Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari»
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Scrivici »
Notizie 16-30 novembre 2019


I laburisti britannici: se vinciamo stop alla vendita di armi a Israele e Arabia Saudita

Il partito laburista britannico giovedì scorso ha messo nero su bianco in manifesto politico sulla politica estera del partito la sua intenzione di smettere di vendere armi a Israele se arriva al potere.

Già l'anno scorso, i laburisti avevano approvato una mozione che criticava fortemente Israele e con cui si impegnavano a fermare tutte le vendite di armi del Regno Unito allo stato ebraico una volta arrivati a Downing Street.
"Sospenderemo immediatamente la vendita di armi all'Arabia Saudita per l'uso nello Yemen e a Israele per la violazione dei diritti umani dei civili palestinesi, e condurremo una riforma radicale del nostro sistema di esportazioni di armi in modo che i ministri non possano mai più chiudere un occhio sulle armi di fabbricazione britannica utilizzate per colpire civili innocenti ", afferma il documento.
Israele ha insistito sul fatto si impegna per ridurre al minimo qualsiasi perdita di vite umane civili nelle sue azioni contro i palestinesi e altre "entità terroristiche" e ostili.
Corbyn in passato ha sostenuto un boicottaggio generale di Israele da quando è stato eletto leader del Labour, ha affermato di aver cambiato idea sul boicottaggio di tutti i prodotti israeliani e ora promuove il boicottaggio solo per i prodotti delle colonie.

(La Luce, 30 novembre 2019)


Israele colpisce struttura militare di Hamas a Gaza in risposta a lancio di razzi

La tensione a Gaza continua a restare ai massimi livelli, specie dopo l'eliminazione da parte delle forze armate israeliane del comandante del gruppo Jihad Islamica, Baha Abu al-Atta.

Le forze armate israeliane hanno lanciato un attacco missilistico contro una struttura militare di Hamas situata nella zona settentrionale della striscia di Gaza.
Stando a quanto riportato dalla IDF (Israel Defense Forces) su Twitter, l'operazione è stata condotta in risposta al lancio di un razzo contro le posizioni israeliane da Gaza.
Si tratta del quarto attacco nel giro di una settimana da parte di Hamas, dopo che lo scorso giovedì le sirene avevano risuonato lungo tutto il perimetro della striscia di Gaza e a Sderot
Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che lo stato ebraico avrebbe risposto "con decisione" ad ogni sorta di attacco.

 L'eliminazione di Baha Abu al-Atta
  Nel corso di questo mese la tensione tra israeliani e palestinesi è tornata a salire in seguito all'eliminazione da parte dell'esercito israeliano del leader del movimento Jihad Islamica, Baha Abu al-Atta.
A tale evento, i militanti palestinesi hanno reagito con il lancio di numerosi razzi dalla striscia di Gaza, che sono però stati intercettati dai sistemi di difesa israeliani Iron Dome.
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato di vedere "la mano dell'Iran" dietro gli attacchi provenienti da Gaza verso Israele.

(Sputnik Italia, 30 novembre 2019)


Grazie a Trump, i mullah si avviano al fallimento

Il 12 novembre, il presidente iraniano Hassan Rohani ha riconosciuto per la prima volta che "l'Iran sta vivendo uno degli anni più difficili dalla rivoluzione islamica del 1979" e che "la situazione del Paese non è normale".

di Majid Rafizadeh*

I critici della politica di Trump nei confronti dell'Iran sono stati smentiti: le sanzioni americane stanno imponendo un notevole carico di pressioni sui mullah iraniani e sulla capacità di finanziare i loro gruppi terroristici.
   Prima che il Dipartimento del Tesoro statunitense livellasse le sanzioni secondarie nel settore del petrolio e del gas naturale, Teheran esportava oltre due milioni di barili di greggio al giorno. attualmente, l'esportazione di petrolio iraniano è scesa a meno di 200 mila barili al giorno, il che rappresenta un calo di quasi il 90 per cento delle esportazioni.
   L'Iran detiene le seconde riserve mondiali di gas naturale e le quarte di petrolio, e la vendita di tali risorse rappresenta più dell'80 per cento dei proventi delle sue esportazioni. Pertanto, storicamente, la Repubblica islamica dipende fortemente dalle entrate petrolifere per finanziare il suo avventurismo militare nella regione e sponsorizzare le milizie e i gruppi terroristici. Il bilancio presentato nel 2019 è stato di circa 41 miliardi di dollari, mentre il regime si aspettava di realizzare 21 miliardi di dollari dalle rendite petrolifere. Ciò significa che circa la metà delle entrate pubbliche dell'Iran proviene dall'esportazione di oro nero verso altre nazioni.
   Anche se la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, si vanta dell'economia autosufficiente del Paese, molti leader iraniani di recente hanno ammesso la terribile situazione economica che il governo si trova a dover affrontare. Parlando nella città di Kerman, il 12 novembre scorso, il presidente iraniano Hassan Rohani ha riconosciuto per la prima volta che "l'Iran sta vivendo uno degli anni più difficili dalla rivoluzione islamica del 1979" e che "la situazione del Paese non è normale".
   Rohani ha inoltre recriminato:
"Anche se abbiamo altri redditi, le uniche entrate che possono fare andare avanti il Paese sono i soldi del petrolio. Non abbiamo mai avuto così tanti problemi nel vendere petrolio e nel consentire la navigazione alla nostra flotta di petroliere. (...) Come possiamo gestire gli affari del Paese, quando abbiamo problemi nel vendere il nostro greggio?"
Grazie alla politica statunitense di "massima pressione", anche l'economia complessiva della Repubblica islamica ha subìto un duro colpo. Recentemente, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha di nuovo modificato le sue previsioni per l'economia iraniana, rilevando che quest'ultima dovrebbe contrarsi del 9,5 per cento, anziché del 6 per cento, entro la fine del 2019.
   Uno dei motivi alla base del quadro a tinte fosche dell'economia iraniana delineato dal Fondo Monetario Internazionale è collegato alla decisione dell'amministrazione Trump di non rinnovare le esenzioni concesse agli otto maggiori acquirenti del greggio iraniano: Cina, India, Grecia, Italia, Taiwan, Giappone, Turchia e Corea del Sud. Invece di mostrare una crescita nel 2019, l'economia iraniana entro la fine di quest'anno sarebbe del 90 per cento inferiore come volume complessivo rispetto al dato dei due anni precedenti, come si legge in un recente rapporto della Banca mondiale.
   Anche la valuta nazionale dell'Iran, il rial, continua a perdere valore: è scesa ai minimi storici. Un dollaro statunitense, che nel novembre 2017 equivaleva a circa 35 mila rial, ora è quotato a circa 110 mila rial.
   Inoltre, la Repubblica islamica sembra cercare di compensare la perdita di entrate. Alcuni giorni fa, ad esempio, i leader iraniani hanno triplicato il prezzo del carburante. Sembra essere un segno di disperazione finalizzato a generare introiti per finanziare il suo avventurismo militare nella regione e sostenere i loro emissari e i gruppi terroristici.
   Questo aumento ha indotto immediatamente la gente a ribellarsi al governo. Negli ultimi giorni, diverse città iraniane sono diventate teatro di proteste e manifestazioni. Le proteste sono inizialmente scoppiate ad Ahvaz per poi diffondersi in molte altre città della provincia del Khuzestan, nella capitale Teheran, a Kermanshah, Isfahan, Tabriz, Karadj, Shiraz, Yazd, Boushehr, Sari, Khorramshahr, Andimeshk, Dezful, Behbahan e a Mahshahr.
   La diminuzione delle risorse di Teheran ha inoltre indotto i leader iraniani a tagliare i fondi al gruppo terroristico palestinese Hamas e al gruppo militante libanese Hezbollah. Hamas è stato costretto a introdurre dei "piani di austerità", mentre Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, emissario di Teheran, ha inoltre invitato l'ala del suo gruppo che si occupa della raccolta fondi a "offrire l'opportunità di jihad con il denaro e a contribuire a questa battaglia in corso".
   Con probabile sgomento dei critici di Washington, la politica del presidente Trump nei confronti dell'Iran si sta muovendo nella direzione giusta. Aumentando le sanzioni economiche, i mullah al potere e i loro emissari si avviano al fallimento. Altri Paesi ora devono unirsi agli Stati Uniti perseguendo altresì una politica di "massima pressione" - anche se preferirebbero continuare a fare affari con l'Iran e minare l'amministrazione del presidente Trump - "due piccioni con una fava", per loro. Se l'Iran riuscisse a sviluppare la capacità di produrre armi nucleari, questa finirà per essere utilizzata proprio per ricattarli e intimidirli.

* Majid Rafizadeh, accademico di Harvard, politologo e uomo d'affari, è anche membro del consiglio consultivo della Harvard International Review, una pubblicazione ufficiale della Harvard University, e presidente del Consiglio internazionale americano sul Medio Oriente. È autore di molti libri sull'Islam e sulla politica estera statunitense.

(Gatestone Institute, 28 novembre 2019 - trad. Angelita La Spada)


Il Likud senza Bibi perderebbe seggi, ma forse darebbe a Israele un governo

Un sondaggio (molto ipotetico) e i dilemmi di un partito che vorrebbe riformarsi ma non sa né come farlo né-come dirlo

di Micol Flammini

ROMA - Del Likud senza Benjamin Netanyahu potrebbe rimanere qualcosa, ma non molto. Non tutto, di certo. Il premier ha aperto alla possibilità di tenere delle primarie all'interno del partito, timidamente qualcuno si è fatto avanti, spiegando che forse, dopo dieci anni, è arrivato il momento di cambiare. Il futuro del governo israeliano sembra così rimanere appeso alla figura del primo ministro incriminato la scorsa settimana che potrà rimanere in carica fino a quando non sarà incriminato in via definitiva. Nel frattempo all'interno del partito, in una Knesset che fatica a trovare un candidato che piaccia a molti se non a tutti, a cui affidare l'incarico per formare un governo, ci si inizia a contare. mancano dieci giorni, c'è chi spera ancora che il favore di almeno sessanta deputati riesca a convergere su qualcuno, si fanno prove di strane geometrie, altri invece sperano ancora che Likud e Blu e bianco si accordino finalmente per un governo di unità nazionale, il prima possibile. Ma questi sono i desideri dei partiti minori, di chi vuole evitare un terzo voto, per cui già esiste una data: il 20 marzo. Chiedono di unirsi per la sicurezza, con l'Iran sempre più minaccioso e il jihad islamico pericoloso il senso di instabilità e di accerchiamento cresce, ma per i principali sfidanti non c'è rischio, la macchina della sicurezza riesce ad andare avanti da sola, anche senza un governo. Le convergenze sono molte tra il Likud e Blu e bianco, ma rimane lui, Benjamin Netanyahu, a rendere questa unione impossibile. Lo sanno tutti, lo sa anche il partito del premier che inizia a mostrare più di una spaccatura. Sono mormorii sommessi, ma esistono e nella Knesset si sentono, tradire Netanyahu non si può, bisogna sfidarlo apertamente, ma spetta a lui dichiarare la sfida aperta. Intanto iniziano le previsioni e i giochi, se ci sei tu non ci sono io, se tradisci tu, non tradisco io. Malumore e disamore ci sono, ma non soltanto tra i deputati, anche tra gli elettori e il primo problema, in un Likud senza Bibi, è proprio quello dei voti. Un sondaggio condotto da Channel 12 mostra quali risultati produrrebbe una terza elezione. Se Benjamin Netanyahu fosse ancora il candidato del partito, il Likud guadagnerebbe un seggio in più, da 32 a 33. Blu e bianco di Benny Gantz passerebbe da 33 a 34. Il terzo partito si confermerebbe la Lista comune dei partiti arabi. E poi partiti di varia grandezza, orbitanti attorno ai due maggiori, Likud e Blu e bianco, sempre l'uno contro l'altro. Nemmeno una terza elezione permetterebbe di risolvere la situazione, visto che le alleanze rimarrebbero uguali, distante dal numero magico, 61, che garantisce la maggioranza.
   Channel 12 ha poi realizzato un secondo sondaggio con un ipotetico Likud senza Benjamin Netanyahu, il risultato cambierebbe e a rimetterci sarebbe il partito del premier che da 33 seggi arriverebbe invece ad averne 26. Blu e bianco crescerebbe di poco, arriverebbe a 35, e a guadagnare dai voti persi dal Likud sarebbero Shas e Nuova destra. Nulla però impedirebbe a Benny Gantz e a Gideon Sa'ar, nuovo ipotetico leader del Likud, di formare un governo di unità nazionale che avrebbe il numero necessario per esistere da solo, 61. A questi potrebbero aggiungersi i seggi di Ysrael Beytenu di Avigdor Lieberman e anche Nuova destra e il partito Labour-Gesher. L'esecutivo starebbe in piedi, senza ostacoli, senza Netanyahu. Ma per il Likud si chiuderebbe una fase storica e si troverebbe a dover rispondere a una domanda che può generare ancora più fratture: senza Bibi, cos'è questo nuovo partito?

(Il Foglio, 30 novembre 2019)


Quegli inaccettabili distinguo su Israele

di Daniele Manca

I danni provocati dalla cultura del sospetto nel nostro Paese non sembrano diminuire. E questo nonostante sia diffusa ormai da qualche decennio ed evidentemente non abbia prodotto alcun risultato. Se non quello di alimentare non tanto discussioni e prese di coscienza quanto il continuo prendere le distanze, i distinguo, la delegittimazione di chi la pensa in modo diverso. Nel caso dell'accordo con la Israelian Innovation Authority siglato giovedì scorso, con il sapore sgradevole della delegittimazione. E c'è da sperare non all'odio.
   L'intesa firmata dalla sindaca Chiara Appendino permetterà alle aziende italiane ed estere che appartengono al circuito di Torino City Lab di avviare e rafforzare i rapporti con le start up israeliane nel mondo dell'hi tech. E questo anche grazie alla possibilità di accedere a dei finanziamenti stanziati dall'Israel Innovation Agency guidata da Ami Appelbaum. Un'intesa per la città, che può contribuire allo sviluppo, a ridare il ruolo che merita Torino.
   I timori e le preoccupazioni che le tecnologie possano essere usate per scopi bellici arrivano a essere persino comprensibili. Ma quello che non è accettabile è che ogni volta che Israele è parte di attività o di intese, immediatamente arrivino i distinguo. La richiesta di prese di distanza. E non può essere un caso. È sin troppo facile ricordare che tutto questo non accade nei confronti di altre nazioni.
   Si fanno affari con estrema tranquillità e nel silenzio più assoluto con Stati nei quali è prevista la lapidazione delle donne adultere o dove è tollerato il fenomeno delle spose bambine costrette a matrimoni con adulti. Ma appena c'è di mezzo l'unica democrazia in Medio Oriente che con fatica, in un ambiente sicuramente ostile, tiene alti i valori delle persone a prescindere del genere e delle etnie, ecco che si fanno interpellanze e si chiedono rassicurazioni.
   Si sono siglati accordi a livello nazionale come quello della Belt and Road Initiative, romanticamente denominata in italiano «Nuova via della Seta» senza nemmeno porsi il problema di quale regime ha dato vita a quel processo. Non vogliamo andare indietro nel tempo ricordando i dissidenti in galera in Cina o il Tibet occupato, basta leggere le cronache quotidiane da Hong Kong.
   Intendiamoci quello che è accaduto nei giorni scorsi a Torino non è un episodio isolato. L'Unione europea è arrivata nel 2015 a «marchiare» i prodotti di aziende israeliane sfornati dalle fabbriche dei territori sotto il controllo dell'Autorità palestinese. Quasi fosse da riprovare il fatto che avessero sede impianti di società israeliane in Cisgiordania dove lavoravano palestinesi regolarmente assunti.
   E così non bastano le rassicurazioni della ministra come Paola Pisano che è stata assessora in questa città e che era presente alla firma di quell'accordo. Tantomeno della sindaca. Anzi, arriva il fuoco amico dalla stessa maggioranza in consiglio comunale.
   Attorno a Israele c'è un clima tale che ha spinto negli anni passati addirittura a boicottare prodotti, persino spettacoli lì ideati e organizzati. Ecco perché le tante cause nobili in giro per il mondo, come scriveva Bernard-Henry Lévy sul Corriere del giugno del 2015 in piena campagna di boicottaggio, rendono stonati gli allarmi preventivi che si sono ascoltati in città.

(Corriere Torino, 30 novembre 2019)


Polanski fotografa l'essenza della Francia tra odio antisemita e battaglie civili

L'altro Polanski

di Bernard-Henri Levy

E se si parlasse di Polanski? Ma davvero, di Polanski. Non del caso di stupro su una minore per cui è stato processato quarantadue anni fa e per il quale ha scontato una condanna a quarantasette giorni di carcere nel penitenziario di Chino, vicino a Los Angeles.
   Né di questo nuovo caso di cui la presunta vittima ha parlato nel momento in cui l'eventuale reato è prescritto da ventidue anni e non può più essere oggetto del contraddittorio senza il quale non esiste giustizia possibile (Roman Polanski, quindi, per questo crimine è presunto innocente).
   E ancora meno di questo eterno dibattito sul rapporto tra l'uomo e la sua opera, i cui termini sono stati posti poco più di un secolo fa nel suo «Contre Sainte-Beuve» da un certo Marcel Proust (delle due cose, l'una, stabilisce questo testo che, secondo me, non è per nulla invecchiato: o concediamo un minimo di credito all'ipotesi di un secondo ego, relativamente estraneo all'ego sociale dell'artista, e da cui nasce il suo lavoro - o possiamo bruciare Aragon, Celine, Brecht, Marx, il Marchese de Sade e, quindi, Polanski).
   No.
   Voglio parlare dell'altro Polanski, quello di «Rosemary's Baby», di «Per favore non mordermi sul collo!», di «Il pianista» e Proust ha dimostrato che non ha senso distinguere tra l'uomo e la sua opera dell'«Uomo nell'ombra» e oggi del nuovo film, «L'ufficiale e la spia», dedicato al Caso Dreyfus e che ho visto di ritorno da un reportage.
   Se dovessi fare un'obiezione, riguarderebbe il trattamento del personaggio di Alfred Dreyfus stesso, sottotono, insipido, schiacciato dal suo destino, poco simpatico: come se il regista, assumendo il punto di vista di Picquart, prendesse per oro colato la leggenda, creata da Clemenceau («Picquart è un eroe, Dreyfus è una vittima»), da Blum (se Dreyfus non fosse stato Dreyfus, «sarebbe stato ugualmente dreyfusardo?») o da Peguy (Dreyfus, questo povero «abitante» della grande «Idea» dreyfusarda), di un antieroe Dreyfus, deludente, non all'altezza della sua causa.
   E così rimane il mio desiderio di un film ulteriore: il Dreyfus che dimostrando sangue freddo e un temperamento d'acciaio resiste sull'isola del Diavolo e accetta la grazia solo per potersi subito dopo battere, senza cedere nulla o lasciarsi andare, per la sua riabilitazione - e il Dreyfus, di cui non si parla affatto, che dopo, negli anni che seguirono l'Affare, ha partecipato alle lotte della nascente Lega per i diritti dell'uomo - lottando per un portuale francese ingiustamente condannato a morte; per il soldato Emile Rousset, ingiustamente processato da un consiglio di guerra in Algeria; o, ancora, per gli anarchici italoamericani sogno un film ulteriore: il Dreyfus d'acciaio che resiste sull'isola del Diavolo, Sacco e Vanzetti condannati alla sedia elettrica ...
   Ma, espressa questa riserva, è ammirevole l'affresco, in questo «L'ufficiale e la spia», di un apparato militare ripiegato sul suo errore giudiziario e che confida su falsi grossolani: gli antenati delle bufale ...
   Ammirevole la descrizione di una Francia che puzza di antisemitismo, rosa dal suo veleno come il colonnello Sandherr dalla sifilide e che urla il suo odio per gli ebrei, nei corridoi dei tribunali come sulla stampa, con un'isteria tranquilla e gelida: la Francia ammuffita, diceva Philippe Sollers; l'ideologia francese, mi sono detto ...
   Ammirevole e illuminante, è la scena in cui vediamo, a Parigi, un autodafè de «L'Aurore» in cui è appena apparso il «J'accuse ...!» di Emile Zola, così come un attacco a un negozio preso a sassate e imbrattato con la scritta omicida «Morte agli ebrei»: non siamo più nella Francia dal 1906, ma a Berlino, nel 1938, nel pieno della Notte dei cristalli - e non si potrebbe raccontare meglio l'onda d'urto dell'Affare, il modo in cui apre il ventesimo secolo, la sua dimensione trans-storica.
   Ammirevole è ancora, parlando come Peguy, la restituzione di un clima di guerra civile e intima in cui le famiglie si spezzano «come paglia», dove ci si separa da un fratello o da un amico come ci si «amputa un braccio» e dove ciascuno, a sinistra come a destra, tra i socialisti non meno che tra i nazionalisti, è in guerra contro se stesso.
   Ammirevole, ovviamente, il ritratto di Marie-Georges Picquart, il colonnello che, diventato capo del controspionaggio francese, fu il primo a capire che l'autore della famosa nota da cui nacque il caso non era Dreyfus ma Esterhazy. In che modo questo soldato, partendo da una certa idea dell'esercito, e dalla convinzione che un simile aborto di giustizia avrebbe macchiato il suo onore per sempre, finì per abbracciare la causa della verità e della giustizia? In che modo questo antisemita a pelle, come dicevano allora i maurrassiani, è giunto a questo incontro con Joseph Reinach, Mathieu Dreyfus, Emile Zola, in altre parole i sostenitori del «partito ebraico», che è il punto di svolta del film e fa di lui il primo informatore nella storia della Francia? E al culmine di quale travaglio interiore questo ufficiale, superbamente incarnato da Jean Dujardin, arriva, alla fine, durante il suo duello alla spada contro il burocrate criminale Henry, a questa simbolica riparazione dell'altra spada: quella del capitano degradato, che, nella panoramica iniziale del film, aveva visto, come tutti i suoi colleghi, andare in rovina senza farsi scrupoli? Questo è il vero nucleo del film. E tutto ciò, sì, è ammirevole.
   Emmanuel Levinas ha raccontato come ha deciso di venire a vivere in Francia il giorno in cui, dal profondo della sua nativa Lituania, ha capito che c'era, molto, molto lontano, uno strano paese che per metà urlava il suo odio per un piccolo capitano ebreo innocente, ma dove l'altra metà stava lavorando alla sua riabilitazione, come se si desse da fare per la propria salvezza. Bene, questo è ciò che mostra il film ed è per questo che è necessario, contro tutti i Sainte-Beuve, mollare tutto e correre a vederlo.

(La Stampa, 30 novembre 2019 - trad. Carla Reschia)


I nemici di Dreyfus

Da Claudel a Valéry, anche la "cupola" della cultura francese processò il capitano ebreo. Il nuovo film di Polanski e l'eredità culturale dell'affaire.

di Giulio Meotti

Una famosa vignetta, pubblicata sul Figaro del 14 febbraio 1898, mostra una famiglia a tavola che finisce per litigare selvaggiamente non appena iniziano a parlare dell'affaire Dreyfus. L'ufficiale d'artiglieria francese accusato di tradimento è stato oggetto di infiniti studi. che ne hanno esaminalo l'impatto politico, sociale e storico. Adesso c'è anche il film di Roman Polanski, "L'ufficiale e la spia". L'affaire fu un grande campo di battaglia in cui si confrontavano due visioni del mondo, due prospettive culturali, due atteggiamenti verso il potere, due sistemi di valori che coinvolse anche tutto il pantheon della cultura francese del tempo....

(Il Foglio, 30 novembre 2019)


A Roma deputati della Knesset discutono di Iran, Siria e Medio Oriente

ROMA - L'Iran, presente con la Forza Quds in Siria e appoggiando il movimento sciita libanese Hezbollah e il Partito del Jihad islamico (Pij) nella Striscia di Gaza, sta costruendo una capacità simile anche in Siria, e di fatto è in grado di minacciare Israele sia sul fronte settentrionale che sud-occidentale. Nel corso del dibattito è emerso che Mosca rappresenta l'unico attore in grado di arginare il ruolo dell'Iran in Medio Oriente, sottolineando la necessità che i russi dicano all'Iran di andare via dalla Siria". Israele e Russia hanno raggiunto un accordo negli anni scorsi per garantire la sicurezza delle rispettive operazioni militari in Siria. A tal proposito, Kahana - ex pilota dell'Aeronautica - ha dichiarato: "Noi collaboriamo con i russi in Siria e avvertiamo i russi prima di attaccare. Ciò nonostante, contiamo solo sulle nostre forze". Allargando l'orizzonte verso l'area del Golfo, il rappresentante di Kahol Lavan si è detto "deluso dall'amministrazione di Donald Trump per il ritiro dalla Siria e del sostegno ai curdi, oltre che per non aver reagito all'attacco iraniano contro le infrastrutture petrolifere di Aramco in Arabia Saudita lo scorso settembre".

(Agenzia Nova, 29 novembre 2019)


Il ministro israeliano Bennet: occorre rafforzare la campagna militare in Siria

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Naftali Bennet, ha sottolineato la necessità per lo Stato di Israele di intensificare la campagna militare in Siria. Citato dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post", Bennet ha rivelato che vi è attualmente una "finestra di opportunità per colpire l'Iran in Siria". Per il responsabile della difesa israeliano, la forza militare dell'Iran è ancora debole, quindi il pericolo rappresentato per Israele è inferiore. Secondo Bennett, l'attuale politica utilizzata da Israele negli ultimi anni e conosciuta come "campagna tra le guerre", dovrebbe essere cambiata per ostacolare la presenza iraniana in Siria e in altre regioni.

(Agenzia Nova, 29 novembre 2019)



Beersheba, intelligence israeliana

 
Beersheba
Beersheba, a circa 100 chilometri a sud di Tel Aviv, è molto più che la porta del deserto del Negev. Questa città ospita il cervello del paese.
La società tecnologica accoglie e crea le principali società di sicurezza informatica al mondo. La sede del Computer Emergency Response Team (CERT) nei prossimi anni riceverà tutto il supporto dell'intelligence militare
È il secondo paese più attaccato attraverso la rete (dopo gli Stati Uniti), germe di un'area che raggruppa 430 aziende, impiega 19.000 persone, monopolizza il 5% del settore mondiale, genera ricavi per 6.000 milioni di euro e da cui provengono 65 nuove aziende ogni anno.

 Centro di intelligence
  Nell'edificio 2 del parco tecnologico di Beersheba, c'è il CERT, uno dei centri informatici più sconosciuti; Benjamin Netanyahu, che espone questo complesso come un successo personale, poiché è stato creato dal 2002 di sua iniziativa e come sequel della National Security Agency (NSA) che ha visto negli Stati Uniti.
Il centro di controllo di risposta immediata non può essere inserito con nessun dispositivo elettronico; come cellulari, registratori o telecamere che sorvegliano una biglietteria vicino a una cucina per i lavoratori. Al cuore del CERT si accede da tre corridoi senza finestre di circa 10 metri ornati solo da fotografie di invenzioni israeliane. Tutto è non inquinato e nascosto. Non ci sono porte aperte e devi aspettare nella sala per i tecnici di spegnere gli schermi di lavoro prima di dare il via alle visite.
Uno dei nove team di risposta alle emergenze riposa in un'aula sfalsata con 23 monitor. Sono studenti, frequentano con curiosità l'arrivo di uno sconosciuto ed evitano qualsiasi conversazione oltre la cortesia obbligatoria.
Su una parete monitorata mostra una mappa del mondo in cui si osservano frecce dirette verso Israele dagli Stati Uniti, dalla Spagna, dalla Francia settentrionale, dal Regno Unito e dalla Malesia.

 Attacchi al secondo
"Riflette al secondo gli attacchi che stiamo ricevendo, ma è più un orientamento perché le frecce mostrano dove è registrato l'ultimo IP (identità del computer), gli attacchi possono essere ordinati da qualsiasi parte del mondo" spiega Lavy Shtokhomer.
Un'altra parte dello schermo mostra ogni centesimo di secondo indirizzo di rete da cui vengono registrati gli avvisi per attacco, per un totale di oltre 100.000 al giorno. "Principalmente", afferma Shtokhomer, sono furti di informazioni (20%), intrusioni (14%) e programmi dannosi (il malware, 11%).
Una parte dello schermo è riservata a Cibernet, una rete di esperti associati che fornisce soluzioni ai problemi di sicurezza del computer.
Al momento della visita, lo scambio di dati era monopolizzato da un ingegnere israeliano le cui iniziali sono N. T., un altro specialista con le iniziali R. B e un'entità con l'acronimo di un'agenzia spaziale.
"Ogni settore (finanziario, sicurezza, trasporti, telecomunicazioni, energia e altri) è minacciato e ha i suoi protocolli. Il nostro obiettivo è assistere e proteggere tutti, non solo le entità governative. E la nostra missione di promuovere l'alta tecnologia ", conclude Shtokhomer.


 Ecosistema
"Ci sono voluti 10 anni per scoprire che la strategia politica di cui avevamo bisogno aveva una struttura operativa" aggiunge Igal Unna
Igal Unna un direttore generale della Israel Cyber Directorate (INCD). Da qui il modello israeliano unico.
Dalle esigenze di difesa, che assorbono oltre il 4% del PIL, è nata l'idea di capitalizzare tale spesa generando una rete universitaria e aziendale, nella maggior parte dei casi (un esempio è Cyberark, una delle principali società di sicurezza) , seguendo le unità di controllo dei computer militari.
Questo è ciò che chiamano "ecosistema", un'organizzazione che combina governo, esercito, ricerca universitaria e tessuto imprenditoriale.
O Santo è uno dei responsabili di questo trasferimento in una città già situata a livello dei principali centri tecnologici del mondo.
Il parco tecnologico, spiega, prevede di ospitare 15.000 nuove sedi in 200.000 metri quadrati (ora ne ha tre), 300.000 lavoratori, 3.000 militari (6.000, quando il trasferimento dell'intero campus di intelligence dell'esercito è completato) e 20.000 studenti. "È la nostra Silicon Valley", afferma Shtokhomer.

(Funzen, 29 novembre 2019)


Ripresi in Israele i negoziati sul governo

I negoziatori del partito di destra Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu e del partito centrista Blu e Bianco di Benny Gantz si sono incontrati ieri sera per tentare di superare lo stallo sulla formazione del nuovo governo israeliano ed evitare di dover tornare alle urne per la terza volta. «Questa sera inizierà il tentativo di ripristinare la salute d'Israele» ha detto il presidente del Parlamento, Yuli Edelstein, annunciando la ripresa dei colloqui. «Israele è nel pieno di una emergenza di governo che potrebbe portare a un collasso economico e sociale. Quel che è troppo è troppo» ha aggiunto il presidente della Knesset. Quello annunciato da Edelstein sembra l'ultimo, estremo, tentativo di trovare un'intesa per la formazione di un governo di unità nazionale entro l'11 dicembre, data oltre la quale sarà necessario convocare nuove elezioni dopo quelle di aprile e settembre. Tuttavia, secondo gli analisti, le possibilità di riuscita appaiono esili.

(L'Osservatore Romano, 29 novembre 2019)


Accordo hi-tech con Israele, M5S contro la sindaca

Polemica nella maggioranza. Sganga: «Il Comune non metta soldi». La replica: «Sono progetti civili»

di Giulia Ricci e Andrea Rinaldi

 
                                             Chiara Appendino                                                                                           Valentina Sganga
Le aziende torinesi utilizzeranno l'innovazione delle startup israeliane. Ma ancora una volta la maggioranza prende le distanze dalle scelte della propria sindaca. Ieri mattina la prima cittadina Chiara Appendino, appoggiata dalla ministra ed ex assessora all'Innovazione Paola Pisano, ha firmato un accordo con la Israel Innovation Authority, l'ente governativo che ha accordi con 75 Paesi e investe ogni anno mezzo miliardo di euro in tutto il mondo.
   Ma ancor prima che prendesse in mano la penna, il Movimento 5 Stelle in Sala Rossa l'aveva già attaccata: «La Città di Torino - ha scritto la capogruppo Valentina Sganga - si oppone a qualsiasi forma di oppressione del popolo palestinese. Quindi non ci dev'essere nessun contributo da parte dell'amministrazione a progettazione e sperimentazione di tecnologie che possano avere un risvolto bellico, né lì, né nel resto del mondo. Appendino conosce bene questa posizione e ci auguriamo ne abbia tenuto conto prima della sottoscrizione». Una linea condivisa dalla maggior parte dei suoi. Il consigliere Aldo Curatella ha ribadito il concetto: «Spero che nell'accordo sia compresa l'esplicita esclusione di ogni collaborazione se l'attività svolta avrà ricadute e impatti diretti o indiretti in relazione ai possibili usi bellici»; mentre la grillina Daniela Albano non si fida: «Facciamo un'interpellanza perché ci siano garanzie in tal senso».
   E’ così ancora una volta Appendino si è ritrovata attaccata dal «fuoco amico». E ancora una volta ha rispedito le parole al mittente: «Condivido la sensibilità dei miei sulla Palestina, ma gli accordi sono necessari. E riguarderanno solo l'ambito civile di aziende che lavorano per tecnologie al servizio delle persone, non contro le persone. Oggi serve un approccio cooperativo, non competitivo». Al suo fianco, Pisano: «Monitoriamo che le tecnologie e il loro utilizzo siano etiche, tanto che anche come ministero vogliamo creare un gruppo apposito».
   Ma le opposizioni pretendono che Appendino prenda le distanze dalle parole dei suoi. «E evidente - ha commentato il capogruppo della Lega Fabrizio Ricca - che non basti firmare un giorno sì e l'altro pure delle dichiarazioni d'intenti contro l'odio, se poi si finisce per appoggiare campagne di boicottaggio e delegittimazione di uno Stato amico come quello di Israele». E se per il leader di Forza Italia in Sala Rossa, Osvaldo Napoli, le parole di Sganga «svergognano e disonorano non solo chi le ha scritte, ma l'intera città di Torino che non può riconoscersi in queste manifestazioni violente», per la deputata di Italia Viva Silvia Fregolent «si tratta di un cortocircuito istituzionale gravissimo».
   L'accordo, firmato alla presenza del ministro Pisano, da Ami Appelbaum, presidente dell'Israel Innovation Authority e chief scientist del ministero dell'Economia israeliano e dalla sindaca ha l'obiettivo di rafforzare e promuovere lo sviluppo di progetti innovativi tra le start -up israeliane high-tech le aziende Corporate italiane e internazionali appartenenti al network di Torino City Lab, grazie alla possibilità di accedere a dei finanziamenti stanziati dalla Israel Innovation Authority. L'accordo bilaterale prevede uno stanziamento di 2,5 milioni di euro all'anno.
   Già ieri pomeriggio 30 aziende del Torinese - Lavazza, Sabelt, Fca, Reale Mutua solo per citarne alcune - hanno incontrato le 13 startup provenienti da Israele alle Ogr. Si tratta di neoimprese specializzate soprattutto nei settori automotive, cybersecurity, It e cleantech. «Siamo la porta di ingresso per l'Europa e lo scale up. Siamo al servizio per espandere la leadership e migliorare la produttività», ha detto Appelbaum.

(Corriere Torino, 29 novembre 2019)


*


I Cinque stelle, a Torino contro Israele, dimostrano la loro natura

L'ipocrisia sulla Segre e il fardello dell'antisemitismo

di David Allegranti

L'antisionismo è un riflesso pavloviano classico, una maschera usata per celare abbondanti rigurgiti antisemiti. Il non argomento di lorsignori - certa sinistra e i populisti - è noto: essere contro Israele non significa essere contro gli ebrei. Sbagliato: Israele è lo stato nato per accogliere e proteggere gli ebrei. Una dimostrazione pratica, e di grande evidenza, della pretestuosità degli attacchi a Israele si è vista ieri a Torino. Prevedibile, verrebbe da dire, conoscendo i soggetti in questione. Il gruppo consiliare del M5s, per bocca della sua capogruppo Valentina Sganga, ha violentemente attaccato Israele, cogliendo come occasione, o meglio come scusa, la firma da parte del comune di Torino guidato da Chiara Appendino di un protocollo d'intesa fra Torino City Lab e Israel Innovation Authority, istituto governativo che promuove ricerca e sviluppo per conto di uno stato che, secondo il Global Competitiveness Report del World Economie Forum 2016-2017, è il secondo più innovativo al mondo. "La Città di Torino", ha detto la capogruppo del M5s, "si oppone a qualsiasi forma di oppressione del popolo palestinese e anche l'accordo di oggi (ieri, ndr) è occasione per sottolineare la nostra contrarietà alla guerra che Israele fa contro la popolazione, guerra in cui sempre più la tecnologia è messa al servizio dei sistemi di sorveglianza e oppressione di Israele sui palestinesi".
   Questa sortita non deve stupire. Il M5s resta pur sempre il partito che ha eletto senatore Elio Lannutti, propugnatore via Twitter di bufale (ricorderete il famigerato tweet sui "Protocolli dei Savi di Sion") e insulti antisemiti: "Le ong finanziate da Soros e altri ideologhi della sostituzione etnica, oltre a essere bandite dovranno essere affondate. Tolleranza zero". A poco dunque serve applaudire Liliana Segre, votare a favore della commissione contro l'odio e darle la cittadinanza onoraria (anche a Torino). I Cinque stelle, semplicemente, non riescono a liberarsi del pesante fardello che condiziona una parte importante del movimento. Ma se questo è vero in termini generali, il caso dei Cinque stelle di Torino, espressione anche del peggior movimentismo da centro sociale, è pure più grave. Col risultato assurdo sotto il profilo politico di votare, in odio a Israele, contro il proprio stesso sindaco. "Il tentativo dei Cinque stelle di Torino di impedire un pacifico accordo scientifico fra la città e un'università israeliana", dice al Foglio il semiologo Ugo Volli, "non mostra solo la reazionaria ideologia antiscientifica e antindustriale che caratterizza questo movimento, ma testimonia soprattutto il loro odio, tante volte espresso, per Israele, che si spiega solo con l'antisemitismo. I Cinque stelle sono amici e apologeti delle peggiori dittature, dal Venezuela all'Iran e alla Cina e detestano e diffamano chi in esse rischia la vita per avere un po' di democrazia. Nessuna meraviglia che odino Israele, la sola democrazia del medio oriente". Tutto questo accade a Torino, sede della terza comunità ebraica italiana, la città di Primo Levi, nonché quella che diede ospitalità alla famiglia Ginzburg, la città dove i primi ebrei giunsero nel XV secolo, in seguito all'espulsione degli ebrei dalla Francia, la città della Mole Antonelliana. Una storia lunga, forte e complessa, inevitabilmente dolorosa, che non merita certi falsificanti distinguo su Israele. Un ulteriore segnale della inconsistenza culturale del nostro populismo quando si tratta di maneggiare temi non negoziabili della nostra convivenza e dell'identità europea. Appare brutale la pretesa dei Cinque stelle di straparlare a nome di una città che forse amministrano, ma che certo non rispettano.

(Il Foglio, 29 novembre 2019)


L'eccesso di cittadinanze onorarie strumentalizza Liliana Segre

Che va onorata e difesa ma non certo usata

di Gianfranco Morra

Un nuova moda si è imposta nei nostri comuni. Tutti vogliono conferire a Liliana Segre la cittadinanza della propria città. Che la senatrice a vita vada onorata, rispettata e protetta dagli antisemiti (come ebrea e italiana) è cosa ovvia, basta pensare alle sue sofferenze. Ma questa mania del «prendi Liliana e sbattila in prima pagina» non è solo una demenza, ma anche una offesa a una vittima della persecuzione nazista. Ciò che più conta, per il comune, non é l'onorificenza, ma il credito e prestigio che ne andrà al municipio, insieme con la fama, oggi preziosa, di antirazzista.
   E' così che Liliana ha avuto la cittadinanza a Palermo, Genova, Torino, Savona, Novara, Varese, Nombino, Pescara, Vasto. E tante altre sono in coreo. Un po' turbolenta è stata quella di Biella: il sindaco, di centrodestra, l'aveva in un primo momento negata, e girata all'attore Ezio Greggio, nato in provincia di Biella e impegnato per l'assistenza ai neonati prematuri. Ma Greggio, per rispetto alla Segre, l'ha rifiutata. E il sindaco ha poi capito l'errore, «sono stato un cretino», ha detto in Tv. Alla fine l'hanno data alla senatrice. Ma possibile che nessuno si sia chiesto: che cosa mai la Segre ha avuto in comune con quelle città, visto che la concessione della cittadinanza dovrebbe onorare chi in qualche modo abbia fatto ad essa del bene.
   Come si è espresso il sindaco di Sesto San Giovanni, Roberto Di Stefano (Lega), che ha motivato il rifiuto della cittadinanza con argomenti non politici: «La Segre non ha niente a che fare con la nostra storia e darle la cittadinanza sarebbe svilente, perché sarebbe una strumentalizzazione politica». Ripeto: pensare a ciò che ha sofferto nel lager fa venire la pelle d'oca. Era una bambina di 13 anni. Doveva pensare a salvare la propria vita e, per fortuna, c'è riuscita. A quell'età non poteva essere né Padre Kolbe, né Salvo d'Acquisto. Che sia onorata, rispettata e anche protetta, è nella logica, purtroppo un certo numero di antisemiti li abbiamo, di destra che verniciano le tombe e di sinistra che bruciano le bandiere di Israele.
   Che però se ne faccia una icona massmediatica per esaltare città che con lei nulla hanno avuto a che fare non è un omaggio per la vittima onorata, ma una offesa. E nata una stupida competizione, una gara da talk show, che la Signora non ha certo chiesto, non poteva rifiutarla e la sopporta. Ma certo quel «Santa subito» anche a lei sembrerà superficiale e fuori luogo.

(ItaliaOggi, 29 novembre 2019)


Omaggio a Amedeo Modigliani nel centemario della morte

 
La Sinagoga di Livorno
Sarà dedicata all'artista Amedeo Modigliani, nel centenario della sua morte, la seconda edizione del Festival Livorno Ebraica, la manifestazione sulla storia della comunità Ebraica livornese che si svolgerà a partire da oggi, venerdì 29 novembre, fino al 22 dicembre. Promosso dalla Comunità Ebraica di Livorno e Amaranta servizi, in compartecipazione con il Comune di Livorno, il Festival proporrà visite guidate nei siti ebraici di maggior interesse, spettacoli ed eventi vari legati all'arte, al cibo, alle tradizioni ed in particolare saranno approfonditi i legami di Modigliani con le sue radici ebraiche. Un giusto tributo ad un figlio della comunità ebraica livornese, sicuramente il più conosciuto al mondo, ma anche per offrire una ulteriore opportunità turistico culturale ai tanti visitatori che in queste ore visitano la mostra "Modigliani e l'avventura di Montparnasse" al Museo della Città. Numerose le iniziative tese a mettere in luce le radici ebraiche dell'artista: Modigliani è frutto di quella borghesia Ebraica molto colta, liberale, cosmopolita presente a Livorno nella metà del IXX secolo. Qui Modigliani è nato, ha studiato, ha raggiunto la maggiorità religiosa, bar mitzvà, nell'antica sinagoga il 12 luglio del 1897, qui si è formato nelle scuole di pittura, ha tessuto le sue amicizie giovanili. Livorno è pertanto centrale per l'approfondimento di questo artista.
   A partire da oggi la Sinagoga rimarrà aperta straordinariamente per venti giorni con visite guidate che consentiranno di conoscere uno dei monumenti più affascinanti della città, il più interessante e rappresentativo dal dopoguerra. Oggetto di visita anche il Museo Ebraico di via Micali, un vero gioiello che custodisce preziosi oggetti di culto sinagogale, tessuti, argenti, frutto di quella manifattura ebraica operosa, ricca e raffinata presente a Livorno dalla fine del '500. Meta di visite anche i due Cimiteri, quello monumentale di Viale Ippolito Nievo e quello ancora attivo della Cigna, dove riposano i nonni ed il padre di Amedeo Modigliani. Gli interventi artistici in programma , curati dalla Compagnia degli Onesti, avranno come teatro la casa natale di Amedeo Modigliani (via Roma, 38), dove si alterneranno gli attori Michele Crestacci ed Emanuele Barresi con il musicista Massimo Signorini. Ogni evento a casa natale Amedeo Modigliani sarà accompagnato da dolcetti o salatini kasher preparati dalle cuoche della Comunità e dal vino kasher della Cantina Giuliano di Casciana, che nel giro di pochi anni è divenuto un'eccellenza mondiale nell'enologia. Il 15 dicembre alcune rappresentanti dell'Aei (Associazione Donne Ebree Italiane), ispirandosi alla festa di Channukkià , allestiranno una tavola, alla maniera delle tavole imbandite nella casa dove Eugénie, Gabriella, Laura e Margherita ospitavano gli amici ed i parenti.

(Shalom, 29 novembre 2019)


Basket - Strapotere offensivo del Maccabi, battuto di forza l'ASVEL

Dopo due sconfitte consecutive torna a sorridere la formazione di Sfairopoulos

Con una straordinaria prestazione offensiva, il Maccabi Tel Aviv dimentica le due sconfitte consecutive e torna a sorridere superando in casa l'ASVEL alla terza sconfitta di fila. 93-62 il punteggio finale, che evidenzia lo strapotere dei padroni di casa.
Continuità israeliana nel corso dei quaranta minuti, i ragazzi di Sfairopoulos segnano sempre più di venti punti a quarto e alla lunga la pressione francese si affievolisce. Yovel Zoosman e Scottie Wilbekin puniscono da lontano, con Jake Cohen che è autore di una prova praticamente perfetta uscendo dalla panchina.
L'ASVEL ha soltanto due giocatori in doppia cifra (Maledon e Kahaudi con dieci punti) e non resiste ai continui strappi del Maccabi. Bandiera bianca alzata definitivamente nella ripresa, settimana prossima la sfida allo Zenit per risollevarsi dopo tre sconfitte consecutive.

(sportando.basketball, 28 novembre 2019)



Ospedale israelitico: una targa in memoria di Giuseppe Noccioli, medico dal cuore d'oro

Si è tenuta nella mattinata di giovedì 28 novembre presso l'Ospedale Israelitico di Roma, alla presenza della Consigliera dell'Ospedale Israelitico di Roma, Avv. Antonella Di Castro, della Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Dott.ssa Ruth Dureghello, della Direttrice del Museo Ebraico di Roma, Dott.ssa Olga Melasecchi e dei parenti, l'inaugurazione della targa commemorativa in ricordo del Prof. Giuseppe Noccioli (1871-1953), storico Direttore Sanitario dell'istituzione ebraica "Maternità Di Cave", costituita nel 1915 e attiva fino al 1968 come Casa di Ricovero per puerpere povere israelite di Roma. Un ente ebraico che ebbe lo scopo di assolvere sin da subito un ruolo assistenziale nei confronti delle indigenti della Comunità e dar loro un luogo in cui assisterle durante il parto.
   Nel 1930 la "Maternità Di Cave" si trasferì nel quartiere di Testaccio incrementando il suo ruolo assistenziale ed accogliendo non più solo donne di religione ebraica, ma anche cattoliche residenti nel rione.
   E' in questo contesto che emerse la figura del Prof. Giuseppe Noccioli, uomo colto e altruista, il quale con spirito di pura filantropia decise di prestare la sua opera per oltre trent'anni a titolo completamente gratuito presso la struttura ebraica. Un incarico complesso e rischioso che assunse, in quanto cattolico, anche durante gli anni terribili del nazifascismo. Sotto la sua guida la Maternità Di Cave divenne un luogo centrale per le donne gravide del territorio durante e dopo la seconda guerra mondiale, fino alla sua liquidazione, avvenuta negli anni '60.
   "Ci sono persone che lasciano il segno del loro passaggio in una comunità. Il Prof. Giuseppe Noccioli è, certamente, una di queste. Il ricordo della grande coscienza e impegno che ha profuso nel suo lavoro è ancora vivo nella Comunità di Roma - ha sottolineato Antonella Di Castro - ricordarlo con un piccolo gesto come questa targa vuole testimoniare tutta la nostra gratitudine per un uomo che ha fatto tanto, al servizio degli altri".

(Shalom, 28 novembre 2019)


Israele con il rabbino capo Mirvis nella lotta contro l'antisemitismo UK

Israele è al fianco del rabbino capo di Gran Bretagna Ephraim Mirvis nella sua lotta contro l'antisemitismo. Incontrando a Londra rav Mirvis, il Presidente israeliano Reuven Rivlin ha voluto esprimere il suo sostegno alla guida dell'ebraismo britannico in questi giorni complicati. Mirvis ha infatti scelto di esprimersi pubblicamente sulle colonne del Times - "con cuore pesante" - per denunciare l'antisemitismo interno al partito laburista guidato da Jeremy Corbyn e invitato gli elettori d'Oltremanica a votare secondo coscienza il prossimo 12 dicembre alle elezioni nazionali. Un intervento senza precedenti, motivato da una preoccupazione diffusa tra gli ebrei britannici per le posizioni di Corbyn e dei suoi e per la percezione che il Labour abbia fatto poco o nulla per combattere seriamente l'antisemitismo al suo interno. A rav Mirvis, il Presidente Rivlin ha offerto il proprio sostegno "per il suo lavoro ispiratore contro il crescente antisemitismo e razzismo. La sua voce chiara e la sua leadership, soprattutto negli ultimi giorni, ci riempie tutti di orgoglio". "Tolleranza zero per l'antisemitismo significa dare sicurezza alle comunità ebraiche e contrastare l'estremismo religioso. Significa insistere sul fatto che non c'è spazio per l'antisemitismo nelle stanze del potere e non c'è spazio per l'incitamento sui social media. Significa una legislazione efficace e un'efficace educazione sulla Shoah", ha dichiarato Rivlin, intervenendo a un incontro organizzato dall'associazione United Jewish Israel Appeal. "Dalla Dichiarazione Balfour, - ha aggiunto il Presidente - Israele ha condiviso con la Gran Bretagna una storia e valori democratici comuni. È a causa di questi forti legami che siamo estremamente preoccupati per l'aumento dell'antisemitismo nel Regno Unito". Riguardo alla minaccia antisemita, la presidenza israeliana ha organizzato a Gerusalemme per gennaio un grande conferenza a cui parteciperanno capi di Stato e di governo di tutto il mondo, tra cui il Presidente italiano Sergio Mattarella. Per la Gran Bretagna bisognerà vedere chi vincerà tra i conservatori di Boris Johnson e i laburisti di Corbyn. Il leader della sinistra ha avuto l'occasione per scusarsi con il mondo ebraico per l'antisemitismo interno al suo partito in un'intervista sulla BBC ma ha scelto di non farlo: il giornalista Andrew Neil ha chiesto a Corbyn quattro volte se voleva scusarsi per il dolore causato agli ebrei britannici. Ogni volta, ha eluso la domanda, rispondendo: "Quello che dirò è che sono determinato a far sì che la nostra società sia sicura per le persone di tutte le fedi". dr

(moked, 28 novembre 2019)


I dèmoni antisemiti dell'est Europa

Una ricerca americana spiega quanto soffia forte il vento della giudeofobia

L'ultimo sondaggio globale condotto dall'Anti Defamation League rileva che gli atteggiamenti antisemiti sono sempre più prominenti in Europa centrale e orientale, che prima della Shoah ospitava la maggior parte degli ebrei al mondo. La percentuale della popolazione adulta che esprime un alto livello di opinioni antisemite è passata dal 37 al 48 per cento in Polonia, dal 32 al 46 per cento in Ucraina e dal 23 al 31 per cento in Russia.
   L'Ungheria ha registrato un aumento più modesto di due punti, ma partendo da una base elevata del 40 per cento. "E' profondamente preoccupante che circa un europeo su quattro nutra le stesse idee antisemite che si rilevavano prima dell'Olocausto", ha detto Jonathan Greenblatt, a capo dell'Anti Defamation League, parlando di un "potente campanello d'allarme".
   In Italia l'antisemitismo scende invece "in maniera significativa". Gli stereotipi sono sempre gli stessi: il controllo della finanza (in Ungheria lo pensa il 71 per cento) e la slealtà (gli ebrei sono più leali a Israele che alla propria nazione).
   Da giorni, la comunità ebraica inglese è sotto una forte pressione dopo la presa di posizione senza precedenti del rabbino capo del Regno Unito, Ephraim Mirvis, su Jeremy Corbyn unfit a guidare il paese e percepito come una minaccia dalla comunità ebraica.
   In Francia, l'antisemitismo ha una matrice in gran parte islamica. Nell'est, dove non esistono grandi comunità di immigrati, l'odio antiebraico è bianco. Siamo di fronte, come abbiamo spesso spiegato, a una "tempesta perfetta" di vecchie e nuove congiunzioni antisemite. Non esiste campo politico di appartenenza che possa esimersi dal prendere sul serio questo fenomeno che, nella storia europea, ha di solito coinciso con il crollo della vitalità democratica e uno choc di civiltà. Agire, e subito, contro questo fenomeno è dunque un dovere non soltanto verso gli ebrei europei, ma verso la stessa democrazia liberale che, dopo la Shoah, aveva qui garantito una faticosa rinascita della vita ebraica.

(Il Foglio, 28 novembre 2019)


La settimana nera di Corbyn fra gaffe e accuse di antisemitismo

di Alessandra Rizzo

Settimana da dimenticare per il leader laburista Jeremy Corbyn: accusato dal Rabbino capo del Paese di aver consentito al veleno dell'antisemitismo di aver messo radici nel partito; preso in giro per aver detto che in caso di secondo referendum sulla questione epocale della Brexit si manterrebbe «neutrale»; e infine strapazzato in un'intervista televisiva vista da tre milioni di persone che un giornale ha bollato in prima pagina come un «film dell'orrore». Mancano due settimane alle elezioni del 12 dicembre e se Corbyn, già indietro nei sondaggi, sperava di recuperare il terreno perduto, ha ancora molto lavoro da fare.

 «I Tory vendono la sanità agli Usa»
  Ieri ha cercato di riprendere in mano la campagna accusando i Conservatori di avere messo il servizio sanitario nazionale sul tavolo dei negoziati per l'accordo commerciale post-Brexit con gli Usa. «Stiamo parlando di trattative segrete per un accordo con Donald Trump dopo la Brexit», ha detto Corbyn, brandendo in una conferenza stampa le pagine di documenti ufficiali governativi ottenuti dal Labour. Dimostrano, secondo lui, che la sanità pubblica, o Nhs come è universalmente noto nel Regno Unito, è merce di scambio, e un accordo con Trump aprirebbe le porte degli ospedali ai colossi farmaceutici americani, con conseguente aumento dei prezzi delle medicine. «Adesso abbiamo le prove che con Johnson l'Nhs è sul tavolo dei negoziati e sarà messo in vendita». Ma di prove certe non se ne vedono, e il governo ha smentito, parlando di mossa diversiva di un leader in crisi. «Assurdità totali», ha detto Johnson.
   Non è bastato comunque a distogliere l'attenzione dalla questione dell'antisemitismo, all'indomani dell'attacco del Rabbino Ephraim Mirvis, che ha messo in guardia gli elettori sulle conseguenze di un voto per questo Labour («è in ballo l'anima del Paese», ha detto). Nella disastrosa intervista alla BBC.
   Corbyn è apparso impreparato e irritabile e ha rifiutato per quattro volte di scusarsi con la comunità ebraica (non a caso Johnson si è affrettato ieri a scusarsi per i casi d'islamofobia imputati ai Tory). Corbyn si aggrappa alla speranza che il voto giovanile possa venirgli incontro come era stato alla precedente tornata elettorale. Circa 4 milioni di cittadini, tra cui molti under 34, si sono registrati per votare entro la scadenza prevista, in aggiunta ai 45 milioni già presenti sulle liste. Un dato incoraggiante, ma il cui impatto sull'affluenza resta da accertare. E comunque probabilmente non abbastanza per rovesciare le sorti di una campagna che per Corbyn sembra essersi messa davvero male.

(La Stampa, 28 novembre 2019)


Raid aerei israeliani contro obiettivi di Hamas

Dopo il lancio di razzi dal territorio palestinese

Raid aerei contro obiettivi di Hamas nella Striscia di Gaza sono stati condotti da Israele nella notte e all'alba in risposta ai due razzi lanciati ieri sera dal territorio palestinese. Lo ha confermato un portavoce dell' esercito dello stato ebraico, citato dal sito del «Jerusalem Post».
   Nel corso degli attacchi è stato preso di mira anche un sito sotterraneo usato dai miliziani del movimento palestinese, ha precisato il portavoce. L'esercito israeliano - ha sottolineato il portavoce - considera Hamas «responsabile di quanto accade all'interno della Striscia e di ogni attacco lanciato contro Israele». «Israele non riuscirà ad imporre alla resistenza palestinese nuove regole nel nostro confronto» ha dichiarato il portavoce del movimento che controlla Gaza dal giugno 2006.
   Ieri pomeriggio due missili sono stati lanciati da Gaza contro Israele, senza provocare danni. Secondo le forze armate, un missile è stato abbattuto dal sistema di difesa Iron dome mentre l'altro è precipitato in un terreno aperto del sud d'Israele. Le sirene d'allarme sono suonate a Sderot e nelle aree circostanti.
   Episodi di tensione sono stati registrati ieri in tutti i Territori palestinesi (Striscia di Gaza e Cisgiordania). L'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) aveva infatti indetto una giornata di protesta, con lo stop di tutte le attività. Obiettivo dell'iniziativa era protestare contro le recenti dichiarazioni del segretario di stato americano, Mike Pompeo, a favore della legalità degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Pompeo ha dichiarato gli insediamenti «non contrari al diritto internazionale» e ha detto che questa decisione può promuovere la pace.

(L'Osservatore Romano, 28 novembre 2019)


Torino - M5s contro l'accordo hi-tech con Israele: «Appendino non firmi»

La capogruppo Sganga: «Tecnologie usate contro i palestinesi». La replica della sindaca: «Intesa in ambito civile, impianti d'avanguardia al servizio delle persone»

 
I membri dell'Isreal Innovation con la ministra Pisano e la sindaca Appendino
TORINO - «Nessun accordo per le tecnologie usate contro il popolo palestinese». A parlare è Valentina Sganga, la capogruppo del Movimento 5 Stelle, mentre la sindaca Chiara Appendino insieme alla ministra per l'Innovazione Paola Pisano sta sottoscrivendo un accordo di collaborazione tra Torino City Lab e l'Israel Innovation Authority per lo sviluppo di progetti high-tech tra start up israeliane e italiane. "La collaborazione - continua Sganga - e la cooperazione con altri Paesi è sempre benvenuta ma, come abbiamo già ribadito in altri casi, la Città di Torino si oppone a qualsiasi forma di oppressione del popolo palestinese e anche l'accordo di oggi è occasione per sottolineare la nostra contrarietà alla guerra che Israele fa contro la popolazione, guerra in cui sempre più la tecnologia è messa al servizio dei sistemi di sorveglianza e oppressione di Israele sui palestinesi. Per questo è importante ribadire in modo chiaro un concetto: non ci dev'essere nessun contributo da parte di Torino, e della sua amministrazione, a progettazione e sperimentazione di tecnologie che possano avere un risvolto bellico, né in Palestina, né nel resto del mondo. La sindaca Appendino - conclude - conosce bene questa posizione e ci auguriamo ne abbia tenuto conto prima della sottoscrizione».
   La prima cittadina torinese ha replicato: «È importante che il Comune governi la tecnologia, la sensibilità della maggioranza in Consiglio comunale sulla Palestina è nota però gli accordi sono necessari per migliorare la nostra società. Ribadisco che si tratta di un'intesa in ambito civile e che si tratta di tecnologie al servizio delle persone»
   Contro l'accordo anche un altro consigliere grillino, Aldo Curatella: «Quello che spero è che nell'accordo siano state inserite clausole chiare ed esplicite che dicano come sia esclusa ogni collaborazione che possa avere delle applicazioni/implicazioni dirette o indirette in ambito militare, con cessazione immediata di ogni effetto dell'accordo se dovesse dimostrarsi il contrario nelle applicazioni sul campo».
   Presente, come detto, anche la ministra Pisano: «Questo - spiega - è un accordo importante per Torino e abbiamo altri accordi bilaterali in arrivo: siamo nel momento giusto per crescere. Ma credo che si debba comunicare e spiegare bene le cose».

(Corriere Torino, 28 novembre 2019)


Viva Israele che manifesta contro il golpe giudiziario

di Michael Sfaradi

Ieri sera, a Tel Aviv, probabilmente per la prima volta nella storia della democrazia, dalle ventimila alle trentamila persone sono scese in piazza per manifestare contro la magistratura e i media. Sì, avete letto bene, migliaia di persone sono scese in piazza per urlare forte il loro sdegno verso la magistratura, che fino a pochi anni fa era il fiore all'occhiello della democrazia israeliana, e contro i giornali, canali televisivi e media in generale, anche loro fino a pochi anni fa altro fiore all'occhiello della libertà di parola sempre garantita dalla democrazia israeliana.
  Questa manifestazione, che è solo la prima di una serie di raduni che vedremo in molte città israeliane, è la prova che questi due fiori sono inesorabilmente appassiti sotto la pressione di una sinistra politica ricca di denaro e intellighenzia ma povera di appoggio popolare. Una sinistra che ha fatto e sta facendo di tutto, e in tutto il mondo, per ottenere il potere politico con ogni mezzo e se non ci riesce alle urne lo fa sfiancando la gente con la complicità dei media che non risparmiano continui articoli e servizi televisivi dove il buono è sempre a sinistra e il cattivo sempre a destra. La prova è che tutti i giornalisti non allineati, compreso il sottoscritto, da anni non riescono a trovare neanche la più piccola collaborazione e anche quando hanno degli importanti scoop in mano vengono ignorati. Ma questa è un'altra storia.
  La sinistra si avvale anche di una complicità ancora più importante: quella di una parte della magistratura che siede nel suo personale Olimpo e si sente intoccabile, di alcuni magistrati che come una
Dal palco i vari oratori hanno fatto i nomi di quei magistrati e di quei poliziotti che, come pretoriani, durante le indagini avrebbero, secondo gli oratori, piegato la legge e le procedure pur di dimostrare la corruzione dell'attuale Premier.
divinità possono fare e disfare, a loro piacimento, la vita di un politico o anche di un cittadino qualsiasi, senza che ogni loro decisione o sentenza possa essere commentata o criticata. Ieri sera però qualcosa è cambiato perché dal palco organizzato dal partito del Premier Netanyahu i vari oratori hanno fatto i nomi di quei magistrati e di quei poliziotti che, come pretoriani, durante le indagini avrebbero, secondo gli oratori, piegato la legge e le procedure pur di dimostrare la corruzione dell'attuale Premier. Dal palco sono stati anche raccontati alcuni casi di testimoni forzati, con minacce da parte di alcuni dirigenti della polizia, a dire ciò che non volevano o che non sapevano ma che serviva ad incriminare il Premier. Persone che poi avevano denunciato il trattamento subito, denunce che erano poi state insabbiate e non avevano avuto seguito, denunce che ora sono state gridate ad alta voce sulla pubblica piazza.
  Il perfetto tempismo con il quale sono state pubblicati i rinvii a giudizio nei confronti del Premier Netanyahu, notizia di una risonanza tale che ha rallegrato le sinistre di tutto il mondo, è sintomatico della presenza di una regia che per farle uscire aspettava solo il fallimento del giro di consultazioni per formare un nuovo governo senza Netanyahu. Giro di consultazioni condotto da Benny Ganz, ex capo delle forze armate di Israele, leader della sinistra e di tutti coloro che pur di non vedere mai più Benjamin Netanyahu accetterebbero come capo di governo anche un cretino qualsiasi. Il "No Bibi" è il mantra di coloro che hanno dimenticato dei particolari importanti che per dovere di cronaca è giusto ricordare. La carriera di Netanyahu è solo il frutto di un programma di vita che Bibi dette a se stesso all'indomani dal congedo come ufficiale della Sayeret Matkal, il più decorato corpo antiterrorismo al mondo. Studi all'estero, Laurea e Master in alcune fra le più importanti Università statunitensi. Da Ministro del Tesoro scrisse a quattro mani con Stanley Fischer, uno dei più importanti banchieri al mondo e già dirigente della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, la riforma economica del paese che ha portato grandi benefici al punto che Israele può vantare crescite di P.I.L. da record.
  Mai prima di Netanyahu, neanche con Rabin o Peres, il ruolo dello Stato Ebraico nello scacchiere medio-orientale ha acquisito un'importanza come quella attuale, i contatti con le monarchie del Golfo e il
Oggi Israele, e questo non lo possono negare neanche i più feroci detrattori dello Stato Ebraico, è una nazione più forte economicamente, militarmente e politicamente, di come poteva essere dieci anni fa.
riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale eterna di Israele e dello status delle alture del Golan, sono solo i risultati della sua politica in campo internazionale. Ma non è tutto perché a questo vanno aggiunte anche le alleanze e cooperazioni con nazioni come l'India e la Cina. Oggi Israele, e questo non lo possono negare neanche i più feroci detrattori dello Stato Ebraico, è una nazione più forte economicamente, militarmente e politicamente, di come poteva essere dieci anni fa. Proprio partendo da questo punto di forza e pur di non trascinare Israele in una guerra aperta, nonostante le enormi pressioni da parte della popolazione del sud sempre dentro al mirino dei missili di Hamas e della Jihad Islamica, popolazione che in grande maggioranza vota proprio per il partito del Premier, Benjamin Netanyahu ha sempre usato il bastone e la carota, lasciando la guerra aperta, casa per casa vista l'alta densità di popolazione civile, come ultima opzione.
  Secondo le accuse Netanyahu si sarebbe fatto corrompere con dei regali, bottiglie di vino e scatole di sigari da parte di imprenditori che sono anche suoi amici personali di vecchia data, è anche accusato di aver avuto contatti con imprenditori dei media per cercare di convincerli, peraltro senza risultati, ad adottare una linea editoriale meno ostile. Non esiste al mondo un politico che non abbia contatti particolari con i media pur di non essere costantemente messo alla berlina giorno dopo giorno davanti alla nazione così come a lui è stato riservato tutte le sere negli ultimi anni. Alan Dershowitz uno dei più importanti giuristi americani, invitò pubblicamente il procuratore di Stato Mendelbit a far cadere le accuse perché in tutte le democrazie occidentali non avrebbero avuto rilevanza penale. Ma, cosa ancora più grave e che dovrebbe far riflettere, è stata un'esternazione della professoressa Ruth Gavison, già Premio Israele per la Giustizia, che in una discussione sviluppatasi sulla sua pagina Facebook ha dubitato sulle possibilità di Netanyahu di ottenere un giusto processo.
  La professoressa ha scritto: "Sono preoccupata che Netanyahu non abbia la possibilità di ottenere un
"Sono preoccupata per il processo contro Netanyahu. Ci sono stati così tanti processi sulla stampa che ora un processo vero non riuscirebbe ad avere una sentenza diversa da quella già decisa sui media."
processo giudiziario. Ci sono stati così tanti processi sulla stampa che ora un processo vero non riuscirebbe ad avere una sentenza diversa da quella già decisa sui media. Questa è una tragedia per Bibi ma anche una brutta pagina per il paese e per la società". Il procuratore di Stato Mendelbit, perché convinto delle sue idee o perché tirato per i capelli, sarà la storia a scrivere la verità, non ha ascoltato né l'appello di Alan Dershowitz, che conosce personalmente, né i dubbi della professoressa Ruth Gavison, ed è andato dritto per la sua strada fino ai rinvii a giudizio pur sapendo che nulla può accadere nei prossimi mesi fino alle elezioni e alla formazione di un nuovo governo e alla costituzione della commissione per le autorizzazioni a procedere contro i parlamentari.
  Solo chi non vuole vedere non può accorgersi che non si tratta di un attacco diretto a un leader corrotto, ma del tentativo di distruggere una linea politica. Le magistrature, non solo in Israele ma un po' in tutto il mondo democratico, da diversi anni invadono il campo politico e questa non è una buona notizia sia per la democrazia che per la libertà tout court. Basta cambiare il nome dei politici, sempre di quelli non allineati al pensiero comune unico e politicamente corretto, e spostare geograficamente le vicende, e ritroviamo lo stesso accanimento dei giudici che corrono dietro ai politici per farli decadere e, di fatto, far decadere il volere popolare.
  Quella di ieri sera a Tel Aviv potrebbe essere, anzi speriamo che lo sia, la prima di tante manifestazioni del libero pensiero che dovrebbero essere organizzate anche in altre nazioni e in altri contesti, perché i media debbono nuovamente imparare a riportare le notizie per come sono e dare lo stesso tempo e dignità a tutti i punti di vista, mentre i magistrati hanno il dovere di mettere sotto inchiesta tutti i politici ladri con accuse fondate, non solo chi non è "simpatico" a un certo sistema. Perché la libertà è necessaria come l'aria e se siamo arrivati al punto che per difenderla bisogna scendere in piazza, significa che qualcosa non funziona più e deve essere aggiustata.

(Nicola Porro, 27 novembre 2019)



Israele: l'inchiesta su Netanyahu diventa un caso politico

Quello di Netanyahu non è un semplice caso giudiziario, è un conflitto politico per il futuro di Israele

di Ugo Volli

Nessuno sa al momento come finirà la vicenda politica israeliana, se ci sarà un terzo ciclo di elezioni (come sembra probabile), se Netanyahu manterrà la leadership del Likud e dello schieramento di centrodestra (probabile anch'esso), per non parlare di come finiranno queste possibili elezioni e il processo a Netanyahu (se ci sarà, perché in Israele esiste l'immunità parlamentare, che può essere però superata con un voto parlamentare).
La tentazione forte è di vedere in questa vicenda gli aspetti piccini ed eticamente discutibili. Netanyahu è certamente un uomo che tiene al potere e che maltratta i suoi collaboratori, suscitando forti sentimenti di vendetta come quelli nutriti da Lieberman. I capi fra i suoi avversari mostrano scarso peso intellettuale e strategico (Gantz), sono vanesi e poco responsabili (Lapid), vendicativi (Ya'alon); erano disposti a fare alleanze con i partiti arabi sostenitori del terrorismo e non con i religiosi o i nazionalisti, o almeno non con i religiosi e nazionalisti alleati a Netanyahu, anche se questo blocco è chiaramente maggioritario nell'elettorato. Il sistema elettorale israeliano funziona male, perché privilegia la rappresentanza dei piccoli gruppi sociali alla loro fusione e conseguente governabilità: invano i maggiori leader dai tempi di Ben Gurion hanno cercato di correggerlo...

(Progetto Dreyfus, 28 novembre 2019)


Roma - Raggi: «Imbrattate le targhe delle vittime delle leggi razziali. Ripuliamo subito»

Dedicate a Nella Mortara e a Mario Carrara, erano state messe al posto di altre due con i nomi dei firmatari del Manifesto della razza.

di Rinaldo Frignani

 
Imbrattate con vernice nera nella notte di martedì a Torrevecchia le targhe stradali intitolate alla fisica Nella Mortara e al medico e accademico Mario Carrara, vittime delle Leggi razziali, ai quali il Campidoglio ha intitolato un largo e una via al posto di quella ad Arturo Donaggio, psichiatra e accademico, fra i firmatari del Manifesto della Razza.

 Un palloncino pieno di vernice nera
  Secondo i primi accertamenti sembra che contro le targhe sia stato lanciato un palloncino pieno di vernice che è esploso sulla parete del palazzo, imbrattando anche una telecamera di vigilanza. «Imbrattate le targhe delle strade intitolate la settimana scorsa a chi ha combattuto contro fascismo e razzismo, prima erano dedicate a firmatari del Manifesto della razza. Gesto vergognoso. Ripuliamo subito», ha twittato la sindaca Virginia Raggi.

(Corriere della Sera - Roma, 27 novembre 2019)



Più di 200 rabbini affermano: "Trump ha adempiuto alla profezia di Geremia"

Più di 200 rabbini hanno inviato una lettera di ringraziamento alla Casa Bianca dopo che il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato lunedì scorso che l'amministrazione Trump avrebbe invertito la politica sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania. La lettera è stata scritta dal rabbino Shmuel Eliyahu, membro del Consiglio del Grande Rabbinato, e firmata da oltre 200 rabbini provenienti da Israele. Nel documento, pubblicato dal sito web israeliano Srugim News, i leader ebrei affermano che l'amministrazione Trump sta contribuendo all'adempimento della "profezia di Geremia".
   Secondo i rabbini più di 2.500 anni fa, il profeta Geremia dichiarò, infatti, che la nazione di Israele sarebbe tornata sulle colline della Samaria e vi avrebbe piantato i suoi vigneti. "Così parla il SIGNORE degli eserciti, Dio d'Israele: «Si dirà pure questa parola nel paese di Giuda e nelle sue città, quando li avrò fatti tornare dalla deportazione: Il SIGNORE ti benedica, territorio di giustizia, monte santo!" (Ger. 31:23).
   Gli insediamenti israeliani nella cosiddetta Cisgiordania, la regione biblica della Giudea e della Samaria, sono comunità stabilite da Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. Gli insediamenti sono considerati illegali ai sensi del diritto internazionale, ma con la decisione dell'amministrazione Trump, gli Stati Uniti li riconoscono. I rabbini hanno dichiarato che la profezia biblica su sta adempiendo "parola per parola".
   130 anni fa, ebrei di tutto il mondo iniziarono a tornare in Israele. 72 anni fa, la nazione era libera dal dominio straniero. 52 anni fa siamo tornati a Gerusalemme, Hebron e il resto della Giudea e della Samaria; i nostri nemici non l'hanno accettato e stanno ancora cercando di fermare il processo ma Dio ha promesso ad Abramo che "i suoi discendenti espugneranno le città dei loro nemici" e hanno visto con i loro occhi come "cinque di voi perseguiteranno cento, cento di voi inseguiranno diecimila e i vostri nemici cadranno di spada davanti a voi", hanno affermato i rabbini.
   Nella seconda parte della lettera, i rabbini ringraziano Trump per le sue azioni e il suo sostegno a Israele: Gli Stati Uniti sono stati uno dei primi paesi a sostenere la fondazione dello stato di Israele. I presidenti degli Stati Uniti hanno avuto l'onore di sostenere Israele e di far parte dell'adempimento delle previsioni del profeta sul ritorno di Sion e sulla fondazione dello Stato di Israele. È un raro onore essere il primo presidente a guidare questo riconoscimento. "Dio ha fatto una promessa ad Abramo: Benedirò quelli che ti benediranno". Promise al profeta Isaia che 'per amor di Sion non mi riposerò; le nazioni vedranno la sua giustizia e tutti i re la sua gloria; Sarai chiamato con un nuovo nome dalla bocca del Signore.
   Il presidente Trump, è benedetto nel vedere l'adempimento di questa profezia", hanno aggiunto i rabbini. La lettera conclusa affermando che Trump" sarà ricordata nella storia israeliana come il leader che l'ha sostenuto Israele senza paura.

(notiziecristiane.com, 27 novembre 2019)


Israeli Rabbis Thank Trump: "Fulfilling Jeremiah's Prophecy"


Ebrei contro Corbyn: non votate per gli antisemiti

Il rabbino di Londra si schiera contro i laburisti, nemici di Israele. Conservatori al 42% nei sondaggi, però forse non basta.

di Daniel Mosseri

Ephraim Mirvis e Jeremy Corbyn
«Il modo in cui la leadership del Labour ha affrontato il razzismo anti-ebraico è incompatibile con i valori britannici di cui siamo così orgogliosi, ossia dignità e rispetto per tutte le persone».
  A due settimane dalle elezioni anticipate in Gran Bretagna, il rabbino capo del Regno Unito e del Commonwealth, Ephraim Mirvis, ha scritto un editoriale di fuoco al Times per porre una domanda agli elettori britannici: «Che ne sarà degli ebrei e dell'ebraismo britannico se il Labour formerà il prossimo governo?»
  Entrato a gamba tesa nell'agone politico in piena campagna elettorale, il religioso si è detto ben consapevole delle convenzioni secondo cui il rabbino capo deve stare lontano dalla politica dei partiti «ed è giusto che sia così». Tuttavia, ha anche scritto Mirvis, «affrontare il razzismo non è una questione strettamente politica».

 Minoranza stalinista
  Nel suo editoriale, il rabbino ortodosso stila una lunga lista delle situazioni imbarazzanti in cui il partito laburista si è cacciato negli ultimi quattro anni. Da quando cioè il suo leader Jeremy Corbyn, mai citato nell'articolo, è diventato padre e padrone della formazione politica grazie all'appoggio di Momentum, ieri minoranza stalinista del partito e oggi cordata pigliatutto particolarmente insofferente con i dissenzienti.
  «La comunità ebraica ha assistito incredula alla sistematica cacciata di tutti quei parlamentari e funzionari che abbiano riconosciuto l'esistenza del pregiudizio antiebraico in seno al Labour», ha scritto Mirvis. Pronto alla reazione furiosa del clan di Corbyn, il rabbino ha anche messo le mani avanti: «Abbiamo imparato a caro prezzo che farsi sentire significa essere demonizzati da troll senza volto sui social media che ci accuseranno di essere in malafede».
  I fatti tuttavia danno ragione al religioso: se Corbyn ha più volte solidarizzato con la peggiore schiwna del terrorismo antiebraico su scala globale, difeso murales antisemiti, definito Israele uno Stato razzista, suggerito di mettere fuori legge la circoncisione maschile e di richiamare i poliziotti che oggi garantiscono la sicurezza delle scuole ebraiche in Gran Bretagna, i suoi compagni nel partito si sono a lungo opposti all'adozione della definizione di antisemitismo della International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) provocando il fuggi fuggi di deputati ebrei e simpatizzanti. «E lo hanno fatto dai banchi dell'opposizione: cosa dovremo aspettarci dal prossimo governo?», ha scritto Mirvis.
  Il rabbino, che ha chiesto agli inglesi di farsi un esame di coscienza prima di andare a votare il 12 dicembre, vanta fra l'altro un curriculum antirazzista invidiabile. Nato in Sudafrica, è figlio d'arte: suo padre Lionel Mirvis, era un rabbino attivo contro l'apartheid ed era solito visitare i prigionieri politici del regime a Robben Island, il carcere di massima sicurezza dov'era imprigionato anche Nelson Mandela; sua madre, Freida Katz Mirvis, era la direttrice dell'unico college per la formazione di maestre d'asilo nere in tutto il Sudafrica razzista. Diventato rabbino capo del Commenwealth nel 2013, Mirvis si è impegnato nel dialogo interreligioso.

 Fuga da Londra
  E il suo editoriale ha subito incassato il sostegno dell'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, secondo cui le parole del rabbino capo «dovrebbero farci capire il profondo senso d'insicurezza e di paura provato da tanti ebrei britannici». Molti fra di loro si dicono pronti a lasciare il Paese se il Labour di Corbyn dovesse prevalere. I sondaggi al momento dicono il contrario.
  Secondo l'ultima rilevazione YouGov condotta, i Tories del premier uscente Boris Johnson dovrebbero ottenere il 42% dei voti contro il 30% dei laburisti di Corbyn mentre l'istituto Opinium per il giornale The Observer indica una differenza di 17 punti percentuali fra i due partiti a favore dei conservatori: il partito del premier Boris Johnson raccoglierebbe il 47% dei voti (+3 punti), fagocitando i voti dei no Brexit di Nigel Farage, in calo vertiginoso, contro il 28 (invariato) dei Laburisti e il 12% dei LibDem. Stessa tendenza nell'inchiesta BMG per The Independent che vede il Partito conservatore al 41 %, il Labour al 28%, i LibDem di Jo Swinson al 18%. Labour, Libdem e Verdi insieme si attesterebbero poco al di sotto del 50 per cento.

(Libero, 27 novembre 2019)


*


"Corbyn, un pericolo per l'Inghilterra e gli ebrei". J'accuse del rabbino capo

Parla Gerstenteld. "Quell'uomo è il male, chiama Hamas e Hezbollah 'amici'. Blair e Mili band dovevano cacciarlo".

di Giulio Meotti

ROMA - Non era mai successo che il rabbino capo del Regno Unito intervenisse così apertamente contro un candidato a entrare al numero 10 di Downing Street. Lo ha fatto ieri, dalle colonne del Times, Ephraim Mirvis: "Che ne sarà degli ebrei in Gran Bretagna se il Labour formasse il prossimo governo?". Una bomba a mano morale e politica. "La domanda che mi viene posta più frequentemente è: che ne sarà degli ebrei e dell'ebraismo in Gran Bretagna se il Partito laburista formasse il prossimo governo? La comunità ebraica ha sopportato il profondo disagio di essere al centro dell'attenzione nazionale per quattro anni. Alcuni politici hanno mostrato coraggio, troppi sono rimasti in silenzio. Il modo in cui la leadership laburista ha affrontato il razzismo antiebraico è incompatibile con i valori britannici di cui siamo così orgogliosi. Un nuovo veleno sanzionato dall'alto ha messo radici nel Partito laburista".
   Storicamente, gli ebrei inglesi hanno sempre votato Labour. Il prossimo 12 dicembre non sarà più così. Anche l'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha dichiarato ieri che "se il rabbino capo è costretto a rilasciare una dichiarazione senza precedenti, questo ci dovrebbe allarmare per il profondo senso di insicurezza e paura provato da molti ebrei britannici". Appena un anno fa, il predecessore di Mirvis, Jonathan Sacks, aveva definito l'ascesa di Corbyn una "minaccia esistenziale" per gli ebrei. "Non conosco altre occasioni in questi 362 anni in cui gli ebrei si sono chiesti 'questo paese è sicuro per allevare i nostri figli?"', aveva detto Sacks. E Pinchas Goldsmith, presidente della Conferenza europea dei rabbini, aveva avvertito: "Gli ebrei potrebbero fuggire se Corbyn venisse eletto". Nei giorni scorsi, un candidato laburista, Gideon Bull, ha chiamato Shylock un collega ebreo, un riferimento all'usuraio del "Mercante di Venezia" di William Shakespeare. Il Labour è attualmente sotto inchiesta da parte della Equality and Human Rights Commission. Solo un'altra volta un partito inglese era stato indagato da questa commissione e si trattava del Partito nazionale britannico di estrema destra. "Corbyn ha una lunga storia di anti israelismo che è vicinissimo al classico antisemitismo", dice al Foglio Manfred Gerstenfeld, studioso di antisemitismo europeo e già direttore del Jerusalem Center for Public Affairs. "Ha finanziato un negazionista della Shoah. Ha definito Hamas e Hezbollah 'amici' e 'fratelli'. Sotto la sua presidenza nel Labour sono venuti fuori un gran numero di antisemiti che non c'erano prima di lui. Questo Corbyn rappresenta il male. Viene dalla sinistra radicale e il Labour di Tony Blair e David Mili band si sono dimenticati di metterlo alla porta. Gli ebrei non vogliono vivere in un ambiente anti israeliano, in una nuova Svezia, il capolinea dell'ultra liberalismo antidemocratico e di sinistra. Prima di Corbyn, gli ebrei inglesi avevano un profilo basso. Oggi si fanno sentire come non era mai successo prima. E' un cambiamento radicale". E mai prima d'ora uno dei due grandi partiti in Gran Bretagna aveva considerato la creazione di Israele come un peccato coloniale, come pensano Corbyn e il suo entourage. E l'antisemitismo laburista si salda ora al destino della Brexit. E' la domanda che si fanno gli ebrei inglesi: cosa ci accadrà in una eventuale Inghilterra a guida corbyniana e fuori dall'Unione europea?

(Il Foglio, 27 novembre 2019)


"Università e Stato di Israele uniti per contrastare i focolai di antisemitismo"

Presentato il progetto "Ambasciatori di verità" che prevede incontri formativi con gli studenti per contrastare l'odio

di Leonardo Di Paco

L'Università di Torino e lo Stato di Israele uniti contro l'antisemitismo. Negli scorsi giorni, nel salone del rettorato, una delegazione del "Maccabi World Union", una delle organizzazioni maggiormente coinvolte nella lotta alla delegittimazione dell'esistenza dello Stato d'Israele in tutto il mondo, ha incontrato il rettore dell'ateneo torinese Stefano Geuna per promuovere la già consolidata sinergia tra Israele e il mondo accademico del capoluogo piemontese.
   Il meeting, svoltosi alla presenza di Itai Fischer, senior analyst del ministero per gli Affari Strategici di Israele, e di Fabrizio Ricca, assessore all'Internazionalizzazione e alle Politiche Giovanili della Regione Piemonte, è stato l'occasione per presentare l'iniziativa "Ambasciatori della Verità" che attraverso una serie di incontri in tutta Italia promossi proprio dal "Maccabi World Union" «mira a informare in modo obiettivo su Israele e sul conflitto arabo-israeliano».
   «L'Università di Torino - ha sottolineato il rettore Geuna - è un luogo di libera ricerca e di dialogo. Con questo incontro rafforziamo la reciproca collaborazione con Israele e l' attenzione al fenomeno dell'antisemitismo, purtroppo ritornato d'attualità». ll vice direttore generale del "Maccabi World Union", Rav Carlos Tapiero, ha definito la presentazione dell'iniziativa "Ambasciatori della verità" ai vertici dell'ateneo torinese «di importanza strategica per sconfiggere odio e antisemitismo». «Inoltre - ha aggiunto ancora Tapiero - per la nostra organizzazione questo appuntamento è stato molto utile per consolidare i già ottimi rapporti con l'Università di Torino».
   «È stato un piacere conoscere il nuovo rettore Geuna - ha dichiarato Itai Fischer, senior analyst del ministero per gli Affari Strategici dello Stato di Israele - al quale abbiamo illustrato i progetti che il ministero che rappresento sta mettendo in campo. Stiamo anche pensando a ulteriori collaborazioni che in futuro possano far incontrare le eccellenze accademiche del Piemonte con quelle israeliane». Secondo l'assessore Ricca «la Regione è fiera di aver partecipato e promosso questo incontro tra l'Università degli Studi di Torino e vertici accademici e istituzionali dello stato d'Israele». «Questo incontro - ha aggiunto Ricca - è stato un passo importante che testimonia amicizia e rispetto tra la nostra Regione e Israele. È nostro interesse fare in modo che i rapporti di ricerca e commercio tra i nostri Paesi siano sempre più stretti e volgiamo tenere sempre alta la guardia contro il rischio di antisemitismo».

(La Stampa, 27 novembre 2019)


Indignatevi anche per l'israelofobia in doppiopetto

di Fiamma Nirenstein

Apprezzo il tentativo del mio caro amico Ernesto Galli della Loggia di fornire ai lettori del Corriere della Sera un'approfondita lettura dell'antisemitismo contemporaneo, ma manca il bersaglio. Il distacco storico e morale - invece di chiarire - complica, e invece di combattere l'antisemitismo, invita a considerarlo un fenomeno oggi sventolato da gruppi sociali e culturali che hanno interesse a farsene bandiera contro le loro falle.
Condivido il fastidio per l'uso strumentale che «personaggi politici non ebrei fanno spesso e volentieri dell'ebraismo, quando per attestare il proprio impeccabile status etico ideologico si affrettano a cogliere strumentalmente la minima occasione per manifestare a gran voce la propria vicinanza». Ha detto benissimo: ma faccia attenzione. Non ha mai notato che gli stessi, e anche intellettuali, si guardano bene dall'intervenire quando si dichiara che Israele è uno Stato di apartheid, genocida, usurpatore di terre arabe? Ogni analisi che prescinda da questo punto è irrilevante. Israele è l'hic Rhodus dell'antisemitismo contemporaneo. Ernesto non capisce che il suo interessante ragionamento si completa solo quando si comprende che i «sionisti» - per comunisti, neonazisti, islamisti - sono l'ultima testa dell'idra.
   È l'odio europeo contro lo Stato nazione e contro la guerra, anche quando è di difesa. Ma è anche il solito antisemitismo, e essendo l'ebraismo l'alpha e l'omega della storia del Vecchio Continente, qui sta il cuore della crisi dell'Europa. È un capitolo imprescindibile per spiegare l'odio antiebraico, e Galli vi accenna solo: Israele ce l'ha fatta e dalle ceneri europee la vita rinasce proprio per lo sforzo ebraico e con valori invisi all'Europa stessa, come lo Stato nazione e la difesa militare. Che vergogna per l'Europa: il vero segnale che i suoi valori di libertà, di democrazia, di identità, sono vivi, è Israele. Qui si innesta «l'odio più antico» che ha tante origini e tante storie diverse, da Hitler al comunismo al '67 e all'odio per i "sionisti".
   Qui è l'antisemitismo contemporaneo: reale e non simbolico. Galli fa un accenno all'imbarazzo europeo. Ma non trova una parola per dire che la malattia è proprio questa, capisce bene che i movimenti di sinistra e di destra giocano sui sensi di colpa, ma non vede che proprio l'antisemitismo è un grandioso veicolo di unione politica intersectional. Tutti gli «oppressi» contro Israele. Galli parla di «simboli», ma l'ebraismo è uscito da tempo dalla valle dei simboli, e lo ha fatto dotandosi di una realtà che ha un reddito pro capite di 40mila dollari, conquiste tecnologiche e scientifiche senza pari, un'incredibile capacità di resistere. Questa è la faccia dell'antisemitismo nostrano, e onestamente la schiera dei politici e degli intellettuali che si sbracciano senza notare che esso è diventato israelofobia è poco interessante. Galli, che odia le chiacchiere, lo sa benissimo e sa che l'Europa ha con l'antisemitismo un conto non simbolico ma reale. C'è da bloccare l'Iran, abolire il labeling, accettare la definizione internazionale di antìsemitìsmo, IHRA ... Avanti.

(il Giornale, 27 novembre 2019)


Nella scuola segreta degli ebrei

Vecchi studenti tornano a villa Celimontana. “Si studiava qui al tempo delle leggi razziali''

"Diventò un istituto d'eccellenza, il preside Cimmino ebbe un gran coraggio" "Sogno sempre la mia aula, cerco di aprire il cancello e tutti quelli che stanno fuori"

di Ariela Piattelli

C'è una villa a Roma, nel cuore del rione Celio, a pochi passi dal Colosseo, dove oggi si trova la residenza degli studenti della University of Notre Dame. La fece costruire una nobildonna nel 1909, la Contessa Benilde Rossignano, moglie di Pasquale Loschiavo, Conte di Pontalto, Senatore del Regno d'Italia. La villa in via Celimontana tra il 1938 e il 1940 diventò una scuola in cui gli studenti ebrei, cacciati dagli istituti statali a causa delle leggi razziali, hanno potuto continuare a studiare: la Comunità ebraica infatti, prese in affitto dalla famiglia nobile l'edificio e nell'ottobre del '38 mise in piedi una scuola media ed un liceo, con ben sette indirizzi.
   Alcuni ex studenti della scuola sono tornati a visitarla dopo 80 anni in occasione di una visita organizzata dal Notre Dame Rome Global Gateway assieme all'Ascer Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma). «All'indomani delle leggi del '38 a Roma circa 500 studenti ebrei vengono espulsi dalle scuole - spiega la responsabile dell'ascer Silvia Haia Antonucci -. Anche gli insegnanti ed i professòri universitari di religione ebraica sono espulsi. Così la comunità deve riorganizzarsi per affrontare questa emergenza. ll governo autorizza la scuola a patto che il preside sia un «fascista». Venne indicato Nicola Cimmino, un uomo buono, giovane insegnante, lontano dal razzismo di quegli anni, che aiutò anche gli studenti ebrei della cosiddetta «università clandestina».
   Cimmino si impegnò molto nell'insegnamento, diceva spesso: «Quando si chiude la porta questa è una scuola come tutte le altre, e come tale deve funzionare». Oggi a villa Celimontana in quelle che allora erano le aule della scuola media israelitica ci sono i dormitori dei ragazzi che frequentano la Notre Dame. Le ex studentesse, che ormai hanno più di novant'anni, ricordano bene in quale aula hanno vissuto quella breve parentesi di normalità. «Non potevamo smettere di studiare- ricorda Mirella Fiorentini - per noi lo studio era essenziale, come mangiare e bere. La scuola in Via Celimontana iniziò ad ottobre inoltrato, ricordo benissimo la mia classe. lo ero in primo ginnasio, avevo 11 anni. Mi ero già iscritta al Liceo Mamiani ma con le leggi razziali non fui accettata. Fu un periodo normale, non sentivamo di essere discriminati, ma ricordo che mia madre, quando al mattino prendevamo la circolare, ci diceva di non dire che andavamo alla scuola ebraica».
   Mirella, protagonista del docufilm di Claudio Della Seta Una giornata particolare presentato agli studenti dopo la visita della villa, ricorda perfettamente l'attimo in cui capì che tutto era cambiato: «Era il primo settembre del '38. Durante la mia festa di compleanno una mamma ebrea telefonò a mia madre: era disperata, e disse di aver sentito alla radio che non potevamo più andare a scuola. Così seppi delle leggi razziali, poi ci organizzammo. Villa Celimontana diventò una scuola d'eccellenza, Cimmino ebbe un gran coraggio. Avevamo insegnanti ebrei di ruolo delle scuole statali, anche professori universitari, tutti epurati dal regime. Ricordo la professoressa di matematica, Emma Castelnuovo (figlia del matematico Guido Castelnuovo): spiegava talmente bene la materia che a casa non avevo bisogno di studiare. Lei prese da giovanissima la cattedra in una scuola statale, ma la perse per le leggi». Mirella Fiorentini poi si laureò in chimica, ed insegnò matematica per molti anni alla scuola ebraica. Varcando per la prima volta la soglia della Villa l'ex studentessa Mirella Di Castro indica subito la sua aula e ricorda il sogno ricorrente di tutta la sua vita: «Sogno sempre questa scuola - dice Mirella Di Castro -. Sogno di andare verso l'uscita, ma non riesco ad aprire il cancello, e vedo tutti gli altri che sono fuori in strada. E stato davvero un brutto periodo, avevamo paura, il regime impediva agli ebrei di vivere serenamente. Con la scuola ci organizzammo molto bene, dopo due anni però ci spostammo, perché eravamo davvero troppi».
   A Villa Celimontana arrivarono anche alcuni studenti da altre città, come Fernanda Di Cave: «Vivevo a Velletri dove frequentavo il Ginnasio Mancinelli - racconta -. Avevo la media dell'8, ero molto brava. Poi ci cacciarono dal liceo e mia madre mi mandò a Roma per frequentare questa scuola.
   Quando chiuse Villa Celimontana tornai a Velletri, e mamma dovette convincere una professoressa a farmi lezioni private, perché anche lei aveva paura del regime».
Dal 1940 la villa è stata poi occupata da varie unità dei Carabinieri. Notre Dame l'ha acquistato nel 2015 e l'architetto Anthony Wingfield ha eseguito un restauro nel rispetto del valore storico del luogo. Nel 2008, in occasione del settantesimo anniversario dalla promulgazione delle leggi razziali, l'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha posto una targa nel giardino della villa per ricordare la scuola, gli insegnanti e gli studenti ebrei che la frequentarono.

(La Stampa, 27 novembre 2019)


Viaggio in Israele organizzato dal Gruppo Sionistico Piemontese


Per informazioni rivolgersi a Emanuel Segre Amar via messenger



Ariel "Arik" Sharon, il falco d'Israele

di Sergio De Benedetii

Ariel "Arìk" Sharon, nato Scheinermann, venne alla luce il 26 febbraio 1928 a Kefar Malal da una famiglia di ebrei lituani immigrati in Palestina. Alla fine del 1969 divenne Capo del Southern Command Staff. Congedato nel giugno 1972, allo scoppio improvviso della "Guerra dello Yom Kippur" del 6 ottobre 1973, venne richiamato con il grado di Generale di Brigata. Truppe egiziane e siriane infatti, sostenute da missili terra-aria sovietici, travolsero inizialmente le truppe israeliane colte di sorpresa a causa di una delle loro festività più importanti ma già pochi giorni dopo la situazione si era praticamente capovolta al punto che le truppe del Generale Sharon, tra il 15 e il 16 ottobre, riuscirono ad oltrepassare il Canale di Suez e circondare la terza armata egiziana, iniziando la marcia verso Il Cairo. Ma le diplomazie americana e sovietica nel frattempo, avevano preso il sopravvento nei confronti degli eventi bellici poiché il Presidente egiziano Anwar al-Sadat, rafforzato il suo prestigio personale con la dimostrazione che le forze israeliane non erano imbattibili, aveva già sospeso le azioni militari. A loro volta, gli americani imposero ad Israele «il cessate il fuoco» e Sharon, sul punto di ottenere uno straordinario successo militare, si vide costretto a rientrare in Patria senza gloria ma meritandosi comunque l'appellativo imperituro di "Falco".
   La pace bilaterale israelo-egiziana ( e non degli altri Paesi arabi) verrà ratificata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 22 ottobre dello stesso anno. Dimessosi platealmente nel 197 4, Sharon fondò un movimento politico di destra denominato "Shlomzion" che nel 1977 confluirà nel Partito nazionale "Likud". Ministro dell'Agricoltura nel Governo di Menachem Begin e in seguito Ministro della Difesa nel 1981, nel giugno del 1982 fu l'artefice della invasione del Libano ma l'anno dopo fu costretto a dimettersi dopo lo scandalo provocato nei campi profughi di Sabra e Chatila.
   Tornato in auge nel 1989, divenne Ministro per l'Edilizia nel secondo governo di Itzhak Shamir del 1990 e si mise in luce favorendo la costruzione di nuovi insediamenti nei territori occupati che provocarono tumulti tra i Palestinesi. Nel 1998, con Primo Ministro Benjamin Nethanyahu, ottenne il dicastero degli Esteri e dopo il ritiro di questi, nel 1999 divenne leader del Partito "Lìkud". Il 28 settembre 2000, consapevole di creare tensioni, si recò in visita alla Spianata delle Moschee, un gesto che i Palestinesi giudicarono provocatorio e che creò scontri sfociati nella cosiddetta seconda Intifada, insurrezione che provocò il "confino" di Yassir Arafat ed oltre 4 mila morti tra israeliani e palestinesi. Vinse le elezioni del 2001 con una coalizione che ottenne oltre il 60% e divenne Primo Ministro. Costretto alle elezioni anticipate per la defezione dei Laburisti, nel 2003 stravinse con oltre il 72%. Fondato nel novembre 2005 il nuovo Partito "Kadima" (avanti!), il mese dopo ebbe un leggero ictus ma venne dimesso due giorni dopo. Il 4 gennaio 2006 venne colpito da un'emorragia cerebrale. Uscito dal coma farmacologico, nel marzo il suo Partito vinse le elezioni ma l'11 aprile, permanendo lo stato di coma, venne ufficialmente destituito in favore di Ehud Olmert "ad interim". Morì l'11 gennaio 2014 a Ramat Gan.

(Libero, 27 novembre 2019)


A Tel Aviv manifestazione pro Netanyahu

Questa sera in piazza al grido di 'Blocchiamo il golpe'

TEL AVIV - "Difendiamo lo Stato. Blocchiamo il golpe": questo lo slogan con cui varie organizzazioni di destra hanno convocato per stasera a Tel Aviv una manifestazione in appoggio al premier Benyamin Netanyahu dopo la sua incriminazione da parte del Procuratore Generale Avichai Mandelblit. Alla dimostrazione, che si svolge al Museo di Tel Aviv e non in piazza, sono attesi - secondo gli organizzatori - circa 10mila persone da tutto il paese: è ancora incerto se sarà lo stesso premier a tenere il discorso principale. Gli slogan scelti per la manifestazione ricordano le parole usate dallo stesso Netanyahu nel suo attacco, dopo l'incriminazione, alla magistratura e alla polizia sulle quali - disse - "occorreva indagare". "E' in corso - spiegò - "un tentativo di ribaltamento dei poteri" del premier.

(ANSAmed, 26 novembre 2019)


Minaccia alla leadership di Netanyahu per la guida del Likud

 
MILANO - Mentre il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, lotta per la sopravvivenza politica, la minaccia più immediata per lui emerge dal suo stesso partito, il Likud, che vede l'ascesa di un rivale politico più giovane che sta tentando di destituire il presidente dal suo ruolo di capo del partito. La possibilità di una deposizione potrebbe porre fine a mesi di dispute dopo che due successivi turni elettorali hanno dato vita a uno stallo politico, in cui né Netanyahu né il rivale dell'opposizione, Benny Gantz, sono riusciti a dar vita a un Governo di coalizione. L'impasse ha provocato una crisi interna al partito conservatore, il Likud, mettendo in discussione la gestione e leadership da parte del primo ministro per la prima volta. L'uomo che sta tentando di destituire Benjamin Netanyahu è Gideon Saar, ex ministro degli Interni e dell'Educazione, a lungo considerato figura di spicco di una generazione emergente di politici.
  Nel fine settimana Saar ha rotto le fila del partito e ha lanciato una sfida al primo ministro, una mossa audace se si considera l'esperienza politica e il duraturo supporto di cui gode tuttora Netanyahu nel Paese. Saar ha fatto appello ai membri del partito stanchi degli scandali e del calvario giudiziario che ha colpito il leader del Likud, accusato la scorsa settimana di corruzione, frode e abuso d'ufficio, che, tuttavia, respinge. Le trattative tra il Likud e il partito Blu e Bianco di Gantz sono più volte fallite. Gantz si rifiuta di presiedere un Governo in coalizione con un leader oggetto di un processo. Netanyahu, da parte sua, non accetta di farsi da parte dal ruolo di primo ministro, un incarico che può continuare a servire anche se incriminato. La posizione di primo ministro rafforza la sua difesa nel caso. Per Saar e i suoi sostenitori, dare una scossa al Likud è il modo più semplice per superare la situazione di stallo. Per questo motivo, premono affinché vengano indette le primarie per la guida del partito prima dello scadere del termine dell'11 dicembre, quando una maggioranza di 120 membri del Knesset, il parlamento israeliano, dovrà fare il nome di un candidato. Saar ha detto che il cambio ai vertici potrebbe scongiurare la possibilità di arrivare in meno di un anno a un terzo turno elettorale, che probabilmente si terrebbe a marzo, e che rappresenta la migliore occasione per il Likud di restare al potere.
  "Netanyahu non sarà in grado di dar vita a un esecutivo anche se si dovesse tenere il terzo, il quarto o il quinto appuntamento elettorale", ha dichiarato ieri Saar in un'intervista radio. Il rivale di Netanyahu ha comunicato che il partito conservatore israeliano ha raggiunto un'intesa per un voto sulla leadership nelle prossime sei settimane ma che questo non si terrà necessariamente entro quel termine, quando il Knesset dovrà decidere sul nuovo leader. Il voto del Likud dovrebbe arrivare nelle prossime settimane ma molti membri del partito ritengono che è altamente improbabile che si tenga prima dell'11 dicembre in parte per l'opposizione di Netanyahu a quella tabella di marcia. "E' difficile o quasi impossibile", ha chiarito il ministro del Likud, Ze'ev Elkin, durante un'intervista ieri. Il partito conservatore israeliano ha indetto l'ultima volta un voto sulla sua leadership nel 2014, quando Netanyahu vinse nettamente con il 75% delle preferenze.
  Gli analisti politici dicono che Saar gode di popolarità tra i 130.000 membri del Likud che voteranno alle primarie e potrebbe, dunque, porre una sfida ardua. Saar è stato eletto per la prima volta al Knesset nel 2003 ed è stato subito considerato come un astro nascente della politica israeliana. Quest'anno è stato rieletto come membro del parlamento dopo essersi preso una pausa dalla politica di tre anni, soprattutto dovuta alle tensioni con il primo ministro, il quale ha tentato di far approvare una misura tesa a impedire a chi non è a capo del partito di porsi alla guida di un Governo, una mossa interpretata come tesa a bloccare l'ascesa di Saar. Il giovane rivale conservatore ha posizioni politiche che si collocano a destra rispetto a quelle di Netanyahu e ha dichiarato di voler procedere immediatamente a estendere la sovranità dello Stato d'Israele ai territori della West Bank. Inoltre, si è detto pronto ad annettere la Valle giordana prima di guardare ad altre aree.
  I sostenitori di Saar ritengono che, sebbene Netanyahu sia un leader capace, egli sia stato troppo a lungo al potere e che Saar sia il migliore esponente della nuova generazione politica in grado di prendere le redini del partito. "Netanyahu, nonostante le sua ottime capacità, non si trova nella posizione di formare un Governo in questo momento", ha detto il capo del Likud della città di Netanya, Alon Elroy, il quale ha detto di essere un attivista del partito sin dagli anni '70 e che Saar gli ricorda come era il partito a suoi tempi, cioè un movimento nazionalista e conservatore. Saar, tuttavia, deve affrontare una dura lotta per riuscire a rovesciare Netanyahu, il quale rimane tuttora popolare nel Likud e nel resto della popolazione. "Quello che Saar sta mettendo in atto nei confronti del primo ministro è un colpo di Stato", ha detto un cittadino di Tel Aviv, aggiungendo che "gli israeliani piangeranno per generazioni se si libereranno di un leader come lui in questo modo". Il partito è notoriamente fedele ai suoi leader. Infatti, dalla fondazione di Israele nel 1948, ne ha avuti soltanto 4 e nessuno è mai stato destituito. Netanyahu è ampiamente riuscito a mantenere la sua popolarità tra i suoi sostenitori e li ha convinti che le indagini di corruzione nei suoi confronti sono parte di un complotto contro di lui.

(Economia - TgCom, 26 novembre 2019)


«Netanyahu non è obbligato a dimettersi»

di Fiammetta Martegani

Il vaso di pandora si è aperto giovedì scorso con l'incriminazione, da parte del procuratore generale Avichai Mandelblit, del primo ministro Benjamin Netanyahu, imputato per reati di corruzione, frode e abuso d'ufficio in tre inchieste distinte. La sera stessa Gideon Sa'ar, da sempre voce fuori dal coro del Likud, ha proposto di convocare immediatamente le primarie, candidandosi come leader del partito. Dopo giorni di trattative con le varie anime del Likud, ieri Bibi ha dovuto cedere, acconsentendo alle primarie, che si dovrebbero tenere entro sei settimane. Non prima, però, dell' 11 dicembre, giorno in cui, se la maggioranza della Knesset non riuscisse a formare un governo trovando un leader a cui affidarlo - dopo i tentativi falliti di Netanyahu e del rivale Benny Gantz, leader del partito centrista Blu Bianco -, il Parlamento verrà sciolto, e il Paese andrà a votare per la terza volta in meno di un anno, probabilmente a febbraio.
   Se Bibi potrà candidarsi alla formazione di un nuovo esecutivo è cosa che dovrà essere stabilita nei prossimi giorni dal procuratore Mandelblit insieme al collegio di esperti costituzionalisti di cui fa parte. Per ora il procuratore ha confermato solo che sotto il profilo legale Netanyahu, essendo premier di un governo di transizione, «non è tenuto a dimettersi né è costretto a prendere un congedo a causa delle incriminazioni». Di certo, per lui le difficoltà aumentano. Anche all'interno del suo partito. «I tempi sono maturi per un cambio radicale», ha ribadito Sa'ar. Mentre Avigdor Lieberman, kingmaker, con il suo Israel Beitenu, di ogni futuro governo, ha sottolineato che «dare l'immunità al primo ministro offenderebbe la fiducia della gente». «Spero che alla fine di questo processo ne verrà fuori pulito come la neve - ha dichiarato il leader del partito ultranazionalista -, ma l'unico posto in cui può difendersi è un tribunale».

(Avvenire, 26 novembre 2019)


La realtà profonda dell'antisemitismo

di Ernesto Galli della Loggia

Ernesto Galli della Loggia
Per capire la realtà profonda dell'antisemitismo, oggi più forte che mai, che cosa in esso si nasconda davvero in Italia come altrove, è necessario innanzi tutto partire da un dato: dalla straordinaria valenza simbolica acquisita dall'ebraismo agli occhi degli europei. Una tale valenza si è costruita su due capisaldi, il Cristianesimo e la Shoah. Grazie a essi l'Ebraismo oggi si presenta virtualmente come il momento iniziale e al tempo stesso il punto d'arrivo dell'intera storia d'Europa, in certo senso l'alfa e l'omega di tale storia, il principio e la fine.
  Il principio, allorché l'emanazione religiosa neotestamentaria del giudaismo uscì dalla Palestina e si diffuse su questo continente dando forma e sostanza a quella civiltà europea che è ancora la nostra; e insieme però anche il punto terminale della vicenda che ebbe allora inizio. La fine da cui l'Europa non si risolleverà più, segnata dal suo suicidio storico tra le fiamme dell'Olocausto. Per l'Europa, insomma, l'Ebraismo è divenuto una sorta di luogo simbolico dell'Origine e contemporaneamente della Catastrofe.
  Non basta. Proprio in ragione della Shoah, l'Ebraismo ha assunto — oggi soprattutto — anche il carattere di luogo simbolico di un giudizio sull'Europa che evidentemente non può che essere di irrimediabile condanna. Un giudizio che dal 1945 in avanti — e ben a ragione — esso ha rivendicato ed espresso in una molteplicità di forme. Attraverso le innumerevoli testimonianze autobiografiche, i tanti racconti, le smaglianti analisi e i bellissimi libri dei suoi storici e intellettuali, aventi tutti per argomento la persecuzione e lo sterminio; così come attraverso una richiesta incessante di risarcimento simbolico che ha come momento centrale la rievocazione instancabile, l'enfasi sulla memoria. La medesima funzione ha avuto in un certo senso anche la presenza di Israele. Una presenza ingombrante, che tuttora condiziona ogni mossa dei Paesi europei in quell'area cruciale del mondo costringendoli a una continua scelta, sempre difficile e imbarazzante, tra l'obbligatorio ricordo del passato e le ragioni della realpolitik presente. Una presenza, quella di Israele, che per giunta non si stanca di mortificarci contrapponendo alla nostra pavida debolezza una rude fiducia e familiarità con la forza per noi inconcepibili.
  In mille modi insomma l'Ebraismo sta lì, piantato come un fastidioso memento che impedisce all'Europa di dimenticare le proprie colpe legate indissolubilmente alla tragedia di un declino storico ormai a un passo dall'irrilevanza. Ma essere chiamati in giudizio non piace a nessuno. Anche se a farlo sono le Vittime, i Giusti per definizione: che proprio per questo, però, quasi sempre non sono amati per nulla, e anzi come si sa, risultano assai spesso antipatici. È per l'appunto questa sorda antipatia, è l'insofferenza per quanto detto finora, ciò che si muove nel fondo dell'odierno antisemitismo. Lo si può dire in un modo ancora più crudo: è l'insofferenza verso chi sentiamo aver acquisito una sorta di oggettiva superiorità morale ma a spese delle nostre disgrazie e delle nostre vergogne.
  Se un tale sentimento può avere lo spazio che ha, ciò avviene, tuttavia, anche per la responsabilità della cultura democratica europea. La quale, quasi vergognandosi di sé e della propria tradizione storicista, si è arresa ai canoni del multiculturalismo, dell'eticismo, del pacifismo di principio, dell'approccio «postcoloniale», egemoni nelle università degli Stati Uniti e nella loro cultura. Sicché — a cominciare dalla fine della Seconda guerra mondiale e sempre di più avvicinandoci ai giorni nostri — essa ha offerto una narrazione della storia europea virata progressivamente in negativo. La terribile vicenda novecentesca con l'ombra cupa delle sue guerre e dei suoi massacri è stata in un certo senso proiettata all'indietro su tutto il nostro passato, finendo per costruirne una versione dominata di fatto dalla negatività. Soprattutto nei manuali scolastici, nella divulgazione e nel sentire comune, si è così affermata un'immagine della storia d'Europa — cioè alla fine un'immagine della nostra identità — fatta in massima parte di élite inadeguate, di risorgimenti falliti, di inutili stragi, di religioni causa per antonomasia di guerre e violenze, di disprezzo per le donne, di discriminazione nei confronti di ogni genere di diversità, di razzismo, di traffici di schiavi, di masse oppresse, di bellicismi sempre delittuosi, di sopraffazione e sfruttamento ai danni dell'universo mondo. In una prospettiva dove a prevalere sembra essere sempre stato il dato dell'interesse materiale. E dove, per converso, viene messa una sordina su tutta quella parte della storia che invece ha fatto dell'Europa odierna, guarda caso, il luogo dove milioni di dannati della terra cercano disperatamente asilo.
  Ne risulta che l'atteggiamento diciamo così censorio che l'Ebraismo non può non avere verso il passato europeo (o che comunque come ho già detto esso per così dire oggettivamente incarna agli occhi degli stessi europei) cada sul terreno già in precedenza concimato da una lezione di autostima negativa quotidianamente impartita agli abitanti del continente. È facile supporre allora come l'antisemitismo che oggi rialza la testa dappertutto, più che la manifestazione di un'effettiva avversione diretta nei confronti degli ebrei, rappresenti in realtà qualcos'altro. Vale a dire l'effetto aggressivo di un avvilimento, una forma di ottusa rivalsa per la capillare mortificazione che l'identità europea si trova a subire da tempo. Di rivalsa, e insieme diciamo pure d'invidia: nei confronti di un'identità storica che appare circonfusa della luce fulgida del martirio e della vittoria agli occhi di chi, invece, ha un'identità di cui non sa bene che cosa farsi e a proposito della quale sa solo che di certo non ha motivo di menare alcun vanto.
  È una sorta di antisemitismo «indiretto», «di risulta», ad alimentare il quale gioca — sto parlando in particolare dell'Italia — un ultimo fattore: l'uso politico dell'Ebraismo da parte dei non ebrei. Cioè l'uso che gli esponenti politici non ebrei — solo loro, solo e sempre esponenti della politica, e dunque perlopiù, ahimè, personaggi agli occhi dell'opinione pubblica largamente screditati — fanno spesso e volentieri dell'Ebraismo. Quando per attestare il proprio impeccabile status etico-ideologico si affrettano a cogliere strumentalmente la minima occasione per manifestare a gran voce la propria vicinanza/solidarietà/amicizia/stima, ecc, ecc. nei riguardi dell'Ebraismo. Mostrando quasi una sorta d'interesse personale a enfatizzare oltremisura ogni più insignificante miserabile gesto antisemita per esibire quanto su quel piano sia irreprensibile la propria immagine e reprensibilissima invece quella dei loro avversari. Che un comportamento di tal genere sia davvero di vantaggio alla lotta contro l'antisemitismo, anche di questo, però, mi pare lecito dubitare moltissimo.

(Corriere della Sera, 26 novembre 2019)


"Ho comprato i cimeli di Hitler. Per farli custodire in Israele"

L'imprenditore libanese Chatila: non volevo finissero in mani sbagliate

Un'ora prima dell'«asta della vergogna» Mr. Abdallah Chatila non aveva ancora il via libera per partecipare. «Ci hanno messo 24 ore per accertare la mia affidabilità e capire se non ero un finanziatore dei neonazisti», racconta l'imprenditore milionario libanese. Ma a decidere di comprare lui tutti i cimeli di Hitler e del Terzo Reich, messi in vendita il 20 novembre da Hermann Historica a Monaco, ci ha messo poco più di un secondo. «Stavo leggendo il giornale, ho trovato l'appello dell'Associazione Ebraica Europea per fermare il commercio di questi oggetti che offendono l'Olocausto. Ho sentito che avrei dovuto impossessarmene, per distruggerli, prima che finissero nelle mani sbagliate». Poi, ci ha ripensato: «Li donerò agli ebrei. La memoria è l'unica arma che abbiamo contro gli orrori della Storia».
   Mr. Chatila ha 45 anni, è nato a Beirut e scappato con la famiglia dalla prima guerra civile in Libano nel '76, è di religione cristiana. Dopo aver vissuto dieci anni in Italia, a Valenza (suo padre era commerciante di gioielli), si è trasferito in Francia, poi in Svizzera, dove ora vive. Laureato in gemmologia e appassionato di diamanti, oggi è uno dei 300 uomini più ricchi del Paese, con un fatturato annuo di 250 milioni. Fa l'imprenditore immobiliare, investe in alberghi e ristoranti a Ginevra ed è diventato un filantropo, con l'associazione Sesam Foundation che si occupa tra il resto di rifugiati in Siria, Giordania e Palestina. «Ho speso 600 mila euro per dieci memorabilia su 12 e lo rifarei mille volte - racconta -, ho solo il rimpianto di non essere riuscito a comprarli tutti». Dalla casa d'asta ha acquistato il cilindro del Führer, prodotto da JA Seidl nei primi Anni 30, trovato nella residenza di Prinzregentenplatz a Monaco, e un «Mein Kampf» in edizione limitata del '39, appartenuto a Göring, che include una storia del Partito nazional socialista. E ancora, lettere e foto autografe, la scatola dei sigari e una macchina da scrivere del Führer. I cimeli, lui, non vuole nemmeno vederli: «Andranno dritti in Israele alla organizzazione no profit Keren Hayesod. Decideranno loro che uso fame, io spero che vengano esposti al museo dello Yad Vashem». E confessa: «Non l'ho fatto per gli ebrei, ma per tutta l'umanità. Credo che sia importante che la gente non dimentichi che Hitler è veramente vissuto. In un'epoca di razzismo e rigurgiti neonazisti, se bastassero 600 mila euro per cancellare le storie più nere dell'umanità, li spenderei ogni mese».

(La Stampa, 26 novembre 2019)


Forze di difesa israeliane in allerta per Giornata della rabbia palestinese

GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno rafforzato la loro presenza nella Cisgiordania e lungo la barriera difensiva con la Striscia di Gaza in vista della Giornata della rabbia prevista per oggi. La leadership dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) ha annunciato ieri, 25 novembre, una giornata di protesta in tutti i Territori per protestare contro la posizione degli Stati Uniti in merito agli insediamenti israeliani. La scorsa settimana, infatti, il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha annunciato che l'amministrazione di Donald Trump sta modificando la sua posizione sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania. "L'istituzione di insediamenti civili israeliani in Cisgiordania non è di per sé incompatibile con il diritto internazionale", ha affermato Pompeo parlando dal dipartimento di Stato. Pompeo ha affermato che gli Stati Uniti non stanno soppesando la legalità di alcun singolo insediamento, lasciando il compito ai tribunali israeliani, e aggiungendo che la posizione statunitense non deve comunque essere letta come una dichiarazione sulla sovranità della Cisgiordania, sul quale spetta "agli israeliani e ai palestinesi negoziare".

(Agenzia Nova, 26 novembre 2019)


Arredi sacri ebraici più antichi della Toscana: la mostra a Pisa

 
Dora Liscia e Maurizio Gabbrielli
Un tesoro ritrovato. Uno dei tanti che raccontano la Comunità ebraica pisana e che in un futuro abbastanza prossimo potrebbero confluire in uno spazio museale adiacente alla Sinagoga. Ad annunciarlo - durante il festival Nessiah - Viaggio nell'immaginario culturale ebraico (in corso a Pisa fino al 1o dicembre, www.festivalnessiah.it) è stato il presidente della Comunità ebraica di Pisa Maurizio Gabbrielli.
   L'occasione: la conferenza della professoressa Dora Liscia (Università di Firenze) dedicata, appunto, alla scoperta nella Sinagoga di Pisa dell'Aron ha-Qòdesh (arredo sacro) più antico della Toscana (metà del XVI secolo), in questi giorni esposto e visibile ai piedi della grande scala in via Palestro ed appena rientrato dalla Galleria degli Uffizi di Firenze dove è stato uno dei pezzi più importanti della mostra "tutti i coloro dell'Italia Ebraica" la più importante esposizione mai dedicata agli arredi liturgici ebraici nel nostro paese.
   "Tutto è iniziato un anno e mezzo fa - ha raccontato la professoressa Dora Liscia, che ha avuto al suo fianco in questa avventura Federico Prosperi, della Comunità ebraica - quando sono arrivata a Pisa per selezionare alcuni pezzi da esporre nella mostra 'Tutti i colori dell'Italia ebraica' che si è svolta agli Uffizi, esposizione che è stata un vero evento nell'Ebraismo italiano e che ci ha permesso di restaurare numerosi oggetti. All'ingresso della Sinagoga era presente un mobile, piuttosto malmesso, appesantito da ridipinture posticce in bianco e marmorino e le cui ante superiori apparivano visibilmente rifatte probabilmente utilizzando pezzi di recupero di uno stipo da cucina. Un oggetto sul quale sono emersi subito diversi dubbi. Sottoposto a un restauratore fiorentino, dopo una serie di saggi, ci ha confermato che si trattava in realtà di un pezzo antico probabilmente di epoca rinascimentale. Fatto confermato poi da Vittorio Pandolfino, restauratore romano, che ha condotto un accurato restauro in tempi record affinché l'Aron arrivasse in mostra". Rimaneva il problema delle ante, "false, fatte di un legnaccio".
   "A 20 giorni dall'inaugurazione, quando la notizia dell'Aron ritrovato si era ormai diffusa, mi è arrivata la telefonata di David Cassuto da Gerusalemme. Le ante - rivela la professoressa Dora Liscia - erano lì. Presentavano sull'esterno decorazioni con le tavole della legge e all'interno iscrizioni di salmi e proverbi. L'intento adesso è chiederle indietro". Intanto le ante sono state riprodotte e nel frattempo la ricerca è andata avanti. Probabilmente l'armadio sacro è lo stesso che era stato prestato dalla Comunità Ebraica di Pisa alla Scola italiana di Firenze , al momento della fondazione del ghetto nel 1570, e che fu chiesto indietro dagli ebrei pisani insieme ad un Sefèr Torah per essere collocato, nel settembre del 1595, in coincidenza del Capodanno Ebraico, nella nuova Sinagoga.
   "Pisa ha moltissimi tesori e ritengo giusto - ha concluso la professoressa Liscia - creare un museo perché i pisani, e non solo, ne possano essere partecipi".

(gonews, 25 novembre 2019)


«Promuove il boicottaggio di Israele»: espulso il direttore di Human Right Watch

Israele, «come ogni paese sensato» ha il diritto di decidere «chi può entrare e lavorare nei suoi confini». Lo ha detto il ministero degli esteri israeliano sull'espulsione - decisa dalla Corte Suprema israeliana dopo una lunga battaglia legale - di Omar Shakir direttore di Human Right Watch (Hrw) per Israele e Territori Palestinesi. Shakir, partito oggi da Israele, è stato - ha ribadito il ministero - «un attivo sostenitore del Bds e, con zelo, ha promosso il boicottaggio di Israele. Proprio alcuni giorni prima della decisione finale sul suo caso, ha di nuovo espresso aperto sostegno al boicottaggio e all'isolamento dell'intero stato di Israele». Il ministero ha ricordato che Israele «assegna grande importanza alle attività delle ong dei diritti umani a cui ogni anno concede centinaia di visti. Hrw è benvenuta se vuole nominare un altro coordinatore che, al posto di Shakir, si occupi della protezione dei diritti umani più che delle politiche contro i cittadini israeliani». Shakir - secondo i media - resterà nell'incarico occupandosi delle attività dell'ong da Amman in Giordania.

(Il Messaggero, 25 novembre 2019)


Netanyahu: rischio di nuovi attacchi iraniani

In precedenza il comandante delle forze americane in Medio Oriente, il generale Kenneth McKenzie, aveva fatto affermazioni simili, definendo l'Iran "bullo di quartiere".

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato durante il suo intervento all'apertura del consiglio dei ministri di oggi che l'Iran sta pianificando "ulteriori attacchi", non solo contro i Paesi vicini, ma anche contro i suoi stessi cittadini.
   Il politico non ha specificato ulteriormente le sue affermazioni, inclusa l'informazione sui Paesi che potrebbero essere colpiti, ma ha esortato la comunità internazionale ad unirsi alle pressioni contro l'Iran, definito come il "più grande regime terroristico nel mondo".
"Chiedo a tutti i Paesi del mondo che ambiscono alla pace nella nostra regione, e in tutto il mondo in generale, di unirsi agli sforzi per esercitare maggiori pressioni sull'Iran e per sostenere Israele che contrasta questa aggressività", ha affermato.
Parlando dei presunti attacchi dell'Iran ai propri cittadini, Netanyahu ha fatto riferimento a notizie non confermate della Ong Amnesty International, che ha denunciato l'uccisione di 100 persone nelle proteste contro il rincaro del carburante che hanno scosso il Paese. Teheran ha riferito che solo un civile è rimasto ucciso durante le agitazioni.
   I commenti di Netanyahu sono arrivati in risposta alle dichiarazioni del comandante delle forze statunitensi in Medio Oriente, il generale Kenneth McKenzie, secondo cui "è molto probabile che l'Iran attaccherà di nuovo", riferendosi al bombardamento effettuato dai droni sugli impianti petroliferi in Arabia Saudita e le petroliere nel Golfo Persico, di cui Washington incolpa Teheran. La Repubblica Islamica ha respinto con decisione le accuse.
   McKenzie ha inoltre osservato che l'Iran, sotto la "massima pressione" dalle sanzioni statunitensi, potrebbe cercare di "rompere la campagna" nel tentativo di provocare Washington.

(Sputnik Italia, 25 novembre 2019)


Libano: Hezbollah attacca i manifestanti a Beirut. Decine di feriti

Su Hezbollah l'Europa deve ora prendere una decisione definitiva. Non può più continuare a tenere un profilo ambiguo come quello attuale che considera legale la parte politica e illegale l'ala militare.

Uomini di Hezbollah armati di bastoni, di verghe metalliche, catene ed esplosivi hanno attaccato questa mattina presto nel centro di Beirut i manifestanti che ormai da settimane protestano contro il Governo.
  Arrivati all'improvviso a bordo di motociclette (come i Baji iraniani) sventolando le bandiere di Hezbollah e inneggiando al gruppo terrorista, hanno dato addosso ai giovani manifestanti picchiandoli molto duramente, tanto che la polizia libanese ha dovuto formare un muro per difenderli.
  Testimoni dei fatti hanno raccontato che l'attacco è stato improvviso, brutale e violentissimo. Al grido di «sciiti, sciiti» e di «Hezbollah, Hezbollah» in perfetto stile Baji le motociclette sono passate in mezzo ai manifestanti falcidiandone diversi.
  I giovani libanesi hanno risposto urlando «Hezbollah terrorista» e tirando sassi contro i miliziani pagati dall'Iran scatenando un breve ma intenso scontro che solo l'intervento della polizia è riuscito a fermare.
  Gli attacchi di Hezbollah sono iniziati dopo che i manifestanti avevano bloccato un grande incrocio noto come Ring Road che collega i quartieri orientali della capitale con la parte occidentale della città. I manifestanti avevano contemporaneamente chiuso le strade nelle aree a nord di Beirut e nella valle orientale della Bekaa.

 L'Europa non può continuare ad esser complice di questi criminali
  Su Hezbollah l'Europa deve ora prendere una decisione definitiva. Non può più continuare a tenere un profilo ambiguo come quello attuale che considera legale la parte politica e illegale l'ala militare. Hezbollah è un unico organismo terrorista, uno Stato nello Stato che tiene in ostaggio una intera nazione e che non si fa scrupolo di usare violenza contro chi lo contesta.

(Rights Reporters, 25 novembre 2019)


Islam, l'ora delle rivoluzioni laiche

"Iran, Libano, Iraq, Algeria, Sudan: cresce un'opportunità per la democrazia"

Per la prima volta c'è un movimento sociale e culturale che non risponde alle linee del confessionalismo I manifestanti hanno imparato la lezione delle primavere arabe: sono in qualche modo gandhiani, più efficaci

di Giordano Stabile

L'Iran fronteggia la «crisi più seria» dalla rivoluzione islamica del 1979. Per la prima volta è alle prese in contemporanea con una insurrezione interna e rivolte nella sua sfera di influenza, dal Libano all'Iraq, Questo spiega la «ferocia senza precedenti» con cui il regime ha represso le manifestazioni. Il «Crescente sciita» è ancora una volta a un bivio. Le «rivoluzioni non violente» possono cadere negli stessi errori delle primavere arabe ed essere schiacciate. Oppure possono condurre a un Medio Oriente più democratico. Gilles Kepel, direttore della cattedra Moyen-Orient Méditerranée alla Scuola Normale Superiore di Parigi e della piattaforma Medio Oriente Mediterraneo all'Università della Svizzera italiana, è tutto sommato ottimista. Nel suo ultimo saggio Uscire dal caos, tradotto per Raffaello Cortina, ha anticipato la possibilità di una svolta positiva e adesso coglie segnali di speranza.

- Dal Libano all'Iran, siamo di fronte a rivolte come non si vedevano dal 2011. Che cosa ci dobbiamo aspettare?
  «Partiamo dall'Iran. La Repubblica islamica affronta la crisi più grave dalla sua fondazione nel 1979 . Il problema per il regime è che le sanzioni americane hanno raggiunto la "massima efficacia" nel dividere la popolazione dalla dirigenza islamica».

- Perché i tradizionali alleati sciiti adesso si ribellano?
  «In Libano l'alleato principale dell'Iran, Hezbollah, è alle prese con una doppia perdita di legittimità. Un primo pilastro era la resistenza a Israele. Hezbollah l'ha ereditata negli anni Ottanta dai palestinesi, l'ha ristrutturata con l'aggiunta dell'aggettivo "islamico". In questo modo ha potuto giustificare la pretesa di conservare le armi mentre le altre milizie venivano disarmate alla fine della guerra civile 1975-1990. Il secondo pilastro era basato sulla protezione dei "diseredati", i moustadafin, cioè gli umili, gli oppressi. La prima legittimità è finita quando Hezbollah, nel 2012, è andato a combattere in Siria a fianco di Bashar al-Assad contro l'insurrezione sunnita. Ora il Partito di Dio è caratterizzato più come un movimento sciita anti-sunnita che come anti-israeliano. Anche il secondo pilastro, la protezione dei deboli, cristiani compresi, non funziona più per la crisi economica catastrofica e la distruzione della classe media istruita. Hezbollah ha fatto un patto con il sistema politico settario libanese. Un patto neofeudale che ha finito col proteggere i milionari invece che i diseredati e soprattutto i giovani diplomati senza prospettive, anche sciiti»,

- Sono gli stessi giovani che manifestano in Iraq, dove però il bilancio è pesante, oltre 300 morti. Come spiega questa differenza?
  «Bisogna allargare lo sguardo. In Algeria, Sudan, notiamo come i manifestanti abbiano imparato la lezione della primavera araba del 2011. Se usi la violenza, il potere, l'esercito, le milizie possono sempre sovrastarti con una violenza molto più grande. Questi movimenti di occupazione pacifica delle piazze sono in qualche modo "gandhiani", più efficaci. In Libano ha funzionato. Il premier Saad Hariri si è dimesso. Un possibile successore, il miliardario Mohammed Safadi, ha rinunciato a prenderne il posto. In Iraq è diverso. E un Paese strano. E sotto il doppio controllo dell'Iran e dell'America, diciamo un 85% agli iraniani e un 15%agli americani. Ma anche qui il sistema settario non funziona più. La stessa classe sociale, le masse giovani istruite, soffre per il clientelismo, che aiuta soltanto gli amici di Teheran. La stessa popolazione sciita irachena è stanca dell'egemonia iraniana, tanto da arrivare a un gesto inaudito: il saccheggio del consolato dell'Iran a Karbala, la Gerusalemme sciita. Il rischio di contagio verso l'Iran era molto più forte e per questo la repressione è stata terribile».

- Il contagio non è però stato fermato e adesso tocca all'Iran. Che cosa possiamo aspettarci?
  «In Iran la base sociale della rivolta è più povera, potremmo paragonarla ai gilets jaunes. La scintilla è stata la stessa, l'aumento del prezzo dei carburanti. La fine dei sussidi è un segno del successo della politica americana delle sanzioni. Il regime non ha più i mezzi per sovvenzionare i prezzi dei carburanti. Ha bisogno di far pagare di più la popolazione. Appena la gente si è ribellata abbiamo assistito al compattamento tra ala oltranzista, i Pasdaran, e ala riformista del regime. Lo Stato profondo ha ancora i mezzi per restare al potere, ma in un mondo musulmano che sta cambiando rapidamente».

- In che senso?
  «Per la prima volta vediamo che le rivoluzioni non sono prese in ostaggio da divisioni settarie. C'è un movimento sodale, culturale, che non risponde alle linee del confessionalismo. In Sudan c'è un rifiuto dei Fratelli musulmani, la base che sosteneva l'ex dittatore Omar al-Bashir. In Algeria c'è il ricordo dei gruppi jihadisti della guerra civile degli anni Novanta, e la piazza rigetta violenza ed estremismo. A quarant'anni dalla rivoluzione islamica in Iran e dalla svolta conservatrice in Arabia Saudita, per la prima volta gli islamisti, sciiti e sunniti, sono in difficoltà. Teheran ha meno mezzi a disposizione, a Riad il principe Mohammed bin Salmam ha prosciugato i canali delle ricche famiglie che alimentavano il salafismo. Cresce l'opportunità di rivoluzione non violenta, non settaria, democratica. I primi segnali si vedono già».

(La Stampa, 25 novembre 2019)


Il filo sottile che circonda Manhattan

È utilizzato dagli ebrei ortodossi e funziona come una sorta di recinto, per aggirare i divieti previsti dallo Shabbat.

Nell'isola di Manhattan, a New York, c'è un filo sottile che parte dall'Upper West Side, scende verso Midtown, poi arriva al Greenwich Village, passa per l'East Village, risale passando vicino all'East River, arriva fino alla fine di Central Park, poi ancora fino a Harlem e infine torna al punto di partenza. Se siete stati a New York una volta nella vita, sapete che è molta strada, 28 chilometri circa, e il filo la percorre in modo ininterrotto. Camminando per le strade della città probabilmente in pochi lo notano, eppure è un filo importantissimo per molti cittadini newyorkesi: gli ebrei ortodossi. Quel filo è infatti quello che in ebraico si chiama eruv, una recinzione rituale che permette agli ebrei osservanti di svolgere alcune attività anche durante lo Shabbat.
   Lo Shabbat, il giorno sacro per le persone di religione ebraica, che si celebra ogni sabato, è la festa del riposo: il sabato gli ebrei dovrebbero evitare qualsiasi tipo di lavoro e dedicarsi solo alla preghiera di Dio che, come dicono le Sacre Scritture, in sei giorni creò il mondo e il settimo si riposò (nella religione cattolica il settimo giorno è invece la domenica). Gli ebrei ortodossi applicano questi dettami con grande rigidità, soprattutto rispetto al divieto di compiere 39 tipi di azioni chiamate melachot: gesti fisici specifici come cucinare, cucire, accendere o spegnere un fuoco, seminare o arare la terra, e anche trasportare qualsiasi oggetto fuori dalla propria abitazione.
   A differenza di altri divieti, per cui un giorno di riposo può essere tollerabile, proprio quest'ultimo può causare notevoli disagi: non si possono spingere i passeggini, per esempio, non si può fare la spesa, non si possono usare bastoni e non si possono acquistare medicinali. Per evitare questi inconvenienti, nel corso del tempo gli ebrei ortodossi hanno utilizzato quello che in ebraico si chiama eruv (o eruvin, al plurale): una recinzione reale o simbolica che serve a estendere il proprio domicilio privato anche agli spazi pubblici, permettendo di eludere il divieto. La parola eruv significa "mescolanza" ed è un'abbreviazione di eruv chatzerot, cioè "mescolanza di domini": l'unione di più domicili privati in un unico domicilio comune. L'area coperta dal filo vale domicilio privato, insomma: e se l'area coperta dal filo copre mezza Manhattan, gli ebrei possono spostarsi e fare cose in mezza Manhattan anche di sabato.
   Gli eruv si trovano in molte città di tutto il mondo, e sono presenti soprattutto dove ci sono consistenti comunità ebraiche: in alcuni casi gli eruvin sono delimitati da vere e proprie recinzioni, mentre in altri si utilizzano come punti di riferimento i cavi dell'elettricità o le mura cittadine. A volte sono puramente simbolici, come a Venezia, l'unica città italiana con un eruv, o meglio: l'unica città italiana a essere un eruv. Nel 2016, infatti, il rabbino capo della comunità ebraica di Venezia, Scialom Bahbout, ha firmato un'intesa con il sindaco, Luigi Brugnaro, per dichiarare la città un'unica grande "casa" per gli ebrei.
   L'eruv di Manhattan non si nota facilmente in mezzo ai tanti cavi dell'elettricità che corrono tra le strade, ma gli ebrei ortodossi della città sanno bene dove si trova. Se ne occupa la comunità ebraica locale, che ogni giovedì invia due rabbini a ispezionare lo stato del filo lungo tutto il percorso: se ci sono cedimenti o rotture, provvedono immediatamente a ripararlo, in modo che sia pronto per il sabato. Il regolamento cittadino impone che il filo sia spesso al massimo 6 millimetri e che sia appeso ad almeno 4,5 metri da terra, quindi è per lo più attaccato ai pali della luce. Fu inaugurato per la prima volta nel 1999, e all'inizio era limitato all'Upper West Side, ma negli anni si è ampliato finendo per includere quasi tutta l'isola, estendendosi per quasi 30 km, come ha raccontato a Business Insider il rabbino Mintz, che gestisce l'eruv della città.
   «Non è mai mancato, mai. Nemmeno per uno Shabbat. Lo abbiamo sempre salvato all'ultimo minuto», ha detto il rabbino Mintz, che gestisce l'eruv della città, secondo cui il momento più difficile per la stabilità del cavo è la parata di Macy's del giorno del Ringraziamento. In tutto, ogni anno, il mantenimento del filo costa alla comunità tra i 125mila e i 150mila dollari (tra i 112mila e i 135mila euro), divisi tra le varie sinagoghe ortodosse. C'è anche un account Twitter, chiamato Manhattan Eruv, che segnala ogni volta che l'eruv è pronto, e una mappa su Google Maps in cui si può visualizzare l'esatta posizione del filo.

(il Post, 25 novembre 2019)


Perché il riconoscimento della legalità degli insediamenti aiuta la pace

In base a diritto internazionale e accordi firmati, israeliani e palestinesi devono negoziare il destino di un territorio conteso e il futuro confine: prenderne atto è ciò che serve per avviare un vero negoziato.

Lunedì scorso il Segretario di stato americano Mike Pompeo ha annunciato che gli Stati Uniti non considerano più gli "insediamenti" civili israeliani in Cisgiordania come "non conformi al diritto internazionale".
In effetti, era sempre stato un errore per gli Stati Uniti trattare i territori contesi in Cisgiordania come "occupati".
Innanzitutto, era impossibile che Israele "occupasse" dei territori "palestinesi" per il semplice fatto che uno stato palestinese non è mai esistito. Gli israeliani versarono molto sangue quando catturarono la Cisgiordania in una guerra d' autodifesa, prendendola alla Giordania che nel 1967 si era unita a Egitto e Siria nel tentativo di annientare Israele. E la Giordania non aveva nessun titolo legale da rivendicare su quel territorio, che aveva illegalmente occupato allo scadere del Mandato Britannico nel 1948. Subito dopo la guerra dei sei giorni del '6,7 Israele si offrì di cedere fino al 98% della Cisgiordania, e avanzò analoghe offerte in numerose occasioni successive. Sempre rifiutate....

(israele.net, 25 novembre 2019)


Musica d'esilio, musica di speranza

 
Dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino dell'Eden nei primi capitoli della Genesi, la storia di Israele è segnata dalle peregrinazioni e dalla nostalgia per il Paradiso perduto. Per non parlare della deportazione a Babilonia e dell'avventuroso ritorno dall'esilio egiziano attraverso il deserto, fisico e metaforico, ricordato ogni anno nella solenne festa di Pesach che ritualmente si conclude con l'augurio: "L'anno prossimo a Gerusalemme". Appuntamento ormai tradizionale per il Giorno della Memoria, il concerto all'Auditorium Parco della Musica tocca quest'anno il tema della musica d'esilio. "Là dove giace il cuore" il titolo dell'evento, in programma il prossimo 23 gennaio, organizzato come di consueto da Viviana Kasam e Marilena Citelli Francese per conto dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e nell'ambito delle iniziative promosse dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
   Sul palco diversi artisti di fama: Cristina Zavalloni, già voce nel 2019 di "Libero è il mio canto - Musiche di donne deportate", l'ARC Ensemble del Royal Conservatory di Toronto, specializzato in musiche scritte in esilio e nominato per tre Grammy Awards, Raiz, protagonista della scena napoletana e interprete del film "Passione" di John Turturro e i Lagerkapelle Ensemble, eccezionali solisti jazz.
   Al centro della performance artistica il percorso del popolo ebraico "che ha sancito la propria identità nelle peregrinazioni in Medio Oriente seguite alla cacciata dalla Spagna, dal Portogallo e dai regni spagnoli in Sud Italia, nella fuga dai pogrom dell'Europa dell'Est, per finire con la Shoah, che per alcuni, i più fortunati, fu esilio, dalla propria lingua, l'yiddish, dalle proprie famiglie, dagli amici, persino dai ricordi". Una lacerazione proseguita anche dopo la nascita dello Stato di Israele con l'esilio, "spesso dimenticato, degli ebrei che vivevano in Medio Oriente, Iran, Iraq, Libano, Tunisia, Libia e i falascià d'Etiopia".
   Ma l'esilio, si ricorderà nel corso del concerto, è una esperienza condivisa da tutta l'umanità, ieri come oggi. E se i protagonisti hanno storie diverse, volontari o costretti, in fuga dalla morte o dalla miseria, sospinti dalla guerra o dalla fame o tratti in schiavitù, la condizione degli esuli è ovunque e comunque molto simile. L'esilio - si sottolinea - è morte del passato, delle abitudini, degli affetti, degli oggetti che ci erano cari, della lingua madre. È sentirsi estranei e mal tollerati, considerati inferiori e indesiderati". Paradossalmente però è anche "rinascita, creatività, possibilità di una nuova vita".
   Il concerto, affermano Kasam e Citelli Francese, è dedicato "a tutti gli esuli, di ieri e di oggi, gli ebrei askenaziti e gli ebrei sefarditi, gli armeni, gli africani deportati come schiavi, gli italiani e gli irlandesi che si imbarcavano a cercare fortuna in continenti lontani, i profughi contemporanei che scappano per sopravvivere, gli yazidi, i sudamericani respinti alla frontiera e separati dai loro figli, gli apolidi, i migranti ai quali viene negato l'approdo, come successe alle navi cariche di ebrei in fuga durante la seconda guerra mondiale".
   Dalle diverse tradizioni sono stati selezionati i canti che saranno eseguiti al Parco della Musica. Testi di celebri scrittori e poeti in esilio, letti da Manuela Kusterrnann e Alessandro Haber, si alterneranno alle canzoni. Sono stati scelti in collaborazione con Edmund de Waal, che ha creato Psalm, la Biblioteca dell'esilio, una raccolta di 2000 volumi per raccontare le diaspore dell'umanità promossa a Venezia dallo International Center for the Humanities and Social Change dell'Università Ca' Foscari.
   Anche per l'evento del prossimo 23 gennaio, come nel passato concerto, sarà possibile "adottare" una canzone attraverso una donazione a sostegno del progetto.

((Pagine Ebraiche, novembre 2019)


Netanyahu parla di Gaza e Iran nella prima riunione di governo dopo l'incriminazione

GERUSALEMME - Nella prima riunione del gabinetto di governo dopo la decisione del procuratore generale Avichai Mandelblit di incriminare Benjamin Netanyahu di corruzione, frode e abuso d'ufficio, il primo ministro ha parlato della minaccia iraniana e dei droni utilizzati dai movimenti estremisti nella Striscia di Gaza, ma non delle accusa mosse contro di lui. Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", Netanyahu ha rivelato un tentativo di incursione di droni in Israele dalla Striscia di Gaza che è stato contrastato con successo. Per il premier il lancio di droni da Gaza rappresenta una "nuova" e "significativa" minaccia alla sicurezza dello Stato di Israele. "Stiamo sviluppando strumenti tecnologici e altri mezzi per sradicare e contrastare questa minaccia", ha dichiarato Netanyahu citando lo sviluppo in passato del sistema di difesa antiaerea Iron Dome per colpire i missili provenienti dall'enclave palestinese.

(Agenzia Nova, 24 novembre 2019)


Turismo in Israele, al top con Gerusalemme e Tel aviv

Per il turismo in Israele il 2018 è stato un anno da record. Le più visitate Gerusalemme e Tel Aviv e si prevedono numeri in crescita per il 2019

di Agnese Petrosemolo

 
All'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv atterrano ogni anno milioni di turisti provenienti da tutto il mondo. Secondo dati diffusi dal Ministero del turismo, in Israele si parla di un 2018 che ha visto più di 4 milioni di turisti pari a 5,8 miliardi di dollari, cifre da record che sono possibili solo grazie ad un forte impegno da parte del Ministero stesso. Nonostante il conflitto arabo-israeliano che da sempre caratterizza quest'area geografica il turismo in Israele cresce a dismisura, conseguenza di una forte sicurezza interna garantita dal governo israeliano. Tensioni a parte, visitare questo paese è un'esperienza incredibile ed indelebile che vi rimarrà per sempre nel cuore.
  Le città più visitate sono sicuramente Tel Aviv e Gerusalemme ma l'interesse verso la crescita del turismo ha fatto si che si sviluppassero con gli anni anche altri luoghi più orientati ad un tipo di vacanza di relax. Come Eilat, località marittima che affaccia sul Mar Rosso situata a Sud Est tra le dune del deserto. Israele è infatti conosciuta come una "Terra Santa" inserita tra il mondo occidentale e quello orientale. è da sempre meta di pellegrinaggio, viaggi culturali o ritiri spirituali.
  Della forte attenzione verso questa branca del settore terziario ne è prova l'inaugurazione recente dell'aeroporto Ramon International Airport, nuovo scalo internazionale israeliano che servirà i turisti diretti ad Eilat. Si tratta dello scalo più blindato del mondo, vista la delicata posizione geografica.

 Turismo in Israele: perché visitarlo
  Oltre alla vicinanza con i principali aeroporti europei (da Roma il volo per Tel Aviv dura circa 3 ore 30 minuti) l'altra caratteristica di questo magico paese è la sua trasversalità. Si presta a viaggi di breve o lunga durata e oltre ad offrire un'immensa offerta culturale è anche perfetto per una vacanza all'insegna della movida di cui Tel Aviv ne è la culla.
  Dopo aver visitato le due città principali, Gerusalemme e Tel Aviv, spesso i turisti si dilungano per trascorrere un momento di benessere sul Mar Morto o per visitare la bellissima fortezza di Masada risalente al I secolo a.C, a circa 100 chilometri da Gerusalemme. Ma le attrazioni di questo paese sono infinite come lo è la sua storia, e qui la curiosità trova sempre pane per i suoi denti. Andare a visitare la città di Betlemme in Cisgiordania implica l'attraversamento del muro che divide la Palestina dall'Israele, ed è necessario organizzarsi per tempo con una guida turistica ben preparata.

 Gerusalemme
  Essendo Tel Aviv la città di sbarco dei turisti si tende a visitarla prima di spostarsi nella capitale Gerusalemme, per una gita in giornata (le due città sono lontane 70 chilometri) o per intraprendere un viaggio itinerante. Il fascino di Gerusalemme, la città delle tre religioni, non è descrivibile a parole. Vi coesistono pacificamente Fedi opposte all'interno di una roccaforte retta da secoli di storia.
  Non si può lasciare la città senza aver attraversato la città antica percorrendo il Mahane Yeuhda Market e la Via Crucis passando tra le 9 porte della città. D'obbligo è assistere alle preghiere dei fedeli ebrei davanti al Muro del Pianto (muro occidentale), Visitare il Santo Sepolcro e il Museo della Memoria Yad Vashem nato nell'architettura di Moshe Safdie.

 Mangiare a Gerusalemme
  Fuori dalle mura la città si espande senza perdere il filo con la magia e l'architettura del suo cuore antico. Gerusalemme accoglie più di un milione di abitanti, ha un'ampia offerta alberghiera di ogni categoria e una vasta scelta gastronomica. Quando si parla del turismo in Israele si fa meno riferimento al cibo rispetto alla realtà: Gerusalemme propone una cucina tradizionale con una forte impronta vegetariana (visto il clima mediterraneo del paese) in location allo stesso tempo trendy. Hummus, falafel, agnello o manzo (rigorosamente carne Kosher), pane pita servito con varie salse, melanzane alla brace. Sono solo alcuni dei piatti tipici israeliani. Tra i ristoranti più amati sia dai turisti che dai locali a Gerusalemm e ci sono: The Eucalyptus, Machneyuda e Chakra

 Tel Aviv
  Tel Aviv è conosciuta principalmente come meta del divertimento, contribuisce alla grande crescita del turismo in Israele e il suo plus è il bellissimo Mar Mediterraneo su cui affaccia e la densa presenza di ristoranti, hotel e club alla moda. Famoso per la movida è il Rothschild Boulevard, un lungo viale continuamente in movimento fitto di discoteche e cocktail bar, il cuore della vita notturna.
  Anche a Tel Aviv tira aria di fascino antico con il quartiere dell'antica Città di Jaffa, oggi a presenza prevalentemente araba e quartiere dell'arte contemporanea. Tel Aviv riesce ad essere una città medio orientale con elementi culturali tipicamente occidentali. Qui l'inverno e l'autunno non sono di casa, l'estate e la primavera sono la stagioni prevalenti. Il Mercato rimane un tratto distintivo anche a Tel Aviv, da non perdere è il Carmel Market.
  Andare in spiaggia fa parte degli usi comuni e sul lungo mare ci sono stabilimenti balneari e ristoranti aperti tutto l'anno. Molta attenzione è data anche al fitness: praticare sport fronte mare è una prerogativa degli abitanti della città. Il mezzo di trasporto preferito è il monopattino elettrico, per moda e per funzionalità anche per andare a lavoro. Ce ne sono a migliaia ad ogni angolo della città e si possono utilizzare scaricando semplicemente un'applicazione sul proprio smartphone.

 Mangiare a Tel Aviv
  La scelta culinaria è così ampia da mandare in confusione vista la presenza internazionale che ha permesso a tutte le cucine del mondo di inserirsi in questo contesto. La potenza dei fatti storici passati avvenuti a Gerusalemme ha garantito una maggiore influenza delle tradizioni israeliane, diversamente da Tel Aviv dove cucine come quella giapponese non hanno faticato ad insediarsi.
  L'alta qualità delle materia prima israeliana abbassa già di molto le possibilità di rimanere insoddisfatti. A Tel Aviv è comunque possibile andare a mangiare come si suol dire "alla cieca"camminando per le strade della città . Si può trovare la cucina kosher, araba (nel quartiere di Jaffa), giapponese, greca, messicana ed internazionale (soprattutto nei grandi alberghi). Tra i locali più in voga del momento ci sono il Topolopompo (asiatico) Aria (cucina israeliana in chiave internazionale) e il Tyo (sushi).

(Radio Colonna, 24 novembre 2019)


Gli ebrei ad Asolo

«Messaggi in bottiglia» ripercorre la vicenda di 80 persone in fuga dagli ustascia durante la Seconda Guerra Mondiale.

di Alessandro Tortato

«Sono stato cacciato dal mio paese. Insegnavo In una scuola per bambini internati, ricevevo le notizie della BBC dalla nostra padrona di casa, la signora Malipiero, moglie inglese del celebre compositore. Ho letto Dos Passos e Steinbeck in italiano, giocato a calcio con monaci armeni. Ho scritto manifesti politici, li ho messi in alcune bottiglie e li ho seppelliti nei campi. E stato un interludio di puro romanticismo giovanile nel mezzo di una guerra terribilmente crudele.».
   Questa Ode ad Asolo fu composta in lingua inglese da Jasha Levi, giornalista e scrittore ebreo di successo, nato a Sarajevo, americano dal 1956, internato ventenne nello storico borgo della Marca. Non sappiamo se quei messaggi in bottiglia siano mai stati trovati ma, in qualche modo, il loro contenuto è comunque riemerso grazie al prezioso lavoro di Vittorio Zaglia, autore del volume Messaggi in bottiglia. Ebrei stranieri ad Asolo (Cleup, 150 pp., 20 euro).
   Uno degli aspetti meno indagati della persecuzione ebraica prima e durante la Seconda guerra mondiale è il cosiddetto «internamento libero» a cui furono costretti quasi 4.000 ebrei stranieri, in massima parte croati, che, cercando la salvezza dai nazìsti e dagli ustascia, loro feroci emuli, s'erano trasferiti nei territori occupati dall'esercito italiano. Di lì furono condotti in Italia, sottoposti ad obbligo di domicilio coatto e privati di molte libertà personali. Per le leggi italiani erano infatti solamente degli apolidi, una condizione che toglieva loro ogni protezione e diritto. Di essi ben 1.240 giunsero in Veneto, soprattutto in provincia di Vicenza (più di 600), Rovigo (120) e Treviso (356). Quasi 80, per la massima parte provenienti da Zagabria, furono alloggiati ad Asolo. Il primo scaglione di 50 persone arrivò in città il 30 novembre del 1941 a bordo di un autocarro. Tra essi vi era la famiglia dell'avvocato Ziga Neumann, eminente rappresentante della comunità ebraica zagabrese, membro della locale Organizzazione Sionista e capo del Jewish Foundation Fund. A rìceverli in Municipio fu il podestà Ernesto Pasini. Pasini apparteneva ad una delle famiglie asolane più in vista. Iscritto al Partito Fascista sin da giovane era comunque un moderato, di formazione liberale. Suo figlio, Angelo, fu peraltro uno dei protagonisti della Resistenza nella Pedemontana con il nome di battaglia «Longo».
   Nelle sue memorie Joseph Konforti, genero di Neumann, descrive Pasini come «un uomo alto e grassoccio, vestito elegantemente, che ci interrogò, ci spiegò la nostra posizione ufficiale, elencando quali sarebbero stati i nostri diritti ed i nostri doveri». Gli internati non potevano uscire di casa prima dell'alba, né rincasare dopo il tramonto; potevano circolare solo nei confini del centro storico e non era permesso loro trattenersi a lungo in esercizi pubblici. Per l'alloggio era preferibile l'ospitalità in case private. E gli asolani? Come accolsero gli abitanti di Asolo questi ospiti così sfortunati? Ricorda il figlio di Konforti: «Dopo anni di persecuzione da parte di tedeschi e croati, per la prima volta i miei genitori trovarono ad Asolo persone che li rispettarono e che diedero loro finalmente l'impressione di essere ancora considerati esseri umani. Nonostante una serie di pesanti limitazioni, solo il fatto di uscire per strada e sentirsi dare il «buongiorno» dai vicini di casa rappresentò un grande cambiamento. Il fornaio quando poteva allungava ai miei una pagnotta in più o una fetta di focaccia». La tragica vicenda degli internati ad Asolo ha un lieto fine: guidati da Ziga Neumann, tutti riuscirono a salvarsi dall'arresto dopo l'8 settembre del 1943, chi fuggendo al Sud, chi verso la Svizzera. Neumann scriverà nel testamento: «Noi ci siamo dati un solo compito: sopravvivere!» E sopravvissero, ricordando per sempre quell'isola di umanità veneta, in un mondo dilaniato dagli orrori della Shoah.

(Corriere del Veneto, 24 novembre 2019)


Il dilemma di Hamas: far sviluppare la Striscia di Gaza o distruggerla

Hamas si trova di fronte a una decisione non più rinviabile. O "azzera" la Jihad Islamica separandosi così da Teheran, oppure sceglie la via della guerra e della immancabile distruzione di Gaza

di Maurizia De Groot Vos

In tanti, praticamente tutti, pensano che il problema più grosso per Hamas sia solo Israele. Sbagliato. Uno dei problemi più grossi per Hamas si chiama Egitto. E al Cairo non sono affatto contenti di quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza.
  L'ultima esplosione di violenza tra Israele e la Jihad Islamica ha messo in evidenza come Hamas non controlli più il gruppo terrorista legato all'Iran.
  Secondo l'intelligence israeliana dopo l'uccisione del capo della Jihad Islamica a Gaza, Bahaa Abu al-Atta, Hamas aveva accettato che la Jihad Islamica rispondesse con un attacco limitato al lancio di pochi missili e solo contro le comunità israeliane di confine (ben protette).
  Ma la Jihad Islamica, probabilmente seguendo gli ordini di Teheran, ha deciso di fare diversamente andando contro quanto "concesso" da Hamas.
  Così ha scatenato un attacco di vaste proporzioni con centinaia di missili che sono arrivati a mettere in allerta persino Tel Aviv, andando quindi molto oltre quanto concordato con il gruppo terrorista che governa la Striscia di Gaza.
  Una decisione che ha fatto scattare i campanelli di allarme su chi realmente controllasse l'enclave palestinese, dubbi per altro espressi da diverso tempo.
  Ed è qui che entra in gioco l'Egitto. Come ormai da prassi ad ogni escalation, una delegazione dei servizi segreti egiziani si è recata quasi subito nella Striscia di Gaza per mediare con Hamas un cessate il fuoco o comunque una de-escalation. Solo che Hamas, a differenza di altre volte, non poteva parlare anche per la Jihad Islamica che stava andando per conto suo.
  È stato così che l'Egitto ha capito che Hamas non aveva più il controllo sulla Jihad Islamica che invece prendeva ordini direttamente da Teheran.
  Report di intelligence riferiscono di uno scontro durissimo tra gli inviati egiziani e i capi di Hamas, accusati dagli egiziani di aver dato troppa corda ai proxy iraniani e di mettere a serio rischio la popolazione di Gaza.
  Sulla Striscia incombeva infatti la possibilità che Israele desse il via ad una operazione su vasta scala.
  Solo allora la leadership terrorista ha deciso di alzare la voce con la Jihad Islamica e di "imporre" un cessate il fuoco.
  Ma i dubbi su chi controlla la Striscia di Gaza rimangono tutti. Soprattutto gli egiziani chiedono ad Hamas di dimostrare di essere ancora i governanti della Striscia e di "bloccare" anche con la forza la Jihad Islamica e addirittura di espellere i proxi iraniani dalla Striscia.
  Ed è qui che nasce il grosso dilemma per Hamas. È stato infatti il nuovo leader dei terroristi che tengono in ostaggio la Striscia di Gaza, Yahya Sinwar, ad andare a chiedere aiuto finanziario e militare a Teheran spostando l'asse d'influenza su Gaza dalle potenze sunnite alla più grande potenza sciita.
  È stato Sinwar ad accettare il denaro e le armi iraniane e a far dire che Hamas era "la prima linea di difesa dell'Iran".
  Ora i terroristi palestinesi si trovano tra l'incudine sunnita e il martello sciita. Devono decidere in fretta se continuare a beneficiare della generosità sunnita che arriva soprattutto dal Qatar (con il placet di Israele che mensilmente autorizza il trasferimento a Gaza di milioni di dollari) o schierarsi con l'Iran rinunciando però anche alle concessioni egiziane, che non sono pochissime e che includono tra le altre cose la possibilità (seppur limitata) per gli abitanti di Gaza di recarsi in Egitto anche per curarsi.
  Non solo. Gli indispensabili aiuti a Gaza entrano solo attraverso Israele, dall'Egitto non entra praticamente nulla. E gli aiuti sono chiaramente condizionati al fatto che la situazione sia tranquilla.
  In poche parole, Yahya Sinwar deve decidere se rinnegare i suoi accordi con Teheran e bloccare militarmente la Jihad Islamica, oppure continuare con questo giochino e mettere a repentaglio la stessa esistenza di Gaza che, ricordiamolo, sarebbe territorio egiziano donato alla "causa palestinese".
  Il Cairo su questo punto appare più irremovibile di Gerusalemme anche se la cosa non sembra interessare molto i media che coprono il Medio Oriente.
  Ora la palla è nelle mani di Hamas. È molto improbabile che Israele possa continuare ad accettare la presenza di un proxy iraniano, qual è la Jihad Islamica, senza reagire. E se dovesse esserci una nuova escalation questa volta si potrebbe arrivare davvero ad una azione militare israeliana su vasta scala.
  Cosa faranno i terroristi di Hamas? Sceglieranno la pace e quindi lo sviluppo di Gaza come vorrebbero l'Egitto e il Qatar, oppure sceglieranno di seguire la via iraniana portando la Striscia di Gaza alla distruzione?

(Rights Reporters, 24 novembre 2019)


Netanyahu e il Likud, una leadership in bilico

 
Gideon Sa'ar e Benjamin Netanyahu
Primarie il prima possibile per vedere se il Likud è ancora dalla parte del Primo ministro Benjamin Netanyahu. A chiederle è, non c'è da stupirsi, Gideon Sa'ar, ovvero il membro del Likud considerato l'avversario interno più credibile alla leadership di Netanyahu. Tra i due non corre buon sangue - Netanyahu nelle scorse primarie di partito aveva accusato Sa'ar di aver cospirato con il Presidente Reuven Rivlin per rovesciarlo - e l'incriminazione del leader del Likud per corruzione, abuso d'ufficio e frode ha riacceso lo scontro. In un'intervista al Canale 12, Sa'ar ha definito irresponsabile il Premier per aver parlato di colpo di stato rispetto alla decisione del procuratore generale Avichai Mandelblit di rinviarlo a giudizio. "Chiunque diriga il ramo esecutivo non può dire che la decisione di Mandelblit sia un tentativo di colpo di stato. Non è giusto, non è responsabile. Stiamo creando un'atmosfera di caos nel paese a cui mi oppongo", ha dichiarato Sa'ar, accusando Netanyahu di non voler "riparare il sistema" ma di volerlo "distruggere". Poi la richiesta di primarie immediate per decidere chi deve guidare il Likud: Sa'ar vuole che siano indette prima che scadano i 19 giorni ancora a disposizione della Knesset per scegliere al suo interno un candidato in grado di avere la maggioranza di 61 seggi, formare un governo e quindi evitare le sempre più probabili terze elezioni. "Non credo che in una terza o quinta elezione (Netanyahu) sarà in grado di formare un governo. Non siamo così lontani dal perdere il controllo del paese a favore dei nostri avversari. - ha detto Sa'ar, affermando che Netanyahu, visti i risultati delle elezioni di aprile e di settembre, non sarà in grado anche in futuro di ottenere la maggioranza alla Knesset - Se oggi andiamo alle primarie e prendiamo una decisione democratica, possiamo salvare il governo del Likud". Sa'ar spera di ottenere la leadership e di formare un governo con Kachol Lavan ma è fortemente improbabile che accada.
  Dura intanto la replica, affidata ai social, del Likud nei confronti del suo stesso parlamentare. "Il presidente del Likud è il primo ministro Netanyahu, che ha dato 32 seggi al Likud tramite schede elettorali che recitavano 'Il Likud guidato da Netanyahu'. È un peccato vedere che mentre il Primo Ministro Netanyahu mantiene la sicurezza di Israele su tutti i fronti e lavora per preservare il potere del Likud, Gideon Sa'ar, come al solito, non mostra nessuna lealtà e massima sovversione". Secondo l'emittente Kan Netanyahu starebbe lavorando per evitare che vi siano primarie, mossa che non piace al presidente del comitato centrale del Likud Haim Katz. Quest'ultimo, dopo l'appello di Sa'ar, ha dichiarato che bisogna "permettere a chi lo desidera di competere nelle primarie" di partito. Katz ha annunciato che prenderà in considerazione la richiesta di Sa'ar così come quella più diplomatica di un altro membro di partito, Nir Barkat. L'ex sindaco di Gerusalemme ha infatti proposto di fare sì le primarie ma per decidere solamente la riserva di Netanyahu. L'idea di Barkat è quella di nominare un vice-capo del Likud che, in caso l'attuale Premier dovesse essere costretto a congedarsi dalla politica per affrontare i tre processi contro di lui, ne prenderebbe il posto. Un piano per non mettersi contro Netanyahu e i suoi sostenitori nel partito - che sono molti - e al contempo per garantire una possibile successione non traumatica in caso l'era di Bibi dovesse finire. A riguardo sarà importante capire cosa annuncerà Mandelblit nel fine settimana: il procuratore ha infatti formato una commissione che determinerà se esistono ostacoli legali che impediscono a un Primo ministro incriminato di formare un governo.

(moked, 24 novembre 2019)


Da Usa garanzia di 430 milioni di dollari per il ripristino del gasdotto Egitto-Israele

IL CAIRO - Gli Stati Uniti si impegnano a fornire una garanzia di 430 milioni di dollari per far avanzare la sicurezza energetica in Egitto, riabilitando l'Arab gas pipeline della East Mediterranean Gas Company (EMG) che collega Al Arish ad Ashkelon. Lo ha annunciato l'amministratore delegato della Us International Development Finance Corporation (Dfc), Adam Boehler, durante il forum Investment for Africa organizzato al Cairo. Alla cerimonia per la firma dell'accordo per la concessione della garanzia hanno preso parte il premier egiziano Mustafa Madbouli, il ministro degli Investimenti e della Cooperazione internazionale Sahar Nasr e dell'ambasciatore degli Stati Uniti in Egitto Jonathan Cohen. La garanzia consentirà alla statunitense Noble Energy di ripristinare il gasdotto lungo 90 chilometri di proprietà di Emg che parte dalla città costiera israeliana di Ashkelon e attraverso il Mar Mediterraneo raggiunge la città egiziana di Al Arish. I contratti assicurativi sono stati firmati questa settimana dopo che Noble Energy e i suoi partner hanno raggiunto una chiusura finanziaria per il progetto. "Il rafforzamento della sicurezza energetica - che sostiene gli scambi commerciali, gli investimenti e migliora la qualità della vita - è fondamentale per garantire prosperità e stabilità durature in Egitto", ha affermato Boehler. "Questo progetto aiuterà il paese a soddisfare la crescente domanda di affidabilità, basso costo dell'energia per alimentare una crescita economica sostenuta e creare opportunità che abbiano un impatto stabilizzante in Egitto e in tutta la regione ", ha aggiunto.

(Agenzia Nova, 24 novembre 2019)


Il Fatebenefratelli ricorda la difesa degli ebrei romani

Nel decennale della morte di fra Maurizio Bialek, negli anni della seconda guerra mondiale economo del Fatebenefratelli, il 20 novembre, nell'ospedale dell'Isola Tiberina si è tenuto il convegno "La comunità del Fatebenefratelli nell'ora delle tenebre — La difesa degli ebrei romani", per ricordare la «generosità con cui la famiglia religiosa ha nascosto ebrei e ricercati per motivi politici o disertori», come ha sottolineato il priore fra Agel Lopez. Spicca la figura del dottor Giovanni Borromeo, che dopo essere stato escluso dagli ospedali pubblici per aver rifiutato di iscriversi al Partito fascista, il 27 aprile 1934 iniziò a lavorare al Fatebenefratelli dove inventò il famoso "morbo di K", l'inesistente malattia (con riferimento a Kesserling e Kappler), «contagiosissima», con sintomi singolari, che avevano i rifugiati ricoverati. Indimenticabile pure «la Sora Lella — ha rimarcato fra Giuseppe Magliozzi —, che non aveva ancora il ristorante ma cucinava a casa e vendeva i piatti; poi quello che avanzava lo portava per gli ebrei nascosti nel locale che raccoglieva l'acqua reflua dell'ospedale, situata sotto una botola all'interno della stanza da 4 letti di isolamento».

(Avvenire - Roma, 24 novembre 2019)



«Perché siete così ansiosi?»

PREDICAZIONE
Marcello Cicchese
dicembre 2015
Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.

 

Finale di partita?

di Niram Ferretti

Infine è giunto quello che era ampiamente previsto. Benjamin Netanyahu è stato rinviato a giudizio per abuso di ufficio e corruzione in tre casi diversi che hanno a che fare, uno con costosi regali, sigari e champagne e altri due con presunti accordi sottobanco per ottenere una copertura di stampa a lui favorevole. Tutto da dimostrare, naturalmente, e la presunzione di innocenza resta intatta fino a prova contraria, nonostante la sete di giustizia sommaria delle tricoteuses che considerano i processi che lo aspettano un inutile orpello a fronte di una colpevolezza per loro già evidente. Al di là di ciò, e della prevedibile difesa di Netanyahu, che le accuse a lui rivolte fanno parte di una manovra politica con l'obbiettivo di scalzarlo dal premierato, il più lungo che Israele abbia mai avuto dopo quello del padre della patria Ben Gurion, resta il fatto che Melech Bibi, Re Bibi, sembra entrato definitivamente, come il Riccardo terzo shakesperiano, nel suo più profondo inverno di scontento.
   E' vero che non vi è un astro politico che sia sorto all'orizzonte, nessun "sole di York" che possa rimpiazzarlo, certamente non lo è l'anodino Benny Gantz, e non vi è alcuna altra figura in grado di stargli al passo per competenza, carisma, abilità, ma il rinvio a giudizio in un frangente in cui, dopo due inconcludenti tornate elettorali non è riuscito a tornare in auge con un mandato netto, ce lo mostra vistosamente logorato. Non che non combatterà cercando di restare in sella nonostante le contingenze avverse, ma per quanto il Likud gli sia ancora apparentemente fedele-un partito che Netanyahu ha, negli anni, sempre più trasformato in una sorta di guarnigione personale-sono pochi a scommettere sulla sua sopravvivenza politica.
   Quello di Netanyahu è sicuramente un grande futuro dietro alle spalle, in cui la consumata abilità di promoter di Israele e di infaticabile tessitore di relazioni ai massimi livelli istituzionali internazionali, sono stati due degli ingredienti più smaglianti della sua parabola politica. La questione non è qui quella della sua innocenza o della sua colpevolezza (i reati che avrebbe eventualmente commesso sono risibili per lo standard disincantato di qualsiasi adepto della Realpolitik), ma il fatto che, data la mancanza di una nuova coalizione di governo salda e l'indebolimento politico della sua figura dopo il rinvio a giudizio, il finale di partita, se non immediato, appare solo differito.

(L'informale, 24 novembre 2019)


Altra meraviglia archeologica in provincia di Arezzo: scoperta una tomba etrusca

Si trova nel centro storico di Monte San Savino, all'interno dell'edificio denominato "Casa del Trono del Rabbino" che ospitava un tempo una sinagoga. Il sindaco Scarpellini, etruscologa, ha individuato all'interno un'antica camera sepolcrale.

 
 
Nel centro storico di Monte San Savino riemergono testimonianze della civiltà etrusca. E' la grande scoperta di queste ultime settimane - spiegano dal Comune - frutto del rapporto di stretta collaborazione fra l'Amministrazione Comunale e il mondo ebraico per cui si profila una nuova visione per la storia della città e del suo territorio.

 Nella ex sinagoga
  Nell'edificio adiacente alla ex Sinagoga di proprietà comunale, edificata nel 1732 dalla comunità ebraica savinese, presente in città nei secoli XVII e XVIII, sono infatti riemerse le vestigia di una precedente sinagoga, che presumibilmente fu edificata intorno alla metà del '600 prima che la comunità ebraica, cresciuta nel numero dei suoi componenti, ne costruisse un'altra per sopperire alla necessità di maggiori spazi.
   L'edificio - proseguono dal Comune savinese - è quello che finora veniva chiamato "Casa del Trono del Rabbino", perché in esso sorgevano un trono scavato nella pietra e una vasca presumibilmente utilizzata per la miqvé, il bagno rituale . Su tale edificio si è incentrato l'interesse di Jack Arbib, proprietario e Presidente dell'Associazione Salomon Fiorentino nonché dello storico locale Renato Giulietti che hanno voluto approfondire il tema.
   E' stato poi il sindaco Margherita Scarpellini, di professione etruscologa, a ravvisare nel corso di una visita all'edificio un riutilizzo e adattamento di una struttura precedente, risalente a molti secoli prima.
   "Ho subito avuto la profonda convinzione che l'edificio ebraico sia stato ricavato da una tomba ipogea etrusca scavata nel macigno, di epoca arcaica" spiega il sindaco "Il trono è quindi a tutti gli effetti attribuibile alla civiltà etrusca, addirittura ornato sullo schienale da un motivo decorativo ad onde 'del cane corrente' (inizi V sec. a.C.). Si tratta di un tipico esempio di sepoltura con vestibolo e camera sepolcrale, ampiamente attestata in Etruria".
   La tomba ipogea sorgeva circa 3 metri sotto il piano di calpestio. Si può apprezzare l'antica lavorazione della roccia affiorante, nelle pareti e nelle piccole scalinate. La struttura è stata riadattata nei secoli, a testimonianza di questo si notano le canalette in terracotta, sostanzialmente intatte, che dal tetto portano l'acqua piovana fino alla vasca per le abluzioni. "Anche in questo caso" continua il Sindaco "si è semplicemente riutilizzato qualcosa di già esistente, appunto riconducibile all'epoca degli Etruschi".
   "Si rafforza quindi la conoscenza sul rapporto fra il mondo etrusco e le nostre città murate" conclude il Sindaco "Questa scoperta è di grande importanza a livello assoluto, ma arricchisce anche in modo significativo la storia di Monte San Savino e il valore del nostro patrimonio. Porterà molte implicazioni e suggestioni e sarà senza dubbio oggetto di studi futuri".

(Arezzo Notizie, 23 novembre 2019)


Netanyahu resiste: non lascio. Dopo l'incriminazione pressing di Gantz

Il giorno dopo l'incriminazione di Benyamin Netanyahu, le opposizioni chiedono le dimissioni del primo ministro. Il primo passo lo ha avanzato Blu-Bianco, il partito di Benny Gantz, il militare centrista diventato il grande rivale del leader israeliano. Gantz ha chiesto al Procuratore generale Avichai Mandelblit (nominato proprio da Netanyahu) di costringere il premier a lasciare immediatamente i quattro portafogli ministeriali che occupa Oltre che primo ministro, Netanyahu è infatti titolare dei dicasteri della sanità, della diaspora, dell'agricoltura e degli affari sociali. Blu-Bianco ha fatto appello a precedenti legali della Corte suprema secondo cui un ministro, sotto incriminazione, non può continuare ad essere tale. Ma il premier ha respinto l'attacco rimettendo tutto alle decisioni della giustizia: «Questo processo sarà alla fine deciso in Tribunale. Accetteremo la decisione e su questo non c'è dubbìo. Subito dopo però Netanyahu ha ripetuto le sue accuse alla magistratura e alla polizia, rivolgendosi direttamente agli israeliani («in definitiva, chi deciderà chi sarà il primo ministro siete voi cittadini») e lasciando dunque intuire la strategia con cui spera di uscire dall'angolo: puntare tutto sulle nuove elezioni che ~ ormai sembra inevitabile - si terranno di qui a pochi mesi, sperando di ottenere dalle urne un'ennesima investitura popolare.

 Le piazze
  Le rispettive piazze intanto cominciano a mobilitarsi: ieri i laburisti hanno tenuto un sit davanti la sede del Likud per chiedere al premier di farsi da parte. Il Movimento per la qualità del governo - organizzazione che si definisce apolitica - ha annunciato una grande manifestazione pubblica il 30 novembre per «estromettere» Netanyahu. Mentre per martedì a Tel Aviv è annunciato un corteo delle destre in favore di Bibi.

(Il Messaggero, 23 novembre 2019)


*


Israele, Netanyahu spacca il Paese

! laburisti' chiedono le dimissioni del premier. Nel Likud ora c'è voglia di primarie

di Fiammetta Martegani

L'incriminazione del premier Benjamin Netanyahu sta spaccando Israele. Ieri i laburisti hanno organizzato una manifestazione per chiedere le dimissioni di Bibi proprio davanti al quartier generale del Likud, esortando i membri del partito del premier ad «avere pietà per il Paese» e a premere sul loro leader affinché si dimetta in modo da evitare il ritorno alle urne per la terza volta in meno di un anno.
   Nel Likud, però - e non solo nel Likud - sono molti i politici che dichiarano il proprio sostegno nei confronti del primo ministro, sintonizzandosi con la retorica della «caccia alle streghe» su cui Netanyahu ha impostato gran parte della sua difesa quando giovedì sera ha commentato la sentenza emessa dal procuratore generale Avichai Mandelblit. Il ministro degli Esteri, Israel Katz, figura chiave del Likud, ha espresso appoggio a Netanyahu affermando che non c'è ragione perché si dimetta: «Israele - ha detto - è uno Stato di diritto e la presunzione di innocenza vale per ogni persona, incluso il premier». Tuttavia, il terremoto giudiziario sta squassando il partito. E cominciano a vedersi le prime crepe. Gideon Sa'ar, numero 5 del Likud e da sempre voce fuori campo rispetto ai fedelissimi del premier, ha dichiarato che è necessario indire le primarie del partito (non accadeva dal 2014), e di essere pronto a candidarsi come leader al posto di Netanyahu: «In queste circostanze, la cosa giusta da fare - ha affermato - è cominciare a impostare una nuova agenda per il Likud. Sono convinto di essere la persona in grado di formare un governo e unire assieme le diverse istanze della nazione». Ai deputati del Likud guarda anche Benny Gantz, leader del partito Blu Bianco, che ha sempre detto di essere pronto a lavorare con il partito del premier, sempre se il premier si farà da parte.
   Nel Paese il malcontento cresce. Attraverso i social media è stata organizzata una manifestazione contro Netanyahu per questa sera a Tel Aviv. Il Movimento per la «qualità del governo», che si definisce apolitico, ha annunciato invece una grande mobilitazione il 30 novembre per chiedere l' «estromissione» del premier dalla Knesset. Questo, spiegano gli organizzatori, alla luce della sua «incapacità» di governare il Paese, dovendo far fronte a un iter giudiziario che lo vede incriminato in tre differenti casi giudiziari per frode, corruzione e abuso di ufficio. Aria di tempesta per Bibi. Su tutti i fronti.

(Avvenire, 23 novembre 2019)


Le basi giuridiche della scelta di Washington sugli insediamenti in Cisgiordania

Il Direttore di La Stampa, Maurizio Molinari, risponde alla lettera di un lettore

Caro Direttore,
la decisione del presidente americano Trump di definire legittimi gli insediamenti israeliani in Cisgiordania contrasta con dozzine di risoluzioni Onu, smentisce decenni di politica internazionale e ostacola la creazione di uno Stato palestinese sui Territori occupati da Israele nella guerra del 196 7. Perché mai gli Stati Uniti hanno preso tale decisione?
Giulio Valente (La Spezia)



Caro Valente,
la decisione del Segretario di Stato Mike Pompeo di affermare che gli insediamenti ebraici in Cisgiordania «non violano la legge internazionale» si origina dalla scelta di considerare infondato il memorandum di quattro pagine redatto dal consigliere legale del Dipartimento di Stato Herbert Hansell nel 1978 sulla base del quale il governo Usa iniziò ad affermare che gli insediamenti erano «illegali» perché Israele era una «potenza occupante». Le obiezioni giuridiche dell'amministrazione Trump a quel documento sono due. Innanzitutto Israele non poteva essere considerata «potenza occupante» perché la Cisgiordania non aveva alcuna sovranità essendo stata catturata dalla Giordania nel 1949 al termine del Mandato britannico, senza contare che Israele ne entrò in possesso nel 1967 al termine di una guerra difensiva iniziata per fronteggiare le minacce annate immediate da parte di Egitto, Giordania e Siria. E in secondo luogo parlare di «illegittimità» degli insediamenti israeliani creati, richiamandosi alla IV Convenzione di Ginevra contro «il trasferimento di popolazione da parte di una potenza occupante», stride con il fatto che tale norma non sia mai stata applicata e neanche invocata, in alcuna sede internazionale, in altre situazioni simili: dal trasferimento di tedeschi occidentali a Berlino Ovest nel 1948 da parte delle potenze alleate al trasferimento di russi in Crimea dal 2014 fino al trasferimento di turchi nel Nord della Siria dal 2016.
   Ma non è tutto perché, secondo l'amministrazione Usa, c'è un'altra base legale della svolta politica adottata ovvero il fatto che la risoluzione 242 delle Nazioni Unite, approvata dal Consiglio di Sicurezza dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967 e considerata la base di ogni composizione del conflitto arabo-israeliano ha due pilastri: richiede a Israele di ritirarsi «da territori» (secondo il testo originale inglese) e non «dai territori» a seguito di negoziati diretti coni Paesi arabi e non definisce l'occupazione israeliana «illegale».
   Più in generale, la scelta della Casa Bianca sugli insediamenti in Cisgiordania segue quelle in favore della sovranità israeliana sul Golan - anch'essa conseguenza del conflitto del 1967 - e del riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico nell'evidente intento di far venir meno le più radicate obiezioni arabe alla legittimità di Israele per poter creare una cornice legale capace di risolvere il conflitto mediorientale in un'ottica diversa dal passato. Ovvero assicurando ad Israele garanzie di sicurezza tali da rendere possibili le concessioni necessarie per arrivare ad un accordo di pace permanente capace di rispondere anche alla richiesta dei palestinesi di avere un proprio Stato.
   Saranno i prossimi mesi a dire se tale approccio di Washington potrà avere più o meno successo, di certo le deboli proteste dei maggiori Stati arabo-sunniti alle mosse di Trump lasciano intendere lo spessore delle trasformazioni in atto nella regione, dove la maggiore preoccupazione, tanto in Israele che nei Paesi arabi, viene dalle mire strategiche dell'Iran.

(La Stampa, 23 novembre 2019)



L'Onu è illegale

 


La terra è una casa

"Il fatto che io non abiti a Gerusalemme è secondario: Gerusalemme abita in me. E' indissociabile dal mio essere ebreo e resta al centro del mio impegno e dei miei sogni".

di Elie Wiesel

Ovunque vada, diceva il celebre Rabbi Nahman di Bratislava; i miei passi conducono a Gerusalemme". Eppure. Ebreo residente negli Stati Uniti, per molto tempo mi sono imposto di non intervenire nei dibattiti interni dello Stato di Israele. Non condividendo le sue tragedie, non essendo esposto ai pericoli che ne minacciano la popolazione e forse perfino l'esistenza, non mi arrogo il diritto di dare consigli sul modo di superarli. Avendo vissuto quello che ho vissuto e scritto quello che ho scritto, credo che il mio dovere morale sia semplicemente e inevitabilmente quello di aiutarlo, nella misura del possibile, a raggiungere la felicità e la stabilità senza generare infelicità intorno a sé. E di amarlo nella gioia e nel dolore. Al di là delle frontiere, considero il suo destino anche mio, poiché la mia memoria è legata alla sua storia. Anche la sua politica mi riguarda, certo, ma indirettamente. Le sue campagne elettorali mi interessano e le sconfitte mi imbarazzano, ma non essendo cittadino israeliano non vi partecipo. Provo simpatia per quel politico e ho qualche riserva su quell'altro, ma sono mie faccende personali e non ne parlo.
   Questo comportamento mi ha fruttato "lettere aperte" e articoli aspri da parte di giornalisti e intellettuali di sinistra; mi rimproverano di non protestare ogni volta che la polizia o l'esercito israeliano esagerano verso palestinesi civili o armati,
   E' raro che io risponda. I miei critici hanno la loro concezione dell'etica sociale e individuale, e io la mia. Io accordo loro il diritto di criticarmi, ma loro mi negano quello di astenermi dal rispondere.
   Oggi però si tratta di Gerusalemme, e la cosa è diversa. La sua sorte non coinvolge solo gli israeliani, ma anche gli ebrei della diaspora come me. Il fatto che io non abiti a Gerusalemme è secondario: Gerusalemme abita in me. E' indissociabile dal mio essere ebreo e resta al centro del mio impegno e dei miei sogni. Rispetto alla politica, per me Gerusalemme è situata a un livello più alto. Citata oltre 600 volte nella Bibbia, Gerusalemme è ancorata nella tradizione ebraica, di cui rappresenta l'anima collettiva e il punto di riferimento nazionale. Esiste una religione o una storia nella quale Gerusalemme svolga un ruolo più continuo o occupi un posto di maggior risalto? E' lei che ci lega gli uni agli altri.
   Non c'è preghiera più bella o più nostalgica di quella che ricorda il suo passato splendore e il ricordo terribile della sua distruzione.
   Un ricordo personale: quando ci andai per la prima volta, ebbi l'impressione che non fosse la prima volta. E, da allora, ogni volta che ci vado è sempre la prima volta. Quello che provo lì non lo provo in nessun altro posto. La sensazione di tornare nella casa dei miei antenati. Lì mi aspettano Re Davide e Geremia.
   Eppure. Ora, negli ambienti politici, si parla di un piano che vedrebbe la maggior parte della Città Vecchia finire sotto la sovranità palestinese. Il monte del Tempio, sotto il quale si trovano le vestigia del tempio di Salomone e di quello di Erode, apparterrebbe dunque al nuovo stato palestinese.
   Che i musulmani tengano a conservare un legame privilegiato con quella città, uguale a nessun'altra, è comprensibile. Benché il suo nome non compaia nel Corano, è la terza città santa della loro religione. Ma per gli ebrei continua a essere la prima. O, meglio, l'unica. Perché i palestinesi non dovrebbero essere soddisfatti di conservare il controllo sui loro luoghi sacri come i cristiani continuerebbero ad avere diritto al controllo dei loro?
   Come si può dimenticare che, dal 1948 al 1967, mentre la Città Vecchia era occupata dalla Giordania, gli ebrei non avevano accesso al Muro del pianto, malgrado l'accordo ratificato dai due governi? A quel tempo i palestinesi non rivendicavano uno stato per loro e non menzionavano mai Gerusalemme. Sfido chiunque a dimostrarmi il contrario.
   Perché improvvisamente i palestinesi si ostinano a voler conquistare Gerusalemme come capitale, mettendo in pericolo tutti i negoziati internazionali sugli accordi di Oslo? Forse per sostituire, al momento buono, Egitto e Arabia Saudita nel ruolo di leadership dell'intero mondo arabo?
   Yasser Arafat, che pure piace tanto a certi ufficiali di Washington, è riuscito a sbalordire i capi della diplomazia americana quando, a Camp David, rifiutando le generosissime concessioni di Ehoud Barak, dichiarò che a Gerusalemme non c'era mai stato nessun tempio ebraico. Un'ignoranza sorprendente? Possibile. Ma sarebbe un errore non considerare questa dichiarazione sotto l'angolazione politica. In altre parole, quando Arafat pretende la Città Vecchia per farne la sua capitale, priva di fatto il popolo ebreo della sua legittimità sulla città di Davide e del suo diritto sul suo passato storico.
   Ci dicono che se Israele fa delle concessioni senza precedenti è per la giusta causa. Per la pace. Un'argomentazione che certo ha il suo peso. La pace è la più nobile delle aspirazioni, e merita che le sacrifichiamo quanto di più caro abbiamo. Sono d'accordo. Mi sembra un precetto saggio e generoso. Ma è applicabile a tutte le situazioni? Si può sempre dire "la pace a qualunque costo"? L'infame accordo di Monaco non era motivato, per inglesi e francesi, da un ingenuo desiderio di salvare la pace del mondo? Se cedere dei territori può sembrare, in certe condizioni, concepibile in quanto politicamente pragmatico se non addirittura imperativo, si può dire altrettanto di un piano che comporterebbe la rinuncia alla storia o la sua mutilazione?
   Insomma, c'è uno storico o un archeologo che possa negare la presenza ebraica tre volte millenaria sul monte del Tempio? Ma, allora, con che diritto Arafat lo rivendica? E perché il presidente Clinton, che pure è amico di Israele, gli dà il suo appoggio? E poi, ancora, con quale diritto il primo ministro israeliano Ehoud Barak si potrebbe sottomettere alle sue pressioni? Ma, per i miei fratelli in Israele, togliere la dimensione storica di Gerusalemme e di Israele non significa negare il loro diritto di risiedervi e di costruire lì le loro case?
   Mi si chiederà: e la pace, in tutto ciò? Io continuo a crederci con tutto il cuore. Ma dare la Città Vecchia di Gerusalemme ad Arafat e ai suoi terroristi, non significa approvare il loro comportamento e forse addirittura ricompensarli?
   I palestinesi insistono anche sul "diritto di tornare" di oltre tre milioni di rifugiati. Su questo punto, il rifiuto di Israele è compatto. Anche i pacifisti più fervidi, tra cui i grandi scrittori Amos Oz, A. B. Yehoshua è David Grossman, si oppongono pubblicamente. E vigorosamente. La soluzione di un ritorno di massa è impensabile. Portare tre milioni di palestinesi in Israele equivale fisicamente al suo suicidio, cosa che nessun israeliano in buona fede può accettare.
   Nello stesso ordine di idee, non si può forse dire che amputare Gerusalemme della sua parte storica equivarrebbe per molti ebrei a una sorta di suicidio morale?
   Quando, nel 1967, il giovane colonnello paracadutista Motta Gur gridò nel suo telefono da campo "il Monte del tempio è nelle nostre mani!", tutto il paese si mise a piangere. Dovremmo adesso piangerne l'abbandono?
   Lo dico con tristezza: dopo aver visto sui teleschermi i volti contratti dall'odio dei giovani palestinesi durante l'intifada II, dopo aver sentito i discorsi infuocati dei loro dirigenti, dopo aver studiato i manuali scolastici pubblicati nel 2000 sotto l'Autorità palestinese, oggi mi è più difficile credere alla volontà di pace dei palestinesi. Per i loro militanti, Israele rappresenta un'offesa permanente.
   Non vogliono un Israele ridotto: non vogliono Israele e basta. E' semplicissimo. Eppure. Poiché sembra che tutte le opzioni possibili siano state esaurite, la pace resta il nostro unico sogno da entrambe le parti, guerra e violenza hanno riempito troppi cimiteri. Così non si può e non si deve andare avanti. Lo dico in quanto ebreo che ama Israele: i palestinesi sono esseri umani. Hanno il diritto di vivere liberamente, dignitosamente, senza paura e senza vergogna. E il mondo e Israele devono fare il possibile per aiutarli senza far loro perdere la faccia.
   Questo è ancora più vero per gli arabi che risiedono in Israele: sono cittadini israeliani e i loro diritti devono essere protetti meglio. In questo modo, non saranno tentati dai demoni della doppia lealtà. Quanto al problema di Gerusalemme, non sarebbe meglio regolare le crisi e le emergenze in un clima di fiducia e di rispetto reciproci, rimandando le decisioni sulla sorte di Gerusalemme a più tardi?
   Nel frattempo, si potrebbero costruire deì ponti umani tra le due comunità: visite reciproche di gruppi scolastici, dagli scolari delle elementari agli studenti delle università,; scambi regolari tra insegnanti, musicisti, scrittori, ricercatori, artisti, industriali, giornalisti. E più in là, diciamo tra vent'anni, i loro figli saranno più preparati e meglio disposti ad affrontare la più scottante delle questioni: Gerusalemme. E tutti capiranno meglio dei loro genitori e dei loro nonni perché l'anima ebrea porta in sé la ferita e l'amore di una città senza la quale si sentirebbe mutilata, e le cui chiavi sono custodite dalla nostra memoria.

(Il Foglio, 23 novembre 2019)


Al Palagiustizia di Torino una targa per i 54 avvocati ebrei esclusi dalle leggi razziali

Sono passati 80 anni dall'emanazione delle leggi razziali fasciste che vietarono l'esercizio della professione a 54 avvocati ebrei di Torino.
I loro nomi sono oggi incisi su una targa commemorativa affissa a Palazzo di Giustizia di Torino. "Perché l'odio e l'indifferenza verso l'altro non debbano mai più ripetersi e perché sia bandita ogni discriminazione" si legge sotto l'elenco.
Un gesto che ha voluto riscrivere l'identità di 54 avvocati torinesi, cancellati dall'albo e perseguitati, solo perché ebrei.
La cerimonia si è svolta ieri, 20 novembre, nel corridoio di Palazzo di Giustizia davanti alla sede dell'Ordine degli avvocati. Subito dopo, nei locali di fronte all'aula magna, è stata inaugurata una mostra dal titolo "54 esclusi" curata da Claudio Vercelli con il fotografo Alessandro Pession.
"Siamo qui per fare ammenda del silenzio passivo osservato allora" - osserva la presidente dell'ordine degli avvocati di Torino, Simona Grabbi - "mentre ora dobbiamo avere il coraggio di ricordare. Meditare di queste cose. A maggior ragione in questo momento storico"
Alla cerimonia erano presenti, oltre all'avvocato Simona Grabbi, il Procuratore Generale Francesco Saluzzo e il Vicario Paolo Borgna. In rappresentanza del Comune l'assessore Alberto Sacco.

(mole24, 23 novembre 2019)


Liliana Segre torna sul caso Napoli

«Non faccio da scudo umano all'assessora che odia Israele»

Al Corriere della Sera: «Amo moltissimo Napoli, la prima città italiana insorta contro i nazisti, ma lei voleva strumentalizzarmi. Non mi presto per levare dall'imbarazzo l'assessora».
Intervista di due pagine sul Corriere della Sera alla senatrice a vita Liliana Segre. Torna sui casi delle proposte di cittadinanza onoraria, tra cui Napoli.

- A Sesto San Giovanni il sindaco ha detto che lei «non ha a che fare con la storia della città». A Biella Ezio Greggio ha rinunciato alla cittadinanza onoraria dopo che era stata negata a lei.
  «Avere creato imbarazzo a quelle giunte mi dispiace. Il caso di Biella è stato però l'occasione di ricevere un fiore raro come il gesto di Greggio, che è molto più di una cittadinanza».

- A Napoli lei stessa ha fatto un passo indietro…
  «In quel caso non c'è stata una proposta dell'amministrazione comunale, ma la strumentalizzazione di un'assessora (Eleonora de Majo, ndr). Per rispondere alle critiche sulle sue dichiarazioni di odio verso Israele, ha detto: "Allora facciamo la Segre cittadina onoraria". Io amo moltissimo Napoli, la prima città italiana insorta contro i nazisti, ma non mi presto come scudo umano per levare dall'imbarazzo l'assessora».

- Salvini è venuto a casa sua. Come è andato l'incontro?
  «Non voglio dire nulla perché ci siamo impegnati entrambi alla riservatezza per evitare strumentalizzazioni politiche. In ogni caso incontrarsi e parlarsi, a maggior ragione tra due colleghi senatori e concittadini milanesi, più che un gesto di civiltà dovrebbe essere considerato un fatto normale».

- È stata proposta la sua candidatura a presidente della Repubblica. Lei ha declinato.
  «Ho grande stima per Lucia Annunziata e sono certa che abbia fatto quella proposta per manifestarmi apprezzamento e solidarietà. Tuttavia mi sono trovata, mio malgrado, ad essere già una figura sulla quale si concentrano fin troppi significati simbolici. Non è il caso di aggiungerne altri e di coinvolgermi in ambiti impropri. Alla presidenza della Repubblica deve stare un arbitro che abbia le energie per correre in mezzo al campo e che soprattutto abbia una sopraffina sapienza politica ed istituzionale, come il presidente Mattarella. Non una novantenne arrivata come una marziana sulla scena politica».

(ilnapolista, 22 novembre 2019)


Sorpresa: in Italia crolla l'antisemitismo

Un europeo su quattro è ostile agli ebrei, da noi -11%. Il dato peggiore in Medio Oriente

di Daniel Mosseri

BERLINO - La regione del mondo peggiore per gli ebrei? Il Medio Oriente e l'Africa settentrionale. Qua la grande maggioranza della popolazione (il 74%) nutre sentimenti di ostilità per il popolo d'Israele.
   Seguono a distanza l'Europa centro-orientale, una regione in cui gli antisemiti sono il 34% (e il dato è in crescita) e poi quella occidentale con il 24%. Fanno meglio l'Asia (22%) e le Americhe (19%). Lo si legge nell'ultimo rapporto diffuso dalla organizzazione newyorchese dedita alla lotta contro l'odio antisemita e il pregiudizio in genere. ADL ha stilato una poco onorevole classifica dell'odio antiebraico, la cui lettura dà subito il senso di un fenomeno estremamente mutevole nelle sue manifestazioni. Fra i 18 paesi scelti da ADL per la propria indagine condotta su un campione globale di 9 mila persone primeggia la Polonia: qua il sentimento antiebraico è condiviso dal 48% dei cittadini, secondo ADL, mentre per quasi tutti gli intervistati «gli ebrei parlano troppo di cosa è successo loro durante l'Olocausto». Una risposta che non sorprende in un paese il cui governo si è impegnato in una battaglia culturale tesa a dimostrare che i polacchi hanno subito lo sterminio degli ebrei imposto dai nazisti tedeschi, con tanti saluti alla memoria dei pogrom e delle stragi come quella di Kielce perpetrata nel 1946, a guerra finita, da cittadini polacchi contro altri polacchi colpevoli di essere ebrei. Paese che vai, antisemitismo che trovi: così in Ungheria il 42% dei cittadini ce l'ha con gli ebrei soprattutto perché «indeboliscono la nostra cultura nazionale favorendo l'immigrazione nel nostro paese»; una posizione in linea con la netta chiusura del governo di Viktor Orbàn verso i fenomeni migratori. Secondo ADL l'antisemitismo europeo è di casa anche in Ucraina (46%) e in Russia (31%). Fuori dal Vecchio continente spicca il Sudafrica (47%) paese attraversato da potenti rigurgiti antisionisti targati BDS, il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele e giudicato una forma moderna di odio antisemita da diversi paesi occidentali. Tornando in Occidente, l'Italia fa segnare un 18% di antisemiti (contro il 29% cinque anni prima) un dato in linea con Austria, Francia e Germania (15%). Nel Belpaese gli ebrei sono accusati in primo luogo di «doppia lealtà», poi di ricordare troppo l'Olocausto e di controllare la finanza internazionale.
   Ma il pregiudizio è un pozzo senza fondo e permette di accusare gli ebrei anche di controllare i media e scatenare guerre mondiali. Più liberi dal pregiudizio appaiono invece la Svezia (4%), il Canada (8%) e l'Olanda (10%). Di rilievo anche la nota di ADL secondo cui la presenza di minoranze musulmane è associata a livelli di antisemitismo più elevati. Allo stesso tempo il rapporto sottolinea che «i risultati dei musulmani d'Europa sono nettamente inferiori a quelli misurati in Medio Oriente e Africa del Nord in 2014, forse per effetto dell'educazione alla storia dell'Olocausto, per la conoscenza diretta di ebrei e la diffusione nella società di accettazione e tolleranza». Una nota diffusa proprio nelle stesse ore in cui la Süddeutsche Zeitung annunciava che la cancelliera tedesca Angela Merkel il prossimo 6 dicembre si recherà in visita all'ex campo di stermino di Auschwitz, in Polonia, su invito della Fondazione Auschwitz-Birkenau. Una prima assoluta per Merkel che pure in passato ha visitato altri lager come Dachau e Buchenwald. Una visita che segue a un periodo di particolare recrudescenza degli atti di antisemitismo in Germania.

(il Giornale, 22 novembre 2019)


Il crollo dei simboli del khomeinismo

Il regime dell'Iran reprime le rivolte con metodi fascistoidi Ma gli iraniani non hanno più timore di tutta l'ideologia che li circonda da quarant'anni, la deridono e quando possono la distruggono. Ed è così anche negli altri paesi in rivolta.

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri la connessione internet è tornata in alcune parti dell'Iran, circa il 10 per cento del paese, ed è il segno che le rivolte popolari che sono durate per sei giorni hanno rallentato e sono di nuovo considerate in qualche modo controllabili. Per il momento, almeno. Il regime dell'Iran stacca internet ogni volta che si sente minacciato per impedire che i rivoltosi si organizzino e si coalizzino assieme e così la connessione internet - o la sua mancanza è diventata l'unità di misura dell'intensità delle sommosse. In questi giorni era superiore al novantacinque per cento, grazie anche al fatto che in questi anni il governo del cosiddetto "moderato" Hassan Rohani ha spostato internet su una piattaforma nazionale centralizzata che di fatto permette alle autorità di tenere il dito sulla connessione di un paese da più di ottanta milioni di persone e di staccarla quando vuole. Siti con notizie internazionali e posta elettronica sono i primi a diventare inaccessibili. Il sistema fu pensato nel 2009dopo le proteste della cosiddetta Onda verde e permette di far andare avanti alcuni segmenti della nazione, come siti di notizie nazionali controllati dallo stato oppure le transazioni bancarie, per mitigare un poco il danno economico (che comunque resta rovinoso). E' una delle tante facce della distopia iraniana, un paese dove i leader scrivono molto su Twitter che però è ufficialmente vietato ai cittadini e dove gli iraniani tirano avanti nel grigiore di un'economia asfissiata mentre i rampolli dell'establishment della rivoluzione del 1979vivono all'estero e pubblicano sui social foto e video di divertimenti pazzi.
  Anche se questa ondata di rivolte si stesse indebolendo e stesse per spegnersi come è successo a quelle prima, il crollo dei simboli del regime è il fatto importante e definitivo a cui abbiamo assistito - grazie ai video sfuggiti al blocco di internet. Tutto quello che dovrebbe essere riverito e temuto nella Repubblica islamica dell'Iran dopo quarant'anni di indottrinamento khomeinista è invece il bersaglio della rabbia e della derisione di una massa enorme di iraniani. Le immagini degli ayatollah sono divelte o bruciate, i cartelloni della propaganda sono strappati, i murales sono sfregiati, le sedi della Banca centrale assaltate, il monumento all'anello dell'ayatollah Khomeini è stato coperto di benzina e incendiato. Khomeini, padre fondatore di questo Iran. Le donne nelle proteste si tolgono il velo, che ormai da anni è diventato il gesto di sfida politica per eccellenza. E le cause che in teoria dovrebbero rendere fieri i cittadini iraniani come la guerra permanente contro Israele al fianco dei palestinesi o l'alleanza in Siria con il governo di Bashar el Assad sono considerate follie senza senso. "Non ci sono soldi, non c'è benzina, all'inferno la Palestina" è uno degli slogan della piazza. L'obiettivo non sono i palestinesi, ma i vertici dell'Iran che hanno deciso che il paese deve bruciare le sue risorse per espandere il suo potere nella regione. Secondo un rapporto uscito due giorni fa, tra il 2011 e il 2018 l'Iran ha speso sedici miliardi di dollari per pagare i suoi alleati all'estero, come il gruppo Hezbollah in Libano. Sostenere che la gente protesta soltanto per l'improvviso aumento del prezzo della benzina è riduttivo, ci sono strati di rancore vulcanico contro la classe religiosa e militare al governo che vengono fuori dopo decenni di repressione. La cosa non è sfuggita al regime, che infatti non parla di proteste contro il caro benzina ma di un complotto contro il paese e di combattimenti sul "fronte della sicurezza", come ha detto l'ayatollah Khamenei, e di "un piccolo gruppo di soldati nemici", come ha detto il presidente Rohani. Pretendere che l'attacco sistematico ai simboli del regime sia il frutto di un'arrabbiatura da carovita sarebbe bizzarro anche per loro, la gente vede e capisce. C'è insofferenza contro il regime.
  Non c'è un numero ufficiale dei morti. Amnesty dice che sono più di cento, altre fonti parlano del doppio ma non c'è modo di verificare. I video che sono filtrati fino al mondo esterno mostrano gruppi di centinaia di manifestanti in molte città diverse che cantano contro il governo ma sono dispersi a colpi di fucile da cecchini appostati sui tetti oppure sono cacciati nelle strade dalle milizie armate che si tengono sempre pronte proprio per questo scopo, la controinsurrezione, e sono le forze bassij e le Guardie della rivoluzione. I guardiani del regime sparano contro gli assembramenti e poi dopo qualche ora vanno a prendere i feriti negli ospedali. Ma il ritmo di queste rivolte negli anni è in accelerazione, in Iran c'è un'instabilità strutturale, prima passavano intervalli di tre-quattro anni fra un'eruzione e l'altra, adesso ogni anno ha la sua rivolta. Per non menzionare lo stillicidio di proteste e grandi scioperi che scandisce la vita del paese, mese dopo mese - a volte si fermano i camionisti, a volte gli insegnanti, a volte studenti oppure i pensionati. E poi ci sono le tensioni etniche. Tra i posti dove le forze di sicurezza sono state più brutali ci sono il Kurdistan iraniano e il Khuzestan, dove c'è una minoranza araba - sono entrambe aree che da sempre malsopportano il controllo di Teheran. La violenza dall'alto blocca in pochi giorni le proteste e la maggioranza silenziosa non prende posizione, ma la tenuta ideologica di uno dei paesi più ideologizzati del mondo non è mai sembrata così debole.

(Il Foglio, 22 novembre 2019)


Netanyahu incriminato per corruzione e truffa

Il premier: "È un tentativo di golpe per abbattermi" Ora ha 30 giorni per chiedere l'immunità alla Knesset

di Giordano Stabile

Il procuratore generale di Israele Avichai Mandelblit ha deciso di incriminare il premier Benjamin Netanyahu per corruzione, frode e abuso d'ufficio. E la prima volta che succede a un primo ministro in carica. Mandelblit ha deciso di procedere dopo l'audizione di oltre quattro ore dello scorso ottobre. Ha spiegato che lo ha fatto «con il cuore pesante» ma che «il rispetto della legge riguarda tutti, non è questione di destra e sinistra». È un duro colpo per Netanyahu, che si avvia verso la terza campagna elettorale in meno di un anno. Subito dopo l'annuncio il leader del Likud ha convocato i sostenitori sotto la sua residenza e ha respinto tutte le accuse: «È un tentativo di golpe per abbattermi, bisogna indagare gli inquirenti, perché non cercano la verità, cercano me».
   Le indagini sul premier vanno avanti da anni. Il filone più grave è il Caso 4000, nel quale Netanyahu è accusato di corruzione, frode e abuso di ufficio. Il premier avrebbe promesso norme favorevoli al magnate delle telecomunicazioni Shaul Elovich, in cambio di una copertura positiva sul sito Walla, il più seguito in Israele. L'accusa sostiene che Elovich avrebbe guadagnato circa 500 milioni di dollari nello scambio. Il secondo filone è il Caso 1000, nel quale Netanyahu è accusato di aver ricevuto regali per centinaia di migliaia di dollari da uomini d'affari da lui favoriti. ll terzo caso, il 2000, riguarda scambio di favori con l'editore del giornale Yediot Ahronoth, Amon Mozes. Netanyahu avrebbe danneggiato il principale concorrente, Israel Hayom in cambio di una copertura favorevole.
   Adesso il premier ha 30 giorni di tempo per chiedere l'immunità alla Knesset. Dovrebbe essere discussa da uno speciale Comitato, che però non è più stato nominato dopo le elezioni anticipate dello scorso 4 aprile, seguite da quelle del 17 settembre. Finché la richiesta di immunità non sarà discussa il procedimento penale non potrà cominciare. La Knesset potrebbe decidere però di eleggere il comitato vista la situazione di emergenza. Nel caso i parlamentari dessero il via libera al processo Netanyahu potrà appellarsi alla Corte suprema. Netanyahu non può essere costretto a dimettersi ma, secondo il procuratore dello Stato Shai Nitzan, «non potrà ottenere l'incarico per formare un nuovo governo».
   In ogni caso Israele si trova in una situazione inedita nei suoi 71 anni di storia. Sia Netanyahu che il principale oppositore, Benny Gantz, non sono riusciti a formare un nuovo governo. Il presidente Reuven Rivlin deve decidere se chiedere alla Knesset di individuare un terzo premier oppure andare di nuovo al voto, che dovrebbe tenersi a marzo 2020. A questo punto è la soluzione più conveniente per Netanyahu. Ma è una via rischiosa. L'integerrimo ex generale Gantz ha già detto che «un premier con le inchieste sul collo non può governare» e punterà sulla necessità di voltare pagina e unire un Paese assediato da una regione ostile.

(La Stampa, 22 novembre 2019)


*


Bibi incriminato per corruzione. «Un tentato golpe contro di me»

Accusato anche di frode e abuso di fiducia. Il premier respinge gli addebiti: «Attacco motivato politicamente».

di Fiamma Nirenstein

 
GERUSALEMME - "Ho preso questa decisione col cuore pesante, ma è doverosa» ha detto Avichai Mandelblit, l'Avvocato dello Stato, prima di una lunga disamina legale. E ha annunciato l'incriminazione di Benjamin Netanyahu in tutti e tre i casi in cui è accusato. Due ore più tardi Netanyahu pallidissimo, con le lacrime agli occhi come non si era mai visto, gli ha risposto in sostanza occupando il suo stesso terreno, quello dell'accusa senza remissione: «Io vado fiero del nostro sistema giudiziario, famoso in tutto il mondo. Ma qui una tendenza malata nutrita da inquisitori spinti da pregiudizio hanno preso il sopravvento, sospinti dall'odio contro la mia parte politica e contro di me. E sono stati compiuti dei crimini durante l'istruttoria: nessuno è sopra la legge, né gli investigatori né i giudici, e violazioni di ogni criterio di giustizia sono state compiute durante la fase inquisitoria». Qui Netanyahu ha fornito una lunga lista degli inganni con cui sostiene siano state estorte confessioni false dai testimoni di giustizia per arrivare a quella che ha definito un «ribaltamento del potere» antidemocratico. Bibi di nuovo propone la sua strada e la sostanza è questa: «Io ho dato la vita per questo Paese, ho combattuto, sono stato ferito, ho condotto il Paese a risultati meravigliosi, adesso combatterò per ristabilire la verità. Giudici e polizia sono indispensabili, ma nessuno dei loro membri sta al di sopra della giustizia stessa». Insomma, Netanyahu non intende arrendersi anche se lo Stato d'Israele si erge oggi a accusatore contro il suo primo ministro, per la prima volta nella storia.
   Il premier è stato incriminato con decisione che ormai data la pressione culturale, e perfino antropologica in uno Stato in cui l'etica e la sinistra sono parte della storia genetica, era del tutto prevedibile. Il potere giudiziario israeliano ama la sinistra e non è il solo nel mondo. E neppure lo sa: la scelta di Mandelblit si inserisce quasi inconsapevolmente nella turbolenta vicenda politica che lo stato Ebraico attraversa in questo periodo. Di fatto Netanyahu, dopo 13 anni di gestione di potere liberista, tecnologico, per niente consenziente verso i nemici, viene spinto fuori dalla scena politica con mezzi giudiziari. Quanto siano giustificati, lo dirà il processo. Bibi è stato ieri accusato (e non c'è motivo di pensare che Mandelblit, un tempo stretto collaboratore di Netanyahu, non sia semplicemente fedele a principi giudiziari, come ha più volte ripetuto appassionatamente) di corruzione e abuso di fiducia nel tripudio dei suoi nemici politici.
   È una svolta molto drammatica per lo statista che ha trasformato Israele da potere regionale a protagonista della rivoluzione tecnologica e scientifica mondiale, ne ha fatto crescere l'economia e la democrazia, lo ha condotto a rapporti internazionali mai sognati. Dopo più di un anno di studi Mandelblit è arrivato a conclusioni proprio quando, la mattina, Reuven Rivlin, il presidente d'Israele, avendo ricevuto da Benny Gantz la rinuncia ufficiale a formare il governo, aveva avvertito alla gente di Israele nella prospettiva che a marzo si possa votare per la terza volta. Questo avverrà se un qualunque membro della Knesset (120 deputati) non raccoglierà 61 voti per formare un governo. Difficile specialmente adesso: i due protagonisti hanno promesso di continuare nello sforzo di raggiungere l'obiettivo di un governo di coalizione, ma le già enormi difficoltà si accumulano. Blu e Bianco di Gantz adesso che Netanyahu è indiziato, ha tutti gli argomenti per rifiutarlo come partner.
   Netanyahu può chiedere entro 30 giorni come parlamentare l'immunità, ma a causa della crisi non esiste la commissione preposta alla decisione come richiede la legge. Un'occhiata sommaria alle tre accuse mostra un sistema certamente molto accurato e anche pericolosamente giustizialista, e stavolta trasformato in un coltello acuminato dalla febbre politica. Adesso tristemente queste accuse si avviano verso il tribunale mentre il primo ministro, furioso e depresso, si avvia a una nuova battaglia. Immaginiamo quanto è contento il governo iraniano.

(il Giornale, 22 novembre 2019)


Israele fa i conti con l'instabilità e con due pericolose prime volte

La prima condanna a Netanyahu, il primo incarico alla Knesset e un "periodo oscuro" che non sa come finire.

di Micol Flammini

ROMA - Ieri, mentre Israele entrava in una fase politica mai conosciuta prima e mentre attendeva il via libera al processo decisivo per le sorti di Benjamin Netanyahu, tra i seggi della Knesset i deputati iniziavano a contarsi. Benny Gantz, il leader del partito Blu e bianco, ha comunicato mercoledì che non sarebbe stato in grado di formare un governo, nemmeno di minoranza, nemmeno con l'improbabile alleanza dei partiti arabi. Prima di lui aveva fallito Benjamin Netanyahu, il primo ministro e leader del Likud, ed era fallita anche la proposta del presidente israeliano Reuven Rivlin di formare un governo di unità nazionale. In quel caso Netanyahu e Gantz avrebbero assunto la premiership a rotazione, due anni l'uno due l'altro, ma chi avrebbe iniziato per primo avrebbe avuto un'arma sull'altro. Mancava la fiducia e il tentativo di un governo di unità nazionale è naufragato.
   Ieri il paese è entrato in una nuova fase, mai esplorata, "una fase oscura", come l'ha definita il presidente Rivlin, che ha comunicato alla Knesset che il mandato di formare una nuova coalizione ora è nelle sue mani. Se il sostegno di almeno 60 deputati convergerà su un parlamentare entro 21 giorni, a partire da ieri, il parlamentare designato avrà a disposizione due settimane per formare un governo. E' iniziata la lotta di sguardi, tra chi si nasconde, chi volta le spalle, chi accenna amicizie, ma si fa fatica a riconoscere i volti, a indovinare il nome di chi sarà in grado di smuovere abbastanza deputati per non far dissolvere, ancora una volta, la terza in un anno, la Knesset. Reuven Rivlin ha posto tutti di fronte a una domanda: "In questi 21 giorni non devono esserci blocchi o partiti, Ognuno di voi dovrebbe guardare alla propria coscienza e rispondere a una domanda: qual è il mio dovere verso lo stato di Israele?". Il tentativo di affidare al Parlamento il compito di estrarre un leader, di sceglierlo, sembra non avere soluzioni. La politica israeliana è molto polarizzata, e sullo sfondo si anima una situazione internazionale pericolosa. La scorsa settimana contro lo stato ebraico il Jihad islamico ha lanciato da Gaza una pioggia di missili, costringendo gli israeliani, anche a poca di distanza da Tel Aviv, a correre nei rifugi antimissile per due giorni. C'è l'Iran, che dalla Siria lunedì ha colpito le alture del Golan con quattro razzi e la frammentazione politica aumenta i rischi, altissimi, per la sicurezza.
   Rivlin ha chiesto ai parlamentari di ritrovare l'anima dello stato ebraico tra i banchi della Knesset, evitare un nuovo voto e cercare una coalizione, ampia, il più possibile. Ma tra quei banchi, senza volto e senza nome, si sussurra già la data delle prossime elezioni, il 20 marzo, il giorno di Purim, perché se nessuno sembra convinto che in questi 21 giorni sarà possibile trovare una maggioranza, c'è chi invece dice di avere una ricetta, ma serve il voto, anzi ne servono due. Uno nazionale, ma da tenersi soltanto dopo quello interno al Likud. Uno dei membri del partito, Gideon Sa'ar, lo scorso mese aveva lanciato la sua prima provocazione gridando su Twitter "sono pronto", pronto a sfidare Benjamin Netanyahu, il leader del Likud e primo ministro dal 2009. Quel "sono pronto" era arrivato come un fulmine, aveva riempito il partito di domande e Benny Gantz di speranze, ma Netanyahu aveva escluso le primarie, meglio aspettare.
   Ormai lo stallo del Likud sembra assomigliare a quello del Parlamento. Sa'ar è stimato, è pronto al compromesso, ha buoni rapporti nel partito, si è conquistato la fiducia di altri compagni, e ha giurato che se dovesse vincere le primarie, sarà in grado di dare a Israele un governo. Il Likud è in parte sfinito, ma come tutto il paese rimane aggrappato a un'era importante, storica, di sicurezza e stabilità legata a un primo ministro a cui tutti sanno di dovere molto, quindi Sa'ar vuole agire con cautela, di tradimenti non se ne parla, dentro al partito non piace sapere che qualcuno stia tramando contro Netanyahu, soprattutto in un momento di difficoltà. Ieri il procuratore Avichai Mandelblit, ex segretario di gabinetto del premier, ha annunciato la sua decisione, attesissima, di incriminare Benjamin Netanyahu per corruzione in una delle tre inchieste a suo carico, confermando l'accusa di frode e abuso di ufficio. E anche questa è una prima volta per Israele, la prima volta che un premier in carica viene accusato di corruzione. Il pericolo legale per il leader non è immediato, Netanyahu chiederà l'immunità al Parlamento che però non è ancora riuscito a formare le sue Commissioni, quindi non ci sono organi, al momento, per decidere sull'immunità. Anche per questo servono elezioni.
   Israele sembra guardare più ai novanta giorni di campagna elettorale che lo attendono che ai venti di trattative interne alla Knesset. Oltre Benjamin Netanyahu Israele fa fatica a trovare il suo futuro, troppi volti anonimi troppo persi per ritrovare l'anima dello stato, come ha chiesto il presidente. Rimane una sovrapposizione di paralisi, di blocchi dentro al Likud e dentro al Parlamento.

(Il Foglio, 22 novembre 2019)


Rivlin dopo incriminazione Netanyahu: «Un tempo di oscurità senza precedenti»

Israele non muore senza Netanyahu così come non vive grazie a Netanyahu

di Franco Londei

 
Prima di tutto una premessa: non vogliamo e non possiamo entrare nel merito delle accuse rivolte dalla magistratura israeliana a Benjamin Netanyahu, non perché ci mancano gli input, ma perché riteniamo che in una democrazia come quella israeliana il concetto di separazione dei poteri debba essere uno dei fondamenti indispensabili per far funzionare il sistema democratico e non diventare un campo di battaglia politico.
Come ho avuto modo di dire in altre occasioni, Rights Reporter difenderà sempre Israele a prescindere da chi lo guida. Non condizioneremo cioè il nostro sostegno allo Stato Ebraico a seconda del partito o dell'uomo al comando come invece purtroppo vediamo fare da altri.
Per questo motivo, forse per la prima volta in vita mia, sono in parte d'accordo con un articolo di Haaretz scritto da Chemi Shalev (anche se non nei toni estremisti) che rimprovera a Netanyhau di non essersi dimesso e quindi di non essere un patriota.
«Questo è un momento di oscurità senza precedenti nella storia dello Stato di Israele» ha detto ieri sera il Presidente Reuven Rivlin durante la cerimonia in cui, per la prima volta, consegnava al portavoce della Knesset, Yuli Edelstein, l'incarico di trovare una maggioranza e quindi di formare un Governo dopo che sia Netanyahu che Benny Gantz avevano fallito in questo compito.
E non ha tutti i torti il Presidente israeliano. Dopo due votazioni in pochi mesi e mentre lo Stato Ebraico è letteralmente circondato dal nemico iraniano, non si è riusciti a formare quel Governo di cui Israele avrebbe tanto bisogno e si rischia di andare ad una terza elezione che probabilmente darà lo stesso risultato delle due precedenti.
Uno stallo politico che potrebbe andar bene in qualsiasi altro Stato del mondo (vedi la Spagna) ma non per Israele continuamente sotto attacco militare.
Le dimissioni di Netanyahu aprirebbero probabilmente molte possibilità per superare questo momento, ma il Premier, dispiace dirlo, ha posto i propri interessi personali davanti a quelli molto più importanti del Paese.
E lo dice uno che Netanyahu lo ha sempre difeso in tutti questi anni, anche quando le sue decisioni erano criticabili. Questo è scritto nero su bianco in migliaia di articoli su questo sito.

 Ma Israele non muore senza Netanyahu così come non vive grazie a Netanyahu.
  Non mi interessa la questione giudiziaria, è compito della magistratura stabilire se le accuse rivolte al Premier siano reali o meno, così come non mi interessano le liti politiche. Mi interessa piuttosto che Israele abbia un Governo in grado di prendere le decisioni necessarie per difendersi dall'attacco iraniano e dai nemici arabi.
Questo interesse dovrebbe essere anche l'interesse di tutti i politici israeliani, nessuno escluso. Invece in questi mesi abbiamo visto solo prese di posizione ideologiche che hanno portato Israele in uno stallo politico davvero senza precedenti proprio nel momento peggiore.
E non fa bene nemmeno il tifo politico da stadio a cui stiamo assistendo in queste ore sui social da parte di pseudo-difensori di Israele.
Mettere in dubbio la democrazia israeliana e il suo sistema giudiziario non è da "difensori di Israele senza se e senza ma", è solo l'ennesimo scontro politico volto a tirare acqua al proprio mulino senza pensare al bene del Paese, quasi condizionando il proprio sostegno allo Stato Ebraico a seconda di quale fazione politica sia al timone. Lo trovo odioso e miserabile.
Si lasci che la magistratura israeliana faccia il suo corso, Netanyahu pensi al bene del Paese e faccia un passo indietro per favorire la formazione di un nuovo governo invece di arroccarsi sulle proprie posizioni. Non è davvero il momento di lasciare il Paese senza un Governo in grado di prendere le gravi decisioni necessarie alla sua difesa.
Se, come dice lui, le accuse sono false avrà modo di riprendere la guida di Israele in un secondo momento. Ma intanto dia al Paese la possibilità di potersi difendere con tutti i mezzi che ha a disposizione, perché se c'è un favore che non si può fare al nemico iraniano è proprio quello di mostrarsi deboli e confusi.

(Rights Reporters, 22 novembre 2019)



Firmarono il Manifesto della Razza, Roma li cancella dalla toponomastica

 
"Dobbiamo imparare a conoscere la storia per capire chi siamo stati e scegliere come vogliamo essere. Con questo atto voi avete fatto una scelta di campo, avete scelto e preso una posizione. E si può scegliere solo se si è consapevoli".
   Parla agli studenti romani la sindaca Virginia Raggi. E lo fa al cinema Andromeda, in un giorno speciale, quello che segna la conclusione del processo partecipativo che ha portato a una diversa intitolazione delle strade che fino a poche ore fa portavano il nome degli scienziati Edoardo Zavattari e Arturo Donaggio, firmatari nel '38 del Manifesto della Razza.
   Al loro posto eminenti figure che risaltano per percorsi di vita e impegno accademico ben diverso: il medico Mario Carrara, che rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo; Nella Mortara, tra le primissime docenti donna di Fisica alla Sapienza, ed Enrica Calabresi, ordinaria di Entomologia a Pisa, che subirono entrambe i provvedimenti antiebraici del regime, con quest'ultima che si suicidò per evitare la deportazione.
   "Voi attraverserete sempre le strade della città e quando alzerete lo sguardo domani capirete che i nomi indicati hanno sempre una storia e un significato" ha sottolineato Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, rivolgendosi agli studenti romani. "A voi, cari ragazzi, tocca non solo studiare la storia, ma esserne parte, esserne artefici in positivo e, un giorno, i vostri nipoti si fermeranno davanti a un cartello e potranno anche loro capire cosa vogliono dire vita, dignità e libertà".
   Una scelta, quella dell'amministrazione capitolina, che è di segno opposto rispetto a quella adottata dal Comune di Verona. La presidente UCEI ha condannato con ferme parole la decisione della commissione toponomastica locale di dare il via libera all'intitolazione di una strada a uno dei principali propagatori di antisemitismo dell'epoca fascista: Giorgio Almirante.
   Commovente la testimonianza di Lea Polgar, ebrea fiumana che aveva appena cinque anni quando le Leggi razziste entrarono in vigore. Una storia, la sua, che è raccontata nel documentario "1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani", realizzato da Pietro Suber e prodotto da Dario Coen. Proprio grazie a questo lavoro, di cui sono stati proiettati alcuni spezzoni, e a una esplicita richiesta di revisione toponomastica rivolta da Suber e Coen alla sindaca, ha preso avvio questo percorso condiviso, conclusosi con la scopertura a fine mattinata delle nuove targhe. "Una giornata storica" afferma la sindaca Raggi.
   Tra i presenti alla cerimonia l'ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg, il suo omologo israeliano Dror Eydar, il presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma Mario Venezia e il segretario generale UCEI Uriel Perugia.

(moked, 21 novembre 2019)


"Questo clima è un crematorio". Gli ecologisti che usano la Shoah

di Giulio Meotti

ROMA - Il più puro, il più idealista, il più indomito dei salvatori del pianeta, il fondatore di "Extinction Rebellion" Roger Hallam, arrestato pochi mesi fa per aver tentato di far volare un drone sull'aeroporto di Heathrow per fermare il traffico aereo, è finito nei guai. In un'intervista al settimanale tedesco Zeit, Hallamha liquidato l'idea che l'Olocausto sia un evento eccezionale: "E' un fatto che milioni di persone nella nostra storia sono state regolarmente uccise in circostanze terribili", per questo "a voler essere onesti" l'Olocausto "è un evento quasi normale" e "solo un'altra stronzata nella storia dell'umanità".
   Hallam è stato ovviamente travolto dalle critiche. Peccato che siano anni che gli ambientalisti minimizzano, abusano, banalizzano e arruolano persino l'Olocausto nella propria agenda ideologica. C'era già un discorso di Hallam a un evento dell'organizzazione per i diritti umani Amnesty International in cui l'ambientalista paragonava Auschwitz alla crisi climatica: "Come non c'era poesia dopo Auschwitz, così non ci sono parole sull'emergenza ecologica". Scrive il sociologo Frank Furedi su Spiked: "Molti vedranno le parole di Hallam come un semplice errore di giudizio. Ma il suo disprezzo per la memoria dell'Olocausto è sostenuto da una più ampia sensibilità antiumanista. Se credi sinceramente che le generazioni del passato abbiano sistematicamente distrutto il pianeta, allora ha un senso deformato interpretare l'Olocausto come una nota a piè di pagina di migliaia di anni di incessante depravazione umana e di ecocidio". Era il 1989 quando l'allora senatore del Tennessee, futuro vicepresidente degli Stati Uniti e padrino dell'ambientalismo apocalittico, Al Gore, scriveva sul New York Times un articolo sulla "Notte dei cristalli ecologista": "Nel 1939, quando le nuvole della guerra si addensarono sull'Europa, molti si rifiutarono di riconoscere ciò che stava per accadere. Nessuno poteva immaginare un Olocausto, anche dopo la Notte dei cristalli. I leader mondiali si crogiolarono e attesero, sperando che Hitler non fosse quello che sembrava, che la guerra mondiale potesse essere evitata. Più tardi, quando le fotografie aeree avrebbero rivelato i campi di sterminio, molti hanno fatto finta di non vedere. Nel 1989, nuvole di diverso tipo segnalano un Olocausto ambientale senza precedenti. Eppure oggi le prove sono chiare come i suoni del vetro frantumato a Berlino". Ospite del festival Trieste Next due settimane fa, l'oceanologo britannico Peter Wadhams ha detto che nell'Artico è in corso un "genocidio", la parola coniata dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin per indicare lo sterminio dei sei milioni di ebrei europei e da allora entrata nel canone internazionale. Marina Silva, la socialista brasiliana volto della campagna di denuncia dei roghi in Amazzonia, ha detto che si tratta di un "olocausto ambientale". In un recente studio dello Università ofCollege London, si parla di un "genocidio da C02" per la colonizzazione delle Americhe da parte delle potenze europee del tempo. "Il genocidio climatico sta arrivando", titola il New York Magazine. "Il prossimo genocidio", commenta sul New York Times lo storico Timothy Snyder. "Può il cambiamento climatico causare un altro Olocausto", si domanda New Republic. Il cardinale di Myanmar, Charles Maung Bo, in una nota all'agenzia Fides scrive che "stiamo affrontando un olocausto ecologico". "Stiamo attraversando un olocausto ecologico", ha detto l'ambientalista Prema Bindra. "Genocidio ambientalista", dice l'arcivescovo anglicano John Sentamu. "Mettiamo fine all'ecocidio e al genocidio", scrive Vandana Shiva, neoconsulente del ministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti e che ha accusato la Monsanto di "genocidio".
   Chi mette in discussione il global warming così come viene presentato dagli ecologisti usurpatori dell'Olocausto è oggi definito "negazionista". Peccato che non esista commissione possibile per questa banalizzazione. Perché chi dovrebbe denunciarla siede comodamente dalla parte di chi parla di una "Auschwitz climatica", le ciminiere di C02 evocate da Greta Thunbergnel libro "Scenes from the heart". Ciminiere simili a crematori. Ieri gli ebrei, oggi le piante. Roger Hallam ha "soltanto" sbagliato a parlare della vera Shoah. Se si fosse limitato a denunciare quella green sarebbe ancora un benefattore.

(Il Foglio, 22 novembre 2019)


La Corte di Giustizia dell'Unione Europea applica due pesi e due misure

di Soeren Kern*

L'azienda vinicola Psagot Winery, con vigneti in uno dei cosiddetti territori palestinesi occupati
La Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha stabilito che i prodotti alimentari provenienti dagli insediamenti ebraici a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nelle alture del Golan devono essere specificatamente etichettati con l'indicazione del loro territorio d'origine e non possono recare la dicitura generica "Made in Israel".

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, il tribunale supremo dell'UE, ha stabilito che i prodotti alimentari provenienti dai cosiddetti insediamenti ebraici a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e nelle alture del Golan devono essere specificatamente etichettati con l'indicazione del loro territorio d'origine e non possono recare la dicitura generica "Made in Israel".
La sentenza, che concentra l'attenzione su Israele, è stata presumibilmente motivata non dalle preoccupazioni in merito alla sicurezza alimentare o alla tutela dei consumatori, ma dalla preferenza di una politica estera anti-israeliana da parte dell'Unione Europea. La decisione è stata duramente criticata come faziosa, discriminatoria e antisemita.
La questione dell'etichettatura ha origine in problemi riguardanti l'interpretazione del Regolamento EU n. 1169/2011, del 25 ottobre 2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. Il regolamento era ambiguo sulla questione dell'etichettatura dei prodotti alimentari provenienti da Israele.
Il 12 novembre 2015, la Commissione europea, nel tentativo di rendere più chiara la normativa UE in vigore sulla fornitura di informazioni sull'origine dei prodotti provenienti dai territori occupati da Israele, adottò una cosiddetta Comunicazione interpretativa. Questa direttiva precisava che gli alimenti venduti nell'UE non potevano riportare l'etichetta "Made in Israel", se prodotti al di fuori dei confini di Israele antecedenti al 1967. Il documento spiega:
    "L'Unione Europea, in linea con il diritto internazionale, non riconosce la sovranità di Israele sui territori occupati dal giugno del 1967, ossia alture del Golan, Striscia di Gaza e Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, che non considera parte del territorio di Israele, indipendentemente dal loro status giuridico nell'ordinamento israeliano".
Il 24 novembre 2016, il Ministero francese dell'Economia e delle Finanze pubblicò un cosiddetto Avviso ministeriale (JORF No. 0273, Text No. 81) che delineava l'interpretazione da parte del governo francese della legislazione dell'UE in materia di etichettatura dei prodotti israeliani. I criteri francesi, ancor più rigorosi di quelli dell'Unione Europea, stabiliscono che:
    "Per i prodotti della Cisgiordania o delle alture del Golan originari degli insediamenti, sarebbe inaccettabile un'indicazione che recitasse solo 'prodotto delle alture del Golan' o 'prodotto della Cisgiordania'. Anche se tali indicazioni designassero la zona o il territorio più ampi di origine del prodotto, l'omissione delle informazioni geografiche aggiuntive relative alla provenienza del prodotto dagli insediamenti israeliani sarebbe ingannevole per il consumatore sotto il profilo dell'origine reale del prodotto. In tali casi occorre aggiungere, ad esempio, l'espressione 'insediamento israeliano' [colonies israéliennes] o altra espressione equivalente tra parentesi. Potrebbero di conseguenza essere impiegate espressioni come 'prodotto delle alture del Golan (insediamento israeliano)' o 'prodotto della Cisgiordania (insediamento israeliano)'".
Nel gennaio del 2017, Psagot Winery Ltd., un'azienda vinicola israeliana, con vigneti in uno dei cosiddetti territori palestinesi occupati, e un gruppo franco-ebraico chiamato Organizzazione ebraica europea, intentarono una causa in cui chiedevano al Consiglio di Stato, il più alto tribunale amministrativo della Francia, di annullare l'Avviso ministeriale perché i criteri francesi equivalevano a promuovere un boicottaggio economico di Israele.
Il 30 maggio 2018, il Consiglio di Stato dichiarò di non essere in grado di pronunciarsi sul caso e lo deferì alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea per un parere.
Il 12 novembre 2019, la Corte di Giustizia con sede in Lussemburgo si è espressa in favore del governo francese:
    "Gli alimenti originari di territori occupati dallo Stato di Israele devono recare l'indicazione del loro territorio di origine, accompagnata, nel caso in cui provengano da una località o da un insieme di località che costituiscono un insediamento israeliano all'interno del suddetto territorio, dall'indicazione di tale provenienza.
    "L'omissione di una simile indicazione potrebbe indurre in errore i consumatori, facendo pensare loro che tale alimento abbia un paese di origine o un luogo di provenienza diverso dal suo paese di origine o dal suo luogo di provenienza reale.
    "Il fatto di apporre su alcuni alimenti l'indicazione secondo cui lo Stato di Israele è il loro 'paese d'origine', mentre tali alimenti sono in realtà originari di territori che dispongono ciascuno di uno statuto internazionale proprio e distinto da quello di tale Stato, che sono occupati da quest'ultimo e soggetti a una sua giurisdizione limitata, in quanto potenza occupante ai sensi del diritto internazionale umanitario, sarebbe tale da trarre in inganno i consumatori.
    "L'indicazione del territorio di origine degli alimenti in questione è obbligatoria (...), al fine di evitare che i consumatori possano essere indotti in errore in merito al fatto che lo Stato di Israele è presente nei territori di cui trattasi in quanto potenza occupante e non in quanto entità sovrana.
    "L'omissione di tale indicazione, che implica che sia indicato solo il territorio di origine, può indurre in errore i consumatori. Questi ultimi infatti, in mancanza di qualsiasi informazione in grado di fornire loro delucidazioni al riguardo, non possono sapere che un alimento proviene da una località o da un insieme di località che costituiscono un insediamento ubicato in uno dei suddetti territori in violazione delle norme di diritto internazionale umanitario.
    "Le informazioni fornite ai consumatori devono consentire loro di effettuare scelte consapevoli nonché rispettose non solo di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali o sociali, ma anche di considerazioni di ordine etico o attinenti al rispetto del diritto internazionale.
    "Al riguardo, la Corte ha sottolineato che simili considerazioni potevano influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori".
La Corte di Giustizia dell'UE, che favorisce di fatto i rigidi criteri di etichettatura francesi da applicare in tutto l'Unione Europea, è stata fermamente condannata perché espressione del pregiudizio anti-israeliano da parte dell'Unione Europea. Molti commentatori hanno osservato che fra tutti i numerosi conflitti territoriali nel mondo - dalla Crimea a Cipro del Nord, dal Tibet al Sahara occidentale - l'UE ha discriminato Israele come unico Paese soggetto a speciali criteri in materia di etichettatura.
Il Ministero degli Affari esteri israeliano ha dichiarato che la sentenza è "inaccettabile dal punto di vista morale e di principio". E ha poi aggiunto:
    "Israele respinge la recente sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che funge da strumento nella campagna politica contro Israele. L'obiettivo della sentenza è quello di evidenziare e applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele. In tutto il mondo, ci sono più di 200 dispute territoriali in corso, eppure la Corte di Giustizia europea non ha emesso un'unica sentenza relativa all'etichettatura dei prodotti provenienti da questi territori. La sentenza odierna è tanto politica quanto discriminante nei confronti di Israele.
    "Questa sentenza non solo diminuisce le possibilità di raggiungere la pace e contraddice le posizioni dell'Unione Europea sul conflitto. Fa il gioco dell'Autorità Palestinese, che continua a rifiutare di avviare negoziati diretti con Israele e incoraggia i gruppi radicali anti-Israele che promuovono e invocano i boicottaggi contro Israele e negano il suo diritto di esistere".
L'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon, ha affermato che la decisione riflette il clima antisemita dilagante oggi in Europa:
    "Questo è un altro esempio di un'Europa che continua ad arrendersi ai nemici di Israele. La discriminazione dell'UE contro l'impresa sionista fornirà una copertura legale all'antisemitismo. La decisione della Corte diffonderà questa vecchia intolleranza in tutto il continente, offrendo ulteriore carburante alle forze che cercano di minare e danneggiare lo Stato ebraico. Oggi, segna una macchia scura nell'operato dell'Europa che non potrà essere eliminata".
Il Lawfare Project con sede a New York, che finanzia azioni legali per contrastare l'antisemitismo, ha dichiarato che la normativa dell'UE ammette la discriminazione nei confronti degli ebrei israeliani e consente di utilizzare le etichette dei prodotti per scopi politici:
    "La decisione della Corte è discriminatoria: i beni prodotti da ebrei e musulmani nella stessa area avranno etichette differenti a causa delle decisioni politiche prese dai funzionari europei. Permettere che un elemento etnico e religioso contraddistingua l'etichettatura dei prodotti è un precedente pericoloso. A dire il vero, la decisione è del tutto inapplicabile in aree come il Golan, in cui non vi sono 'insediamenti' definiti e la conformità richiederebbe una sorta di censimento dell'etnia, della nazionalità e/o della religione dei produttori per stabilire come i prodotti debbano essere etichettati. La mancanza di logica della sentenza è ulteriormente evidenziata dal fatto che i musulmani palestinesi - quegli stessi che secondo la Corte sono gli abitanti legali delle aree sotto il controllo di Israele, e che lì lavorano - saranno essi stessi soggetti all'offensiva etichettatura. E se Israele è la patria storica del popolo ebraico, la Corte cerca di definire stranieri gli ebrei a casa loro. L'affermazione della Corte che anche la più precisa localizzazione geografica o l'indirizzo del produttore sono inadeguati, e che l'etnia e/o la nazionalità dei produttori stessi sono un fattore necessario per l'etichettatura, è un'indicazione ben definita del fatto che l'intenzione è quella di incoraggiare la discriminazione".
Secondo il direttore esecutivo di Lawfare Project, Brooke Goldstein, "la decisione di codificare la discriminazione religiosa in legge è imbarazzante per l'Europa". E la Goldstein ha inoltre aggiunto:
    "Non esiste una ragione legittima per cui i beni prodotti da musulmani ed ebrei nello stesso luogo geografico siano etichettati in modo diverso. In effetti, trattare le persone in modo differente a causa della loro religione è segno di intolleranza e noi sappiamo cosa accade quando l'Europa segue questa strada. I musulmani che vivono sotto l'Autorità Palestinese sono 'coloni' tanto quanto gli ebrei: entrambi sono legalmente autorizzati a vivere lì, ai sensi dello stesso trattato, gli accordi di Oslo".
    Il consulente legale capo di Lawfare Project, François-Henri Briard, ha affermato che la decisione della Corte asseconda i "pregiudizi politici". E ha quindi aggiunto:
    "Se tale etichettatura viene applicata ai prodotti israeliani, di certo dovrà essere applicata anche a decine di Paesi nel mondo e questo potrebbe essere considerato come una violazione del diritto internazionale".
Il consulente legale dell'azienda vinicola Psagot Winery, Gabriel Groisman, ha dichiarato:
    "Se ci si dà molto da fare per discriminare e boicottare Israele, coloro che vengono colpiti dai boicottaggi devono continuare a difendere i loro diritti nelle aule dei tribunali in ogni angolo del mondo. Nonostante la sentenza sfavorevole di questa Corte, state certi che Psagot non smetterà di lottare affinché i suoi diritti godano di un trattamento in modo equo e corretto ai sensi della legge".
Il Dipartimento di Stato statunitense ha affermato che il criterio dell'etichettatura è "indicativo di pregiudizi anti-israeliani" e ha poi aggiunto:
    "Questo criterio serve solo a incoraggiare, agevolare e promuovere boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni (BDS) contro Israele. Gli Stati Uniti si oppongono inequivocabilmente a qualsiasi tentativo di impegnarsi nel BDS o di esercitare pressioni sul piano economico, di isolare o di delegittimare Israele. La strada che conduce alla soluzione del conflitto israelo-palestinese passa attraverso i negoziati diretti. L'America sta dalla parte di Israele contro i tentativi di esercitare su di esso pressioni economiche, di isolarlo o di delegittimarlo".
Eugene Kontorovich, docente della George Mason University Antonin Scalia Law School e direttore del Kohelet Policy Forum, con sede a Gerusalemme, ha dichiarato che la Corte di Giustizia dell'UE sta "apponendo un nuovo tipo di stella gialla sui prodotti ebraici". E ha inoltre aggiunto:
    "Ora i prodotti ebraici sono gli unici a dover recare etichette speciali in base alla loro origine. Questa palese discriminazione rende più urgente che mai la necessità di opporsi a Bruxelles da parte dell'amministrazione Trump rendendo ufficiale quella che è stata a lungo la prassi statunitense, e non permettere che tali prodotti rechino l'etichetta 'Made in Israel'.
    "La sentenza mostra anche che non riguarda i palestinesi, ma gli ebrei. Perché sulle alture del Golan, dove non ci sono palestinesi e non si parla di Stato palestinese, gli europei hanno imposto la stessa norma. E sappiamo che non riguarda l'occupazione, perché non si applica questa norma in nessun territorio occupato in qualsiasi parte del mondo o in qualsiasi luogo".
Il presidente dell'Associazione ebraica europea, con sede a Bruxelles, Menachem Margolin, lo riassume così:
    "L'intera base della politica di etichettatura è puramente discriminatoria nei confronti dell'unico Stato ebraico al mondo. Esiste un altro Paese al mondo con un territorio conteso soggetto a una politica così palesemente unilaterale? La risposta è no. Va anche contro gli standard internazionali stabiliti dall'Organizzazione Mondiale del Commercio.
    "Ciò che è particolarmente irritante è il messaggio inviato oggi alla popolazione israeliana.
    "Mentre i negozi, le scuole e le imprese sono costretti a chiudere a causa del massiccio lancio di razzi da Gaza, mentre gli israeliani si mettono al riparo e le città e i villaggi vicini al confine si preparano psicologicamente al peggio, l'UE invia loro un segnale non di sostegno o di solidarietà, ma di un'etichettatura penalizzante e inutile.
    Questo è il peggior modo di armeggiare, mentre Roma brucia. La Corte europea che cita Israele per la 'violazione delle norme di diritto umanitario internazionale', mentre Hamas e i suoi accoliti bombardano civili innocenti in Israele, è uno dei più perversi paradossi di cui sono testimone da un po' di tempo".

* Soeren Kern è senior fellow al Gatestone Institute di New York.

(Gatestone Institute, 21 novembre 2019)


Raid aereo contro le basi dei pasdaran in Siria: 23 morti

di Giordano Stabile

La scorsa settimana la Jihad islamica, ieri le milizie iraniane a Damasco. Israele torna a mostrare i muscoli in Siria, con l'attacco più massiccio da un anno a questa parte, che ha coinvolto anche i cacciabombardieri «invisìbili» F-35 e inflitto perdite pesanti alle Forze Al-Quds, i reparti speciali dei pasdaran. I raid sono stati lanciati alle 4e 30 di ieri mattina dallo spazio aereo sopra il Golan israeliano. Pochi minuti per accendere di fiammate rosse la periferia occidentale della capitale siriana. Alla fine il bilancio è stato di 23 morti, due civili, 16 «stranieri» e cinque soldati dell'esercito governativo.

 Distrutti depositi di armi e missili
  Come ha spiegato il portavoce delle Forze armate israeliane, generale Hidai Zilberman gli obiettivi, «decine», appartenevano sia alle «Forze Al-Quds» sia al «regime di Bashar al-Assad», e questo perché l'anti-aerea siriana ha lanciato missili contro i jet con la Stella di David, nonostante fosse stata avvertita di «non farlo». Colpiti «sistemi avanzati di difesa anti-aerea, depositi di armi, centri di comando e basi militari». Schegge di un missile hanno però centrato anche una palazzina a Sud di Damasco.
   I raid arrivano dopo una settimana di escalation, in seguito all'uccisione nella capitale siriana del figlio di un altro dirigente della Jihad islamica palestinese, sostenuta dall'Iran, e al lancio di quattro razzi, martedì mattina, verso il Golan siriano. Israele lo ha attribuito alle Forze Al-Quds, che rispondono al generale Qassem Suleimani. Potrebbe anche essere legato alla rivolta in corso in Iran, che la dirigenza di Teheran ritiene sia fomentata da «interferenze esterne» di Stati Uniti e Israele.
   Il neoministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha avvertito che «le regole sono cambiate, ora chiunque lanci razzi contro Israele durante il giorno non dormirà di notte: è successo la scorsa settimana a Gaza ed è successo adesso in Siria». Il messaggio all'Iran, ha aggiunto, «è semplice: non siete più immuni, ovunque allunghiate i vostri tentacoli vi troveremo». Sulla stessa linea il premier Benjamin Netanyahu: «Se loro ci colpiscono, noi colpiamo loro», ha ribadito. Ma la decisione di alzare di nuovo il tiro in Siria, dopo che per quasi un anno le forze aeree russe avevano frenato raid massicci, è legata alla situazione nella regione. Come sottolineano analisti militari israeliani era importante far capire che «Israele non è l'Arabia Saudita», rimasta passiva dopo l'attacco del 14 settembre sui suoi impianti petroliferi.

(La Stampa, 21 novembre 2019)


Israele ha detto di aver eliminato una figura di spicco iraniana in Siria

In seguito alla notizia Teheran avrebbe deciso di rispondere lanciando dalle basi in Siria quattro missili contro le alture del Golan nella notte tra lunedì e martedì. I razzi sono stati intercettati dal sistema antimissilistico israeliano Iron Dome e non hanno causato danni. Gerusalemme ha reagito alla provocazione colpendo venti obiettivi nella periferia di Damasco: basi militari e campi di addestramento di milizie filoiraniane. Nel clima di proteste e tensioni interne a Teheran, è plausibile che i vertici iraniani decidano di rimandare l'annuncio che confermerebbe la morte di una figura di spicco del suo esercito e di svelare la sua identità. Dalla capitale la scorsa settimana sono partite le proteste, scoppiate a causa di un aumento del prezzo del carburante che si sono rapidamente estese a tutto il paese e si sono trasformate in manifestazioni contro il regime. Un blocco a intermittenza di internet impedisce la circolazione delle notizie e secondo un rapporto di Amnesty International le vittime tra i manifestanti sarebbero più di cento. Ieri il presidente Hassan Rohani ha annunciato di aver sedato con successo le rivolte: "I ribelli erano organizzati e armati e seguivano uno schema tracciato da altri, come sionisti e americani. Considero questa un'altra grande vittoria per la nazione iraniana", ha detto Rohani. Le proteste contro il regime di Teheran sono le più grandi dal 1979, ha detto un funzionario israeliano aggiungendo: "Il nostro attacco aereo mostra esattamente dove stanno andando i soldi iraniani".

(Il Foglio, 21 novembre 2019)


Gantz rinuncia al mandato e attacca Netanyahu

Niente da fare per Benny Gantz.

Israele scivola verso nuove elezioni, le terze in meno di un anno. Benny Gantz, il leader centrista di Blu-Bianco che ha vinto di misura le elezioni dello scorso settembre, ha rinunciato al mandato di formare il nuovo governo.
Lo ha fatto - prima delle 24 (ora locale), termine ultimo - attaccando il premier Benjamin Netanyahu autore di "un muro" invalicabile, pur avendo tentato - ha spiegato - di "rigirare ogni pietra".
Netanyahu - ha attaccato Gantz - "conduce una campagna di odio e incitamento, il cui scopo è di giustificare che lui si abbarbichi al governo di transizione contro la volontà dell'elettore". Tuttavia la sorte del tentativo di Gantz era segnata da questa mattina quando il leader nazionalista laico Avigdor Lieberman - che si è confermato king maker della situazione - ha annunciato che erano fallite le trattative per un "governo unitario nazionale e liberale" con il Likud di Netanyahu e con i centristi di Gantz.
   Ma che, soprattutto, non aveva intenzione di appoggiare nessuno dei due possibili alleati, vanificando così anche quella sorta di scappatoia perseguita da Gantz: un governo di minoranza appoggiato dall'esterno sia da Lieberman sia dai partiti arabi alla Knesset. Una strada in salita. E così due giorni dopo l'annuncio di Trump sulla legalità per gli Usa degli insediamenti israeliani in Cisgiordania che ha rafforzato la posizione di Netanyahu ma che è stata attaccata oggi sia dalla Santa Sede sia dall'Onu entrambi schierati decisamente sulla soluzione a 2 stati, Israele si ritrova in una clamorosa impasse politica.
   Dopo la doppia rinuncia di Netanyahu e quella di Gantz, lo stato ebraico è entrato politicamente in 'un territorio inesplorato' - per usare l'espressione di alcuni analisti - che non ha precedenti nella storia politica del Paese. C'è ancora una sottilissima barriera - anche questa mai sperimentata - prima dell'annuncio di nuove elezioni che potrebbero svolgersi a marzo. La legge prevede che i deputati israeliani abbiano 21 giorni durante i quali ogni parlamentare della Knesset (Netanyahu e Gantz compresi) può decidere di appoggiare un collega come primo ministro.
   Se questo signor qualcuno ottiene 61 seggi (la metà più uno dei 120) allora è primo ministro. Solo se questo non avviene - e allo stato attuale nessuno è pronto a scommetterci - il presidente Rivlin convocherà le urne. Una realtà che in questi oltre due mesi dal voto - con l'incarico prima a Netanyahu, poi a Gantz - tutti i partiti hanno sempre detto di voler evitare ad ogni costo.
   Netanyahu ha tentato un ultimo strappo chiedendo a Gantz, dopo le trattative fallite tra Likud e Blu-Bianco, di sedersi ad un tavolo perché ancora "c'era tempo" per un accordo e che le "distanze non erano grandi". Ma soprattutto ha chiesto all'ex capo di stato maggiore di rinunciare all'alleanza con il suo vice Yair Lapid e con l'altro leader centrista Moshe Yaalon, più ostici nei confronti delle richieste e della maggioranza di destra e religiosa del premier.
   Una mossa che Gantz non poteva, e non voleva, fare. Molto - secondo le indiscrezioni - sembra essersi arenato sulla questione dell'alternanza alla leadership tra Netanyahu e Gantz così come l'aveva immaginata il presidente Rivlin per un governo di unità nazionale. Anche perché in quella eventuale alternanza c'era una questione di fondo, definita "etica" da Gantz: cosa sarebbe successo se Netanyahu fosse stato incriminato nelle inchieste che lo riguardano? Si sarebbe dimesso o avrebbe fatto ricorso, come previsto dalla legge, alla immunità parlamentare? E proprio stasera i media hanno riportato che l'Avvocato generale dello stato Avichai Mandelblit alla fine è pronto a dare il suo giudizio e che ha intenzione già domani di incriminare Bibi per frode ed abuso di ufficio in due delle quattro indagini.

(swissinfo.ch, 20 novembre 2019)



Il significato storico della dichiarazione di Mike Pompeo sui territori contesi
         Artico OTTIMO!


di Ugo Volli

Il significato storico della dichiarazione di Mike Pompeo sui territori contesi. I giornali italiani, anche quelli che parlano molto di Medio Oriente non perdendo occasione di attaccare "coloni" e "colonie", non ne hanno quasi parlato, ma si tratta di una notizia davvero storica, che merita di essere oggetto di commento e di riflessione: il segretario di stato, cioè il ministro degli esteri americano Mike Pompeo, evidentemente su indicazione del presidente americano Trump,ha emesso una dichiarazione ufficiale in cui certifica la decisione americana di non considerare "territori occupati" più Giudea e Samaria e Gerusalemme "Est" e quindi di non ritenere che agli insediamenti israeliani in questi territori si debba applicare la convenzione dell'Aia che proibisce spostamenti di popolazione da parte delle potenze "occupanti". In sostanza, gli Usa non credono più nel mantra di tutti quelli che sentenziano e moraleggiano sul conflitto fra Israele e i palestinisti, cioè che "le colonie sono illegali" e di conseguenza le pianificazioni israeliane di nuove abitazioni sono "crimini di guerra" e (almeno nell'opinione dei più estremisti) la "resistenza" (magari includendo il terrorismo) è giustificato. Da ultimo anche la molto politicizzata e molto antisionista (il che, lo sappiamo significa antisemita) "corte di giustizia" europea ha sentenziato che bisognava etichettare i prodotti provenienti da Giudea e Samaria in maniera diversa da quelli provenienti dal territorio di Israele a ovest della linea verde, in modo che i consumatori potessero rendersi conto del loro carattere "ingiusto".
  Queste tesi non hanno nessun serio fondamento né storico né giuridico e Israele, coi suoi sostenitori, le ha sempre rifiutate con ottime ragioni. Le ricapitolo brevemente: non c'è mai stato uno stato palestinese che Israele abbia occupato. Fino al 1918 tutto il territorio che costituisce Israele e i paesi confinanti era da parecchi secoli parte dell'impero ottomano. Dopo la guerra esso fu suddiviso in vari stati dai trattati di pace e poi dall'assemblea della "Società delle Nazioni" (l'Onu del tempo) che all'unanimità costituì il "Mandato britannico di Palestina", con lo scopo esplicito e unico di fornire al popolo ebraico una "casa nazionale" (eufemismo per Stato) e di favorire "la popolazione e l'insediamento ebraico" in quel territorio che comprendeva l'attuale Israele, Giudea e Samaria e tutta la Giordania. Un primo tradimento degli inglesi alla loro missione consistette nello scorporare la "Palestina" dal mandato per destinarlo agli arabi (per cui la divisione in due stati è già avvenuta, quasi un secolo fa). In seguito gli inglesi cercarono di comprarsi la benevolenza araba limitando l'immigrazione israeliana e non reprimendo la guerra che bande arabe facevano contro gli insediamenti israeliani, fino ad aiutare la loro aggressione del 1948.
  Lo stato di Israele fu stabilito una seconda volta con la deliberazione dell'Assemblea dell'Onu del novembre 1947, che proponeva (ai termini dello statuto dell'Onu non poteva disporre) una divisione del territorio che fu respinta dagli arabi e poi travolta dalla guerra di indipendenza che Israele vinse. Alla fine di questa guerra si consolidarono delle linee armistiziali (la famosa linea verde) che gli arabi stessi badarono bene a definire nei trattati di armistizio come provvisori, da non considerarsi confini internazionali. La Giordania occupava così anche parti del mandato al di là dei confini che le erano stati assegnati trent'anni prima dai britannici, ma questa occupazione non fu riconosciuta da nessuno nella comunità internazionale, salvo gli stati arabi. Quando Gerusalemme, Giudea e Samaria furono liberate da Israele nella Guerra dei Sei Giorni, non si trattò di un'occupazione, perché non vi era uno stato proprietario (in particolare non esisteva proprio uno stato palestinese) da cui quelle terre potessero essere tolte e "occupate". Israele ha infatti continuato a parlare di "territori contesi". I trattati di Oslo non hanno modificato questa situazione: non vi si parla di Stato Palestinese, né si riconoscono occupazioni. Si dice che il destino dei territori contesi sarà deciso alla fine delle trattative e si stabilisce un'"autonomia" palestinese, cosa ben diversa da uno stato.
  E allora perché i movimenti palestinisti chiamano Giudea e Samaria (ma spesso anche il resto di Israele) "territori occupati"? Semplice, perché desiderano occuparli loro e pensano che la loro volontà costituisca un diritto, anche alla luce della credenza islamica che un luogo in cui si siano insediati, magari anche con la forza, i musulmani sia loro di diritto e che nessun altro debba governarli. Questa è fra l'altro la ragione per cui quando c'era l'occupazione giordana di Giudea e Samaria o quella egiziana di Gaza non hanno mai protestato: gli occupanti erano musulmani, quindi legittimati.
  E perché gli europei e fino a poco tempo fa anche gli americani e molte organizzazioni internazionali condividono questa menzogna dell'"occupazione"? I motivi sono due. Da un lato si vuole compiacere gli arabi e i musulmani - naturalmente a spese di Israele. Lo si vuol fare per ragioni economiche (il petrolio, gli sbocchi commerciali), per senso di colpa nel ricordo del colonialismo, per avere in cambio appoggio diplomatico. Dall'altro, per odio a Israele e agli ebrei. E' il vecchio antisemitismo che non si è mai spento, unito all'ostilità che i carnefici provano per le loro vittime, anche quando sono costretti a pentirsene. Entrambi questi aspetti si vedono confrontando le politiche antisraeliane dell'Unione Europea, di Obama, di molti politici e intellettuali "progressisti" col silenzio sulla Cina che opprime il Tibet e Hong Kong, sulla Turchia che ha invaso Cipro (stato membro dell'UE), sulla Russia che ha continuato a fare la potenza coloniale in Cecenia, Georgia, Ucraina.
  Bisogna dire che l'amministrazione Trump ha saputo abbattere il tabù delle menzogne intorno a Israele. Come per Gerusalemme capitale, così per l'"occupazione", è impossibile sapere quali saranno le conseguenze politiche a lungo termine. Ma certamente un po' di luce è entrata nella fitta nebbia ideologica che avvolge la situazione reale del conflitto. Sarà impossibile almeno dare per scontato che Tel Aviv, dove non ha sede né il Parlamento, né il capo dello stato, né la corte suprema, né i ministeri (salvo uno) israeliani, sia la capitale dello stato ebraico. E così non potrà più considerare ovvio che gli insediamenti ebraici nella terra d'origine (perché "giudeo", "jew", "jude" "juif" ecc. vengono dall'essere cittadino della Giudea) siano "colonie illegali", "occupazione", "furto della terra araba". Di questo dobbiamo essere grati a Trump e a Netanyahu che ha saputo costruire un rapporto con lui tale da indurlo a questi passi. Speriamo che entrambi continuino a governare, alla faccia della politicizzazione della giustizia, e a far del bene a Israele.

(Progetto Dreyfus, 21 novembre 2019)


Una nuova storia di Israele. Michael Brenner e l'identità dello Stato ebraico

di Veronica Bortolussi

Auspicata dal movimento sionista dalla seconda metà dell'Ottocento, la nascita dello Stato di Israele all'indomani del secondo conflitto mondiale fu portatrice di cambiamenti non solo geopolitici, ma anche e soprattutto identitari, destinati ad acuirsi in tempi diversi.
   Proprio la questione dell'identità di questo giovane Stato è il tema dell'interessante saggio Israele. Sogno e realtà dello Stato ebraico (Donzelli Editore, Roma, 2018) dello storico Michael Brenner, docente di Storia e cultura ebraica presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco e direttore del Center for Israel Studies presso l'American University. Nelle parole dell'autore
questo volume non cerca né di sostanziare né di demistificare la questione se Israele sia uno Stato unico o uno «Stato come tutti gli altri». Vuole piuttosto tracciare un discorso proprio attorno a questo interrogativo, che attraversa il testo come un filo conduttore. Vuole offrire una chiave per affrontare le questioni più rilevanti per comprendere la vera natura del primo Stato ebraico nella storia moderna. È uno Stato basato su un'etnia o una religione comune? Dovrebbe essere uno Stato in cui gli ebrei di tutto il mondo possano trovare un porto sicuro, continuando tuttavia a vivere la propria vita come facevano prima, nelle loro case o patrie precedenti, o dovrebbe piuttosto essere uno Stato ebraico in cui possano prender vita nuovi valori, diversi da quelli delle nazioni di origine? Quali sono i confini di questo Stato? E qual è il ruolo dei non-ebrei in uno Stato ebraico?
La difficoltà di definizione dello Stato ebraico è il fulcro attraverso il quale Brenner ripercorre l'intera storia di Israele, partendo dalle teorie sioniste per arrivare fino ai giorni nostri, lasciando in secondo piano i
numerosi avvenimenti, soprattutto bellici, che ne hanno segnato la storia. Le guerre di Israele, infatti, vengono lette e interpretate attraverso la lente della costante ricerca di una propria identità, divenendo dunque conflitti combattuti per rivendicare il diritto della popolazione ebraica a esistere in una terra a loro ostile.
Di particolare interesse, è la ricostruzione minuziosa di come, negli anni, sia cambiato il modo di vedersi degli stessi israeliani. La visione degli ultra-ortodossi, per esempio, li vedeva legittimi cittadini di uno «Stato miracolo», divenuto realtà per volontà divina, scontrandosi con quella parte della popolazione israeliana laica che definiva Israele uno «Stato di insediamento coloniale», «istituito rimuovendo con la forza gran parte della popolazione indigena dai suoi confini e poi assegnando a coloro che erano rimasti una serie di diritti e doveri che solo la comunità di coloni può determinare»: due visioni contrapposte, dunque, che contribuiscono a creare divisioni interne allo Stato e nelle diverse comunità ebraiche nel mondo che persistono tutt'oggi. A proposito della situazione della popolazione ebraica, è degno di nota il concetto di «allosemitismo», coniato dal sociologo Zygmunt Bauman per riferirsi alla
consuetudine di descrivere gli ebrei come un popolo radicalmente diverso dagli altri, per la cui descrizione e comprensione sono necessari concetti particolari e che richiede di assumere un atteggiamento speciale nella totalità o quasi dei rapporti sociali. […] Il termine non contraddistingue in maniera chiara l'odio o l'amore per gli ebrei ma contiene il germe di entrambi e indica che qualunque dei due sentimenti appaia esso sarà intenso ed estremo.
Tale definizione, dunque, ribadisce ancora una volta la difficoltà di trovare una definizione condivisa di chi possa - o meno - ritenersi israeliano, non solo per quel che riguarda i cittadini dello Stato ebraico ma anche per chi cerca di definirne l'identità dall'esterno, tra chi si sente «ebreo israeliano» e chi, invece, si sente membro di una «Israele globale» priva di reali confini, sentendosi sì ebreo ma «cittadino del mondo». Una sorta di ritorno al passato, dunque, quando gli ebrei, prima della nascita di Israele, vivevano in tutta Europa sentendosi, di volta in volta, cittadini dello Stato in cui vivevano.
   È proprio questa situazione, secondo Brenner, a non essere stata prevista dai fondatori e propugnatori di uno Stato israeliano: la possibilità che gli ebrei, nonostante l'esistenza di Israele, potessero preferire una vita all'estero, mentre l'immigrazione nei suoi confini venisse dominata - su tutto - da ebrei di recente conversione, provenienti specialmente da Asia e Africa, autoproclamatisi discendenti delle antiche «tribù perdute», in particolare di India, Sudafrica e Nigeria.
   Secondo le stime più recenti, riportate dallo storico, risulta che Israele è un Paese in continuo divenire, caratterizzato oggi come ieri da un forte interscambio di immigrati ed emigrati, tanto da poter sostenere senza timore di smentita che «la storia dell'emigrazione ebraica dalla Palestina è vecchia quanto la storia dell'immigrazione ebraica». È in questa realtà in costante mutamento che si realizza, a parere di Brenner, il paradosso stesso della storia di Israele:
«il desiderio del popolo ebraico di essere al tempo stesso normale ed eccezionale», una «contraddizione che attraversa tutta la parabola della definizione di una nuova identità ebraica e israeliana e, contemporaneamente la ricerca di un posto sicuro di Israele nel consesso delle nazioni».

(Parentesi Storiche, agosto 2019)



*


Un libro che tutti gli interessati a Israele dovrebbero assolutamente leggere

Quasi sicuramente anche i più grandi conoscitori della storia di Israele potrebbero trovare, nella lettura di questo libro di Michael Brenner, Israele, sogno e realtà dello stato ebraico, qualche particolare che a loro è sfuggito, o su cui quanto meno non avevano riflettuto. L’autore unisce ad una conoscenza eccezionale dei fatti che stanno intorno alla formazione di Israele, testimoniata da una sterminata citazione di fonti di vario genere, una capacità di presentare in modo conciso e chiaro tutte le importanti visioni politiche e religiose che si sono mosse, e spesso scontrate, nel contrastato percorso che ha portato a quell’autentico miracolo storico che è la nascita dell’attuale Stato d’Israele.
Se ne consiglia vivamente la lettura. Il testo esiste anche in formato ebook.
Riportiamo dall’introduzione un breve estratto.
    «Il terzo capitolo segue il percorso che porterà alla nascita di Israele in seguito alla Dichiarazione Balfour del 1917, che aveva promesso agli ebrei un «focolare nazionale in Palestina», ma senza definire esattamente cosa significasse questo termine così vago. I sionisti stessi si mantennero vaghi a lungo sul significato del concetto di sovranità ebraica. Alla luce di studi recenti, si potrebbe affermare che sia per i maggioritari «sionisti generali» guidati da Chaim Weizmann sia per i sionisti socialisti guidati da David Ben Gurion, un'ampia autonomia sotto il governo britannico o internazionale sembrava un'opzione più realistica rispetto alla totale indipendenza, almeno fino alla seconda guerra mondiale. Anche i nazionalisti revisionisti radunati attorno a Vladimir Ze'ev Jabotinsky, che lottavano per uno Stato ebraico su entrambe le rive del Giordano, avevano idee molto diverse su ciò che sarebbe dovuto diventare lo Stato di Israele. Nella visione di Jabotinsky di una più grande Palestina su entrambe le rive del Giordano, gli arabi non avrebbero goduto soltanto della piena uguaglianza, ma sarebbero stati rappresentati ai più alti livelli del potere.
       Questo capitolo analizza i diversi progetti relativi a una futura casa nazionale ebraica, all'interno della Palestina o altrove. Le idee alternative a una futura società ebraica in Palestina erano parte di una più ampia lotta globale per creare un luogo di autodeterminazione degli ebrei. Durante gli anni venti e trenta l'ascesa di regimi di destra e antisemiti in Europa accrebbe l'urgenza di trovare una sede che offrisse rifugio agli ebrei di tutto il mondo. A differenza dei sionisti, che aspiravano a un insediamento degli ebrei nella loro patria storica, i territorialisti propugnavano l'istituzione di un territorio ebraico in Australia, Africa orientale o America del Sud, luoghi in cui essi supponevano di non incontrare opposizione. Abbandonando l'idea di riconnettere il territorio del futuro Stato all'antico passato ebraico essi abbandonavano anche la nozione di unicità che derivava appunto da quel passato. Ma fu proprio la mancanza di un legame storico a rendere questi progetti impopolari tra la maggior parte degli ebrei. L'idea di creare uno Stato ebraico in Africa orientale o in America del Sud aveva un certo pragmatismo e - retrospettivamente - avrebbe forse contribuito a salvare molte vite umane, ma non aveva l'attrazione emotiva del progetto sionista, che ricollegava gli ebrei alla loro terra ancestrale.
       Come già ricordato, la Dichiarazione d'indipendenza dello Stato di Israele fece propria la nozione di «normalizzazione» della storia ebraica in un passo centrale del testo che rivendica «il diritto naturale del popolo ebraico a essere, come tutti gli altri popoli, indipendente nel proprio Stato sovrano». Gli ebrei - si argomentava - erano sempre stati l'archetipo dell'«altro» nella storia. Soltanto mettendo fine alla situazione «anomala» della loro dispersione nella diaspora mondiale e riportandoli nel loro piccolo Stato ebraico dopo due millenni, sarebbe stata ristabilita la normalità. Ma l'idea non era quella di creare uno Stato «come gli altri»: i fondatori sostenevano infatti che uno Stato ebraico, che sorgeva da una catastrofe che essi consideravano come il culmine di una lunga storia di sofferenze, era obbligato ad avere un ruolo di unicità: sarebbe dovuto diventare la materializzazione della missione biblica degli ebrei di essere «una luce tra le nazioni». E il rifiuto dell'esistenza dello Stato ebraico da parte dei vicini arabi non fece che rafforzare il bisogno di legittimazione.»
(Notizie su Israele, 21 novembre 2019)


Basket - Olimpia Milano batte Maccabi Tel Aviv 92-88

Nella notte di Dino Meneghin

L'Olimpia Milano mantiene l'imbattibilità casalinga in Eurolega superando il Maccabi FOX Tel Aviv e resta così in vetta alla classifica con un record di 7-2 in compagnia dell'Anadolu Efes Istanbul in attesa delle partite di mercoledì sera di Barcellona e CSKA Mosca. Luis Scola è il miglior marcatore per l'Olimpia con 20 punti, seguito dai 18 di Sergio Rodriguez.
La mitica maglia numero 11 di una leggenda del passato biancorosso penderà da oggi per sempre dal soffitto del Forum. In campo, altre due leggende moderne trascinano l'Olimpia Milano a una bellissima vittoria sul Maccabi Tel Aviv. Con la benedizione del grande Dino Meneghin, Luis Scola e Sergio Rodriguez sono ancora una volta i grandi protagonisti che mantengono inviolato il parquet del Forum a livello internazionale: quinta vittoria casalinga, settima complessiva in questo inizio di stagione di Eurolega, e Milano rimane lassù in vetta alla classifica in coabitazione con l'Anadolu Efes Istanbul (prossimo avversario, giovedì sera, nel doppio turno settimanale), in attesa dei risultati delle partite di domani sera di Barcellona e CSKA Mosca.

(Eurosport, 20 novembre 2019)


Almeno 11 morti nell'attacco israeliano in Siria. Sette sono iraniani

La Russia ha condannato l'attacco israeliano

di Sarah G. Frankl

Ci sarebbero almeno 11 morti, tra cui sette iraniani, nell'attacco israeliano in Siria avvenuto ieri sera come risposta al lancio di quattro missili dal territorio siriano verso Israele.
A riferirlo è un gruppo siriano che monitora la guerra in Siria.
Nessuna conferma su queste voci arriva da Gerusalemme che tuttavia conferma di aver preso di mira decine di siti collegati alla Forza Quds.
Tra questi, una struttura presso l'aeroporto internazionale di Damasco che Israele afferma essere stata utilizzata per coordinare il trasporto di hardware militare dall'Iran alla Siria e verso altri paesi della Regione.
«Abbiamo colpito un edificio gestito da iraniani all'interno dell'aeroporto di Damasco. Valutiamo che ci siano degli iraniani uccisi e feriti» a detto una fonte dell'esercito israeliano a condizione di rimanere anonimo.
È la stessa fonte a confermare che i jet israeliani hanno preso di mira anche basi della Forza Quds all'interno di complessi militari siriani e che quando la contraerea siriana ha preso di mira gli aerei israeliani, questi hanno reagito distruggendo le postazioni.

 La Russia condanna l'attacco israeliano
  Intanto la Russia ha duramente condannato l'attacco israeliano in Siria. Il vice ministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov ha affermato che gli attacchi israeliani in Siria sono stati «una mossa sbagliata» oltre ad essere «in netto contrasto con il diritto internazionale».
Bogdanov ha anche affermato che la Russia stava contattando i suoi alleati regionali per concordare quale risposta dare a Israele.
Ma le parole del viceministro della difesa russa non concordano con le dichiarazioni fatte ieri mattina dal comando dell'IDF il quale affermava di aver coordinato gli attacchi con Mosca.

 Esercito israeliano pronto per una probabile rappresaglia iraniana
  Questa mattina l'IDF ha affermato che si stava preparando per una probabile rappresaglia iraniana. «Ci stiamo preparando alla difesa e al contrattacco e risponderemo a qualsiasi tentativo di ritorsione», ha detto il portavoce dell'IDF Hidai Zilberman.
«Siamo pronti per tre scenari: nessuna risposta, una risposta minore e una risposta più significativa» ha poi aggiunto.

(Rights Reporters, 20 novembre 2019)


Insediamenti «legittimi». Israele soddisfatto. E Bibi tratta con Gantz per il nuovo governo

Attesa per il futuro esecutivo, mentre Trump benedice gli insediamenti israeliani

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Quando proprio non si ha più niente da dire contro Israele, quando è impossibile sostenere che è uno Stato di Apartheid, o che i palestinesi sono poveri oppressi il cui terrorismo è solo lotta per la libertà, ecco che sempre esce fuori l'argomento principe, quello preferito dalla Mogherini (anche ieri con inveterata perseveranza ha fatto la sua dichiarazione antisraeliana che fa seguito alla decisione del labeling): i terribili, diabolici pericolosissimi «insediamenti» nei «Territori», quelli che secondo la «lectio» comune sono l'impedimento per la pace. Non il terrorismo, non il rifiuto di trattare, ma le costruzioni in Giudea e Samaria. Ma da lunedì, quando si sentirà affermare che gli insediamenti sono «illegali», si potrà chiedere «chi l'ha detto?». Infatti il segretario di Stato Mike Pompeo ha annunciato che gli Stati Uniti dopo molti studi, non li considerano illegali. Bestemmia? Niente affatto, gli insediamenti non sono illegali: sono territori disputati, così sono stati riconosciuti fino al tempo di Obama e Kerry come una questione da toccare con cautela, oggetto di discussione fra due parti in causa.
   Ma il biasimo non era mai stato gettato come negli ultimi anni interamente su Israele, riconoscendo alcuni fatti essenziali che danno ragione a Pompeo: intanto perché, dice Pompeo, «chiamare la costruzione di insediamenti civili incruento rispetto alla legge internazionale non ha avanzato la causa della pace». Al contrario, assegnare in sede di Consiglio di Sicurezza dell'Onu e di Unione europea i territori ai palestinesi senza trattativa né promessa di abbandonare la violenza e di delegittimazione di Israele stesso (non nei confini del '67 ma in quelli del '48) ha incitato l'odio palestinese e incoraggiato il terrorismo. Inoltre i «territori» la cui restituzione Israele ha tentato con trattative frequenti e larghe, salvo sensibili zone di sicurezza, sono sempre stati alla fine rifiutati in vista di una soluzione escatologica. Le zone incriminate sono inoltre state conquistate in una guerra di difesa nel '67 mentre erano occupate dalla Giordania, mai riconosciuta come legittimo proprietario da nessuno, e di Stato Palestinese non si parlava nemmeno. La base per l'illegalità internazionale non esiste. Inoltre, il pericolo di vita sostanziale che la mancanza di controllo in alcune zone comporta per Israele è patente e non si ha nessun segno che sia un fenomeno passeggero. Inoltre la dichiarazione Balfour e via via ogni altro documento fondamentale per la nascita dello Stato Ebraico, cita la ragione di fondo per cui Israele è qui e non altrove: gli ebrei sono tornati a casa, nella terra d' origine, con cui hanno mantenuto un rapporto senza fine. Non c'è nessun motivo di non vedere anche quelle zone in questa luce, a meno di vedere Israele come una potenza coloniale.
   La votazione in cui gli Usa consentirono di condannare per la prima volta lo Stato d'Israele come Paese occupante fu una picconata a Netanyahu; al contrario qui appare che Trump voglia dare una mano all'amico almeno in fase di conclusione. Ieri è stato un giorno di incontri a porte chiuse, tutti hanno incontrato tutti fino a che Bibi e Benny Gantz si sono trovati faccia a faccia. Ancora mentre scriviamo l'incrocio dei veti sui religiosi per Netanyahu e sui partiti arabi per Gantz sono ostacoli degni di Sisifo. Tuttavia, poiché l'orologio faustiano batte le ultime ore dell'incarico di Gantz, si ripete la discussione sulla possibilità di un governo di coalizione in cui Netanyahu parta per primo, Gantz impari la politica e poi tocchi a lui. Non sarebbe una cattiva idea, giudici permettendo.

(il Giornale, 20 novembre 2019)


La decisione di riconoscere gli insediamenti israeliani è storica e delicata

La posizione americana è una risposta alle risoluzioni Onu contro lo stato ebraico, in attesa che Gerusalemme abbia un governo.

di Micol Flammini

Roma. La decisione annunciata lunedì dal segretario di stato, Mike Pompeo, secondo la quale per gli Stati Uniti gli insediamenti israeliani in Cisgiordania non sono più illegittimi, è arrivata in un momento delicato per la politica israeliana. All'annuncio, che sovverte la posizione che Washington aveva mantenuto dal 1978, quando il presidente Jimmy Carter definì quei territori "contrari alle leggi internazionali", il premier Benjamin Netanyahu ha risposto con entusiasmo- "è una verità storica!", ha detto - mentre Benny Gantz, leader del partito Bianco e blu, ha ringraziato, ma ha preferito sottolineare che il destino degli insediamenti "dovrebbe essere determinato da accordi che diano garanzie di sicurezza e che promuovano la pace". Tra i due sfidanti, il primo, Netanyahu, ha molto da guadagnare dalla decisione del Dipartimento di stato, il secondo, Gantz, che fino a questa sera è impegnato nel tentativo di formare un governo, ha qualcosa da perdere. L'ex generale non riuscirà a raggiungere la quota di seggi necessaria per formare un governo, 61 su 120, e sta lavorando sulla possibilità di un governo di minoranza con l'appoggio esterno dei partiti arabi. Se durante il fine settimana sembrava possibile che Gantz fosse a un passo dalla formazione di un esecutivo, il nuovo status conferito dagli Stati Uniti agli insediamenti rende più difficili i colloqui con i partiti arabi. Israele attraversa un momento di fragilità interna, con due elezioni durante l'ultimo anno, nessun partito in grado di formare una maggioranza, e dei leader, Netanyahu e Gantz, che posti davanti alla soluzione di un governo di unità nazionale non riescono ad andare avanti: non si fidano l'uno dell'altro e ognuno dei due ha degli alleati scomodi ai quali non può rinunciare. Il paese della stabilità, per il quale la stabilità è una condizione indispensabile per la sicurezza, è diventato più che mai instabile e la decisione americana rischia di incrinare ancora di più il delicato equilibrio.
  Tuttavia la decisione ha anche un altro valore: è la risposta alle otto risoluzioni che venerdì le Nazioni unite hanno adottato contro Israele. Anche l'Unione europea la scorsa settimana, mentre il Jihad islamico lanciava missili contro Tel Aviv, ha preso una decisione grave, stabilendo che "i prodotti originari dei territori occupati dallo stato di Israele dovranno presentare l'indicazione del territorio di origine". L'annuncio di Mike Pompeo quindi è una presa di posizione che tutte le forze politiche israeliane, chi con più chi con meno entusiasmo, non potevano che salutare con favore, pur intuendone il rischio. Il rischio maggiore nasce dalla diffidenza che domina la politica all'interno di Israele, ma anche a livello internazionale. Il rapporto tra lo stato ebraico e l'alleato americano è storico, ma ultimamente anche gli israeliani, compreso Netanyahu, hanno cominciato a fare i conti con un possibile tradimento, la frase che tormenta ogni calcolo è: "Se Trump lo ha fatto con i curdi, chi lo dice che non potrebbe farlo con noi". L'Amministrazione americana in passato ha sì riconosciuto Gerusalemme come capitale, ha sì riconosciuto le alture del Golan, ma la decisione di cambiare posizione sugli insediamenti è stata vista anche come opportunistica, come il tentativo di distogliere l'attenzione dai guai interni del presidente. E pur di riconquistare il favore degli ambienti vicini a Israele, Trump avrebbe fatto una scelta rischiosa per i suoi alleati.
  I leader politici dello stato ebraico sanno che non possono fidarsi di Donald Trump, di un presidente che ha insistentemente tentato di flirtare con Hassan Rohani e con tutti i vertici iraniani, la massima minaccia per lo stato di Israele. Ma c'è diffidenza anche da parte dei coloni che vivono negli insediamenti sia nei confronti del presidente americano, sia nei confronti di Benjamin Netanyahu. I coloni temono che Trump presto potrebbe volere qualcosa in cambio per le tre storiche concessioni - Gerusalemme, il Golan e gli insediamenti - e questo potrebbe comportare il sacrificio proprio dei loro territori. L'annuncio di Pompeo è un favore a Benjamin Netanyahu ma rende la pace tra israeliani e palestinesi ancora più complicata. Sullo sfondo di una politica troppo instabile per poter portare qualcosa di positivo in medio oriente- se Gantz non formerà il governo, il Parlamento ha 21 giorni per trovare un altro candidato a cui affidare l'incarico prima di convocare nuove elezioni - si attende che Jared Kushner sveli i dettagli del suo piano di pace che prevede che il 90 per cento della Cisgiordania venga dato ai palestinesi. E per i coloni israeliani non è questa la soluzione migliore.

(Il Foglio, 20 novembre 2019)


Io sto con Israele

di Maurizio Belpietro

Nel febbraio del 1991 il giornale per cui lavoravo, l'Europeo, mi inviò in Israele, al seguito di un gruppo di ebrei italiani e di politici milanesi. Era un viaggio della vicinanza, un modo per manifestare sostegno, perché in quei mesi le città israeliane erano prese di mira dai missili di Saddam Hussein. Ricordo i crateri provocati dagli Scud iracheni nei quartieri di Tel Aviv e gli arrivi, nonostante la guerra, degli aerei carichi di ebrei russi in cerca della terra promessa. Ricordo anche le serrande abbassate nei negozi del quartiere arabo di Gerusalemme e la paura negli occhi del negoziante palestinese che, dovendo sfamare la famiglia. cercava di vendermi qualche oggetto, rischiando la vendetta dei miliziani di Hamas che imponeva con le armi il coprifuoco e l'Intifada. I morti che addebitavano agli israeliani a volte erano infatti solo commercianti, che per aver venduto qualche cosa erano accusati di collaborazionismo.
   Da allora, dopo quello che ho visto e soprattutto dopo aver toccato con mano la faziosità di gran parte della stampa italiana sul conflitto arabo-israeliano, sto dalla parte di Israele, senza se e senza ma.
   Certo, non sono mai andato a braccetto degli Hezbollah, cioè degli esponenti di un movimento terroristico libanese, come certi ministri degli Esteri della sinistra tipo Massimo D'Alema, il quale non si fece scrupolo di dimostrare la vicinanza a un gruppo che spesso e volentieri aveva tirato missili su Israele. Tutto ciò per dire che non sono certo sospettabile di antisemitismo, di fascismo (non ho mai nutrito nostalgia per il Ventennio) e neppure di tutti quei sentimenti che si nutrono di discriminazione. Ho anche grande rispetto per la tragedia di Liliana Segre, che fu deportata insieme alla famiglia ad Auschwitz, vivendo sulla propria pelle e su quella dei propri cari la Shoah. Nessuno che abbia visitato - e io l'ho fatto due volte - Yad Vashem, ossia il memoriale dell'Olocausto, può non averlo. Dunque sono lieto che Liliana Segre sia stata nominata senatore a vita, perché penso che sia un parzialissimo risarcimento per le leggi razziali del 1938. E mi fa orrore che qualcuno. sui social o altrove, la insulti o la offenda.
   Ciò premesso, non posso però non dire che la commissione che si è voluto istituire in Parlamento per indagare sui fenomeni di discriminazione serve solo a strumentalizzare la storia della senatrice Segre ai fini di una lotta politica.
   In Italia esiste dagli anni Cinquanta una legge che punisce chiunque provi a ricostituire il partito fascista e spesso la magistratura è chiamata a giudicare atteggiamenti o movimenti ritenuti fascisti. Dal 1993 è in vigore la legge Mancino, dal nome dell'ex ministro dell'Interno ed ex presidente del Senato. che non solo ribadisce il divieto di costituire movimenti che si ispirino al fascismo, ma sanziona penalmente chiunque discrimini le persone in base alla razza o alla religione. E anche in questo caso il giudizio è rimesso alla magistratura.
   Dunque, diciamo che se c'è un nazista o un fascista in circolazione e se questo nazista o fascista minaccia la sicurezza di un ebreo (ma anche di un musulmano o di un valdese) il nostro codice può essere tranquillamente applicato. Perciò non si capisce a che cosa serva una commissione d'inchiesta con i poteri della magistratura. La legge c'è e chi la viola può essere condannato. Per quale ragione dunque un gruppo di persone in Parlamento dovrebbe indagare sulle discriminazioni sovrapponendosi all'azione delle Procure? Serve alla lotta politica, in particolare a qualcuno che intende usare l'arma della commissione per convocare, interrogare e semmai censurare le persone che su certi argomenti non hanno un pensiero politicamente corretto. In parole povere, serve a dire che in Italia si rischia il ritorno del fascismo e del nazismo, che chi critica l'immigrazione dissennata discrimina le persone in base al colore della pelle o della religione. che l'Italia è un Paese sostanzialmente xenofobo, islamofobo, segregazionista e razzista. Non importa che le indagini demoscopiche dicano il contrario e neppure che le elezioni ogni volta smentiscano questa tesi (perché i cosiddetti movimenti di estrema destra, alle elezioni prendono sempre lo «zero virgola»). Non importa neppure che si lancino allarmi che non hanno alcun fondamento, come i numeri delle minacce quotidiane contro Liliana Segre e gli ebrei italiani, passati sulle pagine di Repubblica da 200 l'anno - come sono - a 200 al giorno, con il risultato di gonfiare il fenomeno e di accreditare a mezzo stampa una falsità.
   L'antisemitismo non c'è, ma bisogna continuare a evocarlo, perché altrimenti gli antifascisti in servizio permanente effettivo non saprebbero più cosa fare. E da disoccupati, senza la mission di difendere la democrazia dalle squadracce nere, si troverebbero all'improvviso a doversi cercare un lavoro e una professione. Dunque a noi tocca il fascismo latente, che non c'è, ma è addormentato e sul punto di risvegliarsi appena se ne presenterà l'occasione. Anzi, è già sulla rampa di lancio delle strumentalizzazioni, pronto a essere utilizzato al bisogno. Perché a questo serve la commissione. Non ad aiutare gli ebrei italiani a difendere la propria storia e la propria identità e a rammentare lo sterminio. Serve a colpire qualcuno che non la pensa come il pensiero dominante. Risultato, con la commissione ci attende un fiume di melassa, anzi un fiume di retorica. Come se non ci bastasse quella del fascismo, ci tocca pure quella dell'antifascismo. Anzi, quella dell'antirazzismo. Perché la commissione vuole arrivare a impedire di parlare degli immigrati, accolti dalla sinistra come nuovi italiani, ma anche come nuovi schiavi a basso costo. lo sto con Israele e con gli ebrei, non con chi usa l'antisemitismo per impedire di parlare di immigrazione, paragonando le leggi razziali al decreto sicurezza, i barconi affondati all'Olocausto. lo sto con Israele e gli ebrei, non con chi banalizza a fini politici la Shoah.

(Panorama, 20 novembre 2019)


Festeggiati i 70 anni di rav Riccardo Di Segni

di Luca Spizzichino

 
Nel rispetto della tradizione ebraica che vede nello studio della Torà la massima espressione umana, il rabbino capo della Comunità di Roma, Rav Riccardo Di Segni, ha voluto festeggiare il suo settantesimo compleanno, con una lezione su "Le aggadòt del Talmud e una storia ebraica romana del '600 dimenticata".
Ad assistere alla lezione, e a festeggiare Rav Di Segni, una sala gremita del Pitigliani, tra cui i vertici dell'ebraismo romano e italiano. Ad accogliere il Rav, il Presidente della Comunità Ebraica Ruth Dureghello e il presidente de Il Pitigliani Bruno Sed, che dopo dei brevi discorsi hanno augurato, come da tradizione di arrivare a 120 anni.
Non sono mancate le sorprese in questa felice serata in compagnia della propria comunità, con i bambini della Scuola Elementare Vittorio Polacco che hanno cantato al Capo Rabbino buon compleanno, ovviamente in ebraico, con altre canzoni diretti dal Morè Josy Anticoli.
La lezione di Rav Di Segni ha avuto per tema le Aggadot (אגדות) all'interno del Talmud, ovvero quell'insieme di racconti che si possono trovare all'interno dei trattati, ma "queste Aggadot - come ha spiegato - hanno un'importante problematica, la loro interpretazione", infatti per capire fino in fondo questi racconti, "abbiamo bisogno dei commenti dei nostri Maestri". Navigare nella vastità di racconti e di commenti, fino a poco tempo fa risultava difficile, ma grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche tutto è diventato più semplice, grazie all'avvento di siti come Halachà Brurà. Un sito il cui progetto di sviluppo - ha osservato Rav Di Segni - è basato su un libro, l'"Asaf HaMazkir" che proviene da Roma e il cui autore era un certo Zekaria MiPorto, rabbino, vissuto a Urbino e a Firenze. Partendo da quest'opera, Rav Di Segni ha quindi spiegato un brano del Trattato di Kiddushin, parte del Talmud che parla del vincolo matrimoniale e delle sue regole.
La lezione si è conclusa con un brindisi e con il consueto taglio della torta. Mazal tov rav Di Segni.

(Shalom, 20 novembre 2019)


Un momento decisivo (e preoccupante) della storia di Israele

di Ugo Volli

Il sistema politico israeliano è a una svolta, comunque vadano le cose. Mercoledì scadranno i termini di legge per l'incarico di formare il governo a Gantz, dopo il fallimento del primo tentativo di Netanyahu. A questo punto per la legge israeliana il presidente Rivlin non potrà dare altri incarichi, ma vi sarà un periodo in cui qualunque deputato potrà cercare di formare il governo, portando al presidente le firme di una maggioranza di deputati (almeno 61 su 120) che dichiarino di sostenerlo: una procedura mai realizzata nella storia di Israele. Se nessuno ci riesce, si torna alle elezioni, la terza tornata in un anno.
   I dati parlamentari sono questi. Vi è un blocco di centrodestra col Likud, i nazionalisti e i religiosi che appoggia Netanyahu ed ha 55 seggi; un blocco di centrosinistra che appoggia Gantz con Bianco-azzurri, laburisti ed estrema sinistra, che conta 44 seggi. I partiti arabi riuniti ne hanno 12, il partito ideologicamente di destra ma contrario a Netanyahu e ai compromessi coi religiosi, Israel Beitenu, presieduto da Liberman, che ne ha 9. Gantz è disposto ad allearsi col Likud e a cedere a Netanyahu il primo turno di un premierato in alternanza solo se rinuncia all'alleanza con gli altri partiti del suo blocco, che per Netanyahu sarebbe un suicidio. Dunque una "grande coalizione" è impossibile. Restano solo tre soluzioni: le elezioni, un governo di centrodestra con il ritorno di Lieberman che avrebbe 64 voti, un governo di minoranza di Gantz con l'appoggio degli arabi (56 voti) e l'astensione di Lieberman. Non sarebbe possibile invece l'inverso, l'appoggio di Lieberman e l'astensione degli arabi, che porterebbe il governo a 53 voti, contro i 55 del centrodestra (ma potrebbe esserci una via di mezzo, col voto di alcune fazioni della lista araba e l'astensione di altre e anche di Lieberman). Sembra impossibile poi che arabi e Lieberman votino entrambi a favore dello stesso governo.
   In sostanza dunque, a parte le nuove elezioni, si sta fra la riproposizione di un governo di destra, che ha una netta maggioranza di consenso elettorale, e un governo minoritario, in cui l'appoggio dei partiti arabi sarebbe decisivo. E a parte la mancanza di una maggioranza, che è consentita dai meccanismi legali, ma politicamente non è certo il segnale per un buon lavoro o per un consenso democratico sostanziale nel paese, la presenza determinante dei partiti arabi è un problema, agli occhi dell'opinione pubblica e molto concretamente per la sicurezza di Israele. Non certo per ragioni etniche o religiose: vi sono stati ministri arabi e musulmani, come vi sono giudici della corte suprema, sindaci, ecc. ecc. e nessuno ha obiettato alla loro presenza. Il problema è che questi ministri non erano stati eletti nell'ambito dei partiti che sono alleati nella lista con cui Gantz sta cercando di accordarsi per il governo.
   Questi partiti sono tutti antisionisti, contrari alla definizione di Israele come stato ebraico, alcuni fra essi strettamente, organicamente legati ai terroristi di Fatah e di Hamas. Alcuni dei loro leader sono stati in passato condannati per spionaggio o complicità col terrorismo, sono fuggiti dal paese o si sono dimessi dal Parlamento per questo. Com'è possibile renderli determinanti per il governo di un paese minacciato, assediato e colpito da un terrorismo che essi assolvono, e spesso appoggiano attivamente. Come avrebbe potuto un governo così composto fare anche l'operazione antiterrorismo a Gaza della settimana scorsa, per non parlare dell'eventualità di guerre più gravi?
   La prospettiva di un governo israeliano guidato sì da un gruppo di generali, ma ostaggio di partiti vicini al terrorismo è molto inquietante; è il frutto di un lungo lavoro per cercare di rovesciare in parlamento la maggioranza di centrodestra che è chiara nel paese e di delegittimare a ogni costo Netanyahu. Questo è il momento in cui tale lavoro, che risale almeno ai tempi di Obama, potrebbe realizzarsi, provocando fra l'altro una divisione estremamente aspra nella società israeliana. Chiunque ami Israele non può che essere in ansia per le sorti dello Stato ebraico, già minacciato dall'offensiva esterna dell'Iran.

(Progetto Dreyfus, 19 novembre 2019)


Kasher, biologico, Vegan… E se si trattasse solo di marchi commerciali?

Filosofia della Kashrut ai tempi dell'ossessione (consumistica?) della dieta perfetta

di Haim Fabrizio Cipriani*

 
Perché è importante mangiare Kasher? E perché oggi gli alimenti con questo marchio sono ritenuti "più sani" di altri? Che rapporto c'è tra le norme alimentari ebraiche e il mantenimento della buona salute? E ancora, in un momento storico in cui la questione del benessere personale comincia proprio a tavola, dove si colloca la Kashrut? Ne abbiamo parlato con Rav Haim Fabrizio Cipriani, che precisa subito: "La Kashrut ha costituito nella storia ebraica un efficace mezzo di separazione fra Ebrei e Gentili. La modernità ha offerto ai primi come ai secondi la possibilità di vivere in un mondo più aperto, in cui le energie e le culture possono conoscersi e confrontarsi, con enorme vantaggio per tutti. Se da un lato l'ebreo moderno deve tenere presente il rischio reale di assimilazione, dall'altro è importante cercare un cammino equilibrato. Conservare questo codice comportamentale che rafforza l'identità, evitando estremismi che esprimano un rifiuto di integrazione e mostrino una visione ostile del mondo non ebraico, è senza dubbio difficile. In ogni caso, la scelta di mangiare Kasher oggi non potrebbe che essere libera, perché la vita ebraica stessa costituisce oggigiorno, in un mondo libero ed aperto, una scelta". Queste le premesse al pensiero di Rav Cipriani, raccolto nel testo che segue.
  La questione del rapporto fra Kashrut e salute è molto antica. Già nel Medioevo M. Maimonide [XIII sec.], che era medico oltre che rabbino, reputava che in origine le regole alimentari fossero radicate in principi di tipo salutistico e igienico. I. Abravanel [V sec.] invece pensava che leggere queste prescrizioni in tal senso significasse ridurre la Torà a un piccolo manuale medico. Senza contare che, come Abravanel fa notare, questo implicherebbe che i non ebrei, i quali consumano tutti i cibi proibiti, dovrebbero avere un livello di salute decisamente inferiore, cosa che già all'epoca appariva evidentemente falsa.
  Anche in epoche più moderne, con una maggiore conoscenza del funzionamento del corpo umano, si è tentato di leggere le norme alimentari in questo senso. Alcuni hanno fatto notare che la combinazione fra latticini e altri alimenti potrebbe creare difficoltà all'organismo perché il nostro stomaco digerisce le diverse tipologie di alimenti con ritmi propri; nel caso di carne e latte, che la Torà proibisce di consumare congiuntamente, si tratta di cibi molto proteinici che potrebbero dare un apporto nutritivo squilibrato. Ma io ritengo, con Abravanel, che questo non sia il punto. Nella mia visione l'idea fondamentale della Kashrut è quella del limite, ossia del fatto di permettere una soddisfazione degli appetiti degli essere umani, ma solo attraverso prudenza, analisi, e mediazione fra le pulsioni e gli atti che vanno a soddisfarle. Quando si parla di Kashrut ci si riferisce quindi a una pedagogia, il cui fine è quello di canalizzare le pulsioni dell'individuo. In tal senso è importante ricordare che la Kashrut non solo è un insieme di norme. Essa nasce dalla necessità di avere un rapporto equilibrato ed etico con l'appetito, e in senso più generale con ogni tipo di appetito.
  Oggi la salute alimentare occupa un posto di rilievo, e questo ha generato diverse ortoressie alimentari (cioè modalità di alimentazione considerate "corrette"): quella del "senza" (senza zucchero, uova, latte…), quella vegana, quella rigorosamente biologica, ecc. Analogamente alla Kashrut, questi sistemi pongono il problema della necessità di mangiare responsabilmente, e in tal senso da un punto di vista ebraico essi non possono che essere visti positivamente, sottolineando anche l'importanza di un rapporto di rispetto nei riguardi della natura e degli animali. Una posizione particolare è quella della dieta vegetariana e vegana, che in alcuni ambienti ebraici è osteggiata perché tradizionalmente viene considerato importante consumare carne nei momenti di festa. Ma si tratta di una concezione legata ad epoche di povertà in cui la carne era segno di ricchezza, e varie fonti rabbiniche ritengono che il vino possa svolgere la stessa funzione.
  Nel contesto attuale di ricerca e riflessione sull'alimentazione, la Kashrut riveste senza dubbio un ruolo importante perché costituisce una presa di coscienza alimentare, che richiede riflessione e quindi lentezza. Non a caso, prevede di recitare le benedizioni prima di consumare qualsiasi cibo. Queste benedizioni non sono standard, ma evocano l'origine dei vari generi alimentari (frutti della terra, dell'albero, ecc…), obbligandoci a mantenere un legame con questa e il modo con cui i vari alimenti sono giunti a noi.
  Senza questa visione etica, la Kashrut, come altre ortoressie, rischiano di essere alimentate da logiche strettamente commerciali e di mercato. Il marchio Kasher tende a imporsi anche tra i non ebrei come garanzia di qualità, insieme a quello biologico. Molti ritengono che sia una garanzia di qualità e sicurezza, di conseguenza che i prodotti a marchio Kasher facciano meglio di altri. In una certa misura, è vero: i cibi Kasher sono sottoposti a rigide regole in base alle quali vengono prodotti e a ispezioni e controlli approfonditi per essere certificati. Ma in realtà spesso i prodotti Kasher sono ricchi di additivi chimici, usati per sostituirne altri considerati potenzialmente problematici. Anche nei confronti della carne Kasher vi è spesso una presunzione di maggiore qualità. In realtà gli animali macellati sono gli stessi, allevati nello stesso modo degli altri, ed è solo il metodo di macellazione a cambiare. A mio avviso, per ora non si è riusciti a combinare l'idea di Kashrut con una visione più olistica della cura dell'ambiente e delle persone. Io cerco e sogno da tempo di realizzare un progetto in tal senso.

* Haim Fabrizio Cipriani svolge il suo ministero rabbinico nelle comunità francesi di Marsiglia e Montpellier, e in Italia presso la comunità Etz Haim. In parallelo svolge un'intensa attività internazionale di violinista concertista e di autore di saggi a tema ebraico.

(JoiMag, 20 novembre 2019)




Savio è colui che vede la realtà come essa è, che vede le cose nella loro profondità. Savio perciò è soltanto colui che vede le cose in Dio. Comprendere la realtà è tutt'altra cosa che conoscere i fatti esteriori: significa piuttosto discernere l'essenza delle cose. L'uomo meglio informato non è il più savio, anzi, per la molteplicità delle sue informazioni rischia di misconoscere l'essenziale.
Dietrich Bonhoeffer

 


Gantz pronto a cedere a Netanyahu: premier a rotazione

Blu e Bianco e' pronto ad accettare la proposta per formare un governo di unita' nazionale avanzata dal presidente israeliano Reuven Rivlin

Blu e Bianco e' pronto ad accettare la proposta per formare un governo di unita' nazionale avanzata dal presidente israeliano Reuven Rivlin che prevede Benjamin Netanyahu come primo premier a rotazione, con l'assicurazione che prendera' un congedo a tempo indeterminato in caso di incriminazione per corruzione. Lo scrive Yedioth Ahronoth mentre si moltiplicano gli sforzi del leader del partito centrista, Benny Gantz, per mettere insieme i numeri per formare un esecutivo in vista della scadenza di domani sera a mezzanotte per presentarlo.
Gantz e Netanyahu si incontreranno stasera alle 22, ora locale. Intanto Rivlin ha cominciato un nuovo round di colloqui con i leader dei partiti, a cominciare da Rafi Peretz del Focolare ebraico; seguiranno nel pomeriggio Nitzan Horowitz del Campo Demoratico, e per concludere Netanyahu a nome del Likud. Il giro di incontri terminera' domani con i leader dei partiti religiosi e con il ministro della Difesa, Naftali Bennett, de La Nuova Destra.

(Affaritaliani.it, 19 novembre 2019)


Israele, sventato attacco con missili dalla Siria

La radio militare dell'esercito israeliano definisce l'attacco «molto grave» ed è prevedibile una reazione da parte delle forze di Gerusalemme. La stessa radio militare ha precisato che verso le ore 5 locali (le 4 in Italia) quattro razzi sono stati lanciati in direzione del monte Hermon sulla alture del Golan, e intercettati in volo
Il sistema di difesa Iron Dome ha sventato stamane un attacco lanciato dalla Siria verso le alture del Golan. Secondo il portavoce militare israeliano ci sono stati quattro lanci (di razzi o di missili) i quali sono stati intercettati in cielo. Secondo la radio militare non ci sono vittime. Gli abitanti della zona sono nei rifugi.
Nel frattempo la vita nelle alture del Golan è tornata alla normalità. Secondo la emittente è possibile che questo episodio vada inserito negli sforzi attribuiti da Israele all'Iran di destabilizzare il suo confine settentrionale, anche mediante le milizie sciite attive nella zona.
In merito a notizie giunte dalla Siria relative ad esplosioni avvertite presso l'aeroporto di Damasco, la radio militare ha precisato che la scorsa notte Israele non ha condotto alcun attacco in Siria.

(Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2019)


"Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono legittimi"

Svolta di Washington, il segretario di Stato Pompeo replica alla Ue: "Negarlo non aiuta la pace". Bruxelles: "Per noi restano illegali".

di Giordano Stabile

Il segretario di Stato americano Mike Pompeo difende gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, in una mossa che secondo Washington ridarà «spazio alle trattative con i palestinesi» ma che suscita subito reazioni negative nel mondo arabo. Pompeo ha precisato che gli insediamenti «non sono contro la legge internazionale» e il loro status finale sarà deciso nei colloqui di pace.
   Non è ancora un riconoscimento della sovranità israeliana, come aveva fatto il presidente Donald Trump ad aprile riguardo le Alture del Golan. Ma la presa di posizione è una spinta importante verso un futuro, possibile inglobamento nello Stato ebraico. Ed è una svolta a 180 gradi nella politica statunitense che dal 1978, in base a un rapporto legale del dipartimento di Stato, definiva gli insediamenti «in contrasto con la legge internazionale».
   Secondo Pompeo dichiarare fuorilegge gli insediamenti «non ha fatto avanzare la causa della pace», non ha «funzionato» ed è molto meglio «riconoscere la realtà sul terreno». La svolta si inserisce in due contesti. Uno, immediato, è la risposta alla decisione dell'Unione europea di imporre etichette diverse ai prodotti degli insediamenti rispetto a quelli israeliani. Non potranno essere più definiti «made in Israel». La decisione di Strasburgo segna un punto a favore dei palestinesi. La dichiarazione Usa ne ridimensiona la portata. Il secondo contesto si lega alle trattative di pace.

 Il piano di pace Usa
  Il piano americano, «l'accordo del secolo» promesso da Trump, si è perso nei meandri mediorientali. Ma un passo decisivo in quel senso è l'accettazione nel mondo arabo dell'annessione di Gerusalemme Est e di parte della Cisgiordania. La nuova posizione di Washington ricalca quella israeliana, che considera gli insediamenti non illegali ma parte dei «territori disputati», il cui status finale sarà stabilito appunto da un trattato di pace. Le prime reazioni arabe sono state negative. Il presidente palestinese Abu Mazen ha ribattuto che la scelta americana «è in totale contraddizione con la legge internazionale». Il ministro degli esteri giordano Ayman Safadi ha denunciato il rischio di «pericolose conseguenze». Quanto a Bruxelles, l'Alto rappresentante Federica Mogherini ha ripetuto che "La nostra posizione sulla politica di insediamento israeliana nel territorio palestinese occupato è chiara e rimane invariata. Le attività di insediamento sono illegali ai sensi del diritto internazionale". Pompeo ha in qualche modo messo in conto tutto. Anche perché è arrivato subito il plauso del governo israeliano che ha sottolineato come la decisione degli Usa «corregge un errore storico e riflette una verità storica» e cioè che gli abitanti degli insediamenti «non sono coloni stranieri in Giudea e Samaria: in realtà si chiamano ebrei (giudei) proprio perché sono originari della Giudea».

 L'aiuto a Netanyahu
  Ed è questo il terzo contesto: la decisione degli Usa dà una mano a Netanyahu. Domenica il premier uscente ha convocato il suo partito, il Likud, dopo una nota dell'Intelligence aveva dato per probabile la formazione di un governo di minoranza guidato da Gantz, con l'appoggio esterno dei partiti arabi. Ieri l'ipotesi s'è allontanata, per le resistenze di Lieberman, e si sono avvicinate le terze elezioni anticipate.

(La Stampa, 19 novembre 2019)


Boom dell’economia israeliana: pil +4,1% nel terzo trimestre 2019

Il prodotto interno lordo di Israele è aumentato del 4,1 per cento su base annua nel terzo trimestre del 2019, secondo un rapporto pubblicato domenica dall'Ufficio Centrale di Statistica dello Stato. Si tratta di un aumento relativamente elevato del ritmo di crescita di Israele, dopo un moderato aumento dello 0,8% nel secondo trimestre. I dati mostrano un aumento del 2,8% dei consumi privati nel terzo trimestre, e un leggero aumento dello 0,8% dei consumi privati pro capite, a fronte di una diminuzione del 2,5% nel secondo trimestre. Il Pil pro capite israeliano è aumentato del 2,1% nel terzo trimestre, dopo un calo dello 0,9% nel periodo aprile-giugno. L'aumento della crescita è stato influenzato principalmente dall'aumento degli acquisti di veicoli e dalle spese del governo israeliano. I dati mostrano anche che le importazioni israeliane di beni e servizi sono aumentate dell'1,9% nel terzo trimestre di quest'anno, dopo un aumento del 2,5% nel secondo trimestre. D'altra parte, le esportazioni totali di beni e servizi israeliani sono diminuite dell'8,4% nel terzo trimestre, dopo un aumento del 2,9% nel secondo trimestre.

(Adnkronos, 19 novembre 2019)I SU:


Il problema non sono gli insediamenti in Giudea e Samaria, ma "l'uomo di Ramallah"

Ma davvero qualcuno può credere che pochi insediamenti con qualche migliaia di abitanti mettono in pericolo la soluzione del conflitto arabo-israeliano?

Fa molto piacere, anche a un "non amante" di Trump come il sottoscritto, che finalmente il Dipartimento di Stato americano abbia detto di voler cancellare quella vergognosa dichiarazione del 1978 secondo la quale gli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria erano incompatibili con il Diritto Internazionale.
Pur non essendo un estimatore di Trump gli va dato atto di aver posto la questione palestinese nell'alveo che gli compete, quello cioè delle questioni secondarie, quasi irrilevante rispetto ad altre più impellenti.
La diatriba tra Israele e arabi cosiddetti "palestinesi" si trascina ormai da troppo tempo ed ha alimentato un giro di puro business e di speculazioni politiche che fino ad oggi hanno ottenuto come unico risultato quello di allontanare qualsiasi soluzione del conflitto.
Non starò a ripetere quante volte i palestinesi hanno avuto l'opportunità di creare un loro Stato, non starò nemmeno a ricordare il mare di denaro sparito nei conti dei leader palestinesi nel corso di questi anni, di come mentre la popolazione araba vive in miseria i leader palestinesi si sono alzati lo stipendio (già elevatissimo) del 67%. Sono cose che si sanno e non c'è bisogno di ricordarle.
«Chiamare la creazione di insediamenti civili incompatibili con il diritto internazionale non ha fatto avanzare la causa della pace»
Lo ha detto Mike Pompeo evidenziando come la vicenda degli insediamenti, per altro tutt'altro che illegali, altro non sia che l'ennesima scusa per non cambiare nulla.
Ed è questo il vero punto della questione. Tutte le mosse fatte fino ad ora dall'Amministrazione Trump puntano a dimostrare che la cosiddetta "questione palestinese" è solo un enorme meccanismo estorsivo, un meccanismo per altro ormai vetusto che con il cambiamento delle politiche in Medio Oriente è diventato un peso enorme anche per gli stessi Paesi arabi che lo avevano creato.
Ho letto decine di post, da ambo le parti, che rivendicano le proprie ragioni sulla legittimità o illegittimità degli insediamenti in Giudea e Samaria dopo l'importante presa di posizione della Amministrazione Trump.
Non serve a niente, mettetevi il cuore in pace. Il problema non sono gli insediamenti israeliani, il problema è il regime di Ramallah che non intende rinunciare all'enorme business che rappresenta la questione palestinese e si aggrappa a tutto pur di rimanere in sella.
L'uomo di Ramallah e la donna di Bruxelles
Stupisce piuttosto che chi dovrebbe rappresentare la parte che tutela i Diritti degli arabi, dalla UE fino all'ultimo degli attivisti pro-pal, continui a reggere il gioco a un dittatore spietato come Mahmud Abbas (alias Abu Mazen), uno che è al potere senza nessuna elezione (salvo la prima) dal 2005, quindi da 14 anni, quando il suo mandato scadeva nel 2009.
A leggere le dichiarazioni rilasciate dalla solita Federica Mogherini o da altri "illustri" personaggi palestinisti sembrerebbe che la decisione annunciata dall'Amministrazione Trump sia invece una coltellata al processo di pace (quale?) o, nella migliore delle ipotesi, un regalo a Netanyahu.
Ma come è possibile che a questa gente non passi per la testa che il vero problema è l'uomo di Ramallah che non si schioda e rifiuta di tutto e non i legittimi insediamenti in Giudea e Samaria?
Che poi, davvero qualcuno può credere che pochi insediamenti con qualche migliaia di abitanti mettono in pericolo la soluzione del conflitto arabo-israeliano?
Se lo si vuole credere, liberissimi di farlo. Ma così non si fa un buon lavoro per quella pace che tutti, a parole, bramano.
Se non si parte dalla testa del problema, se non si affronta una volta per tutte la questione della leadership arabo-palestinese, si continuerà all'infinito a girare attorno al vero problema.
Lo ha capito benissimo Trump e si è comportato di conseguenza. Cosa manca al resto dell'occidente, Europa in testa, per capirlo?

(Rights Reporters, 19 novembre 2019)


Israele nel mirino del disumanitarismo

Il Jihad lo bombarda, l'Iran vuole eliminarlo, l'Onu (con l'Italia) vota otto risoluzioni contro. Israele nel mirino

di Giulio Meotti

ROMA - La settimana scorsa il Jihad islamico palestinese ha usato contro Israele un nuovo missile con una testata da 300 chili. Citando fonti di intelligence, Channel 12 ha rivelato che il missile, che ha lasciato un cratere di sedici metri nel sud dello stato ebraico, è stato sviluppato "con l'aiuto di ingegneri iraniani". Il rapporto afferma che il Jihad islamico è riuscito a superare le capacità del gruppo terroristico di Hamas, dotandosi di missili simili a quelli di Hezbollah in Libano. Nelle stesse ore, la Guida suprema iraniana Ali Khamenei tornava a minacciare lo stato ebraico di annientamento: "La distruzione di Israele significa la distruzione di quel regime e di criminali come Netanyahu, non degli ebrei". Mentre il braccio armato dell'Iran a Gaza lanciava 450 missili su Israele e il leader della Rivoluzione islamica iraniana parlava di "distruggere Israele", le Nazioni Unite orchestravano il più intenso attacco diplomatico contro Gerusalemme. Dopo la pioggia di missili, quella delle risoluzioni (la settimana scorsa la Corte di giustizia della UE aveva deciso anche per la marchiatura delle merci israeliane dai territori contesi, caso unico). Venerdì, la quarta commissione dell'Assemblea generale dell'Onu votava ben otto mozioni contro Israele. In nessuna si parla del Jihad islamico palestinese. Si va dalle "azioni israeliane che sconvolgono i diritti umani palestinesi" agli "insediamenti israeliani", passando per la "Gerusalemme occupata" e il "Golan siriano occupato". "La quarta commissione Onu ha appena adottato otto risoluzioni che colpiscono Israele, sono scoraggiata da questo assalto alla pace e da molti alleati degli Stati Uniti", ha commentato l'ambasciatrice americana all'Onu, Kelly Craft. A parte gli Stati Uniti, tra i grandi paesi occidentali soltanto Canada e Australia hanno votato contro le otto risoluzioni anti israeliane. Anche l'Italia ha votato a favore di tutte le risoluzioni dell'Onu volute dal blocco dei paesi islamici.
   Dopo l'Onu, le ong, Amnesty International ha accusato Israele di aver bombardato l'ufficio di un'organizzazione palestinese per i diritti umani, quando l'incidente aveva in realtà coinvolto un missile del Jihad islamico. "Condanniamo fermamente l'attacco alla Commissione indipendente palestinese per i diritti umani il cui ufficio a Gaza è stato colpito da un missile israeliano questa mattina", aveva detto Amnesty, Trey Yingst, corrispondente di Fox News e testimone dell'incidente, ha risposto: "Israele non ha colpito l'edificio. E' stato un razzo da Gaza. Ero dall'altra parte della strada quando è successo". L'affermazione di Amnesty è stata smentita anche da un rapporto del quotidiano israeliano Haaretz a firma di Amira Hass, una famosa giornalista filo-palestinese. I responsabili, ha detto, erano "certamente membri del Jihad islamico".
   E sull'Iran che ha appena ucciso dieci manifestanti e ne ha arrestati mille, quante risoluzioni ha approvato l'Onu? Zero. E quante le risoluzioni sulla Cina, che continua a brutalizzare Hong Kong e a "rieducare" musulmani nello Xinjiang? Sempre zero. Anzi, al Consiglio dei diritti umani di Ginevra, 95 paesi su 111 hanno appena elogiato l'Iran sui diritti umani. Zero è anche la credibilità delle Nazioni Unite e dell'Unione europea, che votano ormai compatte contro il capro espiatorio ebraico nei palazzi dell'umanitarismo.

(Il Foglio, 19 novembre 2019)


"La distruzione di Israele significa la distruzione di quel regime e di criminali come Netanyahu, non degli ebrei", dice la guida suprema iraniana Ali Khamenei. E’ la stessa distinzione tra “quel regime” e gli ebrei fatta dall’assessora alla cultura di Napoli Eleonora De Majo. Ormai è chiaro: la linea di difesa per chi si sente accusato di antisemitismo sarà questa: gli ebrei sono una cosa, Israele è un’altra. E prima o poi l’ONU arriverà a stabilire, una volta per tutte, che “distruggere Israele non è antisemitismo”. Anzi, con riferimento ai poveri palestinesi liberati dalle crudeltà del mostro israeliano, sarà un avanzamento nella linea dell’umanitarismo internazionale. M.C.


La Corte di Giustizia UE contro Israele: un verdetto scontato e prevedibile
      Articolo OTTIMO!


di Niram Ferretti

Il verdetto della Corte di Giustizia Europea emesso il 12 novembre, secondo il quale i prodotti provenienti dai cosiddetti "territori occupati" israeliani devono essere etichettati come tali, non può giungere, e infatti non giunge come una sorpresa. Lo evidenzia con sfrontata franchezza la portavoce dell'ambasciata della Unione Europea a Ramat Gan, in Israele, quando afferma che la decisione della corte recepisce la "nota interpretativa" della Commissione Europea del 2015 la quale, per la prima volta, affermava la necessità di etichettare i prodotti provenienti dagli insediamenti. D'altronde, è sempre la portavoce a ribadirlo:
"La Ue ha una consolidata e ben nota posizione, essa non riconosce alcun mutamento ai confini israeliani pre-1967, se non quelli pattuiti dalle parti in causa nel conflitto israeliano-palestinese. La UE considera gli insediamenti nei territori occupati, illegali sotto la legge internazionale".
E' di fatto la posizione espressa dall'ONU e fondata sulla mistificazione della realtà, apertamente contestata da Israele e da insigni giuristi, ma non per questo ormai determinata. Non esistono, infatti, "confini" di Israele pre-1968, ma unicamente line armistiziali convenute tra le parti dopo la guerra del 1948-49, così come non può essere illegale la presenza ebraica nella cosiddetta Cisgiordania sulla base del testo mai abrogato del Mandato Britannico per la Palestina del 1922, secondo il quale, agli ebrei veniva concessa piena disponibilità di insediarsi ovunque nei territori a occidente del fiume Giordano.
   Non solo Israele ha il pieno diritto a trovarsi dove si trova, ma esso non "occupa" assolutamente nulla se per "occupazione" si intende la presa di possesso di una proprietà o di un territorio altrui, visto che i territori della cosiddetta Cisgiordania non hanno legalmente alcun detentore sovrano, e che Israele ha, sulla base del Mandato Britannico per la Palestina, una ben legittima rivendicazione su di essi. Non solo, gli Accordi di Oslo del 1993-1995 stabiliscono che la presenza israeliana nei territori "occupati", nello specifico nell'Area B e C, sia dettagliatamente disciplinata dagli Accordi medesimi e riconosciuta come tale dall'Autorità Palestinese. Il "Diritto internazionale" invocato dalla portavoce della Unione Europea in Israele si fonda interamente su risoluzioni ONU venute in essere soprattutto in virtù della schiacciante predominanza dei paesi arabi e musulmani all'interno del Palazzo di Vetro, le quali non hanno alcuna autorevolezza giuridica vincolante.
   Il verdetto della Corte di Giustizia UE, emesso a seguito della richiesta da parte della casa vinicola israeliana Psagot (che prende il nome dell'insediamento omonimo nella cosiddetta Cisgiordania), di esprimersi su un precedente verdetto emesso da una corte francese nel 2016, secondo cui i prodotti israeliani provenienti dalla cosiddetta Cisgiordania, Gerusalemme Est e le Alture del Golan, andavano etichettati, non poteva essere diverso. E non poteva esserlo per le ragioni esposte dalla portavoce della UE in Israele. L'Unione Europea considera illegali gli insediamenti e si esprime conseguentemente secondo questo assunto giuridicamente fraudolento.
   Motivo per il quale, alcuni funzionari del governo coperti da anonimato avendo previsto anticipatamente lo scontato esito del verdetto e le sue dirette conseguenze, ritenevano che fosse opportuno che la casa vinicola abbandonasse la sua battaglia legale. Uno di questi funzionari, in una dichiarazione rilasciata al quotidiano online The Times of Israel, prima della formulazione del verdetto, aveva dichiarato:
"Il margine di manovra dei paesi europei diminuirà dopo il verdetto. Coloro i quali cercano di delegittimare Israele potranno usare questo verdetto sia sul piano legale sia nei termini della percezione pubblica".
L'etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dai territori considerati "occupati" è dunque una logica conseguenza della delegittimazione di Israele sul piano internazionale che inizia con la vittoria dello Stato ebraico nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 e prosegue ancora oggi. E' infatti dal momento in cui Israele viene considerato forza occupante all'interno di territori catturati a un nemico che voleva annientarlo, territori che le disposizioni del Mandato Britannico per la Palestina gli assegnava, e dai quali vennero cacciati dagli arabi nella guerra del 1948, che discende tutto il resto, non ultima la decisione discriminatoria e politicamente orientata della Corte di Giustizia della UE.

(Progetto Dreyfus, 18 novembre 2019)



II vero antisemitismo è quello islamico

Dilaga nel mondo l'ostilità dei musulmani verso gli ebrei con attentati e omicidi firmati dagli integralisti. E i giudici chiudono gli occhi davanti alle intolleranze.

di Patrizia Roder Reitter

 
L'antisemitismo riempie le pagine dei giornali, a cominciare da quelli, come Repubblica, che ci hanno costruito su la bufala dei 200 insulti al giorno a Liliana Segre. E ha impegnato il Parlamento in una disputa sulla commissione «anti odio» che porta proprio il nome della senatrice, vittima delle persecuzioni nazifasciste. Ma mentre tutti parlano di questo fenomeno come se riguardasse solo i «rigurgiti» dell'estrema destra, si rischia di dimenticare che una delle principali minacce per gli ebrei in Europa sono gli islamici.
  Nel Vecchio continente e negli Usa si moltiplicano gli osservatori di intolleranza, odio, aggressioni nei confronti degli ebrei. Secondo il Kantor Center per lo studio dell'ebraismo europeo contemporaneo dell'università di Tel Aviv, nel 2018 gli attacchi sono cresciuti del 13% in tutto il mondo. Impennate in Francia (+74%), Italia (+ 66%), Australia (+59%), aumenti nel Regno Unito (+16%) e in Germania (+6%). Lo scorso anno le città di New York e Berlino registrarono rispettivamente + 22% e + 14% di episodi ostili. Il 25% degli ebrei danesi e il 28% di quelli svedesi ha assistito a un attacco antisemita negli ultimi 12 mesi.
  In molti riconoscono la forte influenza del Web nella diffusione di minacce, insulti, istigazione alla violenza. L'atteggiamento prevalente, però, è quello di ricondurre l'onda minacciosa alla destra estremista e, con più ipocrita prudenza, alla sinistra radicale ostile a Israele «sostenuto dagli americani». Quella sinistra che giudica gli ebrei responsabili della «colonizzazione razzista della Palestina». È pesantemente sottovalutato l'atteggiamento di molti musulmani, spesso immigrati, che considerano gli ebrei il nemico, l'incarnazione di una minaccia esistenziale all'islam.
  Nel 2014, la Lega anti diffamazione (Adl) aveva condotto un'indagine in oltre 100 Paesi scoprendo che l'atteggiamento anti ebrei era due volte più comune tra i musulmani che tra i cristiani. L'ultimo rapporto dell'Ue sull'antisemitismo riporta i risultati di un sondaggio condotto tra 2.700 ebrei di età compresa tra 16 e 34 anni di 12 Paesi europei (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Ungheria), in cui vive oltre il 96% della popolazione ebraica. Il 31% dei giovani che ha subito molestie o aggressioni di stampo antisemita (il 45% degli intervistati), ha identificato l'autore come «qualcuno con una visione estremista musulmana».
  Dichiara il think tank Gatestone institute: «In Francia, dire la verità sull'antisemitismo islamico è pericoloso. Per un politico, è un suicidio». L'istituto di analisi ricordava quanto affermò l'ex primo ministro francese Manuel Valla: «Per almeno due decenni, tutti gli attacchi contro gli ebrei in cui l'autore è stato identificato provengono da musulmani». La sinistra però preferisce ignorare la matrice islamica, con vergognosi episodi di accettazione come il silenzio politico e intellettuale che ha avvolto la pièce Moi, la mort, je l'aime, comme vous aimez la vie dell'algerino Mohamed Kacim, che nel 2017 portò nei teatri francesi una rappresentazione delle ultime ore del terrorista Mohammed Merah, autore della strage all'asilo di Tolosa. Voleva provare a spiegare «i disagi» sociali di un assassino, pochi si indignarono. Partiamo da quella mattanza, per ricordare alcuni dei più odiosi episodi di antisemitismo islamico.
  Nel 2012, Mohammed Merah uccide due fratellini ebrei di 6 e 3 anni, il loro padre rabbino e una bambina di 7 anni davanti a una scuola ebraica di Tolosa. Il killer, cittadino francese nato da genitori algerini, aveva trascorso un periodo nei campi di addestramento per i terroristi islamici prima di andare a combattere a fianco dei talebani. Due anni dopo, nell'attentato al museo ebraico di Bruxelles compiuto dal franco algerino Mehdi Nemmouche, tornato in Europa dopo un anno di guerra in Siria, muoiono quattro persone, due delle quali erano turisti israeliani. Nel 2015 Amedy Coulibaly, figlio di immigrati musulmani originari del Mali, assalta un supermarket kosher, tiene in ostaggio 17 persone, ne uccide quattro. Tutti ebrei. Aveva giurato fedeltà all'Isis. A Parigi, nel 2017 il giovane musulmano Kobili Traore picchia selvaggiamente e getta da una finestra al terzo piano del palazzo Sarah Halimi, un'insegnante ebrea di 66 anni, urlando: «Ho ucciso il demonio. Allah akhbar». I giudici esitarono molto prima di aggiungere alle accuse l'aggravante dell'antisemitismo. E a maggio il magistrato è arrivato alla conclusione che Traore era sotto l'effetto di stupefacenti quando commise il delitto, quindi troppo mentalmente instabile per subire un processo.
  Nel 2018 un altro feroce omicidio di stampo islamico sconvolge Parigi. Mireille Knoll, 85 anni, sfuggita nel 1942 alla più grande retata di ebrei in Francia, viene pugnalata 11 volte dal vicino casa musulmano, Yacine Mihoub che aiutato da un complice poi dà fuoco alla poveretta malata di Parkinson. La comunità ebraica francese è ancora la più grande in Europa, ma si sta rapidamente riducendo. Agli inizi di questo secolo contava 500.000 membri, la cifra è ora inferiore a 400.000. Rientrano in Israele. Osserva il politologo Dominique Reynié, direttore di Fondapol, Fondation pour l'innovation politique: «Gli ebrei sono pochi, elettoralmente non contano e non esiste un loro specifico comportamento di voto. I musulmani sono più numerosi e i politici si muovono con prudenza». Quella francese è la più grande comunità islamica d'Europa, 6 milioni di individui (il 9% della popolazione). Pochi giorni fa hanno manifestato a Parigi contro l'islamofobia, eppure sono influenti, islamizzano la società francese con moschee, scuole, associazioni.
  Fuori dalla Francia il clima non è migliore. Nel 2015 la grande sinagoga di Copenaghen viene presa di mira da un terrorista islamico, che in uno scontro a fuoco uccide una guardia giurata. Dieci giorni fa, più di 80 lapidi sono state vandalizzate nel cimitero ebraico Ostre Kirkegard, nella città danese di Randers. Sui social non hanno dubbi, come scrive in un post Rebecca Holt: «Questo accade per colpa di tutti gli islamici mediorientali che l'Europa ha accolto. Odiano gli ebrei». A settembre, studenti israeliani che si trovavano a Varsavia sono stati aggrediti da alcuni uomini originari del Qatar che hanno urlato slogan come «Palestina libera». Lo scorso marzo, ad Amsterdam due ebrei, padre e figlio, sono stati pugnalati da un musulmano radicalizzato. «Abbiamo visto islamisti commettere attacchi omicidi contro le comunità ebraiche in Francia, Belgio, Austria, Copenaghen», dichiarava a luglio John Mann, subito dopo essere stato eletto consigliere sull'antisemitismo da Theresa May. Secondo Mann, fino a oggi simili episodi non si sono verificati nel Regno Unito perché il Paese «è meglio preparato attraverso il lavoro del Community security trust», associazione fondata nel 1994 per garantire la sicurezza della comunità ebraica.
  Il sondaggio 2015 della Lega anti diffamazione mise in luce che il 56% dei musulmani in Germania nutriva atteggiamenti antisemiti, rispetto al 16% della popolazione complessiva. In una strada di Berlino, nell'aprile 2018 un rifugiato siriano di 19 anni si tolse la cintura e iniziò a frustare un giovane israeliano che indossava il kippah, tradizionale copricapo circolare. Dopo quell'episodio, il presidente del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, dovette ammettere che era pericoloso indossare in pubblico il kippah. Ostentare bandiere palestinesi invece non è proibito dalle autorità.
  Lo scorso giugno, centinaia di manifestanti hanno sfilato a Berlino per la marcia «al-Quds Day», organizzata dal 1979 per chiedere la cancellazione definitiva dello Stato ebraico. Nonostante l'iniziativa abbia l'appoggio di un gruppo terroristico come Hezbollah non è stata vietata neppure quest'anno. Lo scorso maggio Wenzel Michalski, direttore a Berlino di Human rights watch, organizzazione non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani, ha raccontato al Magazine del New York Times che quando il suo ultimogenito Salomon rivelò a scuola di essere ebreo e di andare in sinagoga, in classe scese il gelo. Aveva fatto amicizia con un compagno arabo, condividevano la passione per la musica rap ma l'indomani il ragazzino gli disse che «ebrei e musulmani non potevano essere amici». Da quel momento iniziarono pesanti episodi di bullismo.

LIBRI DI TESTO

L'antisionismo in Palestina è materia di studio


Una recente indagine condotta dall'organizzazione Impact-e (Institute for monitoring peace and cultural tolerance in school education), che monitora le influenze estremiste nelle scuole, ha rivelato che i nuovi materiali di studio utilizzati quest'anno nei territori palestinesi contengono più propaganda antisionista e antisemita rispetto al passato. Lo scorso 12 luglio Fathi Hammed, uno dei leader di Hamas, durante una protesta sul confine tra la Striscia di Gaza e Israele, ha così arringato la folla:
«La nostra pazienza si è esaurita. Se questo assedio non viene annullato, esploderemo di fronte ai nostri nemici, con il permesso e la gloria di Dio. L'esplosione non sarà solo a Gaza, ma anche nel West Bank e all'estero. Dobbiamo attaccare tutti gli ebrei del mondo attraverso il massacro e l'omicidio».
Le sue sono poi state definite affermazioni «personali», sui social molti hanno preso le distanze. All'Onu di Ginevra, l'autorità palestinese è stata chiamata a rispondere dell'indottrinamento all'odio e all'antisemitismo ma i rappresentanti hanno difeso quello che secondo loro sono «risposte legittime» all'occupazione israeliana. P.F.R.


(La Verità, 18 novembre 2019)


*


La nascita di Israele ha radicalizzato astio e risentimento

Gli studiosi concordi: tra fondamentalisti e moderati non ci sono differenze, la sinistra è muta per paura d'inimicarsi gli immigrati.

ll politologo tedesco Matthias Küntzel afferma che l'antisemitismo europeo «era estraneo all'immagine originale degli ebrei nell'islam». I musulmani li consideravano impuri, li trattavano «con disprezzo o con tolleranza condiscendente» ma, a differenza dell'antisemitismo cristiano, non venivano accusati «di malvagità diabolica», di «avvelenare i pozzi né di diffondere la peste». Su L'Informale Küntzel ha scritto che «l'antisemitismo islamico non si sviluppò spontaneamente ma fu inventato e usato come un mezzo per un fine. Questo processo iniziò circa 80 anni fa nell'ambito dei tentativi arabi di fermare l'immigrazione sionista in Palestina».
  Il primo testo che diffuse tra gli islamici l'odio verso gli ebrei sarebbe stato un opuscolo in lingua araba dal titolo L'Islam e gli ebrei, pubblicato al Cairo nell'agosto del 1937. Nel pamphlet si leggeva: «Tenete duro, lottate per il pensiero islamico, per la vostra religione e la vostra esistenza! Non riposate finché la vostra terra non sarà priva di ebrei». Una copia del libretto venne distribuita a ogni partecipante al Congresso nazionale arabo, di Bludan, in Siria, e poi diffuso e ristampato per anni in tutta Europa. Presunto autore del libretto sarebbe stato Hai Amin Al Hussaini, leader del nazionalismo arabo palestinese e gran mufti di Gerusalemme (una delle più alte autorità dell'islam sunnita).
  Da quel libretto sarebbe iniziata la divulgazione di un hadith, una sacra scrittura «dalle promesse genocide» che incitava a combattere gli ebrei fino all'annientamento. Questo il testo: «Disse il Profeta, su cui sia la pace: l'ora della resurrezione non arriverà fino a quando i musulmani non combatteranno gli ebrei e i musulmani li uccideranno, finché gli ebrei si nasconderanno dietro pietre e alberi, e le pietre e gli alberi diranno: Oh musulmano, servo di Allah, c'è un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo!».
  Lo storico Maurizio Ghiretti scrive così sull'Osservatorio antisemitismo del Cdec, centro di documentazione ebraica: «In seguito alla vittoria israeliana della guerra dei Sei giorni l'attività antisemita subisce un'impennata. Le folgoranti vittorie provocano una brusca metamorfosi nell'opinione pubblica occidentale, soprattutto in quella di sinistra, nei confronti di Israele e degli ebrei che sostengono la sua politica. Le schiaccianti vittorie su nemici tanto più numerosi e potenti smentiscono lo stereotipo dell'"ebreo" debole e spaventato». Ghiretti spiega che «la ripresa dell'antisemitismo a partire dagli ultimi anni del secolo scorso» si manifesta anche nel mondo islamico: «L'animosità antiebraica espressa sia dall'islam fondamentalista sia da quello moderato (entrambi transnazionali) assumono le caratteristiche dell'ebreofobia più radicale: Israele, i suoi cittadini, il sionismo e gli ebrei incarnano il male assoluto. La nuova ideologia antisemita islamica è metastorica; nasce nelle moschee dirette da divulgatori di odio (non necessariamente fondamentalisti), è propagandata dalle organizzazioni islamiste, da rappresentanti politici e religiosi dei paesi arabi, dai media, dai demagoghi dei nuovi piccoli gruppi della sinistra radicale, da quelli della "nuova sinistra" terzomondista e da quelli delle frange radicali dell'estrema destra: tutti fanaticamente antisionisti e antisraeliani e, in ultima analisi, antiebraici».
  Scriveva un paio di settimane fa sulla rivista britannica Spiked Alaa al-Ameri, pseudonimo di un economista libico che vive nel Regno Unito: «È la censura di fatto della sinistra dei critici dell'islamismo che ha permesso agli islamisti di integrare il loro antisemitismo». Times ha ricordato che «i funzionari europei sottostimarono per lungo tempo l'antisemitismo tra i musulmani in Europa, forse per paura di alimentare il sentimento anti immigrato». «L'antisemitismo non è relegato all'estrema destra, o all'estrema sinistra, attraversa ogni categoria sociale. In più non vengono fatti rilievi sulle nuove migrazioni», evidenziava pochi giorni fa su Repubblica lo storico Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Cdec. Aggiungeva: «Se vado nella comunità musulmana e chiedo che cosa pensano degli ebrei, la dinamica che scatta è ancora più allarmante. Ma è non tanto l'islam come religione, quanto il mondo islamista, che usa l'ideologia per colpire la minoranza ebraica, a favorire questo odio e far aumentare il rischio».
  Il Web contribuisce pesantemente a diffondere il sentimento anti ebrei. Katharina von Schnurbein, coordinatrice della Commissione europea sulla lotta all'antisemitismo, dichiarava lo scorso luglio che Internet «è diventato anche un melting pot di estremismo. Un'alleanza empia di neonazisti, islamisti e estremisti di estrema sinistra nel credere in una cospirazione ebraica, nel controllo dei governi, dell'economia e dei media». Non possiamo non aggiungere che nei cortei del 25 Aprile per ricordare la liberazione dal nazismo, molte volte l'Anpi ha fatto entrare militanti della resistenza palestinese, diretti discendenti del nazionalismo arabo. P.F.R.

(La Verità, 18 novembre 2019)


*


«La minaccia peggiore? Dal Corano»

Intervista a Ugo Volli. L'ex presidente della sinagoga di Milano: «L'intimidazione islamista è duplice perché ha motivi religiosi e anche politici»

di Gabriele Carrer

 
Ugo Volli
Nel Regno Unito 24 intellettuali guidati da John Le Carré hanno annunciato che alle elezioni generali del 12 dicembre non voteranno per Jeremy Corbyn accusandolo di non aver voluto o saputo frenare le tendenze antisemite all'interno del suo Partito laburista. In Francia l'intervista di sabato del Corriere della Sera al filosofo Alain Finkielkraut, che ha parlato di un antisemitismo di sinistra, che «oggi per ragioni elettorali ha scelto il partito dell'islam politico», ha riacceso il dibattito. E in Italia? Ne abbiamo parlato con Ugo Volli, professore ordinario di semiotica del testo all'università di Torino ed ex presidente della sinagoga riformata Lev Chadash di Milano. Dice Volli: «Esistono, nel nostro Paese e in Europa, alcuni isolati ed esagitati neofascisti e neonazisti che fanno cose inaccettabili, dal profanare i cimiteri alla minaccia di compiere stragi. Ma sono pochissimi, residuali e poco organizzati. Folcloristici quando fanno cose un po' nostalgiche come a Predappio. Ma è evidente che non esiste un pericolo per la democrazia».

- Neppure per le comunità ebraiche?
  «Le comunità ebraiche in Europa sono minacciate principalmente dagli islamisti, che rappresentano una minaccia per motivi sia religiosi sia politici, con l'antisemitismo che si sovrappone all'odio per Israele. La polizia e l'esercito davanti alle sinagoghe ci difendono essenzialmente da questa minaccia.

- Che cosa si nasconde dietro a questo allarme fascismo?
  «Una speculazione politica da parte di forze che hanno perso capacità di attrazione, non solo in Italia ma in buona parte d'Europa. Molti di loro sono sinceramente preoccupati dai neofascisti. Ma questa paura deriva dalla scarsa comprensione di che cosa sia il fascismo. È il vecchio vizio della sinistra: gli avversari politici sono sempre tutti sbagliati, criminali, ubriachi, donnaioli, mostri e di conseguenza anche fascisti. Ma il fatto che siano sinceri non rende il tutto meno preoccupante. Da qui, il tentativo di creare allarmi sperando di allargare l'elettorato. Ma ci sono due problemi. Il primo: queste grida "al lupo, al lupo" non impressionano nessuno. ll secondo: la sinistra non sa più rispondere su questioni molto concrete come il modo di vivere e l'identità nazionale, per esempio».

- È delegittimazione o anche una forma di censura?
  «Alla vecchia egemonia della sinistra in Occidente corrisponde un'egemonia che continuano ad avere sulla grande stampa. Ma questa è in grave crisi negli ultimi anni. E così nasce l'idea che la sinistra non venga capita perché il popolo segue altre idee in Rete che subito vengono bollate come fake news. Da qui il tentativo di censurare, di impedire che altre idee circolino sulla Rete».

- Hanno perso il controllo del mezzo e cercano di controllare il messaggio?
  «C'è un recente libro di Christian Rocca intitolato Chiudete Internet (Marsilio). È solo un esempio della tendenza a pensare che sia stato un grave errore far nascere questa cosa diffusissima che è Internet per via delle cose che circolano su quel mezzo. E poiché non piacciono, vengono definiti discorsi di odio, senza qualunque criterio oggettivo. Anche perché se ci fosse un criterio oggettivo i primi discorsi di odio da proibire sarebbero quelli di Vauro, che ha appena pubblicato Sette modi per uccidere Salvini oppure di questo cuoco, Rubio, che si chiama chef».

- E la Commissione Segre come si inserisce in questo contesto?
  «Questa commissione, che porta un po' impropriamente il nome della senatrice Liliana Segre, va esattamente nella direzione di creare le basi per rendere possibile la censura. La senatrice è stata usata per proporre un'agenda che mi ricorda quello che Bertolt Brecht proponeva in maniera ironica nel 1953 ai comunisti della Germania Est dopo gli scioperi operai, cioè sciogliere il popolo. Oggi c'è il tentativo di non fare votare, di impedire la libertà di espressione sulla Rete e molto altro perché c'è una profonda diffidenza e un forte disprezzo nei confronti dell'elettorato. E si tratta di un'involuzione pazzesca per i partiti che si proclamano progressisti e al fianco dei più deboli».

- Non la stupisce la totale assenza dal dibattito pubblico della minaccia islamista?
  «Nelle perversioni mentali della sinistra c'è l'idea che, perso il mondo operaio anticapitalista che oggi vota per altri, si debbano trovare alleati contro l'Occidente. E gli islamici sono gli alleati perfetti. Che poi se la prendano in particolare con gli ebrei e con Israele va anche bene, visto che corrisponde a un profilo di antisemitismo che sta riemergendo a sinistra».

(La Verità, 18 novembre 2019)


Perché la proposta di portare Israele nell'Ue non ha senso

di Mattia Roncalli

 
Ciclicamente nella discussione politica italiana viene avanzata la proposta tanto originale quanto bislacca di far entrare lo Stato di Israele nell'Unione europea.
Il primo a farsi portavoce di questa possibilità fu Marco Pannella, poi politici del calibro di Silvio Berlusconi ed Emma Bonino l'hanno rilanciata e vari giornalisti ed editorialisti ne hanno discusso.
Sicuramente la volontà era mostrare tutto il personale supporto allo Stato ebraico, ma forse la destinazione di approdo, ovvero l'Unione europea, non ha mai mostrato tutta questa sintonia con Israele.
In effetti, la domanda che un osservatore acuto si porrebbe, sarebbe: in quale Unione europea dovrebbe entrare?
In quella dell'ormai ex alto rappresentante Federica Mogherini, celebre per le sue foto con Arafat, sostenitrice dei movimenti palestinesi e dell'accordo sul nucleare iraniano, e più in generale del disgelo con Teheran?
In quella dell'attuale titolare della PESC Josep Borrell, il quale mesi fa ha ammesso candidamente che Israele dovrebbe convivere con il fatto che l'Iran voglia spazzarlo via?
In quella Unione che non definisce come terrorista il movimento Hezbollah e che ha rimosso dalla lista delle organizzazioni del terrore Hamas?
In quella della Corte di Giustizia che ha recentemente imposto di etichettare in modo differente i prodotti provenienti da Israele o da quelli degli "insediamenti"?
O proprio in quella che non riconosce Gerusalemme come capitale unica ed eterna dello Stato di Israele?
Questo elenco potrebbe essere più lungo ma è sufficientemente esaustivo per mostrare quanto sia folle e completamente irrealistica questa ipotesi.
L'Ue riconosce i confini dello stato ebraico antecedenti al 1967 e non riconosce in nessun modo come territori israeliani le Alture del Golan, Gerusalemme Est e l'intera Cisgiordania (Giudea e Samaria per gli ebrei).
Israele non accetterebbe mai di sottostare alla giurisdizione di una Corte di Giustizia che si è già espressa in più sentenze in modo avverso e mai di lasciare lo speciale rapporto con gli Stati Uniti in favore di quello con stati europei che mai l'hanno difesa attivamente. Ed infatti Israele non ha mai avanzato nessuna ufficiale richiesta di adesione all'Unione.
Tale proposta verrà di nuovo rilanciata in un prossimo futuro e quasi sicuramente le condizioni non saranno mutate.

(Atlantico, 18 novembre 2019)


Perché Hamas si tiene fuori dallo scontro tra Israele e la Jihad Islamica

li coordinamento politico e per la sicurezza di Israele con Hamas ha risposto ad interessi condivisi per molti anni. Ora Hamas spera di rimanere fuori dall'attuale scontro per estendere se possibile il suo potere politico in Cisgiordania.

di Menachem Klein*

Nella nuova serie di scontri tra Israele e la Jihad Islamica a Gaza si ha l'impressione che ci sia un accordo non scritto tra Israele e Hamas. Ciò non è fuori dal comune nei rapporti tra nemici con interessi comuni. Siria e Israele, per esempio, una volta avevano un accordo riguardante i limiti invalicabili del coinvolgimento di quest'ultimo in Libano.
   Per comprendere la delicata danza tra Israele e Hamas è necessario conoscere la storia recente. Nel 2007 Hamas cacciò Fatah, che allora governava Gaza con l'uomo forte Mohammed Dahlan. In risposta, Israele impose un blocco a Gaza, sperando che avrebbe fatto crollare il regime di Hamas attraverso pressioni esterne o provocando una rivolta interna palestinese. Quella strategia è fallita: fino ad oggi Hamas è rimasta al potere.
   Verso il 2010 Israele cambiò la politica di cacciare Hamas, optando invece per una sorta di coesistenza. Il governo decise di istituzionalizzare la separazione tra Gaza e la Cisgiordania, annettendo gradualmente parti di quest'ultima e cercando nel contempo accordi concreti con Hamas. Israele rifiuta di consentire ad Hamas di avere una posizione forte in Cisgiordania, che è una delle ragioni principali della sua collaborazione per la sicurezza con Mahmoud Abbas e l'Autorità Nazionale Palestinese.
   Quindi Israele rafforza il potere di Abbas incentivando sospetti e ostilità nei confronti di Hamas, ma si è prefissato la conservazione del potere di Hamas a Gaza. Utilizza la classica tattica del divide et impera per controllare entrambe le parti dei palestinesi, comprendendo che, se Hamas dovesse cadere, il vuoto potrebbe essere riempito da uno dei gruppi affiliati all'ISIS presenti nel Sinai. Israele ha bisogno di un rapporto stabile con Hamas per tenere l'ISIS fuori da Gaza.
   Il coordinamento con Hamas è stato sospeso nel 2014, dopo che militanti palestinesi rapirono e uccisero tre ragazzi israeliani in Cisgiordania. Israele accusò Hamas di essere responsabile, ignorando le sue smentite, e riarrestò prigionieri palestinesi che erano stati rilasciati come parte di un accordo per la liberazione di Gilad Shalit [soldato israeliano rapito da Hamas nel 2006, ndtr.]. Ciò mise in moto uno confronto militare che terminò nello stesso modo di precedenti scontri - con la conferma di precedenti accordi strategici, compreso il fatto di alleggerire il blocco, estendere la zona di pesca di Gaza e consentire che entrassero a Gaza finanziamenti del Qatar.
   A settembre, quando la Jihad Islamica ha sparato razzi contro Ashdod mentre Netanyahu vi stava facendo un comizio elettorale, i media israeliani iniziarono a concentrarsi sul bellicoso comandante del gruppo, Baha Abu al-Ata, assassinato martedì mattina. Riunioni dell'intelligence hanno sottolineato che Abu al-Ata era probabilmente un comandante ribelle che non accettava l'autorità di Hamas.
   Abu al-Ata era un obiettivo perché danneggiava gli accordi tra Israele ed Hamas. Assassinandolo Israele ha mandato il messaggio ad Hamas di essere interessato a mantenere questi accordi. Da quando i miliziani della Jihad Islamica hanno iniziato a lanciare razzi in risposta all'assassinio, Hamas ne è rimasta fuori, mentre Israele ha chiarito di agire solo contro la Jihad Islamica. Hamas, i cui principali dirigenti non hanno fatto commenti, non ha interesse a rafforzare la Jihad Islamica o ad essere trascinata in un conflitto armato con Israele. Tuttavia, se la risposta israeliana dovesse uccidere troppi civili palestinesi, Hamas probabilmente risponderà. In una situazione di crescenti tensioni, ciò potrebbe avvenire in conseguenza di errori operativi o di malintesi.
   Politicamente Hamas è concentrata sulle elezioni palestinesi che Abbas ha annunciato all'inizio dell'anno. L'organizzazione intende accettare i parametri di Abbas: elezioni parlamentari seguite da quelle presidenziali. Hamas ha anche accettato che le elezioni avvengano con modalità diverse. Invece di elezioni regionali in 16 distretti dei territori occupati - in cui il partito che vince prende tutto - le elezioni saranno in tutto il Paese. Ciò significa che anche se Hamas non vincesse la maggioranza dei voti, avrebbe la possibilità di conquistarsi una solida posizione in Cisgiordania e presentare un proprio candidato alla presidenza. Abbas, un leader molto impopolare, si è impegnato a non presentarsi per un ulteriore mandato. Hamas spera di poter andare oltre il governo a Gaza e di partecipare alle elezioni nazionali.

* Menachem Klein è docente di scienze politiche all'università israeliana di Bar llan. E' stato consigliere della delegazione israeliana con l'OLP nel 2000 e uno dei leader della Geneva lnitiative.

(Israele-Palestina: testimonianze in attesa, 18 novembre 2019)


Per Gantz possibile un esecutivo di minoranza

Rush finale per il leader centrista BennyGantz per formare il nuovo governo israeliano: mercoledì scadranno i 28 giorni che il presidente Reuven Rivlin gli ha assegnato dopo la rinuncia di Benyamin Netanyahu. E - a meno di ulteriori due settimane, previste dalla legge - l'ex capo di stato maggiore, che ha avuto più seggi di Netanyahu nel voto di settembre, dovrà dare a Rivlin la risposta definitiva ed evitare un terzo turno elettorale. Le premesse non sono delle migliori: Gantz può per ora permettersi solo un governo di minoranza con il leader nazionalista laico Avigdor Lieberman, con i laburisti di Amir Peretz, con la sinistra. E,soprattutto, con l'appoggio esterno di una buona parte della Lista Araba Unita: un quadro inedito per Isarele. L'intesa tra Blu-Bianco e "Israel Beìtenu" di Lieberman - il politico che ha impedito per ben due volte il governo a Netanyahu sembra vicina. I due partiti torneranno ad incontrarsi anche oggi.

(ANSA, 18 novembre 2019)


Il senso di colpa della Germania

Senza l'orgoglio della propria identità, il "peccato originale" continuerà a terrorizzare i tedeschi, accelerandone il collasso, scrive Andreas Lombard su First Things.

La conseguenza di questa autocondanna è la convinzione che i crimini dell'Olocausto non possono essere perdonati. Ciò porta a un'espiazione continua senza soluzione di continuità. I leader cristiani avrebbero potuto consolarci dicendo che i colpevoli erano stati puniti per i loro peccati, e che Dio non attribuiva al popolo tedesco nessuna colpa collettiva ed eterna.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, nessun argomento ha diviso così tanto l'Europa e la Germania in particolare come le migrazioni di massa", scrive Andreas Lombard, direttore della rivista tedesca Cato, sull'americana First Things. "Gli europei hanno il diritto di difendere i propri confini dalle migliaia di migranti africani e mediorientali che ogni giorno tentano di entrare nelle loro nazioni? Quante persone possono essere accolte senza stravolgere la società di uno stato? Queste domande cercano risposta. Ma in Germania, più che altrove, si cerca di rifuggire tali questioni. Il popolo tedesco si sente quasi in dovere di accoglierli tutti, e la difesa dei confini viene vista con imbarazzo. Questa reazione trova le sue motivazioni nel passato. Dopo la Seconda guerra mondiale il popolo tedesco è stato costretto a fare i conti con gli anni del nazismo e delle atrocità contro gli ebrei. I tedeschi hanno introiettato l'idea che solamente ripudiando la propria eredità avrebbero potuto ricostruire una società democratica stabile, anche se ciò avrebbe comportato la negazione, insieme ai loro fallimenti, delle loro conquiste culturali. Un'abnegazione storico-culturale questa, che nella sua espressione più radicale punta all'estinzione. Di conseguenza, l'establishment politico e culturale tedesco usa il ricordo dell'Olocausto per zittire chiunque osi criticare lo status quo.La Germania è divisa da un conflitto politico sull'immigrazione. Le regioni dell'est del paese sono meno accondiscendenti verso politiche di apertura dei confini rispetto alle regioni occidentali. Le zone orientali, infatti, fino alla caduta del Muro non sono state coinvolte nel processo di riflessione storica sul nazismo che si è sviluppato nella Repubblica federale di Germania nel secondo Dopoguerra. Così, mentre le regioni dell'ovest - oppresse dai sensi di colpa del passato - sono più propense ad accogliere i migranti, quelle dell'est preferiscono tutelarsi dalle esternalità negative che accompagnano l'immigrazione. Ma il conflitto politico sull'immigrazione non si ferma alle divisioni territoriali: entra nelle case, divide le famiglie, le aziende, i partiti politici e le istituzioni. Si può dire che tutta la società tedesca sia coinvolta in un continuo dibattito sull'immigrazione.
  Per molti sostenitori dell'immigrazione di massa, non ci sono mai abbastanza barche nel Mediterraneo. Loro finanziano operazioni di salvataggio che incoraggiano sempre più persone a imbarcarsi. Loro credono che la vita dei migranti valga più di quella dei bigotti che si oppongono al loro arrivo (di solito appartenenti alle classi inferiori della società). Un giornalista dello Spiegel è riuscito a scrivere che vorrebbe vedere inverato il 'sogno tedesco' di un melting pot tra europei, persone del medio oriente e africani per creare una nazione assieme. Qualche anno prima, nel 2013, un noto professore di Francoforte aveva scritto che, per espiare i peccati del nazionalsocialismo, sarebbe giusto che la Germania venisse colonizzata dalle minoranze etniche. E questa non è un'opinione isolata. Per molti anni, i diversi presidenti della Germania Federale hanno sempre fatto riferimento alla 'gente di Germania' piuttosto che a 'popolo tedesco'.
  Come siamo giunti a questo punto? Bisogna guardare alla storia recente. La Germania ha subìto due enormi sconfitte in meno di cinquant'anni dall'inizio del Ventesimo secolo. La Prima e la Seconda guerra mondiale non hanno risparmiato a praticamente nessuna famiglia tedesca, morte, carestia e stupri. Ma, secondo molti, tanta sofferenza sarebbe la giusta punizione per le colpe della Germania e per i crimini del nazismo. Questo pensiero, già covato per decenni nel dopoguerra, si è diffuso con successo durante le proteste giovanili degli anni 70: gli studenti universitari additavano il capitalismo come causa delle guerre che avevano stravolto il continente fino a pochi decenni prima. Le cose cambiarono negli anni 80, quando la visione marxista perse credibilità, e al suo posto il genocidio degli ebrei divenne la chiave di lettura della storia. Le critiche al capitalismo vennero sostituite dalle critiche all'antisemitismo. Il sospetto di antisemitismo e xenofobia divennero la prima arma per "combattere le ingiustizie".
  Nei dibattiti sono sempre i non ebrei a sostenere la tesi dell'eccezionalità storica dell'Olocausto. I tedeschi dichiarano la loro eccezionalità di carnefici, non di vittime. I carnefici giudicano i loro crimini come i più efferati della storia umana; un mostruoso tipo di orgoglio mascherato da senso di colpa. Il punto della questione non è la condanna o meno dei carnefici, bensì la loro arroganza. La conseguenza di questa autocondanna è la convinzione, da parte del popolo tedesco, che i crimini dell'olocausto non possono essere perdonati. Ciò porta ad un'espiazione continua dei propri peccati collettivi, senza soluzione di continuità. Il risultato è che i tedeschi non chiedono perdono. Per chiederlo, infatti, dovrebbero affidarsi a un giudice altro da loro stessi. Allo stesso tempo il terrore che un evento così terribile possa ripetersi, tiene la società in perenne allerta. La paura di un nuovo olocausto continua a ispirare campagne promosse da sedicenti difensori della virtù per combattere i 'revisionisti', o i 'fascisti'. I tedeschi in questo modo rendono attuale un concetto di giustizia arcaico. Se un crimine non può essere espiato o punito, l'unica risposta è quella di cancellarlo. Ma non potrebbe darsi che, nella promessa di non dimenticare mai, nella loro impossibilità di non essere perdonati, i tedeschi abbiano dato troppo onore alla barbarie? Stiamo davvero tornando agli inizi della nostra civiltà? Ma perché i tedeschi non lasciano morire Hitler? Perché non viene sepolto? I criminali sono più dei loro crimini: mangiano e pregano, dormono e amano. Come dice Hegel, l'identità è sempre dialettica, fatta di identità e non-identità. Non esiste l'identità negativa pura e semplice. I tedeschi non si accorgono di essere in bilico tra passato e futuro. Il loro caso non è eccezionale. Il loro problema è che si rifiutiamo di riconoscere la loro normalità di popolo".
  Un'efficace descrizione dell'antropologia tedesca viene restituita dalla corrispondenza intercorsa durante l'anno 1945 tra Hermann Broeh e Volkmar von Zülsdorff. Broch descrisse il popolo tedesco come un popolo eccezionale: "Il popolo più estremo, sia nel bene che nel male, di tutto il mondo occidentale". E proprio a causa della loro natura eccezionale, i tedeschi avrebbero guidato la vittoria del mondo sul male. "La Germania giocherà un ruolo di primo piano nella rigenerazione del mondo", scrisse Broch. Improvvisamente, la Germania diventerà la nazione che espierà i peccati degli altri stati. Zuhlsdorff respinse la tesi di Broch. Lui temeva che continuando a incolpare la Germania dei sui crimini, non si sarebbe fatto altro che creare altra ingiustizia. Avvertì: "Un'altra ondata di terrore si riverserà su di noi, si ripeteranno i crimini del nazionalsocialismo in nome dell'antifascismo".
  "In quella corrispondenza - continua Lombard - Broch e Zùhlsdorff hanno delineato le linee del conflitto politico e culturale acceso ancora oggi in Germania. Da un lato, troviamo la fiducia in un potere speciale, in grado di cambiare il mondo, derivante dall'eccezionale colpa tedesca. Si potrebbe dire che una religione dell'Olocausto viene proposta come nuovo vertice dell'umanità. Questo, temo, si trasformerà in una filosofia di distruzione adottata, non dalle vittime ebree, ma da un popolo tedesco che si lacera da solo. Dall'altro lato, Zuhlsdorff pone una certa attenzione sulle questioni del male e della sofferenza umana, l'antico peccato dell'umanità e la lotta per la riconciliazione. Il popolo tedesco non è eccezionale. La storia non si ferma, neanche davanti a eventi atroci.
  La sinistra tedesca, che vuole sostituire le nazioni con un'umanità senza confini, non considera l'Olocausto come un evento generato dal peccato dell'uomo, bensì come un evento di carattere nazionale. Per loro, l'Olocausto è la naturale conseguenza del nazionalismo, e per questo motivo considerano quell'evento come imputabile alla destra in modo esclusivo. Loro promuovono anche il concetto di identità tedesca negativa, con la speranza dell'avvento di un nuovo ordine politico e culturale più giusto. L'europeizzazione e la globalizzazione impongono di negare la storia e le origini tedesche. I cittadini devono rinnegare tutto ciò che contribuisce a creare la loro identità, come la personalità, la famiglia e persino il loro genere. La sinistra dice che queste rinunce sono necessarie per redimere le persone dal loro passato. L'eccezionalità dell'Olocausto assegna alla Germania un ruolo speciale nella storia dell'umanità. I progressisti dicono al popolo tedesco che deve nascere un nuovo movimento d'avanguardia per eliminare il passato, superare le divisioni e costruire una nuova umanità universale. L'Olocausto diventa così lo stimolo necessario al raggiungimento della pace perpetua e della giustizia sociale.
  Di fronte alla strumentalizzazione dell'Olocausto i leader cristiani avrebbero dovuto ricordarci l'antica peccaminosità dell'uomo. Avrebbero potuto consolarci dicendo che i colpevoli erano stati puniti per i loro peccati, e che Dio non attribuiva al popolo tedesco nessuna colpa collettiva ed eterna. E' il singolo a essere condannato per i propri peccati, mai la collettività. Ciò avrebbe placato il sentimento di colpa tedesco, e in secondo luogo, cristiano, per l'Olocausto. Forse è giunto il momento di riaffermare la saggezza della tradizione biblica. Nella sua gentilezza amorevole, Dio offre a tutti la possibilità di essere perdonati. La consapevolezza dei limiti dell'umana prospettiva storica e politica è un dono di Dio e rimane viva nella tradizione biblica europea. I tedeschi devono riprendere confidenza con quella tradizione millenaria che ha forgiato la loro identità prima dei drammatici eventi del Ventesimo secolo. L'alternativa è continuare a nascondersi dietro ai sensi di colpa, mentre la società tedesca, messa a dura prove dalle sfide del nuovo millennio, si avvia al collasso".

(Il Foglio, 18 novembre 2019 - trad. Samuele Maccolini)



La potenza di Israele unica possibilità per fermare il terrorismo palestinese

di Ugo Volli

Oltre a togliere dal gioco un capo terrorista pericolosissimo e spedire un messaggio preciso ai suoi colleghi sparsi fra Libano, Siria, Gaza, Yemen fino all'Iran, l'azione realizzata dalle forze armate israeliane martedì scorso eliminando Baha Abu Al Atta, comandante militare della Jihad Islamica, ha ottenuto un risultato politico importante, dividendo per la prima volta con grande chiarezza le forze terroriste di Gaza. La Jihad islamica, direttamente dipendente dall'Iran, è la seconda per numero e per potenza fra esse. La prima, come tutti sanno, è Hamas, che dipende invece almeno sul piano economico dal Qatar, che a sua volta è stretto alleato della Turchia. Fra Hamas e Jihad Islamica, sotto l'obbligatoria facciata della solidarietà palestinista, non corre buon sangue, come del resto accade fra Hamas e Fatah. Quel che era sempre successo finora è che contro Israele tutte le fazioni terroriste si unissero. Invece Hamas, timorosa di una reazione israeliana che potesse eliminare i suoi capi e distruggere il suo dominio sulla Striscia, questa volta non solo non ha partecipato al bombardamento contro città e villaggi civili in Israele lanciato da Jihad, ma abbia anche diffuso l'ordine di sospendere per questa settimana le manifestazioni del venerdì che da un anno tentano di sfondare il confine con Israele. Non si tratta naturalmente di un'improvvisa conversione al pacifismo da parte di Hamas, ma di un calcolo realistico sui danni possibili. In una parola, per chi ne dubitava, della deterrenza israeliana, la sola condizione per il mantenimento della calma anche in quel pericoloso focolaio terrorista.

(Shalom, 17 novembre 2019)


Netanyahu contro Gantz, che "pensa a un governo con gli arabi"

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha attaccato con forza l'ipotesi che il primo ministro incaricato Benny Gantz possa formare un governo di minoranza che, secondo lui, sia appoggiato dai partiti arabi nella Knesset.
"Stiamo fronteggiando - ha avvisato - una emergenza senza precedenti nella storia di Israele. C'è un'intesa tra i leader di Blu-Bianco per formare un governo di minoranza con la Lista Unita".
Per Netanyahu se "andare a nuove elezioni è un disastro, ancora peggio sarebbe un governo che dipende dai parti arabi". Gantz - a meno che il presidente Reuven Rivlin come prevede la legge non estenda il periodo di altre due settimane - ha ancora quattro giorni di tempo (fino a mercoledì prossimo) per mettere insieme un'alleanza di governo che abbia i numeri in Parlamento.
Tra le ipotesi - ma ancora non c'è certezza - quella appunto di un governo di minoranza di centro sinistra, appoggiato dall'esterno da partiti della Lista e forse anche dal nazionalista laico Avigdor Lieberman.

(tvsvizera, 17 novembre 2019)


Sami e Piero, cittadini di Deruta. "Affermata la volontà civile di Memoria"

Piero Terradina e Sami Modiano
L'esperienza drammatica del lager li ha segnati nel profondo. Insieme alle porte dell'inferno. Insieme nella testimonianza. Piero Terracina e Sami Modiano diventeranno nelle prossime ore cittadini onorari del Comune di Deruta, in provincia di Perugia. Un nuovo riconoscimento istituzionale nel solco di Memoria e impegno civile tracciato in questi anni da entrambi, anche nel segno di una grande amicizia, maturata dai giorni del lager, che è stata la loro risposta all'odio nazifascista.
A festeggiare il riconoscimento è anche la senatrice a vita Liliana Segre, che in un messaggio inviato agli organizzatori scrive: "Oggi i miei fraterni compagni di viaggio Piero e Sami ricevono una pergamena che sancisce e rinsalda, con un pubblico abbraccio, la volontà civile della Memoria. Da oltre trent'anni raccontiamo ai giovani studenti la 'nostra memoria' perché bisogna rompere il silenzio. Lo ha fatto per noi 'salvati' Primo Levi e, da quella vertigine, sono gemmate le testimonianze". Un Paese che ignora il proprio ieri, prosegue la senatrice a vita, non può avere un domani. "Ecco perché ora passiamo il testimone alle giovani sentinelle, spetta a voi, il lavoro, implacabile, sulla Memoria, che è la ricucitura (imperfetta) di un percorso di guarigione civile, percorso che serve a mantenere in buona salute la democrazia".

(moked, 17 novembre 2019)


Due cose di Israele spiegate all'assessore

di Antonio Polito

Eleonora De Majo è una donna giovane e immaginiamo capace, visto che il sindaco l'ha nominata assessore alla Cultura e pare addirittura che la consideri una potenziale candidata a prendere il suo posto (agli elettori piacendo, naturalmente). Proprio per questo, e per la bella carriera politica che sicuramente la aspetta, ci permettiamo di consigliarle di ammettere l'errore che ha commesso quattro anni fa, quando era più giovane e più scapestrata, invece di perseverare e di aggravarlo. Che cosa le costerebbe dire: scusate, in effetti ho sbagliato a dire che il sionismo è come il nazismo?
   O che gli israeliani sono porci accecati dall'odio, negazionisti e traditori finanche della loro stessa tragedia? Soprattutto se oggi deve rappresentare una città, e che città, quella macchia se la deve togliere. II che non le impedirebbe naturalmente di continuare a criticare, come vuol fare e come molte volte è anche giusto fare, le scelte politiche del governo di destra oggi al potere in Israele.
   Invece la De Majo, con il soccorso sconsiderato di de Magistris, ha tentato di difendere quelle frasi sciocche e gratuite. Con l'argomento di sempre: distinguere tra antisionismo e antisemitismo. Vorremmo dirle dove è l'errore, sperando che le sia utile per non commetterlo più.
   II sionismo fu un movimento ottocentesco per l'autodeterminazione e l'indipendenza di un popolo che, esattamente come quello che animò i greci o gli italiani, si proponeva di dare una patria agli ebrei. Ma mentre i greci e gli italiani non avevano dubbi su quale fosse geograficamente parlando la loro patria, perché ci abitavano già, gli ebrei che erano stati sparpagliati dalla diaspora in tutta Europa dovettero scegliersi un luogo, e dopo animato dibattito scelsero il luogo da dove provenivano: la Palestina. Questa loro aspirazione ottenne, dopo la seconda guerra mondiale e l'Olocausto, il sostegno della comunità internazionale. Fu l'Onu a disegnare lo stato di Israele, e fu l'Unione Sovietica il primo paese a riconoscere il nuovo stato. Poi seguirono guerre e sofferenze indicibili, per gli ebrei in Palestina e per gli arabi in Palestina, che dagli anni '60 in poi cominciarono ad essere chiamati palestinesi. Ma questa è la politica dei giorni nostri e su questo ognuno è legittimato ad avere le sue idee.
   Ciò che conta ricordare è piuttosto che il sionismo è il movimento che ha dato una patria agli ebrei nello stato di Israele. Dire che è come il nazismo, o anche solo condannare moralmente il sionismo, equivale a essere contrari all'esistenza dello stato di Israele. E infatti i suoi nemici, come Hamas, non lo chiamano nemmeno Stato, ma appunto «entità sionista», implicando così che non appena possibile bisognerà distruggerlo, e ributtare gli ebrei in mare, da dove sono venuti.
   Può un assessore del comune di Napoli, di qualsiasi idea politica sia, affermare una cosa del genere, mentre tutta la comunità internazionale, innumerevoli risoluzioni dell'Onu, e ormai anche molti stati arabi, riconoscono il diritto a esistere di Israele?
   Ma c'è un'altra ragione per cui antisionismo e antisemitismo possono pericolosamente confondersi. La ragione per cui gli ebrei europei avvertirono infatti il bisogno di uno «stato ebraico» stava nel fatto che non si sentivano al sicuro, accettati e integrati nelle nazioni europee dove vivevano. La storia dei pogrom in Russia, l'affare Dreyfus in Francia, la «soluzione finale» del nazismo, rendevano indispensabile, vitale oseremmo dire, la nascita di uno stato ebraico in cui l'antisemitismo fosse per definizione assente.
   Ecco perché lo stato è ebraico, e non multinazionale, anche se moltissimi arabi sono cittadini di Israele con pieni e pari diritti (cosa spesso dimenticata o ignorata; anche dall'assessore De Majo quando dice che in Israele c'è un regime di apartheid, quanto meno confondendo i Territori occupati con lo stato di Israele).
   Dunque, soprattutto se si deve occupare di cultura, cara assessora, se non si fida di me ricorra almeno a un breve corso di storia delle vicende mediorientali. Sapere aiuta ad evitare errori grossolani. Corregga ciò che di sbagliato e di offensivo e di pericoloso ha evidentemente detto, e mantenga pure le sue convinzioni politiche sul governo di Israele. Ma sapendo che non può e non deve confonderle con quelle del popolo ebraico. Così fanno le persone serie, e siamo convinti che lei lo sia.

(Corriere del Mezzogiorno, 17 novembre 2019)


Aldair, un campione a Gerusalemme

 
Un testimonial d'eccezione: l'ex difensore Aldair Nascimento Santos, più semplicemente noto come Aldair, che con la maglia capitolina fu campione d'Italia nel 2001 al fianco tra gli altri di Totti, Montella e Batistuta. Il calciatore brasiliano è stato l'ospite d'onore del primo dei quattro camp che la Roma ha organizzato nelle scorse settimane in Israele con la collaborazione del Roma Club Gerusalemme. Oltre una quarantina i giovani dalle diverse provenienze e appartenenze religiose che hanno partecipato all'iniziativa, nel segno del taglio multiculturale che da sempre ispira l'azione del club. Il programma è stato caratterizzato da una settimana di allenamenti mattutini e pomeridiani con gli allenatori delle giovanili Simone Sabbatini e Claudio Ranzani, protagonisti anche di un corso di aggiornamento in due giornate per allenatori provenienti da tutto il Paese.
   Due progetti in parallelo presso i campi del Kraft Stadium, svoltisi sotto la supervisione del manager della società Andrea Caloro, responsabile dei camp della Roma nel mondo. Insieme agli staff della Roma e del Roma Club Gerusalemme e all'ambasciatore d'Italia in Israele Gianluigi Benedetti, Aldair ha anche visitato una cinquantina di bambini ricoverati all'ospedale Alyn, donando loro una parola di speranza e anche un piccolo pensiero. Ancora una iniziativa di successo targata Roma Club Gerusalemme. Istituito nel 2008, il club gestisce una scuola calcio per bambini che vi sono attratti senza distinzioni di religione e nazionalità. Un vero e proprio laboratorio di inclusione e dialogo attraverso lo sport, e in particolare il calcio.
"Sport senza frontiere è il nostro motto, passione senza limiti di distanza il nostro principio" sottolinea Samuele Giannetti, grande animatore dell'associazione. Tifosi della Roma, sì. Ma con un occhio aperto a tutti i colori e a tutti i progetti. Purché a fin di bene.

(Pagine Ebraiche, novembre 2019)


Carlo Pitti, l'artefice del ghetto di Firenze

di Luca Scarlini

Il 13 luglio 1571 gli ebrei fiorentini erano posti di fronte a un bivio: o accettare di stare all'interno della struttura del ghetto, che ancora non era stato compiuto, ma la cui struttura era sempre più definita, oppure andarsene. Dietro la regia di questa decisione granducale, che avrebbe segnato la città nei secoli seguenti, c'era Carlo Pitti, appartenente a una illustre famiglia, di cui ora Ippolita Morgese firma un bel ritratto a partire da documenti inediti nel preciso volume Nessuno sa di lui, edito da Le Lettere.
   Nel Granducato molte furono le conversioni, per evitare la nuova vita nei limiti dello spazio ristretto; Pitti stesso informava il Granduca Francesco che c'erano nuovi cristiani in tutto il territorio del regno. Il nuovo luogo di residenza era segnato da due porte, su via della Nave (oggi Tosinghi) e su via del Mercato: l'accesso e l'uscita erano guardati a vista, i palazzi erano attaccati gli uni agli altri, con una densità abitativa notevolissima.
   Sempre nel 1571 comparve sulla porta principale che si apriva sul Mercato Vecchio un grande scudo della dinastia: «Un arme di palle di loro Altezze a tutte sue spese messa sopra la porta del ghetto di verso e suchilinai e tutto d'accordo con messer Carlo Pitti». Quest'ultimo nel frattempo aveva studiato a fondo i regolamenti delle altre città con una simile struttura: Ferrara, Mantova, Roma e Venezia. Da qui la scelta di una normativa severa comunicata ai rappresentanti della comunità in quello stesso anno.

(Corriere fiorentino, 17 novembre 2019)


La rivolta della benzina infiamma tutto l'iran. La polizia apre il fuoco

Sono 11 le vittime di una giornata di blocchi nel Paese. Dopo l'annuncio del razionamento.

Chiara Clausi

L'Iran è in fiamme. Migliaia di manifestanti sono scesi per le strade dopo che il governo ha annunciato senza preavviso il razionamento della benzina oltre all'aumento del 50 per cento del prezzo. Un colpo tremendo a una popolazione già provata da due anni di crisi economica. Video pubblicati online mostrano automobilisti nella capitale, Teheran, che bloccano il traffico sull'autostrada Imam Ali. In un altro filmato si vede un blocco stradale sull'autostrada Teheran-Karaj, sotto la prima neve di stagione. In altri filmati la polizia spara gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, mentre a Shiraz sarebbero state usate anche pallottole vere. Le proteste sono scoppiate in tutto il Paese. Teheran, ma anche Kermanshah, Isfahan, Tabriz, Karadj, Shiraz, Yazd, Boushehr e Sari.
   Una persona è stata uccisa durante le proteste a Sirjan (11 in totale), altre sono state ferite quando uomini mascherati e armati di pistole e coltelli si sono infiltrati nelle proteste e si sono scontrati con le forze di sicurezza. I tafferugli con la polizia sono iniziati dopo che i manifestanti hanno attaccato un deposito di carburante e hanno cercato di dargli fuoco. Un manifestante è morto anche nella città di Behbahan.
   Le misure d'austerity sono molto rigide. Ogni automobilista può acquistare 60 litri di benzina al mese a 15.000 rial, pari a 0,13 dollari al litro. Ogni litro aggiuntivo costa quindi. 30.000 rial. Prima, ai conducenti erano concessi fino a 250 litri a 10.000 rial per litro. L'Iran è uno dei più grandi produttori di petrolio al mondo, 4 milioni di barili al giorno, ma ha difficoltà di raffinazione e finanziarie dovute alle sanzioni Usa. Il governo ha precisato che le entrate dovute all'eliminazione dei sussidi alla benzina saranno utilizzate per pagamenti in contanti a famiglie a basso reddito. «Le maggiori entrate saranno indirizzate a 18 milioni di famiglie bisognose, circa 60 milioni di persone», ha assicurato il ministro del Petrolio Bijan Zanganeh.
   Ma sono rassicurazioni che non placano la rabbia popolare. Ieri il presidente Hassan Rouhani ha dichiarato che il 75% degli iraniani era attualmente «sotto pressione» e che le entrate extra derivanti dall'aumento dei prezzi della benzina sarebbero andate a loro. I proventi degli aumenti dei prezzi della benzina in Iran sono stati stimati tra i 300 e i 310 mila miliardi di rial, pari a 2,55 miliardi di dollari all'anno.
   Ma la crisi economica iraniana parte da più lontano. Da quando gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi dall'accordo sul nucleare del 2015 e di imporre nuove sanzioni al Paese. Molti iraniani sono scontenti a causa della forte svalutazione del rial e dell'aumento del prezzo del pane, del riso e di altri alimenti di base. La misura sulla benzina fa parte degli sforzi per compensare il forte calo delle entrate. Rohani ha anche riconosciuto questa settimana che l'Iran nell'ultimo periodo ha dovuto affrontare una forte diminuzione del flusso di petrodollari nel Paese.
   Per questo il presidente in queste ultime settimane ha parlato della necessità di dialogare con i nemici, cioè gli Stati Uniti. Non è semplice. Il presidente deve confrontarsi all'interno con i falchi della linea dura. La loro posizione è molto chiara: non vogliono scendere a compromessi sulle politiche regionali dell'Iran. Questi disordini però rappresentano un rischio politico anche per Rohani in vista delle elezioni parlamentari di febbraio. I risparmi degli iraniani sono evaporati, la disoccupazione è galoppante e l'inflazione è già al di sopra del 40%. II Fmi ha previsto che l'economia iraniana si contrarrà del 9% quest'anno. L'aumento del prezzo della benzina è stata soltanto l'ultima goccia.

(il Giornale, 17 novembre 2019)


*


Iran allo stremo, ma gli Ayatollah non rinunciano alla guerra

Aiutare gli Ayatollah non significa aiutare l'Iran, prima i burocrati di Bruxelles lo capiscono e meglio sarà per gli iraniani e per il mondo intero.

di Sadira Efseryan

In Iran la situazione economica è davvero drammatica. In poche ore il regime ha aumentato del 50% il costo della benzina e l'ha razionata. I pochi risparmi di milioni di iraniani sono andati in fumo a causa della svalutazione della moneta, manifestazioni vengono segnalate in tutto il Paese (represse nel sangue), ma il regime non rinuncia alle sue ambizioni espansioniste.

 Le manifestazioni
  Manifestazioni contro il regime sono scoppiate in tutto il paese dopo che il regime ha deciso di aumentare del 50% il costo della benzina e di razionarla. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Sebbene le manifestazioni siano fondamentalmente pacifiche, in molti casi le forze iraniane le hanno represse violentemente. Internet è stato prontamente oscurato per evitare che video e immagini delle proteste e della repressione potessero diffondersi.
Ieri sera in un messaggio alla nazione la guida suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei, ha difeso la decisione del governo e ha etichettato le decine di migliaia di manifestanti come «burattini manovrati dall'estero». Nemmeno gli è passato in testa di ascoltare le ragioni dei manifestanti. Fonti non confermate parlano di almeno una ventina di morti e di decine di feriti tra i manifestanti.

 Gli iraniani non capiscono il regime
  L'Iran potrebbe essere uno dei paesi più ricchi del mondo. Hanno risorse praticamente illimitate, a differenza degli arabi sono tecnologicamente avanzati eppure in Iran si muore di fame o, nella migliore delle ipotesi, si vive in povertà.
Il popolo iraniano non capisce il regime. Non capisce perché debba investire miliardi di dollari in programmi militari, nucleari, balistici ed espansionistici quando la situazione economica del paese è così drammatica.
Nelle manifestazioni in corso i manifestanti non imprecano contro Israele o contro "il grande Satana", non se la prendono con "le forze esterne", contestano Khamenei e Rohuani, contestano la politica degli Ayatollah.
Solo poche ore fa la guida suprema iraniana ha ribadito pubblicamente che l'obiettivo principale per l'Iran è quello di distruggere Israele.
La loro gente muore di fame, sono nel mezzo di una crisi economica senza precedenti, eppure in testa hanno solo la distruzione di Israele.
Qualche giorno fa hanno ripreso l'arricchimento dell'uranio sopra la soglia consentita e hanno iniziato la costruzione di un secondo reattore nucleare a Bushehr. Nessun pensiero alla popolazione allo stremo.
La cosa "buffa" è che mentre gli Ayatollah pensano solo alla guerra lasciando nella miseria un intero popolo, l'Europa non si decide a tagliare i ponti con Teheran proprio per la miseria che la politica guerrafondaia degli Ayatollah ha creato. Si teme che inasprendo il clima a rimetterci sia la povera gente.
Beh, in Europa dovrebbero guardare meglio, dovrebbero vedere la povera gente iraniana contestare il regime degli Ayatollah, dovrebbero vedere il loro sangue che macchia le strade di Teheran e delle maggiori città iraniane.
Peggio di così non può andare e l'unica soluzione è quella di mandare a casa il regime invece di volerlo aiutare come fanno a Bruxelles.
Aiutare gli Ayatollah non significa aiutare l'Iran, prima i burocrati di Bruxelles lo capiscono e meglio sarà per gli iraniani e per il mondo intero.

(Rights Reporters, 17 novembre 2019)



Naaman, il Siro

Dalla Bibbia, secondo libro dei Re, capitolo 5.

Naaman, capo dell'esercito del re di Siria, era un uomo tenuto in grande stima e onore presso il suo signore, perché per mezzo di lui il Signore aveva reso vittoriosa la Siria; ma quest'uomo, forte e coraggioso, era lebbroso. Alcune bande di Siri, in una delle loro incursioni, avevano portato prigioniera dal paese d'Israele una ragazza che era passata al servizio della moglie di Naaman. La ragazza disse alla sua padrona: «Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che sta a Samaria! Egli lo libererebbe dalla sua lebbra!» Naaman andò dal suo signore e gli riferì la cosa, dicendo: «Quella ragazza del paese d'Israele ha detto così e così». Il re di Siria gli disse: «Ebbene, va'; io manderò una lettera al re d'Israele». Egli dunque partì, prese con sé dieci talenti d'argento, seimila sicli d'oro e dieci cambi di vestiario; e portò al re d'Israele la lettera, che diceva: «Quando questa lettera ti sarà giunta, saprai che ti mando Naaman, mio servitore, perché tu lo guarisca dalla sua lebbra». Appena il re d'Israele lesse la lettera, si stracciò le vesti e disse: «Io sono forse Dio, con il potere di far morire e vivere, ché costui mi chieda di guarire un uomo dalla lebbra? È cosa certa ed evidente che egli cerca pretesti contro di me».
   Quando Eliseo, l'uomo di Dio, udì che il re si era stracciato le vesti, gli mandò a dire: «Perché ti sei stracciato le vesti? Quell'uomo venga pure da me, e vedrà che c'è un profeta in Israele». Naaman dunque venne con i suoi cavalli e i suoi carri, e si fermò alla porta della casa di Eliseo. Ed Eliseo gli inviò un messaggero a dirgli: «Va', làvati sette volte nel Giordano; la tua carne tornerà sana e tu sarai puro». Ma Naaman si adirò e se ne andò, dicendo: «Ecco, io pensavo: egli uscirà senza dubbio incontro a me, si fermerà là, invocherà il nome del Signore, del suo Dio, agiterà la mano sulla parte malata, e guarirà il lebbroso. I fiumi di Damasco, l'Abana e il Parpar, non sono forse migliori di tutte le acque d'Israele? Non potrei lavarmi in quelli ed essere guarito?» E, voltatosi, se ne andava infuriato. Ma i suoi servitori si avvicinarono a lui e gli dissero: «Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che egli ti ha detto: "Làvati, e sarai guarito"». Allora egli scese e si tuffò sette volte nel Giordano, secondo la parola dell'uomo di Dio; e la sua carne tornò come la carne di un bambino: egli era guarito.
   Poi tornò con tutto il suo sèguito dall'uomo di Dio, andò a presentarsi davanti a lui e disse: «Ecco, io riconosco adesso che non c'è nessun Dio in tutta la terra, fuorché in Israele. E ora, ti prego, accetta un regalo dal tuo servo». Ma Eliseo rispose: «Com'è vero che vive il Signore di cui sono servo, io non accetterò nulla». Naaman insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naaman disse: «Poiché non vuoi, permetti almeno che io, tuo servo, mi faccia dare tanta terra quanta ne porteranno due muli; poiché il tuo servo non offrirà più olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma solo al Signore. Tuttavia il Signore voglia perdonare una cosa al tuo servo: quando il re mio signore entra nella casa di Rimmon per adorare, e si appoggia al mio braccio, anch'io mi prostro nel tempio di Rimmon. Voglia il Signore perdonare a me, tuo servo, quando io mi prostrerò così nel tempio di Rimmon!» Eliseo gli disse: «Va' in pace!»

--> Lettura fantastica
Il generale Naaman  





 


Tensione Gaza-Israele: missili su Beersheba. Il bluff di Hamas

Due missili su Beersheba nella prima mattinata di oggi scatenano la reazione dell'IDF che questa volta però colpisce obiettivi di Hamas e non della Jihad Islamica

di Sarah G. Frankl

Avete presente la tecnica "del poliziotto buono e del poliziotto cattivo"? È un po' quello che ha cercato di fare Hamas durante l'escalation tra Israele e la Jihad Islamica palestinese.
A differenza delle altre volte quando a seguito del lancio di missili da Gaza verso Israele l'esercito israeliano ha sempre colpito Hamas, ritenendolo giustamente responsabile di quello che succede nella Striscia di Gaza, in occasione della recente escalation l'IDF ha colpito solo obiettivi della Jihad Islamica evitando accuratamente di colpire Hamas. Fino ad ora.
Questa mattina, a seguito del lancio di due missili su Beersheba, ambedue abbattuti da Iron Dome, in quella che è l'ennesima rottura del cessate il fuoco da parte palestinese, l'IDF ha colpito per la prima volta dall'inizio di questa escalation obiettivi di Hamas.
I caccia e i droni israeliani hanno colpito un campo militare, un complesso delle forze navali di Hamas e alcune infrastrutture sotterranee.
Il fatto è particolarmente significativo perché nei giorni scorsi l'aviazione israeliana aveva colpito solo obiettivi della Jihad Islamica specificando che la regola che Hamas fosse responsabile di tutto quello che accadeva nella Striscia non veniva applicata.
Perché allora questa mattina ad essere colpiti sono stati obiettivi di Hamas? Perché, come si sospettava, si è scoperto che Hamas faceva il doppio gioco. Mentre da un lato trattava il cessate il fuoco con l'Egitto e le Nazioni Unite, dall'altro partecipava con suoi uomini al lancio di missili contro Israele.
È stato lo stesso Hamas a tradirsi quando ha annunciato la morte di Ahmed Abdel al-A'al, membro delle Brigate Izz Ad-Din Al-Qassam, l'ala militare di Hamas.
Il terrorista è morto insieme a due suoi fratelli quando un drone ha colpito una postazione della Jihad Islamica che si stava apprestando a lanciare missili contro Israele. La prova che Hamas partecipava allo scontro e non rimaneva quindi neutrale.
«L'organizzazione terroristica di Hamas è responsabile di tutto nella Striscia di Gaza e sopporterà le conseguenze degli atti terroristici compiuti contro i cittadini israeliani», ha detto un portavoce dell'IDF dopo i raid di questa mattina seguiti al lancio di missili su Beersheba.
L'intelligence israeliana sospettava che la Jihad Islamica non potesse condurre un attacco di simili proporzioni senza almeno il tacito consenso di Hamas, ma i vertici politici avevano deciso di lasciare fuori dai combattimenti i terroristi che governano Gaza sperando di non esacerbare ancora di più l'escalation.
Ma l'attacco su Beersheba di questa mattina ha rotto definitivamente quello schema. Da ora si torna all'antico. Il bluff di Hamas non funziona più.

(Rights Reporters, 16 novembre 2019)


Alain Finkielkraut: «L'antisemitismo non è affatto morto (ce ne sono due)»

«Quello di sinistra è cinico calcolo elettorale»

di Stefano Monteflori

Alain Finkielkraut
PARIGI «Se il leader laburista Jeremy Corbyn vincesse le elezioni nel Regno Unito, sarebbe la prima volta dopo Hitler che in Europa arriva al governo un uomo politico antiebrei».

- Corbyn nega di essere antisemita.
  «Ma si è spinto molto lontano nel sostegno alle tesi degli islamisti. E il suo partito è infestato dall'antisemitismo. Mi fa ripensare alla frase di Jacques Julliard, secondo il quale oggi ormai si riconosce un uomo di destra dal fatto che difende gli ebrei, e uno di sinistra perché sta con gli islamisti. E' un capovolgimento inaudito, ma siamo a questo: c'è una sinistra oggi che per ragioni elettorali ha scelto il partito dell'islam politico».

- Secondo Alain Finkielkraut due antisemitismi percorrono oggi l'Europa: quello che affonda le radici nella tradizione dell'estrema destra europea, presente per esempio in Italia o in Polonia, e quello di sinistra, in Francia o in Gran Bretagna.
  «In questa seconda versione l'antisemitismo non è più un volto del razzismo, ma una patologia dell'antirazzismo: per difendere i musulmani, considerati i nuovi dannati della Terra, si attaccano gli ebrei»

- Nel caso invece delle minacce alla senatrice Liliana Segre, il clima politico nazionalista del «prima gli italiani» può averle favorite? In Italia c'è chi torna a distinguere tra veri italiani e persone che «non Io saranno mai»: per esempio il calciatore Balotelli perché nero, o la senatrice Segre perché ebrea.
  «Questo è l'altro tipo di antisemitismo. E' atroce attaccare una donna irreprensibile, sopravvissuta all'Olocausto. Questo significa che la nostra vigilanza deve esercitarsi su due fronti: contro l'avanzata di un antisemitismo legato all'immigrazione islamica, e contro un antisemitismo europeo che mostra in Italia di non essere morto. Sarebbe però sbagliato usare questi episodi terribili per proibire ogni critica dell'immigrazione».

- Si riferisce alla commissione Segre?
  «Sì, penso che l'idea di istituire quella commissione possa avere provocato un'inquietudine legittima. Con il pretesto di lottare contro il razzismo, in Europa c'è la tendenza a stigmatizzare se non addirittura criminalizzare ogni cautela sull'immigrazione. Il Patto di Marrakech, firmato un anno fa da decine di Paesi (ma non dall'Italia, ndr), comincia con un inno all'immigrazione, stabilendo una sorta di canone al quale i media devono conformarsi. Posso capire che in Italia qualcuno non veda di buon occhio una commissione fatta con lo stesso spirito del Patto di Marrakech. Questo ovviamente non legittima gli ignobili insulti a Liliana Segre».

- Nel febbraio scorso lei è stato aggredito per strada a Parigi durante una manifestazione dei gilet gialli.
  «Sono stato vittima del primo tipo di antisemitismo, quello di estrema sinistra, importato dal Maghreb. Mi hanno urlato "sporco sionista, torna a Tel Aviv", e altri insulti. In quel caso l'antisionismo è la foglia di fico dell'antisemitismo».

- Domenica a Parigi c'è stato un corteo contro l'islamofobia.
  «Durante il quale si sono viste le stelle gialle, già usate dai nazisti sugli ebrei destinati allo sterminio, appuntate sulle giacche dei musulmani. Al corteo ha partecipato la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, con uno spaventoso cocktail tra idealismo compassionevole e cinico realismo elettorale: gli ebrei in Francia sono 700 mila, i musulmani 6 milioni».

(Corriere della Sera, 16 novembre 2019)


Le Carré attacca Corbyn: «È anti ebrei»

Lo scrittore guida l'appello degli intellettuali a non votare Labour. Intanto precipita il gradimento del leader.

di Luigi Ippolito

 
                                 John Le Carré                                                                                            Jeremy Corbyn
LONDRA - Forse è più abituato a districarsi nel mondo delle spie, dei tradimenti e delle ombre: ma quando sente odore di antisemitismo, John Le Carré è in grado di riconoscerlo a prima vista. Ed è per questo che il più celebre autore contemporaneo di spy story si è messo alla testa di un gruppo di intellettuali e personaggi pubblici britannici per scrivere una lettera aperta in cui denuncia l'ostilità antiebraica che alligna nel partito laburista: e per chiedere quindi di non appoggiare Jeremy Corbyn alle prossime elezioni.
   Il voto di dicembre, si legge nell'appello, «contiene per ogni ebreo britannico una particolare angoscia: la prospettiva di un primo ministro radicato nell'associazione con l'antisemitismo». Infatti, ricorda la lettera, con Corbyn il partito laburista è finito sotto inchiesta, da parte della Commissione per i diritti umani, per «razzismo istituzionalizzato» contro gli ebrei e diversi deputati del partito di origine ebraica si sono visti costretti a stracciare la tessera perché si sentivano ostracizzati.
   Le Carré e i suoi compagni insistono che «il pregiudizio antiebraico non può essere il prezzo dà pagare per un governo laburista» e che queste considerazioni non debbono passare in secondo piano rispetto alla Brexit. «Noi ci rifiutiamo di votare per il Labour il 12 dicembre», concludono gli autori, fra i quali si contano diversi storici, l'attrice Joanna Lumley, il fondatore di Wikipedia Jimmy Wales, ma anche vari esponenti musulmani, come il fondatore di «Teli Marna», il gruppo che si batte contro l'islamofobia, e il presidente di «Musulmani contro l'antisemitismo».
   La risposta dei laburisti è stata particolarmente stizzita: «E straordinario - ha detto un portavoce - che molti di quei firmatari siano stati a loro volta accusati di antisemitismo, islamofobia e misoginia. Noi prendiamo le accuse di antisemitismo molto seriamente e siamo impegnati a sradicarlo dal partito e dalla società». Ma la polemica sull'atteggiamento antiebraico del Labour, che va avanti da oltre un anno, non è destinata a sgonfiarsi: e va a sommarsi a una serie di altre difficoltà per il partito di Corbyn, la cui popolarità personale è scesa sottoterra, a livelli senza precedenti per un leader dell'opposizione. Per di più il giorno stesso del lancio della campagna elettorale il vice leader Tom Watson - un moderato - si è dimesso clamorosamente, mentre nei giorni successivi una serie di figure di spicco vicine al partito hanno esortato a non votare più per i laburisti, ormai in mano ai marxisti radicali corbyniani.

(Corriere della Sera, 16 novembre 2019)


Israele da film con Unorthodox e GoldaMeir

di Franco Montini

Il cinema israeliano è sempre stato specchio della complessità, del multiculturalismo, delle contraddizioni, dei conflitti che caratterizzano la realtà del paese. Ne fa testimonianza il Pitigliani Kolno'a Festival, vetrina del cinema ebraico, in programma da oggi a mercoledì 20 novembre. Queste caratteristiche si ritrovano anche nella produzione di Eran Riklis, il regista de "La sposa siriana" e "Il giardino dei limoni", ospite d'onore di quest'anno, che domenica interverrà per presentare i suoi film più recenti: "Dancing Arabs", storia di un ragazzo palestinese/israeliano e della sua difficile integrazione in una prestigiosa scuola di Gerusalemme e "Shelter", thriller spionistico con protagoniste un'agente del Mossad e un'informatrice libanese.
   Ad inaugurare il festival, questa sera alle 20,30, è stato scelto "The Unorthodox", film drammatico che racconta l'incapacità degli ebrei sefarditi ad integrarsi nella società israeliana più occidentale. Il regista Eliran Malka sarà in sala per la presentazione. Sempre in tema di contrasti, da segnalare, in programma domenica, un altro lungometraggio, "Working Women" di Michal Aviad, che, attraverso la storia di Orna, vittima delle avances del suo capo, affronta un argomento d'attualità: gli abusi e la violenza cui spesso sono sottoposte le donne. Oltre ai film, nel festival israeliano c'è spazio anche serie tv, cortometraggi e documentari. Fra quest'ultimi "Golda", in programma lunedì alle 21, che, tra testimonianze di sostenitori e oppositori, filmati d'archivio e una rara intervista, traccia il ritratto di Golda Meir, prima ed unica donna premier d'Israele.

(la Repubblica - Roma, 16 novembre 2019)



Ho conosciuto il futuro primo rabbino donna d'Italia

Con lei abbiamo trovato la parola che indica il genitore che ha perso un figlio.

di Concita De Gregorio

 
                           Concita De Gregorio                                                    Miriam Camerini
Ho conosciuto Miriam Camerini per caso, camminando per le strade di Vicenza durante un importante festival dedicato alle religioni, il Festival Biblico. Ho seguito la musica, come nella favola del Pifferaio, e mi sono trovata di fronte a una ragazza magica piena di capelli, di occhi, di sorrisi e di mani che, vestita di verde, cantava in ebraico melodie a me ignote con voce potente e antica. Sono rimasta fino alla fine, incantata. Ho scoperto così che Miriam, nata a Gerusalemme, vive a Milano dove cura spettacoli teatrali e musicali, recita, canta e studia cultura ebraica. Si avvia, nel pieno dei suoi trent'anni, a essere il primo rabbino donna in Italia.
   Con la futura rabbina, finito il concerto, abbiamo parlato di cibo: Ricette e precetti, il suo libro, intreccia la tradizione religiosa e la memoria familiare in una storia che, si sa, inizia con un morso di troppo a una mela. Divieti, obblighi, devozione, ribellione. Il dolce preparato da Noè sull'Arca, per consumare gli avanzi che è vietato - è un peccato! - buttare. Parole piene di acca aspirate e di cappa sonore, l'origine delle parole, la storia delle parole e le ragioni che le hanno portate fìn qui. Siamo così arrivate alla "parola scomparsa", e di questa abbiamo parlato di nuovo quando dopo molti mesi ci siamo reincontrate: «Sai la parola mancante di cui mi parlavi?», mi ha detto. Una mia antica ricerca, dai tempi in cui scrivevo Mi sa che fuori è primavera: manca la parola che indica il genitore che ha perso un figlio. Esiste in ebraico, shakul, e in altre lingue antiche, il sanscrito, l'arabo. È scomparsa nelle lingue moderne. «Ne ho parlato con mio padre», mi ha detto Miriam, «e ci siamo ricordati un testo, L'elegia giudeo-italiana commentata da Sara Natale, in cui si usa la parola "desfigliata''. Tragica e bella, rende l'idea dell' ebraico shakul: Desfigliata. L'unica volta in cui la lingua italiana dà un posto, una casa, alla condizione dei genitori orfani di figli. Devo subito scriverlo a Sandro Veronesi, che nel suo potente e conturbante ultimo romanzo, Il Colibrì, dedica molte pagine proprio a questo. Leggetela, se volete farvi un regalo, la storia di questo padre, Marco Carcera: il colibrì che si muove senza sosta per restare saldo nell'uragano della vita.
   L'elegia giudeo-cristiana, l'incontro delle religioni, la parola desfigliata e Miriam mi hanno fatto tornare in mente, per assonanza, la bellissima vita di Trotula de Ruggiero, maestra della scuola medica salernitana che nell'anno Mille è stata medico stimato e generoso. Anziché essere bruciata come strega, come alle donne che sapevano di medicina (che sapevano, in generale) accadeva in quel tempo, Trotula ha fondato la ginecologia moderna e ha scritto un trattato memorabile, anzi due. Del primo - Trotula maior, Sulle malattie delle donne - sapevo dalla biografia di Paola Presciuttini intitolata, appunto, Trotula. Giorni fa Agnese Mannì, editrice, mi ha consegnato l'altro, il Trotula minor. Earmonia delle donne, un trattato medievale di cosmesi e cura del corpo. Come eliminare le rughe, i peli superflui, l'alitosi, come fare "ut virgo puretur que corrupta fuit", ossia come riacquistare la verginità. Non fatelo con polvere di vetro, suggerisce Trotula, perché fa male a voi e a lui. Piuttosto, spiega di seguito, ecco come. Irresistibile.

(la Repubblica, 16 novembre 2019)


"
Ho conosciuto il futuro primo rabbino donna d'Italia". Sarebbe interessante sapere se la comunità ebraica italiana conferma questa clamorosa notizia. Anche perché se Miriam Camerini aspira a diventare il primo rabbino donna in Italia, qualcuno deve avvertirla che è stata battuta sul tempo, perché un rabbino donna sembra che nel nostro paese ci sia già. Ne parla un sito ebraico in un articolo dal titolo: "Rabbi Barbara Aiello: il mio approccio alla conversione - Un metodo che unisce tecnologia e tradizione: la prima rabbina donna d'Italia scrive per Joimag.”
L’articolo citato comincia così: “Il 16 e 17 luglio 2019, M.C. si è recato in Calabria per unirsi a 13 candidati al fine di completare il processo durato un anno per diventare ebreo”. Dovrebbe essere inutile, ma è bene precisarlo: non abbiamo nulla a che vedere con quel M.C.



Firenze: il prefetto Laura Lega in visita alla Sinagoga

Accolta dal Rabbino Capo Gad Fernando Piperno e dal Presidente della Comunità Ebraica David Liscia, ha tra l'altro ricordato i principi costituzionali sulla pluralità religiosa.

Il Prefetto Laura Lega
Il Prefetto Laura Lega si è recata stamani alla Sinagoga di Firenze dove è stata accolta dal Rabbino Capo Gad Fernando Piperno e dal Presidente della Comunità Ebraica di Firenze David Liscia. Una visita che il Prefetto ha voluto come segno di attenzione alla comunità ebraica in un momento che vede il riacutizzarsi di sentimenti antisemiti.
   Un incontro molto cordiale che ha rappresentato l'occasione per parlare del rapporto tra lo Stato italiano e la comunità israelitica, parte integrante di quella nazionale. Il Prefetto ha ricordato i principi sanciti dalla Costituzione sul pluralismo religioso e sulla libertà di confessione come diritto fondamentale e inviolabile dell'individuo, principi protetti e garantiti dalla nostra Carta. Da qui la necessità, ha sottolineato Lega, di consolidare nella comunità il senso di piena condivisione di questo forte sistema valoriale.
   Lega ha accennato al fatto che oggi siamo a pochi giorni di distanza dall'anniversario del 6 novembre 1943, data della deportazione degli ebrei di Firenze, un momento tragico che " la città deve aver vissuto come una lacerazione molto forte, ha detto il prefetto, così come è avvenuto a Roma per la deportazione del Ghetto nell'ottobre di quello stesso anno". " Per noi è un dovere rafforzare la lotta all'antisemitismo e a qualunque forma di razzismo legato al credo religioso. Per questo ritengo importante, ha proseguito , lavorare insieme in un tavolo interreligioso, che farò partire a breve, con la partecipazione dei rappresentanti di tutte le fedi".
   In conclusione si è parlato anche di un rafforzamento delle misure a protezione della Sinagoga in un quadro di sicurezza generale.

(Nove da Firenze, 15 novembre 2019)



Cittadinanza alla Segre, la de Majo come a scuola

"Studio il conflitto Israele-Palestina da quando avevo 14 anni". Sul Mattino la contro risposta della neo assessora alla senatrice e alle polemiche scaturite dalla sua proposta.

Ieri abbiamo scritto della proposta di cittadinanza onoraria per la senatrice Liliana Segre lanciata dalla neo assessora alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, Eleonora de Majo. Un'iniziativa che la Segre ha rispedito al mittente rifiutando qualsiasi forma di strumentalizzazione.
Oggi il Mattino riporta la controrisposta della de Majo. L'assessora ha detto che la sua era solo una richiesta al sindaco per avere il permesso di avviare le pratiche necessarie, come previsto dall'iter. Non è sua intenzione, dice, polemizzare ancora.
"Loro hanno una posizione, io la mia. Ho un mondo che sta con me e un mondo che sta contro di me. Il conflitto Israele-Palestina lo studio da quando avevo 14 anni".
Ci auguriamo che la Segre non venga mai a conoscenza di queste affermazioni e che nella sua enorme classe scelga il silenzio che regali l'oblio che merita alla questione.

(il Napolista, 16 novembre 2019)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.