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Notizie 16-30 novembre 2020


Iran, squadra di 62 agenti per eliminare Mr. Atomica

I retroscena dell'azione che ha portato alla morte dello scienziato Fakhrizadeh. Due cecchini, un'autobomba, elettricità tagliata: il raid del Mossad in area nemica.

di Flavio Pompetti

 
NEW YORK - La bara aperta con il corpo del fisico nucleare Mohsen Fakhrizadeh è stata esposta ieri nella moschea Hazrat Masoumeh di Teheran, e i cittadini iraniani hanno dato l'ultimo saluto al "padre del programma nucleare" del paese. Oggi la salma sarà trasferita nel santuario di Qom, città natale dello scienziato e massimo punto di riferimento religioso. Gli iraniani mostrano una fretta insolita nell'accomiatarsi da una personalità così importante per la sicurezza nazionale.

 FALLE NELLA SICUREZZA
  L'assassinio, che le autorità del regime continuano ad attribuire al Mossad israeliano, ha messo in luce la debolezza critica dei sistemi di intelligence e di sicurezza, e ancora di più la difficoltà di reagire con una rappresaglia militare che potrebbe avere conseguenze disastrose per il paese. L'attentato è stato eseguito come il copione di un film, stando alle ricostruzioni fatte da giornalisti locali sulla base di informazioni governative. Dodici sicari si erano appostati a bordo di un suv e di cinque motociclette, con l'aggiunta di due cecchini, presso una rotonda all'estremità del viale che conduce nella città di Absard, dove risiedono i suoceri di Fakhrizadeh, e dove lo stesso scienziato aveva una sua villa.

 DETRITI A 300 METRI
  Lì hanno atteso il convoglio di tre automobili corazzate che scortava il loro bersaglio nel trasferimento dalla capitale. Quando le vetture si sono avvicinate, un pickup parcheggiato al fianco della strada è esploso con violenza, tale da spostare detriti a 300 metri di distanza. L'incidente ha bloccato la scorta mentre una pioggia di proiettili si abbatteva sulle vetture, all'altezza del cruscotto.
Due dei guardaspalle sono morti sul colpo; il corpo di Fakhrizadeh è stato trascinato sul selciato dal capo del commando, e qui giustiziato con un inutile colpo alla testa: lo scienziato era già stato ucciso da un colpo al cuore a bordo dell'auto. I membri del commando si sono dileguati senza lasciare traccia, mentre i soccorritori che hanno portato le vittime all'ospedale cittadino hanno scoperto che l'intera zona era a corto di elettricità, opera dei guastatori della squadra che ha eseguito l'attentato.'' Il consigliere di Rouhani per gli affari Esteri, Kamal Kharrazi, chiede una risposta «calcolata e incisiva», mentre un editoriale del quotidiano oltranzista Kayhan Daily propone di bombardare la città di Haifa oltre il confine israeliano.

 LA PAURA
  La stessa stampa israeliana esamina il rischio in arrivo: bombe suicide presso le ambasciate? Missili cruise lanciati verso Israele dal lontano Yemen con l'aiuto degli Houti? La realtà è che al netto di azioni disperate, le opzioni strategiche sono limitate. I servizi iraniani sono all'angolo, insidiati da una serie di attacchi che hanno mostrato l'estrema disinvoltura con la quale i rivali israeliani sono capaci di muoversi all'interno dell'Iran. Prima l'incursione del 2018 negli archivi nucleari del governo, dai quali sono stati trafugati camionate di faldoni che hanno rivelato, tra l'altro, la funzione centrale di Kakhrizadeh nello sviluppo del programma nucleare. Poi le uccisioni quest'anno del generale dei quds Souleimani e del numero due di al Qaeda: al Masri, in due successivi attentati ai quali l'Iran ha potuto rispondere solo con un bombardamento quasi concordato con gli Usa di una loro base aerea in Iraq.

 LA MINACCIA NUCLEARE
  In assenza di una vera opzione militare, il parlamento di Teheran ha risposto ancora una volta con l'arma della minaccia nucleare. Sabato il legislativo ha deciso di superare di nuovo i vincoli dell'accordo di Parigi, e di portare al 20% l'arricchimento di uranio nelle sue centrali.

(Il Messaggero, 30 novembre 2020)


Bergman: "Israele ha infiltrato l'Iran a livelli unici al mondo"

Intervista all'esperto del New York Times

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Ronen Bergman da anni racconta quel mondo fatto di ombre, dilemmi e scelte spietate in cui operano i servizi israeliani. Unico israeliano nella redazione del New York Times, firma di punta di Yediot Ahronot, per il quotidiano americano ha rivelato pochi giorni fa che dietro all'assassinio del numero due di Al Qaeda, Al Masri, a Teheran, c'era la mano del Mossad.
   Alla spinosa questione degli omicidi mirati ha dedicato un saggio, Uccidi per primo, tradotto in 20 lingue tra cui l'italiano, che Hbo sta per trasformare in serie tv. L'omicidio del padre del programma del nucleare Mohsen Fakhrizadeh, attribuito ad agenti israeliani, dimostra come «siano stati raggiunti livelli di infiltrazione senza precedenti», dice a Repubblica. «Se pensiamo al trafugamento dell'archivio nucleare nel 2018, di quel magazzino erano a conoscenza solo sei funzionari iraniani». Risultati incredibili, frutto di un percorso in cui «la comunità di intelligence israeliana ha creato una sinergia tra tutte le sue componenti che è unica al mondo. L'enorme sfida della seconda Intifada ha portato all'acquisizione di esperienza sul campo che si è rivelata critica su altri fronti».

- Il tempismo di questo attacco dice qualcosa?
  «Ci sono molte speculazioni riguardo al fatto che l'operazione sia avvenuta ora per ostacolare la strada diplomatica che vuole intraprendere Biden con l'Iran. Ma operazioni del genere richiedono mesi di preparativi, il tentativo di legarla al risultato delle elezioni Usa non è plausibile».

- Ha descritto l'operazione per eliminare il generale di Hezbollah Imad Mughniyeh come la più complessa dl sempre. Quella di venerdì l'ha superata?
  «Una delle sfide con Mughniyeh era che nessuno sapeva che volto avesse, la sua ultima foto risaliva al 1983. Fakhrizadeh era più esposto: aveva un blog, aveva insegnato all'università. L'omicidio di Mughniyeh nel 2008 ha rappresentato una svolta nel modus operandi, nella preparazione sul campo durata mesi, nel coinvolgimento di nuove unità di intelligence. Si è creato un modello che non c'è dubbio sia stato utilizzato in seguito».

- Si è parlato di motociclisti e cecchini, ma l'agenzia dl stampa Fars ha detto che non erano coinvolti uomini, si è trattato dl un'operazione gestita da remoto.
  «Fakhrizadeh era sorvegliato 24 ore al giorno, sette giorni su sette, e chi ha compiuto l'operazione lo sapeva ed era pronto a uno scontro a fuoco. La ricostruzione di Fars non mi pare realistica. In Iran ne circola anche un'altra secondo cui uno dei cecchini è stato fermato e interrogato. Va considerato che in questa fase le informazioni rilasciate potrebbero essere volte a depistare. Credo ci sia un grande imbarazzo da parte del regime perché, qualunque sia la versione, ha fallito nel compito di difendere una delle sue figure chiave».

- Ci sono migliaia di turisti Israeliani a Dubai e l'Unità per la lotta al terrorismo ha appena pubblicato un "avviso di viaggio" sugli Emirati. C' è un rischio concreto di rappresaglia?
  «L'Iran, rispetto ai durissimi colpi subiti nell'ultimo anno, ha dimostrato di stare facendo di tutto per evitare un'escalation, lo vediamo anche in Libano e Iraq. Credo che, prima di ogni cosa, a loro interessi la sopravvivenza del regime. E per questo servono soldi, la situazione economica del Paese è drammatica. Credo che aspetteranno di vedere come Biden si comporterà. Arrivano al tavolo delle trattative in una posizione di estrema debolezza e Biden dovrebbe poter sfruttare questa condizione per ottenere un accordo migliore».

(la Repubblica, 30 novembre 2020)


Israele: «Pronti a subire ritorsioni»

«Il nostro messaggio è chiaro: continueremo ad operare in maniera vigorosa contro l'arroccamento dell'Iran in Siria e siamo preparati ad ogni forma di aggressione ai nostri danni». Lo ha detto il capo di stato maggiore dell'esercito israeliano Avi Kochavi in visita sul Golan al confine con la Siria, 48 ore dopo l'uccisione dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh. Kochavi ha sottolineato che mentre i comandanti israeliani sul Golan operano «di routine» è «cruciale mantenere attenzione a fronte di possibili sviluppi nella regione».
Il dossier Iran è uno dei più scottanti che dovrà affrontare il nuovo presidente Usa Joe Biden.

(Nazione-Carlino-Giorno, 30 novembre 2020)


Iran: « L'omicidio di Fakhrizadeh? Grazie Israele...». Bilanclo atomico

di Chiara Clausi

BEIRUT - E stata una domenica di fuoco ieri. Iran e Israele, a due giorni dall'assassinio del padre del programma nucleare di Teheran, Mohsen Fakhrizadeh hanno minacciato ritorsioni, usato toni ostili, intimidatori. «Il mondo dovrebbe ringraziare Israele per l'omicidio di Fakhrizadeh» ha tuonato un alto funzionario israeliano in anonimato sul New York Times, sottolineando come le armi atomiche siano una minaccia globale. Ha poi raccontato di essere stato coinvolto in prima persona e per anni nel programma per seguire le tracce dello scienziato assassinato, ma ha poi precisato che lo Stato ebraico avrebbe comunque continuato ancora a impegnarsi per limitare le ambizioni nucleari di Teheran. Bruce Riedel, ex funzionario della Cia, che ha parlato anche lui con il quotidiano statunitense, ha definito la presunta operazione israeliana «senza precedenti».
   Riedel ha poi spiegato la strategia di Israele. Tel Aviv ha investito considerevoli risorse delle sue agenzie di spionaggio per l'Iran, e questa è stata in parte la ragione del suo successo. Lo Stato ebraico ha fatto un uso efficace dei madrelingua farsi nella sua popolazione, ha raccontato, e ha creato reti all'interno della Repubblica islamica e basi operative nel paese vicino, l'Azerbaigian. Fakhrizadeh è stato assassinato otto anni dopo l'ultimo omicidio imputato a Israele e Riedel ha avvertito che potrebbero essere in corso altre azioni. Lo Stato ebraico però non ha ufficialmente confermato il suo coinvolgimento nella sparatoria in cui è stato ucciso Fakhrizadeh.
   Anche Teheran inizia a reagire in maniera più concreta a quanto successo. Il parlamento iraniano ha chiesto la sospensione delle ispezioni internazionali agli impianti nucleari del Paese come risposta proporzionata all'uccisione dello scienziato. In una dichiarazione firmata da tutti i membri del parlamento, si legge che «la mano del regime assassino sionista» può essere chiaramente vista nell'assassinio di Fakhrizadeh. I membri del parlamento hanno chiesto una «risposta immediata e punitiva» agli atti di aggressione stranieri: la reazione migliore sarebbe «rilanciare la brillante industria nucleare del nostro Paese». Ha fatto sentire la sua voce anche il presidente del parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf che ha fatto notare come tutte le forze in Iran devono astenersi dall'inviare «segnali che indichino debolezza o fiducia nel sistema politico statunitense».

(il Giornale, 30 novembre 2020)


L'Iran minaccia vendetta. Sospetti sul patto segreto tra Trump e Netanyahu

Rohani accusa e minaccia. La Cia smentisce, resta nel mirino la visita di Pompeo in Israele

di Chiara Clausi

BEIRUT - La promessa di una vendetta e le parole di fuoco sono arrivate subito dalla Repubblica islamica per l'assassinio dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh, la mente del programma nucleare di Teheran, «il padre della bomba iraniana».
   Fakhrizadeh è morto in una imboscata ad Absard, a est della capitale, mentre era in macchina, ucciso a colpi di arma da fuoco. Il presidente Hassan Rohani ha accusato dell'omicidio senza giri di parole Israele: «I mercenari dell'oppressivo regime Sionista» sono dietro l'attacco, ma ha subito precisato che il programma nucleare non sarà per questo rallentato.
   La morte dello scienziato rischia però di esacerbare le tensioni già alte tra Teheran, Washington e Tel Aviv. Il presidente iraniano ha precisato che il suo Paese risponderà, ma «a tempo debito» e che l'uccisione di Fakhrizadeh non spingerà l'Iran «a prendere decisioni affrettate». «I nemici dell'Iran dovrebbero sapere che il popolo iraniano e i suoi leader sono coraggiosi e non lasceranno questo atto criminale senza risposta», ha tuonato. «L'assassinio del martire Fakhrizadeh mostra la disperazione dei nostri nemici e la profondità del loro odio. Il suo martirio non rallenterà i nostri successi», ha concluso. Anche la Guida Suprema, l'Ayatollah Ali Khamenei ha esortato «alla punizione» di chi ha eseguito l'attacco «e di chi lo ha ordinato».
   Anche per il New York Times dietro il blitz c'è la mano di Israele. Il quotidiano americano ha citato tre ufficiali governativi, di cui due dirigenti dei servizi di intelligence che sostengono che ci sia lo Stato ebraico dietro l'agguato. Secondo il giornale però «non è chiaro quanto gli Usa sapessero in anticipo dell'operazione». Tel Aviv non ha rilasciato nessun commento sull'assassinio. E il portavoce del ministro degli esteri di Israele ha invece sottolineato che il ministro non rilascia dichiarazioni sulle missioni all'estero.
   Nel frattempo le ambasciate israeliane nel mondo sono state avvertite di tenere l'allerta alta per paura di ritorsioni. Anche dai piani alti della Cia sono arrivate analisi su quanto accaduto. L'ex capo dell'intelligence americana John Brennan ha precisato che l'assassinio dello scienziato è stato un atto «criminale» e «sconsiderato» che rischia di infiammare la regione. Ma Brennan ha anche sottolineato come non si possa sapere «se un governo straniero abbia autorizzato o eseguito l'uccisione di Fakhrizadeh». Il pericolo di un confronto tra l'Iran e l'Occidente e Israele nelle rimanenti settimane della presidenza Trump però è alto. Amos Yadlin, ex capo dell'intelligence militare dello Stato ebraico e direttore dell'Israel's Institute for National Security Studies ha fatto notare che «se l'Iran sarà tentato di vendicarsi» e lo farà, «sarà difficile per Biden rientrare nell'accordo sul nucleare».
   L'assassinio di Fakhrizadeh arriva dopo la visita del segretario di stato americano Mike Pompeo in Israele dove ha incontrato il premier israeliano Netanyahu e Rossi Cohen, il direttore del Mossad, il servizio di intelligence dello Stato ebraico. Durante il viaggio Pompeo ha avanzato la possibilità di un raid contro l'Iran, e ha sottolineato come tutte le opzioni siano ancora sul tavolo.

(il Giornale, 29 novembre 2020)


Egitto - Popstar amico di Israele: per i suoi fan una nota stonata

La star della musica egiziana Mohamed Ramadan è stato sospeso la scorsa settimana dall'Unione del sindacato degli artisti, dopo che una sua fotografia in cui posa con il cantante israeliano Omer Adam - divo del pop mediterraneo con milioni di visualizzazioni su Youtube - durante una visita a Dubai, ha fatto il giro del web. Un magistrato del Cairo interrogherà Mohamed Ramadan perché è stato denunciato da un avvocato che l'accusa di "insultare il popolo egiziano" con tali immagini, e in molti online hanno definito la fotografia un tradimento della causa palestinese. Il caso sarà ascoltato in tribunale il 19 dicembre.
   L'immagine di Ramadan e Adam ha guadagnato ulteriore popolarità quando è stata ritwittata dall'account Twitter arabo dello Stato di Israele con la didascalia "L'arte ci unisce". A quel punto insulti e minacce contro il cantante egiziano si sono moltiplicati. "Hai perso il tuo pubblico", si legge in un commento sulla pagina Instagram di Ramadan: No alla normalizzazione" scrive un altro, e "Tutti i palestinesi dovrebbero smettere di seguirti". In quello che è sembrato un tentativo di contenere i danni, Ramadan ha pubblicato una sua foto con i fan, commentando: "Non c'è spazio per me per chiedere a ciascuno la sua identità, colore, nazionalità e religione". Ma ormai il "danno" - come commentano le tv egiziane - era fatto. Sebbene l'Egitto abbia ufficialmente legami con Israele e un trattato di pace da 41 anni, il suo governo non ha mai incoraggiato una calda pace con lo Stato ebraico. Nonostante l'accordo di pace tra le due nazioni, non c'è stato alcun riavvicinamento tra i cittadini dei due paesi. Ci sono efficaci scambi in materia di sicurezza fra il Cairo e Gerusalemme, ma per esempio mentre i turisti israeliani affollano le spiagge egiziane sul Mar Rosso non ci sono turisti egiziani in Israele, non sono mai venuti perché timorosi delle ritorsioni al loro ritorno. Una posizione in netto contrasto con gli Emirati Arabi Uniti, che dopo la firma dell'accordo di normalizzazione con Israele stanno tentando di promuovere oltre al business anche scambi culturali e il turismo.

(il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2020)


Specificità e identità della Shoah, necessario riconoscerle

di rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

A proposito della Carta della memoria di Gariwo: un documento pieno di sollecitazioni importanti, ma che nasconde un rischio. L'ebraismo con i suoi valori, la sua fede e la sua storia sta sempre in bilico tra il particolare e l'universale. La Shoah non sfugge a questa regola. È la tragedia di un popolo, unica per le sue caratteristiche, ed è un monito universale. Le repliche più o meno parziali di questo terribile modello sono numerose e il monito è quanto mai necessario. È difficile (ma non impossibile) fare gradazioni delle sofferenze e certo Israele non ha il monopolio della sofferenza. Ma attenzione a non fare confusione, a mescolare in un unico calderone tutti i genocidi, aggiungerci oggi le epidemie, domani forse le sofferenze personali, per creare una memoria unificata e indistinta delle sofferenze che ricorda tutto per non ricordare niente. La specificità e l'identità sono necessarie quanto l'universalità. La forza del messaggio universale di Israele deriva dalla unicità della condizione e della storia di Israele.

(moked, 29 novembre 2020)


*


Una “coscienza globale e universale” nei confronti di tutti i genocidi. Dio non c’entra

La precisazione di rav Di Segni in merito alla Carta della memoria di Gariwo è indubbiamente molto garbata, ma anche molto debole.
Di seguito alcuni estratti dalla suddetta Carta:
    La memoria a livello educativo è stata una grande scuola perché ha permesso di comprendere come i genocidi non sono stati una catastrofe extrastorica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani.
    In primo luogo sembra prevalere una lettura identitaria e rituale della Shoah che, come osservava Marek Edelman, rischia di fare venire meno il suo carattere di insegnamento universale. [...] Quanto era accaduto agli ebrei non solo non si doveva più ripetere per gli ebrei, ma doveva diventare un principio morale nei confronti di qualsiasi popolo minacciato.
    ... è importante abituare gli educatori, gli storici, i narratori delle sofferenze particolari al metodo della comparazione, non solo per cogliere comunanze e diversità in ogni contesto, ma per creare una coscienza globale e universale nei confronti di tutti i genocidi.
    È importante che nelle giornate della memoria ci sia una costante informazione non solo sulla Shoah e sui genocidi del passato, ma su tutte le atrocità di massa del nostro tempo come ad esempio la persecuzione genocidaria nei confronti dei rohingya in Birmania, degli yazidi in Iraq, degli uiguri in Cina, i crimini dell'ISIS, gli stupri di massa in Congo, fino agli effetti devastanti delle pandemie, dei cambiamenti climatici, che possono provocare migrazioni, conflitti e tragedie la cui portata va oltre alla nostra immaginazione.
    Si è veramente appresa la lezione di un genocidio quando si sviluppa una sensibilità nei confronti di ogni forma di male estremo che attraversa la nostra epoca.
    L'esercizio della memoria a livello educativo ha come fine quello di incentivare comportamenti virtuosi da parte dei giovani e dei singoli cittadini che costantemente devono essere chiamati ad arginare i semi premonitori del Male che si presentano nelle società democratiche.
    Come ci ricorda Yehuda Bauer la preservazione delle democrazie è nella maggior parte dei casi l'antidoto fondamentale per la prevenzione dei genocidi.
    È sempre l'alleanza internazionale tra le democrazie che permette la resistenza ad un male estremo.
Segue in nota una conclusione tratta da un testo di Yehuda Bauer:
    "La conclusione da quanto detto è che l'Olocausto, cioè il genocidio degli ebrei, non era unico.
    Se dicessi che è stato unico, cioè che ne è accaduto solo uno nella storia, potremmo dimenticarlo, perché non avrebbe più importanza per i vivi - è successo una volta e non verrà ripetuto. Anche "unicità" implica che sia intervenuto qualche fattore extrastorico, qualche Dio o qualche Satana. Ma il genocidio degli ebrei fu il prodotto dell'azione umana, e quelle azioni furono prodotte da motivazioni umane. Nessun Dio o Satana era coinvolto. Pertanto, l'Olocausto è stato senza precedenti, non unico.
    Il che significa che era, o può essere, un precedente e che, di conseguenza, dovremmo fare tutto ciò che è in nostro potere affinché non diventi un precedente, ma sia un monito. Questo è il collegamento principale tra affrontare l'Olocausto e affrontare il genocidio."
    Yehuda Bauer, The Jews a contrary people, Münster, LIT Verlag, 2014, p. 175
Domanda: non potrebbe essere che l’”unicità” dell’Olocausto sia da alcuni esclusa a priori perché dà fastidio l’idea che ci possa essere un Dio unico e sovrano? Sarà così anche per molti ebrei? E’ possibile, lo si sa bene. Ma forse, chi crede in quel Dio di cui è piena la storia degli ebrei, ricca di genocidi, se non è del tutto convinto che “è sempre l'alleanza internazionale tra le democrazie che permette la resistenza ad un male estremo”, dovrebbe ogni tanto far sentire un po’ più alta la sua voce. M.C.

(Notizie su Israele, 30 novembre 2020)


L'ira di Teheran contro Israele. "Vogliono scatenare il caos"

Rohani dopo l'uccisione di Fakhrizadeh: "Ma non cadremo nella trappola". Rischio escalation nel Golfo Persico, gli Usa schierano la portaerei Nimitz.

di Giordano Stabile

 
Ma il fallout dell'agguato che venerdì pomeriggio è costato la vita al capo del programma nucleare di Teheran attraversa anche l'Atlantico e innesca un nuovo scontro fra gli oppositori di Donald Trump e l'amministrazione uscente, accusata di voler rendere impossibile il lavoro di Joe Biden e il rilancio dei negoziati con l'Iran.
   Il tutto mentre nel Golfo persico tornano la portaerei Nimitz e gli aerei spia Poseidon, con lo spettro di un possibile scontro armato. La mattinata di ieri si è aperta con discorsi delle massime autorità iraniane, il presidente Hassan Rohani e la guida suprema Ali Khamenei, unite nell'orgoglio nazionalista e nel lutto per la morte dello scienziato ma con sfumature diverse, al di là della retorica, sulle prossime mosse.
   Rohani ha voluto sottolineare come sia importante non cadere «nella trappola», cioè reagire in modo avventato e dare l'occasione allo Stato ebraico e a Trump per un attacco militare. «La nazione iraniana è troppo intelligente per cadere nella trappola tesa dai sionisti — ha argomentato -. Stanno pensando di creare il caos, ma dovrebbero sapere che non ci riusciranno». Significa un colpo di freno all'ala oltranzista del regime, già delusa dalla reazione contenuta all'uccisione, lo scorso 3 gennaio, del comandante di Pasdaran Qassem Soleimani. Rohani ha accusato «l'arroganza mondiale», gli Usa, e «i mercenari sionisti», Israele, ma ha puntualizzato che la vendetta dovrà arrivare «a tempo debito» e cioè non ora, mentre Biden si prepara a prendere il timone e potrebbe aprire una finestra di dialogo, con la prospettiva della fine delle sanzioni. Khamenei ha invece chiesto la «punizione degli autori e dei responsabili» ed esortato a portare avanti gli «sforzi scientifici e tecnici di Fakhrizadeh in tutti i campi in cui stava lavorando».
   In una lettera all'Onu, il governo ha infine chiesto una ferma condanna da parte del segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, e del Consiglio di Sicurezza. Teheran spera così di mettere in imbarazzo lo Stato ebraico e di spingere l'Europa su posizione più vicine alle sue. Ma i dubbi sul blitz di venerdì attraversano anche gli Stati Uniti, il più solido alleato degli israeliani, che non aveva battuto ciglio quando fra il 2010 e il 2012 vennero freddati altri quattro fisici, con modalità simili, e lo stesso Fakhrizadeh si era salvato per un pelo.
   Il New York Times ha citato un funzionario della Cia, che ha confermato la mano del Mossad dietro l'operazione, e soprattutto ha sottolineato come il blitz potrebbe complicare la gestione del dossier del nucleare iraniano per Biden. Il ritorno nell'intesa del 2015, volta a mettere sotto controllo le ambizioni atomiche della Repubblica islamica, è a questo punto ancora più difficile, come ha confermato l'analista militare israeliano Amos Yadlin su Twitter: «Che l'Iran cerchi la vendetta o si trattenga, poco cambia, è tutto più complicato». Il problema è che l'ala radicale ha nuovi argomenti contro Rohani, il ministro degli Esteri Zarif e tutti quelli che credono ancora in un negoziato. Argomenti da usare anche in campagna elettorale, in vista delle presidenziali di primavera. Ma la stessa spaccatura sembra attraversare l'America. Trump e il segretario di Stato Mike Pompeo, appoggiati dal premier israeliano Netanyahu, sono tentati dal dare una spallata prima del 20 gennaio. Un ultimo dispetto ai democratici, tanto che l'ex capo della Cia John Brennan ha parlato su Twitter di un «atto criminale avventato», che porta al «rischio di una rappresaglia letale». I rischi ci sono. Israele ha posto le ambasciate in allerta. Mentre le forze armate americane si posizionano nel Golfo, ufficialmente per proteggere il ritiro dei propri militari da Iraq e Afghanistan, ma con la possibilità di colpire. La portaerei Nimitz è diretta verso lo Stretto Hormuz e dalle basi in Arabia Saudita sono decollati gli aerei spia Poseidon, con l'incarico di scovare i sottomarini iraniani in quelle acque.

(La Stampa, 29 novembre 2020)


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La rabbia dell'Iran contro Israele e Usa. "Ci vendicheremo"

Dopo l'uccisione dello scienziato nucleare. Teheran attacca: "Hanno le mani sporche di sangue". E rivendica il diritto a colpire "al momento opportuno".

di Vincenzo Nigro

La moglie di Mohsen Fakhrizadeh, il capo del progetto nucleare iraniano ucciso venerdì a 60 chilometri da Teheran, ieri è comparsa in tv, avvolta dal tradizionale chador nero. Ha esaltato il marito celebrando la sua morte: «Mohsen voleva morire da martire, ci è riuscito». Sui media di Stato, sui social e sui vari account dei leader iraniani è partita l'operazione di santificazione del martire Mohsen Fakhrizadeh. In molte foto e manifesti elaborati elettronicamente lo scienziato è già comparso al fianco di Qassem Suleimani, il generale dei pasdaran ucciso il 3 gennaio a Bagdad da un missile americano. E, inevitabile, è partito il coro dei massimi leader iraniani che promettono vendetta. La guida suprema Ali Khamenei e il presidente Hassan Rouhani confermano che la vendetta ci sarà, ma «quando lo decideremo noi», e indirizzano le loro accuse contro Israele. «Ancora una volta le mani malvagie dell'arroganza globale, con il regime usurpatore sionista come mercenario, si sono macchiate del sangue di un figlio di questa nazione», ha detto il presidente iraniano.
   Nuovi dettagli confermano che l'operazione per uccidere il professore di fisica dell'università dei pasdaran è stata importante: un vecchio camion con un carico di legna a nascondere l'esplosivo è stato fatto esplodere al passaggio del Suv del professore. Sono spuntati fuori almeno 5 uomini che hanno iniziato a sparare sull'auto, costringendo la scorta a una difesa inutile.
   «In queste ore il sistema politico iraniano ai suoi massimi livelli sta iniziando a valutare cosa fare», dice Nicola Pedde, presidente dell'institute for Global studies. «I suoi leader non reagiranno senza aver analizzato e senza aver valutato ogni elemento sino in fondo». Pedde aggiunge un particolare decisivo: «Oggi c'è un solo uomo che potrebbe avere un'influenza decisiva: a Teheran aspettano le dichiarazioni che farà il presidente eletto Joe Biden, valuteranno il carattere della posizione che prenderà il nuovo leader degli Usa. E poi decideranno».
   Al momento Biden non ha ancora detto o fatto nulla. Mentre, sia pure fra mille cautele, la Ue ha dato un segnale piccolo ma significativo: il portavoce del ministro degli Esteri Ue Josep Borrell ha scritto che l'uccisione è stata «un atto criminale e contrasta con il principio del rispetto dei diritti umani che l'Ue sostiene». Aggiungendo dopo anche qualcosa che è come dire "attendiamo Biden": «In questi tempi incerti, è più importante che mai che tutte le parti rimangano calme ed esercitino la massima moderazione».
   Mentre Israele rafforza le difese delle sue ambasciate, qualcuno vicino a Biden ha parlato. John Brennan, capo della Cia con Obama, condanna l'omicidio dicendo che è stato «un atto criminale e incosciente, rischia di provocare una rappresaglia mortale. I leader iraniani farebbero bene ad attendere il ritorno di una leadership responsabile degli Usa e resistere alla tentazione di rispondere ai presunti colpevoli». La posizione di Biden sarà delicata: ritornare con l'Iran agli accordi del 2015 come nulla fosse sarà difficile. Con l'aggravante che l'operazione ha già creato un nuovo muro fra il premier israeliano Netanyahu e il nuovo inquilino della Casa Bianca. Come dice il professor Pedde, «adesso tutti in Iran aspettano soltanto le parole di Biden».

(la Repubblica, 29 novembre 2020)


*


Esperto Usa: l'uccisione di Fakhrizadeh complica il lavoro di Biden con Teheran

WASHINGTON - Gli Stati Uniti sapevano delle intenzioni di Israele di colpire Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi, lo scienziato a capo del programma nucleare iraniano e Brigadier generale dei Guardiani della Rivoluzione islamica, ucciso il 27 novembre mentre era a bordo di un'auto a circa 70 chilometri da Teheran. Lo dice all'AGI Richard J. Stoll, docente di Scienze Politiche della Rice University, esperto di geopolitica, terrorismo e conflitti internazionali.
  "L'omicidio penso sia opera di Israele. E gli Usa dovevano sapere", sostiene Stoll. Noto almeno dal 2000 al Mossad, che tradizionalmente condivide intelligence con Washington, Fakhrizadeh-Mahabadi era scampato qualche anno fa ad un altro tentativo di eliminarlo. È l'unico scienziato il cui nome appare in un documento (nel 2015) dell'Agenzia internazionale per l'Energia Atomica. Nel 2018 era stato citato durante una conferenza stampa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu che disse "ricordatevi questo nome", mentre accusava Teheran di voler costruire la bomba atomica.

 Lo scienziato ucciso dieci anni prima
  Quanto al fatto che l'assassinio di Fakhrizadeh-Mahabadi sia coinciso con il decimo anniversario dell'uccisione di un altro scienziato iraniano, Majid Shahriari, "e' solo una coincidenza", secondo Stoll. "Penso che Israele abbia agito perche' aveva buone informazioni su dove si trovasse. Questa e' la ragione principale per cui l'attacco e' stato condotto ora". Dal 2010 sono stati uccisi altri 3 scienziati di Teheran: Masoud Alimohammadi (sempre nel 2010), Darius Razaeinejad (2011) e Mostafa Ahmadi Roshan (2013).
  Per alcuni, l'eliminazione di Fakhrizadeh-Mahabadi " è coerente" con l'obiettivo del presidente Donald Trump di impedire al successore Joe Biden di riportare gli Usa nell'intesa sul nucleare iraniano (Jcpoa). "È coerente con la volontà di Trump di impedire il ripristino del Jcpoa, ma come ho detto - rimarca Stoll - penso che l'uccisione sia opera di Israele. Certamente Israele era contraria al Jcpoa, ma intendeva uccidere Fakhrizadeh-Mahabadi indipendentemente da chi fosse il vincitore delle presidenziali americane. Quindi, sebbene complichi la strategia di Biden sul Jcpoa, non credo che questo sia il principale motivo per cui Israele l'abbia fatto". In ogni caso per il nuovo inquilino della Casa Bianca, avverte Stoll, "non sarebbe stato facile riportare gli Usa nell'accordo sul nucleare iraniano. Per l'Iran, tornare a rispettare i termini dell'intesa significherebbe eliminare l'uranio arricchito (che è attualmente 12 volte superiore alla quantità consentita dall'intesa) consentendo appropriate verifiche. L'Iran pretenderebbe l'allentamento delle sanzioni, possibilmente di quelle non collegate al suo programma nucleare. Dunque di sicuro questo complica le cose per Biden, ma non sarebbe stata una passeggiata anche senza l'assassinio di Fakhrizadeh-Mahabadi".

(AGI, 29 novembre 2020)


Fermare la minaccia iraniana è possibile

di Ugo Volli

E' passata meno di una settimana da quando l'Iran, rompendo un lungo silenzio sulle sue perdite in Siria, ha minacciato Israele di fare sfracelli se i suoi "consiglieri militari" e i mercenari che essi guidano saranno ancora attaccati. Il 22 novembre il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha dichiarato in una conferenza stampa che "il regime sionista è ben consapevole che l'era del mordi e fuggi è finita e quindi sono molto cauti". Peccato che nel frattempo ci siano state altre due nottate di attacchi israeliani sulla Siria, con molti militari iraniani e di Hezbollah neutralizzati, in rappresaglia al tentativo, fallito per fortuna, di attentati contro i soldati israeliani sul Golan per mezzo di mine piantate da terroristi filoiraniani sul loro percorso di guardia. Ed è anche successo che uno dei capi del progetto di armamento nucleare iraniano sia stato "misteriosamente" eliminato a Teheran. Non si tratta semplicemente di episodi tattici della difesa di Israele dalla guerra che continuano a organizzare gli ayatollah. E' probabile che una presidenza Biden porti di nuovo, come ai tempi di Obama, a un consenso americano alle ambizioni imperialiste dell'Iran che lascerebbe i paesi arabi sotto una grave minaccia. Israele sta mostrando loro (e all'Iran e a Biden) che il campo per gli ayatollah non è libero, che è possibile resistere e fermare le aggressioni iraniane. Il senso storico degli "Accordi di Abramo" è questo: i paesi arabi sunniti, riconoscendo Israele e con il suo aiuto, possono difendersi dall'imperialismo persiano (e da quello turco che si sta consolidando). Da nemico giurato, Israele diventa l'alleato più importante dell'autonomia degli arabi, il loro esempio: uno sviluppo storico di cui bisogna essere grati a Trump.

(Shalom, 29 novembre 2020)


Israele, ricercatori per la prima volta invertono il processo biologico dell'invecchiamento

di Caterina Galloni

 
Shamir Medical Center, Israele
Alcuni scienziati israeliani sono riusciti a invertire il processo biologico di invecchiamento attraverso una nuova terapia a base di ossigeno.
Secondo il nuovo studio, i ricercatori hanno trovato il modo di contrastare due dei principali fattori di invecchiamento: l'accorciamento dei telomeri e l'accumulo di cellule senescenti.
Man mano che le persone invecchiano, i telomeri - piccole porzioni di Dna che si trovano alla fine di ogni cromosoma - si accorciano e si verifica un aumento delle cellule senescenti malfunzionanti.
Gli scienziati hanno condotto una sperimentazione clinica su 35 adulti di età superiore ai 64 anni per capire se l'Ossigenoterapia iperbarica fosse in grado di prevenire il deterioramento dei due indicatori del processo di invecchiamento.
I volontari dell'Università di Tel Aviv e dello Shamir Medical Center in Israele sono stati sottoposti a delle sessioni in una camera pressurizzata e per tre mesi hanno ricevuto ossigeno puro per 90 minuti al giorno, cinque giorni alla settimana.
Dopo la sperimentazione, gli scienziati hanno scoperto che i telomeri dei partecipanti si erano allungati in media del 20%, mentre le loro cellule senescenti erano state ridotte fino al 37%. Studi sugli animali hanno dimostrato che la rimozione delle cellule senescenti prolunga la vita di oltre un terzo.
I ricercatori hanno spiegato che i risultati erano equivalenti a quello che era il corpo dei pazienti - a livello cellulare - 25 anni prima. Molti scienziati ritengono che l'invecchiamento sia responsabile di patologie gravi come l'Alzheimer, il Parkinson, l'artrite, il cancro, le malattie cardiache e il diabete.
I risultati sono gli ultimi di una serie di possibili trattamenti anti-age che cercano di aumentare l'aspettativa di vita.

(blitz, 29 novembre 2020)


Gli ebrei italiani in Israele, componente vitale

Si sentono al 100 per cento israeliani e in ugual misura italiani. Geograficamente si concentrano soprattutto a Tel Aviv, poi a Gerusalemme e nelle altre città. Le varie ondate del movimento migratorio ebraico dall'Italia.

di Giulia Ceccutti

«Sono nato a Tripoli, in Libia, nel 1962. Con la mia famiglia ci siamo rifugiati in Italia nel 1967, quando scoppiò la Guerra dei sei giorni. L'Italia mi ha adottato e io mi sento visceralmente italiano. In Italia mi sono laureato, ho svolto il servizio militare. Poi a un certo punto mi sono detto che era arrivato il momento di tirare fuori dal cassetto un sogno. Mi sono chiesto: "Ma qual è casa mia?". Così mi sono trasferito in Israele. Sono italiano al 100 per cento, ma sono anche israeliano».
  Si definisce così, a metà della nostra telefonata, Raphael Barki, presidente del Comitato italiani all'estero (Com.It.Es) di Tel Aviv, spiegando che la ragione della sua scelta - che definisce «ideologica» - è comune a moltissimi ebrei italiani che hanno deciso di andare a vivere in Israele. E aggiunge: «Qui nessuno per strada ti apostrofa "sporco ebreo" o cose del genere. Gli ebrei in Israele si sentono a casa».

 Qualche cifra
  Secondo il Rapporto Italiani nel Mondo 2020 della Fondazione Migrantes, Israele è tra le prime 25 destinazioni.
  Gli ebrei italiani che vivono qui rappresentano la quota maggioritaria dei circa 20 mila connazionali oggi residenti nel Paese. Gli altri sono perlopiù religiosi e membri della Chiesa, persone che lavorano per organizzazioni non governative, studenti, ricercatori, docenti e persone giunte per seguire i propri affetti.
  Il numero di 20 mila è composto dalla somma dei dati forniti dall'ambasciata Italiana a Tel Aviv e dal consolato italiano a Gerusalemme (che svolge anche le funzioni di rappresentanza diplomatica presso l'Autorità Nazionale Palestinese - ndr). La suddivisione del dato è già, di per sé, interessante.
  All'ambasciata risultano 16.720 cittadini Aire (iscritti cioè all'Anagrafe italiani residenti all'estero), circa il 43 per cento dei quali vive in un'ampia area che circonda Tel Aviv e si estende da Rehovot fino a Natanya. Le altre zone di maggiore concentrazione della comunità italiana sono Haifa, Beer Sheva, Ashdod e Ashkelon. Seguono Eilat e Nazaret. Non sono attualmente disponibili ulteriori dati ufficiali che comprendano i non iscritti Aire.
  Il dato dei cittadini Aire fornito dal consolato generale a Gerusalemme - considerata dall'Italia circoscrizione autonoma - ha recentemente superato i 3.000 individui. Va precisato che in questi 3.000 sono inclusi tutti coloro che dimorano nei Territori palestinesi (Cisgiordania e Gaza), ma la componente dominante resta quella degli italiani nella parte ebraica di Gerusalemme. Diversi altri connazionali operano temporaneamente nei Territori palestinesi, ma non sono iscritti all'Aire.
  Bisogna aggiungere che la popolazione italiana dell'area di Tel Aviv si caratterizza per un'età media decisamente più bassa rispetto a quella di Gerusalemme. Tanti sono infatti i giovani attratti dal mercato del lavoro più dinamico - e dominato dalle nuove tecnologie - tipico di Tel Aviv.

 Il passato illumina il presente
  Impossibile parlare dell'oggi senza volgere prima lo sguardo alla storia. È la premessa necessaria secondo Sergio Della Pergola, raggiunto telefonicamente a Gerusalemme. Professore emerito di demografia all'Università ebraica di Gerusalemme, considerato il massimo esperto di demografia dell'ebraismo, è nato a Trieste e si è trasferito in Israele nel 1966, subito dopo la laurea in Scienze politiche all'Università di Pavia.
  «Qui la comunità italiana si è costruita in varie fasi», spiega. Il nucleo portante è rappresentato dagli ebrei giunti dall'Italia negli anni drammatici tra il 1938 e il 1941: circa un migliaio di persone. La maggioranza di costoro apparteneva a un'élite - professori, giudici, avvocati, impiegati pubblici di alto livello - che andò a costituire la base della presenza italiana in Israele. «Pochi singoli erano ovviamente arrivati già prima del 1938, ma si tratta di numeri decisamente esigui», puntualizza. E continua: «Questi italiani in parte ripresero lo stesso lavoro che svolgevano nelle città d'origine: molti professori, ad esempio, continuarono a insegnare, contribuendo a fondare e dare grande impulso alle università».
  L'ondata successiva si colloca dopo la seconda guerra mondiale e segna l'arrivo di numerosi giovani sopravvissuti allo sterminio. Contribuirono a far crescere i kibbutz in tutto il Paese.
  In seguito, si ebbero altre piccole ondate migratorie che, come chiarisce Della Pergola, «riflettono la situazione politica italiana e l'atteggiamento verso gli ebrei».

 Dagli anni Settanta ad oggi
  Gli arrivi più consistenti si ebbero dopo la guerra dei Sei giorni, all'inizio degli anni Settanta, e nei primi anni Ottanta (in concomitanza con gli «anni di piombo» e l'attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982). Continuarono poi lungo gli anni Novanta, fino a un forte risveglio nel 2014-2015, anni caratterizzati dalla recessione e quindi dallo spostamento di persone di estrazione sociale diversa rispetto al passato: addetti al piccolo commercio e famiglie disagiate.
  «Siamo così di fronte», conclude Della Pergola, «a una comunità piuttosto complessa nella sua composizione, per la presenza di strati sociali, città e luoghi di origine differenti». Lo scarto più evidente è quello che vede gli arrivi degli ultimi anni principalmente da Roma, mentre in passato le zone di provenienza erano centro e nord Italia.

 Una componente ben integrata
  Chiediamo a Raphael Barki in quali settori lavorativi si ritrova principalmente la presenza italiana. Cita innanzitutto quello tecnologico (informatica, dispositivi medici, ecc.), con alcune punte di eccellenza nell'agrotecnica. Molto apprezzata è inoltre la cucina: diversi connazionali lavorano, a vari livelli, per ristoranti e pasticcerie. Gli altri due grandi incubatori sono il turismo e la cultura. Massiccia è la presenza di italiani nel campo dell'arte (è italiana, per citare solo un esempio di rilievo, la direttrice del Museo d'arte di Tel Aviv, Tania Coen-Uzzielli), dell'estetica, del design e della moda.
  «La cultura italiana è molto apprezzata qui in Israele», conferma Della Pergola. «Non manca una certa affinità: sia gli italiani sia gli israeliani sono creativi, non molto disciplinati… Rientriamo in alcuni stereotipi che ci accomunano», commenta ridendo.
  «La comunità italiana in Israele, profondamente orgogliosa di avere origine da una delle più antiche realtà dell'ebraismo della Diaspora», osserva l'ambasciatore Gianluigi Benedetti, cui abbiamo chiesto un breve intervento sul tema, «ha saputo offrire negli anni un contributo prezioso alla fondazione e allo sviluppo economico, politico sociale e culturale dello Stato di Israele. Oggi conserva un legame fortissimo con l'Italia, è perfettamente integrata nella realtà locale e vanta rappresentati illustri in diversi settori: dalla cultura, all'università, all'industria, al settore dell'innovazione e della ricerca scientifica. Essa esprime dunque un punto di forza delle relazioni tra i nostri Paesi di cui contribuisce ad alimentare l'amicizia e il dialogo».

 Con un'identità nitida
  È quasi scontato domandarsi se questa comunità sia coesa o meno, e quale sia il rapporto con le origini. «Gli italiani sono molto legati alle loro radici», risponde Barki. «Hanno inoltre affinità ben riconoscibili nello stile, nel modo di vestirsi, nella stessa passione per la cultura e l'arte… Vi sono infine, non solo a Gerusalemme e Tel Aviv, diverse associazioni culturali e ricreative nelle quali si ritrovano per momenti comuni».
  Nicolò Gugliuzza - autore nel 2019 di una tesi di laurea magistrale in antropologia presso l'Università di Bologna dedicata agli ebrei italiani in Israele, frutto di un mese di ricerca etnografica sul campo - conferma di aver verificato che anche i più giovani avvertono con forza i legami con le proprie radici.
  «Consapevolezza - scrive Gugliuzza - che nella più parte dei casi, a mio giudizio, resta il primo movente all'origine della nuova alyah 2.0 (letteralmente «salita», sottinteso «verso l'altura di Gerusalemme», termine che indica l'immigrazione ebraica prima in Palestina e ora nello Stato di Israele - ndr). Sebbene una maggioranza degli olim (gli ebrei che hanno compiuto l'alyah - ndr) di recente migrazione che ho incontrato sia giunta a Tel Aviv animata dalla ricerca di un futuro professionale in un contesto vitale ed energico come quello israeliano, ho constatato che in quasi tutti permane una forte componente identitaria; la consapevolezza di appartenere a un popolo e a una storia».

(Terrasanta.net, 26 novembre 2020)



Pubblico e solenne avvertimento della saggezza

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 1
  1. La saggezza grida per le vie,
    fa udire la sua voce per le piazze;
  2. negli incroci affollati essa chiama,
    all'ingresso delle porte, in città, pronunzia i suoi discorsi:
  3. «Fino a quando, ingenui, amerete l'ingenuità?
    Fino a quando gli schernitori prenderanno gusto a schernire
    e gli stolti avranno in odio la scienza?
  4. Volgetevi ad ascoltare la mia riprensione;
    ecco, io farò sgorgare su di voi il mio spirito,
    vi farò conoscere le mie parole...
  5. Poiché, quand'ho chiamato avete rifiutato d'ascoltare,
    quand'ho steso la mano nessuno vi ha badato,
  6. anzi avete respinto ogni mio consiglio
    e della mia correzione non ne avete voluto sapere,
  7. anch'io riderò delle vostre sventure,
    mi farò beffe quando lo spavento vi piomberà addosso;
  8. quando lo spavento vi piomberà addosso come una tempesta,
    quando la sventura v'investirà come un uragano
    e vi cadranno addosso l'afflizione e l'angoscia.
  9. Allora mi chiameranno, ma io non risponderò;
    mi cercheranno con premura ma non mi troveranno.
  10. Poiché hanno odiato la scienza,
    non hanno scelto il timore del SIGNORE,
  11. non hanno voluto sapere i miei consigli
    e hanno disprezzato ogni mia correzione,
  12. si pasceranno del frutto della loro condotta,
    e saranno saziati dei loro propri consigli.
  13. Infatti il pervertimento degli insensati li uccide
    e la prosperità degli stolti li fa perire;
  14. ma chi mi ascolta starà al sicuro,
    vivrà tranquillo, senza paura di nessun male».
Nel brano precedente abbiamo visto la saggezza operare in un atteggiamento di difesa. Un padre saggio parla al figlio per proteggerlo dal male e impedire che la stoltezza penetri dall'esterno nell'ambiente familiare e porti frutti di morte.
In questo brano invece la saggezza assume un atteggiamento offensivo: prende la forma di un araldo e si presenta sulle strade per affrontare pubblicamente gli stolti e cercare, con severi ammonimenti, di strapparli dalla loro follia.
In un mondo in cui sono entrati il peccato e la morte non è possibile che la saggezza assuma sempre e soltanto le forme morbide di un'esortazione dolce e pacata. I rischi che si corrono a percorrere le vie della stoltezza sono mortali. Il contrasto tra la sapienza e la stoltezza non è che una forma della continua lotta tra la vita e la morte. Proprio per questo la persona che rappresenta la saggezza in questo e in altri brani simili del libro dei Proverbi non può che essere la Parola fatta carne (Gv 1.14), cioè il "Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l'immortalità mediante il vangelo" (2 Ti 1.10), e che "da Dio è stato fatto per noi sapienza, ossia giustizia, santificazione e redenzione" (1 Co 1.30), e nel quale "tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti" (Cl 2.3).
Ogni tentativo di filosofare tranquillamente sul bene e sul male che pensi di poter prescindere dalla rivelazione che Dio ha fatto in Gesù Cristo e ha consegnato agli uomini nelle parole della Sacra Scrittura è autentica"pazzia" (1 Co 1.17-25). Anche a questi folli campioni della "sapienza di questo mondo" (1 Co 2.6) si rivolge la sapienza di Dio attraverso le parole appassionate di questo brano.
  1. La saggezza grida per le vie,
    fa udire la sua voce per le piazze;

    La saggezza di Dio si presenta agli uomini in forma pubblica e grida. Qualcuno potrebbe obiettare che nel vangelo di Matteo si dice, parlando del Messia, che "Non contenderà, né griderà e nessuno udrà la sua voce sulle piazze" (Mt 12.19). Ma con questo s'intende che il Servo di Dio non combatterà con armi carnali, cercando di imporre con la forza il suo messaggio. La sapienza grida per farsi ascoltare, fa udire in modo alto la sua voce affinché gli uomini capiscano che le cose che ha da dire sono di importanza vitale.
    La saggezza di Dio grida sulle pubbliche piazze rivolgendosi a tutti, non sussurra in luoghi appartati rivolgendosi nel segreto a pochi eletti. Sono i servi di Satana quelli che offrono sapienza a pagamento in misteriose stanze semibuie; sono i falsi Cristi quelli di cui si dice che sono "nelle stanze interne" (Mt 24.26). L'uomo reso saggio dalla parola di Dio non dirà mai di seguire consigli segreti arrivati a lui personalmente per vie speciali; alla resa finale dei conti si vedrà che il saggio ha fatto uso di un bene pubblico messo a disposizione di tutti. E chi non ne ha fatto uso si accorgerà dell'immensità della sua stoltezza.

  2. negli incroci affollati essa chiama,
    all'ingresso delle porte, in città, pronunzia i suoi discorsi:

    La saggezza non invita le persone interessate a recarsi in un luogo adatto dove possano ricevere, nella dovuta calma, qualche lezione di vita. La saggezza vuole raggiungere anche le persone non interessate. Per questo va nei luoghi dove si svolge la vita attiva: negli incroci affollati, all'ingresso delle porte, in città. E qui essa non grida soltanto, ma chiama; cioè non si limita a presentare le cose così come sono, ma rivolge un appello personale ad ogni ascoltatore invitandolo a prendere una decisione. Se vogliamo, è l'atteggiamento tipico di un propagandista; ma mentre questi pensa soltanto al suo proprio interesse, la saggezza di Dio è mossa dall'amore. Le riprensioni, le correzioni, le minacce della saggezza hanno un'unica fonte: l'amore di Dio per l'uomo prigioniero della sua stoltezza.

  3. «Fino a quando, ingenui, amerete l'ingenuità?
    Fino a quando gli schernitori prenderanno gusto a schernire
    e gli stolti avranno in odio la scienza?

    Tre categorie di persone si oppongono alla sapienza di Dio: gli ingenui, gli schernitori e gli stolti.
    Gli ingenui si dichiarano inesperti di cose di Dio. Dicono di non capirci nulla, e quindi si mantengono in una posizione di neutralità o si rimettono acriticamente a quello che hanno imparato da piccoli. In realtà non hanno alcuna voglia di uscire dalla loro ignoranza, perché se questo accadesse sarebbero costretti a pensare, a interrogarsi, a fare delle scelte. Preferiscono rimanere in un atteggiamento di apparente "semplicità" che in realtà è colpevole dabbenaggine.
    Gli schernitori si pongono su un piano di culturale superiorità rispetto alla rivelazione di Dio. Non si sottomettono e non contendono: si limitano a irridere le credenze dei "sempliciotti" che non sanno avere idee e valutazioni proprie. Respingono gli avvertimenti della sapienza divina, ma senza avere un atteggiamento battagliero. Anzi, gli scrupoli che vedono nei timorati di Dio e i loro ammonimenti sono per loro un'occasione di divertimento: prendono gusto a schernire.
    Gli stolti assumono invece un atteggiamento di lotta. Prendono sul serio le parole che vengono da Dio e le rifiutano violentemente. Hanno in odio la scienza, forse proprio perché in qualche modo avvertono che in essa è presente la verità, ma non ne vogliono accettare le conseguenze.
    Queste tre categorie di persone erano presenti al momento del processo e della condanna a morte di Gesù: gli ingenui si trovavano nella folla, gli schernitori erano rappresentati da Erode, gli stolti dai farisei e dai capi sacerdoti.

  4. Volgetevi ad ascoltare la mia riprensione;
    ecco, io farò sgorgare su di voi il mio spirito,
    vi farò conoscere le mie parole...

    Gli stolti credono sempre di avere molte cose importanti a cui pensare, quindi non hanno tempo di ascoltare gli altri. Tanto meno se si tratta di rimproveri. Ma la saggezza è combattiva e insiste per cercare di guadagnare l'attenzione di coloro a cui vuole fare del bene. Annuncia la riprensione, ma ad essa fa seguire due promesse preziose: il dono del suo spirito e la conoscenza delle sue parole. Promesse che saranno pienamente mantenute nella persona del Signore Gesù, che ai suoi discepoli dirà: "Chi crede in me ... fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno" (Gv 7.38) e "Le parole che vi ho dette sono spirito e vita" (Gv 6.63). La sapienza che viene da Dio è vita che si nutre di parole di verità.

  5. Poiché, quand'ho chiamato avete rifiutato d'ascoltare,
    quand'ho steso la mano nessuno vi ha badato,

    La parola che gli uomini stolti hanno respinto non è un ordine, ma un invito alla riflessione e alla comunione. L'uomo dunque comincia a peccare nei pensieri, e il suo peccato si esprime proprio nel rifiutarsi di ascoltare le parole della saggezza e nel far finta di non vedere che Dio lo chiama a ravvedimento invitandolo a considerare l'insensatezza del suo modo di pensare. "Lasci l'empio la sua via e l'uomo iniquo i suoi pensieri; si converta egli al SIGNORE che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare" (Is 55.7). "Ho steso tutto il giorno le mani verso un popolo ribelle che cammina per una via non buona, seguendo i propri pensieri"(Is. 65:2).

  6. anzi avete respinto ogni mio consiglio
    e della mia correzione non ne avete voluto sapere,

    Al rifiuto dei pensieri segue il rifiuto della volontà: la saggezza sottolinea che i suoi consigli e la sua correzione sono stati dichiaratamente respinti, il che vuol dire che sono stati presi in considerazione e ad essi è stato risposto un secco "No". E' difficile capire come l'onnipotente Creatore possa tollerare che la Sua creatura gli resista in faccia e continui ad esistere, anche se per un tempo determinato. La spiegazione sta nel fatto che Dio ama, e il terreno su cui può avvenire un autentico rapporto d'amore è quello della libertà. Dio accetta molti "no" dalle Sue creature per avere la gioia di un vero scambio d'amore con coloro che liberamente gli rispondono "sì".

  7. anch'io riderò delle vostre sventure,
    mi farò beffe quando lo spavento vi piomberà addosso;

    Dio ha parlato e gli uomini non hanno ascoltato. Che succederà? Può essere che tutto resti come prima? E' possibile che la parola di Dio sia vanificata semplicemente non ascoltandola? No, non è possibile. Ogni invito di Dio contiene in sé una minaccia. La parola che non si adempie come invito deve adempiersi come minaccia. E la minaccia è questa: lo spavento vi piomberà addosso. L'uomo spaventato è molto attento, teso a capire quello che sta succedendo, disposto ad ascoltare chi gli propone una via di uscita. Ma chi non vuole ascoltare la parola che Dio gli rivolge come invito, dovrà ascoltare la parola che Dio gli rivolge come scherno.
    E' difficile adattarsi all'idea che Dio possa schernire gli uomini ribelli, e tuttavia questo viene detto nella Scrittura (Sl 2.4; 37.13). Ma è difficile anche adattarsi all'idea che Dio si possa vendicare dei suoi nemici, e tuttavia anche questo è scritto (Na 1.2; Ez 25.14; 2 Te 1.8). Forse la difficoltà sta nel fatto che si pensa a Dio come a un superuomo, come all'uomo più buono di tutti, e non si considera che Dio è Dio e non un uomo, e che a Lui competono azioni che agli uomini sono interdette. La vendetta, per esempio, è qualcosa che gli uomini non devono fare, ma soltanto perché deve essere lasciata Dio, e non perché, come pensa qualcuno, non deve essere mai fatta da nessuno, tanto meno da Dio (Ro 12.19).
    Lo scherno è la vendetta che ricade su coloro che si credono saggi per conto proprio. Hanno le loro ferme convinzioni, confidano nei loro pensieri, trascurano e deridono le esortazioni e gli avvertimenti della sapienza. Un giorno, quando vedranno lucidamente dove li ha condotti la loro propria "saggezza", i loro occhi si apriranno e prenderanno coscienza della loro sconfinata stupidità. La voce della sapienza di Dio avrà allora il suono agghiacciante della derisione.

  8. quando lo spavento vi piomberà addosso come una tempesta,
    quando la sventura v'investirà come un uragano
    e vi cadranno addosso l'afflizione e l'angoscia.

    Sullo stolto che si crede saggio la sciagura si abbatterà violenta e improvvisa. La catastrofe arriverà inaspettata (Lu 21.34; 1 Te 5.3). Non ci sarà più tempo per riorganizzare i pensieri e modificare le azioni: sarà troppo tardi. Quando la parola di Dio espressa in forma di minaccia si avvera, il presente e il futuro non sono più a disposizione. Resta soltanto la possibilità, anzi l'obbligo, di ricordare quello che la sapienza ha detto nel passato e dolorosamente si avvera nel presente.

  9. Allora mi chiameranno, ma io non risponderò;
    mi cercheranno con premura ma non mi troveranno.
    Prima era la sapienza a chiamare, e gli uomini non rispondevano. Adesso le parti si invertono: sono gli uomini che chiamano, e la sapienza non risponde. Quando i guai sono seri l'uomo si sente molto meno sicuro di sé e non si compiace più della sua propria saggezza. Comincia a temere di non averne abbastanza e allora la chiama, nel senso che cerca affannosamente qualche illuminazione che lo aiuti a risolvere i suoi problemi. La sapienza non risponderà. L'uomo continuerà a cercare, e non troverà. Freddamente la sapienza passa, a questo punto, dal "voi" al "loro", quasi a confermare l'avvenuta rottura di un rapporto diretto. Se all'inizio aveva implorato con calda passione: Volgetevi ad ascoltare la mia riprensione, adesso dichiara con gelido distacco: Mi chiameranno ... mi cercheranno ...ma non mi troveranno . Il tempo non è una grandezza reversibile: non si può tornare indietro. L'uomo non può pretendere che Dio gli parli quando vuole lui. Chi non accoglie oggi (Eb 3.12-15) la parola di saggezza che il Signore gli rivolge, domani potrebbe non trovarla più (Am 8.11-12).

  10. Poiché hanno odiato la scienza,
    non hanno scelto il timore del SIGNORE,

    Gli stolti non sono vittime del destino. A loro è stata offerta la scienza, cioè la giusta conoscenza delle cose, ed essi l'hanno odiata, cioè respinta con risoluta determinazione. Per volontaria scelta non hanno scelto il timore del Signore. Hanno rivendicato la libertà di non tener conto della parola di Dio, e ciò è stato loro concesso. Hanno espresso la loro propria volontà, e questa si è compiuta. Di che cosa potrebbero lamentarsi?

  11. non hanno voluto sapere i miei consigli
    e hanno disprezzato ogni mia correzione,

    Come nel v.25, anche qui si parla di consigli e correzioni. Il consiglio è un'indicazione positiva, cioè un invito a fare qualcosa di giusto; la correzione è un'indicazione negativa, cioè un invito a smettere di fare qualcosa di sbagliato. I consigli non sono stati voluti, perché giudicati inutili; le correzioni sono state disprezzate, perché considerate ridicole. Gli stolti si sono dunque posti su un piano di superiorità che li ha resi irraggiungibili dalla parola della sapienza. Dovranno ascoltare il linguaggio dei fatti.

  12. si pasceranno del frutto della loro condotta,
    e saranno saziati dei loro propri consigli.

    Si può essere liberi di compiere un'azione, ma non si è liberi di sceglierne le conseguenze. Il contadino può scegliere la semenza che vuole seminare, ma non può decidere il raccolto che ne nascerà. "Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio; perché quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà" (Ga 6.7).
    L'immagine usata in questo versetto è quella del cibo. Con le sue convinzioni e le sue scelte di vita lo stolto cucina con le sue stesse mani una pietanza disgustosa che poi dovrà mangiare. E non potrà lasciare nulla nel piatto: sarà costretto a mandare giù tutto fino ad esserne stomacato. Al dolore materiale si aggiungerà la sofferenza morale, perché lo stolto dovrà riconoscere, con amarezza, che la situazione penosa in cui si trova è il frutto dei suoi propri consigli, è il punto di arrivo della sua precedente condotta. In quel momento le parole della sapienza udite nel passato ritorneranno alla sua mente e avranno il suono beffardo della derisione.

  13. Infatti il pervertimento degli insensati li uccide
    e la prosperità degli stolti li fa perire;

    Gli insensati sono persone colpevolmente ingenue. Quando odono parole di saggezza che li invitano a percorrere la via della vera vita, con molta calma se le lasciano scivolare addosso e continuano tranquillamente per la loro strada, che sembra essere molto più comoda, e quindi anche più giusta. La loro scelta è un pervertimento della verità, perché non è vero che in fondo alla loro strada troveranno vita e felicità. Al contrario, troveranno dolore e morte.
    Il passaggio che forse rende meglio il significato della prosperità di cui si parla in questo versetto si trova in Geremia 22.21:
    "Io ti ho parlato al tempo della tua prosperità, ma tu dicevi: Io non ascolterò".
    La prosperità dello stolto lo spinge ad un atteggiamento di noncurante sicurezza che gli fa dire:
    "«Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divèrtiti»" (Lu 12.19).
    Lo stolto non ritiene necessario fermarsi ad ascoltare le parole di saggezza che Dio gli rivolge, perché per il momento a lui le cose vanno bene ed è convinto che sarà così anche in futuro. Perché preoccuparsi? Perché stare a sentire tutti quei pessimisti che sembra si divertano a infastidire chi sta bene con previsioni minacciose. Ma la prosperità unita al disinteresse per la parola di Dio non è stabile. Chi non avrà voluto ascoltare la parola di grazia in forma di riprensione, prima o poi dovrà ascoltare la parola di giudizio in forma di condanna.

  14. ma chi mi ascolta starà al sicuro,
    vivrà tranquillo, senza paura di nessun male».

    I sinistri avvertimenti non sono l'ultima parola che la sapienza divina rivolge agli uomini. Le terribili minacce di Dio, nella loro verità ineluttabile, hanno lo scopo di portare gli uomini al ravvedimento, affinché possano aprirsi a ricevere i beni eterni contenuti nelle sue promesse. Le parole intimidatorie della sapienza si propongono di accrescere enormemente i sentimenti di paura di coloro che ascoltano, affinché siano attenti alle parole rassicuranti che promettono la liberazione radicale dalla paura. Chi si sente tanto sicuro di sé da non voler ascoltare nessuno perché crede di sapere già qual è il suo bene deve essere disorientato, affinché capisca che soltanto chi ascolta le parole della sapienza starà al sicuro. Chi non è intimorito dal male che sta per abbattersi su di lui deve essere solennemente avvertito con parole raggelanti, affinché capisca che soltanto chi ascolta le parole della sapienza vivrà tranquillo, senza paura di nessun male. I severi ammonimenti dei versetti precedenti mirano a suscitare uno spavento preventivo davanti a un male ancora evitabile, prima che piombi addosso lo spavento definitivo davanti a un male non più evitabile.
M.C.

 

Ucciso il numero uno del nucleare iraniano. E Teheran accusa: «Assassini israeliani»

Il fisico Fakhrizadeb morto in un agguato. Tutti i sospetti convergono sul Mossad I

di Chiara Clausi

 
L'auto su cui viaggiava Mohsen Fakhrizadeh
BEIRUT - Le strade di Absard, città nella provincia di Damavand a nord-est della capitale iraniana Teheran, sono puntellate di ville per le vacanze di proprietà della élite iraniana con vista sul monte più alto del Paese. Ieri, sebbene fosse l'inizio del weekend, l'area era vuota rispetto al normale a causa del lockdown imposto per contenere la pandemia di coronavirus. Ma questo scenario era il migliore che si potesse offrire ai killer dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh-Mahabadi.
   Il fisico, considerato tra i capi del programma nucleare iraniano, è stato ucciso a colpi di pistola. Foto e video condivisi online hanno mostrato la sua berlina Nissan con fori di proiettile sul parabrezza e sangue versato sulla strada. C'è stato prima lo scontro tra gli aggressori e le guardie del corpo dello scienziato, ferito gravemente e subito portato in ospedale. Ma nonostante gli sforzi del team di medici pochi minuti dopo è morto. I sospetti convergono sul Mossad, lo scienziato infatti secondo fonti israeliane sarebbe stato nella lista dei suoi obiettivi.
   La carriera e le attività di Fakhrizadeh erano note. «Ricordatevi questo nome», aveva avvertito il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu riferendosi a lui quando aveva rivelato che Israele aveva sottratto da un magazzino a Teheran un vasto archivio di materiale iraniano sul programma di anni nucleari. Nel 2015 il New York Times aveva paragonato Fakhrizadeh a Robert Oppenheimer, il fisico che aveva diretto il Progetto Manhattan che portò alla creazione della prima bomba atomica durante la seconda guerra mondiale. Anche lo scienziato iraniano, nato nel 1958 a Qom, era un professore di fisica ed è stato a capo del Progetto Amad (Speranza), il presunto programma segreto creato nel 1989 che aveva come obiettivo costruire la bomba atomica poi chiuso nel 2003 in accordo con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica.
   Ma non sono tardate ad arrivare le reazioni iraniane al suo omicidio. «L'assassinio degli scienziati nucleari è l'atto più violento per impedirci di raggiungere la scienza moderna», ha subito twittato Hossein Salami, il comandante in capo dei Pasdaran. Hossein Dehghan, consigliere del leader supremo dell'Iran Ali Khamenei e candidato alle elezioni presidenziali iraniane del 2021, ha invece avvertito: «Negli ultimi giorni della vita politica del loro alleato, i sionisti cercano di aumentare la pressione sull'Iran affinché intraprenda una guerra in piena regola», riferendosi al presidente degli Stati Uniti Donald Trump. «Scenderemo come un fulmine sugli assassini di questo martire oppresso e faremo rimpiangere le loro azioni!», ha poi tuonato. Il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha invece ammonito: «Oggi i terroristi hanno ucciso un eminente scienziato iraniano. Questa codardia - che presenta gravi indizi del ruolo giocato dagli israeliani - mostra la natura guerrafondaia dei loro autori». E ha poi invitato la comunità internazionale «a condannare questo atto di terrore di stato».

(il Giornale, 28 novembre 2020)

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Prova di forza. Come con Suleimani

Chi ha colpito lo scienziato può arrivare ovunque. Messaggio a Biden

di Fiamma Nirenstein

Quando Benjamin Netanyahu nel gennaio del 2018 presentò al pubblico stupefatto l'intero archivio iraniano che il Mossad era riuscito a sottrarre a Teheran, dimostrando con le sue 50mila pagine l'accanimento del Paese degli Ayatollah nel perseguire la bomba atomica che avrebbe «cancellato dalla mappa» Israele, dedicò una diapositiva al dottor Mohsen Fakhrizadeh. Ecco colui, disse, che fa tutto il disegno nucleare. E aggiunse dopo una breve pausa: «Ricordatevi questo nome: Amad Mohsen Fakhrizadeh». Chi se ne doveva ricordare, non ha mancato al compito. Così ieri a Teheran l'uomo che avrebbe dovuto essere uno dei più protetti del Paese, l'anima strategica dell'Iran komeinista, è stato eliminato. Era lui che aveva ordinato l'arricchimento dell'uranio più veloce in questi ultimi mesi tramite un nuovo sistema liquido, lui che aveva appena ricevuto il compito, stabilito da una nuova legge solo due giorni fa, di avviare una fase di maggiore attività tramite la costruzione di un nuovo reattore. Il disegno islamista iraniano sciita di soggiogare innanzitutto il Medio Oriente e poi, con pazienza e con l'atomica, tutto il mondo alla propria verità dottrinale, aveva in lui un leader modesto e durissimo, un sacerdote, come Kassem Suleimani: ambedue provenienti dalle fila delle Guardie della Rivoluzione, erano l'uno il generale che conduceva sul campo le truppe e gli alleati Hezbollah, Hamas, Houti, utilizzando la forza bruta e i missili balistici; l'altro, l'uomo che aveva celato e mostrato, cacciato l'IAEA per poi invitarla di nuovo, attrezzato Fordow e Natanz per compiti differenziati, segreti e letali negli anni. Sono stati ambedue eliminati, e la perdita anche di. Fakhrizadeh è un colpo durissimo dopo quella di Suleimani; e questa è anche un'impresa beffarda e dimostrativa, dato che, come l'eliminazione del 15 novembre per mano israeliana su intenzione anche americana del capo di Al Qaeda Mohammed al Masri ospite a Teheran, è uno show di controllo del territorio iraniano che certo non tranquillizza Khamenei. Chi ha colpito, può arrivare dappertutto.
   Chi ha ucciso il professore? Dall'Iran hanno avuto la condanna pronta: Israele. Ipotesi plausibile. Ma sono in tanti a volere fermare la prepotenza terrorista del regime degli Ayatollah; e i tempi dell'attentato, che certo è stato preparato a lungo, sembra tuttavia legato al momento politico. Trump lascerà presto la Casa Bianca. Con lui che aveva cancellato il patto di Obama con l'Iran del 2015 e ristabilito le sanzioni, era chiara la presa di posizione americana: no al nucleare. Con Biden, dal momento che il futuro presidente ha affermato di voler un nuovo accordo con gli Ayatollah anche se modificato, il futuro non è chiaro, e sia Israele sia svariati Paesi arabi sunniti, fra cui quelli coinvolti nel Patto di Abramo e l'Arabia Saudita che ha subito aggressioni feroci dall'Iran, hanno interesse a far capire a Biden che l'Iran non deve tornare a respirare liberamente, non deve pensare di potere tornare a turlupinare l'opinione pubblica dando fuoco all'intero Medio Oriente. L'Iran è anche all'attacco in Siria, in Iraq, in Yemen, è il padrone delle forze più minacciose sul terreno, e in questo momento anche amico della Turchia sunnita. Proprio all'inizio di questa settimana Netanyahu ha raggiunto con un volo notturno il principe della corona saudita Mohammed Bin Salman e il segretario di Stato americano Mike Pompeo. I tre forti oppositori del regime iraniano riuniti.
   Gli iraniani avvertiranno che, coi loro tempi, si prenderanno una grande vendetta del loro «martire». Può essere. Ancora quella per Qassem Suleimani non si è vista. Adesso poi, negli ultimi due mesi di Trump, i casi sono due: o il regime vuole giocarsi con un gesto estremo una reazione americana, oppure vuole mostrare una faccia urbana in attesa di capire le intenzioni di Biden. Tutto può succedere.

(il Giornale, 28 novembre 2020)


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Lo scienziato ucciso

Sospetti su Israele. Gli americani sapevano dell'uccisione del padre del programma atomico dell'Iran?

di Paola Peduzzi

MILANO - Mohsen Fakhrizadeh era alla guida della sua auto ad Absard, a una quarantina di chilometri da Teheran, quando è stato colpito dagli spari. Ha perso il controllo, è andato a sbattere ma quando sono arrivati i medici era ancora vivo: è morto poco dopo in ospedale.
   Esperti e funzionari occidentali sono convinti che Fakhrizadeh sia una figura decisiva nel programma nucleare militare iraniano che il regime di Teheran nega di aver mai sviluppato (dice che vuole sviluppare soltanto un programma nucleare civile). Un report del 2011 dell'Agenzia atomica dell'Onu indicava un unico nome tra i responsabili del programma: quello di Fakhrizadeh. Era lui che aveva le competenze per creare una bomba atomica, era lui che aveva lavorato al programma nucleare e con tutta probabilità ci stava ancora lavorando. Gli ispettori dell'Agenzia atomica avevano chiesto di incontrarlo personalmente all'interno di un'indagine sulle attività illecite del regime in ambito nucleare, ma la richiesta non era mai stata accolta. Il regime ha ammesso l'esistenza di Fakhrizadeh soltanto alcuni anni fa, ma aveva dichiarato che era un ufficiale dell'esercito che lavorava come docente e ricercatore presso l'Università Imam Hussein. Secondo un rapporto della Cia consegnato all'Amministrazione Bush nel 2007, Fakhrizadeh era si un ricercatore ma l'incarico all'Università era una copertura: in una risoluzione dell'Onu di quello stesso anno, il suo nome comparve nella lista delle persone coinvolte con le attività nucleari e dei missili balistici. E nel 2008 era nella lista delle persone cui erano stati congelati i beni finanziari. Nel 2018, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha pubblicamente definito Fakhrizadeh il "padre della bomba atomica iraniana", e mentre alcuni gruppi facevano circolare fotografie non verificate dello scienziato, il Mossad lo aveva messo in cima alla lista dei suoi obiettivi. E' anche per questo che il primo indiziato del blitz in cui è stato ucciso Fakhrizadeh è proprio Israele. Il regime di Teheran ha inizialmente negato, ma quando ha confermato l'uccisione sono iniziati i messaggi contro i "terroristi" assassini. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha scritto su Twitter "Questa vigliaccheria - con indicazioni serie sul ruolo di Israele - mostra quanto siano disperatamente guerrafondai i responsabili. L'Iran chiede alla comunità internazionale e soprattutto all'Unione europea, di porre fine a questo vergognoso doppio standard e condannino le loro azioni da stati terroristici".
   Ronen Bergman, uno dei più autorevoli esperti di intelligence in Israele, ha raccontato nel suo ultimo libro, "Rise and Kill First", come il Mossad ha creato la lista degli scienziati iraniani e come poi abbia cercato, a volte riuscendoci, di colpirli. C'è una precisazione importante nel libro sul fatto che gli Stati Uniti non hanno mai saputo né voluto sapere di queste operazioni. L'ex direttore della Cia, Michael Hayden, dice che gli israeliani non hanno mai detto nulla dei loro piani "né con un occhiolino né con un sorriso". Alcuni indizi fanno pensare che forse questa volta gli americani erano al corrente dell'operazione. Di certo l'allerta era alta, perché le forze israeliane avevano esplicitamente detto agli Stati Uniti che si aspettavano un "periodo duro" fino al 20 gennaio del 2021, cioè l'insediamento di Joe Biden. Donald Trump si è ritirato dall'accordo sull'Iran e ha costruito un'alleanza molto solida con Israele e con l'Arabia Saudita che ha portato non soltanto ai Patti di Abramo- il riconoscimento dello stato di Israele da parte di alcuni paesi del Golfo-ma anche all'incontro di questa settimana a Neom tra sauditi, americani e israeliani. Biden è stato il vicepresidente dell'Amministrazione Obama che ha costruito l'accordo sul nucleare iraniano da cui si è ritirato Trump. II 12 novembre, il presidente uscente aveva chiesto ai suoi collaboratori se c'era la possibilità di colpire il sito di Natanz: gli era stato consigliato di non farlo. Due settimane fa c'è stata la conferma dell'uccisione, il 7 agosto scorso a Teheran, di Abu Muhammad al Masri, secondo in grado nella leadership di al Qaida e ideatore degli attentati alle ambasciate americane in Africa nel 1998. Gli Stati Uniti hanno inviato B-52 in medio oriente e Israele era in allerta per possibili attacchi da parte dell'Iran o dei suoi alleati. Alcuni funzionari hanno detto al New York Times che l'uccisione di Fakhrizadeh è un avvertimento forte per gli altri scienziati: se possiamo prendere uno come lui, possiamo prendervi tutti. E' da qui che dovrà ripartire Joe Biden.

(Il Foglio, 28 novembre 2020)


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Hezbollah condanna l'omicidio dello scienziato nucleare Fakhrizadeh

BEIRUT - Il partito sciita libanese Hezbollah ha condannato con forza "l'operazione terroristica che ha condotto al martirio del distinto scienziato e professore universitario Mohsen Fakhrizadeh", fisico nucleare iraniano ucciso ieri da ignoti in un assalto a nord-est di Teheran. In un comunicato ripreso dall'emittente libanese "Al Manar", il movimento chiede a "Dio altissimo" di elevare Fakhrizadeh "ai più alti gradi assieme ai suoi predecessori, martiri e studiosi, specialmente coloro che sono stati uccisi a tradimento per mano di bande sioniste e internazionali di assassinio e terrorismo, affinché fosse impedito alla Repubblica islamica (dell'Iran) di ottenere risorse di orgoglio e potere e di preservare il suo progresso scientifico e politico, e la sua indipendenza intellettuale". "Restiamo con forza al fianco della Repubblica islamica e del suo popolo", prosegue il comunicato, "nell'affrontare le minacce e cospirazioni esterne, e nell'affrontare la nuova alleanza dell'entità sionista con vari Stati della regione", riferendosi agli accordi di normalizzazione recentemente firmati da Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein.

(AGI, 28 novembre 2020)


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Gli incidenti sul lavoro capitano

Gli iraniani accusano il Mossad di aver compiuto un atto di terrorismo. Ecco perché non è vero

di Franco Londei

 
Mohsen Fakhrizadeh
L'Iran sta facendo il diavolo a quattro per l'uccisione da parte di sconosciuti del capo del programma nucleare iraniano, Mohsen Fakhrizadeh, unanimemente riconosciuto come il più importante scienziato nucleare del Paese.
   I principali sospetti sono i soliti israeliani e gli americani, anche se la bilancia pende di parecchio dalla parte dei primi.
   Tuttavia, che ci fosse di mezzo il Mossad o la CIA il succo cambia poco: se tu ogni giorno appena ti alzi proclami che vuoi distruggere Israele e nel frattempo ti attrezzi per farlo costruendo armi nucleari, il minimo che ti puoi aspettare e che gli israeliani non stiano a guardare.
   Mohsen Fakhrizadeh non può essere considerato un civile. È stato tra i fondatori del Programma AMAD, cioè di quel programma che analizzava la fattibilità della costruzione e dell'uso di armi nucleari. Una vera operazione militare. Era a capo del programma nucleare più pericoloso del pianeta insieme a quello nordcoreano. Cosa pretendeva? Di poter andare in giro come se niente fosse?
   In Iran lo hanno definito un attacco terroristico. Secondo me invece rientra più nella casistica degli incidenti sul lavoro. Se fai il muratore sai che puoi cadere da una impalcatura. Se fai il virologo sai che puoi prenderti un virus mentre lo studi. Se fai il capo del programma nucleare iraniano sai che puoi prenderti una pallottola.
   È un po' come quando quelli di Hamas giocano con gli esplosivi e casualmente saltano in aria, oppure giocano a fare le talpe e i tunnel, sempre casualmente, gli cadono addosso. Sono cose che capitano quando fai un lavoro pericoloso. Sono rischi che devi mettere in conto.
   Allora perché chiamarlo "atto di terrorismo" quando ormai da anni è in corso una guerra semi-sotterranea tra Israele e Iran? Sarebbe un atto terroristico se fossero stati coinvolti dei civili, ma non mi sembra che sia avvenuto questo.
   Gli iraniani promettono vendetta? Ecco, sarebbe nell'ordine delle cose se nella vendetta iraniana non venissero coinvolti dei civili, ma conoscendo il terrorismo islamico, così vigliacco e incapace di affrontare il nemico a viso aperto, è più che probabile che la vendetta iraniana coinvolgerà dei civili, cioè sarà un atto di terrorismo.

(Rights Reporter, 28 novembre 2020)


Una terribile tempesta colpisce Gaza

di Marco Castelli


Un violento temporale si è abbattuto nei giorni scorsi sulla città di Gaza, in Palestina. I tuoni sono stati fortissimi e i fulmini spettacolari.

(Il meteo, 28 novembre 2020)


Coalizione in crisi, Netanyahu: "Si andrà a elezioni"

"Non c'è nessun dubbio che siamo sulla strada delle elezioni". Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu evoca il rischio di tornare alle urne, per la quarta volta in meno di due anni, sottolineando la forte tensione con i partner di governo del partito Blu e Bianco del ministro della Difesa, Benny Gantz. "Quando gli accordi non vengono rispettati da Blu e Bianco, non vi è dubbio che si va elezioni", ha detto. La tensione nel governo è salita da quando Gantz ha avviato la settimana scorsa una commissione d'inchiesta su uno scandalo di tangenti per l'acquisto di sottomarini nel quale sono incriminate persone vicine al premier. L'annuncio arriva mentre si avvicina la scadenza di dicembre per l'approvazione del Bilancio, in mancanza del quale si andrà automaticamente a nuove elezioni.

(il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2020)


Il significato principale del viaggio saudita "segreto" di Netanyahu

 
«Nonostante la nebbia intenzionale che lo circonda, l'incontro di domenica sera (22 novembre) del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il segretario di Stato americano Mike Pompeo nella località balneare di Neom brilla di luminosità storica. Sebbene un altro dei tanti principi sauditi, il ministro degli Esteri Faisal bin Farhan Al Saud, in un tweet abbia negato l'esistenza dell'incontro, ora tutti sanno che si è svolto. Tutti lo prendono anche per indicare che i sauditi sono sul punto di unirsi alla coalizione di paesi a maggioranza musulmana - Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e anche Sudan - che hanno raggiunto accordi di pace con Israele», scrive Fiamma Nirenstein.
  L'incontro ha anche rappresentato l'ordine del giorno più urgente di Riyadh: esortare l'amministrazione entrante del presidente eletto degli Stati Uniti Joe Biden a non rientrare nel Piano d'azione globale congiunto (JCPOA), l'accordo nucleare del 2015 con l'Iran dal quale il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è ritirato NEL 2018. Secondo la versione ufficiale della visita, i sauditi hanno incontrato solo Pompeo. Ma i media israeliani hanno riferito che Netanyahu è volato in Arabia Saudita su un jet privato Gulfstream IV di proprietà dell'uomo d'affari israeliano Udi Angel, un aereo che il primo ministro aveva usato per precedenti viaggi segreti all'estero. Netanyahu è decollato intorno alle 18h. domenica dall'aeroporto internazionale Ben-Gurion di Tel Aviv, e ha volato verso sud lungo la costa orientale della penisola egiziana del Sinai prima di dirigersi verso la costa nord-occidentale del Mar Rosso dell'Arabia Saudita.
  Era accompagnato dal regista del Mossad Yossi Cohen. Si può supporre che Netanyahu, con l'assistenza di Pompeo, abbia discusso i termini di un prossimo accordo di normalizzazione con un paese che è stato il leader storico-ideologico del fondamentalismo islamico: la terra di Sayyid Qutb e Osama bin Laden, dell'Hajj e del Casbah: il luogo in cui ogni musulmano è obbligato a fare un pellegrinaggio durante la sua vita per purificare la sua anima. Niente potrebbe essere più rivoluzionario.
  L'Arabia Saudita è il principale stato sunnita del Medio Oriente, insieme all'Egitto. È anche la patria di coloro che in precedenza si erano impegnati nei peggiori divieti e delegittimazione dello Stato ebraico, ma poi, con i suoi piani di pace del 2002 e 2007, ha aperto la porta alla pace a determinate condizioni. Israele ha individuato e ha cercato di approfittare di questa porta leggermente aperta. Oggi, la vera questione è se siano o meno scadute le condizioni preliminari per una risoluzione del conflitto israelo-palestinese, come è avvenuto da parte degli altri paesi musulmani che hanno recentemente firmato accordi di normalizzazione con Israele, attraverso l'abbandono del fardello di un Prerequisito "due stati per due persone".
  La pace messa in moto attraverso gli accordi di Abraham mediati da Trump è stata resa possibile come risultato del reciproco interesse di Israele e di molte nazioni arabe - per creare un blocco contro un Iran che si sta nuclearizzando (e i disegni imperiali ottomani del presidente turco Recep Tayyip Erdogan), mentre avanzano e prosperano tecnologicamente, per consentire loro di essere l'avanguardia degli 1.8 miliardi di musulmani nel mondo. E' una visione che Pompeo e Netanyahu confidano non possa essere fermata dalla nuova amministrazione americana in nome del vecchio paradigma palestinese.
  Netanyahu ha perseguito questo tipo di pace regionale nel corso di molti anni, apertamente e dietro le quinte. E' straordinario come sia stato così determinato su quello che sembrava un sogno impossibile quanto il suo aver vinto alla fine la battaglia per annullare il JCPOA, che l'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha firmato e in cui riponeva fede. La rivelazione del viaggio di Netanyahu in Arabia Saudita ha irritato il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz - il suo partner della coalizione per il "governo di unità" previsto per ruotare con lui come premier - che, secondo quanto riferito, è stato tenuto all'oscuro dell'intera faccenda. Gantz ha definito "irresponsabile" il fatto che Netanyahu si sia impegnato in un simile incontro senza informare il governo o l'establishment della difesa.
  Gantz, nel frattempo, ha deciso di nominare una commissione d'inchiesta statale sull'accordo da 2 miliardi di dollari per l'acquisto di sottomarini da parte di Israele dalla Germania, dopo che Netanyahu potrebbe averne tratto profitto. Netanyahu - che è stato intervistato come testimone, ma non come sospetto nel caso - lunedì ha definito la mossa di Gantz un tentativo politico di rimuoverlo dal potere. Non c'è politico israeliano che non veda questi eventi incrociati come un pretesto per elezioni anticipate.
  Nonostante le accuse contrarie da parte dei suoi rivali, Netanyahu si è concentrato però con incredibile determinazione su due questioni principali. Uno è COVID-19, il cui tasso sta diminuendo, anche quando i bambini tornano a scuola. E nonostante i molti e vari argomenti politici all'interno del cosiddetto "Gabinetto del Coronavirus", Israele è tornato al suo precedente posto nel mondo come paese che gestisce la pandemia relativamente bene. Ciò ha consentito agli israeliani di attendere i vaccini imminenti con una certa tranquillità. Il secondo è la pace regionale, che la visita di Pompeo in Israele - come parte del suo tour di dieci giorni in sette nazioni in Europa e Medio Oriente - ha rafforzato. In effetti, anche se molti lo consideravano una sorta di viaggio finale dopo la sconfitta di Trump nelle elezioni del 10 novembre, il segretario di Stato ha ribadito la dedizione della sua amministrazione alla visione "pace alla prosperità". Questa visione non è solo strategica, ma racchiude un elemento ideologico appropriato, che si ritrova nella scelta del nome "Abraham" per gli accordi di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, oltre che tra Israele e Bahrein.
  Abramo è il padre delle tre religioni monoteiste. Se Israele è accettato dalla "ummah" islamica come parte della sua eredità originale - se le tre religioni si schiereranno insieme contro i dogmi della guerra islamista - allora Trump, Pompeo e, ovviamente, Netanyahu possono dire di aver dato un dono genuino e durevole all'umanità.

(eureporter, 26 novembre 2020)


Se gli arabi d'Israele finalmente si svegliano

Avendo messo a fuoco la trappola in cui si trovano i suoi elettori, il parlamentare Mansour Abbas sembra aver deciso che è ora che gli arabi israeliani si preoccupino più di se stessi che degli intransigenti palestinesi.

I venti di pace e ragionevolezza che hanno iniziato a spirare tra lo stato d'Israele e diversi paesi arabi sunniti si stanno rapidamente avvicinando ai cittadini arabi d'Israele, molti dei quali cominciano a vedere che per decenni sono stati tenuti in ostaggio al servizio dei palestinesi.
Per anni, sia sotto i governi di sinistra che di destra, Israele ha compiuto sforzi autentici per arrivare a un accordo di compromesso con i palestinesi, ma quegli sforzi non hanno dato frutti. L'ostinazione palestinese ha impedito qualsiasi tipo di soluzione del conflitto. Questa ostinazione è stata capeggiata prima dal terrorista Yasser Arafat e poi dal negazionista della Shoà Abu Mazeen, entrambi presidenti dell'Autorità Palestinese. Nel corso degli anni si è consolidata una teoria fittizia e bizzarra secondo la quale non potevano esserci accordi di pace tra Israele e stati arabi in mancanza di una soluzione della questione palestinese. Il governo israeliano, sotto il primo ministro Benjamin Netanyahu, è riuscito a confutare questa teoria grazie a un impegno incessante e alla denuncia della minaccia iraniana sul Medio Oriente e il resto del mondo....

(israele.net, 27 novembre 2020)


Israele fornirà per cinque anni i sistemi di sicurezza alla missione dell'ONU in Mali

di Antonio Mazzeo

 
Soldati della Minusma in pattugliamento
 
Caschi blu MINUSMA in Mali
Saranno i grandi gruppi industriali-militari israeliani a fornire i sistemi di sicurezza e d'intelligence per la "difesa" delle installazioni militari della missione delle Nazioni Unite di stabilizzazione politica del Mali.
   Secondo un rapporto pubblicato dal sito specializzato Africa Intelligence, IAI - Israel Aerospace Industries, attraverso la controllata Advanced Technology Systems con sede in Belgio, ha firmato un contratto con l'ONU per assicurare la protezione esterna delle numerose basi utilizzate dalle forze di polizia e dai reparti militari assegnati alla missione internazionale MINUSMA (Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali). La durata prevista del contratto è di cinque anni.
   IAI è il principale gruppo industriale aerospaziale e missilistico israeliano. Con più di 15.000 dipendenti e un fatturato annuo superiore ai 3.300 milioni di dollari, IAI ha il suo quartier generale nella città di Lod, a una quindicina di km. a sud-est di Tel Aviv. Specie nell'ultima decade le Israel Aerospace Industries hanno consolidato partnership strategiche con il colosso aerospaziale europeo Airbus e con le statunitensi Boeing, Lockheed Martin, General Dynamics e Raytheon.
   Tra le componenti belliche prodotte compaiono soprattutto i recentissimi sistemi di difesa aerea "Iron Dome" e i sistemi anti-missile a corto e medio raggio "David's Sling", "Arrow-2" e "Arrow-3", ma soprattutto i velivoli aerei a pilotaggio remoto "Heron", in grado di sorvolare i teatri operativi per lunghi periodi di tempo ad altitudini medie.
   Con funzioni di sorveglianza, monitoraggio, rilevamento e assistenza alle operazioni di combattimento, gli "Heron" sono stati utilizzati dalle forze armate israeliane nelle operazioni d'attacco a Gaza, Libiano e Siria. Alcuni velivoli sono stati acquistati anche dalle forze aeree di Australia, Canada, Francia, India, Germania e Turchia; le agenzie europee Frontex ed EMSA cui è affidato il controllo e la "sicurezza" della frontiere esterne UE, si sono affidate ai droni di IAI per le operazioni di "contenimento" dei flussi migratori nel Mediterraneo.
   Gli "Heron" israeliani sono pure ben conosciuti in Mali: dall'1 novembre 2016 sono utilizzati infatti dall'esercito tedesco per il supporto aereo alla missione MINUSMA. Sino ad oggi questi droni hanno svolto nel martoriato paese africano più di 1.200 interventi con oltre 11.500 ore di volo. Qualche mese fa le forze armate della Germania hanno rinnovato sino al giugno 2021 (con un'opzione per un altro anno ancora) il contratto di servizio per i sistemi a pilotaggio remoto; il contractor è Airbus Defence and Space, rappresentante in Europa del gruppo IAI.
   Sempre secondo Africa Intelligence, il contratto per la protezione delle installazioni militari in Mali è stato preceduto nel mese di giugno da un accordo delle Nazioni Unite con altre due importanti aziende militari israeliane, Elbit Systems e MER Group, per la fornitura di sofisticati sistemi di individuazione ed identificazione delle "minacce", video-camere, apparecchiature di telerilevamento e droni, più relativi servizi di manutenzione e formazione del personale MINUSMA.

(Africa ExPress, 26 novembre 2020)


Germania, in ottocento impediscono manifestazione neonazista davanti a sinagoga

BRUNSWICK - Siamo a 120 miglia a ovest della capitale Berlino, città situata nel Land della Bassa Sassonia, abitata da neanche 250.000 persone. Una città dove martedì scorso era stata organizzata una manifestazione di estrema destra da tenersi davanti alla sinagoga. Gli organizzatori, che appartengono al partito di estrema destra Dierechte, sono stati fermati da 800 persone che hanno espresso solidarietà alla comunità ebraica locale.
La manifestazione doveva avere inizio alle 19:33 per terminare alle 19:45. In tutto 12 minuti, un tempo non causale, perché 12 è il numero di anni in cui il partito nazista è stato al potere in Germania (per l'appunto 1933-1945).
L'intento era quello di manifestare per la "libertà per la Palestina" e contro il "sionismo" davanti al tempio ebraico. Una protesta che in genere è capeggiata dall'estrema sinistra e non dall'estrema destra.
Ma così come avviene in Italia con Forza Nuova, anche in Germania gruppi di estrema destra propugnano la causa della Palestina.
"Libertà per la Palestina - L'umanità non è negoziabile. Fermare il sionismo!" era lo slogan di un evento, che deve far riflettere vista la sua trasversalità. Evento che le autorità cittadine affermano di non aver autorizzato.
Quanto appena raccontato non è il solo episodio di antisemitismo accaduto in Germania negli ultimi giorni. A Wesel, una città 20 miglia a nord-ovest di Essen, persone non identificate hanno rubato una grande targa di pietra dal cimitero ebraico locale, che mostrava i nomi di centinaia di ebrei e di altre vittime del nazismo.
Quel nazismo che, nonostante gli sforzi del governo di Berlino, la Germania non riesce a scollarsi di dosso. Può la Germania avere ancora problemi riguardanti il Terzo Reich dopo che le atrocità da esso commesse sono davanti agli occhi di tutti?
La risposta non può che essere positiva. Ma dobbiamo ripartire da tutti coloro che a Brunswick sono scesi in piazza per portare sostegno alla comunità ebraica e impedire lo svolgimento di una manifestazione che avrebbe calpestato ancora una volta non solo le vittime della Shoah, ma l'umanità intera.

(Progetto Dreyfus, 26 novembre 2020)


Rapporto Ocse: il 22% dei crimini di odio del 2019 in Europa sono antisemiti

Gli incidenti antisemiti hanno rappresentato il 22% dei crimini d'odio registrati lo scorso anno nella regione paneuropea, sebbene gli ebrei rappresentino meno dell'1% della popolazione locale.
Lo rivela un rapporto su 5.954 incidenti registrati in Europa, Russia e Asia centrale dell'Office for Democratic Institutions and Human Rights (ODHIR) dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Il rapporto si basa sui dati trasmessi dai governi e dai gruppi di controllo.
Degli incidenti totali, 1.311 erano antisemiti, secondo il rapporto intitolato "Dati sui crimini d'odio del 2019".
L'antisemitismo era la categoria con il secondo maggior numero di incidenti dopo i 2.371 incidenti nella categoria più generale di razzismo e xenofobia.
Quelli presi di mira per il loro genere o orientamento sessuale (1.277 casi) costituivano il terzo gruppo più alto, seguito da cristiani (573) e musulmani (507).
Il rapporto afferma che le sue cifre non sono definitive e potrebbero infatti essere inferiori al numero di crimini d'odio commessi o registrati in Europa.

(Bet Magazine Mosaico, 26 novembre 2020)


La tecnologia per aiutare l'integrazione. Progetto pilota del comune di Tel Aviv

di Fabiana Magri

Diversificare l'innovazione. Il Comune di Tel Aviv tende una mano ai rifugiati, per offrire opportunità di lavoro a uno dei gruppi sociali più a rischio. «Introduzione al coding» è l'iniziativa di «The Platform», centro municipale nel quartiere di Neve Shaanan a Tel Aviv, finanziata da «PresenTense», una scuola sostenuta dall'organizzazione filantropica «Citi Foundation», in collaborazione con l'«African Refugee Development Center», una ONG fondata nel 2004 da richiedenti asilo e cittadini israeliani. L'edizione pilota del corso di programmazione informatica e imprenditorialità è durata dieci settimane - in parte in presenza e in parte da remoto - e ha coinvolto dieci studenti, individuati su cinquanta candidati, dopo un periodo di formazione di base e un test sulle abilità logiche e informatiche. A ogni partecipante è stato affiancato un mentore. Per coordinare il progetto è stato scelto Ismail Kharoub, un programmatore autodidatta e imprenditore di Giaffa, capace di insegnare in arabo, ebraico e inglese.
   «Il Comune di Tel Aviv crede che la tecnologia sia un elemento stabilizzatore - ha commentato Shana Krakowski, direttrice di «The Platform» - e che la diversità sia alla base dell'innovazione. La dedizione degli studenti ha superato le nostre aspettative. Ci auguriamo che questo sia il primo di molti».
   «Ci sono molte comunità socialmente emarginate che non prendono parte all'ecosistema tecnologico e imprenditoriale. Il nostro obiettivo - ha spiegato Khouloud Ayuti, amministratore delegato della scuola - è identificare le lacune esistenti e affrontarle rendendo accessibile la "Startup Nation"».
   Al termine dell'edizione pilota, alcuni studenti hanno espresso il desiderio di puntare a una carriera hi-tech in aziende tecnologiche. Altri intendono avviare un'attività in proprio. Altri ancora, come la rifugiata eritrea Fisseha Tsegai Tesfamichael, hanno raccolto il senso dell'iniziativa e preferiscono trasferire le nuove conoscenze alle rispettive comunità, puntando a ridurre il divario digitale. «La mia speranza per il futuro è insegnare ai giovani della mia comunità e condividere con loro ciò che so e ho vissuto. Voglio dare quel poco che ho alle comunità emarginate perché posso capire le loro difficoltà. Il viaggio della vita è breve, quindi miglioriamo il mondo insieme».

(Shalom, 26 novembre 2020)


L'Europa unita contro l'antisemitismo

Al prossimo vertice Ue i governi si impegneranno a contrastare l'odio. Il tedesco Felix Klein: "Con la pandemia sono riemersi i pregiudizi"

Alle manifestazioni dei no mask sono spuntate anche le stelle di David È ora che la battaglia diventi trasversale come si sta facendo per il Green Deal

di Tonia Mastrohuoni

L'Europa dichiara guerra all'antisemitismo. Dopo mesi di pandemia e di recrudescenza dei cornplottismi, sempre più spesso caratterizzati da un odio inquietante contro gli ebrei, dopo il moltiplicarsi di attacchi antisemiti in tutto il continente, i governi europei hanno deciso che si impegneranno al prossimo vertice a «integrare la prevenzione e il contrasto all'antisemitismo a tutti i livelli». La Dichiarazione che Repubblica è in grado di anticipare e che sarà approvata al prossimo Consiglio dei capi di Stato e di governo, il 10 dicembre, prevede che la lotta all'antisemitismo «debba essere presa seriamente in considerazione nelle decisioni e nelle misure adottate dalle istituzioni dell'Unione europea e debba riflettersi in esse».
   Cosa significhi concretamente l'impegno che l'Europa si accinge a scolpire nella pietra, lo spiega al nostro giornale il responsabile tedesco per la lotta all'antisemitismo e sottosegretario all'Interno Felix Klein, che lo definisce «un grande successo». Il contrasto all'odio contro gli ebrei, precisa, «è cosi difficile perché in realtà dovrebbe essere trasversale. Di solito viene soltanto discusso dai ministeri dell'Interno o della Giustizia. Non è sufficiente: l'antisemitismo implica molti aspetti. I capi di Stato e di governo devono impegnarsi a riconoscere che è incompatibile con i valori dell'Unione e che deve diventare un tema dibattuto a ogni livello».
   Klein fa l'esempio del Green Deal per spiegare la portata trasversale della Dichiarazione: «ogni volta che si discuterà una misura europea, dovrà rispondere — in modo vincolante — alla domanda: che effetto può avere sulla lotta all'antisemitismo?». E potrà essere adottata soltanto se l'effetto sarà «positivo o almeno neutrale». La lotta all'antisemitismo dovrà diventare un filo rosso delle decisioni europee alla pari della lotta ai cambiamenti climatici. Il documento dichiara nero su bianco il contrasto all'odio contro gli ebrei «una priorità», e impegna alla creazione, al livello nazionale, di figure governative dedicate al tema, e «alla tutela della vita ebraica».
   In Germania Klein è il primo responsabile per la lotta all'antisemitismo della storia. E ha commissionato i primi studi tedeschi sull'odio contro gli ebrei nel quotidiano: le offese, i pregiudizi, le espressioni di intolleranza che sino ad allora non venivano registrate dai rapporti perché non erano penalmente rilevanti, adesso figurano ufficialmente nelle statistiche. E ora Klein vuole portare la sua battaglia al livello successivo, quello europeo. «Vorrei che l'Agenzia europea per i diritti umani registrasse ogni episodio, anche quelli che non hanno una rilevanza penale. Ogni paese dovrebbe farlo per mostrare quanto sia diffuso l'antisemitismo, anche nel quotidiano. Solo se si rende visibile, l'antisemitismo può essere combattuto».
   In questi mesi di pandemia, in Germania e altrove sono riemersi vecchi pregiudizi, leggende nere, persino un orribile pervertimento dei simboli della Shoah. Alle manifestazioni dei no mask sono spuntate stelle di David appuntate sul petto, paragoni immondi con Anna Frank. I negazionisti in piazza accusano gli ebrei di aver inventato il virus per guadagnare soldi con i vaccini e si sentono vittime di una persecuzione da parte dello Stato che chiede loro di rispettare le restrizioni. E la presunta appartenenza a una minoranza perseguitata o addirittura alla resistenza, spinge i manifestanti a confrontarsi con le vittime della più feroce persecuzione della storia, quella dei nazisti contro gli ebrei. Anche contro questa deriva bisogna combattere, sostiene Klein: «Con il coronavirus sono aumentate nuovamente le teorie cospirazioniste; i pregiudizi vengono espressi apertamente, sia online, sia alle manifestazioni contro le misure anti-covid del governo».
   Un'altra battaglia che Klein intende portare avanti è quella delle strategie nazionali per la lotta all'antisemitismo. A dicembre del 2018 tutti i Paesi membri si erano impegnati a formularle. «Alla fine del 2020 — ricorda il sottosegretario — questo processo doveva essere concluso. Ma a quanto mi risulta solo sei Paesi hanno presentato i loro piani». L'Italia, ad esempio, non è tra essi.
   Per portare avanti in modo più efficace la battaglia contro i pregiudizi Klein chiede anche maggiori poteri per la Coordinatrice contro l'antisemitismo, Katharina von Schnurbein: «Penso che dovrebbe avere maggiore potere di azione. A settembre, alla conferenza europea sull'antisemitismo, il direttore dell'Agenzia per i diritti umani, O' Flaherty, ha rivelato che alcuni Paesi non hanno fornito le informazioni richieste su attacchi ed episodi antisemiti. Non è accettabile che questi Paesi dichiarino che l'antisemitismo, da loro, non esista».

(la Repubblica, 26 novembre 2020)


Quelli che parlano di “contrasto all’odio” sono come quelli che parlano di “invito all’amore”. E’ ragionevole maneggiare concetti universali come odio e amore in documenti di politica operativa? Quando in ambito governativo si cominciano a trattare disinvoltamente concetti come questi c’è da aspettarsi il peggio; non “nonostante le apparenze!, ma proprio “a motivo delle apparenze”. E il riferimento alla pandemia fa capire che anche questa sta contribuendo ad andare verso il peggio. M.C.


Israele, arriva lo spray nasale contro il Covid. E la notizia finisce anche sui siti iraniani

Si chiama Taffix e impedisce ai virus di penetrare la mucosa nasale creando una barriera protettiva per 5 ore. Agli inizi della pandemia, l'Ayatollah Naser Makarem Shirazi, una delle massime autorità religiose in Iran, aveva emesso una fatwa secondo cui, alla norma che vieta di comprare qualsiasi prodotto "dai sionisti o da Israele", era stata fatta un'eccezione "a meno che il trattamento non sia unico e insostituibile".

di Sharon Nizza

 
TEL AVIV - In attesa del vaccino, tra le nuove tecnologie che si fanno strada per prevenire la diffusione della pandemia, debutta sul mercato in questi giorni Taffix, uno spray nasale che impedisce ai virus di penetrare la mucosa nasale, creando una barriera protettiva efficace per cinque ore.
   Sviluppato dall'azienda biofarmaceutica israeliana Nasus Pharma, l'inalatore fornisce un ulteriore livello di protezione, in aggiunta alle mascherine, particolarmente indicato per gli ambienti ad alto rischio come i mezzi di trasporto pubblico, negozi e scuole, o in generale qualsiasi spazio chiuso.
   Taffix rilascia una polvere contenente ipromellosa che, in soli 50 secondi, crea un sottile strato di gel nella mucosa nasale, funzionando come una barriera protettiva dalle minacce esterne. La polvere nasale, inoltre, è stata sviluppata per abbassare il pH della mucosa nasale da 6.8 a 3.5, creando un ambiente più acido che neutralizza il virus.
   Lo spray, già in commercio in Europa e acquistabile su Amazon, nel giro di un paio di settimane entrerà anche nel mercato italiano, dove sarà reperibile nelle farmacie, ci racconta Udi Gilboa, co-fondatore e direttore esecutivo di Nasus Pharma.
   Uno dei test più significativi che sono stati fatti sul prodotto è avvenuto nell'affollatissima città israeliana di Bnei Berak, abitata principalmente dalla comunità ebraica ultraortodossa, dove si è registrato un tasso di contagio più alto della media del Paese anche a causa dell'alta densità demografica. Tra i soggetti che hanno partecipato all'esperimento, inalando Taffix tre volte al giorno per due settimane (e sempre indossando anche la mascherina), solo il 2% è risultato positivo, 2 persone su 83 ("proprio le due persone che hanno ammesso di non aver spruzzato lo spray alla frequenza richiesta" specifica Gilboa). Mentre nel gruppo che non ha inalato Taffix ma indossava solo le mascherine, il tasso di contagio è stato ben del 10%.
   "L'esperimento ci ha fornito dati eccellenti. È la prima volta che, oltre alle mascherine, una misura preventiva per il contrasto del Covid si è dimostrata realmente efficace nel limitare la diffusione del contagio, specie in ambienti con potenziali super-spreader" dice Gilboa. Va specificato che Taffix non intende sostituire le indicazioni ministeriali relativamente all'uso delle mascherine o al distanziamento fisico, ma costituisce "un ulteriore strato protettivo" sottolinea Gilboa.
   Nei test condotti in laboratorio presso l'Università della Virginia, i risultati hanno dimostrato che Taffix è in grado di uccidere il 99% di cellule virali da SARS-CoV-2.
   "Abbiamo testato Taffix su diverse tipologie di virus" prosegue Gilboa. "Il 95% dei virus penetra nel corpo attraverso il naso e viene debellato nel momento in cui incontra la patina di Taffix che riduce il pH al 3.5: ogni virus che conosciamo oggi muore in un ambiente con tale livello di acidità. Ciò significa che Taffix costituisce una soluzione preventiva non solo per il Covid, ma per ogni patologia virale, compresa l'influenza stagionale".
   La notizia dell'innovativo e semplice dispositivo, che avrà un costo di circa 15€ a flaconcino (1000 mg), ha fatto il giro del mondo, tanto da essere pubblicata persino dall'agenzia stampa iraniana Tasnim, vicina alle Guardie della Rivoluzione. Agli inizi della pandemia, l'Ayatollah Naser Makarem Shirazi, una delle massime autorità religiose in Iran, aveva emesso una fatwa secondo cui, alla norma che vieta di comprare qualsiasi prodotto "dai sionisti o da Israele", era stata fatta un'eccezione "a meno che il trattamento non sia unico e insostituibile".

(la Repubblica, 25 novembre 2020)


Gli accordi di Abramo, i frutti dell'eredità di Trump

di Carlo Panella

Legare le mani a Joe Biden in Medio Oriente: è stato questo l'obiettivo del recente viaggio di Mike Pompeo in Israele con l'incontro di cinque ore tra Bibi Netanyhau e Mohammed bin Salaman a Ryad, alla presenza del Segretario di Stato americano. Una svolta storica con implicazioni dalle quali il neo presidente statunitense non potrà prescindere. Né deve destare sorpresa il fatto che questo straordinario vertice sia stato smentito dal ministero degli Esteri saudita (ma è stato confermato da fonti più che attendibili di Gerusalemme). Il re dell'Arabia Saudita (padre di Mohammed bin Salman) è infatti il custode delle città Sante della Mecca e della Medina ed è saudita la presidenza dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica, che coordina i 61 paesi islamici (1.600.000 musulmani). Quindi, la formalizzazione di pieni rapporti diplomatici con Israele non può che maturare tenendo conto dei vincoli - anche d'immagine - conseguenti e deve procedere con estrema prudenza. Ma, scontata una abituale dose di ipocrisia, una intensa partnership con Israele è palese e ormai rivendicata nei fatti da Mohammed bin Salman (detto Mbs), vero governante di Ryad, garante dell'Accordo di Abramo. In questo contesto è trapelata la notizia che - oltre a intensi rapporti tecnologici e a una collaborazione israeliana piena per la costruzione della megalopoli ti-tech e industriale di Neom, un progetto da 500 miliardi di dollari - nel vertice israelo-saudita si sia prospettata l'adesione del Pakistan all'Accordo di Abramo. Se e quando questo avverrà, l'Accordo di Abramo assumerà rilevanza planetaria che influenzerà tutto il quadrante asiatico. Strettissimo alleato dell'Arabia Saudita, il Pakistan è infatti l'unico Paese islamico dotato di bomba atomica (finanziata, appunto, da Ryad) ed è il secondo paese islamico per popolazione del pianeta. Una eventuale normalizzazione dei suoi rapporti con Israele avrebbe conseguenze immense. Sul piano politico segnerebbe la fine di fatto dell'ostracismo compatto nei confronti di Gerusalemme, a partire dalle risoluzioni delle Nazioni Unite, da parte dei paesi islamici non arabi. Sul piano economico garantirebbe la proiezione in Asia di progetti di collaborazione hi-tech e industriale dell'enorme potenziale di ricerca di Israele, veicolando possibili progetti di investimento della finanza israeliano-ebraica.
   È dunque interessante notare come la strategia di apertura e di fattiva collaborazione con Israele sviluppata da Mohammed bin Salman proceda con una sottile prudenza ma con grande determinazione. Rompendo con la tradizione parolaia e roboante della politica estera dei paesi arabi, Mbs sta costruendo una solida ed estesa rete che non a caso è partita dai paesi arabi più piccoli, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, per poi rafforzarsi con un grande paese arabo (il Sudan) e ora aggiungendo al network un grande e potente - anche dal punto di vista militare - paese islamico non arabo. Paese, non va dimenticato perché questo è un dato di fatto cruciale e strategico, che confina da Oriente con l'Iran: in questo modo si estenderebbe, se l'accordo con Israele dovesse maturare, la trincea sunnita anti Iraniana, con la collaborazione di Gerusalemme, alle spalle del paese degli ayatollah. Una novità assoluta che sicuramente non farà piacere al regime iraniano, da sempre in pessimi rapporti con Islamabad.
   Biden, con grande esperienza personale di politica estera, dovrà quindi prendere atto della obsolescenza di tutte le linee di politica estera mediorientale e asiatica sulle quali si è mosso come vice presidente di Barack Obama (tutte fallite a suo tempo, peraltro); dovrà modificare radicalmente le stesse strategie con le quali si è presentato in campagna elettorale e dovrà fare i conti con una nuova, inedita, impensata, alleanza politico-economica asiatica imperniata su Ryad, Gerusalemme e Islamabad con enorme capacità di attrazione nei confronti dei paesi arabi (a iniziare dal Marocco).
   Si intravede in trasparenza, dietro le linee di sviluppo dell'Accordo di Abramo, la formazione di una alleanza dalla massa critica di una nuova Nato mediorientale, che scombina tutti i giochi e le regole degli ultimi 70 anni. Il tutto segnato dalla grande e innovativa aspirazione dell'Arabia Saudita, della quale la nuova megalopoli di Neom è la prima concretizzazione, di trasformare la storica monocultura energetica delle monarchie del Golfo, in economie produttrici di beni immateriali, industriali e hi-tech. Una evoluzione, una maturazione economica, dalle immense conseguenze sul piano sociale e politico, in grado di fare traballare le regole feudali delle monarchie del Golfo. Il tutto, con la compartecipazione dello Stato ebraico. Un salto epocale di fase che chiude definitivamente gli equilibri mediorientali in atto dal 1945 a oggi. Nel quale, peraltro, la stessa questione palestinese viene sempre più marginalizzata e ridimensionata degli stessi paesi islamici. Anche di questo Biden dovrà tener conto.

(LINKIESTA, 26 novembre 2020)


Le auto elettriche si ricaricano viaggiando. Progetto israeliano per la Brebemi

Le vetture passano su delle bobine e ricaricano le batterie. Tre anni di sperimentazione.

di Patrik Pozzi

Sarà grazie all'induzione che in futuro si potrà viaggiare con le auto elettriche sull'autostrada Brebemi-A35. È stata la Electreon Wireless, società israeliana quotata alla borsa di Tel Aviv, ad annunciare ufficialmente l'avvio sulla Brebemi della sperimentazione di un tipo di tecnologia che (semplificando, dal momento che molti dettagli tecnici sono ancora coperti dal segreto industriale) prevede l'immersione nell'asfalto di bobine per la ricarica induttiva: le auto elettriche passandoci sopra, grazie a un particolare dispositivo sviluppato dalla stessa Electreon Wireless di cui dovranno dotarsi, ricaricheranno le proprie batterie semplicemente viaggiando.

 Firmato un protocollo d'intesa
  Dopo un «Memorandum Of Understanding» (in pratica un protocollo d'intesa) non vincolante firmato lo scorso gennaio tra la società israeliana e la concessionaria Brebemi spa, è stato recentemente siglato un accordo definitivo per avviare la sperimentazione che avrà una durata di tre anni. La Brebemi continua quindi a proporsi come autostrada che promuove la mobilità sostenibile nell'ambito di un sistema di economia circolare. Per fornire elettricità alle bobine che ricaricheranno le auto elettriche non sono previsti collegamenti alla rete elettrica. Bensì a impianti fotovoltaici da installare lungo l'autostrada: un'ipotesi in fase di studio è quella di andare a occupare le aree interposte fra la Brebemi e la linea ferroviaria AV/AC Milano Venezia che, essendo inaccessibili, sono al momento inutilizzate. La sperimentazione dell'induzione per l'A35 si affiancherà a quella già annunciata che prevede l'installazione di fili elettrici aerei a cui camion ibridi (ossia a carburante e anche elettrici) dotati di pantografo (lo stesso sistema utilizzato dai tram) potranno collegarsi anche in questo caso ricaricando le batterie mentre viaggiano.

 Un progetto espandibile
  Attenzione però: tutti questi innovativi sistemi non potranno essere sperimentati sulla carreggiata autostradale (per ovvii motivi, in primis quello della sicurezza stradale). Per farlo, verrà invece realizzato un apposito circuito. A quanto si apprende dalla società israeliana, i costi della sperimentazione saranno sostenuti da Brebemi mentre la ElectReon si occuperà della logistica, dell'installazione e dell'analisi dei dati fornendo inoltre il materiale elettrico. Lo sviluppo della tecnologia è però seguita da vicino anche da Cal (Concessioni autostrade lombarde), società che detiene la concessione delle autostrade lombarde di recente realizzazione: oltre a Brebemi, Pedemontana-A56 e Teem-A58. C'è l'intenzione, inoltre, di estendere la mobilità elettrica all'intera rete regionale delle autostrade. Per fare ciò si vuole attingere alle risorse che l'Europa metterà a disposizione dell'Italia con il «Recovery Fund». Principio fondamentale per ottenere i fondi è l'intenzione di investirle soprattutto su infrastrutture, digitalizzazione del Paese e progetti per la «green economy». Come sarebbero quelli per trasformare le autostrade lombarde in autostrade a induzione.

(L'Eco di Bergamo, 26 novembre 2020)


La palma Matusalemme e i bombi vice-api

Nel deserto israeliano si prepara la vita oltre la crisi climatica

di Davide Frattini

 
Un’immagine dalla tenuta vitivinicola Nana, nel deserto del Negev
Una immagine dalla tenuta vitivinicola Nana, nel deserto del Negev. È una delle trenta cantine della zona, alcune delle quali sono specializzate in varietà kosher, per ingredienti ed equipaggiamento certificato.
I quindici anni di coccole hanno dato i loro frutti. A settembre. La pianta è stata chiamata Matusalemme anche se è giovane — e piuttosto bassina per una palma, solo un metro — perché i semi da cui è cresciuta hanno almeno un paio di millenni. È stata accudita dalla dottoressa Elaine Solowey e dai suoi assistenti che nel 2005 l'hanno risvegliata dal sonno sotto la sabbia perché volevano studiare i benefici di quel tipo di datteri ormai scomparsi dal Medio Evo, spazzati via dalle guerre, dalle carestie, dalla scarsezza d'acqua. Il frutto color bronzo, dalla polpa fibrosa e dolciastra, simboleggia l'antica Israele, ha ispirato la frase «la terra del latte e del miele», era decantato come cura per le infezioni, per le proprietà lassative, come garanzia di longevità.

 «I giusti fioriranno come la palma»
  «I giusti fioriranno come la palma, porteranno ancora frutti nella vecchiaia, saranno prosperi e verdeggianti», recita il Salmo 92. Questo albero e i suoi prodotti erano e sono venerati anche nel resto del Medio Oriente. Il profeta Maometto li considerava fondamentali per sviluppare la prosperità di una nazione (legname da costruzione compreso) e il Corano li descrive come un simbolo legato alla divinità. Per gli scienziati e i giovani volontari del centro per l'agricoltura sostenibile all'Arava Institute, nella parte meridionale del deserto del Negev, rappresenta la speranza per il futuro che arriva dal passato: contrastare la desertificazione e riuscire a coltivare anche le terre più assetate.
Lo studio dei mandorli selvatici super-resistenti, la micro-irrigazione dei vigneti (per non sprecare l'acqua), funghi al posto dei fertilizzanti, impianti di desalinizzazione, droni che raccolgono big data sui campi. Nel Negev, fra i luoghi aridi della Terra, c'è l'agri-tech del futuro prossimo: gli emiri vogliono già comprarlo.
 
Sul trattore, il titolare Eran Raz
Vivono insieme nei cubi ocra come le rocce attorno al kibbutz Ketura e condividono con i pionieri che hanno costruito lo Stato ebraico il progetto di «far fiorire il deserto» come ripeteva David Ben Gurion. Che è seppellito poco più a nord, la tomba affacciata verso i canyon e le distese di sabbia, sulla lapide bianca le antilopi riposano al tramonto. Alla fine della carriera politica si ritira in una casupola a Sde Boker, un altro collettivo agricolo. Le palazzine per gli studenti del campus vicino al villaggio sono meno spartane della stanza con il letto singolo e la poltrona di pelle verde dove riposava il padre fondatore di Israele. Sono state progettate rispettando i diritti individuali a godere della natura, a beneficiare del vento e del sole. Non è solo per il benessere dei ragazzi che ci abitano, la disposizione degli edifici (e degli alberi piantati lungo i vialetti) consente di risparmiare sull'aria condizionata d'estate e sul riscaldamento d'inverno.

 Sopravvivere alla disidratazione
  È un distaccamento dell'università di Beersheba, che porta il nome di Ben-Gurion, ed è stato creato per mettere insieme i corsi che studiano la capacità di sopravvivere nel deserto, dall'agricoltura all'architettura, dall'antropologia alla biochimica all'uso dei big data. Gli israeliani fin dalla nascita del Paese nel 1948 non hanno mai smesso di sviluppare le tecnologie per sfruttare quei 12 mila chilometri quadrati che scendono verso sud e il Mar Rosso. Invenzioni che permettono agli agricoltori di utilizzare l'acqua e i fertilizzanti in maniera più efficiente, di diffondere le coltivazioni resistenti alla siccità, mettere insieme (e comprendere) i dati raccolti sopra e sotto il suolo. «Il Negev è parte della fascia desertica sahariano-arabica», spiega Tamir Klein, ricercatore nel laboratorio dedicato agli alberi dell'istituto Weizmann, alla rivista Israel 21c, «ed è uno degli ambienti più aridi sulla Terra. Il deserto negli Stati Uniti è più umido e più fresco, in confronto sembra un giardino».

 Piante resistenti alla desertificazione
 
Una fase della vendemmia nel deserto. La tenuta Nana produce
       Cabernet Sauvignon, Syrah, Viognier, Sauvignon Blanc e Chardonnay
  Così quello che viene scoperto da queste parti è molto probabile possa funzionare in altre zone altrettanto riarse del pianeta. Come i mandorli selvatici trovati nel letto pietroso di un torrente prosciugato: il gruppo di Klein li ha fatti crescere nelle condizioni controllate delle serre e gli studiosi sono riusciti a capire che queste piante sono in grado di sopravvivere alla disidratazione perché non sviluppano emboli, minuscole bolle d'aria dovute alla siccità che bloccano il percorso dell'acqua (anche pochissima) dalle radici ai rami. L'idea è di poterne usare i semi nell'agricoltura commerciale per incrementare i raccolti delle nazioni colpite dalla progressiva desertificazione. Gli Emirati Arabi Uniti sono ricchissimi di petrolio ma scarseggiano di frutta e verdura, per la maggior parte importate. Uno dei primi passi dopo l'accordo di normalizzazione (per lo Stato ebraico la prima intesa dai tempi dei patti con l'Egitto e la Giordania) sarà quello di inviare osservatori nel deserto del Negev e acquistare le agri-tech israeliane .

 Fragole e mirtilli per lo sceicco
  Lo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan è interessato soprattutto alla produzione in serra di fragole, mirtilli e pomodori per ridurre la dipendenza da altri Paesi e vorrebbe poter scambiare oro nero con acqua pulita (o i segreti per ottenerla): l'impianto di desalinizzazione nel Negev è in grado di ricavarne 3 milioni e mezzo di metri cubi da usare per l'agricoltura e le comunità locali. Desalinizzare è considerato la soluzione migliore da Alon Ben-Gal che valuta l'efficienza dei sistemi di irrigazione. Perché gli israeliani si sono resi conto - spiega - che il recupero delle acque reflue municipali per i campi, tra i metodi più diffusi, rischia di ridurre la fertilità e danneggiare l'ambiente.

 Tra le cinque nazioni più importanti
  Il rapporto annuale di AgFunder, che investe in tutto il mondo nelle tecnologie per l'agricoltura e nella ricerca di cibi alternativi, piazza Israele tra le cinque nazioni più importanti in questi settori. Le start-up attive sono 800 e vengono nutrite dalle nonne della produzione alimentare locale, i colossi Strauss e Tnuva: sponsorizzano gli incubatori della strategia "farm to fork" (dal produttore al consumatore) che la Commissione europea ha inserito nel suo piano "verde" decennale per lo sviluppo sostenibile. «Questi imprenditori vengono da famiglie di agricoltori il cui bisnonno segnava ogni giorno il meteo nel diario per cercare di prevedere il tempo nello stesso periodo l'anno successivo», commenta Nitza Kardish, amministratore delegato del fondo Trendlines Agrifood, al quotidiano economico Globes. «Oggi non hanno bisogno di andare nei campi a contare le foglie gialle, un drone vola sopra le coltivazioni e raccoglie i dati da inviare a software di analisi statistica». È convinto che la crisi climatica stia accelerando l'innovazione.

 I consumi ambientali dell'industria alimentare
 
Sperimentazione di droni per la raccolta della frutta: permette di ridurne lo spreco
  Le Nazioni Unite calcolano che l'industria alimentare causi l'emissione del 30 per cento dei gas serra e consumi il 70 per cento dell'acqua potabile: l'obiettivo è trovare un equilibrio tra produzione di cibo e danni all'ambiente, anche perché il riscaldamento globale sta già colpendo le coltivazioni. «Questo significa», continua Kardish, «che dobbiamo affrontare una sfida triplice: abbiamo bisogno di più cibo - in 30 anni 10 miliardi di persone popoleranno il pianeta - ma abbiamo meno risorse e allo stesso tempo è necessario proteggere l'ambiente». La moria delle api è uno dei fenomeni più preoccupanti dei dissesti provocati dall'Antropocene. I membri del kibbutz Sde Elyahu, verso il lago di Tiberiade,hanno fondato 35 anni fa la società BioBee. Ha sviluppato un sistema per "far lavorare" i bombi al posto dell'Apis mellifera nell'impollinazione dei fiori: i bombi sono in grado di individuare la direzione in volo anche nella penombra delle serre senza luce del sole e gli agricoltori che li usano possono ridurre l'impiego dei pesticidi nocivi alle api.

 Il cerchio della natura si chiude
  Il cerchio della natura si chiude in positivo. La forza di una pianta comincia dove non si vede. Sottoterra. L'israeliana Rootella ha creato una mistura a base di funghi micorrizici - simili ai tartufi - che penetra nelle radici e le aiuta a estendersi per recuperare nutrienti. Niente fertilizzanti chimici. La forza di una pianta continua con l'acqua. Gli israeliani hanno da sempre dovuto ingegnarsi per non buttar via la poca su cui potevano contare e sono esperti nella micro-irrigazione che a differenza di quella per sommersione permette di controllare fino all'ultima goccia le quantità utilizzate. Allagare i terreni terrazzati è la pratica dei coltivatori nei Paesi emergenti, che così disperdono risorse. Un metodo che viene dal passato, semplice ma ormai fuori tempo massimo. In questi mesi il virus ha spezzato la catena di distribuzione globale e i piccoli agricoltori faticano a ricevere semi o fertilizzanti. Per loro e le loro famiglie il Coronavirus ha portato anche la fame. Nell'emergenza sanitaria la start-up NDrip si è specializzata nell'installazione di impianti per tenute poco estese, un ettaro. L'acqua risparmiata può essere usata per l'igiene e provare a tenere lontano il virus.

(Corriere della Sera - Pianeta 20, 25 novembre 2020)


Trump cerca di affrettare i tempi del disgelo tra Israele e Arabia Saudita

L'isolamento dell'Iran l'incontro Netanyahu-bin Salman

di Roberto Bongiorni

Se Riad dicesse sì a Gerusalemme, avviando relazioni con uno Stato che non ha mai riconosciuto sin dalla sua tormentata nascita, nel 1948, sarebbe una svolta storica. Capace di ridisegnare gli equilibri geopolitica di tutto il Medio Oriente e creare un fronte agguerrito e unito in grado di mettere l'Iran in grandissime difficoltà.
   Ma tutto è ancora in sospeso. Al punto che la visita che il premier israeliano Benjamin Netanyahu, insieme al direttore del Mossad, Yossi Cohen, ha fatto domenica in Arabia Saudita è circondata da un alone di mistero. In questo incontro durata circa due ore, il premier più longevo di Israele, che sta vivendo uno dei periodi politicamente più difficili della sua vita, ha incontrato il giovane principe reggente, Mohammed Bin Salman (Mbs), l'uomo più influente del Regno saudita, ed il segretario di Stato americano Mike Pompeo, ovvero l'uomo che ha strenuamente lavorato, riportando grandi successi, agli storici processi di normalizzazione avvenuti negli ultimi tre mesi tra Israele e alcuni Paesi arabi sunniti, come Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan.
   Fonti israeliane hanno confermato il viaggio. La controparte saudita lo ha invece negato. Ma questo di per sé non è una novità. L'incontro sarebbe avvenuto a Neom, la città saudita del futuro, che si affaccia sul Mar Rosso, su cui Mbs intendeva investire 500 miliardi di dollari per sviluppare un enorme polo industriale all'avanguardia. Il simbolo di Vision 2030, il faraonico e ambizioso piano ideato da Mbs per affrancare la dipendenza saudita dal greggio e diversificarne l'economia.
   Certo la serie di accordi di normalizzazione delle relazioni con Israele, ed il suo conseguente riconoscimento come Stato sovrano (il più importante è quello avvenuto lo scorso agosto con gli Emirati Arabi Uniti), rappresentano delle svolte importanti. Ma è come se, al contempo, fossero stati preparati e realizzati per spianare la strada verso un obiettivo ben più grande: un accordo ufficiale di normalizzazione con l'Arabia Saudita, il gigante sunnita del Golfo, lo stato più ricco, che detiene le più grandi riserve di greggio, ed il più influente nel mondo arabo.
   Nella mente di Donald Trump Israele doveva probabilmente entrare in quella solida alleanza che aveva forgiato con Mbs nel maggio del 2018. Quando il presidente americano firmò vendite di armi per 110 miliardi di dollari, pose le basi per altri grandi accordi commerciali ma soprattutto creò una grande alleanza volta a isolare l'Iran. Da allora le relazioni tra Israele e Riad erano andate intensificandosi. Tanto che le due rispettive intelligence, pur senza conferme ufficiali, hanno cominciato a lavorare su diversi fronti.
   Non è più un segreto che Riad sia favorevole a un accordo di normalizzazione con Israele, ma il processo appare più lungo e spinoso rispetto agli altri. Per il colosso del mondo arabo, in cui si trovano due dei tre luoghi più sacri della religione musulmana (Mecca e Medina), noto per essere la culla dell'Islam sunnita, riconoscere Israele, come hanno fatto prima solo l'Egitto, nel 1978, e la Giordania, nel 1994 (oltre ad Emirati e Bahrein quest'anno) comporta una serie di conseguenze e potenziali reazioni sul fronte esterno ma anche, e forse soprattutto, su quello interno. La monarchia saudita, che fino a pochi anni fa era stata il paladino della causa palestinese - ruolo assunto oggi dalla Turchia di Erdogan - non vuol perder del tutto la faccia davanti al mondo musulmano.
Ecco perché il Governo di Riad chiede a Israele come pre-condizione un «accordo articolato e permanente che porti alla creazione di uno Stato palestinese» ha spiegato sabato scorso il ministro saudita degli Esteri, il principe Faisal bin Farhan.
Tema rovente, perché Netanyahu non è mai sembrato entusiasta, usando un eufemismo, alla creazione di un futuro Stato palestinese. E il piano di pace di Trump, che lo privererebbe comunque di molti punti salienti, è stato subito rigettato dalla controparte palestinese. Certo, il fatto che la visita di Netanyahu sia avvenuta proprio mentre un'altra delegazione israeliana volava verso il Sudan - la prima in assoluto - per intrattenere colloqui relativi alla normalizzazione trai due Paesi, annunciati lo scorso mese, e forse per finalizzarli con un documento ufficiale, suggerisce una considerazione: Pompeo ha fretta . Fretta di terminare il suo difficile compito e mettere il neo presidente degli Stati Uniti d'America, Joe Biden, davanti a fatti compiuti. Lo stesso sta avvenendo con l'Iran. Inasprire le sanzioni a poche settimane dall'insediamento del neo presidente significa rendergli più difficile la strada verso la ripresa di un accordo sul nucleare con Teheran.
   Certo, Netanyahu potrebbe vendere all'opinione pubblica israeliana un accordo storico con un colosso del calibro dell'Arabia Saudita. E cercare di risollevarsi dalle grandi difficoltà che sta attraversando sul fronte interno.

(Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2020)


Spotify: ricercatori israeliani scoprono una frode sugli utenti

Noam Rotem e Ran Locar di vpnMentor, hanno portato alla luce un database "Elasticsearch" contenente oltre 380 milioni di record di Spotify, comprese le informazioni di accesso

 
Due ricercatori israeliani di vpnMentor hanno annunciato di aver scoperto una possibile operazione di "credential stuffing" che ha interessato gli account del popolare servizio di streaming Spotify. Il credential stuffing è una tecnica di hacking che sfrutta le password deboli che i consumatori di solito utilizzano su più account o servizi.
   Noam Rotem e Ran Locar hanno scoperto un database con oltre 380 milioni di record, comprese informazioni sensibili come le credenziali di accesso e gli indirizzi IP degli utenti di Spotify. Non è chiaro come sia stato compilato il database e come esattamente gli hacker abbiano preso di mira Spotify, ma è possibile che stessero utilizzando credenziali di accesso rubate da un altra piattaforma, app o sito web.
   Secondo un riepilogo dell'incidente fornito da vpnMentor, si stima che fino a 350.000 account siano stati interessati dallo schema, i cui indirizzi e-mail e password potrebbero essere utilizzati per frodi di identità, truffe, phishing e attacchi malware.
   L'attacco è stato scoperto nel luglio 2020 e la società afferma di aver contattato immediatamente Spotify per provare a riparare il danno. "In risposta alla nostra richiesta, Spotify ha avviato un" ripristino continuo "delle password per tutti gli utenti interessati. Di conseguenza, le informazioni sul database verrebbero annullate e diventerebbero inutili ", ha scritto l'azienda in un post sul blog sull'incidente. I ricercatori hanno avvisato che se un utente ha ricevuto una e-mail da Spotify in estate, è importante modificare le informazioni di accesso di qualsiasi altro account che potrebbe avere la stessa password.
   vpnMentor è uno dei più grandi siti Web di recensioni di reti private virtuali su Internet. Il suo laboratorio di ricerca, di cui Rotem e Locar sono membri, opera come un servizio gratuito per proteggere la comunità online da minacce informatiche e attacchi malware. Spotify, fondato nel 2006, è uno streamer musicale con sede in Svezia e ha quasi 300 milioni di utenti mensili attivi in tutto il mondo.

(israel360, 25 novembre 2020)


Avvocati ebrei, ferita risanata

di Paolo Conti

Domani, giovedì 26 novembre, il mondo giudiziario romano sanerà simbolicamente una profonda e lacerante ferita storica: la radiazione di 67 avvocati ebrei da parte del Consiglio dell'Ordine degli avvocati e dei procuratori di Roma il 13 dicembre 1939. Una diretta conseguenza dell'ignominia delle leggi razziste decise dal regime fascista e vergognosamente sottoscritte e divulgate dal re Vittorio Emanuele III. Domani alle 12, nell'atrio della Corte di Appello di Roma, verrà scoperta la targa che ricorda quel gesto terribile, una autentica onta. Parteciperà la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati (un avvocato, dunque un segno doppiamente forte), il presidente della Corte di Appello di Roma, Giuseppe Meliadò, il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, il Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, la presidente della Comunità ebraica romana, Ruth Dureghello, e il presidente del Consiglio dell'ordine degli avvocati di Roma, Antonino Galletti. La cerimonia di scoprimento della lapide verrà preceduta da un atto formale in cui proprio il Consiglio romano degli avvocati annullerà quella radiazione e di fatto riammetterà gli espulsi nei propri albi. Può apparire incredibile, ma tutto questo non era ancora avvenuto. La targa arriva dopo lunghe e pressanti richieste da parte dell'associazione Avvocati e Giuristi Ebrei. Roma arriva ultima, dopo Milano, Torino, Ancona e Genova.


Il Corriere della Sera del 3 febbraio 2020 aveva raccolto l'appello dell'avvocato Roberto Coen, socio fondatore e consigliere dell'Associazione. I tribunali di Milano, Torino, Ancona e Genova avevano appunto - già proceduto all'apposizione delle lapidi, alle cerimonie e alle reintegrazioni. A Roma no. Aveva così ricostruito Coen: «Abbiamo cominciato a muoverci nel 2018, nel maggio 2019 abbiamo incontrato il presidente del Tribunale, Francesco Monastero, che è parso subito disponibile ma ci ha raccomandato di contattare il presidente della Corte d'Appello, Luciano Panzani. Anche da lui è venuto un apprezzamento. Ma da allora, nonostante altre sollecitazioni, non siamo riusciti a ottenere un tavolo tecnico operativo». Dopo il richiamo di Coen sul Corriere della Sera, qualcosa si è subito mosso. Ed eccoci alla cerimonia di domani, voluta a tutti i costi nonostante l'emergenza Covid. Verranno ricordati anche i magistrati ebrei di alto rango espulsi: da Ugo Foà, sostituto Procuratore generale del re presso la Corte di Appello di Roma, al pretore Edoardo Modigliani. Così come verranno citati i membri del personale giudiziario che persero il posto per gli stessi motivi.
Domani sarà dunque una bella giornata per chi ha a cuore la memoria collettiva di questa città. Quella radiazione fa parte del più oscuro capitolo della storia romana, le leggi razziste. Prima la perdita della dignità, del diritto al lavoro e alla scuola da parte degli ebrei romani. Infine la persecuzione nazifascista durante l'occupazione tedesca a Roma dal 16 ottobre 1943 in poi, il rastrellamento dell'antico Ghetto e in tutta la città, i vagoni che partirono verso i campi di concentramento. Complessivamente furono catturati 2.091 ebrei romani (1067 uomini, 743 donne, 281 bambini). Dai campi tornarono solo 73 uomini, 28 donne, nessun bambino.

(Corriere della Sera, 25 novembre 2020)


Cantante egiziano denunciato per una foto con un musicista israeliano

di Sharon Nizza

TEL AVIV - Mai una foto gli era costata così cara. Mohamed Ramadan, 32 anni, attore e cantante egiziano con milioni di follower, noto tra i fan come il "Numero 1", è sotto attacco per una foto che lo ritrae abbracciato al collega israeliano Omer Adam. Ad immortalare lo scatto, durante una festa tenutasi sabato a Dubai, il giornalista emiratino Hamad Al Mazrouei, che l'ha postata su Instagram con tanto di promettente didascalia: "L'artista più famoso in Egitto con l'artista più famoso in Israele. Dubai ci unisce".
   Quando si dice le ultime parole famose. La valanga di insulti e attacchi non si è fatta attendere, sui social come sui media tradizionali: "spia", "traditore", "collaborazionista". "Se questa farsa è vera, Ramadan ha un problema con tutti noi" ha detto il popolare presentatore della tv filo-governativa Ahmed Moussa.
   E non è bastato: il sindacato degli attori egiziano ha dichiarato che Ramadan è sospeso e quello dei giornalisti che non darà più spazio alle sue attività "fino a che non verrà chiarita la vicenda". E poi ieri è arrivata anche la denuncia per "vilipendio del popolo egiziano", con la prima udienza fissata per il 19 dicembre.
   Nel frattempo, il post è stato eliminato dall'autore - non prima di essere stato ritwittato dal portavoce in arabo dell'esercito israeliano con la scritta "l'arte ci unisce" - e Ramadan ha provato a riparare in corner, caricando sulla sua pagina Facebook una bandiera palestinese e un video, anche questo cancellato in seguito: "Non uso chiedere alla gente con cui mi fotografo da dove viene o di che religione è. Siamo tutti essere umani". Che Ramadan non sapesse con chi si stava intrattenendo non se l'è bevuta nessuno, in quanto in altri video trapelati dalla festa in questione si intravedono addirittura bandiera israeliana ed emiratina accanto, con il remix della nota melodia ebraica Hava nagila sullo sfondo.
   Due mesi di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (Eau) hanno fatto quello che in 41 anni di pace con l'Egitto non si è riusciti a raggiungere: ancora prima che siano state aperte le ambasciate, è un continuo di delegazioni di ogni genere Tel Aviv-Dubai. Solo per il mese di dicembre 40 mila israeliani hanno acquistato biglietti aerei per gli Emirati. Omer Adam, che è il cantante pop mediterraneo più famoso dello Stato ebraico, ha già un suo seguito negli Emirati, dove si è esibito più volte. Anche l'attore di Fauda Lior Raz si è fatto ritrarre in compagnia di colleghi emiratini sullo sfondo del Burj Khalifa.
   "Oltre al fatto che con gli Emirati Israele non ha mai avuto un fronte di guerra diretto, la normalizzazione è stata preparata sottobanco per oltre quindici anni" dice a Repubblica Orit Perlov, che per l'Institute for National Security Studies di Tel Aviv ricerca tendenze social nel mondo arabo. "Con l'Egitto ci sono state guerre atroci e poi la pace è venuta quasi subito, non c'è stato un processo graduale di costruzione di rapporti. Ho vissuto molto nel mondo arabo e posso dire, con grande amarezza, che proprio il Paese con cui abbiamo firmato per primi la pace, è quello dove l'odio verso Israele è più radicato".
   In Egitto, nelle musalsalat, le popolari telenovele prodotte per il periodo del digiuno del Ramadan, nel mondo rappresentato Israele sparisce. Così è stato per El-Nehaya (La fine), trasmessa ad aprile, in cui si racconta di un 2120 in cui Israele non esiste più.
   Ali Salem, lo scrittore satirico egiziano mancato nel 2015, fece della normalizzazione con Israele una battaglia vera e propria, pagando un caro prezzo: il viaggio in Israele che intraprese nel 1994, raccontato nel libro My drive to Israel, gli costò l'espulsione dall'associazione degli scrittori e poi il boicottaggio delle sue opere fino alla fine dei suoi giorni. Il libro si concludeva con la speranza che la generazione successiva avrebbe capito che "tra noi e Israele non ci sono campi minati, ma solo quelle strade asfaltate che io ho percorso". Trascorso un quarto di secolo, quelle righe rimangono una chimera.
   Che il presidente egiziano Al-Sisi sia stato il primo leader arabo a benedire l'accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati, non è servito a cambiare il trend che considera un tabù qualsiasi relazione con la società civile israeliana. "L'establishment egiziano, che intrattiene fittissime relazioni con quello israeliano, non ha nessun interesse a cambiare questo approccio" ci spiega Perlov. "Anzi, è un ottimo diversivo per veicolare la frustrazione della popolazione locale verso l'esterno. Israele soprassiede perché si accontenta della relazione istituzionale, che per noi è fondamentale".
   I social media hanno comunque innescato un cambiamento nei confronti della percezione di Israele. "L'interazione non filtrata ha permesso di farci conoscere per aspetti diversi" continua Perlov. "Gli utenti in lingua araba sono un pubblico immenso, forse oggi riusciamo a raggiungerne un 20% e il trend è in ascesa. Ma se il cambiamento non parte dall'alto, con la condanna dell'incitamento e della cultura del boicottaggio nei testi di studio, nell'interazione culturale, la strada sarà ancora molto lunga".
   Il dipartimento digitale del ministero degli Esteri israeliano gestisce una serie di canali dedicati in arabo, con un seguito di oltre 3 milioni di follower. Da quando ad agosto è stata annunciata la normalizzazione con gli Emirati, hanno registrato un incremento notevole nell'interazione degli utenti provenienti da Paesi arabi, da 70 a 100 milioni di visualizzazioni mensili.
   Per ora la star egiziana Ramadan continua a muoversi sui social da vero "Numero 1", come se nulla fosse successo, in attesa di capire se la polemica si placherà.
   Il giornalista egiziano Sid Ali ha sintetizzato bene la spinosa questione: "I sindacati egiziani hanno una posizione molto chiara riguardo alla normalizzazione. E nessuno è sopra ai sindacati o sopra le convenzioni accettate nella società egiziana". Nemmeno se sei il Numero 1.


(la Repubblica, 25 novembre 2020)


Il declino demografico della popolazione ebraica europea

di Luca Spizzichino

Durante il weekend si è tenuto il primo e-Summit of European Jewish Leaders, organizzato dall'ECJC - European Council of Jewish Communities e dal JDC - Joint Distributiion Committee. Questo evento virtuale, unico nel suo genere, si è tenuto dal tardo pomeriggio di sabato fino alla sera di lunedì.
   Domenica pomeriggio, in contemporanea con altri panels che era disponibile seguire sul portale messo a disposizione dall'ECJC, si è tenuto un incontro dal titolo "The Future of Europe's Jews - The Demographic Data" tenuto dal Dott. Jonathan Boyd del JPR, l'Institute for Jewish Policy Research, un'organizzazione di ricerca, consulenza e think-tank con sede a Londra.
   Boyd che fa parte dell'European Jewish Demography Unit, ha presentato la ricerca realizzata dal Professor Sergio Della Pergola e dal Dott. Daniel Staetsky.
   Il Dott. Boyd ha fatto presente come ci sia un costante declino in termini numerici della presenza ebraica in Europa, che è passata in 150 anni dall'88% (nel 1880) della popolazione ebraica in Occidente, all'attuale 9% (nel 2020). Le cause di questo declino secondo lo studio sono quattro: la migrazione dall'Est Europa per motivi economici e per scappare dalle persecuzioni (i pogrom), che ha portato le varie comunità ebraiche a scappare soprattutto verso l'America. Un'altra causa è stata sicuramente la Shoah, che ha visto morire metà della popolazione ebraica in Europa. Un'altra causa che ha portato alla scomparsa dell'Ebraismo nell'Est, sono state le persecuzioni del regime sovietico, il quale in alcuni casi ha fatto perdere l'identità ebraica e in altri ha portato ad emigrare da territori ostili. L'ultimo motivo di questo declino è la migrazione in Israele, in tre differenti ondate: nel 1948, dopo il '67, e negli anni Novanta. In corrispondenza di queste tre ondate si è registrato un aumento della popolazione ebraica israeliana. In termini numerici la popolazione ebraica in Europa dal 1970 al 2020 è diminuita del 59%.
   "Abbiamo disegnato una serie di cerchi concentrici, all'interno del quale fanno parte sei diverse definizioni di ebreo" ha spiegato Boyd, quello più interno viene chiamato "Affiliated", ovvero quella fetta di popolazione che appartiene ad organizzazioni, come per esempio le comunità ebraiche, fino ad arrivare a quella più esterna: "Law of Return population" e "Distant population". Nel primo caso, sono tutte quelle persone che hanno possibilità di avere la cittadinanza israeliana secondo la legge del ritorno, mentre nel secondo caso, è tutta quella fetta di popolazione che in qualche modo si sente connessa con l'ebraismo.
   Dopo aver mostrato e descritto i diversi dati, ha voluto presentare anche il metodo statistico utilizzato per l'analisi, quindi: le morti e le nascite, le emigrazioni e le immigrazioni, chi entra a far parte del popolo ebraico e chi si allontana. Nei dati presentati, si nota in paesi come la Gran Bretagna e l'Austria, come dagli anni Settanta in poi ci sia un trend positivo con più nascite rispetto ai decessi. Per quanto riguarda la migrazione in Israele invece, dopo una crescita dal 2010 al 2015, negli ultimi cinque anni si è vista una netta diminuzione delle emigrazioni verso lo stato ebraico, infatti altri rivelano come la volontà degli ebrei di varie nazionalità sia di rimanere nel proprio paese, con percentuali oltre l'85%.
   Come ha sottolineato Boyd, quello che può portare al declino dell'ebraismo europeo sono "le nostre decisioni personali, perché sono proprio queste che influenzano il futuro delle comunità". Dopo aver citato Paul Kriwaczek e il suo saggio "Yiddish Civilisation: The Rise and Fall of a Forgotten Nation", che parla della grandezza della popolazione Yiddish, ha ricordato l'importanza di altri studi statistici realizzati negli ultimi anni, i quali possono portare sulla giusta strada la pianificazione comunitaria. Tra questi da citare il sondaggio FRA, realizzato dalla Commissione Europea per fare un quadro della situazione negli stati dell'Unione Europea e di conseguenza combattere l'antisemitismo, quello realizzato dalla Lauder Chabad Jewish School a Vienna, con il quale sono state fatte delle proiezioni sulle nascite in funzione dei futuri miglioramenti da apportare al campus, e lo studio sull'elevata mortalità della comunità ebraica inglese, al fine di migliorare la gestione della pandemia a livello comunitario.
    Alla fine dell'incontro è stato dato il link dove è possibile scaricare lo studio statistico:
Jews in Europe at the turn of the Millennium.

(Shalom, 25 novembre 2020)


Medici e mercanti storie di ebrei da Catania a Messina

Due saggi di Cerra e Campagna raccontano le comunità presenti in Sicilia nel XV e XVI secolo Il bilinguismo, il livello di cultura alto e i commerci di cotone e lino attraverso lo Stretto

La Giudecca messinese era un quartiere affascinante vicino al porto e alla dogana: di quegli edifici e di quella atmosfera non è rimasto nulla. Dovevano essere riconoscibili, e pertanto costretti a indosssare sugli abiti la stella rossa". Alle donne proibiti i mantelli come quelli delle cristiane. Era vietato loro avere schiavi battezzati e i matrimoni misti erano un reato equiparabile a quello di lesa maestà. "Restavano dei diversi".

di Nadia Terranova

 
La storia è nota: il 31 marzo 1492, l'emanazione del decreto di Granada sancisce la fine della presenza ebraica in tutti i domini della corona spagnola. Nel suo libro Breve storia della Sicilia (Sellerio), lo storico e documentarista John Julius Norwich mette in relazione gli effetti dell'arrivo dei primi inquisitori con quelli delle espulsioni, sottolineando la pressione sotto la quale l'Isola cominciò a soffocare e a snaturarsi, costretta ad andare verso l'ortodossia e a rinnegare la propria anima multireligiosa: agli ebrei e ai musulmani veniva imposto di convertirsi o andarsene sotto il rigido controllo di feroci emissari. Fu un colpo per gli equilibri sociali, economici e culturali. Scrive Norwick: «I musulmani, che un tempo avevano costituito la maggioranza della popolazione dell'Isola, non erano molto numerosi. C'erano invece moltissimi ebrei; si trattava probabilmente di più di un decimo degli abitanti di città e villaggi. Erano commercianti, fabbri, tessitori, medici e, naturalmente, prestasoldi. La Sicilia aveva bisogno di loro».
   Un approfondito lavoro sulla Sicilia ebraica è poi costituito da un altro libro totemico, quello di Henri Bresc, "Arabi per lingua, ebrei di religione", pubblicato da Mesogea.
   Due interessanti studi, oggi, tornano sull'argomento, analizzando le trasformazioni dell'epoca nella parte orientale dell'isola: si tratta di Messina judaica. Ebrei, neofiti e crtptogiudei in un emporio del Mediterraneo (secc. XV-XVI) di Giuseppe Campagna (Rubbettino) e Gli ebrei a Catania nel XV secolo. Tra istituzioni e società di Andrea Giuseppe Cerra (Bonarino), il primo con una prefazione di Lina Scalisi e il secondo di Giuseppe Speciale. I due volumi dialogano fra loro, come a testimoniare insieme il risvegliarsi di uno sguardo su un segmento di storia cosl importante.
   Scrive Cerra che «le comunità giudaiche isolane (denominate aljame dal periodo aragonese), pur essendo profondamente siciliane, sono ricche di particolarità di cui quella principale è caratterizzata dal bilinguismo. Gli ebrei si esprimevano sia in siciliano che in giudeo-arabo, un dialetto maghrebino simile all'odierno maltese, eredità del periodo di dominazione musulmana». E alla stessa annotazione Campagna aggiunge che «almeno nei ceti più elevati è presente un buon grado di acculturazione, segnalato dal possesso di libri, dalla diffusione del sapere rabbinico e cabbalistico».
   Mercanti, medici, studiosi: una comunità colta e a tratti aperta, dunque, come provato dalla vicenda di Virdimura, la prima donna ebrea siciliana autorizzata ufficialmente a esercitare la medicina e la chirurgia, citata in entrambi i volumi, nonostante la scarsità di notizie biografiche, se si eccettua un documento del 7 novembre 1376 conservato all'Archivio di Stato di Palermo. Proprio nell'accuratezza delle fonti d'archivio troviamo uno dei pregi del percorso di Cerra, nella cui seconda parte è trascritta integralmente la tesi di laurea di uno studente del 1900 sugli ebrei catanesi.
   Il libro di Giuseppe Campagna si sofferma sulla vita degli ebrei messinesi nella Giudecca, quartiere particolarmente affascinante, situato nei pressi della dogana e del porto. Degli edifici e delle atmosfere dell'epoca, oggi, non è rimasto nulla, e leggere quelle pagine è davvero un modo per visualizzare un pezzo di storia doppiamente negata, dalle espulsioni e dai sismi, e per creare una riconnessi on e sociale ed economica con una parte così importante della popolazione. Come sempre, Messina è legata alla penisola nei trasporti e nei commerci, e Campagna riporta Reggio e Catona come centri molto frequentati dagli ebrei messinesi (tra le principali voci di traffico: cotone, lino, pelli di pecora, seta, cotone e in misura minore prodotti alimentari come mandorle, formaggi e miele.
   Non sono molti i commercianti che lasciano l'Isola per stabilirsi temporaneamente o stabilmente in Calabria, la maggior parte preferisce continuare a lavorare dalla Sicilia, e precisamente da quel porto che tanta importanza aveva nelle rotte del Mediterraneo.
   Altrove, invece, secondo Cerra, «gli ebrei ebbero modo di esprimersi con grande apprezzamento nel campo della medicina. Nell'isola abbondavano i professionisti nell'ambito legale, giudici e notai, ma, allo stesso tempo, c'era carenza di medici. La necessità di porre rimedio a tale disagio costrinse la città di Catania a richiedere medici dall'area centrale e settentrionale della penisola».
   L'intellighenzia giudaica della città si concentrò negli studi medici producendo vere e proprie eccellenze, ma la diffidenza verso gli ebrei faceva sl che l'esercizio della professione potesse subire freni e divieti, compreso quello di curare i cristiani. Come ricorda Cerra, «gli ebrei restavano, pur sempre, dei diversi e come tali erano assoggettati a determinati obblighi: essere immediatamente riconoscibili e pertanto costretti a indossare sugli indumenti la stella rossa, mentre alle donne era proibito indossare mantelli similari a quelli delle cristiane». Era vietato loro avere schiavi battezzati e i matrimoni misti erano un reato equiparabile a quello di lesa maestà.
   Insomma, le contraddizioni della comunità ebraica in Sicilia restano quelle sintetizzate da Leonardo Sciascia nel noto scritto sulle feste religiose, che oggi si trova nella raccolta La corda pazza, in cui, a proposito della festa di San Fratello, paragona gli ebrei ai diseredati, e aggiunge: «La Sicilia è forse l'unica terra dove gli ebrei siano stati difesi al momento in cui se ne decretava la cacciata; e con espressioni così commosse e toccanti che mai, crediamo, siano state per loro usate da cattolici».
   Oggi integrazione e persecuzione tornano in questi due bei libri, che tengono accesa la luce su una delle anime più interessanti dell'Isola.

(la Repubblica - Palermo, 25 novembre 2020)


Il Rinascimento che parlava ebraico

Gli studiosi della Toràh parteciparono a quella straordinaria stagione contribuendo al dibattito o con nuova attenzione ai testi classici come dimostra il confronto tra l'italiano de Rossi e il Maharàl di Praga.

Il movimento è duplice: attingere all'esterno per conoscere e farsi conoscere; valorizzare l'interno con un vocabolario concettuale vitalizzato. Letta come un racconto talmudico, la storia del Golem diviene la storia dell'uomo che senza la verità è morto o diventa la sua stessa morte.

di Gavriel Levi

 
Veduta di Praga in una mappa del Cinquecento
Il Rinascimento è un momento di grande fondazione della civiltà europea e della sua cultura. Sono stati cento o duecento anni in cui veniva steso un bilancio consuntivo, un riesame ed un rilancio di prospettiva per l'eredità greca, per l'eredità latina ed anche per l'eredità biblica. Questa grande avventura si è sviluppata, in contemporanea, con grandi mutamenti storici e politici: la scoperta delle Americhe, l'invenzione della stampa, le guerre di religione tra cattolici e protestanti, l'invenzione moderna dei ghetti. Sono coincidenze problematiche, che non possono essere sottovalutate. Il mondo si ingrandiva e i diversi venivano considerati come nemici nuovi (i nativi americani) e antichi (ebrei e marrani). Si raddoppiava il campo di espansione della civiltà europea e i cristiani si uccidevano fra di loro. Il mondo della Qabbalàh veniva accolto seriamente come un nuovo inaspettato messaggio del popolo ebraico, ma il Talmud tornava a essere bruciato. Il primo colonialismo trasferiva nell'intero pianeta la pretesa di superiorità dell'Occidente e si riaccendevano i conflitti storici tra le grandi monarchie e i piccoli potentati dell'Europa. In sintesi: uno straordinario scenario culturale e un nuovo orizzonte politico, di cui era difficile prevedere le conseguenze. Cultura e politica ambedue lacerate, tra uno sguardo al passato e una antropologia già condizionata dal futuro. Filosofia e scienza lavoravano con i loro tempi per definire nuovi spazi di pensiero e di cambiamento. Dalla riflessione teorica a nuovi sviluppi della tecnologia.
  E gli ebrei? Cosa facevano? Cosa comprendevano? Una nota geopolitica: la migrazione ebraica nel Rinascimento mantiene la tendenza iniziata nel XIII secolo: andare verso est. Con il Rinascimento il processo è più indicativo: mentre l'Europa viaggia verso le Americhe, gli ebrei si dirigono progressivamente verso l'Impero turco, verso l'Olanda, verso la Polonia e verso l'Impero Russo. Curioso: la cultura ebraica nel Rinascimento, in Italia e anche nell'Impero austro-ungarico è centrata su un discorso di grande apertura verso l'Europa. Prima che arrivasse la radicale inversione copernicana l'uomo del Rinascimento era messo al centro dell'universo. Sia il sogno rinascimentale, sia il risveglio copernicano, erano intriganti e sconvolgenti anche per gli ebrei.
  Il recente libro Il Rinascimento nel pensiero ebraico (Francesco Veltri, Paideia) analizza due tendenze principali nel mondo intellettuale ebraico. Da una parte la volontà di partecipare, a pieno titolo, al dibattito europeo, scrivendo in latino e misurandosi con la letteratura italiana, e meno con la letteratura europea. Dall'altra parte, un'attenzione critica ai testi ebraici classici, con un recupero delle tematiche più originali, valutate con nuove metodologie. Il movimento è duplice: attingere all'esterno per conoscere e per farsi conoscere; valorizzare l'interno per consolidare la propria identità, con un vocabolario concettuale vitalizzato. Il discorso è complesso e variegato. Veltri integra i dati storici essenziali, esamina le cornici e i percorsi intellettuali, facendo emergere con chiarezza le realtà innovative, le loro incertezze e la loro dialettica. Per una prima lettura, è interessante indicare due temi affrontati da Veltri: il confronto tra l'italiano Azariàh de Rossi ed il praghese Maharàl (acrostico per nostro Maestro Il Rav Loew). Azariàh de Rossi scopre, non proprio timidamente, la ricerca storica con un approccio molto particolare. Riapre, per esempio, una finestra su Filone di Alessandria; questo pensatore ebreo ellenista (neo-platonico e stoico) era stato praticamente trascurato dagli ebrei mentre era stato ben valorizzato dal Cristianesimo, fino ad essere quasi considerato un anonimo Padre della Chiesa. Con qualche contraddizione, Azariàh de Rossi porta l'attenzione su Filone che, scrivendo in greco, è l'inventore della lettura allegorica del Pentateuco , mentre legge con intelligenza critica la letteratura midrashico-talmudica, che in Europa verrà riportata in posizione filosofica soltanto con Levinas.
  Il Maharàl va considerato su tre dimensioni. Scrive il più importante super-commento al commento della Toràh di Rashi , scritto nell'XI secolo; ribalta la cultura rabbinica di base, proponendo un ritorno dialettico alla Mishnàh ( il nucleo testuale del Talmud); fonda lo studio moderno del Midrash talmudico integrando la sua filosofia rinascimentale (che dialoga con Maimonide) con una alfabetizzazione della Qabbalàh. In maniera prevedibile, Azariàh de Rossi verrà riscoperto dall'Illuminismo ebraico e il Maharal diventerà una guida filosofica del Chassidismo e del pensiero neo-talmudico.
  Un'ultima considerazione mette in controluce questi due maestri. Come ben sottolinea Veltri, Azariàh de Rossi legge storicamente i testi ebraici classici, ma non sembra guardare agli avvenimenti storici del suo tempo. Al contrario, il Maharal sembra leggere nel testo biblico di Ester, gli avvenimenti contemporanei dell'Impero austroungarico (Orit Ramon 2017). Di più: considerando le guerre di religione europee e le vicende dell'eresia hussita, il Maharal intuisce la necessità di definire la nuova realtà di nazione per il popolo ebraico. Vedendo la nazione ebraica ben insediata nell'Occidente europeo il Maharal conosce con esattezza i fermenti ebraici presenti nell'impero turco, dove in Israele nasce la nuovissima Qabbalàh e viene lanciata la proposta di convocare un nuovo Sinedrio. In questo senso per alcuni il Maharal diventa un precursore filosofico del lungo Rinascimento ebraico che porterà al sionismo spirituale.
  Come già detto il Maharal ha dato un contributo innovativo fondamentale allo studio delle Haggadot (racconti, leggende, mitemi) del Midrash e del Talmud. In pratica, dalle tessere disordinate di un mosaico sparpagliato il Maharal ha costruito una filosofia del pensiero rabbinico. Questa operazione del Maharal è senza precedenti, per vastità, per profondità, per rigore e per originalità. A questa sua creazione filosofica il Maharal è rimasto avvinghiato con la leggenda che ha lui come uno degli attori: la storia del Golem. Un breve riassunto per impedire una persecuzione sanguinosa contro la sua comunità, il Maharal fabbrica col fango un homunculus messianico (golem= embrione) imprimendogli sulla fronte il nome Emet (verità). Questo Golem protegge e libera gli ebrei dal pericolo incombente, ma poi perde il controllo della propria forza e diventa a sua volta una nuova minaccia. Perciò il Maharal deve affrontarlo e gli cancella dalla fronte la prima lettera del suo nome (l'Alef dell'Uno Assoluto). Senza l'Alef, la verità (emet) diventa met (morto).
  La storia apocrifa del Golem sembrerebbe rispecchiare un'idea ebraizzata, simile alla fantasia universale di poter creare (con la mistica o con la tecnologia) un essere umano onnipotente. Da un altro punto di vista, letta come un racconto talmudico, la storia del Golem diventa la storia dell'uomo che senza la verità è morto o diventa la sua stessa morte. Una leggenda rinascimentale? Una leggenda messianica? Può essere! Rimane che dal pensiero del Maharal e dalla sua leggenda emerge un racconto quasi talmudico ben inventato.

(la Repubblica, 25 novembre 2020)


Covid-19, Israele riapre le scuole dove i contagi sono in calo

Israele riaprirà a partire da domenica prossima la maggior parte delle scuole che si trovano nelle zone gialle e verdi come diffusione del virus, mentre resteranno ancora chiuse quelle nelle zone rosse.
Lo ha deciso il Comitato interministeriale sul Covid su proposta del ministro dell'educazione Yoav Gallant, nonostante il direttore generale del ministero della sanita Chezy Levi abbia ammonito sui "rischi" che la scelta comporta.
I nuovi casi di infezione sono stati nelle ultime 24 ore - secondo i dati del ministero - 943: il numero più alto dallo scorso 22 ottobre anche se a fronte di 53.191 tamponi. Il tasso di positività è relativamente basso e si colloca all'1.8%. I decessi, dall'inizio della pandemia, sono arrivati a 2.811.

(Orizzonte Scuola, 24 novembre 2020)


Il principe saudita tenta la carta Israele per ingraziarsi Biden

Bin Salman incontra Netanyahu e Pompeo. Per parlare di Iran ormai è tardi, ma così riguadagna un po' di punti.

di Daniele Raineri

Mike Pompeo e Mohammed bin Salman
ROMA - Domenica il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, è volato in Arabia Saudita per un incontro segreto a tre con il principe saudita Mohammed bin Salman e il segretario di Stato americano Mike Pompeo, dicono fonti affidabili dei media israeliani. I tre sapevano benissimo che l'incontro non sarebbe rimasto segreto, perché la rotta insolita del volo di Netanyahu da Tel Aviv è stata notata presto sui radar. L'israeliano era accompagnato dal capo del Mossad, Yossi Cohen, e non ha avvertito gli altri membri del governo. Potrebbe essere stato il primo incontro di questo tipo e a livello così alto, ma in realtà i rapporti sottobanco sono così ben avviati e ben coperti che non c'è la certezza della prima volta assoluta.
   L'aspetto più segreto quindi resta perché abbiano deciso di fare questa mossa adesso, quando l'Amministrazione Trump è agli sgoccioli e mancano meno di due mesi all'arrivo dell'Amministrazione Biden (tranne che nelle teste dei fanatici trumpiani, che ancora sperano nel secondo avvento del loro presidente). Da anni si parla del riavvicinamento strategico fra sauditi e israeliani in chiave anti-Iran. Da mesi ci si chiede quando l'onda di accordi di pace tra i paesi arabi e Israele, che per ora ha investito Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan, ma presto potrebbe toccare Marocco e Oman, arriverà fino al regno saudita, che per ragioni religiose e simboliche domina su tutti gli altri. Quindi perché incontrarsi ora, fuori tempo massimo per Trump e per ogni eventuale decisione contro l'Iran che intanto lavora al proprio programma atomico? Il ministro degli Esteri saudita ha smentito la notizia della visita segreta, segno che i Saud non sono ancora pronti a rendere pubblica questa alleanza davanti a tutto il mondo musulmano. Una spiegazione plausibile potrebbe essere questa: Mohammed bin Salman avverte che il suo periodo di grazia con gli Stati Uniti sta per terminare, perché Trump era più che disposto a passare sopra e chiudere gli occhi davanti a qualsiasi cosa pur di conservare intatto il legame tra Washington e la dinastia Saud. Con il presidente eletto Joe Biden questa concessione potrebbe finire. Appena due anni fa l'editorialista Jamal Khashoggi fu attirato e fatto a pezzi dentro il consolato saudita da una squadra di sicari che fa parte dell'apparato di sicurezza dell'Arabia Saudita (l'intelligence turca aveva piazzato alcune microspie dentro l'edificio e ha la registrazione audio di tutta l'operazione). I senatori americani che hanno partecipato a porte chiuse ai briefing della Cia sostengono che non c'è dubbio che si tratti di un omicidio di stato - e quindi implicano il principe Bin Salman. Un incontro a tre non ancora pubblico ma abbastanza ovvio potrebbe essere il modo di Bin Salman per puntellare la sua posizione: diventa il principe che potrebbe fare la pace definitiva con Israele e quindi portare altri su quella posizione. Si dice che i sauditi potrebbero chiedere persino al Pakistan di normalizzare i suoi rapporti con Israele - e questa è una frase che fino a qualche anno fa, o mese fa, sarebbe suonata come un romanzo di fantascienza. Sullo sfondo c'è la questione del nucleare iraniano ma non c'è ragione di parlarne con Pompeo, che sta per lasciare il suo posto di segretario di stato ad Antony Blinken.
   Il luogo scelto per l'incontro è di nuovo simbolico: Neom, la città della tecnologia in costruzione sulla costa, un investimento da 500 miliardi di dollari che dovrebbe essere il pilastro della visione di Bin Salman per il futuro del paese. E in quel futuro c'è posto per gli israeliani e per la loro tecnologia, sembra dire la notizia dell'incontro.

(Il Foglio, 24 novembre 2020)


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Netanyahu con Pompeo da Bin Salman. Ma Gantz minaccia la crisi di governo

Il premier israeliano e volato in Arabia Saudita per vedere il saudita, sarà la volta buona per nuovi accordi di pace?

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Nonostante la cortina di fumo, brilla di luce storica l'incontro del Primo Ministro Israeliano Benjamin Netanyahu domenica notte col principe della corona Saudita Mohammed bin Salman sul suolo del regno, nella città balneare di Naom. Un altro dei tanti principi Faisal bin Farhan Al Saud con un tweet ha negato che l'incontro sia mai avvenuto. Ma tutti sanno che c'è stato, che è storico, che la spinta saudita a essere parte del grande, rivoluzionario schieramento israeliano, egiziano, giordano, del Bahrain, degli Emirati e anche del Sudan che intende spingere il nuovo presidente americano Biden soprattutto a non farsi incantare dalle sirene iraniane. Secondo la versione ufficiale, i sauditi hanno incontrato soltanto Mike Pompeo, il segretario di Stato americano. Ma Bibi su un Gulfstream IV privato di un miliardario amico (Udi Angel) che già nel passato gliel'ha messo a disposizione per missioni segrete, si è levato in volo verso le 6 di sera costeggiando la penisola del Sinai e poi dirigendosi sulla costa nord ovest del Mar Rosso. A bordo oltre al primo ministro, Yossi Levy, il capo del Mossad, indivisibile compagno di avventure. Là si è svolto l'incontro. Possiamo intuire che Bibi, con l'assistenza di Pompeo, al limite della leggenda, abbia finalmente definito i termini definitivi di una pace prossima ventura col Paese che è stato il leader storico-ideologico del fondamentalismo islamico, di Sayyd Qutb e anche di bin Laden, la terra del Haj e della Casbah, dove ogni musulmano è obbligato a compiere una volta nella vita il pellegrinaggio dell'anima.
   Niente potrebbe essere più rivoluzionario, l'Arabia Saudita è lo Stato sunnita leader del Medio Oriente insieme all'Egitto. I sauditi sono anche coloro che nel passato hanno lanciato le peggiori interdizioni e delegittimazioni allo Stato Ebraico ma che poi nel 2002 e nel 2007, con i loro piani di pace hanno tuttavia aperto la porta a una pace sotto condizione. La pace nella sua fase sperimentale con gli «Accordi Abraham», ha avuto una spinta turbo dall'amministrazione Trump, che ha individuato gli interessi comuni di tanti paesi musulmani e di Israele insieme: fare muro contro l'Iran, e oggi anche contro il disegno ottomano di Erdogan; condividere le capacità tecnologiche e scientifiche di Israele e diventare l'avanguardia di un miliardo e ottocento milioni di musulmani; aprire, al turismo, alla gente, senza inimicizie prescritte dal politically correct. Può funzionare? È quello che Netanyahu ha perseguito in tanti anni di lavoro sotterraneo. La rivelazione ieri, carica di suggerimenti affermativi alla nuova amministrazione di Biden e a uno scopo di deterrenza verso i nemici in agguato, ha fatto montare la mosca al naso del partner di governo di Bibi, Benny Gantz. Così la confusione ora è totale: Gantz, oggi ministro della Difesa, domani prossimo primo ministro a rotazione, ha deciso di nominare una commissione di inchiesta sull'accordo da 2 miliardi di dollari per l'acquisto di sottomarini dalla Germania. E Netanyahu ha dichiarato la mossa un tentativo di farlo fuori. Gantz era furioso della sorpresa saudita. Non c'è uomo politico israeliano che non veda in queste due vicende incrociate una premessa a elezioni anticipate.

(il Giornale, 24 novembre 2020)


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Israeliani e sauditi lanciano un avvertimento a Joe Biden

di Pierre Haski

Non esistono foto dell'evento storico, e uno dei partecipanti ha già smentito la notizia. Eppure non ci sono dubbi sul fatto che nel fine settimana Benjamin Netanyahu, capo del governo israeliano, sia andato in segreto in Arabia Saudita per incontrare l'uomo forte del regno wahhabita, il principe ereditario Mohammed bin Salman. Tra i presenti alla riunione c'era anche il segretario di stato di Donald Trump, Mike Pompeo.
L'obiettivo della visita di Netanyahu non è un riconoscimento diplomatico simile a quello ottenuto dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein. Uno sviluppo di questo tipo, infatti, resterà impossibile fino a quando il vecchio re Salman sarà ancora in vita e non ci sarà un accordo sui diritti dei palestinesi. Ma il giovane principe non è sulla stessa linea del padre, e porta avanti una diplomazia parallela, tanto che la ricercatrice Fatiha Dazi-Héni ha parlato di "dualismo alla guida dello stato saudita". Secondo Dazi-Héni questo fenomeno spiega l'irritazione generata dalla fuga di notizie sulla visita di Netanyahu.
Se l'obiettivo non è un riconoscimento diplomatico, allora qual è il senso dell'incontro? La risposta non è difficile da trovare: all'origine di tutto ci sono l'elezione di Joe Biden e soprattutto l'Iran, nemico comune di Israele e dell'Arabia Saudita e collante delle nuove alleanze in Medio Oriente.
Alcuni paesi temono una svolta nella politica statunitense sull'Iran. Nell'incontro a tre fra Israele, Arabia Saudita e un'amministrazione Trump arrivata al capolinea, c'è un velato avvertimento al presidente eletto, nel caso abbia intenzione di cambiare orientamento rispetto a Teheran.

 La vicenda iraniana sarà un importante test di credibilità per la nuova amministrazione
  Netanyahu è stato più esplicito qualche giorno fa, quando ha dichiarato che "non bisogna tornare all'accordo sul nucleare del 2015" . Ma questo è esattamente ciò che conta di fare (o di provare a fare) Antony Blinken, futuro segretario di stato americano che faceva parte dell'amministrazione Obama quando l'accordo era stato concluso.
Nel 2015 Netanyahu aveva fatto di tutto per impedire l'intesa, senza successo. Nel 2018 Donald Trump l'ha accontentato ritirando gli Stati Uniti dall'accordo. Ora il capo del governo israeliano riparte alla carica, ma diversamente dal passato può contare su alleati arabi di peso.
Il mondo è cambiato molto dal 2015, soprattutto grazie all'ascesa di alcune potenze regionali. La Turchia è un esempio lampante. Gli Emirati Arabi Uniti e l'Arabia Saudita, che da decenni affida la sua sicurezza agli Stati Uniti, si stanno affermando sempre di più.
Joe Biden e la sua squadra vorrebbero ristabilire la leadership statunitense distrutta dall'attuale presidente, ma sanno che non potranno ricreare il mondo precedente a Trump. In questo senso la vicenda iraniana sarà un importante test di credibilità per la nuova amministrazione.
Intanto, per prepararsi al futuro, i capi della diplomazia di Francia, Germania e Regno Unito, ovvero gli europei che hanno firmato l'accordo sul nucleare, si sono riuniti il 23 novembre a Berlino. L'Europa chiede il ripristino dell'accordo, ad alcune condizioni.
La transizione del potere negli Stati Uniti non è ancora cominciata, ma già il resto del mondo si prepara all'era Biden. Alcuni con entusiasmo, altri meno.

(Internazionale, 24 novembre 2020)


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Netanyahu in Arabia Saudita, un segreto si fa storia

Cinque, storiche, ore. Tanto sarebbe durata la visita del Primo ministro Benjamin Netanyahu in Arabia Saudita domenica per incontrare il principe ereditario Mohammed bin Salman. Un viaggio segreto, rivelato dai media israeliani, che sta attirando l'attenzione internazionale. Se confermata, si tratterebbe della prima visita di un funzionario israeliano in Arabia Saudita. Il segno ulteriore di un Medio Oriente che cambia. Netanyahu, scrivono i media, è atterrato a Neom, città saudita del Mar Rosso, dove, accompagnato dal capo del Mossad Yossi Cohen, ha incontrato il principe saudita Bin Salman assieme al segretario di Stato Usa Mike Pompeo, in visita ufficiale nella regione. Né l'ufficio del primo ministro né i funzionari sauditi hanno per il momento confermato la visita. L'incontro Netanyahu-Bin Salman potrebbe però rappresentare il primo passaggio per la destinazione finale, la normalizzazione dei rapporti tra Riad e Gerusalemme. Un passo che il direttore del Mossad Cohen aveva preannunciato come possibile già in ottobre, spiegando che i sauditi erano pronti alle trattative, ma attendevano i risultati delle elezioni Usa. Per Riyad sarebbe stata più facile una riconferma del presidente Usa Donald Trump, visti i rapporti consolidati con la sua amministrazione. A settembre, quando Emirati e Bahrein firmavano a Washington la normalizzazione dei rapporti con Israele, Trump aveva lodato "i rispettatissimi" re Salman e il principe ereditario Bin Salman. E aveva aggiunto di aspettarsi che l'Arabia Saudita sarebbe stata il prossimo paese a firmare un'intesa con Gerusalemme. La visita sul Mar Rosso di Netanyahu sembra avvicinare questa possibilità, dai risvolti storici, ma ci vorrà del tempo per portarla a termine. Prima, la sfida comune è contrastare con ogni mezzo il nemico Iran ed evitare che l'amministrazione Biden riapra il dialogo sul nucleare con il regime di Teheran. "Entrambe le parti vogliono prepararsi per gennaio, progettare e allineare un fronte arabo-israeliano pronto per l'impegno contro l'Iran", spiega Shimrit Meir, analista del quotidiano israeliano Yediot Ahronot. Il vertice tra Netanyahu e Bin Salman sarebbe stato infatti soprattutto un incontro per prepararsi a Biden. Obiettivo, coordinare una linea comune per chiedere al prossimo Presidente Usa di non ammorbidire la politica americana nei confronti del regime di Teheran.
   Da anni i media hanno raccontato i contatti segreti tra i due paesi, rafforzatisi proprio in chiave anti-Iran. L'idea di renderli ufficiali è però sempre stata condizionata alla questione palestinese. Un dato emerso anche di recente con le dichiarazioni del ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan al-Saud. Durante il vertice del G-20 a Riyad, il ministro ha dichiarato che il suo paese sostiene "la normalizzazione con Israele da molto tempo. Prima però deve accadere una cosa molto importante: un accordo di pace permanente e completo tra israeliani e palestinesi". Una posizione espressa anche da Bin Salman al consigliere della Casa Bianca Jared Kushner, nei giorni della firma degli Accordi di Abramo. "Il re Salman e il principe ereditario Mohammed bin Salman hanno un forte sentimento nei confronti della causa palestinese. Vorrebbero vedere i palestinesi lavorare ad un accordo equo e migliorare la vita del loro popolo", aveva dichiarato Kushner ai giornalisti dopo un colloquio con il principe saudita, aprendo però la porta ad altre vie. "Ma, in ogni caso, faranno ciò che è nell'interesse dell'Arabia Saudita e del popolo saudita e musulmano di tutto il mondo. Assumono questa responsabilità molto seriamente", le parole di Kushner, che aveva poi aggiunto che "molte persone stanno perdendo la pazienza con la leadership palestinese".
   Con l'elezione di Biden gli equilibri sono un po' cambiati, ma, ricorda il New York Times, Bin Salman potrebbe comunque avere interesse a portare alla luce i rapporti con Israele. Gli servirebbe per "riabilitare la sua reputazione a Washington, smorzando le critiche alla guerra saudita nello Yemen, le repressioni contro gli attivisti e l'uccisione dello scrittore saudita dissidente Jamal Khashoggi da parte di agenti sauditi a Istanbul nel 2018".

(moked, 23 novembre 2020)


Quando la «Balilla» nera prelevava ebrei di ogni età

La vergogna dei rastrellamenti a Casale Monferrato, dissero che nessuno avrebbe toccato gli ultrasettantenni. Fu una trappola. Giampaolo Pansa racconta íl sangue degli italiani: la guerra civile.

di Giampaolo Pansa

Il primo a morire tra gli ebrei di Casale non venne deportato: più semplicemente fu ucciso con un colpo alla nuca. Si chiamava Giuseppe Ottolenghi e aveva 73 anni. La seconda fu Clementina Sacerdote che aveva da poco compiuto 81 anni. Per terza morì la più giovane fra le ebree casalesi, era Anna Luciana Narzi e alla fine dell'aprile 1943 aveva compiuto 12 anni. Nel suo stesso appartamento furono presi il padre Guido e Vittorina Segre con la figlia Betty Foil, una ragazza sui 15 anni, l'unica a salvarsi. Margherita Artom di 58 anni, nata a Casale, venne arrestata con il marito Giacomo Cohen da Silva e il figlio Renato a fine novembre 1943 a Rapallo, in Riviera, la meta preferita da molti ebrei. Il 30 gennaio 1944, sul treno diretto in Polonia, c'erano due coppie di coniugi quasi tutti nati a Casale, settantenni e ottantenni: Salomone Moisè Davide Dina e la moglie Marietta Levi sfollati ad Acqui.
   L'altra coppia era composta da Cesare Sanson Vitale e Celestina Levi. All'inizio del 1944, nessun ebreo era stato ancora deportato da Casale. Il Commissario di Pubblica sicurezza fece sapere agli ebrei della città che nessuno avrebbe torto un capello agli ultrasettantenni, agli ammalati e agli inabili. Una trappola nella quale caddero in tanti. E così, la prima razzia degli ebrei che ancora abitavano a Casale scattò verso metà febbraio 1944. Ogni cattura veniva effettuata da un trio di poliziotti che cambiava ogni volta. Due viaggiavano su una vecchia Balilla nera e il terzo li seguiva su una moto Guzzi color verde oliva. Il primo ebreo a salire sulla Balilla nera fu Federico Simone Levi di 67 anni. Il 15 febbraio furono presi Armando Levi di 67 anni ed Erminia Morello di 59. Il 16 febbraio toccò a Isaia Carmi di 59 anni e alla moglie Matilde Foà di 55. Il 19 febbraio furono presi Giulia Rosa Segre di 57 anni, Augusta Jarach di 67 anni, infine, nonostante fosse battezzato, il preside Raffaele Jaffe di 66.
   Nello stesso giorno vennero arrestati Cesare Davide Segre, sordomuto di 57 anni ed Emma Sacerdote, la figlia di Ines Segre presa nel gennaio 1944. Non aveva ancora compiuti i 21 anni. Ines Segre e la figlia Emma, prese a Moncalvo, rimasero nel campo di transito di Fossoli, a Carpi, neppure due giorni. Vi trovarono altri casalesi: le sorelle Alda e Angela Sara Levi di 36 e 33 anni, Ugo Jaffe di 34, Delfina Ortona di 39 e Bellina Adele Ortona di 67. Partirono per Auschwitz il 21 febbraio su un convoglio di 650 ebrei. Ugo Jaffe superò la selezione, tutti gli altri casalesi morirono all'arrivo al campo. Il 5 aprile partì da Fossoli un altro convoglio. Si portò via Bianca Salmoni, anni 61. Sempre di Casale erano Bella Marianna Ortona di 70 anni e la figlia Ilda Sonnino anni 39. Stessa sorte toccò in agosto al figlio Pilade Sonnino, di 44 anni.
   Il lunedì di Pasqua 1944 vennero presi Giulio Levi di 65 anni, la moglie Adriana Castelli di 55 e il figlio Aldo di 32. Tra i deportati del 5 aprile, l'unico sopravvissuto fu lo studente di 17 anni Emilio Foà. Era stato preso a Rivarolo Mantovano insieme al padre Anselmo di 51 anni e uno zio, Aldo Milla di 47, uccisi entrambi all'arrivo ad Auschwitz. Sempre il 5 aprile entrarono nella camera a gas Debora Dorina, anni 71 e Matilde Sacerdote di 63. Sopravvissero nel lager i coniugi Lea Ghiron di anni 38 e Sabato Sacerdote di 40, ma non i figli Claudio, 11 anni ed Estella di 8. Erano stati deportati con il loro convoglio Camillo Sacerdote, il padre di Sabato, anni 67 e il fratello Sergio di 42. Della loro famiglia di sei persone, si salvarono soltanto Celeste e Aldo, moglie e figlio di Camillo sfuggiti alla cattura. Una nuova razzia fu compiuta il 13 aprile. Pochi giorni dopo il grande rastrellamento della Benedicta, sull'Appennino tra Genova e Alessandria, quando i tedeschi e i fascisti avevano compiuto una strage: 147 partigiani uccisi e 351 giovani fatti prigionieri e deportati in Germania. La prima ebrea presa quel giorno fu Eugenia Allegra Treves, anni 80. Poi, su segnalazione della superiora, la Balilla nera si presentò al convento delle domenicane dove erano rifugiate le sorelle Vittorina e Faustina Artom di 75 e 73 anni. Pochi giorni dopo, Giuseppe Angrisani, vescovo di Casale ridusse la superiora al rango di semplice suora. Sempre il 13 aprile furono presi nelle loro abitazioni Moisè Sonnino, anni 80 e Giuseppe Raccah di 70. In ospedale furono prelevati Sanson Segre, anni 88 e i due fratelli Fiz: Roberto di anni 71 e Riccardo quasi di 75. Il più noto dei due a Casale era Riccardo, un medico con la porta sempre aperta per i poveri. Gli otto ebrei di quella retata, trasferiti a Fossoli, partirono il 16 maggio per Auschwitz. Sul loro treno trovarono altri ebrei casalesi ma residenti a Cesena: Amalia Levi di 50 anni, il marito Mario Saralvo di 53 e il figlio Giorgio di 28. C'erano anche Silvio Jaffe di 52 anni e Salvatore Tedeschi di 74. Il convoglio numero 13 parti il 26 giugno 1944, quando Roma era già stata liberata da tre settimane e gli alleati erano già sbarcati in Normandia. Sul treno c'erano tre donne nate a Casale e sequestrate ad Asti: le sorelle Regina di 89 anni e Dolce Eugenia Ghiron di 79 ed Ester Elvira Levi di 76 anni. All'arrivo al campo furono mandate alle camere a gas come pure altre due sorelle casalesi: Vittoria e Regina Levi, di 75 e 65 anni, prese insieme ai mariti nati a Padova e Milano. Quella notte fu eliminata un'altra coppia Elena Sacerdote nata a Casale e il marito Todros Norzi di Fossano, catturati a Coassolo Torinese, entrambi di 75 anni. Con loro morì Bona De Angelis di 62 anni e, pure loro casalesi, finirono i loro giorni nelle camere a gas Margherita Segre, anni 51 con il marito genovese; Regina Segre, anni 55 insieme al marito vercellese e Umberto De Angelis, un bidello di 57 anni.
   Dopo la partenza del convoglio 13, fu decisa la chiusura del campo di Fossoli. Vi rimaneva un solo internato: Raffaele Jaffe, il preside battezzato che aveva inventato la squadra del Casale F.C. In una delle ultime lettere alla famiglia del 6 luglio 1944, sembra immaginare che lo attendeva la stessa sorte degli altri. Parti con l'ultimo convoglio da Fossoli, ma non su ferrovia, bensì con una colonna di camion militari e autocorriere diretta a Bergen-Belsen, il campo dove morì Anna Frank. Arrivati al Po, i prigionieri vennero fatti scendere per attraversare a piedi il ponte di barche. Era in corso un bombardamento da parte degli alleati e molti si dispersero nelle campagne e si salvarono. Jaffe non fuggì e, arrivato a Verona, fu stipato su un carro bestiame. Fu ucciso il 6 agosto, come pure un operaio casalese, Giuseppe Goslino di 51 anni preso a Torino il 29 maggio per una soffiata. Era rimasto nel carcere delle Nuove per due mesi. L'ultimo convoglio partito dall'Italia per Auschwitz fu il numero 18. Trasportava 133 ebrei, se ne salvarono soltanto 17.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 24 novembre 2020)


La The One Company di Zurino sbarca in Israele

Accordo con la prima azienda di distribuzione Food in Israele, la Sanlakol che fa di The One Company il primo partner italiano nello stato ebraico.

di Angela Zoppo

Il prossimo appuntamento in agenda era fissato per il 20 dicembre a Doha, ma la seconda ondata della pandemia lo ha spazzato via. Così Lorenzo Zurino, fondatore di The One Company (3,3 miliardi di euro di fatturato italiano nell'agroalimentare rappresentato all'estero) e ideatore del Forum Italiano dell'Export, si è trovato per la seconda volta in pochi mesi a fronteggiare una nuova emergenza Covid. E anche stavolta, a provare a trasformarla in un'opportunità. «Nel lockdown della primavera scorsa ci siamo ritrovati con mercati di riferimento improvvisamente preclusi, come gli Usa», spiega a MF-Milano Finanza, «Allora ci siamo detti che poteva essere l'occasione per provarne di nuovi, e così abbiamo fatto andando a piantare una bandierina in Australia e Canada.
   Per la prima volta, dopo un lungo lavoro, abbiamo anche chiuso un accordo con la prima azienda di distribuzione Food in Israele, la Sanlakol che fa di The One Company il primo partner italiano nello stato ebraico». Se l'azienda stringe nuovi accordi, in parallelo il Forum sta dando prova di resilienza. Nato nel 2019, conta ormai 599 imprese. A ottobre a Bari, alla Fiera del Levante, ha messo insieme aziende per 120 miliardi di fatturato. «Nel Forum, definito la Cernobbio dell'export, ci si confronta e si individuano le leve commerciali, diverse da Paese a Paese».
   Alla base della filosofia di Zurino c'è una considerazione legata a priorità che il virus ha rimescolato: il Made in Italy si esporta perché gode di un marchio di qualità riconosciuto in tutto il mondo. «Agli imprenditori ripeto che svendere i prodotti non va mai bene, e che lo scambio di competenze è fondamentale: un export manager conta quanto un ceo, perché l'export è un centro di ricavi strategico». I dati dicono che da settembre è cresciuto del 2,7% rispetto ad agosto, per oltre 400 miliardi di euro, «ma i numeri vanno guardati in ogni sfaccettatura», commenta Zurino. «Alcuni settori sono fermi, come la moda. E quando si parla del boom del Food, va ricordato che i prodotti per la ristorazione sono al palo. La crescita riguarda solo quelli da supermercato».
   Ora si guarda al 2021, l'anno del vaccino e del G-20 Trade. «Il mercato interno sarà in affanno, dovremo puntare a nuovi sbocchi geografici dove il Covid è meno presente, come il Far East. Per noi è un'occasione importantissima».

(MF, 24 novembre 2020)


Jonathan Sacks ci ha spiegato che religione e modernità devono andare assieme

Eulogia dell'ex rabbino capo del Regno Unito.

La morte di Lord Sacks, l'ex rabbino capo della Gran Bretagna, ha recato grande dolore anche al di fuori della comunità ebraica", scrive Melanie Phillips sul Times: "Questo è successo perché la sua impareggiabile abilità di comunicare le idee religiose, espressa nei suoi articoli per questo giornale e nei suoi interventi per la trasmissione Thought for the Day su Bbc Radio 4, gli ha permesso di influenzare molte persone appartenenti ad altre fedi religiose o atee. Questo non è dovuto solamente al suo grande intelletto, ma anche al fatto che si è misurato sia con la società britannica che con la fede ebraica al quale appartiene (come me) fin dalla nascita. Dopo essersi impadronito del mondo laico, Sacks ha affrancato l'altro lato della sua identità; mi ha confessato di avere studiato filosofia a Cambridge con l'idea di diventare rabbino. Col passare del tempo, la sua voce sarebbe diventata autorevole in tutto il mondo. Entrambi i lati della sua identità hanno animato l'idea che la fede religiosa svolge un ruolo cruciale nella vita moderna, e che l'abbandono della moralità biblica sta portando l'occidente verso l'autodistruzione.
  Nelle Reith Lectures (una serie di interventi alla Bbc, ndt) del 1999 intitolate 'La persistenza della fede', Jonathan Sacks è stato uno dei primi personaggi pubblici a sostenere che la cultura dell'individualismo sta erodendo la moralità, sostituendo il pluralismo con l'intolleranza e distruggendo la comunità attraverso la violenza e la frammentazione. Successivamente, libro dopo libro, ha tentato di riconciliare la religione e la modernità per promuovere il ruolo della fede nella vita pubblica. Nel libro 'Future Tense' del 2009 Sacks ha sostenuto che la società civile può essere rinvigorita attraverso la sostituzione di una cultura competitiva e contrattuale con una cultura basata sugli obblighi religiosi, che definisca i rapporti a secondo dell'appartenenza collettiva e della responsabilità condivisa. In uno dei suoi ultimi libri, 'Morality', Sacks ha parlato del bisogno di muoverci da una cultura dell"io' a una cultura del 'noi', sostenendo che non ci possa essere libertà senza moralità e responsabilità. Queste idee non hanno avuto successo solamente grazie alla semplicità della sua prosa. Il vero motivo è stato che gran parte dei suoi principi religiosi hanno oltrepassato il radar dello scetticismo secolarista. L'idea dominante in occidente sostiene che la religione ruota attorno a Dio e a tutto ciò che è sovrannaturale, e viene praticata in chiesa. Il cristianesimo dà grande importanza alla salvezza delle anime. Nel 1978 il reverendo Edward Norman disse che il materialismo stava privando i credenti di un 'ponte con l'eternità'. Oltre dieci anni più tardi, Sacks ha scritto che per i cristiani la religione è un fatto spirituale, non sociale; al contrario per gli ebrei la santità dipende dai 'nostri atti, rapporti e strutture sociali'.[1]
  Molte persone che incontrano l'ebraismo per la prima volta sono stupite dal fatto che questa religione non dia grande importanza a Dio. La sua preoccupazione è il mondo di oggi e non quello di domani. L'ebraismo ridimensiona il sovrannaturale e invece fornisce delle indicazioni su come comportarsi bene e convivere nel modo migliore nella società. Gli scritti di Sacks spiegano come generare compassione, gentilezza e rispetto reciproco. L'ex rabbino capo ha affrontato l'importanza della libertà, i suoi paradossi e le difficoltà; ha sostenuto che la tolleranza dipende dal riconoscimento che tutti hanno il diritto di scegliere il loro percorso verso il divino. Queste idee sono tutte nate nella Bibbia ebraica.[2] Certo, molti di coloro che hanno aderito al cristianesimo o ad altre religioni si comportano con tolleranza e compassione e sentono un grande obbligo condiviso. Lo stesso vale per chi non crede in alcuna religione - anche se questi atei o agnostici occidentali avranno sicuramente assimilato l'etica cristiana crescendo in una cultura il cui sistema valoriale deriva dal cristianesimo.
  Sacks è entrato in sintonia con così tante persone perché non ha mai ridimensionato la complessità, la contraddizione e il dubbio. Non si è mai rifugiato nella sovra semplificazione o nel letteralismo biblico, temi repellenti per chiunque ragioni su questi argomenti. E questa è un'altra caratteristica dell'ebraismo, che è non è fondato sul conformismo dottrinale o l'obbedienza ma sul dibattito, la disputa e il dubbio. Con questo non voglio sminuire la difficoltà di conciliare la religione con la modernità per gli ebrei e per chiunque altro. Molti non sono in grado di riconciliare i mondi della fede e della ragione che Sacks ha tentato di unire. Tuttavia, per lui non è stato difficile comunicare che la fede religiosa è essenziale per dare vita a una comunità civile e razionale perché la fede religiosa che Sacks rappresentava era mirata proprio alla creazione di una comunità civile e razionale.
  E' molto più difficile entrare in sintonia con persone che non hanno alcuna fede religiosa chiedendo loro di credere a una serie di eventi sovrannaturali. Inoltre, identificarsi come un credente viene trattato con tale disprezzo dagli atei intolleranti che la mente potrebbe semplicemente arrendersi dinanzi all'assalto e respingere ogni inclinazione religiosa. Molti chierici si sono arresi a questo velenoso conformismo secolare. Il grande successo di Sacks è stato quello di produrre degli argomenti per sconfiggerlo. Il suo mandato non è stato privo di controversie all'interno della comunità ebraica. Tuttavia, la sua grande eredità sono i volumi e gli scritti che ha lasciato a tutti noi. Questi non rappresentano solamente un messaggio di speranza ma un kit di sopravvivenza per l'umanità. Questo è il motivo per cui Jonathan Sacks viene compianto, non solo in Gran Bretagna ma in tutto il mondo".

(Il Foglio, 23 novembre 2020)

I risalti in colore sono di redazione.
[1] Dire che "per i cristiani la religione è un fatto spirituale, non sociale" è una rozza semplificazione simile a quella secondo cui “la religione degli ebrei è tutta rivolta alla terra, priva di ogni spinta ideale verso l’alto”. Attenzione a non imitare nel metodo il peggio che si trova fra i cristiani.
[2] L’affermazione che “la tolleranza dipende dal riconoscimento che tutti hanno il diritto di scegliere il loro percorso verso il divino” potrà forse essere largamente condivisa nell’ebraismo illuminato moderno, ma di certo non nasce nella Bibbia ebraica. M.C.

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Israele, i miti non sono più sufficienti per plasmare la futura identità nazionale

Una nazione che per duemila anni, nel fondare la propria dimensione collettiva, ha trascurato la coscienza storica.

VANTAGGI
Dispersi nel mondo, gli ebrei hanno potuto mantenere la propria unità
SVANTAGGI
Sono rimasti pietrificati in una visione che ha impedito di percepire i pericoli

di Abraham B. Yehoshua

Un modello costruito essenzialmente sulla creazione e l'educazione dell'identità nazionale secondo vecchi e nuovi miti. Forse esagero nella contrapposizione tra modelli di identità americani o canadesi e corrispettivi europei e asiatici (come il giapponese e il cinese), ma sembra che, per quanto riguarda il modello israeliano dell'identità, sia opportuna un'analisi chiarificatrice in funzione non del passato bensì del futuro.
  Cos'è il mito? Qual è il significato cli questo concetto, tanto sfuggente quanto vitale? Roland Barthes, lo studioso e semiologo, parla di mito e mitologia nel senso di accettazione del mondo come vorrebbe essere e non come è. La parola «mito» deriva dal greco mythos, nel senso di una condizione fattualmente vera, come negli scritti di Omero. Il sostantivo denota grande autorità e il verbo indica narrazione della verità. Stando all'enciclopedia, il mito greco è un tentativo di spiegare il rapporto tra razionalità e verità filosofica, moralità e credenze religiose; un tentativo prescientifico di interpretare un certo fenomeno reale o immaginato attraverso i rapporti degli dei tra loro e con gli esseri umani. O, per dirla in modo più conciso, mito umano-verità umana e non verità stessa.
  La prima cosa che salta all'occhio in queste definizioni è la combinazione effettiva di due poli. Da un lato, quello della verità suprema che, con grande e imponderabile potenza, integra elementi che non possono fondersi tra loro, e dall'altro il polo della menzogna, o dell'immaginazione soggettiva, che cerca di dare significato e verità a cose la cui esistenza non può essere dimostrata di fatto o storicamente. «Non è la verità, non è un dato, è solo un mito», sentiamo noi stessi protestare contro le bugie e i fatti sbagliati che hanno acquisito uno status indebito. Da qui la voglia della gente di far esplodere i miti, nella convinzione che così facendo servono la verità liberando l'aria dalle menzogne.
  Il mito è una super-storia che aleggia sopra la storia ancorata nel tempo e nel luogo: cerca di esprimere e attualizzare una verità più profonda, generale e senza tempo che, tuttavia, ha una rilevanza effettiva molto più grande di un fatto storico che viene invalidato quando «termina la sua durata vitale». Il mito è costante nel tempo e può essere condiviso da persone diverse in luoghi diversi. La storia della crocifissione e del ritorno alla vita di Gesù non è un fatto storico avvenuto nel 30 d.C., è un mito che miliardi di persone credono reale e vero tanto quanto ciò che leggono sui giornali.[1]
  Il Sacrificio di Isacco è una storia mitologica di tale intensità che ha pervaso la coscienza nazionale e religiosa identitaria dell'ebraismo per migliaia di anni Non ha alcun senso localizzarlo in un tempo o luogo storico definito. La sua forza è ancora presente per gli ebrei che vivono a migliaia di chilometri dalla collina di Gerusalemme dove è accaduto.
  Un fatto storico particolarmente significativo e potente può essere ingigantito nel corso del tempo fino a farlo diventare un mito. L'Olocausto, per esempio, non è solo un evento storico che si è verificato in un certo luogo e in un tempo specifico, ma sta già assumendo fattezze di mito. I suicidi collettivi degli ebrei che si rifiutano di convertirsi durante le Crociate alla fine dell'XI secolo si sono già separati dal loro tempo storico, dal luogo e dalle circostanze e sono diventati un esempio mitologico.
  Per oltre duemila anni nella diaspora, gli ebrei costruirono la loro identità principalmente sulla loro coscienza mitologica, non storica. Ciò è dovuto principalmente al semplice fatto che la religione è stata la componente fondamentale della loro identità per tanti anni e le identità religiose sono caratterizzate principalmente da elementi mitologici e non storici. La base per una vita comunitaria nazionale impegnata in un territorio definito con la propria lingua non era per loro reale. [ ... ]
  Gli ebrei erravano da un luogo all'altro e, anche quando vivevano stabilmente per secoli in un luogo, come la Polonia, lo consideravano temporaneo: una sorta di residenza transitoria in attesa di poter tornare alla loro vera casa, in Terra di Israele. Non erano interessati a documentare e registrare il loro stile di vita, o a documentare e indagare il rapporto tra loro e i non ebrei tra i quali vivevano, il luogo e il tempo erano irrilevanti, perché il Messia sarebbe venuto presto e li avrebbe portati alla loro patria originale, il vero luogo a cui appartenevano. Il tempo stesso sarebbe poi cambiato nella Terra d'Israele, sarebbe diventato il tempo divino, il tempo della redenzione. Avrebbe completamente alterato il loro stile di vita, che per il momento era in balia della accondiscendenza delle nazioni che li circondavano.
  Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della coscienza mitologica? L'apparente vantaggio certo era che gli ebrei potevano disperdersi in tutto il mondo, tra varie nazioni e civiltà, e mantenere ancora il nucleo della loro identità senza essere troppo dipendenti da condizioni e circostanze storiche locali. Nonostante le grandi differenze nello stile di vita delle diverse comunità, gli ebrei potevano mantenere la propria unità attraverso la fede negli stessi miti, di solito religiosi, anche se questi miti si sono evoluti nel tempo per includere altri contenuti genericamente spirituali. Inoltre, il mito della redenzione messianica è stato fonte di speranza in tempi difficili di persecuzione.

 Tuttavia, gli svantaggi della coscienza mitologica sono di gran lunga superiori ai vantaggi.
  In primo luogo, pochi possono conservare la propria identità per un periodo prolungato attraverso una coscienza mitologica recisa da un vero e proprio legame con la patria reale e da un contesto di coinvolgimento collettivo. Così, nel corso di lunghi anni di esilio molti ebrei si sono assimilati al loro ambiente e hanno perso la loro identità. C'erano tra quattro e sei milioni di ebrei in tutto il mondo antico nel primo secolo d.C. Nel XVIII secolo, il loro numero era sceso a solo un milione.
  Più grave ancora fu che l' essenza del mito era diventata come una monade di Leibniz. Non era possibile modificarlo o correggerlo. Né era aperto a una disamina razionale: nella migliore delle ipotesi, non poteva che essere interpretato. Prendete o lasciatelo erano le uniche opzioni disponibili. Pertanto, gli ebrei erano legati alla loro coscienza mitologica, per esempio, accettarono l'odio dei non ebrei come un destino inalterabile. In un certo senso, la loro identità mitologica condusse a una risposta mitologica, nello stesso modo in cui i cristiani vedevano il loro mito della crocifissione il rifiuto totale, il rinnegamento della radice ebraica. L'identità mitologica, inoltre, non ha portato gli ebrei a giustapporsi con altre nazioni della storia e non ha visto la loro storia come parte della storia del mondo. Si consideravano sempre odiati ed essenzialmente diversi.
  Così, insieme alla mobilità geografica, alla flessibilità sociale e all'adattabilità dell'ebreo come singolo individuo, la dimensione collettiva del popolo ebraico è rimasta pietrificata all'interno dell'identità mitologica che, insieme alle visioni di distruzione e rovina, ha permesso loro di nutrire una speranza passiva, e vana, della salvezza divina e ha impedito loro di percepire correttamente i terribili pericoli che li minacciavano, come dimostrato dalla Shoah.

(Corriere della Sera, 23 novembre 2020)


I risalti in colore sono di redazione.
[1] Ma signor Yehoshua, crede davvero che la crocifissione e la risurrezione di Gesù siano per noi cristiani un fatto che “crediamo reale e vero tanto quanto ciò che leggiamo sui giornali”? Ma che idea s’è fatto di noi? Alla realtà e verità di quello che leggiamo sui giornali noi crediamo meno della metà. No, signor Yehoshua, la risurrezione di Gesù, con tutto quello che l’ha preceduta, noi la crediamo come un fatto storico realmente avvenuto. L’apostolo Paolo lo dice chiaramente: “Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra predicazione e vana pure la vostra fede”; e poco più avanti ripete: “Se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato; e se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede” (2Corinzi 15:14,16). Ci dispiace per il signor Yehoshua, che dopo aver demolito vari “miti” per lui inconsistenti, se n'è creato uno tutto suo in cui ci si trova bene. M.C.


Emirati Arabi. Patto con Israele: si mangia kosher anche a Dubai

Nel cuore di Dubai, al pianoterra del lussuoso Hotel Armani del Burj Khalifa, il ristorante "Kaf " ha aperto i suoi battenti appena due giorni dopo che Emirati Arabi Uniti e Israele avevano firmato gli accordi di Abramo, gettando le basi per le relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Ciò che rende unico "Kaf" nel panorama dei ristoranti di Dubai è certamente il suo menù: è il primo ristorante kosher ad aprire sulle rive del Golfo Persico. Non c'è dubbio che dalle nuove relazioni diplomatiche fra Israele e Eau, ci si aspetti molto. Ancor prima che l'inchiostro sui protocolli si asciugasse, i due Paesi hanno intrapreso collaborazioni nel campo della finanza, della medicina, dello sporte della cultura. Fino a poco tempo fa, in pochi sapevano che gli Emirati Arabi Uniti ospitano una piccola comunità di ebrei. Ci sono anche tre sinagoghe: due a Dubai e una terza ad Abu Dhabi che ha appena aperto i battenti. Ora gli ebrei del Golfo stanno uscendo dall'ombra mentre gli Emirati Arabi Uniti aprono le braccia a Israele e si aspettano migliaia di suoi turisti.
   Certo sotto la sua patina di modernità - le donne straniere vagano per le strade indisturbate in pantaloncini corti, quest'anno è stata lanciata una missione su Marte - resta il fatto che gli Emirati Arabi Uniti sono uno stato di polizia in cui gli oppositori della casa reale sono puniti senza pietà e un mare di telecamere di sicurezza controlla ogni mossa. E questo potrebbe essere un deterrente per un turismo di massa.
   Resta poi da vedere se la gente degli Emirati viaggerà in Israele nella stessa quantità di persone che ci si aspetta arrivi dalla Terrasanta. Gli accordi di Abramo consentono 112 voli settimanali.
Il Khaleej Times, con sede a Dubai, scrive che i tour operator locali si aspettano richieste considerevoli sia da cittadini degli Emirati che da stranieri desiderosi di visitare la Moschea al Aqsa a Gerusalemme. L'India, che ha 173 milioni di cittadini musulmani, ha ottimi rapporti con Israele. Ma Pakistan, Bangladesh e Indonesia - il paese musulmano più popoloso al mondo - non consentono ai propri cittadini di viaggiare in Israele.

(il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2020)


L'islamismo minaccia tutti

Lo studioso Remi Brague su una sfida che ci riguarda

Intervistato da Juan Pedro Quinonero di Abc, il rinomato specialista in filosofia medievale (musulmana, ebraica, cristiana), professore emerito a Parigi e Monaco Remi Brague, ha spiegato che "tutta la terra non soggetta all'islam è minacciata. Non è solo l'Europa a essere minacciata, ma tutto il mondo non musulmano. Anche nei paesi sottoposti all'islam da secoli si trovano uomini barbuti che spiegano che la società non è ancora abbastanza islamizzata. La Francia è percepita dagli attivisti musulmani come un ventre molle dell'Europa. Innanzitutto per la presenza di un gran numero di uomini e donne provenienti da paesi musulmani. Non tutti sono violenti, tutt'altro! Ma costituiscono un terreno fertile per le persone suscettibili alla radicalizzazione, bombardate da una propaganda che cerca di far loro credere di trovarsi su terra nemica".
   L'islamista Brague non sa cosa riserverà il futuro ma non esclude che le cose andranno verso il peggio. "Tutte le cause continueranno ad esserci. L'assassino di Nizza è arrivato in Francia come 'rifugiato'. Come i genitori dell'assassino di Conflans-Sainte-Honorine. Anni fa, lo Stato islamico si vantava di sfruttare ondate di immigrati per portare i suoi guerrieri in Europa. Sorridevamo davanti a tanta spavalderia. Forse avremmo dovuto prendere sul serio quella minaccia e prestare maggiore attenzione a chi abbiamo accolto.
   Per Rémi Brague lo jihadismo "è l'aspetto 'rumoroso' e spettacolare di un piano molto più ampio: il progetto dell'islam, quello delle sue origini: conquistare il mondo per imporre la sua Legge, come è descritto nel Corano". Per i musulmani questa conquista "può essere fatta con mezzi militari, ma non necessariamente. Un'infiltrazione discreta, paziente, metodica, come quella dei Fratelli musulmani, è senza dubbio molto più efficace nel lungo periodo", secondo il professor Brague che offre anche la sua ricetta per affrontare il problema: "applicare rigorosamente le leggi già in vigore", "espellere i predicatori dell'odio, sciogliere le loro associazioni, chiudere le moschee dove predicano, chiudere i loro account Facebook". Inoltre il professore spiega che bisogna rispondere ai bugiardi che dicono che "tutto questo non ha nulla a che fare con l'islam", e a chi dice che parlando delle violenze islamiche si faccia "il gioco dell'estrema destra".
   A lungo termine secondo Rémi Brague è urgente controllare l'immigrazione, non tollerare le persone in situazione irregolare. Ma ciò suppone "il comportamento di uno stato convinto della propria legittimità".

(Il Foglio, 23 novembre 2020)


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Finkielkraut sul professore francese ucciso e la criminalizzazione della chiaroveggenza

L'islamismo non deve più essere percepito come una nostra creazione, è il nostro nemico. Per il filosofo francese Alain Finkielkraut, l'assassino di Samuel Paty ha agito da solo, ma non è solo. Ai suoi occhi, questa vicenda rivela in maniera cruda ciò che tanti, troppi osservatori continuano a non vedere: il legame tra l'islamismo ordinario e l'ultraviolenza.

- Elisabeht Lévy di Causeur - Dallo scorso 16 ottobre, tutti la pensano come Finkielkraut, pur esprimendosi meno bene. Cosa pensa di questo voltafaccia?
  Alain Finkielkraut - A Berlino, nel dicembre del 2016, un terrorista che aveva prestato giuramento allo Stato islamico si è scagliato contro la folla di un mercatino natalizio. Bilancio: dodici morti e una cinquantina di feriti. Subito dopo, Angela Merkel, con molta dignità, ha annunciato: "Continueremo a vivere assieme"; e nelle sue condoglianze alla cancelliera, l'allora presidente francese, François Hollande, ha incriminato il camion: "Un camion si è gettato sulla folla". Dichiarazione che fece dire allo scrittore Renaud Camus: "Maledetto camion! Sono sicuro che i vicini del camion sono caduti dalle nuvole, come accade sempre in queste circostanze. Un po' riservato forse, ma sempre molto educato e non particolarmente religioso. Faceva sempre i fari quando lo si incrociava e non frequentava troppo la moschea, anche se è vero che ultimamente era diventato taciturno e non sopportava più la musica. Avrebbe dovuto allarmarci questo fatto, ma sa com'è ... ".
Una campagna d'odio che ha coinvolto almeno un genitore di un'alunna, un predicatore antisemita e alcuni studenti indignati dal suo corso sulla libertà d'espressione ha preceduto l'assassinio e lo ha reso possibile. Questa vicenda rivela in maniera cruda ciò che tanti esperti, editorialisti, responsabili politici e professori universitari continuano a non vedere: il legame tra l'islamismo ordinario e l'ultraviolenza. Detto in altri termini, il vivere assieme è una favola, i territori perduti della Repubblica sono territori conquistati dall'odio della Francia. Gli occhi si sono aperti, l'evidenza non può più essere dissimulata.

- Molte persone che denunciavano l'islamofobia come il principale pericolo hanno cambiato completamente idea, facendo come se fossero stati sempre sulla stessa linea. Come scrive Milan Kundera in un passaggio de "I testamenti traditi" sul quale lei ha attirato la mia attenzione, comportarsi in questo modo significa stare dalla parte in cui soffia il vento. Ciò non mette in discussione l'autenticità del loro cambiamento?
  Forse lei ha ragione, ma questi conformisti mi preoccupano meno di coloro che persistono nel negare la realtà, nell'accecamento e nella criminalizzazione di coloro che avevano predetto ciò che sarebbe accaduto. Edwy Plenel (direttore del giornale d'inchiesta online Mediapart, ndr) ha parlato di un attentato a scopo terroristico, espressione straordinaria! Il terrorismo non è mai stato uno scopo, bensì uno strumento a servizio di una causa nazionale, rivoluzionaria o religiosa. Allo steso modo, nei giorni che hanno preceduto l'attentato di Conflans-Sainte-Honorine, Ségolène Royal ha affermato che non avrebbe mai parlato di islamismo perché nell'islamismo c'è la parola islam e non voleva essere colpevole di stigmatizzazione. Oggi non bisogna sottovalutare la potenza dell'antifascismo e dell'antirazzismo ideologici. Per numerosi editorialisti, l'estrema destra è il pericolo supremo e continueranno a delegittimare qualsiasi critica radicale dell'islam radicale in virtù di questo principio.

- Anche i macronisti spiegano a chiunque sia disposto ad ascoltarli che il presidente non ha mai cambiato la sua linea. Qual è la sua opinione?
  Durante la campagna per le presidenziali, Emmanuel Macron proponeva la diagnosi seguente: "Il comunitarismo, in particolare quello religioso, ha prosperato sulle rovine delle nostre politiche economiche e sociali. La società statuaria, senza prospettive di mobilità, ha creato la disperazione sociale". Lui stesso, dunque, era portatore di una prospettiva di mobilità, voleva fluidificare il mercato del lavoro e "uberizzare" la società francese. Era il nemico delle rendite e l'amico della circolazione. A un problema economico in ultima istanza, apportava una soluzione economica. Non era buonismo: ai suoi occhi, era realismo. Ma questo realismo si è scontrato con la realtà. L'islamismo conquistatore non è solubile nell'economia, non deve essere trattato come il sintomo di qualcos'altro (la miseria, lo sfruttamento, la discriminazione), deve essere combattuto. Non è una nostra creazione, è il nostro nemico. Ma non ho bisogno del pentimento del capo dello stato. Constato con sollievo che si avvicina alla posizione di Manuel Valls e si allontana, contro una parte delle sue truppe, da quella di Aurélien Taché (esponente dell'ala sinistra della République en marche, ndr). La Francia ha perso tempo, ma Macron non è l'unico colpevole.

- Si è parlato molto in questi giorni del vostro appello apparso sul settimanale Le Nouvel Observateur, "Insegnanti, non arrendiamoci!" nel quale denunciava la Monaco della scuola repubblicana. Le cose sarebbero andate diversamente se vi avessero ascoltato?
  Ai tempi in cui io, Élisabeth Badinter, Élisabeth de Fontenay, Régis Debray, Catherine Kintzler abbiamo firmato quel manifesto di sostegno ai professori che rifiutavano il velo islamico in classe, ci è stato molto rimproverato il riferimento a Monaco, e le associazioni antirazziste, all'unanimità, hanno sparato a zero contro di noi. Il ministro dell'Istruzione di allora, Lionel Jospin, aveva scaricato la responsabilità della questione sul Consiglio di stato che, invocando la libertà di coscienza degli allievi, si è rifiutato di vietare il velo. Si è dovuto attendere il 2004 affinché fosse votata la legge che vieta l'ostentazione dei simboli religiosi negli istituti scolastici. Questa legge era necessaria, ma si rivela insufficiente perché la questione dei simboli religiosi nasconde un fenomeno molto più vasto e ben più grave, come ha mostrato il rapporto Obin (dal nome dell'ex ispettore generale dell'Éducation nationale Jean-Pierre Obin, ndr) apparso lo stesso anno in cui è stata votata la legge e subito sotterrato dalle autorità. Da allora, il problema ha continuato ad aggravarsi, e nei quartieri sensibili sono sempre più numerosi gli studenti che selezionano i testi studiati secondo le categorie dell'hallal (autorizzato) e dell'haram (proibito) - esattamente come ciò che trovano nei loro piatti. I professori sono tanto più indifesi in quanto l'amministrazione rifiuta molto spesso di sostenerli.Non vuole alzare un polverone. Dopo ciò che è successo a Conflans-Sainte-Honorine, la speranza è che i presidi possano riprendere il controllo della situazione, e che a tutti i livelli della scuola francese la compiacenza ceda il posto all'intransigenza.

- L'identità francese, tuttavia, non è infelice solo a causa dell'islam radicale, ma perché la norma postnazionale e multiculturalista si è imposta sullo sfondo di migrazioni massive. A lungo termine, il partito dell'Altro, della decostruzione nazionale, del McDonald's planetario, non l'avrà vinta secondo lei?
  Il trauma causato dalla decapitazione di un professore davanti alla sua scuola è profondo e durevole. Di fronte a questo orrore e a tutto ciò che lo ha reso possibile, gli occhi si aprono e i francesi che lo avevano dimenticato tornano a essere consapevoli di formare una nazione. Ma ciò basterà? Gli ultimi tre attentati di cui la Francia è stata teatro sono stati commessi da rifugiati. Sembra dunque essere giunto il momento di rivedere le condizioni del diritto d'asilo, la gestione del ricongiungimento familiare e la politica migratoria nel suo insieme, perché si può pure dissolvere qualche associazione e chiudere alcune moschee salafite, ma il terrore non si fermerà e la trasmissione della cultura francese in Francia sarà sempre più contestata, e dunque più difficile se il sistema continua. Ma come detto ad alta voce da Jean-Éric Schoettl (ex segretario generale del Consiglio costituzionale, ndr), qualsiasi inasprimento del diritto andrebbe incontro a problemi con la giurisprudenza delle corti supreme (il Consiglio di stato, il Consiglio costituzionale, la Corte di cassazione e la Corte europea dei diritti dell'uomo). Queste confiscano agli stati l'autorità necessaria all'applicazione della loro politica di ammissione dei migranti. L'intenzione è buona, si tratta di cancellare la macchia del rifiuto, da parte dell'Europa, di accogliere i rifugiati ebrei che fuggivano dalla Germania nazista durante i tempi bui del Ventesimo secolo. Così, queste grandi istituzioni creano un terreno fertile per il nuovo antisemitismo. Non si inclinano di fronte alla forza, a immagine degli ex collaborazionisti, credono di prestare soccorso ai deboli, ma il risultato è esattamente lo stesso.

- Se da una parte la blasfemia è autorizzata dalla legge, dall'altra è ampiamente rigettata dalla società - non bisogna prendersi gioco del dio degli altri. La grammatica della distanza critica (e dei Lumi) è ancora d'attualità nell'epoca della benevolenza?
  Come ricorda l'avvocato e scrittore Thibault de Montbrial nel suo ultimo libro, "Osons l'autorité", i giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo hanno dato ragione alla giustizia austriaca che aveva condannato per denigrazione di un culto religioso una scrittrice e conferenziera che aveva parlato di pedofilia in riferimento al matrimonio tra il profeta Maometto e una bambina di sei anni. La motivazione invocata dalla Corte era la pace religiosa e la tolleranza reciproca Per ritrovare la propria sovranità e per difendere la civiltà europea fondata, effettivamente, sulla distanza critica, la Francia deve imperativamente affrancarsi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.

(Il Foglio, 23 novembre 2020)


L'israeliano judoka Peter Paltchik vince l'oro agli Europei di Judo

Il judoka occupa il primo posto nella categoria sotto i 100 kg, dopo che il collega Tal Flicker ha vinto la medaglia d'argento in una classe separata

 
Peter Paltchik
La premiazione  
L'israeliano Peter Paltchik ha vinto la medaglia d'oro oggi ai campionati europei di judo 2020. Paltchik ha sconfitto il russo Arman Adamian finendo primo nella classe di peso inferiore a 100 chilogrammi al torneo di quest'anno a Praga. Paltchik ha battuto il georgiano Varlam Liparteliani all'inizio della giornata per raggiungere poi la finale.
"Mi fa male tutto il corpo, la sensazione è incredibile", ha detto Paltchik all'emittente pubblica israeliana Kan. "In finale mi sono sempre detto che questo è un mio risultato." Il ministro dello sport Chili Tropper si è congratulato con Paltchik per la vittoria.
"È commovente vedere la bandiera israeliana sul podio", ha detto Tropper in una nota. Paltchik è il secondo israeliano a vincere una medaglia al torneo, dopo che Tal Flicker ha ricevuto la medaglia d'argento nella categoria degli under 66 kg.
Il compagno judoka israeliano Or Sasson è stato eliminato nei quarti di finale della categoria oltre i 100 chilogrammi, mentre Li Kochman è stato sconfitto nel suo primo incontro nella classe di peso inferiore ai 90 chilogrammi. Il judo è uno degli sport più forti di Israele, con i judoka israeliani che portano a casa cinque delle nove medaglie olimpiche vinte dal paese.

(israele360, 22 novembre 2020)


Gaza nella morsa Covid. Ma i palestinesi non si stancano di lanciare razzi contro Israele

di Giacomo Kahn

La Striscia di Gaza e' in piena emergenza sanitaria per il Covid, con i contagi che hanno superato quota 5 mila e ben 332 ricoveri in ospedale, 78 dei quali gravi.
Venerdì si è registrato un numero record di nuovi casi in un giorno, 891. Si stima che meta' dei posti nelle terapie intensive siano occupati e le autorita' sanitarie hanno avvertito che presto sara' necessario un intervento umanitario esterno per far fronte all'emergenza.
La salute pubblica dovrebbe quindi essere la prima preoccupazione della dirigenza di Hamas che governa, senza ricorrere a nuove elezioni, Gaza. Ed invece appena possono i terroristi palestinesi cercano di arrecare danni ad Israele. Nella notte appena trascorsa e' stato lanciato un razzo che ha danneggiato un palazzo di Ashkelon e lo Stato ebraico ha risposto colpendo obiettivi di Hamas nell'enclave palestinese. I caccia e gli elicotteri israeliani hanno centrato due fabbriche di munizioni per razzi, infrastrutture sotterranee e un centro di addestramento per forze navali.

(Shalom, 22 novembre 2020)


Israele risponde ad attacchi missilistici con raid aerei contro Hamas

L'Esercito israeliano ha annunciato il 22 novembre di aver colpito obiettivi di Hamas, ufficialmente detto il Movimento Islamico di Resistenza, lungo la Striscia di Gaza, in risposta al lancio di razzi verso l'area circostante la città israeliana di Ashkelon, avvenuto nella notte tra il 21 e 22 novembre, secondo Israele, per mano di militanti palestinesi della Striscia di Gaza.
   Gli ordigni lanciati contro i territori israeliani sarebbero caduti su di uno spazio aperto senza causare né vittime, né feriti, danneggiando una fabbrica a Sud di Ashkelon. Hamas non ha rivendicato l'attacco ma, in una dichiarazione, l'Esercito israeliano ha affermato: L'organizzazione terroristica Hamas è responsabile di tutti gli eventi che accadono e si originano dalla Striscia di Gaza e, per questo, subirà le conseguenze delle attività terroristiche compiute ai danni dei civili israeliani".
   In risposta, le Forze di Difesa israeliane hanno condotto un raid aereo con il quale hanno colpito due centri di produzione di razzi, un complesso militare e infrastrutture sotterranee di Hamas nella Striscia di Gaza. Secondo quanto riferito da alcuni testimoni a Reuters, l'Esercito israeliano avrebbe colpito obiettivi a Città di Gaza e nelle città meridionali di Rafah e Khan Younis. In base a quanto riferiscono poi media palestinesi citati dal Al-Jazeera, l'aviazione israeliana avrebbe colpito posizioni a Ovest, Est e Sud della Striscia di Gaza provocando danni materiali, ma non vi sarebbero state vittime.
   Gli eventi del 22 novembre sono avvenuti ad una settimana esatta dall'ultimo attacco subito dai territori israeliani, il 15 novembre scorso, quando altri due razzi erano partiti dalla Striscia di Gaza e atterrati a Israele, senza però causare né danni, né vittime. In tal caso, l'attacco non era stato rivendicato ma le autorità israeliane ritengono Hamas responsabile per questo tipo di azioni e, anche in quel caso, la risposta israeliana era arrivata con aerei da caccia, elicotteri e carrarmati che avevano colpito obiettivi appartenenti al gruppo, ritenuto da Israele un'organizzazione terroristica.
   Il 22 novembre, il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha incolpato Israele del recente intensificarsi delle ostilità, affermando che: "L'occupazione Israeliana è la prima responsabile di tutto ciò che avviene a Gaza in quanto sta portando avanti il blocco ai confini e sta perpetrando attacchi. La resistenza sta agendo solamente in auto-difesa".
   Hamas ha preso il controllo sulla Striscia di Gaza nel 2007, dopo aver sconfitto le forze fedeli al presidente palestinese, Mahmoud Abbas, in un breve conflitto che fece seguito alla vittoria elettorale di Hamas sul partito Al-Fatha alle elezioni svoltesi nei territori palestinesi nel 2006.
   Da allora, Israele ed Egitto avevano imposto un blocco ai confini della Striscia di Gaza, che controllano tutt'ora, e il primo continua a sostenere che i blocchi imposti di tanto in tanto al territorio servano, tra le altre cose, ad impedire ad Hamas di sviluppare un arsenale. Israele ha lanciato 3 operazioni militari contro Hamas, l'ultima delle quali risale al 2014 quando il conflitto si era concluso nel mese di agosto ma, da allora, le tensioni non si sono mai del tutto placate. Le relazioni di Hamas con Il Cairo, invece, hanno visto l'alternarsi di fasi di distensione e momenti di attrito e, finora, l'Egitto ha avuto il ruolo primario di mediatore tra Hamas e Israele, assicurando più momenti di cessate il fuoco e tregue ufficiose tra le parti per calmare gli scontri di confine.
   Lo scorso 31 agosto, Hamas aveva annunciato di aver raggiunto un'intesa per il cessate il fuoco con Israele grazie alla mediazione del Qatar, a seguito di un intensificarsi delle violenze e di una stretta all'accesso dei beni di prima necessità alla Striscia di Gaza. L'accordo prevedeva anche il benestare israeliano per lo sviluppo di nuovi progetti nella Striscia di Gaza che, tra le altre cose, prevedevano la creazione di una zona industriale e di un ospedale. Hamas ha accusato Israele di non essersi attenuto ai patti ma, quest'ultimo, respinge negoziati diretti con l'organizzazione e non ha mai riconosciuto pubblicamente la tregua in questione. L'unica iniziativa a riguardo era stata la riapertura dei valichi di Kerem Shalom ed Erez.
   Secondo stime effettuate dalla World Bank, la popolazione della Striscia di Gaza conterebbe circa 2 milioni di persone, dei quali, oltre la metà vive in condizioni di povertà. Secondo alcuni analisti palestinesi, Hamas aprirebbe il fuoco al confine con Israele per utilizzare le offensive come strumento di negoziazione per garantire l'approvazione da parte israeliana dell'accesso dell'aiuto finanziario del Qatar alla Striscia di Gaza.

(Sicurezza Internazionale, 22 novembre 2020)


II viaggio di Pompeo e la dottrina Trump. Caccia alla pace con i paesi musulmani

Dagli Usa un messaggio chiaro: no al terrorismo, attenti al pericolo Iran e sì al dialogo costruttivo con alcune nazioni in Medio Oriente. L'obiettivo: lasciare un'impronta che neanche Biden potrà cancellare.

di Fiamma Nirenstein

Dieci giorni di corsa, il titolo del viaggio «antiterrorismo e libertà religiosa»: e lui lo intende davvero cosi. E così facile, logico, ragionevole, ha ripetuto tranquillo Mike Pompeo, fino a giovedì in Israele bombardato di domande dai giornalisti, sospettato di essere un colonialista, un imperialista, insomma, l'emissario di Trump. In realtà è un uomo con una missione, il suo largo viso energico è paesano, da abruzzese di Pacentro come i suoi nonni. Indossa un tocco di orgoglio militare, da capitano a West Point, e di astuzia, da laureato a Harvard.
   A pochi giorni dalla scadenza del suo mandato, Pompeo ne ha speso dieci in un giro che ha compreso la Francia, la Turchia, la Georgia, Israele, gli Emirati Arabi Uniti, e il Qatar. Pompeo ha voluto disegnare un tracciato, una dottrina: ai nemici di Trump la sua politica estera è apparsa destrutturante e provocatoria, e invece con questo viaggio, l'obiettivo è di radicarsi nel futuro degli Stati Uniti, e da subito, nella politica di Biden. Così i continui richiami alla pericolosità dell'Iran. Così l'ormai condivisa sospettosità verso la Cina. Pompeo ha incontrato Macron per dimostrargli la disponibilità a combattere al suo fianco il terrorismo, l'Isis e le incursioni iraniane. L'eliminazione di Qasem Soleimani l'ha visto in prima fila, in Turchia non ha incontrato Erdogan, ma il patriarca ortodosso; intanto inaugurava un nuovo rapporto militare con la Grecia, stabilendo da che parte stanno gli Usa nel Mediterraneo orientale; poi a Tbilisi ricordava che la Russia ha sempre di fronte un contendente mondiale del peso degli Usa; ed ecco il Medio Oriente, dove Pompeo con Trump ha portato un'innovazione formidabile: la pace con alcuni Paesi islamici dell'area, il segnale che anche l'islam può accogliere altre religioni accanto a sé, persino a Gerusalemme. I Paesi arabi vogliono questa pace, Pompeo l'ha ribadito, senza fingere di credere che Israele sia un aggressore. Bevendo un po' di vino di Psagot, nella zona di Benjamina, dove appunto una delle dodici tribù, quella di Binjamin, già risiedeva più di duemila anni fa, Pompeo ha ribadito quello che tutti sanno: l'accordo di Oslo ha diviso i territori del '67 in tre zone, la zona C è stata affidata a Israele, Rabin e Arafat hanno firmato quell'accordo, il vino di quell'area è israeliano, togliete le etichette del Bds, che sono semplicemente antisemite. Censurato dai media di tutto il mondo, ha ribadito invece che i prodotti delle altre aree, A e B, una palestinese, l'altra in comune gestione, devono avere le etichette della loro zona: «West Bank». Un sorso di realtà che cancelli la pretesa dei palestinesi di essere padroni di una zona occupata dalla Giordania. Ma Pompeo ha ribadito che l'incantesimo è rotto e in quelle ore i palestinesi accettavano di riprendere i rapporti di sicurezza con Israele.
   Intanto a Gerusalemme, una calorosa delegazione degli Emirati visitava, progettava, si accordava, mentre gli imam e i fedeli di quel Paese rispondevano alla fatwa palestinese che proibisce loro di pregare ad Al Aqsa, dicendo che non sono loro i padroni dell'islam; il ministro degli Esteri del Bahrain, anche lui a Gerusalemme, prendeva accordi per l'apertura in Israele dell'ambasciata del suo Paese. Chissà che alla fine del suo giro Pompeo non annunci la pace con altri paesi musulmani, per quanto possa rientrare nella musichetta nota l'anatema contro Trump che confonde il mondo. La pace politica e religiosa è parte della dottrina Trump. Lo ricorderemo, e anche Biden non potrà dimenticarlo, se ama la pace.

(il Giornale, 22 novembre 2020)


Quelle firme che fanno la storia

di Sharon Nizza

Il 12 giugno un tweet, scritto in ebraico, attira l'attenzione del pubblico israeliano: «negli emirati, e in gran parte del mondo arabo, vogliamo credere che Israele sia un'opportunità, non un nemico». Sui social, realtà parallela spesso capace di anticipare gli eventi, le dimostrazioni di apertura verso Israele da parte dei vicini mediorientali negli ultimi anni vanno crescendo, ma in questo caso a stupire non era solo il contenuto del tweet, ma il mittente: Hend Al Otaiba, Direttrice della Comunicazione Strategica del Ministero degli Esteri di Abu Dhabi. Una voce istituzionale, e femminile, che a nome di uno Stato arabo apre a Israele, cancellando montagne di radicati preconcetti in un sol cinguettio. Da quel momento Al Otaiba è diventata il volto di quella che, due mesi più tardi, si è rivelata la svolta che sta cambiando il Medioriente da come lo conoscevamo finora: gli Accordi di Abramo. Il 12 giugno Lior Hayat, l'omologo israeliano di Al Otaiba, ritwittava infatti il curioso messaggio come se si trattane di una sorpresa inaspettata. Nel ruolo di portavoce dei rispettivi Ministeri degli Esteri, entrambi sapevano bene quello che i più hanno scoperto solo due mesi dopo, il 13 agosto, quando l'annuncio degli Accordi è stato reso noto al grande pubblico da Donald Trump (con un altro tweet, neanche a dirlo).
Hend Al Otaiba, Direttrice della Comunicazione Strategica del Ministero degli Esteri di Abu Dhabi
Poco più che 30enne, madre di due bambini, il velo che accarezza un volto sorridente e fotogenico, Al Otaiba da poco più di un anno ricopre l'incarico attuale, con il mandato di raccontare gli Emirati Arabi Uniti (Eau) al mondo. Dal 2017 nelle file del Ministero, ha alle spalle una carriera in Abu Dhabi Media, il colosso che gestisce 27 marchi legati al mondo della comunicazione. «L'obiettivo degli Emirati è creare un Medioriente più pacifico, tollerante e prospero», dice in colloquio concesso a D dal suo ufficio di Abu Dhabi. «Gli Accordi di Abramo formalizzano quanto era già chiaro: gli Eau e Israele non sono nemici e non sosterranno ostilità contro una delle due parti. Vogliamo creare un motore di crescita regionale tra i Paesi più dinamici dell'area».
Dalla sigla degli Accordi, affermazioni di questo tenore sono sempre più comuni anche nella stampa saudita e del Bahrein, Paese del Golfo che ha seguito Abu Dhabi firmando gli Accordi con Israele nella cerimonia che si è tenuta alla Casa Bianca il 15 settembre. Sebbene nelle stanze del potere si stesse lavorando da un decennio a questi risultati, si tratta di una rivoluzione vera e propria che la società civile sta ancora metabolizzando, anche se l'istantaneità dei social consente di colmare lacune in tempi record. «Sto prendendo lezioni di ebraico dai miei nuovi amici israeliani!», scherza infatti Al Otaiba quando legge i suoi tweet in ebraico, tra cui il tradizionale Shabbat Shalom, che gli ebrei augurano il venerdì prima dell'entrata del giorno del riposo. In questa intervista esclusiva, Al Otaiba condivide con D la logica e il messaggio che si celano dietro a uno storico avvenimento che sta ridisegnando la mappa mediorientale.

- Com'è stato partecipare alla firma alla Casa Bianca?
  «Un grande onore, a livello professionale e personale. Un momento storico, altamente toccante, che in pochi tra noi avrebbero potuto immaginarsi crescendo. È anche la simbolica dimostrazione del fatto che la visione degli Emirati per la regione si sta concretizzando. Noi lo chiamiamo "il modello emiratino": mettere in primo piano le aspirazioni concrete delle persone, vivere una vita all'insegna della salute, della realizzazione e della sicurezza personale. Ogni anno i sondaggi nel mondo arabo ci dimostrano quanto gli Eau siano la prima destinazione scelta dai giovani arabi che cercano un cambiamento. La maggior parte di questi giovani vuole trovare un impiego e crearsi una vita dignitosa, si arroccano sempre meno sulle vecchie posizioni ideologiche che hanno caratterizzano la scorsa generazione. L'accordo di pace, così come la visita di Papa Francesco e la nostra missione su Marte partita a luglio, rientrano in questa visione».

- La sua posizione verso Israele è cambiata nel corso degli anni?
  «Certamente. Così come la posizione del nostro Paese è cambiata e continuerà a cambiare mentre i due Paesi interagiranno sempre più. Sono evoluzioni che in genere avvengono lentamente, ma, vede, gli Eau sono un Paese molto pragmatico: è nato solo 50 anni fa, ma ha vissuto una svolta estremamente rapida, straordinaria. Abbiamo compreso che, anche nella nostra posizione verso Israele, era necessaria un'evoluzione, un maggiore impegno anche per essere più influenti. La politica della totale disconnessione si è dimostrata fallimentare. Dovevamo separare le questioni politiche da quelle fondamentali per lo sviluppo del nostro Paese e della nostra regione, come il commercio, la scienza e la tolleranza».

- La leadership palestinese ha condannato gli Accordi come "tradimento". Pensate davvero che la vostra nuova posizione possa aiutare i palestinesi ad avere finalmente il loro Stato?
  «Gli Eau sono sempre stati sostenitori ardenti del popolo palestinese, inclusa la soluzione dei due Stati. I palestinesi dovrebbero godere dei benefici che questa normalizzazione porterà anche a loro. In primis, grazie alla nostra posizione "o normalizzazione, o annessione", abbiamo fermato il progetto di estensione della legge israeliana in Cisgiordania. Ora chiediamo a israeliani e palestinesi di impegnarsi in un dialogo costruttivo».

- Che ruolo possono avere le donne in questo scenario?
  «Sono una grande sostenitrice del coinvolgimento delle donne negli sforzi della diplomazia. Le donne palestinesi e israeliane hanno davanti un'opportunità storica di dialogo, anche con la nostra mediazione, e speriamo che i futuri tentativi di costruire una soluzione duratura e sostenibile al conflitto portino frutti grazie in parte al contributo delle donne. Israele ed Eau sono forse i due Paesi della regione che investono di più nel potenziamento delle figure femminili, anche nell'arena diplomatica. Come donna emiratina professionista, molti dei miei risultati sono stati resi possibili grazie al riconoscimento da parte del mio Paese del ruolo fondamentale che le donne svolgono nella vita economica, politica e sociale. Il 50% del nostro Consiglio nazionale federale è femminile, così come un terzo del nostro governo. Nel settore pubblico, le donne occupano il 66% degli impieghi, un 30% in ruoli dirigenziali. E nel privato, oggi 23mila donne d'affari gestiscono progetti per un valore di oltre 13 miliardi di dollari. Questi dati possono rappresentare la base che ci consentirà di fare da catalizzatore per un cambiamento positivo in quest'area».

- Sono già nate iniziative in questa direzione?
  «Diverse, tra cui la fondazione del primo Forum femminile Israele-Golfo, inaugurato a Dubai, che riunisce imprenditrici da entrambe le parti».

- In Israele il servizio militare è obbligatorio anche per le donne. Negli Emirati?
  «Possono scegliere. Nel 1991 abbiamo creato qui la prima accademia militare femminile e una nostra pilota ha fatto la storia sia come prima pilota nel mondo arabo, sia per la sua partecipazione alla Coalizione contro l'Isis. Abbiamo appena lanciato all'Onu il Programma di Formazione per le Donne, la Pace e la Sicurezza, in cui addestriamo donne dei Paesi in via di sviluppo a diventare forze di peacekeeping. È un progetto di cui sono particolarmente fiera perché è in linea con gli sforzi degli Eau per coinvolgere le donne in modo più centrale nella diplomazia».

- Qual è la lezione più importante che ha appreso nel corso della sua carriera?
  «Ho imparato che i tuoi sforzi sono apprezzati quando rimani fedele ai tuoi valori e mostri dedizione nel tuo lavoro. E importante avere curiosità e continuare a studiare e coltivare le proprie passioni. E intelligenza emotiva è fondamentale quando si interagisce con le persone e le donne hanno un talento speciale in questo. Tutti dovrebbero farne tesoro».

(la Repubblica delle Donne, 22 novembre 2020)


Israele attende Pollard, la spia che minò i rapporti con l'America

I segreti, il tradimento l'arresto. Poi la pena severa e trent'anni di carcere. La libertà nel 2015, però niente espatrio. Fino a ieri: Jonathan lascerà gli Usa

Quell'uomo stempiato e con i baffi era diventato il simbolo del più anomalo dei traffici Unico statunitense all'ergastolo per avere passato segreti a un Paese amico

di Alberto Flores d'Arcais

NEW YORK — Era il 21 novembre 1985 quando gli agenti del Fbi misero in manette un uomo che a Washington si era appena allontanato dall'ambasciata di Israele, dove aveva chiesto asilo politico respinto dalle guardie all'ingresso. Si chiamava Jonathan Pollard, aveva 31 anni, lavorava per l'intelligence della Marina Usa e da un anno era al soldo del Mossad. Esattamente 35 anni dopo (30 passati in carcere e cinque in semi-libertà) l'uomo che per anni ha messo in crisi le relazioni tra gli Stati Unit! e il suo più fedele alleato è diventato un uomo libero e presto andrà a vivere in Israele.
   La foto di quell'uomo dai capelli neri, stempiato e con i baffi, divenne per anni il simbolo del più anomalo tradimento nel mondo sotterraneo dello spionaggio, in cui ricatti e vendette sono all'ordine del giorno. Unico cittadino degli Stati Uniti condannato all'ergastolo per aver passato documenti "top secret" a un Paese amico, Pollard si è sempre difeso sostenendo di avere spiato solo perché «l'establishment dei servizi segreti americani ha messo in pericolo la sicurezza di Israele nascondendo informazioni cruciali», fra cui quelle sullo sviluppo di armi chimiche in Iraq e in Siria, informazioni sugli eserciti arabi e le immagini satellitari del quartier generale dell'Olp a Tunisi che servirono all'aviazione di Gerusalemme per il bombardamento del 1985.
   Una carriera nell'intelligence Usa con qualche errore che oggi non gli verrebbe perdonato, ma che nell'America a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta — quando le diverse agenzie di spionaggio si facevano spesso la guerra — gli permise di andare avanti.
   Fare la spia era del resto il sogno di sempre di Jonathan, nato in Texas in una famiglia ebraica, cresciuto in Indiana (il padre, un noto biologo, insegnava alla University of Notre Dame) e fin da piccolo così interessato all'Olocausto da convincere i genitori a portare la famiglia in visita ai campi nazisti in Europa. Un sogno che rendeva a suo modo reale nei racconti (inventati) che faceva ai suoi compagni di college a Stanford: la doppia cittadinanza americana e israeliana, il lavoro per il Mossad, il grado di colonnello dell'esercito israeliano (si inviava falsi telegrammi a nome "Colonel Pollard"), il padre che lavorava per la Cia.
   Una volta finita l'università provò davvero a entrare alla Cia, ma dovette rinunciare dopo aver confessato alla "macchina della verità" di aver usato droghe per oltre quattro anni. Riprovò con l'intelligence della Marina e questa volta gli andò meglio, nonostante le bugie sul lavoro di agente del padre e le droghe (la Cia si rifiutò di dare notizie su Jonathan). Era i11984 quando, lavorando come intelligence specialist per il Comando Navale che venne a contatto con Aviem Sella, veterano dell'Air Force di Israele e agente sotto copertura del Mossad. A cui, nel suo fervore pro-Israele, offri i suoi servigi per 10mila dollari cash e due anelli (diamante e zaffiro) che regaló alla fidanzata Anne Henderson chiedendole di sposarla.
   Lei accettò e diventò sua partner nello spionaggio. Fu lei ad avvisare Sella sull'arresto del marito — era andata con il marito all'ambasciata ma era sfuggita agli agenti Fbi — e fù anche lei condannata, restando tre anni e mezzo in carcere. Quando usci si vide recapitare i documenti in cui Jonathan le chiedeva il divorzio. Da tempo vive in Israele e nonostante Pollard si sia risposato (in carcere) con l'attuale moglie Esther (da sempre impegnata nella campagna per la sua liberazione), Anne il 21 novembre è voluta tornare a Washington. «Non ho ancora capito perché ha voluto divorziare», ha dichiarato a Times of lsrael.
   Trentacinque anni fa per la Casa Bianca (allora il presidente era Ronald Reagan), per la Cia, l'Fbi e ovviamente la Marina, quello di Pollard fu considerato uno dei più gravi tradimenti nella lunga storia dello spionaggio Usa e per quasi 30 anni gli Stati Uniti si rifiutarono di liberarlo come chiedevano con insistenza i leader israeliani. George Tenet — che ha guidato la Central Intelligence Agency per otto anni con Clinton e Bush — ha minacciato più volte le dimissioni e un ripetuto "no" ci fu anche da parte di due falchi dell'amministrazione di George W. Bush molto amici di Israele come il vice-presidente Dick Cheney e il capo del Pentagono Donald Rumsfeld.
   Nel 1995 aveva avuto la tanto sospirata nazionalità israeliana, nel novembre 2015 aveva ottenuto la libertà vigilata dopo 30 anni trascorsi nel carcere federale di Butner, in North Carolina. Per anni il premier di Gerusalemme Benjamin Netanyahu ha premuto sulle diverse amministrazioni Usa perché venisse liberato. Prima di abbandonare la Casa Bianca, Donald Trump ha voluto compiere un ultimo gesto in favore del suo più prezioso alleato in Medio Oriente.

(la Repubblica, 22 novembre 2020)


"Italia-Israele, legame speciale"

di Cesare Gaudiano*

 
Giuseppe Grimaldi
Avvicinare le nuove generazioni all'ebraismo, alla storia d'Israele e alla Memoria. Farlo attraverso lo sport.
  È la sfida del progetto "1945-2020: Campioni del Calcio e la Shoah, presentato quest'oggi nell'ambito del 31esimo Congresso Nazionale della Federazione delle Associazioni Italia-Israele.
  È stato il presidente nazionale Giuseppe Grimaldi (nella foto) ad illustrarlo in apertura di conferenza. Un intervento di bilancio e di riflessione sull'anno che va concludendosi, inevitabilmente segnato dall'emergenza sanitaria ma non solo. "Eccoci ancora una volta qui. Uniti e forti dei nostri sentimenti di amicizia verso Israele e il suo popolo. Più convinti che mai - ha sottolineato - della funzione che ciascuno di noi svolge in una nazione spesso poco attenta ai valori che esprimiamo da volontari nel tendere un ponte oltre l'altra sponda del Mediterraneo e in un'Europa sempre più scossa dai sovranismi, dai suprematisimi e dai nazionalismi ciechi e da quel sordo rumore di fondo dell'antisemitismo che torna a farsi sempre più forte e minaccioso".
  Numerosi gli interventi che hanno caratterizzato e ancora caratterizzeranno la conferenza. Dall'ambasciatore israeliano Dror Eydar alla sua vice Ofra Fahri, dal Consigliere dell'ambasciata Ariel Bercovich ai nuovi incaricati presso la missione diplomatica: Raphael Singer, a capo del dipartimento economico; Uri Zirinski (portavoce e affari politici) e Maya Katzir (addetta culturale).
  Tra gli appuntamenti del pomeriggio, dopo un saluto di Sara Gilad, la tavola rotonda "La nuova sfida di Israele ai tempi del Covid e i nuovi equilibri di politica internazionale in Medio Oriente". Introdotti da Bruno Gazzo, con conclusioni di Giorgio Linda, prenderanno la parola Alex Kerner, in rappresentanza del Keren Hayesod; il diplomatico Yosh Amishav e la giornalista Fabiana Magrì.
  Seguirà la relazione del tesoriere, l'approvazione del bilancio, un confronto interno riservato ai presidenti delle varie federazioni locali.

 Il pallone e il dovere della Memoria
  Avvicinare le nuove generazioni all'ebraismo, alla storia d'Israele e alla Memoria parlando di sport. È l'obiettivo principale del Progetto "Il Calcio e la Shoah". L'idea - lanciata dall'associazione Italia Israele di Foggia in collaborazione con Renato Mariotti, presidente dell'ASD International Football Museum - punta a realizzare l'obiettivo che il presidente nazionale della Federazione, Giuseppe Crimaldi, si è posto sin dall'inizio del suo mandato e che può essere sintetizzato nello slogan "rieducare le nuove generazioni" avvicinandole - senza pregiudizi o contaminazioni ideologiche - ad una storia entusiasmante e tuttavia anche tragica. In che cosa consiste il progetto? Essenziale sarà il contributo fornito dall'associazione presieduta da Mariotti, già impegnata in progetti che hanno alla base l'etica nel calcio e che nel 2019 ha per questo ricevuto il "Premio Nazionale Fair Play" dal Coni.
  Ennio Flaiano scrisse che "l'infanzia è l'unico luogo della vita che non possiamo mai abbandonare perché è sempre nella nostra infanzia che fissiamo i fatti che segnano la nostra esistenza". Ed è partendo da questa citazione che il progetto viene trasformato in realtà.
  La mostra - grazie anche alla collaborazione e al sostegno dell'ambasciata d'Israele a Roma - sarà itinerante e coinvolgerà i ragazzi delle scuole primarie e medie inferiori. Avrà il titolo "1945-2020. 75 anni dalla scomparsa dei campioni del calcio nei campi di sterminio".
  Alla fine dell'Ottocento il calcio inizia a diffondersi in Italia; in un Paese nel quale il lavoro contadino determinava la crescita e lo sviluppo dell'economia. Il calcio, di pari passo, riusciva a catturare l'attenzione trasversale degli appartenenti a tutte le classi sociali. È stata questa l'origine di un fenomeno, non solo sportivo, che nell'immediato dopoguerra ha visto la nascita di migliaia di società dilettantistiche nelle città d'Italia. Attraverso l'attaccamento ai colori sociali della propria squadra si è finito per esprimere un senso di appartenenza al proprio territorio e alla cultura di riferimento.
  Ecco che i campioni del calcio, anche se semplicemente campioni della squadretta del proprio paese, diventavano per i bambini simboli e personaggi da emulare, anche nei modi di vivere.
  Con l'aiuto del calcio - e grazie al prezioso patrimonio di "cimeli" custoditi da Mariotti - potremmo far riflettere ancora di più i bambini, i ragazzi, sulla tragedia della Shoah: in particolare sullo sterminio attuato verso i campioni dello sport, soprattutto di quelli del calcio, nella Germania degli anni terribili; campioni con alto senso di appartenenza alla bandiera, "usati" come veicolo di promozione dei regimi totalitari dell'epoca. Sfruttati per "la facciata" e poi barbaramente uccisi solo perché ebrei.
  Una storia poco approfondita e che va invece divulgata a giovani e giovanissimi. La mostra si avvarrà dunque di strumenti diretti (i palloni originali utilizzati per alcune finali della Coppa del Mondo, gli scarpini e le magliette dei calciatori tedeschi che militavano nelle massime serie, poi deportati e morti nei lager), sia interattivi, con proiezioni e altro materiale informatico. Un modo originale e diretto per fare educazione corretta

* Presidente dell'Associazione Italia Israele di Foggia

(moked, 22 novembre 2020)



Se i peccatori ti vogliono sviare

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 1
  1. Figlio mio, se i peccatori ti vogliono sviare,
    non dar loro retta.
  2. Potranno dirti: «Vieni con noi; mettiamoci in agguato per uccidere;
    tendiamo insidie senza motivo all'innocente;
  3. inghiottiamoli vivi, come il soggiorno dei morti,
    e tutti interi come quelli che scendono nella tomba;
  4. noi troveremo ogni sorta di beni preziosi,
    riempiremo le nostre case di bottino;
  5. tu estrarrai a sorte la tua parte con noi,
    non ci sarà tra noi tutti che una borsa sola».
  6. Tu però, figlio mio, non t'incamminare con loro;
    trattieni il tuo piede lontano dal loro sentiero;
  7. poiché i loro piedi corrono al male,
    essi si affrettano a spargere il sangue.
  8. Si tende invano la rete
    davanti a ogni sorta di uccelli;
  9. ma costoro pongono agguati al loro proprio sangue
    e tendono insidie alla loro vita stessa.
  10. Tali sono le vie di chiunque si dà alla rapina;
    essa toglie la vita a chi la commette.
  1. Figlio mio, se i peccatori ti vogliono sviare,
    non dar loro retta.

    La saggezza parla in un ambiente familiare attraverso le parole di un padre. L'espressione Figlio mio compare 23 volte nel libro dei Proverbi, e manifesta la cura premurosa che un genitore deve avere verso il figlio necessariamente inesperto della vita. Nel versetto precedente ha dato una promessa; nei versetti che seguono dà degli avvertimenti. E' significativo il fatto che la saggezza deve subito preoccuparsi di difendere il giovane dalle influenze esterne. Il male tende per sua natura ad espandersi: i peccatori non si accontentano di peccare; vogliono che altri si aggiungano a loro. Il primo ammonimento è dunque negativo: non dar loro retta. Il male comincia nei pensieri della mente e nei progetti del cuore: perciò è necessario dire subito "no" alle parole seducenti di chi invita a percorrere vie contrarie alla volontà di Dio. "Beato l'uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi" (Sl 1.1), dice il salmista, sapendo che gli empi si danno arie di essere esperti consiglieri nelle cose della vita. Per loro i timorati di Dio sono degli ingenui che non hanno capito come si deve vivere in questo mondo. L'avvertimento del padre è semplice e secco: "Non li ascoltare!".

  2. Potranno dirti: «Vieni con noi; mettiamoci in agguato per uccidere;
    tendiamo insidie senza motivo all'innocente;

    Il reato che i peccatori vorrebbero indurre il giovane a commettere insieme a loro oggi sarebbe chiamato omicidio a scopo di rapina. E' un crimine particolarmente grave, e certamente non avviene spesso che un giovane venga indotto a commettere un delitto così grave. Ma il caso presentato è significativo perché il male ha sempre a che fare con la morte: la vita dell'altro viene aggredita al fine di strappargli qualcosa e goderne a proprio beneficio. L'invito mettiamoci in agguato mette in evidenza che il male ha bisogno delle tenebre: deve tendere insidie, agire di nascosto e colpire di sorpresa. La violenza e l'inganno sono parti essenziali dell'azione peccaminosa.
    Il fatto che la vittima sia innocente e che l'aggressione sia senza motivo manifesta l'assenza di ogni senso di giustizia. L'azione non deve essere giustificata da una qualunque norma: l'unica motivazione resta il proprio interesse. Ma, come si vedrà nel seguito, il peccatore in realtà è uno stolto, perché quello che considera suo vero interesse, alla resa dei conti si rivelerà essere per lui un danno mortale.

  3. inghiottiamoli vivi, come il soggiorno dei morti,
    e tutti interi come quelli che scendono nella tomba;

    Il paragone con il soggiorno dei morti e con la tomba è significativo. L'azione criminale è una manifestazione della morte: per impossessarsi dei beni di un altro il malvagio deve annientarne la vita. Una persona deve sparire dalla terra dei viventi affinché i suoi beni possano essergli tolti. Le espressioni inghiottiamoli vivi e tutti interi fanno pensare ad un'azione improvvisa e inaspettata dalle vittime ignare che, senza potersi in alcun modo preparare, non possono che cadere nella trappola mortale preparata per loro.

  4. noi troveremo ogni sorta di beni preziosi,
    riempiremo le nostre case di bottino;

    Ecco come si fa a diventare ricchi, sembra dire il peccatore al giovane inesperto per convincerlo. Non è necessario avere saggezza, prudenza e scienza per "riempire le stanze di ogni specie di beni preziosi" (24.3-4): l'importante è essere furbi e spietati, e senza aver bisogno di sudare e faticare si può ottenere tutto quello che si vuole. Il male non si presenta mai come male, ma sempre come un bene maggiore ottenibile per vie più comode. La verità però non è questa. Chi compie il male diventa inevitabilmente partecipe e vittima del male.

  5. tu estrarrai a sorte la tua parte con noi,
    non ci sarà tra noi tutti che una borsa sola».

    Forse il giovane potrebbe temere che, in quanto novizio del mestiere, gli toccherà una parte molto piccola del bottino che riusciranno a fare. No, dicono i peccatori, saremo tutti uguali, non ci sarà tra noi tutti che una borsa sola, e da questa tu estrarrai a sorte la tua parte con noi. I malvagi offrono dunque un bene molto ambito dal giovane che si affaccia alla vita: l'appartenenza a un gruppo di amici in cui tutti sono sullo stesso piano perché manca una figura autorevole paragonabile a quella del padre. L'offerta è allettante: si propone di entrare in una società in cui si hanno beni preziosi, solidarietà e democraticità senza faticare e senza dover sottostare a pesanti norme imposte da qualche autorità. Sembra di sentire l'eco di parole famose: libertà, fraternità e uguaglianza, insieme ad abbondanti ricchezze ottenute a scapito di altri.

  6. Tu però, figlio mio, non t'incamminare con loro;
    trattieni il tuo piede lontano dal loro sentiero;

    Al "Vieni con noi" dei peccatori si oppone la parola del padre: Non t'incamminare con loro. Due parole si oppongono: quale sarà quella vera? Ecco come si pone in modo pratico il problema della verità. Uno dice che il bene sta da una parte, altri dicono che sta dall'altra: quale sarà l'indicazione giusta? Qualcuno potrebbe dire che non si può rispondere in anticipo, che bisogna provare. E invece non è così. In tutte le questioni fondamentali della vita bisogna scegliere basandosi non sull'esperienza ma sulla parola, perché una volta che la scelta è stata fatta, la realtà è cambiata in modo irreversibile. Se qualcuno mi dice che la mela sul piatto è avvelenata, non ricorrerò certo all'esperienza per verificare se il fatto è vero. Dovrò decidere se credere o no alla parola ricevuta. Il primo peccato dell'umanità è avvenuto perché invece di credere alla parola del Creatore gli uomini hanno voluto sperimentare di persona per vedere se le cose stavano proprio così. Ma una volta fatto l'esperimento, non erano più quelli di prima e non potevano più tornare indietro.
    Trattieni il tuo piede, dice il padre al figlio, invitandolo con queste parole a non prendere una decisione iniziale che l'avrebbe coinvolto in successive decisioni sempre più vincolanti. La libertà è come un capitale che ciascuno riceve all'inizio della sua vita di persona adulta: si è liberi di usarlo come si vuole, ma scelte sbagliate portano alla diminuzione del capitale stesso, fino al possibile totale azzeramento. Si è liberi di cominciare a peccare, ma non si è altrettanto liberi di smettere di peccare. "Chi commette il peccato è schiavo del peccato" (1 Gv 8.34).

  7. poiché i loro piedi corrono al male,
    essi si affrettano a spargere il sangue.

    I peccatori sono persone decise ed energiche: non si limitano a camminare; i loro piedi corrono al male e si affrettano a spargere il sangue. Il riferimento al male e al sangue dovrebbe essere sufficiente per un figlio che è stato educato a riconoscere che il bene è collegato alla vita e il male è collegato alla morte. "Tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada" (Mt 26.52), dirà Gesù. Chi usa violenza verso altri è già vittima della violenza. E un giorno si vedrà.
    Anche l'apostolo Paolo parla di "piedi veloci a spargere il sangue" (Ro 3.15), e non per descrivere la crudeltà di un particolare gruppo di persone, ma per rappresentare lo stato di tutti gli uomini davanti a Dio, sia Giudei, sia Greci,. Non dobbiamo quindi allontanare frettolosamente da noi queste parole come se si riferissero a situazioni di particolare malvagità, perché nel cuore di ogni uomo, anche il più rispettabile, si annidano i semi del male in ogni sua forma. "Poiché dal cuore vengono pensieri malvagi, omicidi, adultèri, fornicazioni, furti, false testimonianze, diffamazioni" (Mt 15.19).

  8. Si tende invano la rete
    davanti a ogni sorta di uccelli;

    E' vano tendere una rete per prendere uccelli mentre questi sono lì che guardano, perché vedranno la trappola tesa e saranno tanto saggi da starsene lontano e non cadervi dentro.

  9. ma costoro pongono agguati al loro proprio sangue
    e tendono insidie alla loro vita stessa.

    I peccatori invece sono tanto sciocchi da non capire che sono loro stessi a sistemare le trappole in cui andranno a cadere. Vogliono spargere il sangue di altri e invece pongono agguati al loro proprio sangue, perché esiste un Giudice supremo che non permette che l'uccisione di un essere creato a Sua immagine e somiglianza rimanga impunito. La stessa terra su cui gli uomini posano i piedi chiede giustizia. Dopo il primo omicidio commesso dal genere umano il Signore disse a Caino: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra" (Ge 4.10). E nel patto che fece con Noè aggiunse: "Io chiederò conto del vostro sangue, del sangue delle vostre vite; ne chiederò conto a ogni animale; chiederò conto della vita dell'uomo alla mano dell'uomo, alla mano di ogni suo fratello (Ge 9.5). Coloro che attentano alla vita degli altri sono dunque dei pazzi che non si accorgono che tendono insidie alla loro vita stessa.
    Qualcuno potrebbe pensare che la cosa non lo riguardi perché non ha mai ammazzato nessuno, né ha mai pensato di farlo. Ma l'apostolo Giovanni avverte: "Chiunque odia suo fratello è omicida; e voi sapete che nessun omicida possiede in sé stesso la vita eterna"(1 Gv 3.15). Chi odia occupa, davanti a Dio, la posizione dell'omicida; e l'omicida si pone fuori della vita, della vera vita, cioè la vita eterna.

  10. Tali sono le vie di chiunque si dà alla rapina;
    essa toglie la vita a chi la commette.

    Chi si dà alla rapina è uno che quando ha messo gli occhi su qualcosa che gli piace e assolutamente vuole avere, non si pone limiti morali: se necessario, è pronto anche a uccidere. Il padre avverte: chi percorre queste vie, cioè chi persegue progetti di questo tipo, anche se in un primo tempo riesce a togliere dei beni agli altri, prima o poi si accorgerà che toglie a sé stesso la vita. E questo è vero per chiunque si dà alla rapina. Non pensi dunque il giovane che il suo caso è particolare, o che adesso i tempi sono cambiati, o che le norme di giustizia possono essere interpretate in vari modi secondo la propria personale coscienza. La saggezza espone leggi morali che nella loro struttura assomigliano alle leggi fisiche: valgono per tutti e in ogni tempo. E chiunque pensa di poterle trasgredire dovrà confermare, a sue spese, che sono vere.
M.C.

 

Lazzarini, un appello per i profughi a Gaza

di Paolo Lepri

«Siamo sull'orlo del precipizio», avverte Philippe Lazzarini, che da marzo dirige l'Unrwa, l'agenzia della Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi, fondata nel 1949. Il suo bilancio, coperto dalle donazioni volontarie dei Paesi Onu e dell'Unione europea, ha un buco di quasi 60 milioni di euro per i mesi di novembre e dicembre. E' fortemente minacciata, quindi, la sussistenza di circa 5,7 milioni di profughi in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme Est, in Libano e in Giordania. Sono a rischio anche i salari dei 28.000 dipendenti. «Le nostre risorse finanziarie - ha detto nel giorni scorsi Lazzarini - sono al loro livello più basso di sempre. Ci auguriamo di poter mantenere l'Unrwa operativa. Faremo tutto il possibile per riuscirci». Svizzero, 56 anni, studi a Losanna e Neuchâtel, sposato con quattro figli, Lazzarini ha un'esperienza trentennale nell'assistenza umanitaria e nel coordinamento internazionale nelle aree di crisi. Lavora dal 2003 nel sistema della Nazioni Unite. È proprio la grande conoscenza dei problemi maturata in questo lungo periodo a renderlo molto preoccupato. A suo giudizio la crisi finanziaria dell'Unrwa, In particolare, potrebbe provocare un «disastro totale» nella striscia di Gaza e accrescere l'instabilità del Libano. «Sarebbe una conseguenza drammatica dover chiudere le nostre scuole e i nostri centri sanitari proprio durante la pandemia», ha sottolineato in una intervista alla Neue Zürcher Zeitung. Un colpo determinante all'agenzia dell'Onu, già in difficoltà, è arrivato nel 2018 con la decisione del presidente americano Donald Trump di sospendere i contributi degli Stati Uniti. Alle casse dell'organizzazione sono venuti a mancare oltre 300 milioni di dollari. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca è ora certamente possibile un'inversione di rotta, ma è necessario che sia rapida: la posta in gioco è troppo alta Lazzarini sembra abbastanza fiducioso. «Tutti I segnali indicano che ci sia disponibilità a ripristinare la partnership che abbiamo avuto per lungo tempo con l'amministrazione americana». Non è l'unico a sperare in Joe Biden.

(Il Foglio, 21 novembre 2020)


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La stirpe protetta dei profughi palestinesi

Da un articolo del 2009

Ricordiamo, per i meno informati, che l'UNRWA venne pensata funzionalmente e specificatamente per i soli profughi palestinesi nel 1949. Basa la propria esistenza sull'abnorme definizione di profugo palestinese, ampiamente diverso da quello valido per tutti gli altri profughi del mondo.
Secondo l'UNRWA, udite, udite, sarebbero profughi tutti coloro che vivevano nella Palestina Mandataria, tra il giugno 1946 e il maggio 1948, privati delle loro case e i loro mezzi di sostentamento in conseguenza del conflitto arabo-israeliano del 1948.
L'aspetto sconcertante è che questa elefantiaca organizzazione estende lo status di profugo "ai discendenti delle persone divenute profughi nel 1948", arrivando al poco invidiabile record di garantire lo status di rifugiato anche a chi ha per profugo un solo genitore!
Tanto per fare i conti dell'oste, assieme al politologo Daniel Pipes, i profughi che furono censiti nel 1948 ammontavano a circa 726.000 unità. Applicando il criterio che viene seguito per tutti gli altri profughi del mondo, oggi i profughi palestinesi ancora vivi sarebbero poco più di 200.000.
La geniale creatura dell'ONU, l'UNRWA appunto, sommando ai figli dei profughi (o di un solo profugo), i nipoti e i pronipoti, oltre ai palestinesi che hanno abbandonato le loro case nel 1967 con a loro volta i loro figli e nipoti, è riuscita a battere persino il mitico Nazareno che, partendo da soli cinque pani e due pesci, quanto a moltiplicazione non ci andò certo leggero. Così, tra la gioia dei pacifinti e dei tuttologi, i rifugiati palestinesi ammontano oggi a qualcosa come 4 milioni e 250.000 unità.
Profughi che, ricordiamolo, per lo standard internazionale, non sarebbero considerati tali nel 95% dei casi.
A chiosa, converrebbe riflettere su un ultimo elemento.
Ai rifugiati palestinesi in Libano non è concessa la cittadinanza, nonostante siano presenti sul territorio ormai da mezzo secolo. Hanno limiti per accedere al sistema sanitario - invece concesso ad altri stranieri - o alle scuole statali. E, in linea con quanto deciso a Beyruth, la stragrande maggioranza dei paesi arabi (moderati o meno) non si sogna nemmeno lontanamente di concedere il proprio passaporto ai rifugiati palestinesi.
In questo contesto, evidentemente, l'UNRWA assomiglia sempre di più ad un gigantesco carrozzone occupazionale, costruito ad hoc per una causa prima pan-araba e, di ripiego dopo il fallimento del panarabismo di Anwar Al-Sadat, finalmente pan-islamista.

(Notizie su Israele, febbraio 2009)


Israele pedala con Froome

Il Tour da vincere e il sogno di un paese a misura di bici

Il miliardario canadese Sylvan Adams ha portato la Israel nel World Tour. Ora vuole far pedalare il suo paese d'adozione Nel 2015 la squadra era composta da sconosciuti. Ora al fianco del campione inglese c'è gente tosta

L'Israel Cycling Academy partì dal basso: categoria Continental, terza serie del ciclismo mondiale. Erano in quattordici, avevano le maglie e le bici nere, erano tutti giovani, nessuna vittoria in bacheca a eccezione del polacco Bartosz Warchol, una. Però se la cavarono, vinsero quattro corse, pedalarono sempre all'attacco. Si fecero notare. E si fecero notare soprattutto da Sylvan Adams, che non appena venne a conoscenza del progetto decise di investire tempo e denaro, perché "per cambiare le cose serve un modello e un modello ha bisogno di una vetrina". E il ciclismo professionista è la miglior vetrina per far capire alla gente "la magia della bici". Il perché lo spiegò in un'intervista al Jerusalem Post: "Il Tour de France è visto da 3,5 miliardi di persone nel mondo. È il terzo più grande evento televisivo al mondo dopo i Giochi Olimpici e la Coppa del Mondo. E tutta questa gente vedrà i colori d'Israele sulla maglia dei nostri atleti. E vedendo quei colori magari inizieranno a informarsi e a capire che c'è tanto da scoprire da noi". Lo stesso ragionamento che lo ha spinto a impegnarsi per organizzare la grande partenza del Giro d'Italia nel 2018 e l'Eurovision l'anno dopo. Un impegno che lo ha messo al centro di accuse di utilizzare lo sport e i grandi eventi per cercare di ripulire l'immagine di Israele. Accuse a cui ha sempre risposto con un sorriso, sostenendo che non c'è nulla da ripulire, al massimo c'è da comprendere, capire. "In Israele gli omosessuali non sono perseguitati, a Tel Aviv c'è l'unico Gay Pride in medio oriente. Ma lo chiamano pinkwashing. Quando abbiamo inviato una sonda sulla luna era spacewashing? Se produciamo innovazione tecnologica è techwashing? Tutto quello che facciamo è lavare? Maddai, stiamo solo vivendo!".
   Al Tour de France la sua squadra, ora Israel Start-Up Nation, c'è arrivata quest'anno, dopo essere riuscita ad ottenere la licenza World Tour. Diverse fughe centrate, qualche piazzamento tra i dieci grazie alle volate del francese Hugo Hofstetter. A ottobre al Giro è arrivata la prima vittoria in una corsa World Tour grazie a una fuga dell'inglese Alex Dowsett. La seconda è arrivata dodici giorni dopo alla Vuelta a Espafia grazie a Daniel Martin. Nove vittorie in totale.
   Il prossimo anno sarà quello, almeno secondo le intenzioni della dirigenza, di una nuova svolta, di un'ulteriore evoluzione: la caccia grossa al grande risultato.
   Molto girerà attorno alla voglia di riscatto di Chris Froome dopo un anno perso a ricercare una condizione accettabile. Una caduta durante la ricognizione sul percorso della cronometro del Giro del Delfinato del 2019 aveva messo a rischio la sua carriera: fratture a femore, costole, vertebre e gomito. Poteva essere la fine. Lui è però risalito in bicicletta e, dato che non andava abbastanza forte per fare il capitano, si è messo a fare il lavoro sporco: gregario al servizio di Richard Carapaz alla Vuelta.
   "Non avrei mai potuto immaginare che un corridore come Chris Froome sarebbe stato disponibile a vestire i nostri colori", ha ammesso Adams. "È come se un club israeliano avesse ingaggiato Messi. Quando abbiamo saputo che non avrebbe rinnovato con la Ineos, non abbiamo aspettato un secondo", ha detto a VeloNews. Il paragone non è azzardato. Il keniano d'Inghilterra è il corridore in attività ad aver vinto più grandi giri: sette. Come Coppi, Indurain e Contador. Meglio di loro hanno fatto solo Anquetil, otto, Hinault, dieci, e Merckx, undici.
   Adams e Froome si erano conosciuti ne1 2018 alla partenza del Giro d'Italia da Gerusalemme. C'era stata sintonia, riconoscevano nell'altro la stessa passione per la bicicletta. Per quasi due anni si sono sentiti poco, poi, quando le dinamiche contrattuali hanno permesso al keniano d'Inghilterra di pensare a un futuro diverso da quello che (non) gli proponeva la Ineos, hanno riallacciato i contatti trovando in poco tempo un accordo. Un anno di contratto rinnovabile sino a quando avrà voglia di correre. Adams a Froome ha chiesto solo una cosa: ostinazione per tornare il migliore. Froome ad Adams ha chiesto solo precisione e qualche gregario all'altezza della missione, la solita: cercare di vincere il quinto Tour de France.
   La Israel Start-Up Nation si è data da fare. Ha confermato i suoi migliori atleti, ha ingaggiato gente adeguata alla sfida, corridori tosti. Alessandro De Marchi e Patrick Bevin, Michael Woods e Darel Impey, Carl Fredrik Hagen e un ragazzino potrebbe diventare uno dei protagonisti del futuro: Sebastian Berwick. E qualche sorpresa potrebbe ancora arrivare.
   E poi c'è Sep Vanmarcke. Il belga, ingaggiato per le classiche del pavé, è da anni tra i grandi protagonisti sulle pietre, ma che ancora non è riuscito a vincere una classica monumento. L'Israel l'ha messo sotto contratto perché "Roubaix e Fiandre non sono corse, sono un concentrato di passione e meraviglia. Toccano le corde del cuore", ha detto Adams a Sporza.
   C'è sempre un dialogo biunivoco tra le ragioni sportive ed economiche del miliardario canadese e quelle sentimentali, quasi fosse impossibile per lui distinguerle. "Non sono più un uomo d'affari - ha ammesso sempre a Sporza -sono solo una persona che insegue un sogno. E chi ha un sogno non può sfuggire ai sentimenti. Sogno un Israele a pedali. Spero che i miei uomini possano essere gli alfieri di questo cambiamento".
   
(Il Foglio, 21 novembre 2020)


Ciclismo - Goldstein e Shapira sono i nuovi campioni di Israele

Omer Shapira e Omer Goldstein
di Francesca Monzone

Lo Stato di Israele ha il suo nuovo campione nazionale: si tratta di Omer Goldstein che oggi a Beit Guvrin ha tagliato per primo il traguardo, conquistando il titolo davanti a Eytan Levy (Israel Cycling Academy) e al campione uscente Guy Niv. Nella prova femminile la vittoria è andata a Omer Shapira della Canyon Sram Women Team, che ha conquistato il suo quarto titolo consecutivo.
Il ventiquattrenne Goldstein quest'anno ha partecipato alla Vuelta di Spagna, dove è stato un valido supporto per Dan Martin che ha chiuso al quarto posto della classifica generale.
«Conquistare la maglia di campione nazionale è sempre stato il mio sogno - ha detto Goldstein -. Sono veramente molto emozionato, non riesco a credere di essere finalmente riuscito a realizzare questo mio desiderio».
I campionati nazionali in Israele, così come in tanti altri Paesi, sono stati posticipati a causa dell'emergenza legata al Covid-19: erano in programma per il nel mese di giugno, poi la pandemia ha portato allo slittamento a fine stagione.
La corsa si è svolta a Beit Guvrin, una zona collinare tra Tel Aviv e Gerusalemme, con un percorso molto tecnico. Guy Niv (Israel Start Up Nation) è stato il primo ad andare in fuga, anticipando i suoi avversari e raggiungendo un vantaggio massimo di 2 minuti. I suoi avversari lo hanno lasciato andare, recuperandolo poi nel quarto giro.
Successivamente è stata la volta del velocista Itamar Einhorn (Israel Start Up Nation), che ha tentato una fuga solitaria, ma anche il suo tentativo è stato annullato dal gruppo. Nell'ultimo passaggio sulla zona collinare, Omer Goldstein ha deciso di mettere in atto il suo piano, sorprendendo i suoi avversari, si è lasciato immediatamente alla spalle Devo (Israel Cycling Academy) con Eitan Levy e Guy Sagiv. Nel finale Goldstein è stato senza dubbio il più forte, andando così a prendere il suo primo titolo nazionale.
A chiudere la giornata dei campionati nazionali, il successo di Omer Lahav, atleta della Israel Cycling Academy, nella cateroria Under 23.

(Tuttocibiweb.it, 21 novembre 2020)


Il presidente Rivlin ai capi cristiani: "libertà di religione e di culto valori da difendere"

di Simone Incicco

"La sicurezza delle comunità cristiane e dei Luoghi Santi è molto importante per noi. È necessario che i cristiani di Terra Santa rispettino le restrizioni durante le prossime festività natalizie": è la raccomandazione del presidente israeliano Reuven Rivlin che il 18 novembre scorso ha incontrato presso la sua residenza, a Gerusalemme, i capi delle denominazioni cristiane, il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Teofilo III, il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, il patriarca melkita Youssef Matta, e il vice patriarca armeno di Gerusalemme Sevan Gharibian. Si è trattato, secondo quanto riferito dal portavoce della Presidenza israeliana, di un incontro preparatorio prima del Natale al quale hanno preso parte anche membri del Cogat, il Coordinamento delle attività governative nei Territori, e il Capo di stato maggiore dell'amministrazione civile, colonnello Eyal Ze'evi.

 "Valori chiave"
  Aprendo il suo intervento Rivlin ha voluto salutare il nuovo patriarca latino, mons. Pizzaballa, ringraziandolo "per i tanti anni di servizio trascorsi a costruire ponti con le denominazioni cristiane in Israele". Riferendosi alle restrizioni causate dal Coronavirus, Rivlin ha sottolineato che
"la libertà di religione e di culto sono valori chiave nello Stato di Israele.
Devono essere protetti e difesi in ogni momento. Molto presto celebreremo le festività natalizie cristiane. È molto importante, in questo tempo, che i cristiani di Terra Santa rispettino le restrizioni".
"La sicurezza delle comunità cristiane e dei Luoghi Santi in Israele e nell'Autorità Palestinese, in particolare a Betlemme, sono molto importanti per noi".
Dal presidente israeliano è giunto anche un plauso per l'iniziativa "Terra dei monasteri" all'interno della quale si muove il progetto di riapertura del sito del battesimo di Gesù. Lo scorso ottobre la Custodia di Terra Santa ha preso ufficialmente possesso, dalle autorità israeliane, della chiesa di San Giovanni Battista, situata proprio nella zona di Qasr Al-Yahud sulle rive del fiume Giordano. Il sito sarà accessibile e fruibile dopo un lavoro approfondito di recupero e valorizzazione dell'intera proprietà attraverso la creazione di spazi di preghiera per i pellegrini. "Questo progetto è una buona opportunità per promuovere il dialogo tra israeliani e palestinesi", ha detto Rivlin che ha auspicato, a riguardo, l'impegno del mondo cristiano e dei Paesi della regione.

 Il metodo di san Francesco
  Un auspicio fatto proprio dal Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, che al Sir commenta l'incontro con il presidente di Israele: "Abbiamo convenuto che il progetto di riapertura del sito del Battesimo, in accordo con la Giordania e i palestinesi, possa diventare un simbolo di cooperazione e di pace. Il presidente Rivlin ci tiene molto che le chiese possano tornare in pieno possesso dei luoghi e che i pellegrini cristiani possano tornarvi in pellegrinaggio". Tra gli altri temi trattati durante il meeting anche quello della gestione delle prossime festività natalizie: "La speranza - dice Patton - è che possano essere celebrate nel pieno rispetto delle regole e delle restrizioni anti Covid.
Da parte nostra, abbiamo chiesto che il numero dei fedeli ammessi alle liturgie sia commisurato, proporzionato allo spazio celebrativo e non rigido. Ci sono spazi ampi che consentono di avere più fedeli senza, per questo, derogare alle regole.
A tale riguardo - rimarca il Custode - è importante il dialogo tra Israele e Palestina che pare sia ripreso almeno sul piano della sicurezza e sanitario. Questo dovrebbe facilitare lo spostamento delle persone, anche di quelle che vivono in Cisgiordania, sia per motivi di lavoro in Israele che per le feste natalizie". Per quanto riguarda Betlemme e la tradizionale messa di Mezzanotte, rimarca padre Patton, "bisogna dire che in Palestina non ci sono restrizioni sui numeri come in Israele dove sono vigenti limiti per chiese, moschee e sinagoghe. In Palestina tocca a noi attuare restrizioni per evitare contagi". L'ingresso solenne del Custode, il 28 novembre, a Betlemme e quello, a Gerusalemme il 4 e 5 dicembre, del nuovo Patriarca, mons. Pizzaballa, saranno veri banchi di prova prima della messa di Mezzanotte". Evitare affollamenti sarà quindi importante anche alla luce del rilascio, da parte di Israele, dei permessi natalizi ai cristiani palestinesi necessari per raggiungere i luoghi santi come Gerusalemme e Betlemme. "Negli ultimi anni Israele ha sempre concesso i permessi richiesti, attraverso il Cogat, permettendo in alcuni casi la partenza di persone con passaporto palestinese dall'aeroporto 'Ben Gurion' a Tel Aviv.
È fondamentale però mantenere un atteggiamento e uno spirito di dialogo.
Quando si dialoga le possibilità aumentano, diversamente, se si chiudono le porte, queste si azzerano. Il metodo di san Francesco d'Assisi, che dialogò con il Sultano d'Egitto Al-Kamil nel 1219, mostra di funzionare sempre".

(Ancora On Line, 21 novembre 2020)


Netanyahu si sottopone con successo a check-up medici

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato sottoposto con successo a un check-up medico che ha comportato un periodo di sedazione ed è tornato a svolgere le sue mansioni. Lo ha sottolineato il portavoce di Netanyahu, Ofir Gendelman, ai media arabi. Il ministro della Difesa e vicepremier Benny Gantz è stato temporaneamente capo del governo ad interim durante il periodo dei controlli medici di Netanyahu. "Il primo ministro Netanyahu ha superato con successo l'esame di routine del suo apparato digerente questa mattina [venerdì] all'ospedale Shaare Zedek di Gerusalemme. Durante l'esame, due polipi trovati nel colon sono stati completamente rimossi. Il primo ministro è in ottimo stato di salute e è tornato al lavoro", ha scritto Gendelman su Twitter.
   Durante l'anno, il premier ha superato vari check-up medici, tra cui il controllo dei livelli di zucchero nel sangue, il colesterolo e il ferro, nonché delle funzioni del fegato e dei reni. Secondo il medico personale di Netanyahu, i risultati dei controlli erano del tutto normali, ha aggiunto il portavoce. Israele ha avuto tre elezioni anticipate consecutive in meno di un anno prima che fosse raggiunto un accordo tra il partito Likud di Netanyahu e l'alleanza Blu e Bianco di Gantz per formare un governo di coalizione. In base all'accordo, la posizione del primo ministro israeliano è diventata a rotazione, con la prima metà del mandato affidata a Netanyahu e la seconda metà che inizierà il prossimo novembre con Gantz.

(Shalom, 20 novembre 2020)


"Nella mia vita ho avuto molto. Cerco di restituire, nel nome d'Israele"

di Adam Smulevich

Sylvan Adams
Vuoi realizzare un sogno? Chiedi a Sylvan Adams. Nato nel 1958 in Quebec, da qualche anno cittadino israeliano, questo imprenditore e filantropo dall'entusiasmo contagioso ne ha raggiunti già parecchi. Appassionato di sport e in particolare di ciclismo, ha portato una squadra con il nome e i colori di Israele a competere nelle più importanti gare internazionali. Il suo impegno abbraccia vari campi: dalla scienza all'intrattenimento. Ma è sui pedali che vuole fare l'impresa più grande: vincere il Tour de France. La stagione ciclistica che va concludendosi gli ha già regalato alcune gioie, con vittorie di tappa sia al Giro d'Italia che alla Vuelta.
  Solo un antipasto però di quel che si aspetta nel 2021: Chris Froome in maglia gialla sul traguardo di Parigi.

- Fino a pochi anni fa in Israele il ciclismo non era troppo popolare. Adesso ha una squadra nel World Tour e la possibilità di lottare per il traguardo più ambito. Qual è il segreto di questo miracolo sportivo?
  Pianificazione, concretezza, entusiasmo. Ce lo ha insegnato Theodor Herzl: nessun traguardo è irraggiungibile. La Israel Cycling Academy, oggi Israel Start-Up Nation, nasce un po' come una scommessa. Il salto di qualità è arrivato nel 2018, con la prima partecipazione al Giro d'Italia e l'organizzazione di una storica partenza da Gerusalemme.

- L'anno prossimo il leader della Israel Start-Up Nation sarà Chris Froome. Quattro volte vincitore del Tour, uno dei più grandi ciclisti di sempre. Naturale che le aspettative siano tante. Già questo autunno ha detto qualcosa. Vittorie di tappa al Giro e alla Vuelta, molte fughe, la voglia di lasciare sempre un segno. È sorpreso?
  In realtà no, fa tutto parte di un percorso di crescita. Mi aspettavo anzi qualcosa di più dal nostro primo Tour. Purtroppo la vittoria lì non è arrivata, anche se qualche soddisfazione ce la siamo tolta. Come la maglia di "più combattivo" di giornata assegnata a un nostro corridore. Un riconoscimento molto ambito.

- Come ci si prepara a una sfida così impegnativa come il Tour?
  Naturalmente, come tutti, scontiamo il clima di grande incertezza. Programmare è un verbo molto difficile in tempo di pandemia. Resto però fiducioso. Tutti i nostri atleti si stanno allenando bene. Li seguiamo con attenzione.

- Oltre al Tour c'è una speranza di vedere Froome anche al Giro?
  Allo stato attuale no. Con Chris abbiamo previsto di correre Tour e Vuelta. Il Giro potrebbe entrare come opzione solo nel caso in cui il calendario della stagione fosse pesantemente stravolto. Nulla può essere escluso. Ma ad oggi è improbabile.

- Lei stesso è un ciclista più volte vincitore di titoli nelle categorie over. Tra le finalità che si era posto, lanciandosi in questa avventura, c'era quello di sensibilizzare un numero crescente di israeliani. Di farli avvicinare alla bicicletta. Le sembra di esserci riuscito?
  Direi di sì. La nostra squadra sta catalizzando un interesse crescente. Quando vinci e hai delle belle storie da raccontare è più facile entrare nei cuori della gente.

- Tra le collaborazioni che caratterizzano il vostro impegno in questo sport c'è quella con il Centro Peres per la Pace. Come a dire che non c'è sport senza valori.
  La nostra visione è questa, da sempre. Non a caso tutti i nostri atleti vengono proclamati "ambasciatori per la pace". Non uno slogan vuoto, ma l'invito ad assumersi una responsabilità che vada oltre la mera dimensione sportiva. È un qualcosa in cui credo. A breve spero di potervi annunciare qualcos'altro di molto interessante.

- Ci può anticipare qualcosa?
  Posso solo dire che sto lavorando a qualcosa che mette in gioco uno dei Paesi che hanno siglato gli "Accordi di Abramo".

- Riguarda il mondo del calcio?
  No, non è uno sport che mi interessa particolarmente.

- Lo stesso non troppo tempo fa ha portato un certo Lionel Messi in Israele.
  Sì, è vero. Un'iniziativa molto importante dedicata ai bambini africani che non possono essere curati nel Paese d'origine. In Israele sono ospedalizzati e operati. Salviamo loro la vita.

- Lei ha spesso detto di avere un modello: suo padre Marcel. Sopravvissuto alla Shoah, eroe della guerra di indipendenza di Israele, è stato un vero self-made man.
  È proprio così. Mio padre, che ci ha da poco lasciati dopo aver tagliato il traguardo dei 100 anni, è stato un uomo straordinario. Da lui ho imparato che bisogna saper rendere alla società il bene che si riceve. E soprattutto che non bisogna mai piangersi addosso. Mai e poi mai. Da lui e da mia madre, entrambi di origine rumena, ho anche appreso l'importanza del sionismo. Di battersi per quella grande causa che è Israele. Io cerco di unire le due cose: restituire qualcosa agli altri, e farlo nel nome di Israele.

- Tra le imprese più significative che ha sostenuto c'è il tentativo di allunaggio compiuto da Israele nel 2019. Un risultato che sembrava a portata di mano e che si è infranto sul più bello, a un passo dalla meta.
  Mi piace un po' scherzarci sopra: sulla luna alla fine ci siamo arrivati, anche se in mille pezzi. Ci riproveremo però a breve, con lo stesso scienziato che ha realizzato il progetto originario ma con l'intenzione di implementarlo ulteriormente. Non sarà quindi soltanto un lancio, ma l'avvio di uno studio più approfondito. Ci riproveremo. E magari stavolta il finale sarà diverso. Sono ottimista.

(Pagine Ebraiche, 20 novembre 2020)


Il fondamentalismo religioso nel «legame» fra Usa e Israele

Maya Zinshtein racconta «Til Kingdom Come», il suo film in programma all'Idfa di Amsterdam.

di Giovanna Branca

Davanti a una piccola chiesa di Middlesboro, in Kentucky, sventola la bandiera israeliana, mentre al suo interno una grande stella di David si staglia sul crocifisso. A guidare la congregazione è il pastore Boyd Bingham, un cristiano evangelico che ha fatto della sua chiesa - in una delle regioni più povere del Paese - uno dei principali donatori alla Fellowship of Christians and Jews. Un'unione «opportunistica» di evangelici e israeliani, con un'agenda politica mossa dal fanatismo religioso, indagata da Maya Zinshtein nel suo 'Til Kingdom Come', in programma in questi giorni all'International Documentary Filmfestival di Amsterdam.
Sul versante israeliano il film segue Yael Eckstein. la vicepresidente e figlia del fondatore della Fellowship che ogni anno raccoglie milioni di dollari da donatori evangelici statunitensi, di cui Trump si è circondato nella sua amministrazione - dal Segretario di Stato Pompeo al vicepresidente Pence - e che costituiscono il 25% dell'elettorato americano. «Ci sono tre cose che abbiamo chiesto a Trump. Lo spostamento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, una stretta sulle leggi sull'aborto e la Corte suprema» dice un membro dell'advisory board cristiano evangelica della presidenza. Tutte richieste che verranno esaudite puntualmente - fino all'elezione della giudice cattolica popolare fra gli evangelici Amy Coney Barrett. E anche eccedute con l'«accordo di pace» siglato da Trump e Netanyahu, ben lieto - come osserva Zinshtein - «di rimpiazzare il sostegno a Israele degli ebrei americani con quello dei cristiani evangelici». E poco importa, in questo scambio molto politico, se gli evangelici «amano» Israele solo nella misura in cui riconoscono nella sua conquista integrale della Terra Santa l'avverarsi della profezia che porta al giorno del giudizio - in cui l'inferno attende tutti gli ebrei non convertiti all' «unica» religione.

- Come ha scelto di seguire il pastore Bingham e Yael Eckstein?
  In Israele c'è una conoscenza molto superficiale dei cristiani evangelici e delle loro attività. Quando si è insediata l'amministrazione Trump ho cominciato a documentarmi su di loro a causa del grandissimo contributo che avevano dato alla sua elezione, e per il coinvolgimento che hanno nel nostro Paese. Ma non volevo fare un film su di loro, quanto sul legame che hanno con Israele, e la cosa più naturale da fare è stata rivolgermi alla Fellowship of Christians and Jews che è la più grande organizzazione rivolta a questa «unione». È importante capire come lavorano: comprano mezzi di informazione in tutti gli Stati Uniti. ci spendono milioni. li si vede spesso in tv. La maggior parte delle donazioni sono individuali, ma ho scoperto l'esistenza di una chiesa che attraverso i contributi di tutta la congregazione era fra i principali finanziatori dell'associazione. Li ho conosciuti durante il loro viaggio annuale in Israele, e pochi mesi dopo sono approdata in Kentucky: volevo raccontare la storia di queste persone, che nella loro vita hanno a malapena conosciuto un solo ebreo, e che donano a noi i loro pochi risparmi. Mi sono interrogata su questo amore incondizionato che proclamano per il popolo ebraico. A cosa è dovuto? Da ebrea, penso che se qualcuno ti ama per il semplice fatto di essere ebreo ci sarà sempre qualcuno pronto a odiarti per lo stesso motivo. Sono due facce della stessa medaglia.

- Dal film emerge infatti che degli antisemiti, convinti della punizione del popolo ebraico nel giorno del giudizio, vengono trattati come i migliori amici di Israele dallo stesso governo israeliano
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  Non credo che tutti loro siano antisemiti, è una situazione molto complessa. Ma non si può ignorare il fatto che il nostro primo ministro sia molto più vicino ai cristiani evangelici che agli ebrei americani, che per la maggior parte sono democratici e a favore dei due Stati. Proprio oggi il Segretario di stato uscente Mike Pompeo era in visita in una colonia israeliana e ha detto che per la legge Usa i prodotti delle colonie sono considerati «made in Israel: una svolta gravissima nella politica americana. Netanyahu ha scelto di coltivare questi rapporti, e crea un enorme problema per il Paese stesso sostenendo apertamente una fazione politica. Da persona laica non mi interessa tanto la profezia sul giorno del giudizio, ciò che mi preoccupa è che il governo sostenga persone per cui la violenza in questo Paese è un segno divino.

- Nel film un manifestante a favore dell'annessione della Cisgiordania chiama lo stato palestinese «terrorista… , mentre lo strapotere dei cristiani evangelici dimostra come una visione religiosa fondamentalista si sia insinuata proprio nelle istituzioni democratiche di Israele e Stati Uniti.

  Oltre il legame fra evangelici ed ebrei questo film riguarda proprio il ruolo della religione nel 21esimo secolo. Ci sono due leader «secolari»: Trump e Netanyahu - e dietro di loro c'è un potere religioso, fondamentalista, che li spinge verso politiche mutuate dalle sacre scritture. Viviamo in un mondo laico, ma se si guarda oltre la superficie è spaventoso il ruolo della religione nella politica. Gli Stati Uniti hanno spostato l'ambasciata, tagliato gli aiuti ai palestinesi, fatto l'«accordo del secolo». E in questo una grande influenza la hanno avuta delle persone mosse da motivi religiosi, per le quali il popolo ebraico deve avere tutte le terre promesse ad Abramo da Dio. Quando siamo entrati alla Casa Bianca per la conferenza di Trump e Netanyahu sull'accordo di pace» c'erano ovunque pastori, religiosi, proprio le persone che avevo incontrato durante la lavorazione del film.

- Cosa pensa che cambierà con l'elezione di Biden?

  Sicuramente gli evangelici avranno molto meno potere, ma non penso che spariranno: l'oceano rosso repubblicano sulla mappa degli Stati Uniti è sempre lì. La presidente della Fondazione per la pace nel Medio Oriente Lara Friedman mi ha detto una cosa che trovo molto giusta: il nostro più grande sbaglio quando abbiamo vinto Roe v. Wade (la sentenza della Corte suprema Usa che ha sancito la libertà di scelta in merito all'aborto, ndr) è stato non pensare alle persone che avevano perso. E che avrebbero continuato a combattere strenuamente per ribaltarla - una cosa a cui adesso ci troviamo molto vicini. Questi «poteri» non scompariranno insieme a Trump. C'è stato un momento, con la sua elezione, in cui tutto il loro lavoro è venuto alla superficie. Ed è evidente che torneranno. Per questo è importante conoscerli.

(il manifesto, 20 novembre 2020)



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Tre cose che nel mondo ci sono

di Marcello Cicchese

Oggi si discute su tutto, ma le domande che prima o poi si ripresentano in forma seria sono quelle che riguardano l'esserci. C'è o non c'è? E naturalmente la più semplice e diretta è quella che riguarda Dio. C'è o non c'è? La molteplicità delle risposte, accompagnate da aggiunte, precisazioni, digressioni, nuove domande, è potenzialmente infinita perché sempre aggiornata.
  Vorrei indicare soltanto tre cose, tutte discutibilissime e discusse, ma di cui non si può negare che nel mondo ci siano.

La Bibbia
La prima è la Bibbia. Si può negare che ci sia Dio, Gesù, il Diavolo, il paradiso, l'inferno ed altro ancora, ma l'esistenza di questo libro nessuna persona ragionevole oserebbe metterla in dubbio. Da secoli Bibbia c'è. E nonostante i tentativi di distruggerla, continua ad esserci.

Israele
La seconda, legata indissolubilmente alla prima, è Israele. In questo nome si comprendono gli ebrei, la loro storia, la loro presenza come nazione nel passato e nel presente. Si possono dare le spiegazioni più varie sugli ebrei, ma alla fine ogni persona ragionevole non può che ammettere, qualcuno forse con rammarico, che gli ebrei ci sono.

La Diaspora di Gesù
La terza, legata alle prime due, ha un nome di mia scelta non omologato: la Diaspora di Gesù. Con questa espressione se ne sintetizza un'altra più completa che potrebbe essere "Diaspora dei testimoni di Gesù". Con ciò si vuole indicare qualcosa che è legato al nome di Gesù, ma è anche abbastanza concreto da non poterne mettere in discussione l'esistenza.
  Un laico forse avrebbe detto "cristianità", ma è un termine intellettualistico troppo astratto per indicare una cosa. Qualcun altro avrebbe forse detto "Chiesa Cattolica Romana" (CCR), e questo effettivamente è qualcosa di più concreto: è una cosa che trova visibilità nella Basilica di San Pietro a Roma e nel faccione sorridente dell'attuale papa argentino. "Noi ci siamo, sono io che ve lo dico", ricorda continuamente al mondo Jorge Mario Bergoglio da tutte le pedane su cui riesce a salire. E questo è vero, ma il motivo è simile a quello che alcuni usano per spiegare la permanenza degli ebrei: l'istituzione della CCR resta in piedi affinché un giorno sia mostrato pubblicamente, attraverso il suo crollo rovinoso, quale sarà la fine di tutti coloro che hanno profanato e strumentalizzato il nome di Gesù.
  Al di fuori dell'istituzione politico-religiosa sedicente cristiana, è sempre stata presente nel mondo una diaspora di testimoni di Gesù che ha assunto forme diverse nell'avvicendarsi dei momenti storici, e spesso è caduta sotto la persecuzione dell'istituzione religiosa con l'accusa di eresia. La particolarità di questa cosa sta appunto nella inspiegabilità della sua sussistenza, dovuta alla assenza di una motivazione umanamente convincente diversa dal fatto che volevano testimoniare di Gesù perché spinti dal Signore a predicare il suo nome nella forma in cui si sentivano chiamati a farlo in quel momento.
  In questo tempo una delle "strane" forme in cui si manifesta la presenza della diaspora di Gesù è il fatto che una parte di essa si sente chiamata ad esprimere sostegno allo Stato ebraico, così come oggi si presenta. Si sono date e si daranno ancora tante diverse spiegazioni di questo strano fenomeno, ma sono davvero convincenti? Fondamentalisti, si dice. E con ciò si spiega tutto? E' come quando si dice "terroristi". Saprebbe qualcuno dare una definizione sufficientemente chiara e precisa di "terrorista", atta a spiegare in modo convincente i vari casi in cui essa viene usata?
  Dice l'autrice dell'articolo precedente:
    «Mi sono interrogata su questo amore incondizionato che proclamano per il popolo ebraico. A cosa è dovuto? Da ebrea, penso che se qualcuno ti ama per il semplice fatto di essere ebreo ci sarà sempre qualcuno pronto a odiarti per lo stesso motivo. Sono due facce della stessa medaglia.»
  Bene, ma qual è la risposta alla domanda? In che consiste la medaglia che ha due facce? Lei non lo dice, ma è esattamente così. La medaglia a due facce è proprio Israele, che essendo un'espressione della volontà sovrana di Dio attira su di sé o amore o odio. Si è molto riflettuto sulle ragioni dell'odio, e i trattati sull'antisemitismo sono innumerevoli come le stelle del cielo e la sabbia che è sul lido del mare, ma si è cercato mai di indagare sul "mistero" dell'incomprensibile amore che certi non ebrei hanno per il popolo e la nazione di Israele? Chi vuol farlo, provi a indagare seriamente su quella particolare cosa che è la Diaspora di Gesù.
  E per fare questo gli strumenti indispensabili sono proprio le altre due cose: la Bibbia e Israele.

"Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora "

(Notizie su Israele, 20 novembre 2020)


Insediamenti e Golan, l'ultimo atto di Pompeo

di Sharon Nizza

Mentre la luna di miele tra governo Netanyahu e amministrazione Trump sta per volgere al termine, Mike Pompeo, nella sua ultima visita in Israele da segretario di Stato, infrange i pochi tabù rimasti: ieri, nel giro di qualche ora, come a indicare la corsa contro il tempo in vista del 20 gennaio, ha creato una nuova serie di precedenti nell'impostazione della politica americana nello scenario israeliano. Ha annunciato due nuovi provvedimenti: il movimento Bds — «un cancro » l'ha chiamato — sarà definito antisemita e i prodotti degli insediamenti israeliani esportati negli Usa saranno etichettati made in Israel.
L'agenda di Pompeo ha poi incluso due tappe anch'esse senza precedenti per un capo della diplomazia: seppur in una visita "privata", si è recato nell'insediamento di Psagot, nei pressi di Ramallah, dove ha visitato una cantina che gli ha dedicato un vino in omaggio alla sua decisione dell'anno scorso di non considerare più illegali gli insediamenti ebraici. Una mossa speculare e contraria all'ultimo atto dell'amministrazione Obama in Medio Orientale nel dicembre 2016, quando, non applicando il veto, fece passare al Consiglio di Sicurezza Onu la Risoluzione 2334 che definiva contrari al diritto internazionale gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est. A fine giornata, Pompeo è diventato la prima autorità americana a dare corpo a un'altra eredità Trump, il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan. Le ha visitate accompagnato dall'omologo Gabi Ashkenazi e da Avigdor Kahalani, il generale che ribaltò a favore d'Israele le sorti della Guerra del Kippur su quel fronte. «Da cadetto, 35 anni fa, ho studiato questo luogo. Stando qui non si può negare che sia parte di Israele», ha detto Pompeo, dopo aver discusso del recente attacco lanciato da Israele in Siria contro obiettivi iraniani. Così, oltre alla raffica di sanzioni contro Teheran, Pompeo lascia in eredità un'altra serie di provvedimenti volti a condizionare il nuovo corso mediorientale del presidente eletto.

(la Repubblica, 20 novembre 2020)


Netanyahu: "Apprezzo molto il dialogo con Putin"

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato di apprezzare molto il dialogo con il presidente russo Vladimir Putin: con lui al Cremlino le relazioni tra i due Paesi si stanno sviluppando come mai prima, ha evidenziato il capo del governo israeliano.
   "Apprezzo molto il mio dialogo con il presidente Putin, un dialogo che serve gli interessi di entrambi i nostri Paesi ed è molto apprezzato da tutti in Israele. E sono grato per il rispetto e il sostegno che il presidente Putin dà alla comunità ebraica russa: sotto la sua guida, le relazioni tra Israele e Russia diventano sempre più forti", ha dichiarato il leader israeliano.
   Netanyahu ha poi messo in risalto la cooperazione russo-israeliana nel contesto della pandemia di coronavirus.
   "Esperti israeliani e russi stanno cooperando nella lotta contro il coronavirus. I buoni rapporti tra Israele e Russia sono importanti per noi, direi addirittura che sono di fondamentale importanza", ha affermato in un discorso ai partecipanti alla maratona di beneficenza online del Congresso ebraico russo.
   Nell'ambito dell'evento al premier israeliano è stato consegnato il premio Global Influence Award, uno speciale segno di riconoscimento alle persone il cui lavoro ha avuto un grande impatto sul mondo.
   La Russia è un membro del Quartetto per il Medio Oriente. Per molti anni Israele fu un santuario per molti ebrei russi; questo si rivelerà particolarmente vero durante l'Aliyah negli anni 1970 e quella che prese il via nel corso dei primi anni 1990. Si trovarono su due fronti diametralmente opposti durante la Guerra fredda; tuttavia i rapporti presero a migliorare significativamente dai primi anni 2000 in poi, con l'elezione del più filo-israeliano Vladimir Putin e nel 2001 con l'elezione del più filo-russo Ariel Sharon.
   Israele è parte integrante del mondo russofono e viene considerato l'unica parte del mondo abitata stabilmente dai russi al di fuori dell'ex Unione Sovietica. La lingua russa è la terza più parlata in Israele, dopo la lingua ebraica e la lingua araba, ed ha il terzo maggior numero di parlanti russi al di fuori degli ex paesi sovietici il quale è infine il più alto in proporzione alla popolazione totale.
   Oltre 100.000 cittadini israeliani vivono in Russia, con 80.000 di essi residenti solo a Mosca, mentre centinaia di migliaia di cittadini russi risiedono in Israele il quale da parte sua comprende circa 1,5 milioni di cittadini nativi di lingua russa.

(Sicurezza Internazionale, 20 novembre 2020)


Attacchi israeliani multipli in Siria contro obiettivi iraniani

L'attacco israeliano come risposta al tentativo di infiltrazione dal Golan sventato nei giorni scorsi

La notte scorsa Israele ha lanciato attacchi multipli in Siria contro obiettivi iraniani e siriani dopo che nei giorni scorsi iraniani e siriani avevano tentato un attacco a Israele attraverso le Alture del Golan.
Secondo quanto riferito da un portavoce dell'IDF ad essere colpiti sarebbero stati alloggiamenti per alti ufficiali posizionati vicino all'aeroporto di Damasco, nonché caserme per le truppe che però ospitavano iraniani.
Gerusalemme ha specificato che in totale sono stati colpiti otto obiettivi. Di questi la metà nell'area di Damasco, mentre gli altri erano lungo la linea di confine nel Golan.
Gli obiettivi di Damasco sarebbero alloggiamenti per alti ufficiali della Forza Quds, l'unità d'elite delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC).
Secondo fonti locali ci sarebbero almeno 11 vittime e decine di feriti. Tuttavia l'agenzia governativa siriana SANA afferma che "solo" tre militari siriani avrebbero perso la vita mentre non si ha notizia di vittime o feriti tra il personale delle IRGC.
È stato chiesto al portavoce dell'IDF, Hidai Zilberman, se a questo punto non ci si aspettasse un attacco di ritorsione da parte iraniana o siriana. Zilberman ha risposto che le forze di difesa israeliane sono pronte per qualsiasi scenario.

(Rights Reporter, 19 novembre 2020)


E Israele scopre la Puglia vegana

Una serie Tv dedica le prime tre puntate alla regione e ai suoi piatti: dal Salento alla Terra di Federico ll

 
Focaccia vegana pugliese
La Puglia, con Sardegna, Toscana, Romagna e Milano, è lo scenario della prima serie vegana internazionale in Israele, primo paese vegano al mondo. Un format TV che racconta territorio, cultura, costume, tradizioni e, soprattutto, tanto food nelle più svariate forme locali ed esclusivamente in versione plant-based, con il tocco creativo in cucina della chef talent Nadia Ellis, americana, milanese di nascita, che in Israele è la prima host vegana di cucina italiana. Il format verrà trasmesso a partire da fine novembre network televisivo israeliano Ananey Communications sui canali primari Travel Channel, Food Channel e piattaforme connesse.
   La Puglia è stata scelta come protagonista di tre puntate della serie tv internazionale grazie all'attività di educational tour di Pugliapromozione e alle relazioni stimolate dall'ambasciatrice della Puglia, Nancy dell'Olio.
   Queste le tappe pugliesi di Nadia Ellis: Lecce con lo chef Simone De Siato; a seguire Nardò, Santa Maria al Bagno, Gallipoli e Supersano presso la masseria Le Stanzie. Quindi alla volta della Valle d'Itria, Ostuni e masserie Torre Maizza e Il Frantoio, Polignano, Alberobello, Locorotondo e Masseria Le Carrube. Infine il tour si è spostato nelle terre di Federico e la Murgia con una sosta a Trani, Castel del Monte e Biomasseria Lama di Luna. Ultima tappa da Antichi Sapori e nell'Azienda Conte Spagnoletti Zeuli, con sosta a Ruvo e cena da Mezzapagnotta.
   «L'aver scoperto così tante ricette in Puglia che sono vegane fin dall'origine e che sono così saporite e ricche è stata una vera gioia! - ha commentato la chef Nadia Ellis - La tradizione gastronomica pugliese è fatta anche di paesaggi spettacolari, di profumi inebrianti delle erbe locali, del silenzio delle campagne attorno alle masserie, e di gusto e di tatto che sono emozione pura». «Le tre puntate dedicate alla Puglia del programma The Vegan Italian Chef consacrano la Puglia a destinazione naturale per i consumatori vegani di tutto il mondo. Un ulteriore frontiera per la nostra filiera enogastronomica» ha commentato Nancy Dell'Olio.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 19 novembre 2020)


La politica anti-Israele e la falsa propaganda della diplomazia 5 Stelle

di Riccardo Mazzoni

Dopo mesi ad altissima tensione, l'Autorità nazionale palestinese si è detta favorevole alla proposta di Israele di riallacciare i rapporti per il coordinamento congiunto sui temi cruciali della sicurezza e della mobilità, riconoscendo l'impegno concreto del governo di Tel Aviv al ristabilimento delle normali relazioni interrotte a maggio, quando il premier Netanyahu, con il sostegno dell'amministrazione Trump, aveva annunciato un progetto unilaterale per ricondurre sotto la propria sovranità almeno un terzo dei territori della Cisgiordania. Un piano, se non ritirato, per il momento congelato, con la rassicurazione che gli accordi bilaterali israelo-palestinesi continueranno a formare il quadro giuridico per disciplinare «i rapporti tra le parti sulle questioni finanziarie e di altro genere». Una schiarita significativa che segue la decisione di alcuni Paesi arabi del Golfo di normalizzare i rapporti con Israele e che ha però trovato la durissima opposizione di Hamas, che dalla Striscia di Gaza non ha mai smesso il lancio di missili contro le città di confine israeliane.
   A chi va attribuito il merito di questa svolta diplomatica? A Netanyahu o al ministro palestinese per gli Affari interni, Hussein Al-Sheikh, che ha dato l'annuncio dopo una lunga trattativa? Ma no: secondo i parlamentari Cinque Stelle delle commissioni Esteri, l'apertura dell'Anp sarebbe avvenuta «dopo la visita del ministro degli Esteri Di Maio nella regione», che ha contribuito a ristabilire «un clima di fiducia tra le parti, come già auspicato nelle scorse settimane dalla stessa Farnesina, ed apre alla possibilità di fare finalmente concreti passi in avanti». Dopo settant'anni, dunque, il martoriato Medio Oriente avrebbe trovato in Di Maio il grande mediatore del processo di pace. Una barzelletta che non fa neppure ridere, un tentativo propagandistico di incensare un ministro che è l'emblema stesso del fallimento della politica estera italiana (vedi lo scenario libico) e che stride peraltro, in modo grottesco, con tutta la narrazione del Movimento, dall'abbraccio con i gilet gialli francesi antisemiti alla visita in Israele del 2016 durante la quale proprio Di Maio si ostinò a voler incontrare i terroristi di Hamas. La stessa linea fortemente anti-israeliana portata avanti dal governo rossogiallo. È di queste ore, non a caso, il «disappunto» espresso dal Comites Tel Aviv, che rappresenta gli italiani residenti in Israele, per la recentissima scelta dell'Italia di votare in una commissione dell'Onu a favore della risoluzione «Pratiche israeliane che incidono sui diritti umani del popolo palestinese nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est». Una risoluzione in cui il Monte del Tempio viene citato solo con il suo nome in arabo, Haram al-Sharif, che altro non è che la Spianata delle Moschee, contesa storicamente dalle tre grandi religioni monoteiste, ma che rappresenta uno dei luoghi più sacri per l'ebraismo, dove da secoli gli ebrei di tutto il mondo si volgono per recitare le proprie preghiere. «Negarne la natura ebraica - secondo gli italiani d'Israele - rappresenta uno schiaffo non soltanto in faccia alla verità storica ma anche al sogno e all'obiettivo di una pace fondata sul rispetto reciproco tra popoli e religioni». L'Italia, ancora una volta, in compagnia di tutta Europa, ha scelto di schierarsi contro l'unica democrazia che in Medio Oriente rappresenta e difende i valori occidentali. Una posizione destinata a non cambiare neppure a dicembre, quando la risoluzione verrà messa al voto nell'Assemblea plenaria dell'Onu.

(Il Tempo, 19 novembre 2020)


Il futuro del Medio Oriente secondo Benny Gantz

di Nathan Greppi

Benjamin Gantz, Ministro della Difesa d'Israele, ha rilasciato le sue prime interviste fuori da Israele mercoledì 18 novembre nel corso di un dibattito su Zoom tenuto dall'Associazione Svizzera Israele (sezione Canton Ticino), dal titolo Israele ed il futuro del Medio Oriente. L'incontro, moderato dal giornalista italo-israeliano Carmel Luzzatti (già shaliach in Italia del Keren Hayesod), ha visto Gantz rispondere alle domande di tre importanti firme di grandi media italiani e svizzeri.
Dopo i saluti istituzionali dell'Ambasciatore israeliano in Svizzera Jacob Keidar, del Ministro della Diaspora israeliano Omer Yankelevich e dello stesso Gantz, il primo a fargli domande è stato Luzzatti, che gli ha chiesto se è vero, come ha sostenuto il New York Times, che un agente del Mossad ha preso parte all'uccisione a Teheran del numero due di Al Qaeda: "Dirò due cose," ha risposto. "Primo: noi non assassiniamo nessuno. Lanciamo attacchi preventivi, ma non potrei approvare un assassinio."
Il responsabile esteri del Corriere del Ticino, Andrea Colandrea, ha chiesto a Gantz "cosa si aspetta dal governo svizzero nel prossimo futuro" in merito alle trattative per la pace in Medio Oriente, considerando anche la questione del nucleare iraniano. Gantz ha risposto che "ho apprezzato molto i tentativi del governo svizzero di voler essere parte queste questioni internazionali, in tempi in cui le parti non vogliono parlarsi. La prima cosa che mi aspetto è che non si arrendano in questa missione." Parlando invece dell'Europa in generale, ha detto che "dovrebbe capire che la più grande campagna di pressione (sull'Iran) messa in atto dagli americani non era fine a sé stessa, ma era per impedirgli di ottenere il nucleare. […] Se l'Iran ottiene il nucleare, minaccerà Israele, e quindi non dobbiamo permetterglielo."
Dei suoi rapporti con il Primo Ministro ed ex-rivale Benjamin Netanyahu gli ha chiesto dettagli il direttore del gruppo Blick Christian Dorer: "Mi sto coordinando bene con il Primo Ministro soprattutto nella lotta al coronavirus e per la sicurezza d'Israele. Non credo che non si debbano tenere nuove elezioni almeno per i prossimi due anni, la cosa migliore da fare è far funzionare la coalizione per il bene d'Israele e del Popolo Ebraico in generale. Ma non verrò meno ai miei principi, soprattutto in materia di democrazia e del volere una buona amministrazione."
Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica, ha chiesto a Gantz le sue opinioni sugli Accordi di Abramo: "Vi è posto per i palestinesi all'interno degli Accordi? E come pensa che l'Amministrazione Biden si stia approcciando agli Accordi?" Il ministro ha risposto che "è uno sviluppo molto positivo della situazione. Io ero contro l'annessione unilaterale dei territori, e penso che studiando la storia le persone capiranno come ci fu un'azione strategica in tutto questo." Con tutti i paesi mediorientali e africani che sembrano voler seguire questo trend, pensa che "se le persone pensavano che non si potesse risolvere nulla senza un accordo con i palestinesi, oggi sono i palestinesi che dovrebbero capire che non dovrebbero rimanere indietro. Se i palestinesi capiranno, come noi, che ogni parte deve mettere da parte i propri sogni e guardare la realtà, penso che ci sarà modo per entrambi di andare avanti." Ha aggiunto che i due popoli dovrebbero governarsi ciascuno per conto suo.

(Bet Magazine Mosaico, 19 novembre 2020)


Antisemitismo e odio online in un dibattito dell'UNAR

di Nathan Greppi

Al giorno d'oggi è la rete il luogo dove l'antisemitismo viene maggiormente diffuso e sdoganato. Per spiegare nel dettaglio come ciò avviene, mercoledì 18 novembre si è tenuta una videoconferenza intitolata proprio Antisemitismo e odio online. Il complottismo al tempo di internet, organizzato dall'UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), trasmesso in diretta su Facebook e YouTube.
   Dopo i saluti introduttivi di Triantafillos Loukarelis, Direttore Generale dell'UNAR, l'incontro è stato moderato da Stefano Pasta, giornalista e ricercatore dell'Università Cattolica di Milano. Milena Santerini, docente di Pedagogia alla Cattolica e Coordinatrice per la lotta all'antisemitismo del Consiglio dei Ministri, ha spiegato che si è deciso di discutere sia di antisemitismo che di complottismo perché i due temi sono legati: "Il complottismo e la mentalità cospiratoria hanno trovato nuovo ossigeno nella globalizzazione. Le persone, impotenti davanti ad eventi più grandi di loro, ricorrono a semplificazioni."

 L'antisemitismo oggi
  Nella prima parte della conferenza, incentrata sull'antisemitismo, il primo relatore è stata il Presidente UCEI Noemi Di Segni: "Il tema ha più dimensioni di analisi: contenuto, contenitore, lettore." Ha aggiunto che "l'antisemitismo non è una qualsiasi discriminazione, ha le sue peculiarità e specificità, muta e si ripresenta in modi diversi. Tutto questo non è per dire che il problema degli ebrei è più grave di altri, ma è perché se non si comprendono le peculiarità di un odio che esiste anche dove non ci sono ebrei, non si può affrontare un problema di carattere millenario."
   Tra i relatori vi erano diversi ospiti stranieri; è il caso di Andre Oboler, Presidente dell'australiano Online Hate Prevention Institute. Oboler ha mostrato varie slide per spiegare il concetto di Antisemitismo 2.0: coniato nel 2008, il termine indica la creazione di una cultura digitale dove l'antisemitismo viene socialmente accettato, oltre a rendere la società meno resistente alla sua diffusione. Ha aggiunto che ciò si verifica anche nel mondo reale, e ha fatto un esempio: in una delle più grosse librerie australiane hanno trovato ben 94 diverse edizioni del Mein Kampf.
   Sulla realtà italiana si è invece concentrato Stefano Gatti, ricercatore della Fondazione CDEC, il quale ha spiegato come "il cospirativismo è diventato da circa 15 anni l'asse portante dell'antisemitismo italiano. Il cospirativismo è principalmente un rifiuto di quella che è la spiegazione ufficiale dei fenomeni sociali, fino a postulare l'idea di un complotto dietro le quinte." Dietro al complotto spesso vengono ritratti ricchi ebrei come i Rothschild o George Soros. "Il cospirativismo non è sinonimo di antisemitismo," ha sottolineato, "ma spesso dietro le teorie cospirative si allunga l'ombra di un fantomatico ebreo."
   Juliane Wetzel, ricercatrice del Centre for Research on Antisemitism di Berlino, ha affrontato l'evoluzione dell'antisemitismo in rete in tempi recenti: "L'antisemitismo contemporaneo si lega agli stessi stereotipi di sempre," ha spiegato, aggiungendo che i discorsi antisemiti non sono un tabù sui social, e hanno presa specialmente sui giovani che non hanno le competenze per non farsi influenzare. Sempre a proposito dei social è intervenuta Jordana Cutler, responsabile delle politiche pubbliche di Facebook per Israele e la Diaspora ebraica: "Per noi la lotta contro l'antisemitismo è molto importante," ha affermato. "Abbiamo molte politiche per contrastare i dialoghi basati sull'odio e l'istigazione alla violenza." Ha aggiunto che hanno esperti di antisemitismo sparsi per il mondo, e che "circa un anno e mezzo fa abbiamo intensificato gli sforzi in tal senso."

 Il complottismo
  La seconda parte del convegno era incentrata sui complottismi in senso più ampio: Leonardo Bianchi, giornalista di Vice Italia, ha illustrato con delle slide il fenomeno Qanon, una vera e propria setta convinta che "un gruppo di pedofili satanisti occupi tutte le posizioni di potere negli Stati Uniti, e che Donald Trump stia segretamente combattendo contro il deep state (uno 'stato nello stato' che agisce nell'ombra)." Molti loro seguaci sono arrivati a ricorrere alla violenza.
   Valentina Pisanty, docente di Semiologia all'Università di Bergamo, ha parlato del cospirazionismo dichiarando che esso "permette un risparmio di energie cognitive, perché tutto fa capo a un unico ordine di spiegazioni riconducibili allo schema primordiale del conflitto eterno tra il bene e il male." I complottisti selezionano le fonti per confermare le loro credenze, "e delegittimare a priori l'evidenza contraria." Sul piano giuridico e della cyber-sicurezza, l'avvocato Roberto De Vita ha parlato del proselitismo digitale dell'odio: "Non possiamo differenziare l'hate speech che appartiene alla dimensione istantanea rispetto allo hate speech che si consuma attraverso la rete, che invece permane e si diffonde con una modalità che non ha precedenti."

(Bet Magazine Mosaico, 19 novembre 2020)


La famiglia cancellata dalla Shoah nel paese che non dimentica

Il Premio Matteotti allo spettacolo teatrale dedicato alla tragedia dei Modigliani nel `43 Per la ricostruzione sono stati decisivi i ricordi degli abitanti di San Casciano

di Elisabetta Berti

 
La famiglia Modigliani
Chi oggi cammina nel centro di San Casciano, lungo via Roma, all'altezza del civico 34 può vedere spiccare due pietre d'ottone, lucide, in ricordo di Giacomo Modigliani e Paolo Sternfeld, due ebrei fiorentini arrestati dalla Banda Carità il 17 ottobre 1943 e mai più tornati a casa. Sono le pietre d'inciampo che il Comune di San Casciano Val di Pesa ha voluto inserire nel selciato a duratura memoria dell'Olocausto e di due uomini innocenti, vittime dell'antisemitismo e della violenza nazi-fascista; pietre che costituiscono il punto di partenza di un più ampio progetto dedicato alla memoria locale della Shoah e di cui fa parte lo spettacolo dedicato alla storia della famiglia Modigliani "Via Roma 34. Il gioco interrotto" di Tiziana Giuliani, drammaturga premiata per questo testo con il Premio Matteotti, che la presidenza del Consiglio dei ministri assegna alle opere letterarie e teatrali che illustrano gli ideali di fratellanza, libertà e giustizia sociale.
   Lo spettacolo, che ha debuttato al Niccolini di San Casciano nel 2019 in occasione del Giorno della memoria e che era in programma anche in questa stagione prima che la pandemia sospendesse tutto, racconta la storia della famiglia ebrea sfollata da Firenze prima dell'8 settembre del `43 e rifugiata a San Casciano nella convinzione, purtroppo errata, di essere al riparo dalle scorrerie fasciste. I più anziani si ricordano ancora oggi di quella famiglia che veniva da Firenze, Giacomo con sua moglie Elena e i due bambini, Letizia di 7 e Vittorio di 8 anni, e lo zio Paolo Sternfeld sposato alla sorella di Elena, Olga Modigliani. Racconta Tiziana Giuliani: «Fondamentale è stata la collaborazione con le tante realtà del territorio che si occupano di memoria, come il gruppo Sgabuzzini storici, La Porticciola, e l'Istituto storico della Resistenza, ma in gran parte mi sono affidata ai ricordi degli anziani sancascianesi. Loro raccontano i particolari che danno colore alla storia, per esempio che alcuni bambini del posto non avevano il permesso di giocare con i Modigliani perché ebrei. È dalle loro parole che ho ricostruito "il gran baccano" di quella terribile mattina».
   Il 17 ottobre `43, una domenica mattina, la camionetta della Banda Carità, forse guidata da un delatore, entrò in paese sparata verso via Roma: tutti pensarono che fossero venuti per Dante Tacci, il ciabattino fervente antifascista che vive proprio lì, ma sbagliavano. Da dietro le persiane i paesani videro le camicie nere entrare nell'appartamento di palazzo Del Bravo e uscirne con i due cognati ebrei in manette, Paolo e Giacomo, portati prima alle Murate e poi al campo di Fossoli, vicino Carpi, da dove si persero le loro tracce. Le mogli Elena e Olga, con i bambini Letizia e Vittorio non erano in casa quella mattina, ma furono comunque arrestati pochi mesi dopo, il 31 marzo del '44, nella pensione di via Cavour a Firenze dove si erano nascosti. Da qui in poi sono le parole di Letizia Modigliani, la più piccola della famiglia e l'unica sopravvissuta, a raccontare come andò: nel cortile di Santa Verdiana gremito di ebrei fiorentini pronti ad essere deportati, nel caos di urla, di nazisti, fascisti, di armi spianate, Letizia comincia a piangere, e piange forte finché qualcuno (la madre?) la spinge sotto la veste di una suora che la tiene lì sotto, nascosta, e le salva la vita. Letizia rimarrà a Firenze con le suore, e non verrà mandata al campo di transito di Fossoli, dove invece arriveranno la madre e il fratellino che qui rincontrarono il padre Giacomo. Salirono sul convoglio per Auschwitz dove però, nei documenti ufficiali, non risultano essere mai arrivati.
   Dice Tiziana Giuliani: «I bambini devono sapere, perché in Italia non abbiamo fatto i conti fino in fondo con ciò che è successo: quella mattina a San Casciano rimasero tutti dietro gli scuri a guardare. Oggi usciremmo in strada per difendere la libertà?».

(la Repubblica, 19 novembre 2020)


Trilaterale Usa-Israele-Bahrein: l'ultimo tour mediorientale di Mike Pompeo

L'incontro a Gerusalemme. Firmati protocolli per uno scambio di ambasciatori, l'apertura delle procedure di visto e l'avvio di linee aeree dirette tra Tel Aviv e Manama. Un nuovo passo dopo gli Accordi di Abramo per isolare l'Iran.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo è atterrato oggi [18 nov] in Israele, per la prima tappa di quello che si prospetta essere l'ultimo tour mediorientale del capo della diplomazia dell'amministrazione uscente.
   Dopo tre giorni in Israele, Pompeo viaggerà negli Emirati Arabi Uniti, in Qatar e in Arabia Saudita. La sua visita -la terza in meno di sei mesi nello Stato ebraico -ha coinciso oggi con l'arrivo a Gerusalemme della prima delegazione di Stato del Bahrein, guidata dal ministro degli Esteri Abdullatif bin Rashid Al Zayani.
   Insieme a Netanyahu hanno tenuto un incontro trilaterale a porte chiuse e una conferenza stampa congiunta. Al Zayani ha incontrato anche il suo omologo israeliano Gabi Ashkenazi, che ha accettato l'invito a partecipare al "Manama Dialogue", un summit di ministri degli Esteri della regione che si terrà il 4 dicembre, diventando così la prima autorità israeliana a effettuare una visita ufficiale in uno Stato del Golfo.
   I ministri hanno anche firmato dei protocolli relativi all'imminente scambio di ambasciatori, all'apertura delle procedure di visto dal 1° dicembre e all'avvio di linee aeree dirette -sono previsti 14 voli settimanali tra Tel Aviv e Manama, per i quali l'Arabia Saudita ha concesso l'autorizzazione a sorvolare sul proprio spazio aereo.
   "Gli Accordi di Abramo dicono agli attori malvagi come la Repubblica Islamica dell'Iran che sono sempre più isolati e lo saranno per sempre finché non cambieranno direzione", ha detto Pompeo durante la conferenza stampa, sottolineando uno degli aspetti fondamentali della nuova alleanza tra Israele e Paesi arabi sunniti.
   Gli Stati Uniti, in concertazione con Israele e gli Stati del Golfo, stanno progettando una serie di nuove sanzioni contro l'Iran per ostacolare la strada di Biden verso nuovi negoziati con Teheran che il presidente eletto intende avviare secondo tutti i pronostici.
   Al Zayani ha ringraziato Netanyahu per l'accoglienza in Israele e ha parlato di una "nuova alba per l'intero Medioriente", per cui si prospetta una "pace calorosa, di cui beneficeranno i nostri popoli". Ha anche ricordato come, per completare gli sforzi verso la pace, sia necessario risolvere il conflitto israelo-palestinese, "per cui chiedo alle parti di tornare al tavolo dei negoziati per raggiungere una soluzione praticabile a due Stati".
   Proprio ieri, dopo sei mesi di congelamento, l'Autorità Nazionale Palestinese ha riavviato il coordinamento amministrativo e di sicurezza con Israele, in un gesto volto a creare una posizione dialogante verso l'amministrazione Biden.
   Il viaggio di Pompeo sembra voler tracciare sul campo le somme della politica mediorientale nei quattro anni di amministrazione Trump. Oltre al simbolico incontro trilaterale a Gerusalemme, che racchiude il risultato ottenuto con l'avvio delle relazioni diplomatiche, in meno di due mesi, tra Israele e tre Paesi arabi sotto l'egida americana, Pompeo domani dovrebbe effettuare alcune visite altamente significative: alla cantina di vini di Psagot, un insediamento nel cuore della Cisgiordania, al sito battesimale Qasr El Yahud sulle rive del Giordano (nell'area C dei Territori Palestinesi) e sulle Alture del Golan.
   Si tratterebbe della prima visita di un membro di gabinetto americano negli insediamenti ebraici, facendo eco a due decisioni prese l'anno scorso dall'amministrazione Trump: la dichiarazione secondo cui per gli Usa gli insediamenti "non sono più illegali" e il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan. Oggi si è tenuta una manifestazione da parte di palestinesi residenti nelle aree adiacenti all'insediamento per condannare la decisione di Pompeo. La visita, che viene definita "privata", non è tuttavia stata confermata da nessun portavoce ufficiale dell'amministrazione Usa.

(la Repubblica, 18 novembre 2020)


Ecco come Tel Aviv è diventata una superpotenza mondiale di tecnologia e innovazione

di David Zebuloni

 
Terrazza con vista su Tel Aviv nella nuova sede di Start-Up Nation Central
In un interessante editoriale pubblicato sul Times of Israel, il giovane scienziato ed esperto di tecnologia Anton Lucanus spiega come Tel Aviv sia diventata in pochi anni una superpotenza mondiale di tecnologia e innovazione. Più precisamente, una tech hub. La tech hub della Startup Nation. Tante parole complesse in inglese per esprimere un concetto semplice in italiano: Tel Aviv non è solo la città più avanzata dello Stato ebraico, ma una delle più tecnologiche del Medio Oriente e del mondo intero.
   I numeri parlano chiaro: vi è una startup per ogni 1,400 persone. Se consideriamo dunque i 8,5 milioni di abitanti che popolano Israele, significa che il paese ha circa 6,000 startup attive e produttive. Non ci sorprende quindi scoprire che il Global Startup Ecosystem Report (GSER) nel 2019 abbia incluso Tel Aviv tra le sei città identificate come i più grandi centri tecnologici al mondo, dopo la Silicon Valley ovviamente. Le altre città indicate sono New York City, Londra, Pechino, Boston e Shanghai.
   Lucanus spiega che Tel Aviv è in grado di offrire al mondo grandi risorse in termini di brevetti, così da poter operare non in una sola, ma in numerose aree di ricerca quali la cybersecurity, la medicina, l'agricoltura, la guida autonoma, l'energia, la robotica, i droni, l'aviazione, l'aerospazio e molte altre ancora. Inizialmente i ricercatori si sono concentrati sulla sicurezza informatica e l'intelligenza artificiale, ma presto hanno scelto la nutrizione globale come prossima frontiera d'innovazione. Secondo la Start-Up Nation Central (SNC), Tel Aviv ha lanciato oltre 350 startup agroalimentari negli ultimi dieci anni. Ciò ha contribuito a rendere Israele un vero protagonista nel settore agroalimentare tecnologico mondiale, con un valore industriale stimato 8,7 trilioni di dollari.
   È opinione diffusa che in Israele gli investimenti importanti nel campo della tecnologia, abbiano avuto inizio solo nel 2012. Tuttavia, già nel 1998, Newsweek aveva nominato Tel Aviv una delle dieci città tecnologicamente più influenti del mondo. Nel 2010, Israele aveva 140 scienziati e tecnici per ogni 10.000 dipendenti. Nel 2012 invece, uno studio internazionale aveva classificato Tel Aviv seconda solo alla Silicon Valley, come il miglior posto al mondo per lanciare una startup.
   Nonostante l'impatto importante sul piano globale, l'obiettivo di Tel Aviv non potrebbe essere più chiaro: fornire ai suoi residenti un migliore accesso ai servizi, per una vita più facile e comoda. Per poter migliorare la vita di milioni di persone sparse per il mondo, infatti, bisogna prima migliorare la vita di chi abita proprio nella hub tech. Prima di poter esportare un prodotto, bisogna prima testarlo in casa.
   Lucanus termina il suo editoriale citando l'ex Capo di Stato israeliano, Shimon Peres. "In Israele, una terra priva di risorse naturali, abbiamo imparato ad apprezzare il nostro più grande vantaggio nazionale: le nostre menti", aveva detto Peres. "Attraverso la creatività e l'innovazione, abbiamo trasformato aridi deserti in campi fiorenti e abbiamo aperto la strada a nuove frontiere nella scienza e nella tecnologia". La strada è ancora lunga, ma la Silicon Valley non ci è mai sembrata più vicina.

(Bet Magazine Mosaico, 18 novembre 2020)


Israele colpisce in Siria obiettivi iraniani e siriani

di Giacomo Kahn

L'esercito israeliano ha reso noto questa mattina di avere colpito obiettivi iraniani e siriani in Siria dopo aver trovato esplosivi lungo il confine de facto con il Nord dello Stato ebraico. "Questo è ciò che hanno fatto Iran e Siria: hanno posizionato ordigni esplosivi improvvisati vicino alla linea Alpha per colpire le truppe israeliane. Cosa abbiamo fatto noi: abbiamo appena colpito obiettivi della forza iraniana Quds e delle forze armate siriane in Siria", ha scritto l'esercito israeliano su Twitter.
Nel mirino delle operazioni di queste ore sono finiti "obiettivi militari delle forze Quds iraniane e dell'esercito siriano" e sono stati "danneggiati - secondo una nota rilanciata dai media israeliani - magazzini, centri di comando, compound militari e batterie di missili terra-aria".
La Forza Quds è un'unità d'élite delle Guardie rivoluzionarie iraniane responsabile delle operazioni estere.

(Shalom, 18 novembre 2020)


Datteri di duemila anni fa

Aggiornamento archeologico di EDIPI

Nell'ultimo viaggio fatto con KKL nel 2019 raccontammo che nel Kibbutz Ketura nell'Aravà di aver visto una palma germogliata da semi rinvenuti in un sito archeologico nei pressi di Masada.
Ora l'amico e archeologo biblico Dan Bahat ci segnala alcune novità.
Grazie alla pazienza di alcune ricercatrici, sappiamo che sapore avevano questi frutti della Giudea lodati da molti autori dell'antichità.
Due ricercatrici israeliane sono riuscite a produrre datteri con semi risalenti a circa 2000 anni fa, ritrovati in alcuni siti archeologici dell'antica Giudea.
Due millenni fa quei datteri erano considerati tra i più dolci e prelibati, descritti da diversi autori dell'epoca, compreso Plinio il Vecchio che nei suoi scritti ne aveva lodato le qualità.
Il risultato, considerato una rarità nel suo genere e stato ottenuto dalla gastroenterologa pediatrica Sarah Sallon del Centro Ricerche per la Medicina Naturale dell'Ospedale Hadassah di Gerusalemme in collaborazione con Elaine Solowey, responsabile del Centro per l'agricoltura sostenibile presso l'Istituto Aravà di Ketura.
Le loro ricerche avevano raggiunto una certa notorietà all'inizio di quest'anno, quando avevano pubblicato uno studio annunciando di esser riuscite a far germogliare una pianta di dattero da semi così antichi.
Nel corso dei suoi studi, Sallon si era imbattuta nelle descrizioni dei datteri della Giudea, trovando diversi riferimenti non solo al loro sapore, ma anche a presunte capacità di migliorare la digestione, la pressione sanguigna e le difese immunitarie.
Le palme che li producevano divennero nei secoli sempre più rare, fino a quasi scomparire in epoca medioevale, a causa di turbolenti conflitti e al fatto che queste piante avessero necessità di grandi quantità d'acqua per esser coltivate d'estate, in aree piuttosto aride.
Sallon si mise alla ricerca dei semi di questi datteri, ottenendo che infine gliene fossero affidati alcuni da uno scavo archeologico realizzato negli anni sessanta dove sorgeva l'antica fortezza di Masada, nella Giudea Sud-Orientale, posta sotto assedio dall'esercito romano durante la prima guerra giudaica.
Sallon contattò allora la Solowey proponendole di darle una mano per la coltivazione.
Nel 2006 le due ricercatrici piantarono i semi in alcuni vasi messi in isolamento, in modo da evitare contaminazioni con altre piante.
Solowey suggerì di reidratare prima i semi e di trattarli con un particolare ormone, favorente la crescita delle piante, anche se in quella fase era scettica sull'esito dell'esperimento.
Dopo alcune settimane, Solowey notò che in un vaso era germogliato qualcosa: una pianta nata da un seme di 2000 anni fa. Insieme a Sallon decisero di chiamare la piantina Matusalemme, come il famoso personaggio biblico che visse fino a 969 anni, diventando il personaggio più longevo nella Bibbia.
In seguito le due ricercatrici scoprirono che Matusalemme era un maschio e che da solo non avrebbe potuto produrre datteri (i maschi impollinano le femmine che fanno poi i frutti). Sallon si mise quindi alla ricerca di altri semi antichi, ottenendone una trentina da diversi siti archeologici e insieme a Solowey li piantò tra il 2012 e il 2015, sperando di ottenere qualche nuova pianta. Ne germogliarono 6, un risultato con pochi precedenti che fu pubblicato sulla rivista Science Advances.
Qualche settimana dopo la pubblicazione una delle piante, denominata Hannah, produsse alcuni fiori che furono impollinati utilizzando il polline di Matusalemme.
Le ricercatrici speravano di poter ottenere in questo modo datteri in un certo senso millenari e il loro tentativo, dopo anni di pazienza per far crescere le piante, ha in effetti dato i suoi frutti.
Hannah quest'anno ha prodotto una notevole quantità di frutti, con caratteristiche che ricordano la varietà "Zahidi", diffusa soprattutto in Iraq e nota per esser non troppo dolce e avere un sapore che ricorda quello della frutta secca.
Le indagini genetiche su Matusalemme e Hannah indicano che sono lontane parenti delle piante da dattero che crescono in oriente dall'antica Mesopotamia fino all'odierno Pakistan.
Tra Nordafrica ed Asia, la Giudea si trovava lungo alcune delle più importanti rotte commerciali di epoca romana. I datteri sono coltivati da circa 6000 anni e quelli ottenuti da Sallon e Solowey offriranno nuovi spunti per ricostruire un pezzo di storia del Mediterraneo.
E al supermercato ricordiamoci di non guardare al prezzo ma alla provenienza: ISRAEL che per sapore e dimensioni non hanno eguali.

(EDIPI, novembre 2020)


Un'app per trovare tesori e sapori della cultura ebraica

Su Zoom stasera (alle 21) su iniziativa dell' Associazione Culturale «Anavim» la presentazione dell'App "My Jewish Italy" su tutto quanto di ebraico c'è in Italia. Musei, sinagoghe, cimiteri, quartieri, memoriali. L'obiettivo è rendere sempre più visibile un patrimonio artistico, culturale e religioso spesso ancora poco conosciuto. ''My Jewish Italy" proporrà anche una lista di prodotti kasher disponibili su mercato nazionale e offrirà l'indicazione di ristoranti, bar, forni, pasticcerie, gelaterie, catering, distributori di vini kasher .

(La Stampa, 18 novembre 2020)


Netanyahu parla con Biden, 'conversazione calorosa'

Presidente eletto:' Impegno profondo per Israele e sua sicurezza'

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avuto stasera una "conversazione calorosa" con "il presidente eletto Joe Biden". Lo ha fatto sapere l'ufficio del premier Benjamin Netanyahu.
Biden ha confermato "il suo impegno profondo nei confronti di Israele e della sua sicurezza".
Netanyahu ha sottolineato che "il legame speciale con gli Usa è una componente fondamentale per la sicurezza di Israele e la sua politica". I due hanno "stabilito che si incontreranno presto e hanno convenuto che è necessario rafforzare la forte alleanza tra i due Paesi".

(ANSA, 17 novembre 2020)


Anp: "Riprendiamo i rapporti con Israele"

RAMALLAH - L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha accettato di riprendere le attività di coordinamento con Israele, che erano sospese da maggio a causa dei piani israeliani di annettere parti della Cisgiordania. Lo ha annunciato su Twitter il ministro palestinese degli Affari civili, Hussein al-Sheikh.
Il ministro dell'Anp, citato dall'agenzia di stampa 'Wafa', ha spiegato che la decisione è stata presa alla luce dei "contatti internazionali" avuti dal presidente Mahmoud Abbas e dopo aver ricevuto "le garanzie che Israele rispetterà gli accordi presi con i palestinesi".

(Adnkronos, 17 novembre 2020)


Accordi di Abramo, alto funzionario del Bahrain in visita ufficiale a Gerusalemme

Domani in programma una trilaterale fra il premier israeliano Netanyahu, il segretario di Stato Usa Pompeo e il ministro degli Esteri di Manama Abdellatif al-Zayani. Sul tavolo i futuri rapporti bilaterali e diplomatici, oltre a intese commerciali. Previsto anche un collegamento diretto fra i due Paesi.

 
MANAMA - Il ministro degli Esteri del Bahrain Abdellatif al-Zayani è atteso domani a Gerusalemme, per il primo viaggio di un alto funzionario della monarchia araba in Israele dalla normalizzazione dei rapporti nel contesto degli "Accordi di Abramo". All'incontro saranno presenti il Primo Ministro e padrone di casa Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato americano Mike Pompeo e il rappresentante di Manama, assieme al collega dell'Industria, commercio e turismo Zayed Bin Rashid Al Zayani.
Nel contesto dell'incontro verranno approfonditi i futuri rapporti bilaterali e diplomatici, oltre a intese commerciali a vantaggio di entrambi i Paesi.
   Funzionari israeliani citati dall'agenzia Walla affermano che si sta lavorando nel settore del trasporto aereo, con l'obiettivo di garantire un collegamento diretto fra Tel Aviv e Manama. La firma dovrebbe arrivare proprio domani, in concomitanza con la visita. Al centro della discussione vi è anche l'apertura delle rispettive rappresentanze diplomatiche e lo scambio di ambasciatori.
   Il mese scorso Israele e Bahrain hanno sottoscritto un comunicato congiunto, nel contesto dei controversi "Accordi di Abramo", che coinvolgono anche gli Emirati Arabi Uniti (Eau) e il Sudan. La firma è avvenuta durante la visita di una delegazione israeliana e statunitense a Manama, con l'obiettivo di promuovere la cooperazione di un'alleanza voluta con forza da Washington in chiave anti-Teheran. A dispetto delle dichiarazioni dei leader, in Bahrain (monarchia sunnita in un contesto a maggioranza sciita) la firma è stata osteggiata dall'opposizione interna e da gruppi attivisti in patria e all'estero.
"Lo stabilimento della pace e la normalizzazione con il Bahrain, gli Emirati Arabi Uniti e il Sudan - ha sottolineato il premier Netanyahu - rappresentano un grande traguardo per lo Stato di Israele. Per il capo del governo questi accordi sono "il risultato di un lungo sforzo messo in campo in questi anni" per espandere il cerchio della pace, uno sforzo per portare la vera pace, uno sforzo per portare la pace per la pace".
   In queste settimane il presidente Usa uscente Donald Trump e la sua amministrazione hanno esercitato una intensa opera diplomatica verso l'Arabia Saudita, per spingerla a firmare anch'essa la normalizzazione con Israele. Riyadh, tuttavia, ha confermato la posizione mantenuta in questi anni dalle principali nazioni del mondo e del Golfo arabo, secondo cui l'instaurazione di rapporti ufficiali è subordinata alla firma di pace con i palestinesi e la nascita di uno Stato autonomo. Dalla monarchia wahhabita - una sorta di fratello maggiore per il Bahrain - sono però giunti segnali di apertura verso Israele, come la concessione dello spazio aereo per i voli commerciali.

(AsiaNews.it, 17 novembre 2020)


Israele rende ai frati la chiesa nell'area del battesimo di Gesù

Attorno a San Giovanni c'era un campo minato, che è stato bonificato

di Davide Frattlni

Ain Karem (Gerusalemme) - La Chiesa di San Giovanni Battista
GERUSALEMME - Le piene e le alluvioni hanno smosso la terra, frullato la melma e rimescolato le mappe dei genieri militari. Resta la memoria e la difficoltà di ritrovarsi con la bussola: una cinquantina d'anni fa il Giordano era un fiume, adesso in alcuni punti è un rigagnolo, basta allungare il passo per mettere íl piede dall'altra parte. Una volta era prima linea, confine tra due Paesi che si sono combattuti in almeno un paio di guerre: in quella dei Sei Giorni hanno cominciato a spargere mine anti-carro e ordigni antiuomo, sulla riva occidentale (catturata dagli israeliani alla Giordania nel 1967) ne erano rimasti almeno 4.000 mila inesplosi, oltre alle trappole di tritolo disseminate dai fedayn palestinesi che negli anni Sessanta e Settanta si infiltravano per colpire soldati e gli insediamenti.
   Lo Stato ebraico e il regno hashemita hanno firmato la pace nel 1994, così Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, ha autorizzato la britannica Halo Trust a bonificare l'area di 500 mila metri quadrati per rendere di nuovo raggiungibile l'acqua dove Giovanni Battista battezzò Gesù. I muri delle chiese e dei monasteri, le finestre che guardano verso il vuoto e le macerie all'interno come le scenografie abbandonate di un set da film western, testimoniano di quello che racconta padre Ibrahim Faltas: «Nel 1641 i frati francescani hanno cominciato a venire in questo luogo organizzando un pellegrinaggio. All'inizio del 1920 decisero di acquistare i terreni e disegnare i primi progetti. Nel 1933 hanno costruito una cappella che ora si trova praticamente sul fiume, mentre questa chiesa fu realizzata nel 1935. Inizialmente era questa la loro Chiesa. I frati ristrutturarono la cappella nel 1956, mentre i lavori di restauro iniziarono dopo il terremoto che ha colpito la regione il 18 dicembre 1956, terremoto che aveva distrutto la grande chiesa».
   La chiesa è quella di San Giovanni Battista che da poche settimane il governo israeliano ha restituito al controllo della Custodia di Terra Santa. Tutto il Paese resta chiuso ai turisti dallo scorso marzo come misura per contrastare l'epidemia di Covid-19, la speranza è di poter riportare qui i devoti dopo aver ristrutturato l'edificio. Il lavoro degli sminatori della Halo Trust, che opera in tutto il mondo ed è stata sostenuta anche dalla principessa Diana, ha già permesso a mezzo milione di fedeli di tornare a pregare in queste terre. Il ministero del Turismo israeliano spera di dirottare i viaggiatori che fino a ora sono andati sull'altro lato: i giordani hanno costruito una piattaforma di legno in mezzo al fiume, nel luogo sacro designato ufficialmente dall'Unesco come patrimonio dell'umanità. Sulle sabbie color ocra di Qasr El Yahud sorgono le cappelle e i monasteri di otto denominazioni cristiane della regione. Prima di poter intervenire la Halo ha dovuto mettere d'accordo tutti, compresi gli israeliani e i palestinesi: queste zone sono in Cisgiordania, dovrebbero far parte di un futuro Stato palestinese. Alla fine ha prevalso l'obiettivo comune: permettere ai pellegrini di ripercorrere gli stessi passi di un piacentino arrivato qui nel 570.

(Corriere della Sera, 17 novembre 2020)


Etihad Airways annuncia voli giornalieri Tel Aviv - Abu Dhabi

Etihad Airways ha annunciato il lancio di voli giornalieri tra Tel Aviv e Abu Dhabi a fine marzo, a seguito di un accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti (Eau). L'accordo è stato firmato a settembre a Washington, a fianco di un accordo simile tra Israele e Bahrain, che li rende i primi Stati del Golfo a stabilire legami ufficiali con lo Stato ebraico. Etihad, il vettore nazionale degli Emirati Arabi Uniti, ha operato il primo volo commerciale tra Tel Aviv e Abu Dhabi il mese scorso. La compagnia aerea ha creato delle pagine in lingua ebraica sul suo sito web per facilitare le prenotazioni da parte degli israeliani. Il 31 agosto, la compagnia aerea israeliana El Al ha operato il suo primo volo diretto da Tel Aviv ad Abu Dhabi. Anche altre compagnie aeree hanno annunciato il lancio di voli tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele. Il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti - seguiti poco dopo dal Sudan - hanno normalizzato i legami con Israele nonostante il precedente consenso tra gli Stati arabi sul fatto che una condizione preliminare per la normalizzazione dei legami sarebbe stata il riconoscimento da parte di Israele di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale.

(Adnkronos, 16 novembre 2020)


Un affare da non credere: gli islamisti e Netanyahu. E la Lista araba va in crisi"

di Michele Giorgio

 
                                Mansour Abbas                                                                           Ayman Odeh
              membro della Lista araba e vicepresidente della Knesset                               membro della Knesset e leader del partito Hadash
Qualcuno la descrive come la nuova «normalizzazione» in Medio Oriente, stavolta tra gli islamisti arabo israeliani — palestinesi con cittadinanza israeliana — e il premier Netanyahu e il suo partito di destra, il Likud. Mansour Abbas, il parlamentare che l'ha avviata, invece parla di «semplice dialogo» con il capo del governo per risolvere i problemi che affliggono la minoranza araba, circa due milioni di abitanti (il 20% dello Stato ebraico). Per il momento è certo solo che i contatti ravvicinati avvenuti tra Abbas e Netanyahu stanno scuotendo le fondamenta della Lista unita araba, di cui fa parte Raam il partito islamista di cui il parlamentare è leader.
  Il raggruppamento arabo alle ultime elezioni, a inizio anno, aveva ottenuto con 15 deputati il suo miglior risultato di sempre divenendo l'unica vera opposizione ideologica alla coalizione di maggioranza nata dall'accordo tra Likud e il partito di centrodestra Blu Bianco. Il suo leader Ayman Odeh (Hadash, comunista), in campagna elettorale, era riuscito ad attirare i voti anche di migliaia di israeliani ebrei non sionisti o delusi dalla sinistra tradizionale (Meretz) ed interessati alla sua proposta per uno Stato di Israele non più nazionalista ebraico ma binazionale, con ebrei e arabi in piena uguaglianza. A distanza di pochi mesi sta crollando ciò che Odeh aveva costruito. Tutto è iniziato con la firma (15 settembre a Washington) dell'Accordo di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e tre paesi arabi (Emirati, Bahrain e Sudan) senza la fine dell'occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Si sono levate voci a favore della «normalizzazione interna». Abbas ha colto l'occasione per rivolgersi direttamente a Netanyahu e discutere le misure più idonee per affrontare l'aumento degli omicidi tra gli arabo israeliani. Così il premier, che ha istigato più volte contro i deputati arabi definendoli «fiancheggiatori del terrorismo» e che nel 2018 ha fatto approvate una legge che definisce Israele-Stato della nazione ebraica e non di tutti i suoi cittadini, è diventato un interlocutore degli islamisti di Raam per lo sbigottimento di Odeh. Netanyahu si è mosso per tentare di smembrare lo schieramento arabo.
  Abbas respinge l'accusa di «normalizzazione» con il Likud, spiega che gli arabi in Israele «devono decidere se rimanere per sempre in tribuna o se scendere in campo». Intanto nel suo ruolo di vicepresidente della Knesset ha già dato una mano a Netanyahu schierandosi contro l'istituzione di una commissione d'inchiesta sullo scandalo dei sottomarini che coinvolge il primo ministro. Quindi ha incolpato i cittadini palestinesi di non combattere la «cultura della violenza» nelle loro strade e non ha sottolineato l'assenza dello Stato nei centri abitati arabi.
  «Quanto accade è la spia di nodi politici e trasformazioni sociali tra i palestinesi in Israele — dice al manifesto l'analista di Haifa Wadi e Abu Nassar—La Lista unita è composta da formazioni molto diverse, comuniste, nazionaliste e islamiste, che si sono messe insieme per non disperdere voti e superare la soglia di sbarramento elettorale». Tra i palestinesi d'Israele, aggiunge, «oggi si leva più forte la voce di chi chiede alla Lista unita di privilegiare di più l'agenda locale e di occuparsi meno dei Territori sotto occupazione (israeliana)». L'Accordo di Abramo condannato dalla Lista unita, prosegue l'analista, «non è stato accolto male da tutti (i palestinesi di Israele), non pochi pensano che abbia aperto loro la possibilità di relazionarsi con il mondo arabo, in particolare gli Emirati». Ma, conclude Abu Nassar, «Abbas presto si renderà conto che Netanyahu lo sta manipolando. Il primo ministro in politica ha una sola moglie e tante amanti alle quali fa promesse, porta qualche regalo e poi le abbandona».

(il manifesto, 17 novembre 2020)


Dunque l’Accordo di Abramo, condannato dalla Lista unita, «non è stato accolto male da tutti i palestinesi di Israele». E’ stato accolto invece malissimo dagli ideologi di sinistra duri e puri come l’autore dell’articolo. Per loro i palestinesi devono restare fedeli al loro ruolo, che è quello di soffrire, e soffrire quanto più si può, sotto il peso dell'oppressione israeliana. Forse tra i palestinesi qualcuno comincia a stufarsi. M.C.


L'Egitto di nuovo protagonista della riconciliazione palestinese

I due gruppi palestinesi un tempo rivali, Hamas e Fatah, hanno riferito che, nelle prossime ore, giungeranno notizie positive dal Cairo, riguardanti il processo di riconciliazione.
   Secondo quanto affermato da Iyad Nasser, alto funzionario e portavoce di Fatah, il 16 novembre, i due movimenti sono nuovamente impegnati in una serie di incontri caratterizzati da un'atmosfera positiva, il cui scopo è favorire una riconciliazione tra i gruppi palestinesi. Una fonte palestinese informata dei fatti ha confermato che i due movimenti hanno avviato un dialogo volto a completare il percorso di un partenariato nazionale globale, mentre Hazem Qassem, il portavoce di Hamas, ha anch'egli dichiarato che il proprio movimento continua a profondere sforzi per elaborare una strategia congiunta in grado di far fronte alle sfide attuali.
   Gli incontri avviati al Cairo il 16 settembre sono da inserirsi nel quadro di un progressivo riavvicinamento tra i movimenti palestinesi che ha avuto inizio il 3 settembre, quando il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha tenuto un incontro con i leader di tutte le fazioni palestinesi, tra cui figuravano altresì il capo dell'ufficio politico del Movimento Islamico di Resistenza Hamas, Ismail Haniyeh, in videoconferenza dal Libano, e la guida del Jihad Islamico Palestinese, Ziyad Al-Nakhalah. Le discussioni hanno avuto come obiettivo la creazione di una "strategia palestinese" in grado di contrastare i piani di annessione della Cisgiordania, il cosiddetto "accordo del secolo", annunciato dal capo uscente della Casa Bianca, Donald Trump, il 28 gennaio, e i recenti progetti di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti (UAE) e Bahrein.
   Come riportato dal quotidiano al-Arab, i gruppi palestinesi si sono resi conto della necessità di volgere l'attenzione agli sviluppi e alle sfide a livello regionale, anziché badare ai propri bisogni interni. In tale quadro, a detta di al-Arab, l'Egitto sembra aver "preso in mano le redini" del processo di riconciliazione tra Hamas e Fatah, che, in precedenza, aveva visto Turchia e Qatar impegnarsi in prima linea. Stando a quanto riferito dal quotidiano, Il Cairo, in realtà, è stato a lungo un punto di riferimento nel processo di riconciliazione tra i movimenti palestinesi ed oggi sembra voler ritornare alla ribalta per assicurarsi un ruolo, anche alla luce del recente cambiamento alla presidenza degli Stati Uniti.
   Secondo il capo del Forum per gli studi strategici del Medio Oriente al Cairo, Samir Ghattas, Il Cairo sta cercando di esercitare pressioni su Hamas e fermare le sue manovre, incoraggiate dalle dichiarazioni del presidente neoeletto Joe Biden, circa l'impegno di Washington a favorire una soluzione a due Stati. In particolare, facendo leva su tale affermazione, Hamas preferirebbe rimandare le elezioni generali concordate tra i movimenti palestinesi, in attesa che la nuova amministrazione USA assuma i pieni poteri e possa svolgere un ruolo che avvantaggi i gruppi palestinesi.
   L'organizzazione di elezioni eque e libere è uno dei principali punti di controversia tra Hamas e Fatah. Mentre il primo chiede elezioni globali e simultanee che includano la presidenza, il Consiglio legislativo e il Consiglio nazionale dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Fatah propone che si tengano prima le elezioni legislative, poi quelle presidenziali, poi quelle nazionali. Un altro punto di disaccordo è poi rappresentato dall'insistenza di Fatah sull'organizzazione di elezioni secondo un sistema proporzionale e non misto, ovvero diversamente dal sistema che ha portato alla vittoria di Hamas nel 2006. Parallelamente, Fatah ha avanzato la proposta di formare un governo di coalizione dopo il processo elettorale, mentre per Hamas bisognerebbe formarlo prima.
   Di fronte a tale scenario, ci si aspetta che Il Cairo continui a fungere da interlocutore, per far sì che le parti rispettino l'accordo di riconciliazione del 2007 e raggiungano un'intesa sul futuro processo elettorale. Al contempo, evidenzia al-Arab, i gruppi palestinesi si sono resi conto che, per l'Egitto, la loro questione si contrappone ad altre di carattere geopolitico, vista la rivalità tra Il Cairo e Ankara in diversi scenari, dalla Libia al Mediterraneo Orientale. Tuttavia, a detta del quotidiano, i gruppi palestinesi sembrano essere desiderosi di superare le divergenze per giungere ad un accordo e ad indire elezioni secondo i meccanismi stabiliti in precedenza.

(Sicurezza Internazionale, 17 novembre 2020)


I servizi segreti di Israele e Francia sferrano due colpi fatali al jihadismo

di Fabio Marco Fabbri

Il 13 novembre il New York Times ha pubblicato la notizia che Abdullah Ahmed Abdullah, alias Abu Mohammed Al-Masri, uno dei vertici di Al-Qaeda, è stato assassinato a Teheran ad agosto da agenti israeliani del Mossad. Ciò nonostante, il servizio d'informazione di Teheran smentisce perché dovrebbe ammettere che spie israeliane sfuggono all'asfissiante controllo del controspionaggio iraniano. Inoltre, sabato 14, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha negato l'uccisione del leader jihadista, assicurando l'assenza di qualsiasi personaggio legato ad Al Qaeda sul territorio iraniano; ma altre informazioni danno la presenza in Iran di Al-Masri dal 2003. Al-Masri, numero 2 di Al-Qaeda, era stato accusato dagli Stati Uniti di essere il regista e l'autore degli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998; l'annichilimento del terrorista avvenuto, forse simbolicamente, il sette agosto, anniversario degli attacchi alle ambasciate suddette dove furono uccise 224 persone e ferite altre 5mila, è stato attuato da agenti segreti israeliani del Mossad infiltrati tra le maglie della sicurezza iraniana. Abdullah Ahmed Abdullah, annoverato nell'elenco dei terroristi più ricercati dalla Fbi (Polizia federale degli Stati Uniti), è stato ucciso, come riporta l'informazione, "a colpi di arma da fuoco in una strada di Teheran da due killer in motocicletta". Tale notizia è confermata dai servizi d'intelligence statunitensi. Risulta che gli agenti segreti del Mossad abbiano sparato alla macchina con a bordo Al-Masri, uccidendo anche una sua figlia di nome Miriam, vedova di Hamza Bin Laden eliminato in modo non ben definito nel 2019, figlio di Osama Bin Laden il capo di Al-Qaeda ucciso ad Abbottabad in Pakistan dalle forze speciali statunitensi il 2 maggio 2011.
  L'egiziano Abdullah Ahmed Abdullah o anche Saleh Abu Mariam, secondo il "disinvolto" centro di Intelligence, Surveillance and Reconnaissance Group, era considerato uno dei più esperti e più capaci organizzatori di operazioni terroristiche, infatti la polizia federale americana aveva offerto dieci milioni di dollari, come ricompensa, per qualsiasi informazione che portasse alla sua cattura. Sempre venerdì 13 novembre il ministro francese delle Forze armate, Florence Parly, ha annunciato che in Mali le forze del Barkhane hanno eliminato Bah Ag Moussa, descritto dal ministro come un "capo militare", attore dei più efferati attacchi terroristici nell'area del Sahel, tra il Burkina Faso, Niger, Ciad e Mali. Questo leader jihadista, anch'esso legato ad Al-Qaida, ma punto di riferimento del jihadismo che orbita nell'Africa centro occidentale, è stato eliminato con un forte impegno, come riferisce Parly, di "significative risorse di intelligence oltre a un raffinato dispositivo di intercettazione". Tali pesanti e penetranti azioni mirate su Bah Ag Moussa hanno strappato alcune maglie della rete di omertà che proteggeva la sua figura, permettendo, così, l'uscita di poche informazioni che tuttavia hanno condotto i servizi segreti francesi a intercettare e sopprimere l'ormai ingombrante leader jihadista capo del Gsmi (Gruppo di sostegno per l'Islam e i musulmani).
  La dinamica dell'uccisione ha versioni leggermente contrastanti tra ciò che viene comunicato ufficialmente e ciò che circola sui social locali, comunque il pick-up, con cinque persone a bordo tra cui Bah Ag Moussa, è stato intercettato a circa 100 chilometri da Ménaka, nel nord-est del Mali. Secondo il colonnello Frédéric Barbry, portavoce dell'esercito, diversi droni hanno guidato cinque elicotteri con a bordo circa venti incursori della forza Barkhane, che raggiunto l'obiettivo sono sbarcati dai velivoli. Il "commando" francese, secondo lo Stato maggiore, ha sparato prima colpi di avvertimento e poi ha crivellato l'auto; discesi gli occupanti dal veicolo vi è stato un tentativo di risposta, ma nessuno è scampato all'attacco francese. Lo Stato maggiore francese ha tenuto a comunicare che in ottemperanza ai trattati di diritto internazionale umanitario, i morti sono stati sepolti, ma un video che continua ad essere diffuso, non datato e non localizzato, ma dichiarato attinente al fatto, mostra soldati maliani intorno a diversi corpi carbonizzati.
  Nell'articolato sistema del jihadismo saheliano va ricordato che Bah Ag Moussa era un componente dell'esercito del Mali, che ha disertato nel 2012, fondando, con Iyad Ag Ghali, il gruppo jihadista Ansar Eddine, diventato poi il Gsim attraverso la fusione con Al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim) e altri gruppi islamisti. Artefice di pesanti attacchi al suo ex esercito, Bah Ag Moussa, nel 2019, è stato inserito, dal Comitato per le Sanzioni delle Nazioni Unite (Onu), nell'elenco dei criminali legati ad Al-Qaeda. Come possiamo notare, molto spesso, i leader jihadisti o autoritari capi di Stato africani o del vicino Oriente che assurgono ai vertici di organizzazioni terroristiche, para-terroristiche, o a capo di "Stati canaglia", come vengono definiti, hanno trascorsi che li vedono "istruirsi" o in eserciti regolari od in sistemi di intelligence convenzionali, vedi Cia (Central Intelligence Agency); tra questi ricordo il vituperato presidente iracheno Saddam Hussein, od il rimpianto Muammar Gheddafi, o l'attuale presidente della Cirenaica, Khalifa Haftar, non dimenticando Osama Bin Laden, tutti personaggi che, ognuno con la propria storia, un "passaggio" per la Cia pare lo abbiano fatto.

(L'Opinione, 16 novembre 2020)


In Israele riemergono 'pezzi' di Bibbia: ritrovata un'antica fortezza dell'epoca del Re Davide

Scavo archeologico in Israele riporta alla luce un'antica fortezza biblica: civiltà delle quali si erano quasi perse le tracce riemergono dal passato

di Monia Sangermano

pezzi di storia e di Bibbia che riemergono dal passato. Di recente sulle alture del Golan, in Israele, durante scavi esplorativi prima della costruzione di un nuovo quartiere, è stato rinvenuto quello che potrebbe essere il più antico insediamento fortificato risalente all'epoca di Davide, secondo re di Israele, databile a circa 3.000 anni fa. All'interno dei resti del forte nel sito di Haspin, nel nord di Israele, datato all'XI-IX secolo a.C., sono state rinvenute le incisioni rupestri di due figure che tengono le braccia in alto, forse in preghiera e probabilmente rivolte verso la Luna. Non è ancora noto chi presidiasse la fortezza, costruita con grandi massi di basalto e muri larghi quasi un metro e mezzo. Come ha spiegato al "Times of Israel" Ron Be'eri, consulente scientifico della Israel Antiquities Authority, l'ipotesi è che la fortezza dell'era del re Davide (che rese gli israeliti, con loro capitale Gerusalemme, un popolo stanziale e organizzato) possa essere la prima prova della presenza dei geshuriti citati nella Bibbia.
    "Nel momento in cui gli imperi egiziano e ittita vengono distrutti si crea un grande vuoto. Non abbiamo resoconti scritti di quell'epoca e torniamo a una sorta di 'preistoria' in cui possiamo fare affidamento solo su manufatti fisici. Quindi si entra nel campo delle supposizioni",
ha spiegato l'archeologo israeliano.
Il piccolo forte ritrovato ora venne costruito su una collina che poteva servire come punto d'osservazione in una posizione strategica, sopra il canyon del fiume El-Al. Secondo Be'eri, il forte testimonia l'era di conflitti e della lotta per il controllo iniziata dopo la caduta dell'impero ittita settentrionale intorno al 1180 a.C. Tra i popoli che si battevano c'erano i geshuriti, ovvero un gruppo di aramei la cui capitale si trovava nell'odierna Betsaida, a nord del Mar di Galilea. Come ha spiegato Be'eri, è altamente probabile che il forte di Haspin (o Hispin) appartenesse al popolo geshurita o a un altro gruppo arameo. Le testimonianze fisiche di questi popoli giunte fino a noi sono poche e nessuna documentazione testuale esterna a parte alcune citazioni nella Bibbia. I manufatti israeliti dell'epoca visibili ancora oggi sono tanti, ma vi sono molti meno resti lasciati dai popoli aramei. Gli esempi più vicini ai reperti del forte si trovano nel sito archeologico di Tel Bethsaida.
   Come è spiegato dalla Israel Antiquities Authority, lo scavo archeologico del sito è stato eseguito principalmente da residenti e giovani locali.
    "È possibile che il forte fosse presidiato dai geshuriti, che secondo la Bibbia, governarono nel Golan meridionale e intrattenevano relazioni diplomatiche con il re Davide e la dinastia davidica. Il complesso che abbiamo esposto è stato costruito in una posizione strategica sulla piccola collina, sopra il canyon El-Al, che domina la regione, in un punto in cui era possibile attraversare il fiume
     - spiegano i direttori degli scavi, Barak Zin ed Enno Bron -.
       Durante lo scavo è stato scoperto un altro raro ed emozionante ritrovamento, una grande pietra di basalto con incisione schematica di figure a due corna con braccia aperte. Potrebbe esserci anche un altro oggetto accanto a loro. È interessante notare che nel 2019, una figura scolpita su una stele di pietra cultuale è stata trovata nel progetto di spedizione di Bethsaida, diretto dal dottor Rami Arav della Nebraska University, a Betsaida appena a nord del Mare di Galilea. La stele, raffigurante una figura cornuta con le braccia aperte, è stata eretta accanto a una piattaforma rialzata (bama) adiacente alla porta della città. Questa scena è stata identificata da Arav come rappresentante del culto del dio della luna. La pietra di Hispin si trovava su uno scaffale vicino all'ingresso e non una, ma vi erano raffigurate due figure.
       Secondo gli archeologi, è possibile che una persona che ha visto l'imponente stele di Betsaida, abbia deciso di creare una copia locale della stele reale. La città fortificata di Betsaida è considerata dagli studiosi la capitale del regno arameo di Geshur, che governò il Golan centrale e meridionale 3000 anni fa. Le città del Regno di Geshur sono conosciute lungo la costa del Mar di Galilea, tra cui Tel En Gev, Tel Hadar e Tel Sorag, ma i siti sono poco conosciuti nel Golan. Questo complesso fortificato unico solleva nuovi problemi di ricerca sull'insediamento del Golan nell'età del ferro. A seguito di questa scoperta, verranno apportate modifiche ai piani di sviluppo insieme al Ministero dell'edilizia abitativa e delle costruzioni, in modo che l'unico complesso fortificato non venga danneggiato. Il complesso si svilupperà come un'area aperta lungo la riva del fiume El-Al, dove si svolgeranno attività didattico-archeologiche, come parte del patrimonio culturale e di legame con il passato. Siamo sbalorditi da questi rari risultati e grati per l'opportunità di sperimentare il lavoro sul campo e rafforzare i legami delle giovani generazioni con le loro radici".
(MeteoWeb, 14 novembre 2020)


Grazie Mr. Trump, ma molto rimane purtroppo incompiuto

Al di la delle antipatie personali, bisogna ammettere che Trump ha fatto cose molto buone in Medio Oriente anche se in molti casi sembra tutto terribilmente incompiuto.

di Franco Londei

Come non ringraziare l'ex Presidente americano, Donald Trump, per aver spostato l'ambasciata americana in Israele a Gerusalemme, non fosse altro che per il palese riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello Stato Ebraico.
Come non ringraziarlo per essere uscito da quel disastro che era l'accordo sul nucleare iraniano negoziato da Barak Obama e da Federica Mogherini?
E dell'uccisione del Generale Qassem Soleimani, capo della fantomatica Forza Quds, reparto d'elite del Corpo delle Guardie della Rivoluzione iraniana, ne vogliamo parlare?
E come faremmo a non ringraziarlo per il taglio dei fondi alla UNRWA, una agenzia ONU dedicata unicamente ai palestinesi che più di una volta ha fomentato odio anti-ebraico e addirittura usato le loro strutture come magazzini per le armi di Hamas.
E come potremmo dimenticare tutto quello che ha fatto per avvicinare Israele ai paesi arabi contribuendo a isolare l'Iran e gli stessi palestinesi? Mai un Presidente americano aveva fatto tanto in tal senso. Lo dico davvero con estrema sincerità.
Tuttavia… beh, tuttavia si ha la sensazione di trovarsi di fronte a una grande incompiuta.
Non lo dico perché a me Trump non è mai piaciuto, credo di avergli riconosciuto sempre quello che di positivo ha fatto, lo dico perché è la sensazione che mi ha lasciato la fine dell'Amministrazione Trump.
Per esempio, l'uscita dall'accordo sul nucleare iraniano avrebbe avuto un senso se alle sanzioni si fosse affiancata una seria minaccia militare non appena l'Iran - come è poi avvenuto - avesse ripreso l'arricchimento dell'uranio oltre i limiti consentiti o comunque avesse in qualche modo ripreso il programma nucleare.
Invece non solo questa minaccia non c'è mai stata, ma alla durissima reazione iraniana seguita all'uccisione di Soleimani, il Presidente Trump non ha fatto semplicemente nulla, come se avesse paura dell'Iran o, peggio, come se la reazione iraniana fosse stata "telefonata".
Il risultato di tutto questo è che oggi ci ritroviamo gli iraniani che hanno ripreso allegramente il loro programma nucleare (nonostante sanzioni e pandemia) e che Trump ha dato la nettissima impressione che sul nucleare iraniano non avesse alcuna strategia, che insomma navigasse a vista.
In Medio Oriente, almeno per quanto mi riguarda, non gli perdonerò mai di aver venduto ai turchi gli eroici combattenti curdo-siriani, di aver detto ad Erdogan "prego si accomodi". Certo, poi un passetto indietro lo ha fatto, più perché pressato dall'indignazione mondiale che per altro, ma davvero poca cosa.
Ecco, con Erdogan non ho mai capito cosa volesse fare. Ha taciuto praticamente su tutto, su tutte le malefatte del capo della Fratellanza Musulmana. In tutto ha bloccato temporaneamente la consegna dei caccia F-35 alla Turchia dopo che il successore di Abu Bakr al-Baghdadi aveva comprato dalla Russia il sistema missilistico S-400. E sono quasi sicuro che non sia stata una sua decisione.
In Medio Oriente ha polarizzato il suo sostegno su Israele e Paesi Arabi del Golfo, cosa buona e giusta se questa mossa non avesse finito per creare un nuovo pericolosissimo mostro, quello turco-iraniano che tanti problemi darà (e non solo in Medio Oriente).
Magari le sue intenzioni erano di sistemare le cose nel secondo mandato, senza l'assillo della rielezione. Non lo sapremo mai. Per ora non possiamo fare altro che sperare che la nuova Amministrazione prosegua sulla strada tracciata da Trump e che magari, per esempio con la Turchia, sia decisamente più dura. Ormai l'Iran l'abbiamo perso e non rimane che la soluzione più dura. Speriamo che Joe Biden lo capisca.

(Rights Reporter, 16 novembre 2020)


Israele invierà il suo secondo astronauta sulla Stazione Spaziale Internazionale

Eytan Stibbe andrà in orbita nel 2021. Dovrebbe restare 200 ore nella Stazione Spaziale Internazionale, dove "attuerà una serie di esperimenti, senza precedenti nella loro gamma"

di Beatrice Raso

Eytan Stibbe
Eytan Stibbe sarà il secondo astronauta israeliano ad andare a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, dopo Ilan Ramon. Lo ha annunciato il presidente israeliano, Reuven Rivlin, insieme alla Fondazione Ramon e al ministro della scienza e della tecnologia Yizhar Shai.
Stibbe, un ex pilota da combattimento, dovrebbe partire per conto della Fondazione Ramon alla fine del prossimo anno per restare 200 ore nella Stazione, dove "attuera' una serie di esperimenti, senza precedenti nella loro gamma, usando tecnologia israeliana". La navicella spaziale per la Iss sara' lanciata dalla Florida alla fine del 2021. "Questo - ha detto Rivlin - e' un giorno di celebrazione nazionale e di immenso orgoglio".

(MeteoWeb, 16 novembre 2020)


L'entità sionista è un complotto cristiano per vendicare i crociati"

"Insegnate ai vostri figli che Israele è destinato a finire", dicono quotidiani e tv dell'Autorità Palestinese

In occasione dell'anniversario della Dichiarazione Balfour (2.11.1917), l'Autorità Palestinese ha pubblicato lo scorso 3 novembre due editoriali sul suo quotidiano ufficiale Al-Hayat Al-Jadida. Un editoriale, firmato dal commentatore abituale Omar Hilmi al-Ghoul, descrive l'istituzione dello stato di Israele come un complotto delle nazioni cristiane d'Europa inteso a vendicarsi sul mondo arabo per la sconfitta dei crociati di quasi mille anni fa, e aprire la strada a saccheggi e distruzioni su vasta scala nella regione.
"L'inizio della rapina e del furto delle risorse della nazione araba e dei suoi popoli è avvenuto in Palestina - si legge nell'editoriale - nel momento in cui l'entità colonialista straniera, cioè lo stato di Israele, è stata impiantata nella terra del popolo palestinese. Ciò aveva lo scopo di prendere di mira gli interessi, i diritti, le risorse, l'indipendenza, la sovranità e il progresso della nazione araba, e anche di regolare i conti storici con arabi e musulmani in risposta alle sconfitte dei crociati, e non di difendere il credenti della religione ebraica o i sionisti che li usavano per i loro fini"....

(israele.net, 16 novembre 2020)


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