questo il messaggio che cerco di trasmettere a chi mi ascolta.
di David Zebuloni
Nel 2018 vince il Pras Israel, il più prestigioso riconoscimento conferito dallo Stato di Israele, ma non ne capisce proprio il motivo, dice di non meritarselo. "Sono una donna semplice". Nel 2014 viene scelta per accendere una delle dodici fiaccole in onore della Festa d'Indipendenza israeliana, ma racconta di aver temuto per un attimo di non farcela. "I miei figli mi hanno dato la forza". Nel 2011 pubblica un' autobiografia che vende migliaia di copie in Israele e nel mondo, ma confessa che quel libro in realtà era destinato a rimanere nascosto nel suo cassetto. "Più mi nascondo e più Dio mi scopre". Miriam Peretz è una delle figure più amate, apprezzate, citate e studiate all'interno della società israeliana. Tutto ha inizio nel 1998, quando il suo primogenito Uriel viene ucciso durante un combattimento in Libano. Il marito Eliezer non riesce a sopportare il dolore della perdita e poco dopo viene a mancare a causa di un infarto, all'età di 56 anni. La tragedia culmina nel 2010 quando il secondogenito Eliraz viene ucciso durante la prima guerra con Gaza lasciando così, oltre che la madre, anche la moglie e quattro figli. Da allora Miriam dedica le sue giornate ad incontrare il popolo israeliano in tutte le sue infinite sfumature. "Non parlo mai di morte, al contrario, parlo di vita. Di amore per la vita. Cerco di spiegare a chi mi ascolta che svegliarsi la mattina è il più grande dei regali': Uriel e Eliraz, entrambi ufficiali dell'esercito israeliano, vengono ricordati come due eroi e Miriam ... Beh, Miriam diventa la madre del popolo ebraico, l'essenza del Sionismo, l'emblema della forza, del coraggio, della fede. Una donna che ha saputo tradurre il dolore in parole, toccando così i cuori di milioni di persone in tutto il mondo. "Darei qualsiasi cosa pur di tornare nell'anonimato e riavere indietro i miei figli". La incontro un venerdì mattina a casa sua, a Ghivat Zeev. Mi racconta subito del suo viaggio a Roma, di aver sentito l'abbraccio caldo della Comunità ebraica e mi confessa che desidera tanto tornarci. I minuti prefissati per l'intervista sono trenta precisi precisi, ma ci ritroviamo a chiacchierare un'ora più del dovuto. E poi ancora fuori di casa, su per le scale, fino al cancello. "Chiamami appena entri in macchina" si raccomanda. La conversazione con Miriam potrebbe durare in eterno, infatti conclusa la telefonata cominciano subito i messaggi su Whatsapp, fino all'entrata dello Shabbat. Accade così che una giornata qualunque si tramuta in ricordo indelebile e una semplice intervista si trasforma in un incontro magico. Una straordinaria lezione di vita.
- Sono giorni interi che mi domando come sia giusto cominciare questa intervista, ed ogni volta che provo a formulare una domanda mi ritrovo al punto di partenza. Ovvero, mi domando come, come sia possibile convivere con il dolore di tre perdite così tragiche.
Sai, comincio dicendo che vivere in Terra di Israele richiede dei grandi sacrifici, solo chi ha fede può abitarcisi. Questo angolo di terra non ci è stato servito su un piatto di argento, ma in un piatto pieno di sangue. E non parlo solo di oggi, del nostro presente, ma di una realtà storica che ci perseguita sin dalle origini. A volte mi domando se è questa la pena che ci è stata decretata: vivere in una guerra infinita. Ma io voglio credere di no, io voglio credere che la pace non sia solo un sogno. E credimi, io so bene cosa sia la pace, sono una delle poche madri in questo paese che conosce il vero significato della parola pace. Una delle poche che ha pagato un prezzo così caro per ottenerla. Eppure ti dico che preferisco e preferirò sempre le pene della pace, che il dolore della guerra.
- Ma non è giusto Miriam. Non è giusto tutto cìò che ti è capitato, come fai ad accettarlo?
Lo so, non è giusto. Non è giusto e non è normale che una madre debba seppellire i propri figli. No, non è una cosa normale. Non è normale che ad ogni mio arrivo al Monte Herzl io debba prendere una decisione talmente difficile che nemmeno Dio stesso potrebbe prendere al posto mio. Io sono una madre che deve scegliere quale dei suoi due figli abbracciare per primo. Accanto a quale tomba stare quando suona la sirena in memoria dei soldati caduti in guerra. Capisci? Io sono una madre che deve rinunciare ad uno dei propri figli. Già settimane prima li sento litigare nella mia mente, proprio come quando erano bambini e desideravano le mie attenzioni. No, non è giusto e non è normale. Ti confesso che ci sono tante cadute, tanti momenti in cui la nostalgia quasi mi soffoca, ma ho capito che l'importante è rialzarsi sempre, non rimanere a terra. Guardo i miei figli e i miei nipoti e torno a sorridere, perché mi rendo conto che Hamas e Hezbollah sono riusciti ad uccidere solo il corpo di Uriel ed Eliraz. Il loro spirito vive ancora, in me e in tutti quelli che portano avanti i loro valori ed i loro ideali. Finché io sarò in vita, anche lo spirito dei miei figli lo sarà.
- Dicono che il tempo curi ogni ferita. Pensi che sia possibile abituarsi al dolore e convivere con esso?
Il dolore si fa più intimo nel tempo, come un verme che mangia il frutto dal suo interno. Ma con tuo permesso vorrei non utilizzare la parola "tempo". Vorrei utilizzare la parola "vita". Sì, è la vita che ci cura, non il tempo. E' preparare il pranzo ai tuoi nipoti, ballare al matrimonio dei tuoi figli. Convivere con la vita e con la morte e scoprire che la forza della vita è maggiore di ogni altra forza. Persino della morte. Probabilmente se qualcuno mi avesse chiesto di venire al mondo, avrei subito rifiutato, ma nessuno mi ha dato questa possibilità, nessuno mi ha dato la possibilità di scegliere. Così me la sono presa da sola, la possibilità di scegliere. Sì, ho scelto di essere felice, di svegliarmi la mattina ed essere felice, perché dopo aver perso i miei figli ho capito che la vita è in assoluto il dono più grande. Quando riceviamo un regalo siamo felici, perché allora quando ci svegliamo la mattina non lo siamo? Abbiamo appena ricevuto il dono più straordinario di tutti, la vita, dobbiamo essere felici, dobbiamo scegliere di essere felici. Non è Dio a scegliere per noi, siamo noi gli unici responsabili della nostra felicità. E questo il messaggio che cerco di trasmettere a chi mi ascolta.
- Sempre parlando di felicità, in passato hai raccontato che quando ti è stata comunicata la morte di tuo figlio Uriel non riuscivi a credere che fuori di casa il sole continuasse a splendere come se nulla fosse accaduto. Ecco, il tuo sole, quello dentro di te, quando ha ricominciato a splendere?
Proprio come il sole, anche la felicità sorge piano piano. Ci sono tanti piccoli eventi che ti fanno tornare il sorriso, ma la felicità vera, quella autentica, senza ombre né piaghe, l'ho provata dopo tre anni, al matrimonio di mio figlio Eliraz. Quella mattina sono andata a trovare Uriel sul Monte Herzl e ho pregato sulla sua tomba. Ho pregato chiedendo a Dio di regalarmi un cuore nuovo. Già proprio così, un cuore nuovo. Di sostituire il cuore vecchio e spezzato con quello nuovo. E Dio ha ascoltato le mie preghiere.
- Parli sempre di Uriel ed Eliraz, ma oltre a loro hai altri quattro figli. com'è cambiato il tuo rapporto con loro dopo la perdita del primo e secondogenito?
Beh, sono diventata molto più ansiosa. Non tanto con i miei figli quanto con i miei nipoti. Perdo la testa se scopro che uno di loro non sta bene. Ma al contempo ho imparato ad essere molto più affettuosa, a trasmettere tutto l'amore che nutro per loro oggi, perché domani potrebbe essere troppo tardi. Tra l'altro mi si associa sempre ad Uriel ed Eliraz, ma io lo dico e lo ripeto: io non sono madre solo dei morti, io sono madre anche dei vivi! Vorrei che mi chiamassero la mamma della vita. Forse mi si addice di più di altri soprannomi che mi sono stati dati in questi anni, sempre e solo associati alla morte.
- Sai, molti ti considerano l'emblema della gioia, dell'amore per la vita, dell'ottimismo. credo di capirne ora il motivo.
Beh, non dimenticarti che sono rossa. Sai cosa si dice di noi.
- Eppure Il colore del tuoi capelli temo non basti a nascondere tutte le cicatrici che ti porti dietro. Qual è quella che ancora oggi brucia più di tutte?
Ascolta... Ogni volta che bussano alla porta mi si riapre una cicatrice. Solo una mamma che ha perso il proprio figlio in guerra può riconoscere quel suono, rivivere quell'attimo in cui ti entrano in casa per comunicarti la tragedia. Sono ferite che rimangono aperte, che non si rimarginano mai. Ma se parliamo di ferite, anche quelle hanno una cura. La mia è uno spazzolino.
- Uno spazzolino?
Già, proprio così. Quando un soldato viene a mancare, il suo comandante raccoglie tutti i suoi effetti personali, li mette in uno scatolone e li consegna alla famiglia. La scatola di Uriel non l'ho ancora aperta, sono trascorsi vent'anni e non sono ancora riuscita ad aprirla. L'unica cosa che ho estratto da quella scatola è il suo spazzolino, che porta ancora l'odore della sua bocca. Ti rendi conto? L'odore di mio figlio! Così una volta l'anno, a Pesach, quando pulisco a fondo tutta la casa, apro la scatola e annuso per un attimo mio figlio ... Non esiste dono più grande per una mamma, Prego sempre Dio affinché non faccia mai sparire il suo odore da quello spazzolino.
- Miriam. so che non te la sei cercata tutta questa fama, ma ormai sei diventata una vera e propria celebrltà. SI parla di te ovunque. Com'è fare i conti con la popolarità?
È una grandissima responsabilità, ne sono pienamente consapevole, ma se un tempo scappavo dalle persone che mi riconoscevano per strada, oggi corro ad abbracciarle prima ancora che facciano in tempo a rivolgermi la parola. Mi dico che forse ciò che piace alla gente è la mia semplicità, il sentirmi una di loro, non dimenticarmi mai le mie origini. Le telecamere non mi hanno cambiata e nemmeno la notorietà. Mi chiedono di parlare ovunque, in qualsiasi circostanza, anche a pagamento, ma io non voglio un centesimo. Io il mio lavoro ce l'ho, nel Ministero dell'Istruzione. Tutto ciò che faccio è per puro amore, per il mio popolo, a cui non rinuncerei mai, Sì, a nessun tassello del puzzle potrei rinunciare.
- Lo sai che si vocifera che sei tra ì prossimi candidati alla presidenza dopo il mandato di Rlvlin, vero?
Sì, l'ho saputo, ma non fa per me la politica. Sono una donna semplice io. Mi immagini seduta ogni giorno in Parlamento con indosso un abito elegante?
- Al popolo non importa come ti vesti Miriam, al popolo basta solo sentirti parlare. Ha bisogno di sentirti parlare.
Facciamo così, ti do la stessa risposta che ho dato a Bibi Netanyahu quando mi ha chiesto di entrare a fare parte del suo partito. La politica non fa per me, ma io lascio sempre la porta aperta. Ovunque Dio mi vorrà, io ci sarò.
- Nel 2014 Dio ti ha voluta a Gerusalemme, per accendere una delle dodici fiaccole in onore del Giorno d'Indipendenza dello stato di Israele. Terminato Il tuo breve discorso hai pronunciato la classica formula "Ve le tiferet Medinat Israel" alla gloria dello stato di Israele, proprio come da prassi. Tutti recitano questa frase con grande pathos, ma ml domando quale sia Il suo vero significato, quello più profondo.
Quando mi hanno comunicato che avrei acceso una delle dodici fiaccole, ricordo che guardai immediatamente la parete, dove vi era appesa la fotografia di Uriel ed Eliraz e dissi loro: "Avete sentito? Quest'anno accenderete voi le fiaccole" Il problema si presentò il giorno stesso, in quanto in Israele si festeggia il Giorno dell'Indipendenza subito dopo aver celebrato il Giorno della Memoria dei soldati caduti Ecco, io avevo trascorso tutto il giorno in cimitero, a piangere. Gli altri invitati avevano avuto modo di prepararsi a dovere per la cerimonia, mentre io arrivavo direttamente dal Monte Herzl. Non pensavo che ce l'avrei fatta, lì dove tutti vedevano i propri famigliari felici, io vedevo solo le tombe dei miei figli. Così parlai con loro, chiesi loro di sedersi tra il pubblico, di darmi la forza. E loro mi ascoltarono, vennero subito in mio soccorso. Li vidi seduti in platea, con in mano le bandiere di Israele. Che gioia! Quando una madre vede i propri figli non può che essere felice. Capii immediatamente che non stavo semplicemente accendendo una fiaccola, stavo riaccendendo il loro spirito. Lo spirito del mio Uriel, del mio Eliraz. Quindi sorrisi e pronunciai il mio discorso. Infine arrivò quella frase: "Alla gloria dello Stato di Israele". Dissi in cuor mio che nessuno più di me poteva comprendere a fondo il significato di quella gloria. Che nessuno aveva pagato un prezzo così caro pur di averla. Nessuno.
- E quest'anno è arrivato il riconoscimento più straordinario di tutti, il Pras Israel. Alla cerimonia hai fatto un discorso che è diventato virale in rete ed è stato inserito in tutti i programmi di studio delle scuole di tutto il paese. Qual è il segreto di tanto successo?
Un cuore spezzato, diviso in tre parti. Nulla di più. Quando mi dissero che avevo vinto non ci credevo, pensavo fosse uno sbaglio. Io? Miriam Peretz? Una donna così semplice, che non ha fatto proprio nulla per meritarselo. Poi mi chiesero di fare il discorso a nome di tutti i premiati ed io rifiutati immediatamente. C'era David Grossman seduto accanto a me, come avrei potuto prendere io la parola? Proprio io, che in infanzia non sapevo nemmeno cosa fosse un libro e la prima volta che vidi un tagliere da cucina fu quando avevo sedici anni. Proprio io, figlia di due genitori che fino al loro ultimo giorno non erano riusciti ad imparare nemmeno una parola di ebraico, che hanno vissuto in povertà per tutta la loro vita. Com'era possibile? Eppure il Ministro Bennett insistette molto e io dovetti accettare. Così dissi la verità, dissi che a differenza degli altri premiati io non avevo inventato nulla, non avevo condotto ricerche o fatto scoperte importanti. L'unica cosa che avevo da offrire era un cuore. E con quel cuore parlavo a tutti, nessuno escluso, con parole semplici. Parole d'amore.
- Un altro importante traguardo è stata la pubblicazione della tua biografia, che ha avuto un successo clamoroso non solo in Israele, ma in molti paesi nel mondo. Il titolo che hai scelto è "Il canto di Miriam", lo stesso canto che accompagnò il popolo ebraico fuori dall'Egitto, nell'apertura del Mar Rosso. come mai questo parallelismo?
Semplice, Miriam la profetessa cantava quando si aprivano le acque. Io canto quando mi sento affogare. Ma entrambe cantiamo, lo spirito di entrambe non si spegne mai. Tra l'altro ti racconto un aneddoto, quel libro doveva rimanere nascosto nel mio cassetto. Lo scrissi per i figli di Eliraz, affinché potessero ricordare per sempre il loro papà. Però Dio ha sempre dei piani per me, più mi nascondo e più lui mi scopre. Così la scrittrice Smadar Shir scoprì l'esistenza di questo libro e insistette affinché lo pubblicassimo. Ed io, un'altra volta, accettai.
- Siamo quasi giunti alla fine Miriam e da uomo di fede a donna di fede ti vorrei chiedere, se avessi la possibilità di scambiare qualche parola con Dio, che cosa gli diresti?
Ah, aspettavo questa domanda. Beh, gli chiederei perché. Perché? Perché? Perché? Perché combattere contro una donna così piccola. Perché affondare un coltello nel mio cuore e rigirarlo per così tante volte. Cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo. Ma sai cosa? Non credo esista una risposta a tutti i miei perché, e proprio per questo motivo credo di aver vinto la mia battaglia. Ho imparato in questi anni ad amare Dio incondizionatamente, nonostante tutte le difficoltà. Ho imparato ad amare il cielo anche quando ha taciuto. Dico sempre che è facile amare Dio quando si ha tutto, ma non è affatto facile amarlo quando non si ha più nulla. E io ce l'ho fatta. Tutti incontrano Dio da morti, io invece lo incontro ogni giorno, da viva.
Prima di salutarci vorrei citare tuo figlio Uriel, recitare la frase che scrisse prima di morire. Una frase che a mio avviso racchiude in sé l'essenza del Sionismo. "Con tutte le spine che sono entrate nel mio corpo, potrei riempire metri quadri di terra. Ma queste non sono semplici spine: queste sono le spine della Terra di Israele". Ecco, abbiamo finito. Grazie Miriam, grazie di cuore.
(Pagine Ebraiche, ottobre-novembre 2018)
Roma - Ospedale Israelitico, più tecnologia e i quattro poli «super-specializzati»
La struttura sull'isola tiberina sarà un centro di primo soccorso odontoiatrico aperto anche la domenica
Il restyling
L'Ospedale Israelitico rivoluziona il suo percorso di assistenza e cura del paziente potenziando l'offerta sanitaria nel Lazio. Grazie alla valorizzazione delle sue quattro strutture dislocate sul territorio romano prende vita il Network Ospedale Israelitico dove ognuna delle sedi viene caratterizzata da specifici servizi per la salute dei cittadini. Il rinnovamento arriva a conclusione di un potenziamento tecnologico del nosocomio che si è dotato di nuove apparecchiature soprattutto nel campo della diagnostica per immagini. La nuova fase dell'Ospedale passa anche per un progressivo cambio di look delle strutture che saranno contraddistinte da quattro colori che guideranno i percorsi all'interno dei poliambulatori. Il restyling coinvolgerà anche l'immagine on line del Network Ospedale Israelitico con un nuovo portale web che rispecchierà i quattro percorsi e darà agli utenti tutti i servizi di informazione, prenotazione, trasmissione referti e assistenza del nosocomio. Parte anche il servizio "Call Back" del Cup.
I servizi
«L'Ospedale Israelitico - spiega il direttore generale, Giovanni Naccarato - nasce nel 1600 con una prima Opera pia ebraica e da allora non ha mai smesso di essere al servizio della salute della città. Con un rilancio tecnologico e di immagine interpretiamo ancora una volta un nuovo modo di fare sanità in Italia. Lo facciamo con professionalità e passione grazie al nostro team di medici e ai nostri direttori di area, senza mai dimenticare da dove arriviamo perché da noi anche il futuro ha una lunga storia» Il network Ospedale Israelitico contraddistingue le quattro sedi:
Isola Tiberina ( contrassegnato dal colore bordeaux è il poliambulatorio che si specializza nei Servizi Odontoiatrici, aperto anche la domenica e accessibile anche senza appuntamento).
Contraddistinta dal colore blu la sede di via Fulda, la più importante del Network Ospedale Israelitico che può vantare una affermata attività di degenza e ambulatoriale. Il colore verde guiderà i pazienti dentro il poliambulatorio specializzato nella Diagnostica per Immagini di via Veronese 53, mentre al civico 59 il poliambulatorio specializzato in attività ambulatoriale è segnato dal colore azzurro.
(Il Messaggero - Roma, 8 novembre 2018)
Notte dei cristalli. L'inizio della barbarie
Ottant'anni fa sui territori del Terzo Reich si scatenarono i pogrom antiebraici. Vennero colpite sinagoghe, case e botteghe. Fu il primo atto della Shoah.
di Roberto Festorazzi
Tra il 9 e il 10 novembre 1938, ottant'anni fa, ebbe luogo il più violento pogrom che fino ad allora si fosse verificato nel Terzo Reich: la Kristallnacht, ovvero la "Notte dei cristalli", che comportò l'attacco sistematico alle proprietà e ai luoghi di culto della comunità giudaica, dilagato dalla Germania, all'Austria e alla regione ex cecoslovacca dei Sudeti da poco occupata dalle truppe di Hitler. Le prime notizie riservate parlavano di 171 case d'abitazione incendiate, di 815 botteghe devastate e saccheggiate, di sinagoghe bruciate ovunque. La vera entità dell'aggressione, che segnò la prima accentuazione della pressione terroristica e intimidatoria contro gli israeliti tedeschi, fu resa nota al processo di Norimberga del 1946.
Dal protocollo stenografico di una riunione dei ministri del Reich, avvenuta il 12 novembre, si poté apprendere che 7.500 negozi furono demoliti, 101 sinagoghe vennero date alla fiamme, mentre altre 76 furono distrutte. Trentasei ebrei vennero ammazzati, altrettanti feriti in modo grave: complessivamente, ne erano stati arrestati almeno ventimila. Si verificarono anche casi di stupro. Le cifre, in ogni caso, restano controverse. Alcune fonti, indicano in 267 il numero dei templi assaltati, e fissano in circa 100 l'entità totale delle vittime, tenendo anche conto dell'estensione del pogrom oltre i confini della Germania. Il regime di Hitler disse che si era trattato di un'esplosione spontanea di collera popolare, dopo che, a Parigi, un ebreo tedesco diciassettenne, Herschel Grynszpan, attentò, con successo, alla vita del terzo segretario dell'ambasciata del Reich in Francia, Ernst von Rath. In realtà, il regista e l'organizzatore delle violenze, aizzate, dilagate e poi estinte su precisi ordini scritti, fu Reinhard Heydrich, il numero due di Heinrich Himmler alla guida delle Ss e degli apparati di sicurezza e di polizia.
Il ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, descrive, con rivoltante compiacimento, nel suo diario, la vera dinamica della "reazione" seguita all'assassinio del diplomatico a Parigi: «Sottopongo la faccenda al Führer. Lui decreta: lasciare libero sfogo alle manifestazioni. Richiamare la polizia. Che una volta tanto gli ebrei sappiano cosa sia la rabbia popolare. Giusto. Trasmetto subito le necessarie direttive alla polizia e al partito. Poi ne parlo brevemente alla dirigenza del partito. Applausi scroscianti. Tutti si precipitano ai telefoni. Adesso il popolo agirà». Goebbels racconta di aver visto «rosseggiare», all'orizzonte, nelle tenebre della notte, la sinagoga berlinese di Fasanenstrasse.
La Kristallnacht fu il segnale tremendo del fatto che il Reich aveva imboccato il tunnel della politica più odiosa e selvaggia nei confronti della minoranza israelitica. Il maresciallo Hermann Göring, nel suo sfogo di estremismo, chiese che agli ebrei fossero interdetti i teatri e i cinematografi, e che non potessero condividere neppure, con i tedeschi "ariani", i luoghi di villeggiatura, gli ospedali, perfino i giardini pubblici.
Quando si pose il problema di chi dovesse pagare i 25 milioni di marchi di danni causati dal pogrom di Stato, le società di assicurazione bussarono alla porta delle autorità, in preda alla disperazione. Se, infatti, le compagnie avessero dovuto indennizzare l'intero importo (per i soli cristalli delle vetrine infrante, si quantificava una cifra di 5 milioni di marchi), sarebbero state trascinate al fallimento. Göring suggerì un'abominevole soluzione: le assicurazioni avrebbero dovuto pagare agli ebrei tutte le somme dovute, ma queste sarebbero state confiscate dallo Stato e le compagnie rimborsate di parte delle loro perdite. Göring stesso sentenziò, mentre in tutta la Germania i roghi erano stati appena spenti, che i «nemici del popolo tedesco» dovessero versare, per i loro «crimini», un contributo di un miliardo di marchi. Del resto, tutto ciò era perfettamente in linea con quanto Hitler aveva illustrato, nel suo Mein Kampf, puro distillato di delirio antisemita, e fonte di una predicazione che non risparmiò alcuna famiglia tedesca.
Le premesse giuridiche di tale inasprimento della politica razziale, erano state poste, il 15 settembre 1935, con l'approvazione, da parte del Reichstag, delle cosiddette "leggi di Norimberga". Tali normative, anzitutto, privavano gli ebrei della piena condizione di cittadinanza germanica, in quanto ritenuti appartenenti a una razza inferiore, perdendo in tal modo anche i diritti politici riservati ai soli Reichsbürger, cioè agli ariani tedeschi, forti del privilegio di sangue. Le leggi di Norimberga, inoltre, vietavano i matrimoni tra gli ebrei e i soggetti di sangue tedesco e, retroattivamente, dichiaravano nulli quelli già contratti anche all'estero; proibivano anche i rapporti sessuali extra-matrimoniali tra gli ariani e i non ariani. I giudei non potevano inoltre avere al loro servizio donne tedesche di età inferiore ai 45 anni e neppure avevano facoltà di esporre la bandiera del Reich.
La barbarie della "Notte dei cristalli" sconvolse e indignò l'opinione pubblica internazionale. L'ambasciatore americano a Berlino, Hugh Wilson, venne richiamato a Washington, dal presidente Roosevelt, per consultazioni, e non tornò più in Germania. Analogamente, il rappresentante del Terzo Reich nella capitale statunitense, Hans Dieckhoff, rientrò a Berlino, lasciando vacante la sede.
Le élite dirigenti delle potenze democratiche europee si mostrarono del tutto inerti, di fronte alla gravità mostruosa di quanto era accaduto: in Francia e in Inghilterra, i rispettivi governi erano ancora avvinti dalle pie illusioni di una pace durevole, dopo la Conferenza di Monaco di fine settembre, in cui avevano ceduto completamente a Hitler. In tal modo, il Führer poté perseguire indisturbato i suoi piani. In quello stesso autunno del '38, ebbero inizio le deportazioni di massa: il lager di Buchenwald, vicino a Weimar, accolse le prime migliaia di ebrei. Era iniziata la corsa verso l'abisso.
(Avvenire, 8 novembre 2018)
Israele, il ciclismo è ancora di casa
"Tutti hanno negli occhi il Giro, una grande festa che è stata l'antipasto a una grandissima gara. È una esperienza che non si potrà replicare, per evidenti motivi. Ma questo non esclude che possano andare in porto altri progetti, se Israele avrà la volontà di realizzarli. I presupposti ci sono. Bisognerà eventualmente sedersi attorno a un tavolo e parlarne. Il ferro va battuto finché è caldo.
Paolo Bellino, direttore generale di Rcs Sport, così si confidava con Pagine Ebraiche a Giro d'Italia da poco concluso. Un'edizione entusiasmante per molteplici motivi. Primo tra i quali la partenza da Israele, per tre giornate sui pedali che restano indimenticabili nella memoria di ciclisti e addetti ai lavori. Da Gerusalemme ad Eilat, emozioni ben oltre l'aspetto agonistico e raccontate nei cinque continenti grazie a centinaia di troupe e giornalisti accorsi da tutto il mondo per filmare le mura della Città Vecchia illuminate di rosa o l'inedito passaggio della carovana in un deserto come nel caso della terza tappa interamente nel Negev. Un'iniziativa, auspicava Bellino, cui sarebbe stato saggio dare continuità. Input entusiasticamente raccolto.
I dettagli restano ancora in parte da definire, ma il "Giro di Israele" è realtà ed entra nel calendario ciclistico internazionale che conta. Un'operazione che vede ancora Rcs tra i protagonisti, oltre al magnate Sylvan Adams, principale artefice della Grande Partenza del maggio scorso, e alla lsrael Cycling Academy. La prima squadra professionistica locale, che ha ben figurato nello scorso Giro d'Italia entrando in diverse fughe e sfiorando la vittoria in una delle tappe di montagna più dure con il suo veterano, lo spagnolo Ruben Plaza, tra l'altro fresco di rinnovo. Segnatevi le date: 10-14 aprile. "Una lunga volata che ci porterà alle soglie di Pesach, la Pasqua ebraica. Un ottimo modo per festeggiare questi anni di impegno" sottolinea il general manager della squadra Ran Margaliot. E un test tra i più importanti per chi, qualche settimana dopo, lotterà per la conquista del Giro d'Italia. Ancora una volta la determinazione di Adams è risultata vincente.
Ci raccontava l'imprenditore di origine canadese (ma israeliano d'adozione) alla vigilia del Giro: "Ho due obiettivi principalmente. In prima istanza far convogliare l'interesse del mondo intero su questo bellissimo paese di modo che tanti insospettabili possano scoprire quanto è aperto, tollerante, inclusivo, pluralista, libero e sicuro. Una scoperta che sono certo stimolerà nuovi flussi di turismo, anche in bicicletta perché no ... Perché è importante che il contatto sia diretto, con una testimonianza oculare non filtrata da una narrazione molto spesso faziosa sulle vicende di Israele e del Medio Oriente". Il Giro d'Israele si inserisce in questa prospettiva, insieme ad altre iniziative che stanno vedendo la conclusione.
Come un velodromo all'avanguardia che presto sarà inaugurato a Tel Aviv, finanziato dallo stesso Adams. "Voglio fare di questo paese un paradiso della bicicletta. E di Tel Aviv una sorta di Amsterdam" ci diceva. Sorridendo, sì, ma con le idee molto chiare.
(Pagine Ebraiche, novembre 2018)
Arabi e israeliani litigano pure per le vipere
Israele e Autorità palestinese (Ap) stanno litigando da qualche giorno non su questioni di confini o di insediamenti, ma a causa di un serpente, per giunta velenoso. La "vipera di Palestina" (Daboia palaestinae) è una specie molto diffusa in Medio Oriente, comune in gran parte d'Israele, e in ebraico viene definita "vipera comune" o "vipera della terra di Israele". Tra le specie di vipere, è una delle più aggressive e velenose.
Qualche giorno fa, la Società israeliana per la protezione della natura e l'Autorità per la natura e i parchi di Israele hanno dichiarato la specie di rettile serpente ufficiale di Israele dopo un voto online. Ma la decisione, non è piaciuta all'Ap, che ha protestato contro questa mossa, definendola un «furto», asserendo che Israele ha ignorato il patrimonio palestinese della vipera.
Imad al-Atrash, direttore esecutivo della Palestine Wildlife Society, ha denunciato l'annuncio israeliano riguardante la vipera, aggiungendo che la lotta sull'identità nazionale del serpente faceva parte della più ampia battaglia dell'Ap per preservare l'identità palestinese. Al-Atrash ha invitato le organizzazioni esterne a unirsi alla lotta per riconoscere il serpente come la «vipera della Palestina», piuttosto che come la «Vipera della terra d'Israele». Circa 300 persone vengono morse annualmente dalla vipera in Israele e Cisgiordania, anche se le morti sono rare grazie alla disponibilità di un siero sviluppato da Israele.
(Libero, 7 novembre 2018)
Fico si avvicina ai terroristi palestinesi
Il presidente della Camera riceve Mai Al Kaila, ambasciatrice dell'Anp e tifosa dei jihadisti: «Incontrarla è stato un piacere»
di Fausto Carioti
Al curriculum di Roberto Fico mancava l'abbraccio con i nemici di Israele e fiancheggiatori dei terroristi palestinesi. Il sandinista del Vomero ha provveduto ieri. Nel suo ufficio di presidente della Camera, con tutti gli onori istituzionali, ha ricevuto Mai Al Kaila, ambasciatrice della Palestina, titolo che la Farnesina le riconosce anche se il cosiddetto Stato palestinese è una finzione giuridica. «Incontrarla nel mio studio a Montecitorio è stato un piacere», ha commentato Fico al termine del colloquio. «Due popoli e due Stati - ho ribadito all'ambasciatrice - resta la soluzione migliore per una ripresa efficace del processo di pace». In realtà, la pace non ha nulla a che vedere con la storia e le idee della signora.
Legata all'organizzazione politica e militare di sinistra Al Fatah, prigioniera nel 1986 nelle carceri israeliane, Al Kaila rappresenta il governo di Abu Mazen a Roma dall'ottobre del 2013, quando fu accreditata da Giorgio Napolitano, ed è diventata subito la beniamina di tutti gli organi d' informazione che hanno tra i piatti fissi del menu quotidiano la guerra mediatica a Israele. La signora svolge benissimo il proprio compito di propagandista, dipingendo il governo di Gerusalemme come una banda di assassini dediti ai crimini più feroci.
Lingua biforcuta
Lei è quella che si appella ai giornali e alle televisioni italiane (come se ce ne fosse bisogno) affinché diano risalto alla «mattanza israeliana» contro «civili, bambini e anziani inermi» ( sarebbero quelli con cui i gruppi armati palestinesi si fanno scudo) e che classifica come «legittime proteste popolari non violente» le aggressioni dei suoi compagni ai danni degli israeliani. Per mobilitare l'opinione pubblica italiana non esita a ricorrere alle bufale, ad esempio accusando Israele di negare cibo e medicinali agli abitanti della striscia di Gaza anche quando Gerusalemme incrementa il flusso, già consistente, di aiuti umanitari.
Eppure questo è il lato migliore dell'ambasciatrice, quello che lei riserva agli occidentali per convincerli che causa palestinese e pacifismo possono andare a braccetto. È il volto che mostra sempre quando parla o scrive in italiano. Ce ne è un altro, conosciuto solo ai palestinesi e a coloro che conoscono l'arabo, che si rivela invece quando commenta sui socia! network le gesta dei terroristi, da lei santificati come «martiri». Un vero e proprio doppio linguaggio: con noi quello della diplomazia, infervorato dall'ostilità verso Israele, ma sempre facendo credere che il vero obiettivo sia la pace; con i suoi, quello della piena solidarietà alla lotta armata, anche se rivolta contro gli innocenti.
È un vizio che la signora ha da tempo e che il pacifista Fico, se avesse voluto documentarsi, avrebbe scoperto con facilità ( sempre ammesso che non l'abbia fatto, decidendo di fregarsene e di invitarla lo stesso).
Elogi agli assassini
Già nel 2014, con l'aiuto di un traduttore dall'arabo, Libero scoprì che costei glorificava regolarmente i peggiori terroristi palestinesi. Aveva assunto da pochi mesi l'incarico nella capitale italiana quando commentò la morte del 22enne Moataz Washaha, membro del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione terroristica d'ispirazione marxista. Accusato di avere condotto numerosi attentati, costui si era barricato sparando ai soldati israeliani con un fucile d'assalto. L'ambasciatrice era andata in pellegrinaggio alla sua casa e aveva scritto su Facebook: «Migliaia di ringraziamenti al martire Moataz, rimarrà immortale nei nostri ricordi». E così ha fatto per tanti altri, incluso colui che, prima di essere ucciso dai militari israeliani, aveva tentato di assassinare il rabbino ortodosso Yehuda Joshua Gliele «Pietà per il mille volte martire Moataz Hijazi».
L'ultimo episodio è di pochi giorni fa. Un post pubblicato l'8 ottobre dall'ambasciatrice sulla propria pagina Facebook, per celebrare «il rilascio del combattente, uno dei capi dei prigionieri, fratello Mahmud Jabarin (Abu Halmì)», dopo trent'anni trascorsi in una prigione israeliana. «Abu Halrni è un combattente di Fatah, siamo orgogliosi di lui. Lode a Dio. Libertà per tutti i nostri prigionieri». Scritto pure questo in arabo, ad uso e consumo del suo popolo. Il leader che chiama «fratello» è un assassino, condannato nel 1988 per l'omicidio di un palestinese. Di certo non l'esemplare più brutto nel pantheon terroristico di Mai Al Kaila, che in casa sua difende la guerra e a Montecitorio è invitata per parlare di pace.
(Libero, 7 novembre 2018)
Ciclismo - Cimolai sbarca in Israele: «Hanno un progetto unico»
Il friulano era stato uomo-chiave per l'oro europeo di Trentin: va alla Israel Cycling Academy
di Ciro Scognamiglio
Tra i nomi dei pro' senza contratto per il 2019, il suo era uno di quelli pesanti: ma adesso può uscire da quella «scomoda» lista. Sì, Davide Cimolai ha trovato squadra: il 29enne friulano, lasciato libero dalla Groupama-Fdj, approda infatti alla lsrael Cycling Academy, il primo team professionistico israeliano di alto livello, quest'anno visto anche al Giro d'Italia che scattava proprio da Gerusalemme. Un'altra bella notizia, dopo il recente matrimonio (20 ottobre) con Greta.
Sensazione
Nel 2010-2011 alla Liquigas, poi cinque stagioni nel gruppo Lampre fino alle ultime due annate alla corte di Arnaud Demare con la Fdj (ora Groupama-Fdj): da quando è professionista, Cimolai ha sempre corso per squadre di primissima fascia. Uomo veloce, anche se non sprinter classico, Davide ha colto cinque successi da pro' - il primo al Laigueglia nel 2015, anno in cui si è piazzato ottavo alla Sanremo - e nel periodo «francese» si è ritagliato il ruolo di «vagone» del treno di Arnaud Demare. Anche se il suo giorno più bello del 2018 è legato alla maglia azzurra: il 12 agosto a Glasgow, infatti, il «Cimo» è stato fondamentale per la vittoria europea di Matteo Trentin ed è diventata iconica la foto che lo vede esultare qualche istante prima che il capitano tagliasse, vittorioso, la linea bianca. Nel mese precedente, però, la squadra non lo aveva selezionato per il Tour de France e dopo il Binck Bank Tour (conclusosi il 19 agosto) non lo ha fatto più correre: chiaro segnale di un rapporto arrivato ai titoli di coda.
L'Israel Cycling Academy è un team Professional, un gradino sotto le squadre World Tour, ma è molto ambizioso. «È una situazione che non riesco a capire. Non sono un campione, ma non mi reputo di certo l'ultimo arrivato. Rifarei tutto quello che ho fatto. Mi sono sempre sacrificato, svolgendo i compiti richiesti»: così Cimolai meno di un mese fa, quando il suo futuro agonistico era un punto interrogativo. Adesso le parole sono altro tenore: «Questo team ha un progetto unico. Sono fiero che mi abbiano scelto».
(La Gazzetta dello Sport, 7 novembre 2018)
La battaglia di Lodi. Partigiani rossi e Pd litigano sulla mostra dei partigiani ebrei
L'Anpi locale scende in piazza contro la rassegna, difesa addirittura dai dem Lega all'attacco: non lasceremo che i fanatici rovinino i rapporti con Israele.
di Enrico Paoli
Lodi, con i suoi favorevoli e contrari, pro e anti, rischia seriamente di diventare un po' come il birillo rosso del bar centrale di Foligno («il Mediterraneo è il centro del mondo, l'Italia è il centro del Mediterraneo, Foligno è il centro dell'Italia, il bar centrale è al centro di Foligno, il biliardo è al centro del bar centrale e il birillo rosso - che è al centro di quel biliardo - è dunque il centro del mondo») di scalfariana memoria: il perno del dibattito politico.
La mostra dedicata alla Brigata ebraica, appoggiata dall' Anpi di Milano, ma osteggiata dalla sezione lodigiana che viene duramente contestata dal Pd cittadino, creando un cortocircuito epocale, e le contestazioni al regolamento comunale che avrebbe reso più difficile, almeno questa è la teoria dei detrattori dell'amministrazione comunale, l'accesso ai servizi scolastici agli extracomunitari, hanno trasformato Lodi nel birillo rosso della Lombardia. E il meglio, registrando gli eventi e i commenti, rischia di dover ancora arrivare.
Partiamo dalla mostra. Venerdì sarà inaugurata, nei locali dell'ex Chiesa dell'Angelo, la mostra «La Brigata Ebraica in Italia e la Liberazione (1943-1945)», curata da Stefano Scaletta, Cristina Bettin e Samuele Rocca, promossa dal Comune di Lodi con il Comitato Provinciale di Milano dell' Anpi e l'Associazione Centro Studi Nazionale Brigata Ebraica. La sezione lodigiana dell'Associazione nazionale dei partigiani, sostenendo che si tratta di manifestazione a favore di Israele, ha detto no. Anzi, ha pensato di organizzare una contro manifestazione. Il Fronte Palestina, di cui fa parte anche Francescano Giordano, che fatto parte della Brigata 28 marzo (responsabile dell'omicidio di Walter Tobagi, avvenuto il 28 maggio 1980 a Milano. Condannato a 30 anni e 8 mesi, in appello divenuti 21 anni, Giordano ha finito di scontare la pena nel 2004) ha organizzato un presidio in piazza Broletto per boicottare la mostra.
Vìsta la situazione, che rischia di farsi sempre più incandescente, il Pd ha pensato bene di rivolgersi ai lodigiani, in particolare alla locale sezione dell' Anpi, in modo tale da rivedere il proprio giudizio. «La mostra è un utile contributo alla conoscenza di una realtà storica che fa parte a pieno titolo della vicenda della lotta di Liberazione e della Resistenza», afferma Andrea Ferrari, segretario del Pd di Lodi, «ma che alla gran parte dell'opinione pubblica è purtroppo tutt'ora poco nota. Si tratta di una realtà che non può non essere riconosciuta e che è sbagliato negare o mettere in secondo piano rispetto ai giudizi di qualsiasi natura che si possono avere sulla storia e sull'attualità dello scenario mediorientale e del ruolo centrale rivestito in quello scenario dallo Stato di Israele». Un affondo, quello dell'esponente dem, che lascia pochi spazi all'immaginazione. E all'interpretazione.
Tanto che il segretario rimarca che l'iniziativa «non può e non deve diventare terreno di contrapposizione politica, né un malinteso pretesto per rimarcare divergenze che non hanno nulla a che vedere con le pagine di storia nazionale italiana scritte con sacrificio e abnegazione da persone che hanno partecipato al riscatto del Paese e all' affermazione della libertà e della democrazia».
E se il Pd invita i partigiani a rivedere le proprie posizioni, la Lega ne approfitta per inchiodare la sezione lodigiana dell' Anpi alle proprie responsabilità. «È incredibile e insensato il boicottaggio contro la mostra sulla Brigata Ebraica», afferma Paolo Grimoldi, segretario della Lega Lombarda e deputato della Lega, «non lasceremo che un pugno di fanatici rovini i nostri rapporti con Israele e mi riprometto di visitare la mostra quanto prima», conclude Grirnoldi.
E se la mostra non vi interessa, il 17 è in programma un flashmob, con pentole e cucchiai, contro il nuovo regolamento comunale che avrebbe reso più difficile l'accesso ai servizi scolastici agli extracomunitari.
(Libero - Milano, 7 novembre 2018)
Putin non vuole incontrare Netanyahu. Si accentua la spaccatura tra Russia e Israele
Il Premier israeliano avrebbe voluto incontrare il Presidente russo a margine delle celebrazioni per i 100 anni dalla fine della grande guerra che si terranno domenica prossima a Parigi, ma Putin con una scusa ha declinato l'invito.
Il Presidente russo, Vladimir Putin, non vuole incontrare il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, lo riferiscono fonti russe.
L'incontro tra i due leader sarebbe dovuto avvenire domenica prossima a Parigi a margine delle celebrazioni per i 100 anni dalla fine della prima guerra mondiale, ma secondo le fonti russe Putin avrebbe deciso di non incontrare Netanyahu accampando la scusa che i francesi avrebbero chiesto agli oltre 100 leader mondiali presenti alla cerimonia di non fare incontri bilaterali, un fatto questo assai strano e difficile da credere considerando che non è facile mettere insieme tutti i leader mondiali senza che gli stessi non ne approfittino per incontri bilaterali....
(Rights Reporters, 7 novembre 2018)
La Russia accusa Israele di mettere in pericolo i suoi soldati in Siria
Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov sottolinea che Israele mette in pericolo le truppe russe non avvisando in anticipo dei loro attacchi in Siria.
"In diverse occasioni questo ha messo in pericolo le vite delle nostre forze armate in Siria, ad esempio, nel bombardamento aereo israeliano nella regione di Palmyra a marzo 2017", ha riferito il ministro degli Esteri russo in un'intervista pubblicata, ieri, sul quotidiano spagnolo El País.
L'attacco israeliano era diretto alla base aerea siriana di Tiyas (T-4) a Palmira. Dopo l'attacco, Mosca ha convocato l'ambasciatore del regime israeliano perché la parte russa non era stata informata prima dell'attacco.
Lavrov ha anche sottolineato che non c'è accordo tra Russia e Israele sulla necessità di cooperare per prevenire i conflitti aerei tra il gruppo della forza aerospaziale russa che agisce in Siria e l'aviazione del regime di Tel Aviv.
"La parte israeliana non ha sempre pienamente rispettato i suoi obblighi, specialmente in relazione alla necessità di avvertire l'esercito russo in merito alle sue operazioni di combattimento in territorio siriano", ha affermato il ministro degli esteri russo.
Ha poi avvertito che gli attacchi israeliani in Siria non risolveranno i problemi di sicurezza del regime di Tel Aviv, ma aumenteranno le tensioni in Medio Oriente.
(l'AntiDiplomatico, 6 novembre 2018)
Riparte la caccia al gas nel Mediterraneo. Tutte le mire di Israele
di Francesco De Palo
Tel Aviv ci riprova: dopo 4 anni di chiusura-mare e dopo il tentativo fallito dello scorso anno (per l'immobilismo del consorzio greco-indiano), è vicina ora a una nuova gara a caccia di gas e petrolio. Con sullo sfondo le triangolazioni con Il Cairo e Nicosia, e la partita tutta da giocare con Ankara
Da quando una serie di analisi tecniche hanno rivelato che sotto le acque del Mediterraneo orientale ci potrebbe essere una copiosa riserva di gas, oltre a quelle già individuate nella zona economica esclusiva cipriota, le strategie dei macro players regionali che in quel fazzoletto di mare nostrum si affacciano (e di chi da lontano osserva) sono mutate.
In sostanza vi è la possibilità concreta che le caratteristiche dei nuovi giacimenti presentino affinità con quello di Zohr scoperto dall'Eni e considerato, al momento, il maggiore dell'intera area. Ecco mosse, visioni e progetti di Israele.
Qui Tel Aviv
L'obiettivo del governo israeliano è di bypassare il duopolio dei giacimenti Tamar e Leviathan per aprire il mercato delle forniture di gas. Ovvero il sogno di Benjamin Netanyahu è trasformare Israele in un fornitore regionale perché sotto quelle acque dovrebbero esserci almeno altri 2 miliardi di metri cubi di gas.
Per questa ragione ha avviato una nuova gara per l'esplorazione e la successiva perforazione dopo 4 anni di chiusura-mare e dopo il tentativo fallito dello scorso anno a causa dell'immobilismo del consorzio greco-indiano, che pare non sia riuscito a convogliare in loco gli investitori annunciati.
Adesso si è molto vicini ad una nuova gara al fine di farsi esportatore certificato, così da mettere sul mercato la maggior parte dell'energia trovata, in considerazione della bassa domanda di mercato interno.
La regia è affidata al ministro dell'Energia Yuval Steinitz. Le migliori condizioni offerte ai partecipanti renderanno l'asta più efficace, ha annunciato alla stampa locale Amir Foster, direttore della divisione ricerca e strategia della Israeli Gas Exploration Industries Association. Infatti Tel Aviv per evitare che l'inconveniente di 12 mesi fa si ripeta, ha chiesto come prova di "buone intenzioni" un cip di ingresso di 400 milioni di dollari in azioni, una condizione che se da un lato ha scoraggiato i players locali, dall'altro effettua una sorta di selezione naturale facendo restare al tavolo da gioco solo grandi nomi.
Tattica
Ma allora, si chiede più di qualcuno, come si intreccia la gara israeliana con le nuove scoperte di gas in Egitto? E ancora, come mai solo sei mesi fa è stato siglato un accordo decennale tra la società israeliana Delek Group Ltd e l'egiziana Dolphinus Holdings per vendere a quest'ultima gas israeliano? Certo, il governo del Cairo da tempo ha detto pubblicamente di essere intenzionato ad acquistare gas da tutti i giacimenti presenti nel Mediterraneo orientale, ovvero Cipro e Israele, compreso anche il Libano (tramite una non meglio precisata intermediazione saudita).
Ma con quale fine si importa un bene che già si possiede? Ecco che una possibile risposta si ritrova alla voce geopolitica, con il tentativo da parte di Tel Aviv di strutturare una più ampia partnership politica legata al dossier idrocarburi al fine di isolare il rivale di tutti i paesi che su quell'area del Mediterraneo orientale si affacciano: la Turchia.
Strategia
Solo nel 2008 Israele importava il 100% delle sue risorse energetiche, mentre nel 2015 ben il 50% del consumo elettrico interno era costituito da carbone. Ad oggi lo scenario è destinato a cambiare rapidamente vista della presenza di giacimenti in loco. Un punto fermo di questa nuova strategia israeliana legata al gas e al petrolio è stato fissato lo scorso maggio a Houston, in occasione di un meeting internazionale aperto ad aziende statunitensi e di altre nazionalità per progettare azioni e nuove partnership future.
Non solo l'obiettivo di ridurre del 50% il carbone nel 2022 e di eliminarlo completamente nel 2026, ma puntando forte su veicoli elettrici, a idrogeno e a gas naturale compresso. È anche questa la ragione dell'accelerazione di Tel Aviv sui gasdotti, che si intrecciano con il trasferimento degli impianti di produzione dall'olio combustibile al gas naturale, destinato a sfondare nel brevissimo periodo quota 80% della domanda di elettricità di Israele.
Operazioni
Ed ecco il fil rouge col Texas, dove verrà costruita la piattaforma fissa di circa 30mila tonnellate dalla Kiewit Offshore Services a Ingleside, per il giacimento Leviathan dove opera il gruppo Delek. Il piano di sviluppo prevede un budget di 3,75 miliardi di dollari con una produzione di 12 miliardi di metri cubi annui. La piattaforma dovrebbe essere operativa ad inizio del 2019 con la prima produzione prevista per la fine dell'anno.
Un quadro che si somma alle firme già poste sull'altro grande progetto che investe anche l'Italia: il gasdotto Eastmed, con l'obiettivo di trasportare entro il 2025 fino a 16 miliardi di metri cubi di gas tra Israele e Italia, attraverso Cipro e Grecia. Un'altra pietra miliare nello sviluppo offshore di Israele e Cipro, ma più in generale dell'intero versante euromediterraneo legato all'energia.
(formiche, 6 novembre 2018)
I cristiani evangelici Usa salvagente di Riyadh
Una delegazione in Arabia Saudita
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Non difetta di acume politico il giovane e spietato principe ereditario saudita.. Finito sui carboni ardenti per l'assassinio del giornalista Jamal Khashoggi e minacciato di sanzioni dall'alleato Donald Trump, Mohammed bin Salman (noto anche come MbS) si è mosso negli ambienti giusti per guadagnare consensi ed evitare l'uscita dalla scena politica. Dopo aver incassato il sostegno aperto di Israele, MbS ha ricevuto alla fine della scorsa settimana in Arabia saudita una delegazione di importanti leader cristiani evangelici.
Il gruppo è stato guidato da Joel Rosenberg, saggista e attivista evangelico che vive in Israele. Tra gli altri partecipanti Milce Evans, fondatore del Friends of Zion Museum di Gerusalemme. «Siamo soddisfatti dall'invito che ci è giunto dal Regno dell'Arabia saudita - hanno scritto in un comunicato diffuso al termine dell'incontro - Senza dubbio questa è una stagione di tremendi cambiamenti in Medio Oriente e abbiamo avuto l'opportunità di incontrare di persona alcuni leader arabi per capire i loro obiettivi e porre domande dirette. Non vediamo l'ora di costruire qualcosa di solido su queste relazioni e continuare il dialogo».
Il messaggio per Trump è chiaro: Mohammed bin Salman e gli altri leader arabi alleati di Israele e Usa e nemici dell'Iran non si toccano. Punto sul quale qualche giorno fa è stato fin troppo esplicito uno storico predicatore evangelico, Pat Robertson, che ha esortato gli americani a «congelare gli attacchi» all'Arabia saudita..
Voglio ricordare a coloro che urlano contro i sauditi che quelle persone sono nostre alleate. Il principale nemico in Medio Oriente è l'Iran e i sauditi si oppongono all'Iran. Le sanzioni perciò sarebbero un errore. Non si può far saltare un'amicizia per una persona (Khashoggi, ndr)», ha detto Robertson durante il suo programma tv settimanale 700 Club. E non ha mancato di ricordare gli accordi da 110 miliardi di dollari per la vendita di armi americane ai sauditi. «Un sacco di soldi entreranno nelle nostre casse ed è qualcosa che non possiamo perdere, volenti o nolenti», ha aggiunto.
Il principe ereditario sa che l'amicizia dietro le quinte che mantiene con il premier israeliano Netanyahu è la chiave del sostegno che sta ricevendo dai cristiani evangelici più influenti. Sa anche che il vicepresidente Usa Mike Pence, a sua volta un evangelico, non potrà che schierarsi dalla sua parte e frenare coloro che nel Congresso premono per non lasciar cadere nel dimenticatoio le responsabilità di Mohammed bin Salman nel brutale omicidio di Khashoggi. Lo sfortunato giornalista non avrebbe mai potuto immaginare che la sua morte avrebbe addirittura portato a relazioni più strette tra l'Arabia Saudita e Israele.
MbS ora deve un favore a Netanyahu. Ed è facile immaginare che si darà da fare per aiutare l'offensiva diplomatica che il premier israeliano ha avviato nel Golfo. Zvi Barel, analista del quotidiano israeliano Haaretz, sostiene che la recente visita ufficiale del primo ministro israeliano in Oman, dove è stato ricevuto con grandi onori dal sultano Qabus bin Said, sarebbe preparatoria di altri viaggi nel Golfo, dove Israele continua a non avere relazioni diplomatiche ufficiali.
La prossima tappa dell'itinerario di Netanyahu nelle petromonarchie sunnite sarebbe, secondo Barel, nel regno del Bahrain, minuscolo arcipelago in mezzo al Golfo, di fronte all'Iran, sede della V Flotta americana e di una base militare britannica. In un tweet postato venerdì scorso, il ministro degli esteri del Bahrain,
Khaled bin Khalifa, ha scritto: «Nonostante il disaccordo esistente, Benjamin Netanyahu ha una posizione chiara riguardo all'importanza della stabilità nella regione e del ruolo saudita in tale stabilità». MbS non avrà difficoltà a chiedere o a imporre alla monarchia al Khalifa - tristemente nota per la feroce repressione delle opposizioni - di ricevere quanto prima il premier israeliano.
Il Bahrain è uno Stato satellite dell'Arabia saudita, che ha salvato re Hamad bin Isa al Khalifa durante la primavera araba del 2011 quando Riyadh inviò forze militari per disperdere e uccidere civili che manifestavano pacificamente.
(Il manifesto, 6 novembre 2018)
L'ambasciatore Sachs: «Con Zes e aerospazio investiamo in Campania»
Il rappresentante di Israele oggi a Caserta. Sono previsti ulteriori missioni e incontri bilaterali. per intensificare i rapporti tra noi
NAPOLI - Ofer Sachs, ambasciatore d'Israele in Italia, parteciperà oggi al meeting organizzato da Confindustria su «Caserta Excellence» con il presidente locale Luigi Traettino; quello nazionale, Vincenzo Boccia; l'ambasciatore indiano, Reenat Sandhu; Jean Preston, consigliere per gli affari economici dell'ambasciata americana; l'ad di Invitalia, Domenico Arcuri; e il presidente del Cira, Paolo Annunziato.
Ambasciatore, il Sud, malgrado i suoi problemi, quale appeal esercita sugli investitori israeliani?
«II valore del commercio tra Italia ed Israele è pari a quasi 4 miliardi di dollari, con una bilancia commerciale in favore dell'Italia per quasi due miliardi. L'Italia ha una quota di mercato sulle importazioni israeliane pari al 5,3%. Il Mezzogiorno, area dalle enormi potenzialità, contribuisce all'export italiano in Israele solo per poco più di 200 milioni di dollari anno, pari al 7, 7% del totale delle esportazioni italiane. Su questo fronte si può certamente intensificare l'attività per rafforzare i legami commerciali».
L'introduzione delle Zone economiche speciali nelle aree vicine ai porti è condizione sufficiente per attrarre capitali dal suo paese? «II trasporto marittimo in Israele vale oggi 157 miliardi di dollari. I porti della Campania sono collegati già oggi con il sistema portuale israeliano ma esistono condizioni per fare ancora meglio. In vista dell'avvio della Zona economica speciale per la Campania, centrata sui porti di Napoli, Salerno e Castellammare, si può delineare un modello di collaborazione fondato sulla industrializzazione delle start up di successo israeliane, contando da un lato sulle competenze tecnologiche israeliane e dall'altro sui vantaggi di localizzazione che la Zes offre».
Vi sono iniziative per consolidare le attività di collaborazione? «Nelle prossime settimane sono previsti ulteriori missioni e incontri bilaterali, in cui verrà esplorata dalle autorità locali la possibilità di intensificare i rapporti sulla base di una maggiore cooperazione nell'ambito della ricerca connessa all'economia marittima, soprattutto dal punto di vista della digitalizzazione e dello sviluppo tecnologico».
Israele è interessato anche all'industria dell'aerospazio e da ciò che si sa sarebbe pronto a realizzare un polo di ricerca sui droni nell'area di Grazzanise. «L'industria aerospaziale è certamente motivo di forte interesse da parte nostra. È bene ricordare l'accordo tra il ministero degli Esteri italiano e il ministero della Scienza e della tecnologia israeliano nel 2018 per la creazione di un laboratorio congiunto italo-israeliano sulle attività spaziali per scopi pacifici».
Anche sul fronte della collaborazione tra privati? «Lo dimostra la recente iniziativa privata di joint venture tra Advanced Logistics for Aerospace (ALA), con sede a Napoli e leader in Italia nella distribuzione di materiali aerospaziali, e l'israeliana Yail Noa, per la creazione di un player globale nella fornitura di servizi di logistica integrata e supply chain management».
Quali sono i rapporti tra le università dei due paesi? «L'accordo di collaborazione accademica e scientifica firmato nel 2000, finora in grado di finanziare circa 200 progetti comuni per la Ricerca e Io Sviluppo, rappresenta un ottimo strumento per la condivisione di know-how e avanzamento nella ricerca applicata. Siamo convinti sostenitori della valorizzazione del capitale umano e del trasferimento tecnologico dal mondo accademico al mondo industriale, e per questo vorrei citare Children alimentary personalized research Italy Israel (Caprii), progetto pilota sostenuto da Ferrero e condotto in parallelo dall'istituto Weizmann di Israele e approvato dal Comitato etico dell'Università Federico II per il monitoraggio costante delle abitudini alimentari dei bambini al fine di sviluppare degli algoritmi dietetici utili a costruire l'alimentazione corretta su misura».
(Corriere del Mezzogiorno, 6 novembre 2018)
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Caserta ExcellenCE, Traettino: "Caserta deve essere un modello per attrarre investimenti"
"A febbraio una delegazione casertana in India"
"Caserta può e deve diventare modello di sviluppo per attrarre investimenti esteri, ma anche per esportare il suo know-how in Paesi partner strategici. In tal senso, voglio annunciare che a febbraio una delegazione di imprenditori di Confindustria Caserta si recherà a Calcutta, nello Stato indiano del Bengala, per sancire un rapporto economico-produttivo con il sistema imprenditoriale locale". A dichiararlo, nel corso dell'Evento Pubblico di Confindustria Caserta, svoltosi stamani presso la Cappella Palatina della Reggia di Caserta, è stato il presidente degli industriali casertani, Luigi Traettino
"Quest'anno - ha aggiunto Traettino- abbiamo scelto il tema dell'investment attraction perché è giunto il momento di aprire ancor di più Caserta all'internazionalizzazione. Possiamo contare sulla quarta area industriale più estesa del Mezzogiorno, il 54% del totale di quella campana, e quello di Caserta deve diventare modello di attrattività. Abbiamo deciso di invitare tre Paesi strategici per noi: India, che ha già un rapporto privilegiato con Caserta, vista la presenza di ben due multinazionali, Israele, una start-up nation con la quale stabilire nuove partnership basate sui giovani e sull'innovation technology, e Stati Uniti, nazione con cui abbiamo un rapporto storico".
I lavori, coordinati dalla giornalista del Tg5 Costanza Calabrese, hanno visto due tavole rotonde, con al centro il tema della manifestazione, ovvero l'internazionalizzazione. La prima ha riunito l'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs, l'ambasciatrice indiana in Italia e a San Marino, Reenat Sandhu, e il ministro consigliere per gli Affari Economici dell'ambasciata degli Stati Uniti, Jean Preston.
"Il nostro Paese - ha spiegato l'ambasciatore Sachs- è giovane e dotato di una grande dinamicità. Molti giovani imprenditori israeliani, subito dopo il servizio militare, che da noi è obbligatorio e dura tre anni, iniziano ad intraprendere percorsi imprenditoriali, soprattutto nel campo delle nuove tecnologie, anche senza una specifica preparazione universitaria. Il capitale umano è la nostra principale risorsa e credo che su queste basi si possano stabilire relazioni importanti con Caserta".
"Il legame tra l'India e Caserta - ha aggiunto l'ambasciatrice Sandhu- è molto forte. In questo territorio il nostro Paese ha investito e continua ad investire tanto, creando effetti moltiplicatori anche per un parallelo sviluppo sul territorio indiano. Le nostre aziende hanno scelto Caserta perché è attrattiva, possiede un know-how unico, delle ottime infrastrutture ed è un hub industriale eccellente, dotato di settori chiave per noi quali, ad esempio, quello della ricerca scientifica e del food processing".
"Non è una coincidenza - ha dichiarato Jean Preston- che nell'Italia Meridionale vi sia la più alta incidenza di imprese multinazionali americane. So che la politica commerciale degli Usa è qualcosa che i membri di Confindustria stanno guardando con interesse. Usa e Ue stanno negoziando seriamente e speriamo che da febbraio i rispettivi negoziatori avranno dei mandati per trattare su temi quali, ad esempio, i dazi. Nel frattempo si sta lavorando su argomenti legati ai regolamenti, che non richiedono un mandato".
I lavori, che sono stati introdotti dai saluti istituzionali del sindaco di Caserta, Carlo Marino, e del prefetto di Caserta, Raffaele Ruberto, hanno visto anche gli interventi di Giorgio Valentini, della Global RAS Unit della Banca Mondiale, e di Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia. Successivamente c'è stata un'altra tavola rotonda, denominata "Made in Caserta", che ha visto insieme tre gruppi di eccellenza che hanno deciso di puntare sul territorio casertano. A confrontarsi sono stati il presidente del Cira (Centro italiano ricerche aerospaziali) di Capua, Paolo Annunziato, il ceo di Chargeurs Protective Films (del Gruppo francese Chargeurs) e presidente del cda di Boston Tapes, azienda operante a Sessa Aurunca, Laurent Derolez, e l'investment director di "Riello Investimenti Partners Sgr", Alberto Lampertico. Per questo incontro c'è stata la collaborazione del Dipartimento di Economia dell'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli"e di Italiacamp, content provider dell'evento.
A concludere la giornata l'intervento di Eugenio Sidoli, coordinatore dell'Advisory Board Investitori Esteri di Confindustria, nonché presidente e amministratore delegato di Philip Morris Italia. L'Advisory Board degli Investitori Esteri è un organismo istituito recentemente da Confindustria e si occupa di retention, di competitività e di attrazione degli investimenti.
(Vivi Campania, 6 novembre 2018)
L'aviazione israeliana non ha fatto voli in Siria dopo la fornitura degli S-300
L'aviazione israeliana non ha fatto voli verso la Siria, dopo il trasferimento a Damasco dei complessi russi S-300, ha detto ai giornalisti il membro della Knesset per la politica estera e la difesa Xenia Svetlov.
"Da quando alla Siria è stato consegnato il sistema S-300, non c'è stata nessuna partenza. L'S-300 è una cosa che ha cambiato l'equilibrio delle forze nella regione" ha detto Svetlova.
La Russia ha trasferito a Damasco i complessi in risposta alla tragedia della caduta del caccia russo Il-20, la cui responsabilità Mosca ha dato a Israele. Nell'incidente l'aereo è stato abbattuto dalle difese aeree siriane perché l'aviazione israeliana in quel momento faceva attacchi aerei a Latakia.
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Israele ha notificato alla parte russa di questo attacco aereo solo un minuto prima del suo inizio, ingannando sulla zona di impatto e non segnalando il luogo del caccia F-16. Allo stesso tempo, secondo la versione della Difesa, i piloti israeliani hanno letteralmente coperto l'atterraggio dell'Il-20 e 15 militari russi sono stati uccisi.
(Sputnik Italia, 5 novembre 2018)
Poker live: in Israele una sentenza apre alla regolamentazione
Una sentenza della Corte Suprema apre la strada alla regolamentazione del poker live in Israele.
di Erik Seidel
Gli israeliani hanno dominato tra il Wsop Circuit e le Wsop Europe di Rozvadov facendo incetta di braccialetti e ring. Sono player bravissimi e merito è anche di un movimento che sta crescendo anche se, come noto, il gioco d'azzardo è vietato in Israele nonostante sia l'hub di grossissime società di gambling. E il poker, tornei e cash, erano considerati azzardo. Adesso, però, esiste una proposta di legge studiata da Likud MK Sharren Haskel che dovrebbe passare il vaglio dei rappresentanti del Paese consentendo lo sviluppo del settore.
Un passo in avanti notevole se si considera che alcuni players erano stati anche condannati ad un anno di reclusione per aver organizzato eventi e avervi partecipato.
Proprio sulla base di una di queste sentenze della Corte Suprema si è stabilito che il poker è un gioco di abilità, piuttosto che di pura fortuna, e quindi dovrebbe e potrebbe essere permesso. Il disegno di legge Haskel, non a caso, mira a legiferare sulla sentenza.
"Il fatto che i giocatori partecipino a competizioni e tornei anno dopo anno rafforza la conclusione che non si tratta di un gioco di fortuna", ha scritto il giudice della Corte Suprema Neal Hendel. Insomma, la continuità di partecipazione implicherebbe, secondo il togato israeliano, proprio il fatto che l'abilità possa giocare un ruolo primario. Una considerazione semplicistica, se vogliamo, ma che non era mai stata utilizzata per definire di abilità il gioco del poker.
Il disegno di legge regolamenterebbe una Associazione dei giocatori di poker israeliani e permetterà di organizzare tornei nazionali e internazionali. Il ministero delle finanze avrebbe il controllo generale sul poker in Israele e tasserà i guadagni.
Come detto gli israeliani hanno avuto successo negli anni nei migliori tornei di poker del mondo. Il più vincente è Timur Margolin di Ramle, con un guadagno di $ 1,742,590, di cui oltre $ 150,000 alle ultime World Series of Poker.
Il miglior giocatore di poker ebreo del mondo è considerato Erik Seidel di Las Vegas, i cui guadagni superano i $ 34.500.000 ed è stato incluso nella Poker Hall of Fame.
"Gli sportivi israeliani portano rispetto e orgoglio allo stato nelle competizioni internazionali", ha affermato Haskel. "Ora che la Corte Suprema ha stabilito che i giocatori di poker sono atleti e non giocatori d'azzardo, dovrebbero essere autorizzati a praticare questa disciplina nella loro terra".
(Gioconews Poker, 5 novembre 2018)
Tunisia: un tribunale impedisce a cittadini israeliani di partecipare a un forum internazionale
TUNISI - Un tribunale di primo grado tunisino ha emesso una sentenza che impedisce al Movimento degli scout di accogliere partecipanti israeliani e rappresentanti del Forum internazionale degli scout ebrei all'incontro internazionale degli ambasciatori per il dialogo interreligioso in programma nella città tunisina di Hammamet dal 4 all'8 novembre.
In un comunicato stampa, il Movimento degli scout tunisini ha riaffermato il rispetto assoluto della decisione della corte, emessa sotto il carattere dell'urgenza, "per rispetto dell'istituzione giudiziaria". Il movimento ha aggiunto di non aver inviato alcun invito a nessun partito israeliano per l'incontro, organizzato con l'assistenza dell'Unione internazionale degli scout musulmani.
Venerdì scorso il Partito repubblicano tunisino ha rilasciato una dichiarazione in cui si chiede alle autorità nazionali di sostenere "la resistenza araba e i partiti che rifiutano la normalizzazione dei rapporti con il sionismo" e ha presentato una petizione al tribunale tunisino per impedire la partecipazione degli scout israeliani invitati al forum di Hammamet.
(Agenzia Nova, 5 novembre 2018)
Si riapre il problema dei confini tra Israele e Giordania
di Vito Di Ventura
Tra Israele e la Giordania esiste un Accordo, firmato 25 anni, fa per la gestione dei territori giordani dati in uso agli israeliani. Tale Accordo scade il prossimo 10 novembre e prevedeva il tacito rinnovo qualora la Giordania non comunicasse la sua cessazione prima della scadenza. Cosa che il Re di Giordania, Abd Allah II, ha fatto, comunicando, appunto, che, "per interessi nazionali", non avrebbe rinnovato la concessione in uso.
Si tratta dei territori di Baquora, vicino al Lago di Kinnerret (Mare di Galilea), posta alla confluenza tra il fiume Yarmouk e il Giordano, e parte dell'area di Tzofar (al Ghamar) a sud del deserto di Wadi Araba, dove agricoltori israeliani hanno grandi piantagioni.
L'Accordo faceva parte del Trattato di pace firmato il 26 ottobre 1994, e ratificato due anni dopo l'incontro tra Re Husayn e il Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, a Washington dal 1992. Ma oggi il Trattato di pace è largamente impopolare tra i giordani che sono a favore dei Palestinesi, e, di conseguenza, il rinnovo dell'accordo in questione trova forte opposizione, soprattutto da parte del Fronte Islamico d'azione (Islamic Action Front - IAF) - braccio politico dei Fratelli Musulmani in Giordania - unico partito di opposizione presente in Parlamento.
Egitto e Giordania sono gli unici Paesi arabi che hanno stipulato un Trattato di pace con Israele. Il trattato di pace israelo-egiziano fu firmato il 26 marzo 1979 a Washington, a seguito degli accordi di Camp David del 1978.
Israele ha chiesto di rinegoziare tale accordo e di aprire un tavolo delle trattative, ma non si sa se e quando questo avverrà.
La ridiscussione dell'Accordo di concessione dei territori è legata alla situazione molto instabile nell'area, in particolare ai confini con la Palestina e i fatti di Gaza, che sono in relazione con quanto avviene in Giudea e Samaria. Una situazione molto esplosiva e che pone il Re di Giordania in una posizione molto delicata.
di Vito di Ventura
(Italnews, 5 novembre 2018)
La politica europea verso l'Iran: stupida e masochista
Neanche gli attentati iraniani sul suolo europeo bastano a cambiare l'appoggio dell'Unione Europea agli ayatollah
di Ugo Volli
UE e Iran. Il cretino, secondo una vecchia battuta, è colui che danneggia gli altri senza neanche procurare un vantaggio a se stesso. Il masochista è colui che si danneggia da solo, per sua iniziativa, senza che questo assicuri agli altri un vantaggio (se lo facesse per gli altri, sarebbe un altruista). Dopo questa premessa sulle forme di stupidità, penso di essere autorizzato ad affermare che l'Unione Europea ha lo sgradevole primato di una politica insieme cretina e masochista - potremmo dire ideologica, perché spesso l'ideologia è un modo di farsi inutilmente del male sostituendo alla realtà i propri sogni.
Vediamo l'ultimo esempio, naturalmente ignorato dai media. La Danimarca, che è un posato paese nordico, non un demagogico propagandista "islamofobo", ha fatto sapere di aver richiamato il proprio ambasciatore a Teheran e di aver arrestato un cittadino iraniano, perché aveva avuto le prove che l'Iran preparava un attentato sul suo territorio contro i suoi stessi emigrati. Sembra che nello smascheramento dell'attentato ci sia stata una collaborazione delle autorità danesi col Mossad. La Danimarca ha anche chiesto la solidarietà europea e ha ottenuto uno scarno comunicato.
Non è la prima volta. Un mese fa era stato sventato un attentato organizzato dall'Iran in Francia a Villepinte, poco lontano da Parigi, per colpire un raduno di oppositori della Repubblica islamica, in seguito a cui era stato emesso un congelamento per sei mesi dei beni in Francia di due cittadini iraniani e del ministero per la Sicurezza e l'Intelligence di Teheran. Nell'attentato era coinvolta una rete molto importante. Ci sono stati due arresti in Belgio ai danni di una coppia di iraniani forniti di esplosivi e detonatori, è stato coinvolto un diplomatico iraniano a Vienna e uno in Germania. L'Iran del resto non è nuovo al terrorismo, alcuni dei suoi massimi dirigenti sono stati indagati dalla giustizia argentina come responsabili dell'attentato che fece un centinaio di vittime vent'anni fa, e che fu poi coperto con una trattativa a livello presidenziale. L'Iran direttamente o attraverso le sue marionette di Hezbollah è stato coinvolto in attentati contro cittadini israeliani in Bulgaria, Cipro, Thailandia, India. Non parliamo qui di quel che avviene in Medio Oriente e in particolare in Israele e ai suoi confini. Basta dire che chi comanda le operazioni terroristiche di Hamas e Hezbollah, della Jihad Islamica e degli Houti è proprio l'Iran. Questo è quel che si sa dai giornali. Possiamo immaginare che, come sempre in questi casi, ci siano molte azioni coperte e molti tentativi di attentati che sono tenuti segreti per non bruciare le fonti.
Il fatto chiaro è che l'Iran non rispetta la sovranità nazionale, si riserva di usare l'Europa come obiettivo terroristico, usa la propria struttura diplomatica come rete logistica di appoggio per le proprie azioni illegali. Chiunque si trovi sulla sua strada in qualunque paese deve temere di essere vittima di un atto criminale. A differenza degli attacchi targati Isis, ma di solito frutto di gruppi islamisti debolmente collegati, qui c'è un coordinamento preciso, un comando militare che usa i canali di stato per organizzare il terrorismo.
E l'Europa come reagisce? Continua la sua politica di protezione dell'Iran, il suo tentativo di aggirare le sanzioni americane, che entrano da questi giorni nella seconda fase più dura. Qualche esempio:
"'Deploriamo profondamente il ripristino delle sanzioni contro l'Iran da parte degli Stati Uniti, in seguito al ritiro di questi ultimi dal Piano congiunto d'azione globale (Jcpoa)': lo hanno dichiarato in una nota i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Regno Unito, insieme all'alto rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini."
"Nell'ambito dell'assemblea Onu la PESC Mogherini ha incontrato la leadership Iraniana ed assieme hanno concordato la creazione di SPV, Special Purpose Vehicle , per regolare i pagamenti con l'Iran, a cui parteciperebbe la UE (Francia e Germania in testa) con Cina e Russia e che non ha nessun contatto con l'economia ed il sistema finanziario USA, diventando quindi non sottoponibile a ritorsioni.".
In un video Mogherini annuncia l'iniziativa pro-Iran e anti-America. C'è il piccolo dettaglio che l'Europa non è in grado di mantenere questi impegni, perché gli Usa sono l'economia più importante del mondo e nessuna impresa oserebbe escludersi da quel mercato per avere l'Iran come cliente e compiacere Mogherini. L'Unione Europea è masochista, fa solo danno alla sua credibilità e mostra ai suoi nemici che possono colpirla impunemente, ma le grandi imprese ragionano in maniera diversa.
Israele cerca di spiegare all'Europa come questa politica va contro i suoi stessi interessi: " 'L'Iran è la minaccia più pericolosa per la civiltà occidentale, molto più dello Stato Islamico e di qualsiasi altro gruppo terrorista islamico'. A lanciare il monito all'Europa è stato pochi giorni fa il Premier israeliano,Benjamin Netanyahu, a margine di un forum tenutosi in Bulgaria." E poi: "Questo non è solo un incontro di amici, ma serve, naturalmente, per rafforzare i rapporti con ciascuno di questi paesi. Ma è anche un blocco di paesi con cui voglio cercare di cambiare l'atteggiamento ipocrita e ostile dell'Unione europea".
Non è probabile che a Bibi riesca anche questo miracolo politico. Ma forse a licenziare Mogherini e le sue politiche masochiste ci penseranno gli elettori europei, fra qualche mese.
(Progetto Dreyfus, 6 novembre 2018)
Fatah acconsente ad accordo mediato da Egitto per sedare violenze tra Israele e Hamas
Il partito Fatah, che governa l'Autorità Palestinese, ha ufficialmente dato il permesso ai negoziatori egiziani di mediare un accordo volto a sedare le violenze tra Israele e le fazioni guidate da Hamas nella Striscia di Gaza.
Domenica 4 novembre, fonti palestinesi di alto livello hanno dichiarato che i funzionari del Fatah hanno dato la loro approvazione all'Egitto durante un incontro con i leader di Hamas tenutosi al Cairo. Alla riunione hanno partecipato due membri del Fatah Central Committee, Azzam al-Ahmad e Hussein al-Sheikh, che è anche un confidente del presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas.
Sabato 27 ottobre, i militanti palestinesi e Israele avevano raggiunto un patto, grazie alla mediazione dell'Egitto, che prevede un cessate-il-fuoco. Inoltre, il 3 novembre, il presidente dell'Egitto, Abdel Fattah al-Sisi, aveva chiesto ad Abbas di accettare l'accordo graduale di riconciliazione con Hamas.
Secondo le fonti palestinesi, gli sforzi dell'Egitto sono volti soltanto a raggiungere la calma fra Gaza e Israele e non sono considerati un accordo formale o un cessate-il-fuoco, che può essere formulato, a loro dire, solamente dopo la riconciliazione palestinese. I funzionari palestinesi hanno dichiarato, inoltre, che l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che Abbas presiede, è l'unico partito legittimo in grado di negoziare una tregua con Israele. Negli ultimi anni, sia Fatah che Hamas avevano firmato diversi accordi, incluso un patto sponsorizzato dall'Egitto, nel 2017, per portare Gaza sotto un unico governo e migliorare i tentativi di riconciliazione, ma entrambe le parti non hanno mai reso effettivi gli accordi.
Il Fatah si è accordato per un piano a due fasi, grazie al quale nelle prossime 2 settimane i cittadini di Gaza metteranno fine alle proteste, che vanno avanti dal 30 marzo, giorno della Marcia del Ritorno. In cambio, Israele permetterà ai convogli del Qatar di portare il petrolio nell'enclave per rifornire la centrare elettrica e eliminerà parzialmente alcune sanzioni. Il nuovo accordo per il cessate-il-fuoco, supervisionato da Nazioni Unite e Russia, avrà durata di 3 anni e aiuterà ad alleviare profondamente il blocco sull'enclave. Il gruppo terroristico sarà obbligato a punire i cittadini di Gaza che dimostrano violentemente lungo la frontiera con Israele. In cambio, l'Egitto aprirà in modo permanente l'attraversamento di confine di Rafah ed eliminerà il 70% del suo blocco sulla Striscia. Secondo l'accordo, Israele dovrà garantire 5.000 permessi lavorativi per i cittadini di Gaza ed espandere la zona di pesca da 9 a 14 miglia nautiche. Infine, l'Autorità Palestinese dovrà pagare l'80% dei salari dei funzionari di Hamas, e non farà obiezioni al Qatar, che finanzierà tali stipendi per almeno 6 mesi. Dopo che l'accordo sarà attuato e si sarà consolidato, l'Egitto comincerà a lavorare per arrivare a uno scambio di prigionieri tra Hamas e Israele.
Inoltre, nei prossimi 6 mesi, se la situazione si manterrà tranquilla, verranno cancellate ulteriori restrizioni, con l'obiettivo di ritornare al cessate-il-fuoco in vigore nel 2014 che aveva messo fine all'ultimo maggiore alterco tra Israele e i gruppi guidati da Hamas a Gaza.
Hamas, un gruppo terroristico islamista che si è posto come obiettivo distruggere Israele, controlla Gaza dal 2007 e, da allora, rimane profondamente in disaccordo con il Fatah. Tel Aviv considera il gruppo responsabile di tutti gli attacchi provenienti dalla Striscia.
(Sicurezza Internazionale, 5 novembre 2018)
Vescovi di Terra Santa: la legge su Israele "Stato ebraico" va ritirata
I vescovi cattolici di Terra Santa, in una dichiarazione chiedono a Israele che la legge sullo "Stato-Nazione" adottata dal Parlamento venga abrogata in quanto contraddice i canoni umanistici e democratici rintracciabili nella stessa legislazione israeliana.
La legge sullo "Stato- Nazione" adottata dal Parlamento israeliano lo scorso il 19 luglio 2018, che definisce Israele "Stato-Nazione" del popolo ebraico, va abrogata in quanto contraddice i canoni umanistici e democratici rintracciabili nella stessa legislazione israeliana, e anche le leggi e le convenzioni internazionali di cui Israele è firmatario, volte a tutelare e promuovere "i diritti umani, il rispetto della diversità e il rafforzamento della giustizia, dell'uguaglianza e della pace". Lo richiedono unanimi - riporta l'Agenzia Fides - i vescovi cattolici di Terra Santa, in una dichiarazione sottoscritta, tra gli altri, anche dall'arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, Amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme - e padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa. La nuova legge fondamentale - notano i rappresentanti delle comunità cattoliche presenti in Terra Santa introduce elementi di discriminazione tra i connazionali israeliani, in quanto riserva una particolare sollecitudine nel garantire il "benessere e la sicurezza" dei cittadini ebrei dello Stato d'Israele.
I cittadini ebrei sono privilegiati rispetto ad altri
"I nostri fedeli, cristiani, e i loro compagni musulmani, drusi e baha'i, tutti noi arabi" si legge nella dichiarazione "non sono meno cittadini di questo Paese dei nostri fratelli e sorelle ebrei". I vescovi cattolici riconoscono che fin dalla proclamazione d'indipendenza d'Israele era stata avvertita una tensione interna alla formula che definiva lo Stato israeliano come nel contempo "ebraico" e "democratico". Nella continua dialettica per conservare un equilibrio tra questi due termini, l'emanazione della Legge fondamentale del 1992 sulla dignità umana e la libertà da parte della Knesset aveva rappresentato "un passo importante" per garantire i cittadini d'Israele da ogni forma di discriminazione. Ma adesso, la nuova Legge fondamentale su Israele "Stato ebraico", approvata nel luglio 2018, anche se "cambia molto poco nella pratica, fornisce una base costituzionale e legale per la discriminazione tra i cittadini israeliani, affermando chiaramente i principi in base ai quali i cittadini ebrei devono essere privilegiati rispetto ad altri cittadini".
La legge non tratta i cittadini d'Israele con uguaglianza
In contrasto con tali potenziali derive discriminatorie - insistono i vescovi e i rappresentanti cattolici di Terra Santa - "cristiani, musulmani, drusi, baha'i ed ebrei chiedono di essere trattati come cittadini uguali. Questa uguaglianza deve includere il rispettoso riconoscimento delle nostre identità civiche (israeliane), etniche (palestinesi arabe) e religiose (cristiane), come individui e come comunità".
(Vatican News, 5 novembre 2018)
Stato dellIran e Stato del Vaticano sono due stati religiosi che hanno atteggiamenti simili verso lo Stato laico dIsraele: tutti i due vorrebbero ardentemente che sparisse, con la differenza che il primo lo dice e si prepara a farlo, mentre il secondo non lo dice e aspetta speranzoso che qualcun altro lo faccia per lui. M.C.
Teheran, in fiamme le bandiere Usa, ma le sanzioni adesso fanno paura
di Francesca Paci
TEHERAN - Marg bar Amrica!. Morte all'America! Ore 10 del mattino, stazione della metro Taleghani, centro di Teheran. Gli slogan sono quelli di sempre, l'invocazione all'annientamento degli Stati Uniti e di Israele che accompagnata dal falò delle rispettive bandiere si compie ogni 4 novembre per commemorare la presa dell'ambasciata a stelle e strisce nel 1979. Ma oggi, nel corteo organizzato come ogni anno dall'Organizzazione della propaganda islamica, c'è una rabbia diversa, retorica e orchestrata secondo copione ma più attuale. L'ombra cupa della seconda e più pesante ondata di sanzioni in vigore da domani (stamattina per chi legge) grava da giorni sulla capitale e sul Paese, un countdown da chiamata alle armi per gli irriducibili e da corsa al bancomat per tutti gli altri.
«Resisteremo, insciallah!» giura un uomo sui quaranta appena sceso dal pullman che si accoda all'infinita doppia fila parcheggiata sul laterale viale Moffateah. Arrivano a centinaia, i bambini delle scuole in tenuta da karate o in divisa militare, le studentesse con il lungo chador nero d'uniforme, gli impiegati e le impiegate rigorosamente separati ma tutti con il cartello «Down with Usa» che moltiplica la scritta, ancora ben visibile dopo quasi otto lustri, sulla fiancata dell'edificio in cui i sostenitori di Khomeini diedero l'assalto al Grande Satana.
Sabato sera il leggendario generale Soleimani ha scritto su Instagram «Io ti affronterò», rispondendo alla minaccia di Trump, e oggi il suo esercito popolare è qui, riceve dalle mani degli organizzatori un'abbondante scodella di adassi, la zuppa di lenticchie offerta a tutti i partecipanti, e marcia avanti e indietro su corso Taleghani, «Amadeim!», siamo pronti!
«Non ci aspettavamo nulla, è la solita America che sosteneva lo Scià prima e poi Saddam Hussein» incalza un signore sui sessanta, barba, camicia marrone abbottonatissima e ciabatte. Alle sue spalle gli studenti srotolano lo striscione «We are undefeated», siamo imbattuti.
A dire il vero la preoccupazione che la realtà di un Paese da 80 milioni di abitanti sia un po' diversa da questo corteo di centinaia di migliaia di persone agguerritissime non turba solo il sonno della classe media e medio alta di Teheran. «Questa volta gli Stati Uniti fanno sul serio» ammette un funzionario governativo in sede molto separata. Per una volta i giornali del 4 novembre non parlano dell'archetipo Stati Uniti ma di un avversario concreto che, a torto o a ragione, sta scommettendo sull'implosione sociale di un Iran già gravato dall'inflazione alle stelle e da un 2018 marchiato dagli scioperi dei camionisti, degli insegnanti e dei commerciati strangolati dalla svalutazione del rial.
«Trump insiste e l'Europa resiste» titola il riformista Scharq, un quotidiano praticamente introvabile tra le fila dei manifestanti di Taleghani. Anche Iran, la testata governativa più vicina al presidente Rouhani, scommette sul potenziale assist di Russia e Ue enfatizzandone la distanza da Washington. Ma sotto il braccio di quelli che sventolano la resistenza a oltranza si scorge piuttosto Kheiran, il foglio dei falchi, dove oltre al vaticinio della Guida Suprema sul presunto prossimo tracollo a stelle e strisce si auspica addirittura il rilancio, l'abbandono di qualsiasi prossimo venturo tavolo negoziale, a la guerre comme a la guerre.
I toni, dalla piazza alla tivù, si alzano fino a sera, con il buio la città si avvolge di nuovo nell'ansia mesta di questi ultimi giorni. «Tempo un paio d'ore e invece di 15 mila rial ce ne vorranno 50 mila per comprare un euro» confida a bassa voce il custode della moschea dell'Imam Zade Saleh, nel mercato ortofrutticolo di Tajrish. Il conto alla rovescia è arrivato alla fine.
(La Stampa, 5 novembre 2018)
1933-1938: il fascismo voleva una Palestina araba senza ebrei
di Giordana Terracina
Nell'ambito del Master Internazionale di Secondo Livello in Didattica della Shoah dell'Università di Roma Tre, di cui il professor David Meghnagi è direttore, ho potuto ricostruire - mediante uno studio dei documenti dell'Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri - i rapporti tra i capi delle rivolte arabe e il Governo Fascista. Notizie se ne traggono dai telegrammi, dai telespressi e dai tanti appunti stilati dalle varie autorità italiane, che ebbero contatti diretti con i diversi protagonisti musulmani.
Il punto primo documento è datato 23 ottobre 1933 e riporta l'incontro del Gran Muftì con l'Italia, per arrivare in conclusione al 1939, con la fuga del capo religioso in Iraq, a Bagdad 1'11 novembre. L'intenzione è quella di illustrare l'apporto italiano al nascente nazionalismo arabo, in armi e denaro, teso a far risaltare le responsabilità fasciste nelle rivolte e nella stesura del Libro Bianco del maggio 1939, diretto a limitare l'immigrazione ebraica in un periodo buio della storia della persecuzione antisemita. Una lettura che permette, inoltre, di considerare le implicazioni nello scenario mediorientale dell'emanazione delle leggi antiebraiche del 1938 avvenuta in Italia e dell'alleanza del gran Muftì di Gerusalemme con le Potenze dell'Asse.
Il motivo scatenante di queste nuove tensioni nel 1933, fu ricondotto, come si evince dalle parole del Console Generale di Gerusalemme De Angelis, all'immigrazione ebraica e alla conseguente vendita di terreni arabi agli ebrei giunti in Palestina. Si legge "il denaro sionista finisce quindi per essere un'esca pericolosa, tanto più pericolosa ed allettante quanto più povera è la situazione contingente del proprietario arabo; è l'inebriante che prepara lo squallore morale e materiale". Gli arabi avvertirono tutto questo e si agitavano, chiedendo al Governo una legge che vietasse il passaggio delle terre agli ebrei. Davanti alla prospettiva di una nuova e numerosa ondata di ebrei tedeschi e di una pressione violenta, da parte sionista per l'allargamento dei varchi della Palestina, gli arabi palestinesi si unirono in uno sforzo di difesa e reclamarono la chiusura dell'immigrazione ebraica. Altra conseguenza di questo arrivo di immigrati, fu l'impossibilità di costruire qualsiasi nucleo dell'organismo statale, in quanto la continua alterazione spostava il rapporto numerico tra i due principali fattori della popolazione, ne alterava di continuo la natura e la fisionomia, non permettendo alcun tentativo di comporre anche in forme politiche la vita del Paese. La visione delle autorità italiane, stimava intorno al 40% la presenza ebraica sufficiente per ottenere il controllo assoluto di tutto il Paese, sopraffacendo l'elemento arabo. Il Governo italiano, come si evince da un appunto diretto a Mussolini del Gabinetto del Ministero degli Affari Esteri, decise di muoversi lungo la linea tracciata dal Console. In seguito ad una visita dei due capi arabi, Shekib Arslan e El Giabri, venne infatti ribadita la promessa di aiuti per 2 milioni all'anno, per un periodo di 3-4 anni, di cui già versati circa mezzo milione. L'azione diplomatica italiana si snoda poi su diversi piani. Il primo, prevedeva un'azione diplomatica, intenta a favorire, nelle conferenze internazionali, la tendenza all'indipendenza araba. Il secondo, un'azione politica, di concerto con il comitato di agitazione panarabico, che voleva organizzare il movimento all'interno dei vari Paesi arabi. Ed infine, un'azione diretta, con azioni violente miranti alla conquista della libertà dei popoli arabi per le quali si richiedevano rifornimenti di armi e munizioni. Va detto, per inciso, che il Governo fascista - nonostante la simpatia del Duce per l'indipendenza araba - tenne una posizione di massima prudenza davanti alla scelta della leadership araba di intraprendere l'opzione del terrorismo per contrastare l'immigrazione ebraica. Molte saranno però le sovvenzioni promesse e versate, così come le armi e le munizioni fornite in aiuto dei rivoltosi arabi. Gli avvenimenti si svolsero all'interno della cornice politico-sociale rappresentata dai diversi rapporti delle Commissioni Reali inglese che si sono succeduti, dal Rapporto Peel sulla spartizione della Palestina ed infine dal Libro Bianco. L'origine dei documenti e delle personalità nominate, mostra come la partecipazione italiana si sia mossa su più livelli, coinvolgendo differenti Ambasciate e Consolati fino ad arrivare al Capo del Governo Mussolini passando per il Ministro degli Affari Esteri Ciano.
(Shalom, ottobre-novembre 2018)
Sionisti italiani anni '30 tra fascismo e antifascismo
Verso il 1926-27 andò organizzandosi in Italia un gruppo di sionisti detti revisionisti che ebbero poi il loro organo di stampa nell'«Idea sionista», fondata nel maggio del 1930 e che si rifacevano alle posizioni anti-inglesi del sionista di origine russa Zeev Jabotinski. Questi aveva dato vita nel 1923 alla frazione revisionista del sionismo col programma di accelerare, subordinando tutto a questo scopo, la nascita dello Stato ebraico che avrebbe dovuto estendersi a tutta intera la Palestina; un programma da perseguire combattendo contro il dominio inglese nella regione. Jabotinski accentuò certi caratteri presenti anche nel sionismo generale, intesi a creare "l'uomo nuovo", l'ebreo energico e dominatore, radicalmente diverso dalla figura dell'ebreo cosmopolita e decadente. Egli non era certo un fascista, ma considerava i principi liberali nella cui cornice era nato il sionismo, e nei quali egli stesso credeva, con una spregiudicatezza tale da poterli rinnegare se non si fossero dimostrati funzionali al nazionalismo da lui perseguito.
L'attenzione di Mussolini, pur rivolta a tutto il movimento sionista, si concentrò in particolare sulla frazione revisionista a partire dal 1932 e si concretizzò nel 1934 con una vera e propria intesa, in forza della quale Jabotinski inviò alla Scuola marittima di Civitavecchia un gruppo di allievi, destinati ad essere il primo nucleo della marina militare del futuro Stato ebraico. I corsi addestramento presso la Scuola di Civitavecchia continuarono annualmente fino al 1938, ma già dal 1936-37 le frequenze andarono diminuendo.
Dunque, in Italia anche i sionisti erano in maggioranza fascisti o filofascisti o, comunque, non si distinguevano dall'ossequio verso il regime periodicamente manifestato dai dirigenti ufficiali dell'ebraismo. Non mancarono però le eccezioni; e queste anzi furono più numerose che negli assimilati. Gli antifascisti furono molti di più fra i sionisti che fra gli assimilati. Si trattava però di un antifascismo generico, per cui non mancarono casi di giovani, come Eugenio Colorni e Enzo Tagliacozzo, che abbandonarono il sionismo perché attratti da un antifascismo più rigoroso di quello dei sionisti.
L'esempio più noto di unione fra sionismo e antifascismo è quello dei fratelli Enzo e Emilio Sereni, entrambi sionisti socialisti. Emilio abbandonò molto presto il sionismo in nome, se così può dirsi, di un sionismo dell'umanità che gli parve di aver trovato nel comunismo, sentito con una fede dogmatica superiore ancora a quella con la quale, nei primi anni giovanili, aveva sentito l'ortodossia ebraica. Enzo invece, primo ebreo italiano, si trasferì in Palestina nel 1927. Ma, come il fratello, anche lui pensava all'umanità, intendeva il sionismo, la liberazione della nazione ebraica, come primo passo di un'utopia liberatrice delle genti. Nel kibbutz con i compagni di lavoro cantava l'Internazionale. Compito del sionismo era trasformare l'ebreo borghese in un contadino e in un operaio. Anche lui, nel corso della Seconda guerra mondiale, avvertì il richiamo dell'antifascismo e della patria di origine, rientrò in Italia, fu catturato dai tedeschi, torturato e deportato a Dachau dove incontrò la morte.
Nel 1927, l'anno stesso del suo trasferimento in Palestina, Sereni spiegò in un articolo come mai lui, profondamente laico e razionalista, aveva riconquistato piena coscienza della propria ebraicità. Non si nascondeva che ciò aveva comportato anche un prezzo, «un senso di soffocamento della mia personalità». Ma c'era «insieme un desiderio di liberazione, di libera esplicazione della mia attività umana, la sensazione di non poter essere completamente un uomo senza essere un uomo ebreo». Enzo riteneva che la cultura ebraica doveva misurarsi con la riforma filosofica e religiosa promossa da Croce, da Gentile, da Buonaiuti e (cosa che a noi suona curiosa) da padre Gemelli. Intendeva promuovere una cultura ebraica che, incardinata in quella italiana, desse vita a un modernismo ebraico parallelo a quello cattolico di Buonaiuti e a quello protestante di Gangale. Prima di abbracciare il sionismo il giovane Enzo era stato sul punto di farsi cristiano. C'era in lui un intreccio di razionalismo e religiosità, «un nocciolo contraddittorio e ambiguo», messo in evidenza da Augusto Segre, che ne ha tracciato un bel ritratto.
L'adesione alla identità ebraica aveva avuto per Enzo Sereni un costo, «un senso di soffocamento» della personalità, forse non molto diverso da quello che il fratello aveva pagato per aderire al comunismo. Ma Enzo proseguiva con una affermazione che certamente Emilio non avrebbe mai fatto a proposito del comunismo: essere ebreo, scrisse nell'articolo citato, «non è definibile negli schemi razionalistici della nostra mente». Sereni scr1sse anche:«l'ebraismo non si esaurisce nella Torà di Alfonso Pacifici né in nessuno dei contenuti in cui lo ha voluto fissare Rosselli (nel 1924): ogni nostro tentativo di definirlo fallisce». Anche per Sereni l'ebraicità era in definitiva un mistero; un mistero che trovava la sua spiegazione solo sul piano morale, in un approfondimento interiore alla coscienza, in un rigore etico da realizzare in primo luogo nel privato per poi diffondersi nella politica.
(Notizie su Israele, 5 novembre 2018)
Potente attacco informatico alle strutture iraniane: sospetti su Israele
L'Iran ha ammesso ieri sera di aver subito un potente attacco informatico che Gholam Reza Jalali, capo dell'agenzia di difesa civile iraniana, ha definito come «molto più potente di quello portato con virus Stuxnet», quello che per intenderci mise in ginocchio e rallentò il programma nucleare iraniano.
Non sono chiari i danni subiti dalle strutture iraniane né se l'attacco informatico ha avuto in qualche modo successo. Jalali ha detto che i tecnici iraniani «sono riusciti a fermare un attacco portato contro le strutture e i sistemi iraniani attraverso un virus molto più potente di Stuxnet» ma non ha specificato se nel frattempo questo virus abbia creato danni.
Il dito accusatorio iraniano viene immancabilmente puntato soprattutto su Israele, ma tra i sospetti di questo attacco informatico ci sono anche gli USA. E' stato il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, a evidenziare come la coincidenza tra questo attacco informatico e la ripresa delle sanzioni americane faccia pensare che dietro ci sia Washington.
Da Israele tutto tace. Secondo Eyal Wachsman, CEO della società israeliana di sicurezza informatica Cymulate, si potrebbe trattare di una sorta di attacco preventivo. «Con la ripresa delle sanzioni gli iraniani si potrebbero sentire messi all'angolo e reagire con un attacco alle reti informatiche» ha detto Wachsman. «Ultimamente l'Iran non ha attaccato solo con le armi ma ha anche affinato la sua capacità offensiva di tipo cibernetico ed è quindi probabile che "qualcuno" abbia pensato di intervenire prima».
Nel 2011 il virus Stuxnet colpì le reti iraniane legate al programma nucleare e rallentò notevolmente lo sviluppo del programma nucleare. L'anno dopo fu la volta del virus Flame che attaccò le reti informatiche iraniane schierate a difesa del programma nucleare, poi seguirono i virus Dugu e Narilam. Nessuno si è mai assunto la paternità di questi attacchi informatici anche se è opinione comune che dietro a questi attacchi vi sia la famosa Unità 8200, una unità d'elite della intelligence militare israeliana che oltre a difendere le reti informatiche israeliane ha il compito di colpire le reti nemiche.
(The World News, 4 novembre 2018)
Ministro di Oman: "Israele appartiene al Medio Oriente: da qui sono venuti la Torah e i profeti"
"Il miglioramento delle relazioni tra Israele e i suoi vicini è possibile e porterebbe stabilità al Medio Oriente a vantaggio sia dei palestinesi che degli israeliani"
intervenendo al "2018 Manama Dialogue" organizzato a fine ottobre nel Bahrain dall'International Institute for Strategic Studies, il ministro degli esteri dell'Oman, Yusuf bin Alawi bin Abdullah, ha dichiarato: "Israele è uno dei paesi della regione, tutti lo sappiamo e lo capiamo. Forse è ora che Israele abbia gli stessi privilegi e gli stessi doveri degli altri paesi" del Medio Oriente. Il ministro omanita ha aggiunto che il miglioramento delle relazioni tra Israele e i suoi vicini è possibile e porterebbe stabilità al Medio Oriente, a vantaggio sia dei palestinesi che degli israeliani. L'importante presa di posizione è giunta sulla scorta della visita ufficiale in Oman fatta dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo scorso 26 ottobre. Il video dell'intervento del ministro degli esteri dell'Oman è stato postato su internet il 27 ottobre....
(israele.net, 5 novembre 2018)
Un discorso di Abbas che mostra quale sia il vero senso del progetto palestinista
di Ugo Volli
Per lo "Stato di Palestina" i no di Abu Mazen a Israele sono solo un danno. E' sempre una buona regola prendere sul serio quel che dicono i nemici: non tanto quel che affermano in pubblico o le parole con cui cercano di rabbonirci ma ciò che dichiarano nella loro lingua, rivolti ai loro sostenitori. Perché se non ci credono (ma non date per scontato che non credano alle castronerie e alle parole d'odio insensato che dicono, non si diventa capi senza profonda convinzione e fanatismo), senza dubbio ci crede il loro pubblico e si darà da fare per realizzarlo. Le parole di un leader politico sono azioni, anzi possono essere armi, quando il leader comanda degli scalmanati o ha reso fanatici i suoi seguaci proprio con le sue parole.
Insomma, bisogna prendere alla lettera anche Mohamed Abbas, quel vecchio rancoroso e chioccio che guida l'Autorità Palestinese e starlo a sentire. Per esempio nell'ultimo comizio trasmesso dalla Tv, quello in cui ha dichiarato di non riconoscere più Israele e di interrompere ogni collaborazione. Sarà interessante vedere se rifiuterà anche le tasse riscosse per lui da Israele, se cambierà moneta, se rinuncerà ad acqua ed elettricità, soprattutto se non starà a sentire le soffiate dei servizi che gli permettono di evitare di farsi eliminare dai suoi cugini di Hamas. E' chiaro che questo gesto, esattamente come le sanguinose manifestazioni di Hamas è uno sfogo al sentimento di impotenza che la dirigenza palestinista (e purtroppo in parte anche la popolazione araba) prova nel vedere la "questione palestinese" ormai uscita dall'agenda politica internazionale, rimasta solo uno strumento dell'imperialismo iraniano, mentre Israele stringe accordi e intesse relazioni coi loro ex protettori. Ma questo è un'altra storia.
Voglio concentrarmi invece su un altro brano del suo discorso, che grazie al preziosissimo istituto MEMRI trovate qui il
filmato con sottotitoli in inglese. Per vostra comunità ve lo ritraduco in italiano:
"Lo dico perché tutti possano sentire: i salari dei nostri martiri, i nostri prigionieri e i nostri feriti sono i punti in cui tracciamo la linea. Cercano di esercitare pressioni su di noi usando qualsiasi mezzo possibile. Stanno ancora esercitando pressioni, affermando che non dobbiamo effettuare questi pagamenti. Anche se alla fine sottraggono la somma che paghiamo ai martiri dai nostri soldi che sono trattenuti da loro, non [supereremo] quella linea rossa, e glielo abbiamo detto. Questo è stato un problema sacro per noi dal 1965. I martiri e le loro famiglie sono sacri. I feriti, i prigionieri - dobbiamo pagarli tutti. Anche se ci rimane solo un centesimo, lo daremo a loro a loro e non ai vivi."
Che cosa sta dicendo il presidente di Fatah (la più grande fazione palestinista) dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, dell'Autorità Palestinese (quel che loro chiamano "Stato di Palestina": è la carica pubblica, cui Abbas è stato eletto solo una volta dodici anni fa per un mandato di quattro anni e non si è più preso la briga di presentarsi a nuove elezioni)? L'ha già detto molte volte in molte sedi: che rifiuta di smettere di pagare lo stipendio ai terroristi condannati dai tribunali e alle loro famiglie se sono morti, anche se per questo evidente favoreggiamento del terrorismo gli Usa e Israele e perfino alcuni paesi europei gli stanno tagliando i fondi.
In altre parole, dato che il denaro è la misura del valore concreto delle cose, che "dal 1965" (cioè dalla fondazione dell'OLP, in realtà 28 maggio 1964), la cosa più importante è il terrorismo: finanziare, organizzare, onorare, appoggiare, propagandare chi ammazza gli ebrei. Tutto il resto, la costruzione di istituzioni statali (che non è stata realizzata quasi per nulla neppure dopo 25 anni da Oslo), il benessere dei sudditi della sua autorità, l'istruzione, la religione, i riconoscimenti internazionali, "l'amore per la Palestina" al confronto non conta nulla. Figuriamoci "la pace", che è il contrario del terrorismo. Lo scopo vero dell'OLP (e di Fatah, di Hamas, dell'Autorità Palestinese) è il terrorismo e specificamente di ammazzare più ebrei possibile. Per questo il palestinismo sta fallendo, perché gli ebrei sanno e vogliono difendersi e hanno creato uno stato che funziona sul piano economico, scientifico, culturale e militare; perché il mondo, nonostante tutto, non può appoggiare esplicitamente il progetto di una nuova Shoah e per dare una mano ai terroristi ha bisogno di pretesti sempre più difficili da costruire. Per questo il vecchio lamentoso e minaccioso di Ramallah, disprezzato dalla grande maggioranza dei suoi stessi sudditi e dai governanti arabi, è la metafora del fallimento della causa palestinista. Si può solo sperare, per il bene di tutti, che prima o poi arriverà una nuova generazione capace di voltare pagina e di darsi come scopo la crescita civile e sociale degli arabi di quei territori e disposta a fare i compromessi necessari.
(Progetto Dreyfus, 4 novembre 2018)
L'era di Ron, sindaco di spiaggia e di governo
Appena rieletto, guida da 20 anni Tel Aviv, tempio dei giovani
di Davide Fratttnl
TEL AVIV - La città e il suo sindaco sono più vecchi dello Stato d'Israele. Tel Aviv è ormai ultracentenaria eppure resta la bambina ribelle. Ron Huldai ne è il tutore da vent'anni e con la vittoria di martedì scorso Io resterà per altri cinque: cresciuto in un kibbutz, veterano delle tante guerre di questo Paese, lo accusano di essere burbero, ruvido e severo. Ma è stato lui a permettere che la metropoli sul Mediterraneo continuasse a fare dell'indisciplina creativa la forza e il fascino.
Questa volta ha dovuto affrontare candidati (anche il vice, in complesso edipico) molto più giovani dei suoi 74 anni e considerati più a sinistra, più attenti ai problemi di chi fatica a pagare gli affitti o non trova un asilo pubblico decente per i figli. Gli hanno scagliato addosso le stesse pietre politiche delle ultime quattro campagne elettorali: sarebbe un laburista al cava (come qui chiamano alla spagnola qualunque vino abbia le bollicine), un cripto-capitalista senza clemenza verso chi resta indietro nello sviluppo sfrenato della città che non si ferma mai. Huldai risponde offrendo le scuole come rifugio agli immigrati clandestini (mentre da Gerusalemme il governo di destra studia come buttarli fuori dalle frontiere), organizzando nuovi modelli di edilizia popolare (mentre quelli nazionali ritardano), insistendo a voler trasformare Tel Aviv nel compimento della visione di Theodor Herzl: «Una città liberale, pluralista, laica e il più possibile egualitaria. Dove gli arabi di Jaffa possano sentirsi parte della società. Herzl voleva fondare una nazione degli ebrei, in cui sono maggioranza, non uno Stato ebraico».
Gli editorialisti di Haaretz, il quotidiano in perdita di copie quanto la sinistra di elettori, sono convinti che rappresenti ormai l'unica opposizione ai quasi dieci anni di potere ininterrotto del primo ministro Benjamìn Netanyahu: «II sindaco deve persistere a fare di Tel Aviv l'alternativa agli ultranazionalisti e ai fanatici religiosi».
Nei prossimi cinque anni è probabile che continui con lo stesso metodo: «Non sono una guida, io assecondo e facilito. Il motore sono questi tecnoimprenditori ventenni, il mio compito è creare un ecosistema dove possano prosperare. Sono giovani, sono single, vogliono divertirsi la notte e hanno bisogno di uno spazio per incontrarsi e scambiare le idee». A Tel Aviv c'era già: la spiaggia. Che adesso è il lungomare con più wi-fi pubblici al mondo.
(Corriere della Sera, 4 novembre 2018)
"All'esame una docente era convinta che noi ebrei avessimo la coda"
Riflessioni sul film '1938: quando scoprimmo di non essere più italiani'. La testimonianza di Cesare Finzi
di Lucia Bianchini
1938: quando scoprimmo di non essere più italiani: basta il titolo- secondo Anna Quarzi-, a spiegare il significato del docufilm di Pietro Suber proiettato sabato 3 novembre al cinema Santo Spirito. All'incontro hanno partecipato, oltre al regista, Anna Quarzi, direttrice dell'Istituto di storia Contemporanea, Luciano Caro, rabbino di Ferrara, Cesare Finzi, e Andrea Pesaro, presidente della comunità ebraica di Ferrara.
Il film documentario ricostruisce le vicende che portarono dalle leggi antiebraiche alla deportazione degli ebrei italiani attraverso cinque storie raccontate in gran parte dai diretti protagonisti, vittime, ma anche persecutori. Il racconto procede anche attraverso immagini d'archivio e documenti d'epoca pubblici e privati.
"Questo film mi ha tirato fuori molte cose terribili - ha spiegato Cesare Finzi -: a otto anni il 3 settembre del 1938 ho letto un titolo di giornale che non ho più potuto dimenticare: insegnanti e studenti ebrei cacciati dalle scuole. A 13 anni all'esame di terza media una docente era convinta che noi ebrei avessimo la coda".
Ecco perché "ad un certo punto questi ricordi che mi hanno accompagnato per ottanta anni vengono a cambiare il pensiero di tutti i giorni: mi sono sempre chiesto perché mi sono salvato, perché a me è andata bene, e non sono mai riuscito a darmi una risposta. Se sono qui è perché tra l'8 e il 9 settembre del '43 sono stati arrestati i miei zii e la mia cuginetta Olimpia, una bimba di tre anni e mezzo che a quanto pare faceva paura al grande Reich, quindi appena lo ha saputo, il fratello di mia mamma è partito da Mantova per venire a Ferrara e ha convinto i miei genitori a scappare, così quando tra il 13 e il 14 novembre vennero a cercarci, non ci trovarono".
A preoccupare particolarmente è la parte finale del documentario, in cui il regista ha parlato della non conoscenza dei giovani rispetto ai temi trattati. "Gli italiani ancora non hanno fatto i conti con il loro passato - ha ribadito Luciano Caro -: il fatto che ancora ci siano centinaia di giovani che inneggiano al passato, o che si sia indifferenti di fronte a manifestazioni negative rispetto ad un passato recente e tragico, non testimonia in favore di un ottimismo verso il futuro".
Per il rabbino il filmato "ha un grande valore: un gerarca fascista disse che la guerra in realtà l'avevano vinta loro, perché una volta venuti a mancare i testimoni, sembrerà impossibile che sia successa una cosa simile. Questo documentario si pone come un tassello di valore in una storia molto più grande, per non dimenticare".
(estense.com, 4 novembre 2018)
Dopo aver fatto la purificazione dei peccati
Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, dopo aver fatto la purificazione dei peccati, si è seduto alla destra della Maestà nei luoghi altissimi.
Dalla lettera agli Ebrei, cap. 1
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Combattere ancora contro l'antisemitismo
di Bianca Damato
In un articolo del 2011 Il Fatto Quotidiano raccontava la commemorazione della marcia su Roma a Predappio, città natale di Benito Mussolini, come un evento per pochi nostalgici. Quell'anno i partecipanti erano solo 200 e, si affermava, il raduno aveva ormai perso ogni attrattiva. Anche l'anno successivo, il 2012, anno importante, in cui ricorrevano i 90 anni dalla marcia su Roma, il bilancio era di alcune centinaia di militanti. Quest'anno qualcosa è cambiato. I presenti alla commemorazione lo scorso 28 ottobre erano 2000. La manifestazione ha portato con sé non poche polemiche, in particolare la vicenda della t-shirt di Selene Ticchi, militante di Forza Nuova e in precedenza candidata sindaco di Budrio, in provincia di Bologna. Sulla maglietta c'era scritto "Auschwitzland" con lo stesso carattere della Disney, come se i campi di sterminio fossero in realtà un parco giochi o un luogo ameno. La Ticchi non ha nemmeno provato a giustificarsi, affermando che si trattava di "humor nero". I numeri citati prima e episodi di questo tipo dimostrano che nel 2018 stiamo ancora combattendo contro l'antisemitismo che probabilmente negli anni precedenti sembrava essersi ridotto, ma che ritorna oggi più forte che mai. Odio, paura e violenza sembrano essere all'ordine del giorno, i social sono diventati il luogo per eccellenza dove ci si sfoga o si vomitano insulti rivolti a chiunque.
Ma attenzione, non si tratta di un fenomeno "esclusivamente" italiano. Un altro avvenimento chiave della scorsa settimana è stata la strage, negli Stati Uniti, alla sinagoga di Pittsburgh, dove il 46enne Robert Bowers ha fatto irruzione, uccidendo undici persone e ferendone sei. Il killer sarebbe entrato nella sinagoga, durante il momento della preghiera, urlando "Tutti gli ebrei devono morire". Sappiamo che anche l'America non ha un rapporto facile con il popolo ebraico che negli anni è stato preso di mira dagli attacchi del Ku Klux Klan. Fenomeni di antisemitismo si verificano anche in Europa, soprattutto in Francia e Germania, al punto che, tre anni fa, l'allora Vice-Segretario Generale dell'Onu Jan Eliasson disse che nel continente l'antisemitismo era in preoccupante aumento.
Questa nuova marea di intolleranza è stata notata anche da Liliana Segre, senatrice a vita e sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti. Lo scorso 24 ottobre la Segre, insieme a Emma Bonino, ha deciso di agire presentando in Senato una proposta di legge per l'istituzione di una Commissione parlamentare di indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo e antisemitismo e istigazione all'odio e alla violenza. «Io che sono stata vittima dell'odio dell'Italia fascista sento che, dopo anni, sta ricrescendo una marea di razzismo e di intolleranza che va fermata in ogni modo: oggi una Commissione parlamentare è più necessaria che mai» ha dichiarato in conferenza stampa.
A proposito di lotta all'antisemitismo qualche giorno fa è venuto a mancare Lello Di Segni, ultimo sopravvissuto alla deportazione dal ghetto di Roma. Di Segni fu deportato insieme alla sua famiglia a Auschwitz-Birkenau. Lello ha sempre raccontato la sua esperienza per mantenere viva la memoria e, adesso che non c'è più, toccherebbe a tutti noi portare avanti il suo lavoro, per cercare di contrastare questa ondata di violenza che rischia di travolgerci a breve.
(InchiostrOnline, 3 novembre 2018)
La Sinagoga di Brooklyn profanata con graffiti antisemiti
NEW YORK - La profanazione di una sinagoga di Brooklyn con graffiti antisemiti ha provocato la cancellazione di un evento politico con una star di "Broad City" di Comedy Central.
La polizia dice che epiteti come "Uccidi tutti gli ebrei" sono stati trovati nelle sale e nelle trombe delle scale all'Union Temple verso le 8 di sera di giovedì.
Il pubblico è stato mandato a casa poco dopo che "La città di Broad City" Ilana Glazer avrebbe iniziato a intervistare attivisti e politici al teatro della sinagoga di Prospect Heights.
Il vandalismo è accaduto pochi giorni dopo che un uomo armato ha ucciso 11 ebrei a Pittsburgh. Graffiti simili sono stati trovati anche nelle case di Brooklyn Heights martedì sera.
A detta del consigliere comunale Brad Lander, gli ebrei non saranno scoraggiati da "gente malvagia e odiosa".
(Associated Press, 2 novembre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Al Sisi incontra Mahmoud Abbas. Focus su riconciliazione tra Hamas e Fatah
IL CAIRO - Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha incontrato oggi nella località di Sharm el Sheikh (Mar Rosso) il leader dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas. Lo riferisce un comunicato stampa diffuso dal portavoce presidenziale Bassam Rady sul suo profilo Facebook. Durante il colloquio, Al Sisi ha affermato i continui sforzi dell'Egitto per sostenere la causa palestinese in accordo con le disposizioni delle Nazioni Unite. Nel corso dell'incontro Al Sisi e Abbas hanno discusso anche i recenti sviluppi in merito alla situazione palestinese, in particolare gli aspetti relativi alla riconciliazione tra Hamas e Fatah. Al Sisi ha sottolineato la volontà dell'Egitto di sostenere gli sforzi dei leader palestinesi nel difendere i diritti del proprio popolo e risolvere il conflitto israelo-palestinese secondo "soluzioni giuste e complete in stretto coordinamento con l'Anp", con l'obiettivo di creare opportunità di azione positiva per un ritorno alla stabilità. Da parte sua Abbas, ha dichiarato che l'Autorità palestinese è determinata a proseguire nei passi per porre fine alle divisioni interne. I due presidenti hanno concordato durante l'incontro di proseguire le consultazioni e la cooperazione bilaterale, soprattutto per quanto riguarda le prossime fasi di unificazione delle fazioni palestinesi secondo l'accordo di riconciliazione concluso nell'ottobre 2017.
(Agenzia Nova, 3 novembre 2018)
Il baseball sbarca in Palestina: un boom a cinque sulla striscia di Gaza
Sulla Striscia di Gaza, sta spopolando il baseball a 5: la neonata federazione della Palestina conta 100 uomini e 80 donne che praticano questa disciplina e che disputano settimanalmente tornei
La Wbsc, la federazione mondiale presieduta da Riccardo Fraccari, sta spopolando con il baseball a 5 sulla Striscia di Gaza. La neonata federazione della Palestina conta su 100 uomini e 80 donne che praticano questa disciplina e che disputano settimanalmente tornei. Il baseball 5 è nato anche per essere uno sport di squadra, per dare una maggiore visibilità e popolarità allo sport, in vista del ritorno alle Olimpiadi di Tokyo 2020, ma anche per confermarsi a quelle di Parigi 2024. Rispetto al tradizionale baseball, non c'è bisogno di una mazza o di una pallina dura o di guantoni di pelle. La distanza fra le basi è di 13 metri. La battuta si fa con la mano o il pugno e la corsa può iniziare quando la palla tocca terra a una distanza minima di tre metri. L'innovazione presentata a Cuba esattamente un anno fa sta prendendo campo in maniera più veloce di quanto si possa immaginare. Alla Wbsc, per la possibilità di giocare ovunque e con pochi costi, stanno arrivando quotidianamente richieste per l'allestimento di tornei o dimostrazione da ogni parte del mondo. In Italia ha fatto il suo debutto lo scorso maggio a Roma. Il baseball a cinque sarà agli Urban Games, alle olimpiadi giovanili. "Sarà la chiave del futuro per trasformare il baseball in una disciplina più popolare ed accessibile - dice il presidente Fraccari - Dovevamo inventarci qualcosa perché le cose cambiano, i giovani cambiano e bisogna offrire uno sport che attrae e sia di più facile pratica e soprattutto globale".
(La Gazzetta dello Sport, 3 novembre 2018)
Hamas mette fine alle proteste
Grazie alla mediazione dell'Egitto torna la calma al confine tra Gaza e Israele
TEL AVIV - Le fazioni palestinesi a Gaza hanno concordato ieri di mettere fine alle manifestazioni e alle proteste lungo il confine con Israele e di fermare il lancio dei palloni incendiari. Lo riferiscono media palestinesi e israeliani. Il quotidiano «Haaretz», citando una fonte ufficiale, anonima, di Hamas, riferisce che le fazioni hanno anche stabilito di non dare più fuoco ai copertoni e di non avvicinarsi al lato israeliano della frontiera. Nessun commento ufficiale, finora, da Israele.
La decisione palestinese è giunta in seguito a intensi colloqui con l'intelligence egiziana. Infatti, pochi giorni fa una delegazione del Cairo è arrivata a Gaza e ha incontrato la leadership di Hamas, l'organizzazione palestinese che controlla la Striscia dal giugno 2006. Inoltre, ad allentare la tensione tra le parti è stata anche la decisione israeliana di espandere la zona di pesca al largo delle coste di Gaza e di far transitare i fondi del Qatar per pagare i salari nella Striscia. Parlando alla radio militare, il ministro della difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha detto che «si tratta di un tentativo di migliorare le condizioni umanitarie nella Striscia».
Due giorni fa lo stesso primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva lodato l'impegno dell'Onu e dell'Egitto nel tentativo di riportare la calma al confine. «Lavoriamo per impedire che le forze palestinesi di Hamas penetrino in Israele per colpire soldati e civili» aveva dichiarato Netanyahu. D'altra parte - aveva poi aggiunto - «lavoriamo per impedire una crisi umanitaria».
La "grande marcia del ritorno" era stata indetta da Hamas nel marzo scorso per protestare contro il blocco israeliano sulla Striscia e ricordare i settant'anni della Naqba ("catastrofe"), che per i palestinesi coincide con la nascita dello stato di Israele nel 1948. Dall'inizio delle proteste - secondo i bilanci palestinesi - più di 200 manifestanti hanno perso la vita; migliaia i feriti. Nelle ultime settimane gli scontri si sono intensificati: alcuni ministri israeliani avevano evocato anche la possibilità di un'azione di terra per fermare le provocazioni palestinesi. Al moltiplicarsi dei razzi contro le località israeliane al confine, l'aviazione dello stato ebraico aveva replicato con raid su Gaza città, distruggendo palazzi e infrastrutture legate ad Hamas. Solo due giorni fa tre adolescenti palestinesi erano stati uccisi da un raid israeliano vicino al confine.
Intanto, diversi media hanno fatto circolare la notizia di un imminente incontro tra il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il capo di stato egiziano Al Sisi a Sharm El Sheikh, sul mar Rosso, per discutere degli ultimi sviluppi della crisi di Gaza. Non è stata ancora comunicata una data, ma l'incontro sembra confermato. Secondo un messaggio dell'ambasciatore palestinese al Cairo, Diab al Loh, Abbas dovrebbe arrivare oggi al Cairo «su invito di Al Sisi» e alla testa di «una delegazione di alto livello per presenziare all'apertura della seconda edizione del forum mondiale della gioventù». Sono in corso «preparativi per il suo incontro con il presidente Al Sisi che si prevede riguarderà gli ultimi sviluppi palestinesi e una serie di altre questioni di interesse comune», ha scritto il diplomatico, senza fornire ulteriori dettagli.
(L'Osservatore Romano, 3 novembre 2018)
Il prezzo dei pneumatici a Gaza è aumentato enormemente a causa delle proteste
Ai palestinesi della Striscia di Gaza cominciano a mancare le gomme. Durante le proteste settimanali di "March of Return" le gomme sono state bruciate e lanciate verso i soldati israeliani al confine. Il fumo nero doveva servire ad ostacolare la vista dei cecchini. Israele ha risposto ostacolando l'importazione di pneumatici. Questo, secondo il quotidiano "Yediot Aharonot", ha fatto aumentare il loro prezzo. Il costo di un paio di pneumatici adesso è salito da 105 euro a 263 euro.
(israelnetz, 2 novembre 2018)
Serpente striscia fuori dal Muro del Pianto
Un serpente vivo è stato visto strisciare fuori dal Muro Occidentale di Israele, meglio noto come Muro del Pianto. Le persone che si sono recate in visita al famoso "Kotel" questa settimana hanno filmato il serpente che si contorceva tra le pietre antiche.
Nel filmato, il serpente si vede uscire dal muro dopo aver spaventato un piccione che si era appollaiato nei pressi. Un evento che per molti rappresenta un segno del ritorno del Messia.
Per un blogger "è un segno di buon auspicio"
"Proprio come il piccione è al sicuro finché cerca riparo tra le pietre del Monte del Tempio, gli ebrei sono protetti dai comandamenti della Torah. Quando il piccione esce dalle pietre o gli ebrei si allontanano dalla Torah, sono in pericolo".
"Il sito sosteneva anche che l'apparizione di un serpente che usciva dalle pietre del Monte del Tempio poteva essere vista come un segno di buon auspicio - ha detto ancora il blogger - Lo Zohar (la base del misticismo ebraico) spiegava che l'inclinazione al male, personificata dal serpente nell'Eden, comparirà nei giorni precedenti al ritorno del Messia".
(Fonte: newnotizie.it, 3 novembre 2018)
Una marcia per gli ebrei genovesi deportati
Da Galleria Mazzini alla sinagoga di via Bertora per ricordare l'agguato del 3 novembre 1943: venti sopravvissuti su 261.
di Lucia Compagnino
A 75 anni dalla deportazione degli ebrei genovesi e a 80 dalla promulgazione delle leggi razziali, lunedì pomeriggio torna la marcia della memoria, organizzata dalla comunità di Sant'Egidio con la comunità ebraica genovese e il centro Primo Levi, per ricordare quell'orrore e anche per ribadire il no ad ogni razzismo, riaffermando le ragioni di una necessaria convivenza fra i popoli. L'appuntamento è alle 17.30 in Galleria Mazzini, dove venne arrestato il rabbino Riccardo Pacifici, che morì ad Auschwitz. Il punto esatto è segnalato da una "pietra d'inciampo" collocata in loco nel 2012. E la marcia, silenziosa, accompagnata dalle fiaccole e dai cartelli con i nomi dei campi di sterminio tedeschi, austriaci e polacchi dove vennero deportati 261 genovesi, dei quali solo 20 tornarono a casa, si concluderà nella sinagoga di Passo Bertora, dove il 3 novembre del 1943 vennero arrestati i primi 20 ebrei genovesi. Saranno presenti il rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano, il sindaco Marco Bueci, il responsabile della comunità di Sant'Egidio Andrea Chiappori, il presidente della comunità ebraica genovese Ariel Dello Strolaga.
Come sempre, siamo ormai alla nona edizione, alla marcia parteciperanno molti richiedenti asilo e i giovani e giovanissimi genovesi che partecipano alle scuole della pace di Sant'Egidio. Ciascuno ha scritto una lettera dedicata alla ricorrenza. «La marcia sta diventando ormai una tradizione sempre più frequentata, e il nostro desiderio è che il ricordo della deportazione non sia un monumento da rispolverare ma il punto di partenza verso un'idea nuova di città, dove convivano pacificamente popoli e religioni differenti», dice Chiappori. E prosegue: «Sarà anche l'occasione per farci delle domande sull'attuale indurimento dell'atteggiamento verso chi viene percepito come diverso. Perché le memorie degli ebrei sopravvissuti ci ricordano che la deportazione non fu improvvisa: questo deve restare un monito per tutti noi».
In sinagoga avranno luogo gli interventi istituzionali e verranno ricordati anche i genovesi che si opposero alla violenza nazista salvando la vita agli ebrei in fuga. Tra loro, il cardinale gesuita Pietro Boetto, arcivescovo di Genova dal 1938 al 1946, "Giusto tra le Nazioni".
Sarà presente anche Gilberto Salmoni, che fu deportato a Buchenwald, uno degli ultimi superstiti di quella pagina nera della nostra città e non solo, sempre molto attivo nel tenerne viva la memoria.
(Il Secolo XIX, 3 novembre 2018)
Un'Anpi contro la Brigata ebraica, l'altra a favore
Il comitato di Lodi scatenato contro la mostra. Ma quello di Milano ha già dato il patrocinio.
Corto circuito a sinistra sulla Brigata ebraica. La confusione arriva fino a Lodi, dove il 9 novembre arriva la bella mostra già allestita nella sinagoga Bet Shlomo di Milano e dedicata all'eroica formazione sionista che contribuì alla Liberazione.
L'evento voluto dal vicesindaco Lorenzo Maggi, delegato alla Cultura, ha ricevuto il patrocinio dell'Anpi di Milano e del Centro studi nazionale Brigata ebraica, oltre che della città di Lodi. Ma incredibilmente, l' Anpi del Lodigiano non solo ha deciso di «declinare l'invito» ad aderire, ma lo ha fatto con motivazioni che rivolgono accuse incredibili allo Stato di Israele. Per l' Anpi di Lodi, l'iniziativa «appare esplicitamente promossa da istituzioni e organizzazioni dello stato d'Israele». E lo Stato di Israele viene dipinto così: «Si è dotato di armamento nucleare rifiutando qualsiasi controllo della comunità internazionale, occupa illegalmente i territori palestinesi e il Golan siriano, tiene sotto assedio la popolazione di Gaza, pratica la segregazione e la discriminazione nei confronti della popolazione arabo palestinese, utilizza anche l'assassinio nei confronti dei dirigenti palestinesi e di civili inermi».
Una posizione diametralmente opposta a quella di Roberto Cenati, presidente dell'Anpi di Milano che ad aprile aveva detto: «Dobbiamo essere grati ai 5mila soldati della Brigata ebraica, una pagina di coraggio che ha rappresentato un contributo fondamentale per liberare il nostro Paese dal nazifascismo». «Chi offende il simbolo della Brigata ebraica - aveva avvertito - ingiuria l'intero patrimonio storico della Resistenza italiana». Adesso forse Cenati dovrebbe fare una telefonata ai compagni di Lodi.
Il vicesindaco Maggi ha risposto con fermezza: «Accusare Israele di praticare la segregazione non solo è palesemente falso ma grottesco, e accusarla di praticare l'omicidio nei confronti di civili inermi è una infamia che ricalca di fatto i libelli antisemiti medioevali, secondo i quali gli ebrei si macchiavano di omicidi rituali».
Deluso e sorpreso il direttore del Museo della Brigata ebraica, Davide Romano: «Per noi, come sempre, è un'occasione di incontro, dialogo e informazione, utile anche a battere il pregiudizio per cui la Brigata ebraica viene contestata il 25 aprile dai fanatici dei centri sociali. Ci colpisce quella posizione, non solo perché l'Anpi Milano ha sempre difeso la Brigata come parte essenziale della Resistenza, ma perché non si comprende come mai non tutti i liberatori dell'Italia vengano ricordati, e anzi alcuni siano discriminati. Quanto a Israele, tutti gli attentati degli ultimi anni condotti con motivazioni "antisioniste", basti pensare a quello dell'82 alla sinagoga di Roma, alla fine sono a andati a colpire ebrei, come il piccolo Stefano Gaj, che certo non aveva niente a che fare col Medio Oriente».
(il Giornale - Milano, 3 novembre 2018)
L'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi è marcia fin dalla sua fondazione
Quasi settant'anni di Unrwa. Parla Simon Waldman
di Daniel Mosseri
BERLINO - Oggi fa rima con assistenza ai profughi palestinesi ma quando fu fondata nel 1949, la Unrwa aveva obiettivi più ampi. All'epoca, l'Alto commissariato Onu per i profughi (Unhcr) non esisteva-nascerà nel 1950. C'era invece la International Refugee Organization (Iro) pensata per l'Europa post bellica ma Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia preferirono dare vita a uno strumento ad hoc per la situazione mediorientale scaturita dal conflitto arabo-israeliano del 1948. Fu così che nacque la United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees - dove con "Palestine" si indicava la regione già sotto mandato britannico e non una delle parti in conflitto. Nella capitale tedesca per una serie di conferenze al Bundestag, il ricercatore del King's College di Londra Simun Waldman racconta al Foglio il dietro le quinte di uno degli strumenti più discussi delle Nazioni Unite, al quale di recente Donald Trump ha tagliato i fondi. "L'agenzia doveva fare due cose: distribuire gli aiuti e risistemare i profughi palestinesi ospitati in Giordania, Egitto, Siria e Libano. La 'w' dell'Unrwa indicava il lavoro (work), ovvero le grandi opere pubbliche nelle quali impiegare i palestinesi ai fini di riscatto e riabilitazione, con effetti positivi su tutta la regione". Abbiamo visto tutti come è andata a finire né ci è voluto il genio di Donald Trump per capirlo. Nel 1951 la stessa Unrwa ammetteva il fallimento dei suoi obiettivi per una serie di ragioni: la mancanza dei fondi da un lato, l'infattibilità di alcuni progetti troppo ambiziosi dall'altro, "ma soprattutto perché gli stati ospitanti intuirono che l'agenzia cercava una soluzione politica alla questione dei profughi prima che un accordo politico fosse sottoscritto dalle parti".
Che il nuovo gran rifiuto avvenisse sulla pelle di chi sarebbe rimasto nei campi profughi non importava a molti dirigenti arabi e palestinesi il cui obiettivo era - e si potrebbe arguire che tale è rimasto - congelare la situazione ad apparente sfavore di Israele. "Una soluzione per i profughi avrebbe rischiato di predeterminare l'esito dei negoziati di pace che si andavano organizzando già all'epoca", ricorda Waldmann menzionando gli sforzi della Palestine Reconciliation Commission, menzionata nella Risoluzione 194 dell'Onu. "Per gli stati arabi bisognava che fosse Israele a sistemare i palestinesi laddove per lo stato ebraico era prima necessario arrivare a un accordo di pace". Nel 1951 la regione si trovava già in un'impasse. Con la morte, nel 1952 dei negoziati, l'Unrwa cambia e da agenzia per risollevare le sorti dei palestinesi "diventa uno strumento per rendere perpetuo ed ereditario lo status dei rifugiati". L'Unrwa lo fa concentrandosi esclusivamente su educazione, alloggio e salute, diventando negli anni un'organizzazione sovradimensionata, con un dipendente ogni 152 profughi a fronte dell'1 ogni 7.138 dell'Unhcr. Oggi l'Unrwa assiste i discendenti di quei rifugiati e di quelli della guerra del 1967, a prescindere da quante generazioni siano passate. L'agenzia, poi, sostiene anche quei profughi che nel frattempo abbiano acquisito la cittadinanza di un altro paese, "una cosa che certamente l'Unhcr non farebbe sulla base della sua propria definizione di rifugiato". Stiamo parlando di 2 milioni di persone, principalmente cittadini giordani diventati tali già nel 1948. "A oggi questi cittadini giordani possono decidere di mandare i propri figli alle scuole dell'Unrwa; e Amman, che risparmia soldi, non vuole certo abolire il regime, men che mai adesso che è investita dalla crisi dei profughi siriani". Se lo scopo dell'Unhcr è assistere i profughi e rimpatriarli appena le condizioni lo permetteranno, "l'Unrwa perpetua il trauma dei refugee fino alla terza, quarta e quinta generazione", osserva Waldman. Nel 1948 i profughi palestinesi erano 750mila, "ma a questi l'Unrwa ha aggiunto decine di migliaia di persone che in seguito alla guerra non avevano perso la casa ma 'solo' il lavoro, e altre migliaia di poveri dell'area interessati a ricevere aiuto dall'Onu".
Nel 1949 gli assistiti dall'Unrwa sono già 850 mila, 950 mila nel 1951. Dopo la guerra dei Sei giorni (1967) se ne contano 1,4 milioni. Oggi sono cinque milioni. La maggior parte vive in Giordania, a seguire Gaza, la Cisgiordania e il Libano. Il 31 agosto scorso Trump ha annunciato lo stop ai finanziamenti americani all'Unrwa: 365 milioni di dollari all'anno su un budget di 1,2 miliardi. Gli Stati Uniti erano il primo contributore, seguiti dall'Unione europea, dalla Germania, dal Regno Unito e dall'Arabia Saudita. Notevole anche il contributo di Giappone e Svizzera. "E' stato sempre l'occidente a farsi carico dei finanziamenti Unrwa ed è solo dal 2010 che Riad ha aumentato il proprio stanziamento in modo significativo", dice Waldman. Una decisione presa per sopperire al ritiro unilaterale del Canada (10 milioni all'anno) deciso dall'ex premier conservatore Stephen Harper. Prima di allora gli stati arabi si erano largamente disinteressati al destino dell'agenzia e questa, da parte sua, faceva notizia per una serie di scandali: nel 2013 campeggi estivi jihadisti per bambini venivano ospitati in scuole Unrwa; nel 2014 un deposito di munizioni Hamas era custodito in locali dell'agenzia; nel 2017 venivano scoperti tunnel di Hamas situati sotto a diverse scuole gestite dall'Unrwa a Gaza-solo per citarne alcuni. Waldman tuttavia non risparmia una punzecchiatura al presidente degli Stati Uniti per la forma data alla sua decisione. "Forse sarebbe stato meglio usare tutto il peso degli Stati Uniti per aprire un dibattito sulla necessità di riformare l'agenzia: la decisione unilaterale funziona bene sul piano interno ma non promuove una riflessione da parte della comunità internazionale". Il rischio, secondo il nostro interlocutore, è che a fare scuola, alla fine, sia l'esempio del Canada, il cui primo ministro Justin Trudeau ha ripristinato i finanziamenti all'Unrwa in segno di discontinuità dal suo predecessore conservatore.
(Il Foglio, 3 novembre 2018)
Il censimento degli ebrei: i milanesi schedati nel 1938
Trovate in una cantina carte che si ritenevano perse. Ricostruita una mappa di 10mila persone schedate.
I ricercatori
Sono stati 3 anni di lavoro per Emanuele Edallo e gli storici di Università e Cdec
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Le visite
Allestimento simbolico con i nomi. Apertura fino al 18 novembre
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di Alberto Giannoni
Una scoperta sorprendente nei depositi comunali, e un lavoro meticoloso e appassionato di ricostruzione: 3.788 schede di censimento, ognuna per un nucleo familiare, e 10.591 persone, gli ebrei di Milano,
Alla Triennale fino al 18 novembre si può visitare la mostra: «Ma poi che cos'è un nome?», dedicata al censimento degli ebrei a Milano nel 1938.
Non fu solo un passaggio burocratico, quello del 22 agosto 1938. Il censimento fu una cesura netta nella vita delle persone e nella storia del Regno d'Italia. Le leggi razziali furono la «macchia indelebile», ma nel viatico verso l'abisso il censimento fu il primo atto razzista e discriminatorio, formale e su scala nazionale, con cui il regime fascista colpì gli ebrei, che per la prima volta furono censiti separatamente dal resto della popolazione e per la prima volta furono censiti non come appartenenti a una religione bensì come appartenenti a una «razza». Fu l'atto preliminare e premonitore della più devastante azione di censura che regime avrebbe intrapreso pochi mesi dopo, con i provvedimenti per la difesa della razza, il regio decreto legge 1728 del 17 novembre 1938 con cui il governo mise al bando gli ebrei dalla vita pubblica del Paese, impose il loro allontanamento dai posti di lavoro, da scuole, enti, associazioni o circoli, arrivando all'annullamento di ogni diritto acquisito fino alla sostanziale cancellazione delle identità.
I nomi dei milanesi vittime della Shoah erano noti e sono andati a formare il «Memoriale delle vittime della persecuzione antiebraica 1943-45». I nomi che risultarono dal censimento erano di più e corrispondevano a quelli dei milanesi che avessero almeno un genitore ebreo (nella schedatura finì anche don Lorenzo Milani, la cui madre proveniva da una famiglia di ebrei boemi).
Adesso quelle identità ritrovate vengono presentate al pubblico in uno dei luoghi più significativi della cultura milanese. Ora quei nomi sono il cuore della mostra in Triennale, promossa dalla Fondazione Cdec insieme all'Università degli Studi, alla Cittadella degli Archivi di Milano e alla Fondazione Memoriale della Shoah.
Per decenni si è ritenuto che l'intero archivio del censimento milanese fosse andato perduto. La carte erano state rinvenute sorprendentemente negli scantinati del Comune nel 2007 e trasferite alla Cittadella degli Archivi nel 2013, ma nessuno sapeva della loro esistenza. Poi la svolta, grazie alla tenacia di Emanuele Edallo del Dipartimento di Studi storici dell'Università, e alla collaborazione del direttore Francesco Martelli. I documenti sono stati messi a disposizione e negli ultimi tre anni sono stati oggetto di un'accurata ricerca condotta da Edallo con Daniela Scala e Laura Brazzo della Fondazione Cdec. Grazie a questo lavoro oggi conosciamo finalmente non solo l'esatto numero delle persone censite, ma anche i loro nomi e i frammenti delle loro storie, sia precedenti che successive al 1938. E partendo dal database elaborato da Edallo con l'aiuto di alcuni studenti del Dipartimento di storia - che hanno fatto stage trimestrali in cittadella degli archivi - si è arrivati alla geomappa che individua l'indirizzo milanese di ogni persona censita. I tecnici dell'Unità Sit Centrale e toponomastica del Comune (assessorato Trasformazione digitale) hanno creato l'applicazione digitale geolocalizzando ogni censito sulla mappa. La mostra è originale e innovativa anche nell'allestimento. Un muro con tutti i nomi censiti ne è il cuore. E gli elementi collocati nell'atrio della Triennale rappresentano anche fisicamente l'effetto di una separazione, che fu determinata dalla follia ideologica razzista e dall'indifferenza di tanti burocratici, banali esecutori.
(il Giornale - Milano, 3 novembre 2018)
Antisemitismo, scatta l'indagine sui laburisti
di Luigi Ippolito
La ferita dell'antisemitismo nel partito laburista britannico si riapre: e in maniera ancora più dolorosa, se possibile. Perché Scotland Yard ha lanciato un'inchiesta formale per appurare se nella grande formazione della sinistra siano stati commessi«crimini d'odio» nei confronti degli ebrei.
E' un ulteriore colpo alla credibilità del leader laburista Jeremy Corbyn, che già questa estate era stato coinvolto direttamente nella polemica sull'ostilità antiebraica che alligna fra i laburisti: erano emerse foto della sua partecipazione a una cerimonia per i palestinesi di Settembre Nero e soprattutto era stato reso pubblico un audio in cui affermava che «i sionisti non capiscono il senso dell'umorismo inglese, anche se hanno passato tutta la vita in Gran Bretagna». Ma certamente non hanno riso gli ebrei laburisti, che si sentono sempre più marginalizzati nel partito.
L'intervento di Scotland Yard è stato deciso dopo l'esame di un dossier che documentava casi di conclamato antisemitismo, come quello del militante che - proclamava che «bisogna sbarazzarsi degli ebrei, che sono un cancro fra noi». Cressida Dick, la capa della polizia, ha precisato che sotto inchiesta non c'è il Labour in quanto tale, ma solo casi specifici: ci si chiede tuttavia perché la leadership del partito non sia intervenuta per tempo e abbia aspettato che si muovesse Scotland Yard. La reazione dei laburisti è stata cooperativa: «Se ci sono persone che hanno commesso crimini d'odio devono subire tutta la forza della legge - ha detto il vice leader Tom Watson -. Non c'è posto per loro nel partito».
Ma restano i dubbi sulla capacità di giudizio di Corbyn, probabilmente offuscata dalla lunga militanza nella sinistra terzomondista e anti-imperialista, che considera Israele un avamposto del colonialismo: tanto da non accorgersi quando le legittime critiche alle politiche dello Stato ebraico scivolano nell'antisemitismo preconcetto. Il Labour ha adottato qualche mese fa, a fatica, un codice di condotta in materia: ma c'è voluta Scotland Yard per tradurlo in pratica.
(Corriere della Sera, 3 novembre 2018)
Cristiani evangelici incontrano il principe ereditario saudita
Dire che l'Arabia Saudita ha attualmente una cattiva stampa a causa del giornalista assassinato Kashoggi sarebbe un eufemismo. Tuttavia, rappresentanti evangelici hanno incontrato il principe ereditario saudita Bin Salman. Erano interessati soprattutto ai cristiani in Medio Oriente.
RIAD - Una delegazione di cristiani evangelici provenienti da Israele e Stati Uniti ha incontrato giovedì il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman a Riyadh. Secondo il quotidiano israeliano "Jerusalem Post" è la prima volta che degli evangelici si incontrano con un così alto rappresentante saudita nel regno arabo per gli interessi di Israele e dei cristiani nella regione.
Il gruppo era guidato dallo scrittore e attivista evangelico Joel C. Rosenberg, che vive in Israele. Un altro partecipante è stato il fondatore del "Museo degli Amici di Sion" a Gerusalemme, Mike Evans. Hanno parlato per due ore con il principe ereditario su Israele, i palestinesi, il Cristianesimo e l'Islam nella regione e le relazioni saudite con gli Stati Uniti. "Siamo stati molto contenti di ricevere l'invito del Regno dell'Arabia Saudita più di due mesi fa", ha affermato la delegazione in una dichiarazione congiunta. Attualmente è in atto una fase di grandi cambiamenti in Medio Oriente. Il gruppo comprendeva anche l'ex deputato americano Michele Bachmann.
Il regno saudita è stato attaccato dai media da quando è stato accusato di coinvolgimento nell'assassinio del giornalista saudita Jamal Kashoggi nell'ambasciata turca. Secondo il "Washington Post", Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nonostante le polemiche, ha chiesto ai membri americani del governo Trump di sostenere l'Arabia Saudita. In questo Netanyahu non è solo. Anche il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha definito Bin Salman un "partner strategico importante nella regione".
Fare qualcosa per i cristiani nella regione
"Molte persone dicono che è il momento sbagliato per andare in Arabia Saudita e prendere contatto con la loro leadership", ha detto Rosenberg al sito di notizie americano CBN. "Capisco questa critica, ma non sono d'accordo." Per il gruppo, l'opportunità di fare qualcosa per i cristiani della zona è stata troppo allettante. "Siamo interessati al destino dei cristiani nella penisola arabica. Il desiderio di una maggiore libertà di religione e l'opportunità di costruire chiese cristiane sembra importante per tutti noi", ha detto Rosenberg.
La delegazione, che secondo la sua stessa dichiarazione non è un programma politico ma è parte di un progetto missionario cristiano, in precedenza aveva visitato il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed Bin Sayed; e prima di questo aveva incontrato il re giordano Abdullah II e il presidente egiziano Al-Sisi.
(israelnetz, 2 novembre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Hamas: «Stop alle proteste lungo il confine»
I dubbi di Israele. Oggi la (ennesima) prova dei fatti
GERUSALEMME - Le fazioni palestinesi della Striscia di Gaza avrebbero concordato di mettere fine alle manifestazioni violente lungo il confine con Israele che si susseguono ogni venerdì dallo scorso marzo (la cosiddetta "Marcia del ritorno"), fermando anche il lancio dei palloni incendiari che, pressoché quotidianamente, ormai da mesi, bruciano i terreni coltivati degli israeliani nelle zone prossime alla frontiera.
Il quotidiano israeliano Haaretz ha citato una fonte ufficiale di Hamas (il gruppo al potere nell'enclave) che, sotto anonimato, ha parlato di questo accordo. Le fazioni avrebbero anche deciso di non dare più fuoco ai copertoni- che rendono l'aria irrespirabile - e di non avvicinarsi al reticolato di protezione che corre lungo la frontiera. Il governo israeliano fino alla tarda serata di ieri non aveva commentato le indiscrezioni. Ma i dubbi sono molti. E lo scetticismo è d'obbligo. Di certo, oggi - venerdì - queste "promesse" di Hamas verranno sottoposte alla prova dei fatti. La decisione del gruppo islamico sarebbe legata ai colloqui in corso al Cairo - sostenuti dall'Egitto - per un cessate il fuoco di lunga durata. Nei giorni scorsi il premier Benjamin Netanyahu - pur ribadendo la fermezza del suo governo nell'azione di contrasto verso qualsiasi tentativo di danneggiare Israele, i suoi soldati, le comunità che vivono lungo il confine - si era detto pronto a sostenere ogni sforzo per evitare un'escalation nell'area e l'esplosione di una crisi umanitaria a Gaza. In questa prospettiva, Israele potrebbe forse acconsentire all'ingresso nell'enclave dei 15 milioni di dollari messi a disposizione dal Qatar per il pagamento dei salari dei dipendenti pubblici della Striscia (sotto precisa garanzia che questi fondi vengano utilizzati solo allo scopo). Il leader di Hamas Yahya Sinwar, che sta gestendo i negoziati al Cairo, si è detto più volte "sensibile" all'argomento e determinato al raggiungimento di un accordo. Ma puntualmente, ogni venerdì, viene smentito dalla mobilitazione verso il confine.
(Avvenire, 2 novembre 2018)
Più di un israeliano su due non vuole la "pace" con Hamas
Secondo un sondaggio realizzato dall'Ifpi, più della metà degli israeliani (51 percento) si oppongono a tenere negoziati con Hamas. Di contro solo il 32% è favorevole a tenere vivi i colloqui e le trattative con il gruppo terroristico per un duratura "cessate il fuoco".
di Amanda Gross
Nonostante l'opposizione a un accordo con i governanti di Gaza, il 43% per cento degli israeliani auspica che il governo migliori le condizioni di vita nella striscia, mentre il 38% pensa che l'aumento della pressione economica nell'area sia, invece, la giusta politica.
Inoltre, il rapporto mostra che il 50% della popolazione israeliana vuole che il governo torni al tavolo dei negoziati per raggiungere un accordo di pace con l'Autorità palestinese, mentre il 49% crede che la pace tra Israele e palestinesi non sia essenziale quanto stabilire migliori rapporti con il mondo arabo. Tuttavia, il 33% dei cittadini è convinto che una svolta nelle relazioni con gli stati arabi dipenda dalla normalizzazione delle relazioni con l'Autorità palestinese.
Una larga maggioranza del pubblico israeliano (69%) crede che la cooperazione regionale tra Israele e il Medio Oriente sia possibile. Tuttavia, il 41% non vuole visitare alcun paese arabo, anche quando i rapporti tra i due paesi sono normali. Il 28% degli intervistati ritiene che Israele non dovrebbe promuovere la cooperazione con i paesi arabi.
Una vasta maggioranza di israeliani comunque pensa che sia possibile una cooperazione regionale tra Israele e paesi mediorientali, mentre il 19% pensa che non lo sia. Inoltre, il 41% non visiterebbe un paese arabo, e il 28% non è favorevole a nessun tipo di dialogo con nessun paese arabo.
Chi crede nell'importanza di sviluppare relazioni con il mondo arabo, pensa che l'Egitto e l'Arabia Saudita siano i due paesi musulmani più importanti con i quali sviluppare la cooperazione.
(Italia Israele Today, 1 novembre 2018)
Israele e Paesi arabi sono già oltre il piano di pace americano
Il Medio Oriente non aspetta il più volte promesso piano di pace americano. Ormai sono due anni che il Presidente Trump annuncia come "imminente" il cosiddetto "Deal of the Century", il piano di pace per il Medio Oriente che dovrebbe mettere a posto ogni cosa, a partire dalla questione israelo-palestinese fino ai rapporti tra Paesi Arabi e Israele.
Aspettando l'accordo del secolo Israele e i Paesi Arabi si muovono per conto loro. Pochi giorni fa il premier Netanyahu è andato in visita ufficiale in Oman, uno dei paesi arabi del Golfo più importanti per il suo ruolo da mediatore tra l'Arabia Saudita e il Qatar. Invitato dal Sultano Qaboos, Netanyahu è il secondo Premier israeliano a visitare l'Oman, venti anni dopo Shimon Peres....
(Rights Reporters, 1 novembre 2018)
California: ancora un atto di antisemitismo. Cosa succede all'America?
A pochi giorni dalla strage nella sinagoga di Pittsburgh un altro atto di antisemitismo colpisce un luogo di culto ebraico. Questa volta nel mirino c'è finita la sinagoga Beth Jacob di Irvine, a sud di Los Angeles, in California.
Per fortuna in questo ultimo atto di antisemitismo non è stato perpetrato nessun atto di violenza ma si è trattato di atto di vandalismo. Un soggetto sconosciuto è entrato nel recinto della sinagoga e ha imbrattato la facciata dell'edificio con scritte contro gli ebrei.
Nel video della sorveglianza diffuso su Twitter si nota un soggetto incappucciato e con una mascherina che gli copriva il volto, quasi certamente un ragazzo, che superava il recinto della sinagoga e poi imbrattava il muro con le scritte antisemite per poi andarsene tranquillamente.
Naturalmente il fatto non è minimamente paragonabile a quanto successo a Pittsburgh dove sono state uccise 11 persone, ma è indicativo del clima di odio anti-ebraico che da diversi anni sta prendendo velocemente piede in America, un clima di odio che parte dai campus universitari con iniziative, prevalentemente di sinistra, per il boicottaggio di Israele e spaziando in un terreno fertilizzato dall'ignoranza arriva fino alle frange della destra più estrema e suprematista.
E non si faccia l'errore di giudicare questo ultimo atto di palese antisemitismo alla stregua di una ragazzata, l'escalation di atti ostili agli ebrei e a Israele è evidente negli Stati Uniti, una escalation che unisce destra e sinistra partendo dai social media, attraversando i campus universitari e le congregazioni di estrema destra come se fossero la stessa cosa e sfocia in atti di antisemitismo palesi e persino in atti di violenza.
E viene da chiedersi: cosa sta succedendo alla più grande democrazia del mondo?
(The World News, 1 novembre 2018)
L'allarme dell'ADL: negli Usa alcuni politici 'normalizzano' l'antisemitismo
di Paolo Castellano
In un'intervista rilasciata il 29 ottobre al Jerusalem Post, Jonathan Greenblatt, capo dell'Anti Defamation League (ADL), ha sostenuto che alcuni politici americani stiano normalizzando l'antisemitismo e che questo fenomeno abbia gravi ripercussioni sugli ebrei statunitensi, come dimostra la recente strage avvenuta a Pittsburgh.
Greenblatt parla di dog whistle, un'espressione presa in prestito dal mondo degli educatori cinofili. Per addestrare i cani si utilizza un fischietto che produce un suono che gli umani non percepiscono. Così accade anche nella vita politica americana. I politici più aggressivi incitano i propri elettori attraverso dei termini che provocano sentimenti di odio e avversione, ma che non sono percepiti dall'opinione pubblica come contenitori di intolleranza e di rabbia. Una tendenza, questa, che una volta trovava terreno fertile nei margini della società, mentre oggi è ampiamente sdoganata nel dibattito pubblico.
Il dog whistle, ad esempio, funziona molto bene con la parola "globalisti", il più delle volte riferita a grandi investitori ebrei che operano nella finanza: «Ho il timore che l'antisemitismo diventi una cosa normale - letteralmente. Mi preoccupa il fatto che troppe persone sbarrino gli occhi quando certi politici evocano George Soros o il finanziere Sheldon Adelson. Scuotono la testa e danno tutto per certo», ha spiegato Greenblatt.
L'antisemitismo entra in scena quando i complottisti sostengono che il globalismo sia una strategia dei gruppi ebraici molto potenti che controllano il mondo e l'economia del pianeta. Un leitmotiv già presente durante gli anni del nazi-fascismo.
Il capo dell'ADL ha inoltre aggiunto che ormai gli Stati Uniti sono una nazione in cui non si conversa più e in cui sta crescendo l'antisemitismo. Ogni anno, l'organizzazione non governativa ebraica pubblica delle inchieste sui livelli di antisemitismo in America e nel resto del mondo, tenendo sotto controllo i programmi tv e la carta stampata.
«Per noi i dati sono molto importanti. I numeri non mentono. Penso infatti che l'atmosfera politica tossica si sia incrementata con l'accesso ai social media che hanno allevato e amplificato le voci peggiori», ha sottolineato Greenblatt che però ha ammesso che Donald Trump fortunatamente ha condannato gli atteggiamenti di odio nei confronti degli ebrei.
«Indubbiamente il presidente ha la più larga piattaforma, il più grande megafono e solo col potere delle sue parole può contribuire a combattere l'antisemitismo», ha concluso il rappresentate dell'Anti Defamation League.
(Bet Magazine Mosaico, 1 novembre 2018)
«Il segreto del boom israeliano? Assumerci i rischi»
Il Paese è passato in pochi decenni dall'esportazione di arance a centro di importanza mondiale per le start up e l'hi tech. Un profondo conoscitore di questa realtà ne spiega la formula.
di Chiara Clausi
E' un Paese grande poco più della Puglia, con poca acqua, scarse risorse minerarie, in guerra perenne con gli Stati confinanti, 370 milioni di arabi ostili. Ma è anche una potenza economica, con un Pil superiore a quello dei più popolosi vicini e un reddito pro capite che ha raggiunto quello della Germania. Saul Singer, autore assieme a Dan Senor del bestseller Laboratorio Israele, spiega il segreto di questo successo, un rnix di innovazione, ricerca militare e civile che vanno di pari passo alla chuzpah, una parola yiddish che ha il significato di coraggio, audacia. «Microsoft e Appie hanno costruito i loro primi centri di ricerca all'estero in Israele, e così anche grandi multinazionali dell'hi-tech, come Ibm, Google, Hp, Facebook», spiega Singer. Israele ha infatti la più alta densità di start up al mondo. Dopo gli Stati Uniti e la Cina, ha il maggior numero di compagnie quotate sul Nasdaq. Più di India, Corea, Singapore e Irlanda. Ed è il Paese con la maggiore quota di Pil investita in ricerca e sviluppo.
- Singer, come ha fatto Israele a diventare una potenza economica?
All'inizio, grazie all'hi tech applicata all'agricoltura, si è trasformato in un Paese importante nell'esportazione di arance, ma già all'inizio degli anni 80 diventava una grande nazione nel campo dell'high tech. Questo è stato il motore della trasformazione.
- Trasformazione rapida per un piccolo Stato con scarsità di acqua. Come è diventato un'eccellenza nel settore agricolo?
Questo sviluppo è nato dalla necessità. Israele non ha grandi riserve d'acqua. Abbiamo utilizzato tecniche d'irrigazione che necessitano di quantità minori di acqua, tecniche di desalinizzazione, che all'inizio erano molto costose ma sono diventate economiche con il tempo.
- Ma per la crescita economica è stato più importante il capitale umano o economico?
Non abbiamo risorse naturali, la nostra terra è arida. Tutto ciò che abbiamo è il capitale umano. Molti Paesi banno grandi risorse, come il petrolio. Ma non è il nostro caso.
- Avete conquistato anche una superiorità nell'industria militare.
Già dei tempi del fondatore dello Stato David Ben Gurion eravamo circondati da eserciti molto più grandi, meglio addestrati e che avevano più soldi del nostro. L'unico modo per sopravvivere era avere un know how superiore. Ma la nostra superiorità non è soltanto nel campo della difesa. Siamo all'avanguardia nella cybersecurity, nella tecnologia medica, agricola, nella pubblicità. Qui si può trovare ogni tipo di tecnologia, non solo quella militare.
- Quali sono le ricadute dell'industria militare in quella civile?
Ciò che è importante è che gli studenti israeliani imparino nelle università come risolvere problemi. Anche l'esperienza nel settore militare da noi si caratterizza nell'affidare ai militari missioni che sembrano impossibili da portare a termine, ma che devono allenarsi a superare. Questo non accade spesso nell'educazione delle persone nel mondo, ma aiuta nella costituzione di start up.
- Siete all'avanguardia in start up che sviluppano intelligenza artificiale, nanotecnologie e macchine elettriche. È il futuro?
Sono tutti settori molto importanti oggi. È la direzione verso cui stiamo andando. Ad esempio molte aziende stanno migliorando la tecnologia delle macchine elettriche. Sono meno costose, il loro uso combatte l'inquinamento, e producono energia pulita.
- La protezione dell'ambiente è importante, ma quanto influenza la crescita del Paese la scoperta di giacimenti di gas?
Molti degli effetti che comporteranno non li vedremo. Verranno utilizzati in sostituzione del petrolio. Ciò che vi si ricaverà in termini di guadagni potrà essere investito in molte altre attività, come ha fatto la Norvegia. Bisognerà vedere se saremo in grado di farlo.
- Un'altra sfida per lo sviluppo dell'economia è stato il conflitto con i palestinesi.
Ha motivato Israele ad avere un esercito forte. In altri Stati poche persone hanno esperienza della vita militare. Le donne qui fanno il servizio militare per due anni, gli uomini per tre. Ciò insegna a essere preparati nel «problem solving».
- Anche in guerra?
Faccio un esempio. C'era un'azienda nel nord di Israele chiamata Iscar, acquistata da Warren Buffett, che produceva strumenti di metallo. Quando la guerra del 2006 è iniziata, il nord del Paese è stato bombardato dai missili. Il proprietario di Iscar non ha voluto abbandonare l'azienda. Secondo lui per il successo era importante il talento dei dipendenti. La mentalità di Israele è di tenere alla vita, nonostante la guerra.
- Nel successo di Israele ha influito anche il fatto che sia uno Stato con 70 nazionalità?
Israele riunisce persone di diversi Paesi, con culture e lingue differenti. La popolazione è costituita da emigrati, questa caratteristica ne fa un Paese intraprendente. Il popolo israeliano più di altri è disposto ad assumersi rischi.
- Qual è il miglior ambiente per stimolare la creatività?
La creatività è importante per costituire start up, anche se molte idee vanno in porto e altre falliscono. È necessario conoscere le regole del management, del lavorare in squadra, avere competenze tecnologiche, saper risolvere problemi, imparare dagli errori. Importante è la determinazione e la capacità di assumersi rischi. Ogni nazione sviluppa il proprio patrimonio in base alla propria cultura, alla storia, alle circostanze in cui vive.
- In una parola qual è il segreto di Israele?
Determinazione, lavorare molto e non arrendersi. È parte della nostra cultura, di come cresciamo i figli. Diamo loro più libertà, più responsabilità. Facciamo in modo che i bambini diventino subito indipendenti. Ovunque io vado, Medio Oriente, America Latina, le persone mi dicono che non amano assumersi rischi, qui è il contrario.
È parte della nostra storia.
(Panorama, 1 novembre 2018)
La patria egli ebrei d'Emilia
Il caso Predappio
di Enrico Franco
Non è un caso se il Meis, il Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah, è stato realizzato a Ferrara: probabilmente in nessun'altra regione il rapporto tra questa esigua minoranza (30.000 persone, oltre la metà a Roma) e il territorio è così intenso e fecondo. Nella piccola Comunità di Bologna, 200 iscritti, un paio di settimane fa è stato presentato un interessante libro di Daniel Fishman (ed. Pendragon) che ha un titolo assai significativo: Ebrei d'Emilia-Romagna. Già, «d'Emilia» non «in» Emilia, poiché l'identità locale e quella religiosa si sono cementate in un unicum inestricabile. Ecco perché qui, se possibile, è ancora più odioso vedere qualcuno che indossa una maglietta con scritto «Auschwitzland».
Nell'editoriale di ieri, Marco Marozzi ha evidenziato il dramma dell'editore Angelo Fortunato Formiggini che si suicidò buttandosi dalla Ghirlandina, a Modena, sentendosi tradito non solo dal fascismo cui aveva inizialmente aderito, ma da quella che era la sua patria. Una ferita che tutti i «nostri» ebrei hanno sofferto e che nelle testimonianze raccolte da Fishman torna spesso a galla. Corrado Israel Debenedetti, ad esempio, racconta che «Ferrara è sempre stata una bella città, la sentivo mia» e che, tra il 1938 il 1943, con un gruppo di amici volle scoprirla a fondo, «visitando tutte le chiese e i palazzi»; a 15 anni il rapporto si spezzò con l'arresto, la detenzione nella prigione di via Piangipane (oggi sede del Meis ), la fuga e, a guerra finita, il ritorno nella casa natale.
«Ma dopo quanto è successo - spiega - non mi sentivo più a mio agio a Ferrara». In precedenza, sotto gli Estensi, gli ebrei vissero uno dei loro periodi più felici, però anche quando ovunque furono costretti a stare nei ghetti (peraltro in genere collocati nel cuore urbano) i rapporti con la popolazione si rivelarono migliori rispetto ad altre zone italiane. L'abrogazione di ogni restrizione li portò poi a impegnarsi al massimo per il proprio Paese, tanto che la percentuale di ebrei decorati nella Prima guerra mondiale è di gran lunga superiore a quella che misurava il loro peso sul totale della popolazione.
Ecco perché le leggi razziali (che 8o anni fa, come ha scritto lunedì Marino Bartoletti per non far cadere nell'oblio il triste anniversario, fecero licenziare l'allenatore Arpad Weisz, l'inventore del «Bologna che tremare il mondo fa») furono vissute come un tradimento. Che qualcuno non riuscì a superare del tutto, mentre altri con la democrazia ritrovarono la voglia di impegnarsi in prima persona, come Nino Samaja, vicesindaco di Bologna con Dozza e dal 1946 al 1956 assessore alla Salute, o come Renato Hirsh, primo prefetto della Ferrara liberata. Ma dallo sport alla cultura e all'associazionismo in genere, la partecipazione degli ebrei emiliano-romagnoli è stata più diffusa di quanto il loro numero avrebbe lasciato supporre. Oggi il modenese Daniele Uzzielli, nato nel 1969, rivela che lo chiamavano l'«ebreo dell'oratorio» perché da ragazzo partecipava alle feste della parrocchia (grazie «al parroco molto intelligente che mi ha aperto le porte») e i suoi amici cattolici, durante lo Shabbat quando lui non poteva usare alcun veicolo, lo accompagnavano a piedi da casa a scuola.
E il rabbino di Ferrara, Luciano Caro, ammette che a volte alle sue lezioni di ebraismo i cattolici sono più degli ebrei. Ecco perché quella signora di Budrio che ha esibito l'oscena maglietta, seppur ritenga di essere una patriota, dimostra di non conoscere la sua patria.
(Corriere di Bologna, 1 novembre 2018)
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