Notizie 16-30 novembre 2024
Gaza: Trump vuole un accordo prima del suo insediamento
Il senatore Lindsey Graham è stato particolarmente duro con l'estrema destra israeliana
Il senatore repubblicano statunitense Lindsey Graham, che questa settimana si è recato in Israele e ha incontrato alti funzionari tra cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, ha dichiarato venerdì che il Presidente eletto Donald Trump vuole vedere un accordo per il cessate il fuoco a Gaza prima di rientrare alla Casa Bianca a gennaio. Ha parlato mentre una delegazione di Hamas dovrebbe arrivare al Cairo sabato per colloqui con funzionari egiziani su un possibile cessate il fuoco. “Trump è più che mai determinato a far rilasciare gli ostaggi e sostiene un cessate il fuoco che, appunto, includa un accordo sugli ostaggi. Vuole che ciò avvenga subito”, ha dichiarato Graham, persona molto vicina al presidente entrante, al sito di notizie Axios. “Voglio che le persone in Israele e nella regione sappiano che Trump è concentrato sulla questione degli ostaggi. Vuole che le uccisioni si fermino e che i combattimenti finiscano”, ha detto. “Spero che il Presidente Trump e l’amministrazione Biden lavorino insieme durante il periodo di transizione per far rilasciare gli ostaggi e ottenere un cessate il fuoco”. Con il nuovo cessate il fuoco in Libano questa settimana, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha spostato l’attenzione su Gaza, lanciando una nuova spinta per porre fine ai 14 mesi di combattimenti con un accordo che preveda la restituzione di 101 ostaggi ancora trattenuti dai terroristi. I commenti di Graham sono in linea con quelli fatti da Trump a Netanyahu pochi giorni prima delle elezioni americane. Trump ha confermato di aver detto a Netanyahu che vuole che Israele vinca la guerra rapidamente, anche se non ha fornito pubblicamente una tempistica. A complicare le cose, la coalizione di Netanyahu comprende elementi di estrema destra che si sono opposti alle proposte di accordo sugli ostaggi condizionate a un cessate il fuoco permanente a Gaza e che hanno espresso il desiderio di rioccupare la Striscia in modo permanente e di ricostruire gli insediamenti ebraici. Graham ha respinto i commenti del ministro delle Finanze israeliano di estrema destra Bezalel Smotrich, secondo cui la vittoria elettorale di Trump offre l’opportunità di incoraggiare quella che ha definito “l’emigrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza, in modo da incoraggiare la metà dei 2,2 milioni di residenti della Striscia ad andarsene entro due anni. “Penso che dovrebbe parlare con Trump e sentire cosa vuole. Se non ha parlato con lui, non gli metterei le parole in bocca”, ha detto Graham, che ha anche espresso la sua opposizione alle richieste dell’estrema destra di occupare Gaza a tempo indeterminato. Il senatore statunitense ha anche incontrato il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman durante la sua recente visita in Medio Oriente e ha toccato il tema della normalizzazione con Israele, che secondo lui dovrebbe includere una “componente palestinese”. “La migliore polizza assicurativa contro Hamas non è una rioccupazione israeliana di Gaza, ma una riforma della società palestinese. Gli unici che possono farlo sono i Paesi arabi”, ha detto Graham. Il New York Times ha riferito giovedì che Hamas sta mostrando una maggiore flessibilità nei colloqui, da tempo bloccati, per un accordo e potrebbe accettare che le Forze di Difesa Israeliane rimangano temporaneamente al confine dell’enclave con l’Egitto. Citando anonimi funzionari statunitensi, il report ha affermato che il gruppo terroristico potrebbe rinunciare alle richieste principali e accettare un accordo di cessate il fuoco che Israele potrebbe sostenere. Secondo il quotidiano, anche prima che venisse raggiunto un cessate il fuoco tra Hezbollah e Israele questa settimana, funzionari palestinesi e statunitensi avevano detto di ritenere che Hamas fosse pronto a rinunciare alla strategia professata dal leader ucciso Yahya Sinwar e a muoversi verso un accordo. Citando due persone che hanno familiarità con il gruppo terroristico, il rapporto ha affermato che i leader del gruppo terroristico hanno discusso di permettere a Israele di mantenere una presenza temporanea nel Corridoio di Filadelfia, l’area strategica di confine tra Egitto e Gaza da cui la leadership di Israele si è impegnata a non ritirarsi. Gerusalemme ha insistito sul fatto che le truppe rimangano a Gaza per impedire il contrabbando di armi dall’Egitto e afferma di essere disposta solo a un arresto temporaneo della sua campagna per distruggere Hamas. Giovedì Netanyahu ha dichiarato in un’intervista che sarebbe d’accordo con una pausa nei combattimenti a Gaza “quando pensiamo di poter ottenere il rilascio degli ostaggi”, ma non accetterebbe la fine della guerra. Secondo il New York Times, “la realtà ha iniziato ad affondare” per Hamas dopo la morte di Sinwar in ottobre, quando è diventato chiaro che l’Iran non intendeva aprire un conflitto diretto con Israele e che Hezbollah era stato duramente colpito dall’IDF. Hamas sperava che i suoi alleati nell’asse iraniano sarebbero rimasti in lotta e avrebbero costretto Israele ad accettare un cessate il fuoco alle condizioni di Hamas. Secondo il giornale, i leader di Hamas sono divisi sul ruolo che dovrebbe avere dopo la guerra e sui compromessi che dovrebbe accettare per raggiungere un cessate il fuoco. Secondo un articolo del Wall Street Journal di giovedì, i funzionari egiziani sono stati in contatto con lo staff di Trump per valutare se potesse fare progressi nell’ammorbidire le posizioni di Israele nei negoziati, in particolare per quanto riguarda il controllo del confine tra Gaza ed Egitto e la creazione di una zona cuscinetto tra Israele e la Striscia. Anche i funzionari egiziani hanno apparentemente cercato di ammorbidire la posizione di Hamas, ha riferito il giornale, comunicando al gruppo che la sua posizione negoziale si è indebolita dopo essere stata “isolata” dal cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah in Libano. Secondo il rapporto, i funzionari hanno detto al gruppo che difficilmente potrà continuare a insistere su un ritiro completo di Israele. I colloqui indiretti finalizzati a un accordo per la liberazione dei 101 ostaggi detenuti a Gaza e per porre fine a circa 14 mesi di combattimenti si sono arenati dall’estate, dopo che diversi cicli di negoziati mediati da Stati Uniti, Egitto e Qatar non sono riusciti a far convergere le parti. Hamas ha chiesto che qualsiasi accordo ponga fine alla guerra a Gaza e che Israele si ritiri completamente dall’enclave. Chiede inoltre il rilascio di un gran numero di prigionieri palestinesi in cambio degli ostaggi.
(Rights Reporter, 30 novembre 2024)
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La pace a tavola, Palestina e Israele unite in Italia dal potere della cucina
di Alessandro Zoppo
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La fortezza di Castel del Monte
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La pace è possibile tra Palestina e Israele, almeno seduti a un tavolo in cucina. Succede in Italia, a Castel del Monte, dove sei cuochi palestinesi e israeliani si ritrovano per l’evento La pace a tavola, un convivio unico nel suo genere: in una situazione di sangue, morte e sofferenza, lanciare un messaggio di luce, speranza e riconciliazione attraverso il cibo.
• PALESTINA E ISRAELE: LA PACE È A TAVOLA I sei chef sono Sarkis Yacoubian, Itshak Alhav, Ahmad Jaber, Amal Hana, Nisan Hai e Yousef Arbis. I cuochi portano ad Andria le loro storie, le loro ricette e il messaggio universale della cucina come ponte tra culture, come linguaggio in grado di superare e distruggere le barriere politiche e religiose. Proprio perché non c’è il minimo accordo tra i due governi, i maestri di cucina sono insieme in questo momento.
La scelta di Castel del Monte non è casuale. Fatta costruire nel 1240 dall’imperatore Federico II di Svevia, la fortezza è un capolavoro dell’architettura militare medievale e patrimonio dell’umanità Unesco. “Federico II fu l’unico a risolvere una crociata senza spargimenti di sangue, riunendo i popoli a tavola – spiega Vittorio Cavaliere, presidente dell’associazione promotrice, l’accademia Ricerca e Qualità –. Da quell’esperienza, trasse ispirazione per la creazione di Castel del Monte. Non poteva esserci luogo più simbolico per celebrare la possibilità di un mondo senza conflitti”.
“Federico II è stato un pioniere della tolleranza, unendo ebrei, cristiani e musulmani sotto il suo regno – aggiunge Giovanna Bruno, la sindaca di Andria –. Oggi più che mai, dobbiamo guardare a quel modello con urgenza e speranza, dimostrando che le differenze non sono un ostacolo ma una ricchezza”. Yacoubian e i colleghi sono protagonisti di una serie di iniziative benefiche e solidali al centro di La pace a tavola.
“I coltelli non sono solo strumenti di guerra, ma possono diventare strumenti di pace – dice lo chef armeno di nascita e rifugiato in Israele, fondatore e presidente di Taste of Peace a Giaffa –. Intorno alla tavola, le persone imparano a rispettarsi e a dialogare con amore e gioia”. Taste of Peace è un team culinario multietnico fermamente convinto che la pace inizi nello stomaco.
• LA PACE A TAVOLA: ANDRIA CENTRO DEL MONDO Oltre a mescolare sapori e ingredienti, i sei cuochi uniscono anche le loro culture e tradizioni nella speranza di costruire un futuro diverso. “La guerra non costruisce nulla, mentre la diplomazia è l’unica arma che può unire i popoli – sottolinea Cesareo Troia, assessore alle Radici di Andria –. Attraverso questo evento, vogliamo dimostrare che convivere è possibile. L’esempio dei cuochi israeliani e palestinesi che lavorano fianco a fianco è un monito per il mondo intero”.
“La cucina non ha confini – conclude Domenico Maggi, ambasciatore della World Chef Federation per una pace tutta da assaporare –. È un linguaggio che rispetta tutte le culture e unisce i popoli. Questo evento dimostra quanto il cibo possa essere un veicolo di pace e comprensione”.
(Leonardo.it, 30 novembre 2024)
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Scoperto al largo delle coste di Israele uno dei relitti più antichi del mondo
Il relitto è lungo tra i 12 e i 14 metri ed è stato affondato da una tempesta o da un attacco di pirati
di Paolo Ponga
Uno dei relitti più antichi del mondo è stato scoperto nel Mar Mediterraneo, a circa 90 chilometri dalla costa di Israele. Il rinvenimento è straordinario anche perché la nave contiene ancora centinaia di anfore intatte. Il relitto è stato trovato a 1.800 metri di profondità dalla compagnia petrolifera Energean durante un’indagine esplorativa condotta con un ROV nel 2023. Dopo la scoperta la società ha contattato l’Autorità per le antichità israeliana (IAA), spiegando di aver avvistato “un grande mucchio di brocche ammucchiate sul fondale marino”. Gli archeologi marini dell’IAA hanno così costituito con Energean un team di ricerca, che ha effettuato nel corso del 2024 diverse campagne di studio confermando la presenza di un grosso quantitativo di anfore di un’età compresa tra i 3.300 e i 3.400 anni. Le anfore sono state identificate come vasi di contenimento della tarda età del bronzo, risalenti al periodo cananeo, appartenenti ad un’antica civiltà che fiorì tra il 3.500 e il 1.150 a.C. in quelli che oggi sono i territori di Israele, Palestina, Libano, Giordania e Siria. La scoperta è notevole non solo per il rinvenimento dei reperti ma anche per la posizione del relitto, così lontano dalla terraferma, dove non c’è alcuna linea di vista della costa che possa aiutare nell’antica navigazione a vela. Il suo ritrovamento è stato davvero un colpo di fortuna senza eguali. Il relitto è lungo tra i 12 e i 14 metri ed è stato affondato da una tempesta o da un attacco di pirati, due eventi molto comuni all’epoca. Due anfore sono state sollevate dal fondo e recuperate utilizzando attrezzature appositamente progettate per farlo, ma sotto il sedimento limoso del fondale devono essere centinaia quelle presenti, insieme addirittura a resti del legno della struttura della nave. “Si tratta di una scoperta – ha affermato Jacob Sharvit, responsabile dell’unità marina dell’IAA – di livello mondiale che cambierà la storia e che ci rivela le capacità di navigazione degli antichi marinai. Da questo punto geografico solo l’orizzonte è visibile tutt’intorno. Per navigare usavano probabilmente i corpi celesti, osservando le posizioni del sole e delle stelle. Il tipo di imbarcazione identificato dal carico – ha continuato l’archeologo – era il mezzo più efficiente dell’epoca per trasportare prodotti relativamente economici come olio, vino e generi agricoli come la frutta. Il ritrovamento di una così grande quantità di anfore a bordo di un’unica nave testimonia gli importanti legami commerciali lungo le terre del Vicino Oriente che si affacciavano sulla costa del Mediterraneo”. Fino a questa scoperta gli archeologi avevano ipotizzato che le navi mercantili di quest’epoca così antica navigassero da un porto all’altro rimanendo in vista della costa ma il ritrovamento avvenuto così al largo implica che la capacità di navigazione degli antichi popoli marinari sia stata finora ampiamente sottovalutata. “La scoperta di questa barca – ha concluso Sharvit – cambia ora la nostra intera comprensione delle abilità degli antichi marinai. È la prima in assoluto ad essere stata trovata a una distanza così grande, senza alcuna linea di vista verso alcuna massa terrestre. Qui c’è un potenziale enorme per la ricerca. La nave si trova a una profondità così grande che per essa il tempo si è fermato al momento dell’affondamento. La sua struttura e il carico non sono stati disturbati da mani umane, né influenzati da onde e correnti che colpiscono i relitti in acque meno profonde”.
(Daily Nautica, 30 novembre 2024)
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Liliana Segre: «Perché non si può parlare di genocidio a Gaza, ma di crimini di guerra e contro l'umanità»
di Liliana Segre
Le parole, a volte, diventano clave. Negli ultimi mesi ho fatto appelli per il cessate il fuoco, ho condannato le violenze, ho espresso la più profonda partecipazione al dramma delle vittime innocenti palestinesi e israeliane, ho invocato un rispetto sacrale verso i bambini di ogni nazionalità, di ogni credo, di ogni religione, ho manifestato ripulsa verso lo spirito di vendetta. Eppure, o ti adegui e ti unisci alla campagna che tende ad imporre l’uso del termine «genocidio» per descrivere l’operato di Israele nella guerra in corso nella Striscia di Gaza, o finisci subito nel mirino come «agente sionista». Le cose in realtà sono più complesse e colpisce che alcuni tra i più infervorati nell’uso contundente della parola malata si trovino in ambienti solitamente dediti alla cura, talora maniacale, del politicamente corretto, del linguaggio sorvegliato che si fa carico di tutte le suscettibilità fin nelle nicchie più minute.
Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali — il Medz Yeghern degli armeni, l’Holodomor dei kulaki ucraini, la Shoah degli ebrei, il Porrajmos dei rom e sinti, la strage della borghesia cambogiana, lo sterminio dei tutsi in Ruanda — mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano. I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due, uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra. Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico.
D’altronde, anche di fronte ad operazioni militari volte intenzionalmente a produrre vittime civili e che hanno causato morti innocenti nell’ordine di decine di migliaia (Dresda) o centinaia di migliaia in pochi giorni (Hiroshima e Nagasaki) o addirittura un milione (assedio di Leningrado), non si è mai parlato di genocidi. L’abuso della parola genocidio dovrebbe essere evitato con estrema cura per più di una ragione. In primo luogo, solo coprendosi occhi e orecchie si può evitare di percepire il compiacimento, la libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro. Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei. L’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo, a livelli mai visti da decenni, dimostra l’effetto devastante delle tossine che sono tornate in circolo.
In secondo luogo, l’accusa strumentale del genocidio proietta sull’intero Stato di Israele e su tutto il popolo israeliano — non solo sul pessimo governo in carica — l’immagine del male assoluto. Una demonizzazione ingiusta, ma anche controproducente per le prospettive di pace e convivenza. Ogni riduzione dell’altro a mostro, ogni cancellazione manichea delle sue ragioni — vale per i sostenitori acritici dei palestinesi, ma vale specularmente anche per i sostenitori acritici del governo israeliano — serve solo a perpetuare la guerra, a rinsaldare la trappola dell’odio e ad allontanare il giorno in cui potrà, dovrà sorgere uno Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele.
In terzo luogo, la cultura antifascista e antitotalitaria ha avvertito da sempre le implicazioni velenose delle operazioni di negazionismo, riduzionismo, relativizzazione, distorsione o banalizzazione dei genocidi. Di lì passano inesorabilmente le rivalutazioni delle peggiori dittature e le campagne nostalgiche. Da lì parte il sistematico abbassamento degli anticorpi che sorreggono la coscienza democratica dei cittadini. Inquieta che anche alcuni di coloro che meritoriamente si dedicano alla tutela e alla trasmissione della Memoria sembrino non capire che lasciar passare oggi l’abuso del termine genocidio significa produrre una crepa in un argine. E se crolla quell’argine, domani, potrà passare ben altro.
(Corriere della Sera, 29 novembre 2024)
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Commento di Emanuel Segre Amar.
Moltissime sono state le reazioni all’articolo, a firma di Liliana Segre, oramai divenuta un’icona in Italia e che, quindi, non a caso, il quotidiano di proprietà di Cairo, proprietario anche di La7, il canale più anti israeliano di tutti, ha ospitato con gioia.
Chissà se la Senatrice a vita ha mai saputo che Leone Ginzburg, che dai fascisti fu trucidato, ripeteva sempre, nella cella che condivideva con mio Padre: “l’antifascismo non esiste, perché esiste il socialismo, il comunismo, il liberalismo”. Quella parola restò così bandita dal vocabolario di mio Padre per l’insegnamento ricevuto dal suo amico di tutta la gioventù. Spero che qualcuno glielo riferisca, potrebbe farne buon uso.
Ma andiamo per ordine nella lettura di questo articolo.
La Senatrice certamente è fulminata dai numeri e dalle scene che ogni giorno media e social pubblicano in quantità, ma è parimenti informata delle notizie pubblicate da un governo democratico, e che quindi dovrebbero avere maggior peso di quelle partite da un’organizzazione riconosciuta essere terrorista? Ha mai visto l’insegnamento all’uso delle armi impartito a bambini nella più tenera età? Ha mai visto la preparazione, in set cinematografici, di tante scene Pallywood che poi fanno il giro del mondo?
Si preoccupa, Liliana Segre, di essere etichettata come “agente sionista”; ma si ricorda che il Presidente Napolitano affermò che “l’anti-sionismo nega le ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele”? E allora perché teme tale etichettatura?
Teme la Senatrice di cadere nell’accusa del “politicamente corretto”, e non si accorge di essere proprio lei “politicamente corretta” in questo Occidente che sta tradendo tutti i suoi valori?
Nega, per carità di patria, l’accusa di genocidio rivolta a Israele, ma perché non accusa di volontà genocidiaria Hamas, che aveva nel suo Statuto l’obbligo di uccidere tutti gli israeliani (volontà che aveva già Nasser, ma nel ‘67 lei non se ne interessava), e Hezbollah, il cui capo, Nasrallah, ringraziava l’esistenza dello Stato di Israele perché permetteva di uccidere tutti gli ebrei in una volta sola?
Non si accorge che proprio con questo articolo proprio lei aumenta “l’impennata delle manifestazioni di antisemitismo nel mondo”?
Quali informazioni di prima mano ha la Senatrice per parlare di “pessimo governo in carica”, definito anche “controproducente per le prospettive di pace”? Ha mai letto le delibere del governo israeliano che sole contano, ben al di là delle parole del singolo ministro?
E ho volutamente lasciato per ultime le sue parole di “evidenti crimini di guerra e contro l’umanità”. Lo sa la Senatrice Liliana Segre che tutti i militari israeliani (solo quelli israeliani nel mondo), dai generali all’ultimo soldato di leva, hanno sempre, sul casco, una telecamera che registra tutte le loro azioni e tutte le loro parole, e che, se commettono degli sbagli, questi vengono immediatamente sanzionati dagli avvocati di un’inflessibile Corte Suprema che tutto controlla?
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Segre, ti venero. Ma su Israele stai sbagliando
Il "pessimo governo" di Israele, come lo chiama senza spiegare la Senatrice, che come si vede invece cerca subito la tregua, come ha fatto in Libano, appena può, ha cercato solo di salvare il proprio popolo.
di Fiamma Nirenstein
Non so farmi una ragione dell'articolo della senatrice Liliana Segre, che amo come ebrea e venero come sopravvissuta della Shoah, se non immaginando che nella sofferenza dell'attuale ondata di antisemitismo e di Israele in guerra, spinta dal desiderio di aiutare il mondo ebraico, sia inciampata in un suo legittimo sogno di pace e di equidistanza. Tuttavia, a mio parere, gli ebrei e il mondo civile in generale, non possono abbandonarsi a questo sogno: la verità è l'unica arma per vincere una battaglia, quando essa è per la vita. E questa lo è. L'intenzione della Senatrice è buona: quella di smontare l'accusa di genocidio. Ma nel farlo, Liliana Segre lascia aperto il campo all'accusa di crimini di guerra: tuttavia facendo questo, non fa un buon servizio alla verità fondamentale del diritto all'autodifesa da una forza invece razzista, genocida, e potentissima. Quella dell'Iran e dei suoi proxy, Hamas, Hezbollah, e altri. La Senatrice mette in campo la sua conoscenza giuridica e morale e anche la sua esperienza personale, per individuare giustamente il rovesciamento dell'accusa di nazismo sugli ebrei come pilastro dell'attuale antisemitismo: Robert Wistrich ci ha scritto dei volumi, e così è oggi.
Ma già dal primo incipit della sua riflessione, le carte che mostra sono quelle di una scelta di campo, quella del «cessate il fuoco» e dell'equiparazione delle forze in campo, palestinesi e israeliani. Ma non c'è equipollenza qui: si tratta di scegliere fra il bene e il male, la violenza e la pace, la dittatura e la democrazia. Non è virtuosa di per sé la preferenza per il «cessate il fuoco», quando la guerra è nata da un assalto senza precedenti da parte di una forza assassina che doveva e deve essere necessariamente fermata perché non prosegua o ripeta, forte della sua ideologia nazista, i mostruosi crimini compiuti. Di questo vive Hamas, mentre Israele vive di pace, come ogni democrazia, e va in guerra solo se è obbligata sin dal 1948. Allora, però, c'è un tempo per la pace e uno per la guerra: ed è sbagliato supporre in Israele, aggredita, un supposto spirito di vendetta. Non l'ho visto. Ho visto il sacrificio di una società stupefatta, eroica che è corsa a salvare la gente aggredita e poi a smontare il regime jihadista che ha ordinato di uccidere donne e bambini. Il «pessimo governo» di Israele, come lo chiama senza spiegare la Senatrice, che come si vede invece cerca subito la tregua, come ha fatto in Libano, appena può, ha cercato solo di salvare il proprio popolo.
Sono certa che la maggior parte degli ebrei del mondo è orgogliosa, certo offesa e furiosa per l'ondata di antisemitismo, condivide la guerra di salvezza di Israele, vede chiara la follia dei cortei che quando urlano «Intifada» tengono per un culto della morte in cui dissidenti, omosessuali, donne sono esclusi dalla civile convivenza. Non c'è stato crimine, né vendetta, ma una guerra combattuta sopra gallerie che per 800 chilometri hanno ospitato solo i miliziani di Hamas, gli scudi umani di Hamas, unico responsabile dei suoi cittadini, spesso volenterosa parte della nazificazione che ha nascosto in casa, nelle scuole e negli ospedali le armi e i terroristi. Israele dal primo giorno ha fornito cibo e acqua e elettricità, ha cercato con schiere di avvocati di definire la legittimità degli obiettivi, ha sparso milioni di volantini e telefonate per spostare la gente, mentre Hamas bloccava gli aiuti alimentari e gli scudi umani con i kalachnikov, perché si accusasse Israele di crimini contro l'umanità. Questo anche quando i numeri , anche quelli forniti dal fantomatico governo di Gaza, danno una percentuale di un caduto civile per un caduto «militare»; la più bassa di ogni conflitto dal 1945. Israele non ha compiuto crimini di guerra, ne ha solo subiti; le accuse delle corti di giustizia nell'Onu e sono l'emanazione della maggioranza automatica che copre lo Stato Ebraico di odio e si associa a quel mondo in cui non c'è né diritto né giustizia, ma solo lo scopo di distruggere gli ebrei, Israele, l'Occidente.
Il «pessimo governo» di Netanyahu è l'unico governo democratico mai stato giudicato colpevole; i ragazzi di Israele e i capifamiglia che lasciano tutto per andare nelle riserve, non hanno mai compiuto nessuna crudeltà paragonabile al 7 di ottobre. Questa è una guerra di sopravvivenza del popolo ebraico, una faticosa virtù che salva il mondo.
(il Giornale, 30 novembre 2024)
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Scandalosa equiparazione
“Sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano”. Così si presenta l'equiparazione di crimini fatta dalla senatrice a vita Liliana Segre nell’articolo sopra commentato. Hamas può esserne soddisfatto: essere accusato di crimine contro l’umanità da un ebreo è un vanto: vuol dire che è riuscito a colpire nel segno, e la reazione del colpito glielo conferma. Ma per un ebreo è accettabile dire che l’esercito dello Stato ebraico commette un crimine contro l’umanità perché si difende da chi vuole distruggerlo? Forse si dovrebbe cominciare a capire che l’incenso profuso dai media sull’icona della senatrice sopravvissuta alla Shoah può ottenebrare la vista e fare il gioco dei nemici di Israele. Come tante volte è avvenuto nella storia, gli odiatori degli ebrei cercano sempre di coinvolgere altri ebrei nel loro odio, per poter dire che quello loro non è odio, ma amore. Amore per qualcosaltro: la vera religione, la pura razza, la sacra patria, e di poter dire che anche altri ebrei sono della loro opinione. Oggi l’oggetto dell’amore è la santa democrazia: il bene eterno a cui si contrappone il male assoluto del fascismo in ogni sua manifestazione.
Hamas sa bene che il suo sentimento verso gli ebrei è odio, e non se ne vergogna; gli antifascisti invece pensano, o fanno finta di pensare, che il loro è un sentimento d’amore che va oltre gli ebrei: amore per la democrazia, dentro la quale anche gli ebrei possono partecipare insieme agli altri. Ma è un’illusione. Hamas ha espresso chiaramente, nei fatti e nelle parole, che il suo odio per gli ebrei ha come motivo il semplice fatto che gli ebrei vivono su quella terra e pretendono di esserne i legittimi abitatori e sovrani. Per Hamas dunque è perfettamente legittimo, anzi doveroso, dare pieno corso a questo odio, in qualsiasi forma si presenti possibile.
E’ bene ripeterlo: è odio. Puro sentimento di odio che si diffonde intorno e si propaga con estrema facilità. E contagia. Ma poiché sia il popolo, sia la nazione, sia la terra su cui Israele è destinato a vivere sono espressione diretta ed esplicita della volontà del Dio di Israele, che è l’unico vero Dio creatore del cielo e della terra, il proposito ricercato o soltanto desiderato di contrapporsi a questo progetto è destinato a fallire. E se non ora, un giorno sarà considerato un “crimine contro la divinità”. M.C.
(Notizie su Israele, 30 novembre 2024)
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Israele: resoconto delle operazioni IDF in Libano durante la guerra
Le Forze di difesa Israeliane o IDF hanno pubblicato un riassunto delle loro attività contro Hezbollah negli ultimi 14 mesi, mentre il cessate il fuoco tra Israele e il gruppo terroristico sembra reggere.
Secondo l’esercito, sono stati colpiti oltre 12.500 obiettivi di Hezbollah, tra cui 1.600 centri di comando e 1.000 depositi di armi.
Durante l’offensiva terrestre, hanno partecipato 14 task force a livello di brigata delle IDF e, separatamente, furono svolte oltre 100 operazioni speciali.
Le IDF affermano di aver confermato con elevato grado di sicurezza la morte di 2.500 militanti di Hezbollah, anche se stimano che il numero si aggiri intorno ai 3.500.
Tra le vittime ci sono l’ex leader storico di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e 13 membri del vertice del gruppo terroristico.
Tra i morti ci sono anche quattro comandanti di Hezbollah a livello di divisione, 24 comandanti di brigata, 27 comandanti di battaglione, 63 comandanti di compagnia e 22 comandanti di plotone.
Le IDF affermano di aver sequestrato circa 12.000 dispositivi esplosivi e droni; 13.000 razzi, lanciatori e sistemi missilistici anticarro e antiaerei; e 121.000 apparecchiature di comunicazione e computer.
(Rights Reporter, 29 novembre 2024)
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Cessate il fuoco israelo-libanese: successo diplomatico o errore tattico?
L'accordo è davvero un punto di svolta o è un altro tentativo di preservare il fragile status quo?
di Itamar Eichner*
L'accordo di cessate il fuoco tra Israele e Libano, firmato nel novembre 2024, ha fatto seguito a settimane di intensi combattimenti sul confine settentrionale innescati dal costante armamento di Hezbollah e dai suoi tentativi di sfidare la capacità di deterrenza di Israele. L'obiettivo dell'accordo, che si basa sulla Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza, era quello di ripristinare la stabilità nella regione e prevenire un'escalation verso una guerra totale.
• PUNTI CHIAVE DELL'ACCORDO L'accordo di cessate il fuoco comprende diversi punti chiave volti ad affrontare le minacce alla sicurezza nella regione. Tra questi
- Il ridispiegamento dell'esercito libanese nel sud:
In base all'accordo, circa 10.000 soldati libanesi sono stati dispiegati per conquistare le posizioni di Hezbollah lungo il confine e distruggere le loro infrastrutture fino al confine con il Litani. Queste forze hanno ricevuto il sostegno occidentale per fermare il contrabbando di armi e rimuovere le infrastrutture illegali. Israele ha dato il via libera agli Stati occidentali per armare l'esercito libanese in modo che potesse far rispettare l'accordo.
- Ruolo delle truppe UNIFIL:
L'accordo rafforza il ruolo delle forze ONU nel monitoraggio del confine e introduce nuovi meccanismi di controllo internazionale guidati dagli Stati Uniti con la partecipazione di Regno Unito, Germania e Francia. A differenza della Risoluzione 1701, questa volta ci sarà una presenza fisica degli Stati Uniti per intervenire contro le violazioni. Un generale statunitense del comando CENTCOM è già arrivato in Israele per istituire il meccanismo di controllo. Gli americani hanno annunciato che, pur non essendoci soldati statunitensi sul terreno, ci sarà un intervento attivo americano in collaborazione con l'esercito libanese e l'UNIFIL per garantire che le violazioni siano affrontate in modo rapido ed efficace.
- Impegno a disarmare le armi illegali:
Il Libano dovrà imporre il disarmo dei depositi di armi e delle infrastrutture militari di Hezbollah nel sud del Paese e, in caso contrario, saranno minacciate sanzioni.
- Salvaguardia della libertà d'azione di Israele:
Israele si riserva il diritto di intervenire militarmente se Hezbollah violerà l'accordo e sottolinea che non permetterà il rafforzamento dell'organizzazione sul confine. Già il primo giorno dell'accordo si sono verificate significative violazioni quando i residenti del Libano meridionale sono tornati nei loro villaggi, sebbene l'accordo vieti il ritorno nei primi 60 giorni.
L'accordo prevede una nuova linea di confine - la cosiddetta “linea rossa” - alla quale i residenti non possono tornare durante questa fase. Ma i libanesi non hanno aspettato e hanno cercato di tornare alle loro case. Israele ha reagito prontamente e ha sparato colpi di avvertimento per respingere i residenti. Un drone israeliano ha sparato colpi di avvertimento contro un veicolo entrato nell'area riservata; per errore, gli occupanti sono rimasti feriti, anche se non c'era l'intenzione di colpirli. L'incidente più grave è stato il lancio di un missile da parte di un aereo da guerra israeliano contro una casa in cui erano entrati combattenti Hezbollah. A prima vista, l'accordo sembra pieno di buchi come un formaggio svizzero, ma a differenza della seconda guerra del Libano, quando Israele ignorò il contrabbando di armi fin dal primo giorno, questa volta Israele sembra aver imparato la lezione e ha stabilito nuove regole del gioco: Israele risponderà duramente a qualsiasi violazione dell'accordo, che si tratti di una minaccia imminente o della ricostruzione di infrastrutture terroristiche e del contrabbando di armi. A Gerusalemme si è riconosciuto che solo la forza e il fuoco possono ripristinare la deterrenza che si è completamente affievolita 18 anni dopo la Seconda guerra del Libano. Israele ha chiarito a Hezbollah che reagirà duramente a qualsiasi offesa e non tollererà alcuna provocazione da parte di Hezbollah. Partecipazione internazionale. A differenza degli accordi precedenti, questa volta la comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, è attivamente coinvolta nel monitoraggio e nell'applicazione dell'accordo. Rafforzamento dell'esercito libanese:le forze armate libanesi hanno ricevuto sostegno finanziario e militare dall'Occidente, che potrebbe migliorare la loro capacità di agire contro Hezbollah. Israele vede in questo un'opportunità per il Libano di liberarsi dalle catene iraniane.
• PUNTI DEBOLI DELL'ACCORDO
- Capacità del Libano di affermarsi:
L'esercito libanese è ancora debole nonostante l'ampliamento dei suoi poteri e Hezbollah è stato in grado di manipolare il sistema in passato.
- Provocazioni di Hezbollah: i primi rapporti indicano che Hezbollah continua a costruire nuove infrastrutture e a ignorare le richieste di disarmo.
- Dipendenza dall'impegno internazionale:
Il successo di Israele dipende dal sostegno degli Stati occidentali, che può variare a seconda degli interessi regionali.
• ISRAELE HA IMPARATO DAGLI EVENTI DEL 2006? L'accordo attuale è simile per molti aspetti agli accordi presi all'epoca, ma contiene anche differenze significative:
- Israele chiede meccanismi di controllo più completi e un maggiore coinvolgimento militare del Libano nel sud.
- La libertà d'azione di Israele sarà preservata in misura maggiore, il che impedirà a Hezbollah di usare la calma per riarmarsi.
• SUCCESSO O FALLIMENTO? Dipende dall'analisi degli obiettivi a breve e a lungo termine. Nel breve termine, l'accordo previene ulteriori conflitti al confine e consente a Israele di mostrare un risultato diplomatico positivo. A lungo termine, tuttavia, il successo dipende dall'applicazione delle clausole sul disarmo di Hezbollah e dalla capacità del Libano di affrontare le sfide interne. La storia della regione dimostra che i cessate il fuoco sono spesso solo pause temporanee. Se l'accordo attuale regge, potrebbe creare un nuovo quadro di stabilità sul confine settentrionale. In caso contrario, Israele e Libano si ritroveranno ancora una volta nello stesso ciclo di conflitti, facendo precipitare la regione in una prolungata instabilità.
• LA POLITICA ISRAELIANA Sembra che la base politica di Netanyahu abbia difficoltà ad accettare l'accordo. Dopo aver giurato per oltre un anno che Israele non si sarebbe accontentato di nulla di meno di una “vittoria completa”, la destra israeliana si è svegliata e ha capito che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è sceso a compromessi e ha raggiunto un accordo diplomatico. Nella cerchia di Netanyahu, sono tre le ragioni per cui ha deciso a favore dell'accordo:
- Evitare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Israele vuole evitare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza sia a nord che a sud senza il veto americano. Nei due mesi rimanenti di governo provvisorio negli Stati Uniti, Israele è consapevole della complessità e della delicatezza della situazione e vuole evitarla.
- Ripresa militare: la carenza di munizioni e la mancanza di attrezzature, come i 130 bulldozer trattenuti dagli Stati Uniti, rappresentano una sfida. Queste misure salvano la vita dei soldati. Inoltre, le truppe, soprattutto i riservisti che da più di un anno viaggiano tra il Libano e Gaza, devono essere ricostituite.
- Separazione dei teatri di guerra: Il cessate il fuoco taglia il collegamento tra Gaza e il Libano, cosa che Hamas non vuole. Questa separazione indebolisce Hamas, soprattutto a causa della maggiore pressione militare. Questo potrebbe anche aumentare le possibilità di liberazione degli ostaggi.
L'accordo in sé è solo un pezzo di carta. La cosa più importante per il primo ministro è assicurarsi un documento con il sostegno americano che dia a Israele la legittimità di agire quando necessario, Netanyahu:
Se vengono intraprese azioni contro di noi, se vengono costruite infrastrutture terroristiche, se vengono trasportati razzi e così via. E se vediamo qualcosa del genere, abbiamo il diritto di aprire il fuoco e rispondere a Hezbollah e al Libano, anche in una situazione in cui avanzano a sud del fiume Litani - apriremo il fuoco. Se ci sono tentativi di trasferire armi dalla Siria al Libano, apriremo il fuoco. E se sarà necessario, anche contro obiettivi del regime di Assad, come abbiamo già fatto diverse volte, apriremo il fuoco. L'importante è essere assertivi, e noi lo siamo. Il cessate il fuoco sarà verificato sul campo. Se il cessate il fuoco mantiene ciò che promette, la situazione rimarrà così com'è. Se non ci sarà il cessate il fuoco, attaccheremo Hezbollah. Va detto che il nostro interesse è quello di superare almeno i prossimi due mesi fino a quando non inizieremo a ricevere forniture di armi, poiché ci aspettiamo che l'amministrazione Trump elimini l'embargo e ci permetta maggiori forniture di armi e una maggiore legittimazione per le operazioni in Libano, qualora fosse necessario. Al momento, siamo limitati in alcuni modi e quindi preferiamo un cessate il fuoco. Allo stesso tempo, va detto che Hezbollah sarà un'organizzazione completamente diversa dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco rispetto al 6 ottobre. Abbiamo eliminato l'intera leadership di Hezbollah, compreso Nasrallah, che il Primo Ministro definisce “l'asse dell'asse”. Nasrallah non era solo uno strumento dell'Iran, ma talvolta l'Iran stesso. La sua influenza nel mondo religioso sciita era così grande che la sua rimozione ha conseguenze drammatiche. Abbiamo distrutto il 70% della capacità missilistica di Hezbollah. Abbiamo distrutto in gran parte le infrastrutture e i tunnel di Hezbollah. La distruzione degli edifici nel quartiere di Dahiya è superiore a quella della Seconda guerra del Libano. Abbiamo eliminato 3.500 militanti terroristi. Abbiamo eliminato la minaccia delle forze di Radwan al confine e abbiamo respinto Hezbollah a nord. Tutto questo, insieme all'opportunità e alla legittimità che abbiamo ricevuto dagli Stati Uniti per far rispettare il cessate il fuoco in Libano, rappresenta un cambiamento drammatico, almeno per ora. È importante sottolineare che si tratta di un cessate il fuoco e non della fine della guerra. Secondo l'accordo, ci saranno aggiustamenti di confine a favore di Israele. Non ci sarà la restituzione dei prigionieri di Hezbollah. L'accordo non lo prevede. Per quanto riguarda i residenti del nord, non chiediamo loro di tornare. Comprendiamo la complessità della situazione e la sua delicatezza. Così come non abbiamo chiesto ai residenti del sud di tornare, abbiamo dato tempo per determinare la realtà. Il fatto che la maggior parte dei meridionali sia tornata nonostante il nostro silenzio parla da sé. Ci aspettiamo che i nostri residenti tornino alle loro case con il tempo. Non abbiamo posto fine alla guerra, quindi diciamo che continueremo a sostenere la popolazione del Nord finché non potrà tornare a casa in sicurezza. Non ci arrenderemo con nessuno. Comprendiamo la situazione. Comprendiamo che questo cessate il fuoco potrebbe essere fragile e dichiariamo anche che non significa la fine della guerra ed è per questo che siamo molto cauti sul ritorno dei residenti. Anche dopo i 60 giorni, non chiederemo loro di tornare. Lasceremo che siano il tempo e la situazione sul campo a decidere. Siamo impegnati a continuare ad agire contro Hezbollah e contro qualsiasi minaccia.
• REAZIONI DAL NORD I leader delle comunità del nord hanno attaccato aspramente Netanyahu, accusandolo di averli abbandonati. Netanyahu sa di avere un problema con la sua base di destra. In questa situazione, cerca il sostegno dei media di cui si fida, come Canale 14. In un'intervista, Netanyahu ha cercato di presentare l'accordo come un successo e ha sottolineato che il pericolo di un'offensiva di terra è stato scongiurato. Ha assicurato che i residenti del nord non vivranno un nuovo scenario da “7 ottobre”. Netanyahu ha spiegato che l'IDF è pronto a una guerra intensiva nel caso di una massiccia violazione dell'accordo. Tuttavia, il cessate il fuoco rimane fragile e dipende dagli sviluppi sul campo. La stabilità a lungo termine dipende dal rispetto e dall'attuazione degli accordi. --- * Itamar Eichner è un importante giornalista e commentatore dei media israeliani
(Israel Heute, 29 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’israeliana Nofar Energy firma un accordo da 182 milioni per lo stoccaggio energetico nel Regno Unito
di David Fiorentini
L’azienda israeliana Nofar Energy ha annunciato di aver raggiunto un accordo di finanziamento da 152 milioni di sterline (182 milioni di euro) per lo sviluppo di uno dei maggiori progetti di stoccaggio energetico nel Regno Unito. Fondata nel 2012 e con sede a Kfar Saba, Nofar si è affermata come uno dei principali investitori mondiali nel settore delle energie rinnovabili, aprendo filiali in 10 paesi e assumendo oltre 200 dipendenti. Nello specifico, l’investimento multimilionario sarà destinato alla crescita dell’impianto di immagazzinamento Cellarhead, situato nei pressi della cittadina inglese di Stoke-on-Trent. Attualmente in costruzione, avrà una capacità di 624 megawattora e sarà gestito tramite Atlantic Green, la piattaforma di stoccaggio di Nofar nello UK. “Continuiamo a portare avanti il nostro piano di lavoro pluriennale”, ha annunciato il CEO Nadav Tenne, sottolineando i grandi passi in avanti dell’azienda per consolidare la sua leadership nei progetti di stoccaggio energetico rinnovabile in Europa. Con una capacità totale di circa 10 GWh distribuita tra Regno Unito, Germania, Stati Uniti, Italia, Polonia, Romania e Israele, di recente Nofar Energy ha annunciato il collegamento alla rete e l’operatività commerciale di un altro impianto, Buxton, anch’esso a Stoke-on-Trent, con una capacità di 60 MWh. “Siamo orgogliosi di annunciare un’altra importante linea di finanziamento, che porta a circa 4,2 miliardi di NIS il totale delle chiusure finanziarie firmate in Europa negli ultimi due anni”, ha continuato Tenne. Una grande soddisfazione, condivisa anche dall’ambasciatore UK in Israele, Simon Walters, secondo cui l’investimento “rafforza il solido rapporto commerciale bilaterale tra Regno Unito e Israele e si allinea con l’obiettivo britannico di decarbonizzare il proprio settore energetico entro il 2030”.
(Bet Magazine Mosaico, 29 novembre 2024)
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Israele, scoperto un amuleto egizio a forma di scarabeo di 3.500 anni fa
di Jacqueline Sermoneta
Stava facendo un’escursione con i genitori nel sito archeologico di Tel Qana, a Hod Hasharon, in Israele, quando il suo sguardo si è imbattuto su qualcosa che somigliava a una pietra. In realtà, Dafna Filshteiner, 12 anni, con non poco stupore, ha trovato un piccolo amuleto egizio di 3.500 anni fa. Il reperto, portato negli Archivi di Stato ospitati nel Jay and Jeanie Schottenstein National Campus for the Archaeology of Israel, è stato esaminato dagli esperti dell’Israel Antiquites Autority (IAA), che ne hanno accertato l’autenticità. Secondo gli studiosi, l’antico oggetto risale al periodo del Nuovo Regno d’Egitto, quando l’impero si era diffuso in quelli che oggi sono Israele, Siria e Libano. Sull’amuleto sono incisi due scorpioni, in posizione opposta, uno di testa l’altro di coda. “Il simbolo dello scorpione rappresentava la dea egizia Serket, che, fra l’altro, era considerata responsabile della protezione delle madri incinte. – ha spiegato Yitzhak Paz, esperto dell’Età del Bronzo presso l’IAA – Un’altra decorazione sull’amuleto è il simbolo ‘nefer’, che significa ‘buono’ o ‘scelto’. C’è anche un altro simbolo che sembra un bastone reale”.
“L’amuleto è a forma di scarabeo stercorario che allora era “considerato sacro”, “un simbolo di nuova vita” e “l’incarnazione del creatore divino. – hanno spiegato gli studiosi dell’IAA – Gli amuleti di questa forma rinvenuti in Israele, a volte usati come sigillo, sono la prova del dominio egizio nella nostra regione circa 3.500 anni fa e della sua influenza culturale”. L’amuleto “potrebbe essere stato lasciato cadere da una figura importante e autorevole di passaggio nella zona, oppure deliberatamente seppellito. Dal momento che il ritrovamento è avvenuto in superficie, è difficile conoscerne l’esatto contesto”, ha affermato Paz.
Tel Qana è un sito archeologico di grande importanza storica. Secondo Amit Dagan, ricercatore del Dipartimento di Studi e Archeologia della Terra d’Israele Martin (Szusz) della Bar-Ilan University, e Ayelet Dayan dell’IAA, “questa scoperta è emozionante quanto significativa. Lo scarabeo e le sue caratteristiche uniche, insieme ad altri reperti scoperti a Tel Qana con motivi simili, forniscono nuove intuizioni sulla natura dell’influenza egizia nella regione in generale e nell’area di Yarkon in particolare”.
(Shalom, 29 novembre 2024)
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Toledòt. Un accordo di pace vera
di Ishai Richetti
Nella Parashà di Toledot, in un episodio sorprendentemente simile a un evento accaduto ai tempi di Avraham, Yitzchak viene avvicinato da Avimelech, re dei Filistei, allo scopo di contrarre un patto di non belligeranza. Dopo aver organizzato una festa celebrativa, Yitzchak apparentemente accetta il patto e i due si separano in pace. Come possiamo spiegare il comportamento di Yitzchak? Confrontato con la richiesta di un trattato di pace con i Filistei, interrompe bruscamente la conversazione e organizza una festa che dura tutta la notte. Perché i Chachamim sono apertamente critici nei confronti del trattato di Avraham con Avimelech, ma stranamente silenziosi quando si tratta dell’accordo di Yitzchak con lo stesso re? È possibile che questi due episodi, che sembrano così simili, in realtà differiscano in modo significativo? Una lettura attenta del testo porta alla luce un dialogo subliminale tra Yitzchak e Avimelech, un dialogo che spiega il comportamento apparentemente strano di Yitzchak e ha una rilevanza enorme per i nostri tempi. Non appena Yitzchak vede Avimelech e il suo entourage avvicinarsi, solleva la seguente obiezione: “Perché siete venuti da me? [È ovvio che] mi odiate, poiché mi avete esiliato da voi” (Bereshit 26:27) Avimelech risponde insistendo sul fatto che è venuto per contrarre un patto: “Che non ci farete del male, proprio come noi non vi abbiamo fatto del male, e come abbiamo fatto solo del bene a voi, perché vi abbiamo lasciato andare in pace“..Rabbenu Bechaye analizza questo strano colloquio. Tramite le sue domande Yitzchak ricorda ad Avimelech e al suo capo di stato maggiore tre questioni. 1) “perché venite da me?” Si riferisce alla distanza tra Gherar e Beer Sheva dove ora viveva. 2) “Mi odiate”, invidiosi a causa del mio successo e del vasto numero di bovini e pecore che possiedo. 3) Mi avete scacciato via.” Si riferisce a Gherar dove si era stabilito in precedenza e Avimelech gli aveva detto “vattene via da noi perché sei troppo potente per noi” (Bereshit 26,16). Avimelech risponde a tutte e tre le domande: Per quanto riguarda la domanda sul perché fosse venuto, riconosce: “Abbiamo visto molto chiaramente che D-o è con voi”, sottintendendo così che il successo di Yitzchak nel portare un raccolto abbondante, e il fatto che trovava sempre acqua, erano una prova sufficiente che D-o era dalla sua parte. Come risultato di questa tardiva realizzazione, erano venuti per stipulare un patto con lui. Onkelos traduce la parola giuramento in modo da sottintendere che l’intenzione di Avimelech era di confermare un obbligo esistente ancora ai tempi di Avraham. È importante notare che non c’è disaccordo tra Yitzchak e Avimelech sui fatti. Entrambi riconoscono che durante la loro precedente interazione Yitzchak fu esiliato dal territorio dei Filistei. Ciò su cui non sono d’accordo è, in effetti, una questione molto più profonda. Stanno discutendo sulla definizione che danno al termine “pace”. Per parafrasare il dialogo che si svolge tra il patriarca e il re: Yitzchak apre la conversazione con la seguente obiezione: Come puoi suggerire anche solo la possibilità di poter promulgare un trattato di pace? Le tue intenzioni finora sono state tutt’altro che pacifiche. Non mi hai forse insultato ed esiliato dalla tua terra? Avimelech risponde: Come puoi dire che ti odiamo? Se ti odiassimo, ti avremmo ucciso. Le nostre intenzioni erano ovviamente pacifiche perché in definitiva tutto ciò che abbiamo fatto è stato mandarti via. Yitzchak e Avimelech vivono, in effetti, in due mondi diversi. Per Yitzchak la vera “pace” consiste in qualcosa di molto di più profondo. Perché esista una vera pace, devono esserci sia assenza di ostilità che uno sforzo verso la cooperazione. Tutto il resto potrebbe essere definito come coesistenza reciproca, ma non può essere considerato vera pace. Il comportamento assunto da Yitzchak a seguito di questo colloquio appare altrettanto strano. Invece di rispondere all’interpretazione di Avimelech, Yitzchak interrompe bruscamente la conversazione. Senza dire altro, all’improvviso, Yitzchak “ha organizzato per loro una festa, e hanno mangiato e bevuto” (Bereshit 26:30). Il Radak commenta che Yitzchak “per preservare l’atmosfera amichevole preparò per loro un banchetto e mangiarono e bevvero insieme”. Rav Reggio commenta lo stesso pasuk scrivendo che Yitzchak accetta in qualche modo le parole di Avimelech, anche eventualmente solo di facciata, e non serba rancore. Basandoci su questi commenti possiamo arrivare a capire il comportamento di Yitzchak in questo episodio e perché i Chachamim non abbiano da commentare su questo patto rispetto al patto stipulato da Avraham anni prima. Yitzchak organizza subitaneamente il banchetto a celebrazione del trattato di pace con Avimelech perché riconosce che un’ulteriore conversazione con Avimelech sarebbe stata inutile. Si può negoziare con qualcuno quando ci si trova in una realtà anche parzialmente condivisa e quando i termini usati sono reciprocamente compresi. Yitzchak e Avimelech sono separati da un abisso incolmabile. Quando parlano di “pace”, stanno parlando di due concetti molto diversi. Se non c’è accordo sulla definizione di pace, non è certamente possibile stipulare un trattato di pace. Per porre fine ad una conversazione che non porterebbe alcun frutto e che potenzialmente poteva durare all’infinito, Yitzchak non ha altro metodo che organizzare una festa celebrativa che dura tutta la notte.La mattina dopo, Yitzchak e Avimelech si scambiano promesse. Il testo, tuttavia, non menziona in modo evidente un berit, “patto”. A differenza di suo padre Avraham, Yitzchak non stipula un trattato completo con i Filistei. Riconosce che è possibile siglare solamente accordi temporanei con Avimelech, ma non è possibile stipulare un patto duraturo. Con estrema acutezza, infine, la Torà nota riporta il comportamento di Yitchak nel commiato con Avimelech: “Egli [Yitzchak] li mandò via; e se ne andarono da lui in pace” (Bereshit 26:31). Yitzchak in questo frangente riesce a capovolgere la situazione nel suo rapporto con Avimelech. Tramite le sue azioni afferma: Io mi comporterò con te in accordo con la tua definizione di pace. Proprio come tu mi hai mandato via “in pace” dal tuo territorio, ora ti mando via da dove risiedo “in pace”. Ma Yitchak fa di più. Il Radak commenta che il pasuk “si alzarono presto e prestarono giuramento l’uno con l’altro e lui li congedò e se ne andarono da lui in pace” (Bereshit 26:31)” sottintende che Yitzchak congedò Avimelech e il suo seguito dopo averli accompagnati per il tragitto previsto. Tramite il suo comportamento , facendo credere ad Avimelech di volerlo accompagnare come segno di non belligeranza e di onore nei suoi confronti, Yitchak vuole essere sicuro di stabilire una distanza consona, distanza stabilita sulla carta tramite il trattato stipulato con Avimelech, e fisicamente, tramite l’accompagnamento di Avimelech ad una certa distanza da dove risiedeva. Yitchak in questo modo dimostra di avere imparato dagli errori di suo padre. Mentre Avraham era a suo agio nel contrarre un patto completo con Avimelech e continuò a vivere nel territorio dei Filistei “per molti giorni”, Yitzchak comprende i pericoli di un tale accordo e insiste sulla separazione fisica. I Chachamim non criticano questo patto perché frutto e riconoscimento delle lezioni ben apprese da Yitchak, frutto appunto delle proprie esperienze e delle esperienze vissute da suo padre. Ancora una volta, il testo della Torà ci parla in modo inquietantemente rilevante e ci porta a riconoscere come l’esperienza umana non sia cambiata molto nel corso dei secoli. La definizione di pace, che era al centro dello scambio di Yitzchak con Avimelech, continua ad essere in discussione oggi mentre lo Stato di Israele lotta per vivere in armonia con i suoi vicini. In molte parti del mondo, Israele compreso, ci si riempie la bocca con la parola pace, che viene perlopiù intesa come assenza di belligeranza o sconfitta definitiva del nemico. Ma la vera pace, la pace completa, il shalom che deriva dalla parola shalem, completo, è tutt’altro e sembra essere oggi molto lontano dall’essere raggiunto. La vera pace, il connubio tra assenza di belligeranza e di cooperazione, dovrebbe essere la linea guida e la stella polare per tutti. Questa stella è offuscata da supposti interessi nazionali che sono spesso in realtà interessi personali o di piccole élite. Se la distanza dal shalom shalem, la vera pace, sembra essere oggi molto lontana è importante sapere che un ebreo si contraddistingue perché non si arrende e continua ad operare e a pregare per il vero shalom.
(Kolòt, 29 novembre 2024)
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Parashà della settimana: Toledot (Generazioni)
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Gli italkim e la tregua: “Un sollievo, ma è molto fragile”
di Daniel Reichel
Ci sono emozioni contrastanti tra gli italiani d’Israele, gli italkim, residenti nel nord del paese. Da un lato si tira un sospiro di sollievo per la tregua appena iniziata: due mesi di pausa nella guerra contro Hezbollah. Dall’altro nessuno si fa illusioni sulla fragilità del cessate il fuoco. «Siamo esausti, stremati mentalmente e fisicamente», spiega a Pagine Ebraiche Cesare Funaro, chef del kibbutz Sasa. Da un anno divide la sua vita tra il lavoro e il servizio di sicurezza del kibbutz. «Per metà della giornata sono in divisa da chef, per l’altra metà indosso il giubbotto antiproiettili».
Prima dell’intervista ha svolto un incontro con il team del servizio di sicurezza. «Abbiamo fatto una perlustrazione per tutto il kibbutz per vedere se non ci sono pezzi di missili o altro materiale bellico in giro. C’è una certa euforia per la tregua. Da padre di famiglia non posso che sperare in due mesi di tranquillità e pace». Uno dei suoi tre figli è appena tornato dal Libano in congedo. Il più piccolo invece è ancora in Libano. «Ha passato mesi a Gaza, poi è stato mandato al nord. Il 7 ottobre ha partecipato ai combattimenti al kibbutz Kfar Aza, dove è sopravvissuto per miracolo. Non è una vita facile, né per lui né per noi che lo aspettiamo». La speranza è che questa tregua regga e permetta al figlio e a tutti di rifiatare.
• DUE MESI PER HEZBOLLAH PER RIARMARSI
«Per la pace purtroppo bisognerà aspettare a lungo», commenta Guido Sasson, residente a Mitspe Netofa, a poca distanza dal lago di Tiberiade. «Non ci si può fidare dell’altra parte e non c’è molta fiducia nemmeno nel nostro governo. Uno dei miei figli è nell’esercito, lui non si pone molte domande, ma dice che in molti dentro Tsahal spingono per andare avanti con la guerra a Hezbollah». Un altro dei figli di Sasson è stato evacuato ormai più di un anno fa dal kibbutz Baram, 500 metri dal confine con il Libano, insieme alla moglie e i quattro figli. «Non credo ci tornerà più. Magari mi sbaglio, ma finché la sicurezza non sarà garantita al nord, non lo vedo ritornare. E ci vorranno anni per farlo».
Il problema, aggiunge a riguardo Luciano Assin, guida turistica e membro del kibbutz Sasa, è che «nessuno, a livello internazionale, vuole veramente prendersi la briga di fermare fisicamente Hezbollah. Fino ad allora rimarranno sempre una minaccia. Non sappiamo quanto durerà questa tregua, ma sappiamo che Hezbollah nel mentre cercherà di riorganizzarsi e riarmarsi con il sostegno dell’Iran». Assin analizza il contesto geopolitico della regione: «Il Libano è un paese costruito su basi artificiali, con equilibri vecchi di 50 anni che non esistono più. Oggi, con gli sciiti molto più influenti rispetto al passato, e una minoranza cristiana ridotta, finché non ci saranno regimi più stabili, la situazione resterà critica. Questa tregua è solo una questione di tempo, perché l’area è profondamente instabile». Dall’altro lato anche lui non nasconde di aver accolto positivamente la notizia del cessate il fuoco. «Ognuno di noi ha qualcuno impegnato al fronte per cui non si può non essere felici di una pausa nei combattimenti». Dei circa 400 residenti kibbutz, aggiunge Assin, circa una sessantina è rimasto a viverci nel periodo del conflitto. «Oggi però la mensa è strapiena, ci saranno almeno cento persone». Un segnale di un ritorno? «Non saprei. Nessuno si illude che sia finita. Io stesso non me la sento di dire a mia figlia, che viveva qui con i suoi bambini: ”Torna, è tutto tranquillo”. La qualità della vita nel kibbutz è alta, ma ogni famiglia deve fare i suoi conti, soprattutto con bambini piccoli. Alla fine, nemmeno Haifa è sicura: ha ricevuto più bombardamenti di noi».
• GLI OSTAGGI E IL RAPPORTO CON I VICINI ARABI
Il pensiero di tutti va però anche agli ostaggi. «Noi siamo stremati, ma chissà cosa stanno passando loro. Se sono ancora vivi» , commenta con amarezza Funaro. A Sasa, lo chef coordina un team eterogeneo, composto da ebrei, musulmani, cattolici e drusi. «Non ci sono attriti. Spieghiamo sempre ai nuovi lavoratori di non portare la politica sul lavoro. Qui siamo una famiglia: vogliamo tornare a casa sereni e lavorare in armonia. Anche durante la guerra, è stato così. Anzi devo dire che i miei collaboratori si sono tutti preoccupati per me e per i miei figli chiedendomi come stessero, di avvisarli se tornavano dall’esercito. C’è stata molta empatia». Racconta poi un episodio. «Una mia cuoca cattolica mi ha fatto vedere un video di alcuni soldati israeliani che hanno fatto delle cose stupide in una chiesa in Libano. Era molto offesa. Le ho spiegato che ha ragione, quel comportamento era totalmente sbagliato e sicuramente l’esercito l’avrebbe punito. Tsahal prende molto seriamente questi episodi e li condanna con severità».
Anche Assin conferma il clima pacifico con le comunità arabe circostanti. «Non ci sono mai stati problemi, nemmeno nei periodi più tesi, come durante la seconda Intifada. Qui ci si aiuta reciprocamente, e nel kibbutz, dalla raccolta nei campi alla cucina, lavorano molti arabi. Certo c’è un tacito accordo: non si parla di politica. È un gentlemen agreement che mantiene l’armonia».
• IL DESTINO DELLA GUERRA A GAZA
Se la tregua al nord possa portare a un accordo anche a Gaza è una domanda a cui nessuno sa rispondere. «Non mi pare al momento ci siano i presupposti», sottolinea Sasson. «Per siglare un’intesa devi avere un interlocutore, con chi parli ora a Gaza?». Per Assin anche a Gerusalemme c’è chi non ha interesse a chiudere il capitolo conflitto. «Un accordo significherebbe una resa dei conti politica in Israele. Sarebbe infatti istituita finalmente una commissione indipendente sui fallimenti del 7 ottobre. Ma nessuno al governo vuole affrontare le responsabilità per la débâcle. È tutto intrecciato, ed è difficile essere ottimisti».
(moked, 28 novembre 2024)
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Nel ventre molle d’Europa: paese mio, che cosa farai per me? E se non ora, quando?
Le misure da prendere. Le pressioni da attuare. Le strategie da rivedere. Come fermare l’escalation antiebraica, come agire dopo i fatti di Amsterdam? Gli ebrei di Francia e Germania, Belgio e Austria, Svizzera e Scandinavia si interrogano. I leader delle varie comunità ebraiche d’Europa dicono la loro.
di Marina Gersony
Che cosa è cambiato in Europa dopo i fatti di Amsterdam? Come hanno reagito le comunità ebraiche dopo la caccia all’uomo avvenuta nella notte del 8-9 novembre? Ricordiamo brevemente i fatti: quella che doveva essere una semplice partita di Europa League tra Ajax e Maccabi Tel Aviv si è trasformata in una notte da incubo. Parole pesanti, inseguimenti e insulti sono degenerati in risse e aggressioni mirate contro i tifosi israeliani. Le indagini hanno rivelato che gli attacchi provenivano da manifestanti filopalestinesi e simpatizzanti a volto coperto e sebbene siano state segnalate provocazioni iniziali da parte di qualche tifoso del Maccabi, nulla poteva giustificare simili attacchi sproporzionati e brutali. Secondo fonti accreditate, gli assalti di Amsterdam non sono stati episodi isolati, ma atti premeditati e coordinati, avvenuti proprio un giorno prima dell’anniversario della Notte dei Cristalli, il 9 e 10 novembre 1938. Come riporta la Jüdische Allgemeine, dalle chat esaminate dal britannico Telegraph, emerge che la violenza è stata pianificata. In un gruppo chiamato “Buurthuis” (centro comunitario di quartiere), i partecipanti si sono organizzati per avviare una vera “caccia agli ebrei”. Ma quali i numeri oggi di una preoccupante escalation? In Francia, gli episodi antisemiti sono triplicati; in Austria, quadruplicati; nei Paesi Bassi, sono otto volte più numerosi rispetto all’anno scorso. Stanchi di dover sempre chiedere protezione, i leader delle comunità ebraiche di tutta Europa alzano la voce: non bastano polizia e telecamere. Serve cambiare il linguaggio, spezzare la catena di ignoranza e pregiudizi che alimenta questo clima. «L’antisemitismo non si combatte solo con la sicurezza. Va combattuto nelle scuole, nelle famiglie, nei media -, ha detto un portavoce della comunità ebraica parigina. – Non possiamo accettare tutto questo in silenzio». L’Unione Europea nel frattempo ha capito l’urgenza. Lo scorso 14 ottobre, la Commissione ha pubblicato la prima relazione sullo stato di avanzamento della strategia Ue 2021-2030 per la lotta all’antisemitismo e la promozione della vita ebraica. Quasi tutti gli Stati membri hanno avviato piani d’azione specifici e 23 Paesi hanno già una strategia nazionale. Ma per chi vive questa realtà ogni giorno, non è abbastanza. Servono fatti, non solo progetti e parole. Mentre gli scontri scatenano proteste internazionali e rischiano di intensificare ulteriormente la polarizzazione tra comunità, sorgono domande cruciali: l’Europa può davvero proteggere le sue comunità ebraiche? C’è la volontà di intervenire concretamente? E come reagire all’apparato messo in piedi dagli antisemiti? Di seguito, i commenti, le riflessioni e le reazioni dei vari organismi ebraici nei Paesi dell’Europa occidentale e continentale agli eventi drammatici di Amsterdam (fa eccezione il Regno Unito, a cui dedicheremo un approfondimento più avanti).
• OLANDA: clima di paura «I miei genitori sono terrorizzati, io sono terrorizzato – ha urlato un uomo in olandese –. Ho una figlia piccola, cosa si farà, accidenti?». Un anziano ebreo avvolto in un cappotto invernale ha risposto con tono deciso: «Niente, assolutamente niente. Dal massacro del 7 ottobre in Israele, niente». Questi scambi, avvenuti dopo una notte da incubo, riflettono il clima di paura che ha pervaso la comunità ebraica di Amsterdam. Il venerdì successivo alla partita, i membri di questa comunità (che conta circa 15.000 iscritti) si sono confrontati con il vicesindaco della città, chiedendo risposte per non aver impedito i violenti attacchi ai tifosi israeliani. Nel frattempo, la Dutch Organization for Central Jewish Consultation (CJO) ha sollecitato l’adozione di misure urgenti per garantire la sicurezza degli ebrei nei Paesi Bassi e in tutta Europa. Hans Weijel, vicepresidente della CJO, ha affermato che «la comunità ebraica non può essere ritenuta responsabile per le azioni di Israele» e ha sottolineato come la guerra in Medio Oriente stia alimentando la crescente tensione ad Amsterdam, dove, fino all’escalation recente, le comunità ebraica e musulmana vivevano in relativa armonia. «La gente sta diventando sempre più spaventata, altre persone stanno diventando più aggressive e antimusulmane – ha affermato Weijel –. Il governo ha addirittura inviato più polizia nelle sinagoghe e nelle scuole ebraiche, perché la gente ha paura». Secondo un rapporto della Anti-Defamation League (ADL), tra ottobre e dicembre 2023 gli atti di antisemitismo nei Paesi Bassi sono aumentati dell’818% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, confermando una preoccupante tendenza globale. Come riportato da Euronews, Daniella Coronel, una volontaria ebrea olandese presso l’associazione sportiva ebraica Maccabi, ha espresso il suo timore per il crescente antisemitismo nel Paese: «È la prima volta nella mia vita che, come ebrei, sentiamo il bisogno di nascondere la nostra identità». Coronel, che è anche figlia di un membro storico del consiglio di amministrazione dell’Ajax Amsterdam, ha descritto la sua esperienza nell’aiutare i tifosi del Maccabi a trovare rifugio in centri e alberghi prima del loro ritorno in Israele. Tuttavia, non tutti sono d’accordo con l’uso del termine “pogrom” per descrivere gli attacchi. Jair Stranders, membro del consiglio di amministrazione dell’Associazione ebraica progressista di Amsterdam e consigliere comunale, ha osservato che tale terminologia è stata strumentalizzata da alcuni leader per polarizzare ulteriormente le comunità. «La polarizzazione fa parte della democrazia – , ha dichiarato Stranders, – ma i problemi sorgono quando diventa un’arma».
• BELGIO: incitamento all’odio «C’è un aumento importante dell’odio, dell’incitamento alla violenza e della violenza stessa. Un rischio che va preso molto sul serio perché nella società si sta sviluppando una polarizzazione estrema, con un’attività indefessa degli ambienti islamisti, che sono estremamente presenti, sempre più violenti, e che possono passare all’azione. E il fattore dell’emulazione non è da sottovalutare». Queste le parole rilasciate da Yves Oschinsky, presidente del CCOJB (Comitato di coordinamento Organizzazioni ebraiche del Belgio), Paese “cugino” dei Paesi Bassi, con cui confina, e nazione dove la grande presenza di musulmani estremisti è da anni al centro dell’attualità: basta ricordare che Mohammed Salah, uno degli attentatori del 13 novembre 2015 a Parigi, proveniva da Mollenbeek, comune della città di Bruxelles a maggioranza musulmana, e lì era stato trovato nascosto in casa di amici dopo mesi di ricerche. Non è un caso, del resto, che subito dopo i fatti di Amsterdam ad Anversa siano state arrestate cinque persone accusate di stare organizzando sui social una “caccia all’ebreo” come quella nei Paesi Bassi. «Ma anche a Bruxelles la situazione non è affatto tranquilla – ha spiegato Oschinsky in un’intervista a Radio Judaica (la radio ebraica del Belgio) -: qui l ’università Popolare, creata all’interno dell’ Università ULB l’anno scorso, ha pubblicato un comunicato di solidarietà ai loro ‘compagni’ olandesi in cui si dice che i sionisti non sono i benvenuti nelle strade di tutta l’Europa e proclamano il loro impegno nella mondializzazione dell’intifada e della Palestina “dal fiume al mare” (e non c’è alcun dubbio di cosa questo significhi detto da loro: l’eliminazione di Israele). E terminano con una frase choc: “no ai sionisti nei nostri quartieri, nessun quartiere per i sionisti”. Spero vivamente che verranno prese delle misure severe, sia dalla polizia che dalle stesse autorità accademiche, perché si tratta di volere riproporre a Bruxelles attacchi e linciaggi contro gli ebrei, a imitazione di Amsterdam».
• FRANCIA: ansia alle stelle All’indomani dell’attacco ad Amsterdam ai tifosi israeliani e la caccia all’ebreo, Yonathan Arfi, il Presidente del Crif, il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, ha denunciato il “linciaggio di massa”, ma anche espresso la sua “preoccupazione” per l’incontro di calcio a Parigi, la partita fra Francia e Israele disputata a metà novembre: un evento che ha visto la vendita ridotta di 20.000 posti allo stadio (sugli 80.000 disponibili) e che si è svolto in una città blindata, con 4.000 poliziotti dispiegati e quartieri della città bloccati. «Per principio rifiuto di cedere ai violenti – aveva dichiarato Arfi -. Che esempio daremmo se la partita fosse spostata o annullata? Ciò che conta è prevedere i dispositivi di sicurezza necessaria, anche nelle strade di Parigi. Il linciaggio di Amsterdam non è avvenuto solo davanti allo stadio, ma anche negli alberghi dei tifosi israeliani, che sono stati anche umiliati con dei video davvero biechi. Vengono presi di mira non solo per il conflitto a Gaza, ma anche perché sono ebrei. È l’antisemitismo più triviale che riemerge e che richiama alla mente altre immagini». La preoccupazione del mondo ebraico in Francia è alle stelle, dopo che l’antisemitismo è esploso dall’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023: nei primi sei mesi del 2024, sono stati registrati 887 atti antisemiti, pari ad un aumento del 192% rispetto allo stesso periodo del 2023. Stando ad una nota di ottobre della DNRT, la Direzione nazionale dei servizi di intelligence regionali, che era stata consultata da Le Figaro, il 2024 sarà “un anno record”. La stessa nota conferma che la tendenza “sembra inscriversi sul lungo termine”. Un’inchiesta di Le Monde a settembre aveva a sua volta rivelato che, malgrado la guerra, 1.660 ebrei francesi hanno deciso di fare l’aliyah, tra il 7 ottobre 2023 e il 30 agosto 2024: il 50% in più rispetto allo stesso periodo del 2022-23. Ma anche che sono sempre di più coloro che auspicano di partire: a fine agosto, 5.700 persone avevano aperto la pratica presso l’Agenzia ebraica in Francia, ovvero il 338% in più rispetto al 2023. Mentre al Salone dell’Alyah di Parigi del 17 novembre di quest’anno si sono registrate 2500 iscrizioni: un numero record, motivato dall’esplosione dell’antisemitismo in Europa e in Francia in particolare.
• GERMANIA: allarme violenza antisemita “La folla araba dà la caccia ai tifosi di calcio ad Amsterdam”; “Consiglio centrale inorridito dalle rivolte”; “È scoppiata di nuovo la caccia agli ebrei”: questi alcuni dei titoli comparsi sulle principali testate tedesche all’indomani delle rivolte antisemite nella capitale olandese. Da Charlotte Knobloch, presidente onoraria del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, a numerosi rabbini, intellettuali, opinionisti e scrittori ebrei tedeschi, non si contano le dichiarazioni preoccupate nonché l’indignazione per la crescente intolleranza e violenza contro gli ebrei. La Germania, un Paese che ha affrontato a lungo il peso della sua Storia legata alla Shoah, teme un ritorno dell’antisemitismo, soprattutto tra le nuove generazioni. Il Zentralrat der Juden in Deutschland – il Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, che opera a livello nazionale per promuovere il dialogo con il governo e garantire i diritti e la sicurezza della comunità ebraica – ha espresso il proprio sgomento per gli attacchi subiti dai tifosi israeliani ad Amsterdam. Il presidente del Consiglio, Josef Schuster, ha definito gli eventi “immagini da incubo” in una dichiarazione rilasciata sulla piattaforma X. Ha sottolineato che non si trattava di semplici disordini tra tifoserie, ma di una vera e propria “caccia agli ebrei”. Inoltre, ha avvertito che la violenza antisemita in Europa, soprattutto in occasione di eventi sportivi, sta raggiungendo livelli allarmanti. Schuster ha quindi esortato a prendere molto seriamente questo fenomeno, sottolineando come tutto sia accaduto proprio a ridosso del 9 novembre, anniversario della Kristallnacht (Notte dei Cristalli), giornata in cui si commemorano le violenze antiebraiche avvenute in Germania. A sua volta l’ambasciatore israeliano in Germania, Ron Prosor, ha descritto gli attacchi di Amsterdam come «un terribile pogrom contro ebrei e israeliani». In una dichiarazione rilasciata su X ha sottolineato come i fatti non fossero incidenti isolati ma parte di un’escalation di violenza. Prosor ha aggiunto che «in gran numero, le persone sul suolo europeo vengono violentemente attaccate dai rivoltosi musulmani e palestinesi semplicemente perché sono ebrei». Ha inoltre elogiato il Bundestag tedesco per la recente risoluzione contro l’antisemitismo, definendola un «impegno risoluto» per affrontare un «fenomeno disgustoso e preoccupante» e ribadendo che è giunto il momento per tutti i governi e parlamenti europei di assumere posizioni altrettanto ferme garantendo che il “Mai più!” sia «adesso!».
• AUSTRIA: in aumento le minacce online In Austria, attacchi antisemiti come ad Amsterdam non si sono ancora fortunatamente verificati. Tuttavia il clima sta cambiando. Dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, il numero di incidenti antiebraici è aumentato, riportando alla luce un risentimento che in Austria ha radici profonde nella Storia. Un risentimento che, sommato all’odio di matrice islamica, crea alleanze pericolose e un’atmosfera di crescente tensione. La Israelitische Kultusgemeinde Wien (IKG), principale organizzazione ebraica austriaca, ha lanciato un grido d’allarme: «La rabbia contro gli ebrei non è più un fenomeno di nicchia, ma sta permeando la società», avverte Benjamin Nägele, segretario generale. Il fenomeno più diffuso? L’antisemitismo legato a Israele, che Nägele definisce «disinibito». Le cifre parlano chiaro: nei primi sei mesi del 2024, gli attacchi fisici segnalati sono passati da 6 a 16, le minacce da 4 a 22. I danni a beni di proprietà ebraica sono raddoppiati, toccando quota 92. Soprattutto, le minacce online sono in costante aumento. Un’escalation che le autorità, pur avendo inasprito la legislazione contro i crimini d’odio, non sembrano riuscire a contenere. L’atmosfera è pesante: nei luoghi pubblici, nelle scuole e nei campus universitari gli episodi di antisemitismo si moltiplicano, creando un clima di paura, specie tra i giovani. Oskar Deutsch, presidente dell’IKG, lancia un monito: «Non possiamo permettere che l’antisemitismo diventi normalità. L’effetto di assuefazione è il pericolo più grande». E la percezione non mente. Uno sportello per le segnalazioni di atti antisemiti ha registrato un aumento di cinque volte rispetto al passato, mentre i discorsi d’odio si moltiplicano. Nel frattempo, un sondaggio IFES e Demox Research rivela che il 60% dei giovani austriaci condanna l’attacco di Hamas come «un atto di terrorismo spregevole», ma solo un terzo giudica giustificata la reazione di Israele. Come se non bastasse, tra negazionisti e banalizzatori, il solito refrain si fa strada: «Non è antisemitismo, è colpa degli israeliani». Una narrazione tossica che alimenta ulteriormente il ciclo dell’odio.
• SVIZZERA: polarizzazione pericolosa Anche la Svizzera, a lungo considerata un rifugio sicuro per le comunità ebraiche europee, non è più immune dall’onda crescente di antisemitismo che attraversa l’Europa. «La confusione tra antisemitismo e critiche alla politica israeliana è ormai un problema comune a molti paesi», aveva già sottolineato Micaela Goren Monti, presidente di una fondazione ebraica di Lugano. Narrazioni mediatiche sbilanciate, che spesso ignorano le sofferenze israeliane, stanno alimentando una polarizzazione pericolosa. Jonathan Kreutner, segretario generale della Federazione delle Comunità Israelite Svizzere (FCSI), ha dichiarato che anche in Svizzera si è registrato un aumento di aggressioni e minacce, seppur meno intense rispetto a episodi come quelli nei Paesi Bassi. «Le sinagoghe e le scuole sono sotto stretto controllo delle forze di polizia, ma il clima di paura nella comunità è palpabile», ha affermato un portavoce della FCSI. Secondo un rapporto della Federazione, gli attacchi antisemiti nel Paese sono aumentati significativamente, con un picco di 150 casi al mese dopo ottobre. Episodi gravi, come le vetrate infrante della sinagoga di La Chaux-de-Fonds o minacce dirette a istituzioni ebraiche, hanno costretto il governo a rafforzare la sicurezza, specialmente nelle grandi città come Zurigo e Ginevra. Tuttavia, il fenomeno non è solo fisico. La crescente ostilità online preoccupa profondamente: sui social media, messaggi di odio si diffondono senza controllo, contribuendo a un clima sempre più avvelenato. Secondo il Coordinamento intercomunitario contro l’antisemitismo, eventi come quelli di Amsterdam creano un effetto domino: l’odio si propaga e colpisce le comunità, ovunque si trovino. Anche le comunità ebraiche della Scandinavia – Danimarca, Svezia e Norvegia – sono sempre più preoccupate per l’inasprirsi dell’antisemitismo nell’era post-Amsterdam. Sebbene non siano emerse dichiarazioni ufficiali specifiche da parte delle autorità ebraiche, le reazioni generali evidenziano un clima di crescente allarme. L’antisemitismo sembra aver raggiunto livelli mai visti dalla Seconda guerra mondiale. I dati successivi al 7 ottobre 2023, aggravati dagli scontri di Amsterdam, dipingono un quadro fosco: la retorica antisemita si mescola con le tensioni geopolitiche del Medio Oriente, creando un terreno fertile per l’odio. Le comunità ebraiche hanno chiesto misure di sicurezza più rigide e un impegno politico più deciso per distinguere tra critica legittima a Israele e antisemitismo, evitando che i due ambiti vengano confusi. In Scandinavia vivono circa 30.000 ebrei, una minoranza esigua rispetto alla popolazione musulmana, che supera i 1,3 milioni. In Svezia, con 14.900 ebrei e circa 810.000 musulmani, il rapporto è di uno a 54; in Danimarca, dove gli ebrei sono 6.400 e i musulmani 320.000, uno a 50; in Norvegia, la seconda comunità ebraica più piccola della Scandinavia dopo l’Islanda, con circa 1.200 membri e 180.000 musulmani, il rapporto è uno a 150. Sebbene questi numeri non riflettano conflitti diretti, il quadro demografico evidenzia una coesistenza che nasconde tensioni profonde. Secondo stime di fonti come il Pew Research Center e l’European Jewish Congress, la relativa esiguità della popolazione ebraica, rispetto alla più ampia presenza musulmana nei tre Paesi, contribuisce a questa dinamica di tensione. In Norvegia, l’antisemitismo si manifesta principalmente in modo episodico, ma l’aumento dell’antisionismo ha spinto la comunità ebraica di Oslo a rafforzare la sicurezza, con sinagoghe protette e vigilanza costante. Il governo norvegese ha promesso maggiori fondi per combattere l’antisemitismo, inclusi finanziamenti per centri culturali ebraici e l’addestramento della polizia. In Svezia, episodi di antisemitismo sono frequenti, specialmente a Malmö, dove la comunità ebraica locale, già in declino, ha messo in guardia sul rischio di estinzione senza misure adeguate. È urgente garantire protezioni più forti e adottare azioni governative concrete per fermare la crescente ostilità. In Danimarca, personalità di spicco della comunità, come Martin Krasnik, direttore del quotidiano Weekendavisen, hanno denunciato la normalizzazione delle misure di protezione, come il filo spinato attorno a scuole e sinagoghe, come sintomo di un malessere sociale più profondo. Nonostante l’aumento della presenza della polizia, persiste la preoccupazione che l’odio stia diventando parte integrante della società.
(Bet Magazine Mosaico, 28 novembre 2024)
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“Noi veniamo al Quirinale, lei c’è?”: Mattarella sorprende gli alunni della “Vittorio Polacco”
di Luca Spizzichino
Quella che doveva essere una normale visita al Quirinale si è trasformata in un incontro speciale con il Presidente della Repubblica. Tutto è iniziato con Samuel, un alunno di Quinta della Scuola Ebraica Elementare “Vittorio Polacco”, che ha deciso, pochi giorni prima della visita, di scrivere direttamente al Presidente Sergio Mattarella tramite il sito ufficiale del Quirinale. “Gli ho scritto che il 27 saremmo andati al Quirinale con la classe e mi avrebbe fatto tanto piacere incontrarlo” ha raccontato Samuel. Inizialmente il bambino non pensava che avrebbe ricevuto risposta, ma non si è scoraggiato e, saputo che il Presidente era rientrato da un viaggio ufficiale in Cina, gli ha scritto nuovamente.
“Sapevamo che Samuel, di sua sponte, aveva scritto al Capo dello Stato. Non pensavamo realmente che avremmo avuto riscontro e invece poco prima della visita è arrivata la telefonata del Quirinale, in cui ci hanno detto che il Presidente ci avrebbe ricevuto” ha raccontato Roberta Spizzichino, direttrice della scuola.
“Ci hanno chiesto di posticipare l’orario della gita perché il Presidente aveva letto le email di Samuel e voleva incontrarlo” ha spiegato la morà Giordana Terracina, madre di Samuel e referente scolastica per le uscite. “Non ce lo aspettavamo. È stata una sorpresa meravigliosa”.
I bambini, ignari di tutto, hanno scoperto solo pochi minuti prima che avrebbero incontrato il Presidente in persona. “Non volevamo dirglielo subito, nel caso ci fossero stati imprevisti i bambini sarebbero rimasti delusi” ha aggiunto Roberta Spizzichino. Durante la visita, mentre percorrevano le magnifiche sale del Quirinale, la guida ha iniziato a ricevere aggiornamenti sul momento tanto atteso. Infine, i bambini sono stati fatti entrare in una lunga sala, disposti in fila e preparati all’arrivo del Presidente.
Quando Mattarella è entrato, si è subito rivolto a Samuel, riconoscendolo come l’autore delle email. “Sei tu Samuel che mi ha scritto la mail?”, gli ha chiesto stringendogli la mano. Dopo aver salutato tutti i bambini, Mattarella ha chiesto loro quali fossero le parti del Quirinale che avevano apprezzato di più. Alcuni hanno menzionato la Sala degli Specchi, altri la Sala del Ballo o i maestosi lampadari. Il Presidente ha poi posato per una foto di gruppo, regalando un ricordo che difficilmente dimenticheranno. Nonostante la brevità dell’incontro, il calore e la semplicità di Mattarella hanno conquistato tutti, bambini e adulti.
“È stato un momento molto bello. – ha commentato la direttrice – Il Presidente Mattarella ha stretto la mano a tutti, uno per uno, e ha parlato con loro. Li ha fatti sentire importanti, perché lo sono”. “È stato bellissimo vedere i bambini così emozionati e composti, questa esperienza la ricorderanno per sempre”.
Samuel, intanto, conserva gelosamente il ricordo del suo incontro: “Il Presidente mi ha stretto la mano e io questa mano non la lavo più!” ha detto con entusiasmo.
(Shalom, 28 novembre 2024)
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Dopo la tregua ipotesi immunità per Bibi. E Israele annuncia: ricorso contro la Cpi
Per Tajani l'ordine "inapplicabile" finché è in carica. Le indiscrezioni su uno scambio di favori con Parigi.
di Francesco De Remigis
Scattata la tregua sul campo, al tacer delle armi si scatena la giurisprudenza. E fioccano i distinguo sul «caso Bibi». Il premier israeliano colpito da mandato d'arresto internazionale emesso dalla Corte penale dell'Aia per presunti crimini di guerra a Gaza ieri è passato al contrattacco. «Emissione priva di qualsiasi base fattuale o legale», fa sapere il suo ufficio politico, annunciando sul filo di lana il ricorso per confutare sia il provvedimento che prende di mira il ministro della Difesa Gallant sia quello relativo al premier stesso.
Almeno finché è in carica, sostiene il ministro degli Esteri Tajani, per Netanyahu il mandato d'arresto è inapplicabile. Ieri al question time Tajani ha infatti chiarito che il governo italiano sta esaminando «in dettaglio» le motivazioni della sentenza. Pur riconoscendo l'autorità della Cpi, parla di «approfondimenti giuridici» in corso in relazione alla prevalenza del diritto internazionale generale sulle immunità. Uno stand-by di fatto che congela le certezze di chi in Europa avrebbe forse voluto vedere il leader israeliano già con le manette ai polsi, a partire dall'Alto rappresentante Ue Borrell, per cui ottemperare al mandato d'arresto «non è qualcosa che si può scegliere»; almeno non nei 124 Paesi che riconoscono l'autorità della Cpi.
Invece anche la Francia ieri ha rispedito al mittente il messaggio del «governo» uscente dell'Ue. Ricalibrando le iniziali aperture all'arresto, il ministro degli Esteri transalpino Barrot ha spiegato che ci sono «immunità» previste dal diritto internazionale riguardo a Stati «che non fanno parte della Corte». E visto che Israele non ha ratificato lo Statuto (come neppure gli Usa) «Bibi» potrebbe essere dunque esentato dall'esecuzione del provvedimento. Parigi coopera con la Cpi, ha detto Barrot, ma «per certi leader» la decisione spetta all'autorità giudiziaria nazionale.
Giravolta d'Oltralpe, che svela l'esito del confronto al G7 Esteri: a Fiuggi, su input italiano, è emerso che una cosa è onorare il Trattato di Roma, altro è dare la stura a odiatori e toghe che mettono sullo stesso piano la leadership terrorista di Hamas con quella democraticamente eletta di Israele. Tassello non secondario nel domino mediorientale è stata però la decisione di Netanyahu di accettare una tregua con Hezbollah e il graduale ritiro dal Libano del sud. Un passaggio che ha fatto girare la ruota della politica, in attesa che quella della giustizia faccia il suo corso. Per il quotidiano Haaretz, Israele avrebbe infatti condizionato il coinvolgimento della Francia nell'accordo di cessate il fuoco nel Paese dei Cedri proprio all'annuncio pubblico di Parigi sul salvacondotto per Bibi.
Pragmatismo e realpolitik, a cui si aggrappa anche Berlino. La richiesta di manette per Netanyahu, riassume Tajani, rischia di restare solamente «un messaggio politico», perché in un momento di estrema tensione a Gaza e in Libano «occorre perseguire obiettivi realistici che favoriscano dialogo e de-escalation».
L'enigma Bibi si innesta così in un puzzle in cui ogni nazione mette in campo sfaccettature diplomatiche per non essere spettatrice; con Parigi alla disperata ricerca di centralità, in una fase che dovrebbe congelare il conflitto tra Tel Aviv e i miliziani filo-iraniani fino all'insediamento di Trump alla Casa Bianca. Per la premier Meloni, che invita a lavorare alla stabilizzazione del confine israelo-libanese, la tregua è infatti solo «un punto di partenza».
(il Giornale, 28 novembre 2024)
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Il jihad giudiziale della CPI
di Davide Cavaliere
La Corte penale internazionale (CPI), una delle tante istituzioni multinazionali che compongono «l’ordine internazionale basato sulle regole», ha emesso mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, nonché per un leader di Hamas eliminato a luglio.
Questo atto di «solidarietà» verso la Palestina ci dimostra, ancora una volta, che l’idealismo inetto delle istituzioni «sovranazionali» dell’Occidente ha raggiunto la piena bancarotta morale e intellettuale.
La CPI esiste in virtù di un trattato multinazionale e ha giurisdizione solo sui rappresentanti degli Stati che vi partecipano. Pertanto, come fanno i membri di Hamas, un’organizzazione terroristica a cui Israele ha consegnato la Striscia di Gaza nel 2005, a rientrare nella giurisdizione della CPI o su uno Stato che non ha ratificato lo Statuto di Roma come Israele?
Inoltre, la CPI ha avviato il suo procedimento per conto di uno Stato inventato dalla Corte stessa, il cosiddetto «Stato di Palestina». Come spiega il Wall Street Journal, questo fatto implica che essa «ritiene che i confini dello Stato includano Gaza», che dal 2007 non è sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, l’unico organismo di autogoverno palestinese ufficialmente riconosciuto.
Poi, i crimini denunciati dalla Corte sono inesistenti. Israele non sta infliggendo un genocidio agli arabi-palestinesi, si tratta di una spudorata bugia, come non è credibile l’accusa secondo cui l’IDF starebbe «intenzionalmente dirigendo attacchi contro una popolazione civile». Nessun esercito nella storia, che combatta una guerriglia in una zona così densamente popolata, ha mai mostrato tanta preoccupazione per le vite dei civili come quello israeliano. Anzi, gli scrupoli umanitari dello Stato ebraico hanno rallentato le operazioni belliche.
Come ha sottolineato sempre il WSJ, a marzo, «Israele non ha bisogno di essere sollecitato a fornire aiuti umanitari o ad agire con cautela. Secondo il colonnello britannico in pensione Richard Kemp, il rapporto medio di morti tra combattenti e civili a Gaza è di circa 1 a 1,5. Ciò è sorprendente poiché, secondo le Nazioni Unite, il rapporto medio di morti tra combattenti e civili nella guerra urbana è stato di 1 a 9».
La CPI, come l’ONU e le sue numerose agenzie, è uno degli strumenti del jihad giuridico contro Israele, che abusa della sua giurisdizione per delegittimare e demonizzare lo Stato ebraico, tentando di porlo in una condizione di «apartheid» internazionale.
Un’altra sfacciata menzogna della Corte riguarda l’accusa secondo cui Israele stia deliberatamente usando la fame come arma. Un’accusa assurda. Israele ha facilitato il passaggio di oltre 57.000 camion per oltre 1,1 milioni di tonnellate di aiuti alimentari. Il tutto, nonostante i massicci furti operati da Hamas. I blocchi e i rallentamenti sono stati necessari per evitare che i terroristi si rifornissero mediante tali furti. Il diritto internazionale non prevede che un belligerante fornisca sostentamento all’altro.
Il mandato di cattura emesso contro Netanyahu e Gallant rappresenta però l’ultimo rantolo di un’istituzione moribonda. Con l’insediamento di Donald Trump, la CPI dovrà affrontare sanzioni ancora più punitive di quelle del 2020, annullate quasi immediatamente da Biden. L’idea è quella di tagliare fuori dal sistema bancario statunitense i funzionari della Corte. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha parlato di «sanzioni infernali».
Lo spregevole jihad giudiziale della CPI contro Israele dimostra, ancora una volta, il fallimento del magico «ordine internazionale basato sulle regole», che privilegia trattati, accordi, leggi, patti, diplomazia e trattati multinazionali, e i sogni febbrili dei globalisti che pretendono d’incarnarlo.
La politica estera ossessionata da «norme» e «regole» non solo non è stata in grado, come nel caso del conflitto russo-ucraino, di arrestare l’uso della forza da parte di coloro che non si fanno scrupoli a impiegarla, ma è diventata uno strumento in mano a organizzazioni terroristiche e Stati canaglia per ostacolare le democrazie in lotta per la loro sopravvivenza.
I tutori del «diritto internazionale» non trovano mai il tempo per indagare sui crimini e le violazioni compiute dalla Russia o dalla Turchia, dall’Iran o dalla Cina, preferendo concentrarsi ossessivamente su Israele e, talvolta, sugli Stati Uniti.
La convinzione che ci sia una «armonia di interessi» globale, una sorta di partecipazione collettiva a principi universali, che possano costituire la base per un solido diritto internazionale è, nella migliore delle ipotesi, ingenua, nella peggiore, demenziale. La politica interna ed estera è guidata da obiettivi politici, interessi nazionali e di sicurezza di ogni singolo Paese.
La giustizia, quindi, raramente se non mai, è un fattore determinante, nell’elaborazione delle politiche o delle sentenze, che funzionano come camuffamento per perseguire interessi particolari. La CPI non fa eccezione. Come ha scritto Robert Bork, ex Avvocato generale degli Stati Uniti, «il diritto internazionale non è diritto ma politica».
Istituzioni come la CPI illustrano il punto sottolineato da Bork. Il loro scopo non è garantire una qualche forma di giustizia, ma servire il «nuovo ordine mondiale» globalista che disprezza le nazioni gelose della loro sovranità come gli Stati Uniti, Israele o la Polonia, oltreché promuovere il revanscismo dei popoli arabo-musulmani contro l’Occidente.
È arrivato il momento di ripensare l’attuale ordinamento internazionale, con le sue Corti e le sue agenzie manipolate da fiancheggiatori del terrorismo. Imporre loro «sanzioni infernali» sarebbe già un buon punto di partenza.
(L'informale, 28 novembre 2024)
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La rabbia di Hamas per l’accordo tra Israele e Hezbollah
Irritati perché Hezbollah ha reciso il collegamento con la guerra a Gaza. Ma anche loro cercano un accordo.
di Sarah G. Frankl
I superstiti della leadership di Hamas nella Striscia di Gaza esprimono rabbia nei confronti di Hezbollah, che ha accettato di recidere il collegamento tra il fronte settentrionale e il fronte della Striscia di Gaza. Residenti nella Striscia di Gaza che hanno parlato con elementi di Hamas riportano di aver sentito che l’organizzazione è delusa dalla posizione di Sheikh Naim Qassem, segretario generale di Hezbollah e che – secondo Hamas – se Hassan Nasrallah fosse rimasto in vita, non avrebbe mai accettato la rottura del collegamento tra il Libano e la Striscia di Gaza. Un funzionario di Hamas ha detto ieri sera al quotidiano del Qatar “Al Arabi” che l’organizzazione rifiuta qualsiasi accordo che non includa le condizioni poste dalla resistenza, e che l’organizzazione non cederà alle pressioni per legittimare l’occupazione israeliana. Ha detto che l’accordo di cessate il fuoco in Libano non cambierà la posizione di Hamas, né la farà allontanare dalle condizioni fissate in passato. Il giornale ha anche riferito che una delegazione della sicurezza egiziana si recherà in Israele per discutere la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, nonché proposte per il “giorno dopo” la guerra nella Striscia di Gaza. L’agenzia francese AFP ha citato una fonte importante di Hamas che ha affermato: “Siamo pronti per un accordo a Gaza dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah”.
(Rights Reporter, 27 novembre 2024)
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L’accordo di tregua in Libano, le sue ragioni e le sue conseguenze
di Ugo Volli
• IL CESSATE IL FUOCO
Dopo un ultimo scambio di missili di Hezbollah contro il territorio israeliano e di bombardamenti israeliani sulle forze terroriste, è iniziata stamattina alle 4 la tregua sul fronte settentrionale della guerra, negoziata fra Israele e Libano con la mediazione (di più: la forte pressione) del governo americano. I termini del cessate il fuoco sono chiari: la tregua vale per 60 giorni, ma potrebbe essere rinnovata: Hezbollah ritirerà le armi e i combattenti che le restano al di là del fiume Litani, una dozzina di chilometri al nord del confine, già raggiunto dalle forze armate israeliane, con la proibizione di riportarle oltre il fiume; nello spazio fra questa linea e il confine internazionale l’esercito israeliano si ritirerà progressivamente e sarà sostituito da quello libanese e da Unifil (le forze dell’Onu) che avranno il mandato esplicito di impedire il ritorno dei terroristi e la ricostruzione delle strutture per l’attacco a Israele che vi avevano eretto; gli abitanti del nord di Israele e del sud del Libano, che erano stati costretti a sfollare torneranno alle loro case; in caso di violazione dell’accordo Israele avrà diritto all’autodifesa sul territorio libanese.
• I LIMITI DELL’ACCORDO
Sono clausole che soddisfano le richieste iniziali di Israele, cioè la cessazione degli attacchi missilistici di Hezbollah iniziati l’8 ottobre dell’anno scorso; l’applicazione della risoluzione Onu 1701 del 2006, che imponeva appunto lo sgombero dei terroristi fino alla linea del Litani; e il diritto israeliano di intervento in caso di violazione. Non comprendono però la distruzione totale di Hezbollah, che senza dubbio utilizzerà la tregua per riorganizzarsi dopo i durissimi colpi subiti. Per questa ragione gli accordi, almeno stando ai sondaggi, lasciano insoddisfatta la maggioranza degli israeliani, timorosa che prima o poi si riapra la possibilità di un attacco terrorista al nord. La deliberazione governativa svoltasi ieri notte sull’accettazione della tregua porta traccia di questo dissenso, perché in maniera inusuale non è stato unanime ma è finito 12 a 1 con il voto contrario di Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza ed esponente della destra.
• IL DISCORSO DI NETANYAHU
Con un energico discorso televisivo tenuto subito prima di questa votazione, il primo ministro Netanyahu ha rivendicato la decisione, dicendo che essa è un passo per la vittoria, che non conclude la guerra sugli altri fronti, che è una scelta giusta per Israele, che la sua realizzazione concreta dipende da quel che accade sul terreno: “Se Hezbollah cercherà di attaccarci, se si arma e ricostruisce infrastrutture vicino al confine, noi attaccheremo, se lanciano missili e scavano tunnel, noi attaccheremo” ha detto. Netanyahu ha presentato tre ragioni sul “perché della tregua” in Libano. La prima è di potersi “concentrare contro la minaccia iraniana”, che è la “testa della piovra” terrorista, che va tagliata impedendo l’armamento nucleare del regime degli ayatollah. La seconda è la necessità di “rinnovare” e “riarmare” le le formazioni militari, spiegando che “non è un segreto” che vi sono stati “grandi ritardi” nelle forniture di armi. “Presto – ha aggiunto – disporremo di armi sofisticate che ci aiuteranno a proteggere i nostri soldati e ci daranno ancora maggiore forza per completare la nostra missione”. Terza ragione, quella di isolare Hamas, rompendo il nesso fra Gaza e Libano che era il punto essenziale della guerra al nord: “Hamas contava su Hezbollah per combattere insieme ed una volta che Hezbollah è eliminato, Hamas resta solo. La nostra pressione su Hamas crescerà e questo ci aiuterà a portare a casa gli ostaggi”. Netanyahu ha ringraziato Biden per il suo “coinvolgimento” nell’accordo. Biden stesso è intervenuto dalla Casa Bianca vantando come un suo successo le “ buone notizie per il Medio Oriente” costituito dall’accordo “designato per essere una permanente cessazione delle ostilità”.
• LE PRESSIONI AMERICANE
E’ vero che questo accordo è un successo dell’amministrazione americana, che l’ha spinta in tutti i modi. Bisogna sottolineare che i 60 giorni di tregua coincidono con la durata rimanente dell’amministrazione democratica. Come ha spiegato in maniera più esplicita di tutti un altro ministro israeliano di destra, Bezalel Smotrich, si tratta di un periodo estremamente delicato, in cui Biden e i suoi uomini hanno ancora tutti i poteri ma in sostanza non devono rispondere all’elettorato delle loro azioni e possono essere tentati di compiere dei gesti pericolosi per Israele, come fece l’amministrazione Obama sconfitta dalla prima affermazione di Trump, lasciando passare all’Onu una mozione molto negativa per Israele. I primi punti della dichiarazione di Netanyahu corrispondono esattamente a questo problema: da qualche tempo il governo americano non permetteva più il rifornimento di armi e munizioni necessarie per la guerra e non aveva consentito al piano israeliano di eliminare le istallazioni nucleari iraniane. Vi è anche il fatto che l’Iran continua a minacciare Israele di una nuova ondata missilistico negli scambi di rappresaglie con Israele e, per minimizzare il pericolo sulla popolazione civile di Israele, la presenza di forze americane è molto importante; ma nelle ultime settimane, per la prima volta dall’inizio della guerra, gli Usa avevano tolto ogni portaerei con la relativa flotta dalle acque del Medio Oriente. E infine vi sono le votazioni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove il governo israeliano temeva che Biden lasciasse passare senza veto una risoluzione che imponesse la fine della guerra anche a Gaza, senza la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi.
• UNA VITTORIA E LE SUE CONSEGUENZE
Insomma la decisione della tregua col Libano è stata presa tenendo conto dei rapporti con gli Usa, oltre che della situazione sul terreno; l’allontanamento di Hezbollah dal confine, l’impegno a non sparare più su Israele a pena della ripresa della guerra e la fine del legame fra fronte del Libano e fronte di Gaza sono senza dubbio una vittoria: questi erano gli impegni che i suoi dirigenti avevano rifiutato per tutta la durata della guerra e che Israele ha ottenuto non per regalo americano ma conquistandoli sul terreno, “grazie all’eroismo dei soldati e alla resistenza del fronte interno”, come ha detto Netanyahu. Ma soprattutto in questa maniera Israele ha acquistato il tempo necessario a entrare in posizione di vantaggio nel nuovo quadro strategico che sarà determinato dalla presidenza Trump. Ancora una volta Netanyahu ha mostrato di essere il solo leader israeliano capace di andare dove crede giusto per il paese, se è il caso contro la volontà degli americani (come nel caso dell’ingresso a Rafah) ma anche contro l’opinione prevalente nel suo elettorato, come questa volta, rischiando dunque il suo consenso personale per il bene di Israele. Ora restano da liberare i rapiti, da eliminare i residui di Hamas, ma resta soprattutto il problema dell’Iran, che ha perso i suoi principali appoggi contro Israele e vede in prospettiva minacciato il suo armamento atomico. Gli ayatollah prenderanno atto di aver perso la guerra o proveranno a intervenire direttamente?
(Shalom, 27 novembre 2024)
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Tregua fragile in attesa di Trump
La tregua raggiunta tra Israele e Hezbollah, entrata in vigore oggi e fortemente voluta dall’uscente Amministrazione Biden, in base alla quale le forze di Hezbollah si ritireranno completamente dal confine con Israele oltre il fiume Litani, consentendo ai sessantamila sfollati costretti a lasciare le loro abitazioni all’inizio della guerra, il 7 ottobre 2023, di ritornarvi progressivamente, fa perno su una garanzia fondamentale.
La garanzia consiste nella possibilità da parte di Israele di riprendere il conflitto qualora Hezbollah violi i termini della tregua, garanzia fornita dagli Stati Uniti, e senza la quale Netanyahu non avrebbe accettato alcuna tregua.
Come tutte le tregue, anche questa indica che il conflitto non è risolto ma solo momentaneamente sospeso, e la sua sospensione giunge in un momento in cui Israele si trova fortemente in vantaggio sul delegato iraniano in Libano a cui ha assestato una serie di colpi micidiali depotenziando drasticamente la sua capacità offensiva e decapitandone la leadership, eliminando soprattutto quello che per anni è stato il suo simbolo indiscusso, Hassan Nasrallah.
L’obiettivo di Israele non è mai stato, fin dal principio, quello di sradicare Hezbollah dal Libano, al contrario di ciò che si propone di fare a Gaza con Hamas, ma di diminuirne in modo drastico la minaccia, ovvero fiaccare in modo consistente uno dei tentacoli della piovra iraniana.
La tregua prevede che entro sessanta giorni l’esercito israeliano lasci la parte meridionale libanese e che Hezbollah, sotto la supervisione del governo in carica, ottemperi alla Risoluzione 1701, cosa che non ha mai fatto dal 2006 ad oggi.
È chiaro che si tratta di una tregua fragile, la quale, al momento, avvantaggia Hezbollah essendo quest ultimo, tra i due attori bellici, quello che ha sofferto maggiormente, ma ciò nonostante, due mesi sono un arco di tempo troppo breve per riparare anche minimamente ai danni provocati da Israele. Tra due mesi, inoltre, alla Casa Bianca si insedierà di nuovo Donald Trump e con la nuova amministrazione americana Netanyahu sa di potere avere le spalle molto più coperte. È infatti questo il motivo principale per il quale ha accttato la tregua, fare in modo che nel cosiddetto periodo dell'”anatra zoppa”, l’uscente amministrazione non gli assesti un colpo micidiale come fece Obama nel dicembre del 2016 quando non pose il veto americano alla Risoluzione 2334, una della più punitive contro lo Stato ebraico mai licenziate in sede ONU.
(L'informale, 27 novembre 2024)
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Forse Israele sta commettendo un altro errore
Con l'ultimo cessate il fuoco, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deluso soprattutto i suoi elettori.
di Aviel Schneider
Secondo diversi sondaggi diffusi dai media e da vari canali Telegram, la grande maggioranza della popolazione di destra del Paese è contraria al cessate il fuoco. Un commentatore dei media israeliani ha detto in poche parole: “Israele ha sconfitto Hezbollah in modo sanguinoso e ora sta ordinando un'ambulanza per portarli in un lussuoso centro di riabilitazione”. Nessuno dovrebbe concedere alle milizie terroristiche sciite del Libano questa cura e questo soccorso. Per questo molti qui credono che Israele e Benjamin Netanyahu stiano ancora una volta commettendo un errore tattico per soddisfare l'alleato americano. Un cessate il fuoco alla vigilia del KO è stupido, ma sembra che Israele sia stato costretto a farlo. Anche i politici cristiani in Libano sono scontenti e nelle ultime settimane hanno ripetutamente sottolineato che Hezbollah deve essere schiacciato. Gli stessi politici libanesi sono persino apertamente favorevoli alla pace con il vicino meridionale Israele. Ma la risposta è semplice: la massiccia pressione americana. La cosa triste è che il Libano era sull'orlo di una svolta politica strategica, ma gli Stati Uniti hanno perso questo passo per motivi egoistici. È vero che sono stati ottenuti grandi successi strategici sul fronte settentrionale, ma non bisogna dimenticare che c'è una differenza tra sicurezza e sensazione di sicurezza.
• IL GABINETTO APPROVA L'ACCORDO DI CESSATE IL FUOCO CON HEZBOLLAH Martedì sera, dopo settimane di negoziati, il Gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato l'accordo di cessate il fuoco con gli Hezbollah libanesi. La riunione si è svolta presso il quartier generale di Tel Aviv. Dieci ministri hanno votato a favore, mentre il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha votato contro. L'accordo è entrato in vigore alle 4 del mattino. Un comunicato dell'Ufficio del Primo Ministro ha dichiarato: "Il Gabinetto di Sicurezza ha approvato il cessate il fuoco in Libano proposto dagli Stati Uniti con una maggioranza di dieci a uno. Israele apprezza il ruolo degli Stati Uniti nel processo negoziale e si riserva il diritto di agire contro qualsiasi minaccia alla sua sicurezza”. Poco dopo, l'ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha rilasciato un'altra dichiarazione in cui si afferma che Netanyahu ha parlato con il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e lo ha ringraziato per il sostegno americano nel raggiungimento dell'accordo di cessate il fuoco. Ha sottolineato che “Israele mantiene la piena libertà di azione nell'attuazione dell'accordo”. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha espresso la sua disapprovazione in un messaggio sulla Piattaforma X:
“La decisione del gabinetto è un grave errore. Un cessate il fuoco in questo momento non riporterà la popolazione del nord alle proprie case, non scoraggerà Hezbollah e perderà un'opportunità storica per infliggergli un colpo decisivo e metterlo in ginocchio”.
Sono d'accordo con Ben-Gvir, cosa che non mi capita sempre. In un discorso al pubblico israeliano, Netanyahu ha spiegato che la durata del cessate il fuoco dipenderà da ciò che accadrà in Libano. Ha assicurato che Israele reagirà immediatamente se Hezbollah dovesse violare l'accordo: “In pieno coordinamento con gli Stati Uniti, manterremo la nostra libertà d'azione militare. Se Hezbollah viola l'accordo, si riarma, ricostruisce infrastrutture terroristiche vicino al confine o lancia razzi - allora attaccheremo”. Il ritorno dell'esercito libanese nel sud del Paese? Questo non è altro che un autoinganno. L'esercito libanese è sotto il controllo di un governo in cui Hezbollah è una parte centrale della coalizione. È lo stesso esercito che è rimasto inattivo a guardare Hezbollah armarsi e costruire un enorme arsenale di razzi che minacciano la popolazione civile israeliana. Un meccanismo di controllo internazionale? Ricorda troppo i precedenti accordi: impressionanti sulla carta, ma privi di effetti e spesso falliti dopo pochi mesi. Le minacce di Israele non vanno prese sul serio: “ Se Hezbollah rompe gli accordi, la terra brucerà nella terra dei cedri”. La storia dimostra che tutte le minacce di Israele non hanno portato a nulla. Come dopo la seconda guerra del Libano (2006), come dopo il ritiro delle truppe israeliane dal Libano (2000), come dopo il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza (2005) e come non accadrà nulla ora.
Ma per calmare le acque, soprattutto tra i suoi elettori, il primo ministro Netanyahu ha rilasciato ieri sera una dichiarazione stampa in cui ha spiegato le ragioni del cessate il fuoco con le milizie terroristiche sciite. Ha assicurato che l'esercito israeliano avrebbe attaccato di nuovo se l'accordo fosse stato violato. Netanyahu ha giustificato la sua decisione principalmente con il fatto che si sono verificati forti ritardi nella consegna di armi ed equipaggiamenti. “Questi ritardi saranno presto risolti e Israele si doterà di armi avanzate che proteggeranno la vita dei soldati e forniranno una potenza di fuoco aggiuntiva per svolgere le missioni”. Un altro punto è la separazione dei fronti di conflitto e l'isolamento di Hamas. “Dal secondo giorno di guerra, Hamas ha fatto affidamento su Hezbollah per combattere al suo fianco. Quando Hezbollah è fuori dai giochi, Hamas è da solo a combattere”, ha detto Netanyahu. L'aumento della pressione su Hamas contribuirà alla santa missione di liberare gli ostaggi”. Netanyahu ha sottolineato il danno che è già stato fatto a Hezbollah: “Hezbollah ci ha attaccato l'8 ottobre. Un anno dopo non è più la stessa organizzazione. L'abbiamo riportata indietro di decenni. Abbiamo eliminato Nasrallah, il cuore della sua leadership. Abbiamo ucciso i suoi comandanti di alto livello, distrutto la maggior parte dei suoi razzi e missili, eliminato migliaia di combattenti e distrutto l'infrastruttura sotterranea costruita negli anni al nostro confine. Sono stati colpiti obiettivi strategici in tutto il Libano e sono state distrutte decine di torri terroristiche a Dahieh. La terra a Beirut sta tremando”. Netanyahu ha sottolineato tutto questo per rassicurare i suoi elettori di destra, insoddisfatti del cessate il fuoco. Lui e il suo governo devono insistere su di esso:
- Una zona di sicurezza smilitarizzata (No Man's Land) nel sud del Libano. Diversi chilometri a nord del confine israeliano, senza alcuna presenza civile. In questo modo sarebbe chiaro che questo è il prezzo per l'aggressione di Hezbollah. Questa zona verrebbe fatta rispettare dall'aviazione israeliana per evitare che i villaggi vengano usati come nascondigli per i combattenti di Hezbollah - perché questi villaggi semplicemente non esistono più.
- Gli Hezbollah si ritirano a nord del fiume Litani e fuori dalla portata dei missili anticarro. La striscia del Litani da sola è troppo stretta. È necessario creare un ampio corridoio di sicurezza per evitare una minaccia permanente per Israele.
- Piena libertà d'azione per Israele. Israele deve mantenere il diritto di combattere qualsiasi minaccia in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, soprattutto se i meccanismi di controllo internazionali non sono in grado di prevenire il contrabbando di armi. In definitiva, Israele deve poter contare su se stesso.
- Sanzioni internazionali contro Hezbollah nel suo complesso, compreso il suo braccio politico. L'obiettivo è quello di prosciugare le fonti finanziarie dell'organizzazione. Si tratta di un prerequisito necessario per liberare il Libano dalla morsa dell'Iran e per far sì che, a lungo termine, il Paese torni a essere la “Svizzera del Medio Oriente”, anziché la “bocca dell'inferno del Medio Oriente” in cui Hezbollah e l'Iran lo hanno trasformato.
• DELUSIONE NEL NORD
Nel corso di una discussione con i rappresentanti delle comunità del nord, caratterizzata da litigi e discussioni ad alta voce, Netanyahu ha spiegato che al momento non esiste un piano per consentire ai residenti del nord di tornare alle loro case, poiché l'accordo è limitato a soli 60 giorni. “Sono tornato a casa molto pessimista”, ha detto uno dei leader della comunità che ha partecipato all'incontro con Netanyahu. I leader della comunità hanno criticato aspramente l'accordo e i toni sono stati tesi. Netanyahu, da parte sua, è rimasto calmo, anche se le parole sono state taglienti e sgradevoli. Moshe Davidovitz, presidente del Consiglio regionale di Mateh Asher, nel nord, e presidente del Frontline Forum, ha criticato Netanyahu: "Ci sembra di essere in un teatro dell'assurdo e che la partita a dadi sia già stata decisa. Non avevate alcuna intenzione di invitarci. Per fortuna ci sono il suo direttore generale e i ministri del suo governo che le hanno detto che noi rappresentiamo i residenti della Galilea. Non ci avete consultato, non avete avuto alcuna intenzione di spiegarci cosa stava realmente accadendo. I nostri residenti sono stati abbandonati. I nostri residenti non possono tornare alle loro case in sicurezza, come avete promesso ai media. Di quale 'sicurezza' state parlando?”.
(Israel Heute, 27 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’analista Jed Babbin: “L’ONU è l’ancella dei terroristi”
di Nathan Greppi
Dopo il 7 ottobre 2023, l’ostilità delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali nei confronti d’Israele è diventata sempre più evidente: l’hanno dimostrato prima le parole del segretario dell’ONU Antonio Guterres volte a giustificare gli eccidi compiuti da Hamas, poi lo scandalo sui dipendenti UNRWA che hanno preso parte agli attacchi, e più di recente il mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale nei confronti di Netanyahu e Gallant. Non tutti gli esperti sono rimasti sorpresi di fronte a questo scenario. Chi aveva già previsto in tempi non sospetti la deriva antisraeliana e antioccidentale che l’ONU avrebbe preso nel lungo periodo, e ha dedicato a questo tema il suo libro del 2004 Inside the Asylum, è l’analista americano Jed Babbin: avvocato ed ex-ufficiale dell’aeronautica, dal 1990 al 1991 è stato vice-sottosegretario alla difesa, sotto la presidenza di George H. W. Bush. Oggi scrive articoli sui temi della difesa e degli affari esteri per The Washington Times e The American Spectator.
- Già vent’anni fa, lei ha criticato l’atteggiamento delle Nazioni Unite verso il terrorismo e l’Occidente. Dopo quello che è successo dal 7 ottobre in avanti, come giudica l’operato dell’ONU nei confronti di Israele e Hamas? Come lei ha sottolineato, il comportamento dell’ONU e il ruolo dell’UNRWA nel sostenere il terrorismo sono notizie vecchie. Terroristi di vario genere vengono tollerati dall’ONU e assunti dall’UNRWA. Il comportamento di queste due organizzazioni le rende entrambe complici degli attacchi del 7 ottobre 2023, che hanno portato all’uccisione di più di 1.200 israeliani e cittadini di altre nazioni, tra cui 32 americani. L’ONU dovrebbe essere condannata fermamente per questo. Nel libro Inside the Asylum, ho anche dimostrato come l’ONU ha permesso a Hezbollah di sventolare la sua bandiera accanto alla propria in un avamposto sul confine israelo-libanese. L’ONU è l’ancella dei terroristi che minacciano Israele.
- Alcune delle recenti nomine di Donald Trump per la sua nuova amministrazione, come Mike Waltz ed Elise Stefanik, hanno aspramente criticato l’atteggiamento delle Nazioni Unite nei confronti di Israele. Come pensa che cambierà la politica degli Stati Uniti per quanto riguarda l’ONU dopo il 20 gennaio 2025? Spero che gli Stati Uniti esercitino pressioni molto dure sull’ONU affinché interrompa i suoi legami con i gruppi terroristici. Spero anche che ridurremo drasticamente i contributi americani all’ONU, che probabilmente superano i 7 miliardi di dollari all’anno. La cifra esatta è difficile da determinare, perché i contributi sono dispersi tra le varie quote, le missioni di pace e i contributi a vari comitati delle Nazioni Unite e ad altre operazioni. Ma in ogni caso, dovrebbero essere ridotti drasticamente.
- Lei ha fatto parte dell’amministrazione di Bush Sr. Negli ultimi decenni, quali sono stati i cambiamenti più significativi nelle amministrazioni repubblicane e democratiche per quanto riguarda Israele? Da parte repubblicana, non c’è stato un cambiamento significativo. I repubblicani, almeno fino ai Bush padre e figlio, sono sempre stati buoni alleati di Israele. Trump ha fatto un ulteriore passo in avanti, e probabilmente è stato il miglior alleato che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca negli ultimi cinquant’anni. Gli Accordi di Abramo sono stati un importante sviluppo verso la pace in Medio Oriente. E poi Biden ha mollato la presa. Sul versante democratico, il discorso di Obama al Cairo del 2009 ha allontanato i democratici da Israele, e li ha avvicinati al mondo arabo. Biden si è spinto anche oltre e ha placato l’Iran, Hamas e Hezbollah voltando le spalle a Israele. Peggio ancora, ha esercitato molta pressione per degli accordi di cessate il fuoco a Gaza e in Libano che avrebbero danneggiato gli israeliani e aiutato l’Iran.
- Dopo che Trump tornerà alla Casa Bianca, in che modo pensa che il suo approccio nei confronti dell’Iran sarà diverso da quello di Biden? Penso, e spero, che l’approccio di Trump verso l’Iran sarà molto diverso da quello di Biden. Quest’ultimo si è dimostrato assai debole nel complesso, revocando le sanzioni imposte da Trump, ignorando i proventi dell’Iran per le armi nucleari e l’acquisto di petrolio iraniano da parte della Cina. Trump, come ho scritto in un mio articolo sul Washington Times, quasi certamente reintrodurrà le sue sanzioni per esercitare la massima pressione sull’Iran. E se, come auspico, ordinerà alla CIA di fomentare la rivoluzione in Iran, potremmo essere in grado di rovesciare il regime degli ayatollah senza impegnarci in una guerra su larga scala.
- Dopo il 7 ottobre, diversi campus universitari statunitensi si sono trasformati in focolai dell’antisemitismo e del BDS. Cosa pensa che dovrebbe fare l’amministrazione Trump per risolvere questo problema? Penso che l’amministrazione Trump dovrebbe ritirare i finanziamenti federali da tutti i college e le università che hanno contribuito alle campagne che hanno alimentato l’antisemitismo e il BDS. Pam Bondi, recentemente scelta da Trump per il ruolo di procuratore generale, ha detto che i visti studenteschi di coloro che hanno preso parte a manifestazioni antisemite dovrebbero essere revocati. Già questa sarebbe un’ottima idea.
(Bet Magazine Mosaico, 27 novembre 2024)
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La pretesa universalità delle sentenze della Cpi è smontata dagli interessi degli Stati
di Boni Castellane
Il fatto che esista un tribunale sovrastatale che decide cosa sia o non sia un «crimine contro l'umanità» e che demandi l'esecutività delle sue sentenze ai vari Stati, mostra con chiarezza che è la forza che fonda il diritto. Le Corti internazionali di vario tipo, da quella penale dell'Aia alla Corte di Giustizia europea del Lussemburgo, sono frutto della concezione secondo cui alcuni legislatori, per forza di cose «illuminati», stabiliscono leggi in base alle quali gli uomini diventano colpevoli o innocenti.
I primi colonizzatori giudicavano le popolazioni originarie americane in base a leggi europee; un indigeno che adorava il sole era un pagano, e quindi doveva essere convertito o punito. Quella stessa mentalità teocratica si è trasmessa ai «tribunali internazionali» del Novecento passando attraverso la necessaria ripulitura illuminista: giacché Dio non esiste, viene a mancare la giustificazione universale del concetto di bene. Ma Kant ci ha insegnato che non è un problema: basta dire che il bene si fonda su sé stesso e che le leggi sono espressione dei «diritti universali dell'uomo e del cittadino» che alcuni francesi tre secoli fa hanno stabilito. Giacché senza Dio tutto è concesso, occorreva una fondazione «universale» per la giustizia umana e, sempre attraverso norme convenzionali, si è sviluppato il moderno diritto internazionale. Ma come l'Inquisizione aveva bisogno del «braccio secolare», i tribunali internazionali novecenteschi hanno sempre avuto bisogno di qualcuno che imponesse con la forza quelle sentenze che forse tanto indiscutibilmente «universali» non sono.
I problemi sono nati presto, e non è un caso se la nazione egemone, gli Stati Uniti, non riconosca la Corte dell'Aia. Di caso in caso, di sentenza in sentenza, l'esecutività di tali Corti si è mostrata inesorabile quando sussistevano determinate condizioni politiche e tergiversatrice quando se ne verificavano altre. Né ha giovato la diversità di trattamenti ai vari condannati, la velocità o la lentezza dei processi in base alle circostanze e la scarsa uniformità dei giudizi che di volta in volta si sono susseguiti.
Due recenti casi hanno mostrato i punti deboli della giustizia internazionale: la condanna di Putin per la guerra in Ucraina e quella di Netanyahu per l'invasione di Gaza. In entrambi i casi, giacché condannare «la guerra» in sé, come diceva il vecchio Céline, aprirebbe la vera ed irrisolvibile questione inerente l'umanità stessa, il punto sono stati i «crimini di guerra». Ma visto che gli accusati rigettano sempre le accuse e visto che non esiste una «polizia giudiziaria mondiale» che faccia rispettare le sentenze, la Cpi assume più la veste di censore morale mondiale che di organo di compiuto giudizio. Nascono così i distinguo in base alle posizioni politiche assunte di volta in volta: per alcuni Putin è un criminale e Netanyahu uno che risponde all'aggressione, per altri il contrario; e il risultato di tutto questo è la certificazione della pura convenzionalità delle sentenze, nonché della loro subordinazione al tono politico globale del momento.
Lo stesso discorso vale per la Corte di giustizia europea quando ritiene di dover sanzionare uno Stato membro, o stabilire a quali criteri le leggi di un Paese debbano subordinarsi: non si tratta mai di« giustizia» ma di opportunità politiche decise da un organo giudiziario che agisce in base a principi, leggi e giurisprudenze frutto di impostazioni politiche ben precise; i confini, ad esempio, possono passare dall’essere «sacri e inviolabili» all’ essere «limiti umanitari». Ha dunque ragione il vicepresidente eletto degli Stati Uniti, Vance, quando afferma che occorre superare la visione secondo la quale ogni aspetto globale sia controllabile. Forse con il primo presidente americano isolazionista dai tempi di Calvin Coolidge si potrà superare l'idea novecentesca e internazionalista di «organizzazione mondiale», idea nata quando la tecnologia non invadeva la vita degli Stati e delle persone sino al livello attuale, e quando la diplomazia non doveva nascondersi dietro il linguaggio globalista per affermare di perseguire i propri interessi. Anche perché gli «interessi universali» non sono altro che quelli di qualcuno che te li vuole vendere così.
(La Verità, 27 novembre 2024)
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Il ricordo degli ebrei cacciati da paesi arabi e Iran
Dieci anni fa il Parlamento israeliano ha deliberato l’istituzione della Giornata in ricordo degli ebrei cacciati dagli Stati arabi e dall’Iran, fissandola al 30 novembre. Tra il 1948 e il 1970 800.000 ebrei furono costretti ad abbandonare i loro paesi in Nord Africa, Medio Oriente e nella regione del Golfo, dove erano radicati da secoli e in alcuni casi da millenni, per via di persecuzioni e pogrom antiebraici. In decine di migliaia, tra 1979 e 1980, lasciarono anche l’Iran del nuovo corso degli ayatollah.
Il ricordo di «un esodo drammatico, che ha costretto migliaia di famiglie a lasciare le proprie abitazioni, sinagoghe e beni, spezzando quel profondo legame di appartenenza che le aveva unite per secoli alla loro terra d’origine» è stato al centro di un convegno svoltosi a Roma su iniziativa del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già ministro degli Esteri e ambasciatore italiano in Israele. Tra gli intervenuti l’ambasciatore israeliano in Italia, Jonathan Peled. Per lo psicoanalista David Gerbi, fuggito da Tripoli all’età di 12 anni e rappresentante della World Organization of Libyan Jews, «questo esodo di massa rappresenta una parte fondamentale della storia moderna». Tuttavia però, inspiegabilmente, «rimane poco conosciuto e raramente viene menzionato nei dibattiti sui conflitti in Medio Oriente».
(moked, 27 novembre 2024)
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Israele subdolamente costretto ad accettare il cessate il fuoco con Hezbollah
Israele ha deciso così perché non aveva altra scelta se non accettare un cessate il fuoco, in parte per paura che l'amministrazione statunitense potesse punire Israele con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU nelle sue ultime settimane.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu convocherà martedì sera a Tel Aviv il gabinetto di sicurezza di alto livello per approvare un cessate il fuoco di 60 giorni con il gruppo terroristico Hezbollah in Libano, dopo oltre un anno di guerra. Lo si apprende da una fonte vicina al governo. Allo stesso tempo, la fonte ha sottolineato che Israele accetta la cessazione delle ostilità, non la fine della guerra contro Hezbollah. “Non sappiamo quanto durerà”, ha detto la fonte riferendosi al cessate il fuoco. “Potrebbe durare un mese, potrebbe durare un anno”. Fonti libanesi hanno riferito lunedì che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il presidente francese Emmanuel Macron dovrebbero annunciare a breve un cessate il fuoco. A Washington, il portavoce per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato: “Ci siamo vicini”, ma “non si farà nulla finché non sarà tutto chiaro”. Dall’8 ottobre 2023, le forze guidate da Hezbollah hanno attaccato quasi quotidianamente le comunità e le postazioni militari israeliane lungo il confine, sostenendo che lo fanno per sostenere Gaza durante la guerra in corso. Circa 60.000 residenti sono stati evacuati dalle città settentrionali al confine con il Libano poco dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre, alla luce dei timori che Hezbollah avrebbe portato a termine un attacco simile e a causa del crescente lancio di razzi da parte del gruppo terroristico. Israele ha cercato di consentire il ritorno dei residenti, anche attraverso un’operazione di terra in corso. La libertà di Israele di agire in Libano dopo il cessate il fuoco è garantita da una lettera tra Israele e gli Stati Uniti, ha affermato il funzionario. Le Forze di difesa israeliane saranno in grado di operare non solo contro coloro che cercano di attaccare Israele, ma anche contro i tentativi di Hezbollah di rafforzare il proprio potere militare. “Agiremo”, ha promesso la fonte. Israele ha deciso così perché non aveva altra scelta se non accettare un cessate il fuoco, in parte per paura che l’amministrazione statunitense potesse punire Israele con una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nelle sue ultime settimane, ha affermato la fonte. Secondo il funzionario, Israele non riceverebbe dagli Stati Uniti le risorse di cui avrebbe bisogno. Nel frattempo, un funzionario libanese ha affermato che Washington aveva informato Beirut che un accordo avrebbe potuto essere annunciato “entro poche ore”. Prima ancora funzionari israeliani avevano affermato che un accordo per porre fine alla guerra si stava avvicinando, sebbene permanessero alcuni problemi, mentre due alti funzionari libanesi avevano espresso un cauto ottimismo, nonostante gli attacchi israeliani avessero colpito il Libano un giorno dopo che Hezbollah aveva lanciato oltre 250 razzi e missili contro Israele. Secondo quanto riportato dal notiziario del Canale 12, per far sì che il cessate il fuoco fallisca prima dell’incontro di martedì, dovrebbe accadere “qualcosa di drastico”. Martedì mattina Netanyahu terrà una riunione ristretta con i suoi più stretti collaboratori, tra cui il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer e il ministro della Difesa Israel Katz, ha riferito l’agenzia di stampa. Il vicepresidente del parlamento libanese, Elias Bou Saab, ha dichiarato lunedì che non ci sono più “seri ostacoli” all’inizio dell’attuazione della tregua proposta dagli Stati Uniti. Ha affermato che un punto critico su chi monitorerà il cessate il fuoco è stato risolto nelle ultime 24 ore accettando di istituire un comitato composto da cinque paesi, tra cui la Francia, e presieduto dagli Stati Uniti. Israele aveva insistito affinché la Francia non facesse parte dell’accordo o non fosse membro del comitato internazionale che monitorerà l’attuazione di un accordo, a causa della sua ostilità manifestata nei confronti di Israele negli ultimi mesi, sotto il presidente Emanuel Macron. Macron ha recentemente chiesto ripetutamente un embargo sulle armi a Israele, definendolo come la strada per porre fine alla guerra, innescando una crisi diplomatica. Una volta che la Francia ha indicato venerdì che non si sarebbe impegnata ad arrestare il primo ministro Benjamin Netanyahu, in seguito ai mandati di arresto emessi contro di lui dalla Corte penale internazionale — solo che “prende nota” della decisione — Israele si è detto disposto ad accettare il coinvolgimento francese. Nonostante i tentativi di porre fine ai combattimenti, lunedì Israele e Hezbollah hanno continuato a scambiarsi colpi di arma da fuoco . Lunedì sera, il Comando del Fronte Interno delle IDF ha emanato nuove restrizioni in diverse aree del nord di Israele, dato il timore che Hezbollah intensifichi gli attacchi missilistici prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco. Se gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco dovessero fallire, ha affermato Channel 12, le IDF hanno in programma di espandere le loro operazioni in Libano. Lunedì mattina, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir aveva detto a Netanyahu di respingere la proposta di cessate il fuoco, definendola “un grave errore”, anche se, a differenza del passato, non aveva minacciato di far cadere il governo se fosse stata approvata. In un post su X, il leader del partito ultranazionalista Otzma Yehudit ha avvertito che accettare l’accordo di cessate il fuoco significherebbe perdere un’opportunità “storica” per distruggere il gruppo terroristico sostenuto dall’Iran. Ha esortato Netanyahu ad “ascoltare i comandanti che combattono sul campo… proprio ora, quando Hezbollah è sconfitto e desidera ardentemente un cessate il fuoco, è proibito fermarsi”. Ben Gvir si è categoricamente opposto a qualsiasi accordo che preveda una cessazione delle ostilità, anche temporanea, sia a Gaza che in Libano, e ha minacciato più di una volta di ritirare il suo partito dalla coalizione nel caso in cui Israele firmasse un accordo di tregua. Il cessate il fuoco alla fine sarà approvato, ha detto la fonte: “Ci sono ministri che parlano alla loro base, e noi lo prendiamo in considerazione. Ma Ben Gvir ne capisce l’importanza. È nell’interesse di Israele”. La fonte ha inoltre sostenuto che un cessate il fuoco contribuirebbe a porre fine positivamente alla guerra a Gaza contro Hamas. “Ciò che Hamas voleva era il supporto di Hezbollah e di altri. Una volta che hai tagliato la connessione, hai la possibilità di raggiungere un accordo. È un risultato strategico”, ha detto la fonte. “Hamas è sola”.
(Rights Reporter, 26 novembre 2024)
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Iran e Qatar dietro al Sudafrica contro Israele all’Aia
Un rapporto sulla 'democrazia arcobaleno' usata dai regimi islamisti".
di Giulio Meotti
ROMA - L’emiro del Qatar e la Repubblica islamica dell’Iran, che ieri per bocca dell’ayatollah Ali Khamenei ha chiesto la pena di morte per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non avevano le carte in regola per montare un caso di “genocidio” contro Israele alla Corte dell’Aia. Avevano i soldi e la volontà, ma zero credibilità morale. Che fare? Il leader di Hamas, Yahya Sinwar, alle “marce del ritorno” al confine fra Gaza e Israele faceva portare grandi ritratti di Nelson Mandela. Voleva far passare l’idea che i palestinesi sono come i neri sotto l’apartheid. Chi allora meglio della “democrazia arcobaleno” per inchiodare lo stato ebraico all’Aia? Con il titolo “Sudafrica, Hamas, Iran e Qatar: il dirottamento dell’African National Congress e della Corte internazionale di giustizia”, il think tank americano Institute for the Study of Global Antisemitism ha pubblicato un’inchiesta sulla decisione del Sudafrica di accusare Israele di genocidio presso la Corte di giustizia dell’Aia che ha spinto la Corte penale a emettere il mandato d’arresto contro Netanyahu. L’African National Congress (Anc), il partito al potere a Pretoria, era sull’orlo della bancarotta quando il Sudafrica ha annunciato il caso all’Aia contro Israele. La sola presentazione iniziale è costata 10,5 milioni di dollari e le spese legali in totale sono stimate in 79 milioni. Il ricorso dell’Anc alla Corte di giustizia contro Israele sarebbe dunque parte di una strategia più ampia volta a promuovere gli interessi e l’ideologia dei regimi islamisti. Il ministro degli Esteri sudafricano, Ronald Lamola, è andato a Teheran per partecipare al giuramento del presidente Massoud Pezeshkian a fine luglio. Lamola ha incontrato anche il ministro degli Esteri iraniano in carica Ali Bagheri. “Bagheri ha elogiato Lamola per il suo ruolo eccezionale di diplomatico impavido nel perseguire i crimini del regime sionista presso la Corte di giustizia”, recitava un comunicato iraniano. A novembre di un anno fa, l’African National Congress ha rilasciato una dichiarazione in onore del suo trentesimo anniversario delle relazioni diplomatiche con il Qatar e affermato che il commercio bilaterale tra i due paesi, da 300 milioni di dollari nel 2012, ha raggiunto un miliardo. Funzionari dell’African National Congress, tra cui il presidente Cyril Ramaphosa, si sono rifiutati di rivelare le origini della donazione che ha aiutato il partito a riprendersi da 30 milioni di debiti accumulati prima del caso all’Aia. Daniel Taub, ex ambasciatore di Israele nel Regno Unito, ha commentato: “Hamas non sarebbe in grado di portare avanti il grottesco capovolgimento dei fatti, per cui le azioni di Israele volte a difendersi vengono fatte passare come ‘genocidio’ mentre i suoi stessi atti di omicidio, stupro e rapimento vengono ignorati o celebrati, senza la complicità di partner compiacenti e il Sudafrica si è fatto avanti con entusiasmo”. Ripeti una menzogna mille volte e diventerà una verità: così lo stato ebraico è la nuova apartheid e chi sgozza e stupra è il nuovo Mandela che resiste al genocidio. Ora la menzogna è diventata verità grazie anche agli alti scranni dell’Aia. O per dirla con Aharon Barak, il giudice israeliano sopravvissuto alla Shoah che ha fatto parte del collegio della Corte di Giustizia nella causa sull’accusa di genocidio a Gaza, “hanno imputato ad Abele il delitto di Caino”.
Il Foglio, 26 novembre 2024)
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La guerra legale contro Israele: Intervista a David Elber
di Niram Ferretti
David Elber, storico e studioso, esperto di Diritto internazionale, è collaboratore abituale de L’Informale. Lo abbiamo voluto intervistare in merito alla recente decisione della Corte Penale Internazionale e sul tema generale della guerra legale contro lo Stato ebraico.
- L’ordine di arresto emesso nei confronti di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant da parte della Corte Penale Internazionale era stato già annunciato e difficilmente sarebbe stato bloccato. Cosa puoi dire in merito? I mandati di arresto nei confronti di Netanyahu e di Gallant non hanno nessuna base giuridica ma sono una chiara manovra politica per delegittimare lo Stato di Israele. Si può riassumere, brevemente, come è andata “l’istruttoria”. Non appena Israele ha iniziato le operazioni militari a Gaza, per la Corte Penale, era già tutto chiaro: Israele era colpevole, a prescindere, di crimini di guerra. Infatti, il 30 ottobre (tre settimane dopo l’eccidio del 7 ottobre) il procuratore Khan, in una conferenza stampa al Cairo, dopo aver visitato il sud di Israele e l’area tra Egitto e Rafah aveva dichiarato che molte prove nei confronti di Hamas erano state raccolte e altre andavano trovate, mentre per la condotta militare di Israele a Gaza, era quest’ultimo che avrebbe dovuto fornire le prove che dimostrassero il rispetto delle leggi internazionali. Dunque per il procuratore del più importante tribunale penale era necessario raccogliere le prove dei crimini di un’organizzazione terroristica mentre uno Stato democratico e di diritto, vittima di un eccidio, avrebbe dovuto – lui – presentare prove che dimostrassero che le proprie azioni fossero nei termini di legge in modo da non essere indagato. Questo significa che per il procuratore Khan, Israele era colpevole a prescindere, tutt’al più avrebbe dovuto presentare le evidenze di non esserlo. Il resto è una logica conseguenza di questo teorema ad iniziare dalla composizione della Camera pre-processuale. Intendo dire che questo è un tribunale politico nel quale i giudici sono l’espressione dei governi nazionali che li nominano. Se diamo una occhiata, ai tre giudici che formano la Camera che ha deciso per il mandato d’arresto, vediamo che è formata da tre rappresentanti di Stati ostili ad Israele: Francia, uno dei paesi più ostili dall’eccidio del 7 ottobre, Benin, che ha scarse relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico e Slovenia. La Slovenia ha appena riconosciuto l’inesistente Stato di Palestina e il cui giudice ha da poche settimane sostituito la Romania (paese molto più amico di Israele) per imprecisati “motivi di salute”. Insomma la decisione è stata blindata.
- Ci troviamo al cospetto di un ulteriore atto di quella che si può definire lawfare, la guerra giuridico-legale contro lo Stato ebraico e che ha come epicentro l’ONU. Questa guerra legale mi sembra si possa fare risalire al 1967, cioè alla vittoria di Israele nella guerra dei Sei Giorni. Quali sono, a tuo avviso, le sue tappe più salienti? Si è proprio così. Dal 1967 è stato un crescendo. Inizialmente la delegittimazione di Israele era portata avanti dall’Urss e dai paesi islamici con poche eccezioni (Turchia e l’Iran dello Shah). Poi progressivamente, su pressione araba, ha fatto breccia nei paesi della CEE per giungere negli USA del presidente Carter a causa dell’ideologia terzomondista sempre più forte nelle accademie americane. Da questo momento è iniziata una vera è propria escalation: con il memorandum Hansell, con il quale l’amministrazione USA dichiarava illegale la presenza ebraica in Giudea e Samaria e Gerusalemme “est” (1978). Ancora più in là si spinse la CEE con la Dichiarazione di Venezia del 1980, nella quale si ribadiva, tra le altre cose, la legittimità dell’organizzazione terroristica OLP, la questione di Gerusalemme vista come non parte di Israele, e ribadiva l’illegalità dell”occupazione” israeliana dei “territori arabi” e le “colonie ebraiche come ostacolo alla pace”. Tutti concetti che si sono radicati così tanto da divenire dei veri e propri dogmi. È da sottolineare che all’epoca si parlava ancora di “territori arabi”. Nel corso degli anni novanta sono diventati magicamente “territori palestinesi occupati” senza che vi fosse una base giuridica che lo giustificasse. Questo cambiamento terminologico, solo all’apparenza privo di importanza, è stato decisivo per criminalizzare Israele: ormai tutti hanno la certezza che Israele abbia “occupato” in un imprecisato momento un mai esistito “Stato di Palestina”. Un ulteriore “salto di qualità” è iniziato con la Conferenza di Durban del 2001. Da questo momento in avanti, Israele, per tutte le ONG e il movimento autoproclamatosi “progressista” e “antirazzista”, è diventato il “male assoluto”. Questo delirio in un certo senso è l’unica cosa che è sopravvissuta dell’Urss dopo il suo crollo nel 1991.
- La Corte Penale Internazionale è una emanazione diretta dell’ONU, così come lo è l’UNESCO, che con delle risoluzioni recenti ha di fatto espropriato Israele di alcuni dei simboli storici dell’ebraismo come il Muro Occidentale e le tombe dei patriarchi a Hebron, ascrivendoli all’Islam. Nel suo ultimo discorso in sede ONU, Netanyahu lo ha definito “palude antisemita”. Ha forse esagerato? Bisogna precisare che la Corte Penale Internazionale non è una “emanazione diretta dell’ONU” però è figlia dello stesso processo degenerativo “culturale” che ha permeato l’ONU con la decolonizzazione: l’ONU, come la CPI, è “ostaggio” di paesi illiberali, non democratici e privi dei più elementari diritti umani. Quando dico che la CPI non è emanazione dell’ONU intendo dire che tecnicamente, per il diritto internazionale, sono due cose diverse: l’ONU con tutte le sue agenzie e organismi, compresa la Corte Internazionale di Giustizia, è figlia del Trattato di San Francisco del 1945, mentre la Corte Penale Internazionale è figlia di un altro trattato internazionale: il Trattato di Roma del 1998. Di quest’ultimo trattato non fanno parte, tra gli altri, USA, Russia, India, Cina, Turchia, Indonesia e Israele. In pratica i 3/4 della popolazione mondiale. Netanyahu non ha certo esagerato definire l’ONU come “palude antisemita” e l’UNESCO è sicuramente un emblema di questa situazione. Ormai anche l’UNESCO è diventato un formidabile “attrezzo politico” in mano agli odiatori di Israele per delegittimarlo in ogni sede internazionale oltre che per condizionare l’opinione pubblica. Qui bisogna sottolineare un aspetto pericolosissimo: l’UNESCO è diventato, nei confronti di Israele e del popolo ebraico, uno strumento di negazionismo storico-culturale che fa presa nell’opinione pubblica e atto a negare il “legame storico” tra la Terra di Israele e il popolo ebraico. Tale legame è la radice legale della nascita del moderno Stato di Israele come sancito dalla comunità internazionale negli anni ’20 del 1900. Il voler negare ogni legame tra il popolo ebraico e la Terra di Israele è il metodo più sofisticato, subdolo e apparentemente “apolitico” per delegittimare Israele nell’opinione pubblica. In pratica si viene a dire che Israele è illegittimo e gli ebrei non centrano nulla con la loro terra ma sono degli usurpatori. Il tutto ammantato di “credibilità” storico-scientifica. Tutto questo è semplicemente aberrante.
- Con la guerra a Gaza ancora in corso, la più lunga mai combattuta da Israele, abbiamo assistito e stiamo assistendo, ad una offensiva giuridico-legale massiccia, per non parlare di quella mediatica. Si tratta, alla fine, di armi spuntate o possono realmente causare ad Israele danni reali? È vero stiamo assistendo ad una offensiva giuridico-legale senza precedenti. Si è sdoganato un nuovo concetto giuridico: Netanyahu è colpevole fino a prova contraria e di conseguenza Israele. Mai si è assistito ad un attacco ad uno Stato con tale veemenza e senza nessuna base legale per farlo. Netanyahu (quindi Israele) è colpevole a prescindere. Tutto questo è, pienamente e acriticamente, avvalorato dai media. In pratica si sta portando avanti un’agenda politica ben precisa, ammantandola di princìpi giuridici inesistenti: Israele è un paese occupante, i palestinesi sono le vittime e quello che è accaduto il 7 ottobre è una conseguenza di questo. Quindi Israele deve ritirarsi dai “territori palestinesi occupati”. Anche questo è un ribaltamento della storia e dei fatti. Io temo che l’amministrazione Biden prima di cedere le consegne a quella di Trump possa usare il Consiglio di Sicurezza per far approvare una risoluzione che formalizzi questa visione politica del tutto priva di fondamento. Questo sarebbe un danno reale davvero grave, come lo fu la risoluzione 2334 voluta da Barak Obama. Altri danni sono già in corso: l’odio diffuso verso Israele e/o gli ebrei in Europa e negli Stati Uniti, ormai l’antisemitismo è talmente sdoganato a sinistra che non fa più notizia, anzi è colpa delle “malefatte” di Netanyahu se è riemerso. I mass media stanno giocando un ruolo di primaria importanza su questo, facendosi cassa di risonanza, a tutte le false notizie propagandate da Hamas e dai suoi fiancheggiatori all’ONU, nelle ONG e tra molti governi Occidentali.
- In questi anni tu ti sei soprattutto dedicato ad approfondire gli aspetti legati al diritto internazionale relativamente allo Stato ebraico. Oltre a numerosi articoli, molti dei quali pubblicati qui su “L’Informale”, hai scritto tre libri dedicati alla questione, di cui l’ultimo, “Il diritto di sovranità in terra di Israele”, da poco pubblicato. Da tutto ciò che hai scritto e scrivi, emerge chiaramente come si sia cercato e si cerchi in ogni modo di delegittimare i fondamenti giuridici dell’esistenza stessa dello Stato ebraico e la sua sovranità sui territori considerati occupati della Cisgiordania. E’ così?
Sì, come ho detto anche in precedenza la delegittimazione di Israele ha assunto forme diverse e trasversali. Una grave forma di delegittimazione è il negazionismo dell’UNESCO che tenta di cancellare la storia del popolo ebraico e dei luoghi sacri all’ebraismo. Un’altra forma di delegittimazione la stanno conducendo accademici, politici e semplici giornalisti che hanno inventato la leggenda di Israele nato “per decisione dell’ONU”. Come ha affermato di recente anche Macron. Purtroppo questa credenza, che ha assunto connotati religiosi e non discutibili, è in voga anche in molti ambienti ebraici. Ma non ha alcun fondamento giuridico né storico. In pratica in questo modo si sta portando avanti, consapevolmente o inconsapevolmente, una narrazione che vede Israele nato nel peccato: come riparazione ai delitti della Shoà e a danno del popolo palestinese. E se ci pensi bene questo è il principio utilizzato in tutte le trattative di pace che Israele ha fatto o deve fare: è sempre e unicamente Israele che deve cedere qualcosa, che subisce le pressioni internazionali affinché si arrivi ad un accordo. Questo perché Israele è visto come colpevole di qualche cosa, anche, se, è lui che è stato sempre attaccato e aggredito fin dalla sua nascita. Ma come si diceva è nato nella colpa di conseguenza in sede di trattative è messo in una posizione morale inferiore ai suoi avversari di conseguenza è lui che deve cedere sempre. È come se la Germania o il Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale anziché aver ceduto dei territori e obbligati ad uno spostamento coatto della popolazione avessero preteso indennizzi territoriali ed economici agli alleati. Assurdo solo a pensarlo. Ma questo principio è accettato per le aggressioni arabe: sono loro che aggrediscono ma chiedono compensazioni dopo le loro sconfitte: un vero e proprio ribaltamento legale oltre che morale ed etico, e l’Occidente è connivente.
- Israele “l’occupante”, Israele “il conculcante”. Oggi, in molti pensano che Israele occupi realmente in modo abusivo dei territori che sarebbero dei palestinesi. Quali sono, brevemente, i fatti decisivi per smontare questi falsi assunti? Purtroppo questi assunti sono così radicati che è difficile fare breccia tra coloro che ne sono convinti. Per prima cosa bisogna sottolineare che l’ONU con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale (quella che suggeriva la spartizione del Mandato per la Palestina) non ha deciso nulla, semplicemente perché non ha mai avuto il potere di decidere nulla. Questo perché nessun organo dell’ONU è dotato di potere di sovranità, quindi non può decidere la nascita di Stati o sancire i loro confini. Chiarito questo punto, vediamo le tappe principali che hanno condotto alla legittimità della nascita del moderno Stato di Israele. Al popolo ebraico è stato riconosciuto il diritto di autodeterminazione – così come ad altre popolazioni arabe musulmane o cristiane – con la Conferenza di pace di Sanremo del 1920, con i trattati internazionali di Sévres, di Losanna e con il Mandato per la Palestina. In pratica il Mandato per la Palestina è stato lo strumento giuridico creato dalla comunità internazionale per far nascere lo Stato nazionale del popolo ebraico. Bisogna anche ricordare che i confini che furono stabiliti nel 1922 dagli inglesi, quando divisero il Mandato in due unità amministrative, una per il popolo ebraico e l’altra per il popolo arabo, furono i confini dai quali nacquero due Stati indipendenti: la Giordania nel 1946 e Israele nel 1948 con confini precisi e ben definiti. Questo, per il principio dell’uti possidetis iuris, con il quale la comunità internazionale riconosce i confini degli Stati nascenti. Per questo principio tutto il territorio che va dal fiume Giordano al mar Mediterraneo è sin dal 1922 territorio appartenente al popolo ebraico. Detto questo come può essere che il popolo ebraico “occupi illegalmente” ciò che era già suo? L’unica occupazione illegale che si è verificata, nel corso della storia, fu quella di Giordania ed Egitto quando occuparono Giudea, Samaria, parte di Gerusalemme e la Striscia di Gaza tra il 1948 e il 1967. Questo va detto per chiarire in modo inequivocabile che i “territori palestinesi” non sono mai esistiti a meno che non si intendano quelli mandatari che erano del popolo ebraico per realizzare la propria autodeterminazione.
- Durante il suo primo quadriennio di presidenza, Donald Trump ha fatto per Israele più di qualsiasi altro presidente americano: ha levato i fondi all’UNRWA, ha fatto uscire gli Stati Uniti dal Consiglio per i Diritti umani di Ginevra oggi presieduto dall’Iran, ha riconosciuto la legittimità della sovranità israeliana sulle alture del Golan, ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele spostandovi l’ambasciata americana, ha ridotto all’irrilevanza l’Autorità Palestinese e ha inaugurato gli Accordi di Abramo. Quali sono le tue aspettative in merito alla nuova amministrazione USA? Per prima cosa voglio esprimere il mio sollievo per il fatto che Kamala Harris e il partito democratico non abbiano vinto le elezioni. Per Israele sarebbe stato un disastro. È vero che Trump è imprevedibile e umorale, ma le persone designate per la sua amministrazione fanno ben sperare per Israele. Anche i primi riverberi della sua elezione sono molto positivi: Trump non si è ancora insediato e il Qatar ha, già, chiuso gli uffici di Hamas e smesso la farsa delle trattative sugli ostaggi, dove tutte le pressioni erano unicamente su Israele; l’Iran che minacciava fuoco e fiamme dopo la risposta israeliana del 26 ottobre non ha mosso un dito. Abu Mazen e i cleptocrati dell’Autorità palestinese sono letteralmente spariti dai media. Inoltre, se questa amministrazione darà seguito a quanto già fatto in passato e rafforzerà i dettami della legge Taylor Force Act, spariranno del tutto perché non avranno più i soldi per pagare gli stipendi degli assassini di ebrei. Con queste premesse sono convinto che cesseranno le ostilità a Gaza e in Libano con rassicurazioni reali per la sicurezza di Israele ben diverse dalla ridicola Risoluzione 1701 con cui si chiuse la seconda guerra del Libano e che è rimasta del tutto inefficace per 18 anni. Anche le prospettive di allargamento degli Accordi di Abramo potranno rafforzarsi. Rimane l’incognita rappresentata dall’Iran, ma anche su questo fronte l’Amministrazione di Trump sarà molto più allineata con Israele e i paesi arabi sunniti rispetto a quella che avrebbe nominato Kamala Harris che sarebbe stata totalmente allineata alla dottrina Obama che cercava l’appeasament con l’Iran a tutti i costi. Se dovesse scoppiare un confronto tra Iran e Israele/USA molto probabilmente il regime iraniano non sopravvivrà al confronto. Un altro fronte importante è l’ONU che, così, come si è trasformato negli ultimi decenni non ha senso di esistere: è più dannosa che utile. Solo uno come Trump può decidere di far uscire gli USA da questa organizzazione e sancirne la fine. Solo così si può sperare in una nuova organizzazione che ne prenda il posto nel pieno rispetto della democrazia, dei diritti umani, nella piena uguaglianza tra i suoi membri.
(L'informale, 26 novembre 2024)
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Cristiani coraggiosi
Lode a Gesù e preghiera per Israele regnano ad Amsterdam.
di Charles Gardner*
Ammiro il coraggio e la passione dei nostri amici cristiani olandesi che di nuovo adorano il Messia ebraico e pregano per Israele nelle strade di Amsterdam! Meno di due settimane dopo lo scioccante pogrom contro i tifosi di calcio israeliani, ho visto (su YouTube) come i musicisti e i cantanti di Presence Revival sono tornati sulla scena del crimine - il centro della città. Il leader del movimento, Wim Hoddenbagh, ha chiesto perdono agli ebrei per quanto accaduto e ha guidato le preghiere per la “santificazione” della piazza, con molti che si sono inginocchiati e hanno appoggiato le mani sul selciato di pietra. Il suo gesto mi ha ricordato l'eroina cristiana Corrie ten Boom, che durante la guerra rischiò la vita con la sua famiglia olandese per nascondere gli ebrei dai nazisti. Sullo sfondo delle luci natalizie, Wim ha ricordato al pubblico la profezia di Isaia: "È nato per noi un bambino ” (Isaia 9:2). Si riferiva alla nascita del Messia ebraico, che sarebbe stato una benedizione per il mondo intero. La pazienza di Dio con Israele (nel corso dei secoli) è una garanzia della sua pazienza con noi, ha detto, ricordando al mondo il suo patto d'amore con il suo “bene prezioso”, di cui si compiaceva, non perché fossero più numerosi di altri popoli, ma per il suo amore eterno verso di loro (cfr. Deuteronomio 7:6-9). “Per questo pregherò per Israele fino all'ultimo respiro... e pregherò perché il Messia si mostri al suo popolo”, ha dichiarato. Il gruppo, il primo a entrare in piazza dopo i brutali attacchi, è stato circondato da una grande folla che rappresentava molte nazioni. Le preghiere si sono svolte in numerose lingue dopo che Wim ha chiesto alle persone di alzare la mano se parlavano qualcosa di diverso dall'olandese o dall'inglese. Persone provenienti da Iran, Ghana, Brasile, Cina, Italia, Polonia, Germania, America Latina, Turchia e Tagikistan hanno pregato nelle loro lingue madri. Il culto è stato, come sempre, di struggente bellezza. I volti brillavano di gioia celeste ed esprimevano un'appassionata intimità con Gesù attraverso testi di canzoni che includevano parole come "Ti desidero con tutto il cuore, senza di te sono perso ”. Il pogrom del 7 novembre era scoppiato appena due giorni prima dell’ottantaseiesimo anniversario della Kristallnacht, la cosiddetta “Notte dei cristalli”, che segnò l'inizio dell'Olocausto. Come ho già detto in precedenza, ho avuto l’impressione che quel pogrom fosse una reazione di Satana al nuovo territorio conquistato da Gesù in un luogo in cui il diavolo ha portato tanto scompiglio nel corso degli anni. E mi è parso che la folla che si univa al culto ieri sera cresceva di molto e che più persone erano desiderose di partecipare. “Perché le nazioni si infuriano e i popoli tramano invano?”. Il Signore avrà l'ultima risata quando insedierà il suo Re su Sion, il suo monte santo. “Bacia il figlio, altrimenti si adirerà e la tua strada ti porterà alla distruzione...”. (vedi Salmo 2) Continuate a pregare per Israele. Chi benedice il paese sarà benedetto, ma chi lo maledice cadrà sotto il giudizio di Dio (Genesi 12:3, Deuteronomio 24:9).
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* Charles Gardner è autore di Israel the Chosen, disponibile su Amazon; Peace in Jerusalem, disponibile su olivepresspublisher.com; To the Jew First, A Nation Reborn e King of the Jews, tutti disponibili su Christian Publications International.
(Israel Heute, 26 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Gaza, carestia e prezzi impazziti: così Hamas sfrutta i mezzi nostri e guadagna sulla fame dei palestinesi
di Iuri Maria Prado
L’ultimo rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification Evidence) sulla situazione della disponibilità di generi alimentari e di prima necessità nella Striscia di Gaza denuncia un forte aumento dei prezzi, il quale aggraverebbe il già problematico accesso della popolazione alla disponibilità di quei beni. Tra agosto e settembre 2024, dice quel rapporto, l’indice generale dei prezzi al consumo è aumentato dell’11%., mentre per i generi alimentari si registra un’impennata del 77%. Rispetto all’inizio del conflitto, l’aumento complessivo sarebbe del 283%, e addirittura del 312% per i generi alimentari. Si lamenta poi l’imperversare del mercato nero: gas da cucina +2.612%, gasolio +1.315%, legna +250%. Numeri impressionanti, in effetti. Il problema è che il rapporto, nella neutralità della propria freddezza statistica, non si occupa delle ragioni per cui quei prezzi salgono, né dell’identità di chi li fa salire. Ma non è che ci sia molto di oscuro in argomento. Poiché si tratta di aiuti (non di forniture commerciali), e poiché non risulta che a specularci sopra sia chi li fa arrivare (cioè Israele, cui si addebita di affamare Gaza non facendo arrivare gli aiuti), c’è almeno da ipotizzare che tra le indiscutibilmente nobili attività di Hamas ci sia anche quella, non del tutto commendevole, di inguattarsi quegli aiuti per poi rivenderli a prezzo iugulatorio alla popolazione bisognosa. Salvo credere, ovviamente, che il mercato nero di cui parla il rapporto sia gestito dai Savi Anziani di Sion o da agenti del Mossad travestiti da broker in kefiah che tirano su il prezzo della carne in scatola e delle taniche di carburante. Questa storia dei prezzi impazziti a Gaza va avanti da mesi senza che nessuno si faccia la domanda banale: e chi li fa salire, mia nonna? Ma soprattutto: questa storia va avanti da mesi senza che nessuno ne chieda conto alle organizzazioni della cooperazione internazionale, che sono lì a fare non si sa che cosa (a parte, naturalmente, denunciare il genocidio per fame di cui si renderebbe responsabile Israele). I cento camion di aiuti di cui, giusto l’altro giorno, l’Onu denunciava il sequestro da parte di uomini armati sono solo l’ultimo esempio dell’andazzo: sotto lo spensierato sguardo delle Nazioni Unite, quegli aiuti entrano a Gaza, Hamas se li prende, se ne rifocilla per quel che serve e per il resto ci fa i soldi sulla pelle dei poveracci. Si tratta semplicemente della guerra che Hamas continua anche con questi altri mezzi: mezzi che forniamo noi, e che Hamas usa per sfamare sé stessa e per guadagnare sulla fame dei palestinesi. Intanto dall’Aia chiediamo che gli israeliani siano arrestati perché impongono la carestia a Gaza.
(Il Riformista, 26 novembre 2024)
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"Vengono saccheggiati dai gangster". I camion di aiuti per Gaza nel mirino della malavita palestinese
Un racket per lucrare sugli aiuti umanitari che vengono sequestrati dopo aver attraversato i valichi di confine. È questo l'ultima atrocità che affligge la Striscia di Gaza
di Davide Bartoccini
Le rotte di aiuti umanitari diretti a Gaza sono soggette all'interdizione e alla razzia da parte di bande che pretendono di gestire il "traffico" degli aiuti diretti nell'exclave palestinese con quello che viene riportato come "tacito permesso dell'Esercito israeliano". Un ulteriore atto di violenza sconsiderata e spregiudicata che si aggiunge alla straziante condizione della Striscia di Gaza, dove la popolazione palestinese, perenne vittima collaterale delle ambizioni terroristiche di Hamas, è messa a durissima prova dall'operazione militare israeliana. Dietro la crisi umanitaria che sta affamando la popolazione della Striscia di Gaza ci sono molti volti; tra questi, quello di Yasser Abu Shabab, capo di uno dei gruppi criminali che saccheggiano gli aiuti destinati alla popolazione e hanno il potere di bloccare le strade percorse dai convogli umanitari. Secondo quanto si apprende, negli ultimi mesi gruppi criminali stanno sviluppando un "lucroso commercio" basato sul furto dei camion carichi di aiuti diretti nei territori palestinesi. Solo la scorsa settimana 97 dei 109 camion delle Nazioni Unite sono "andati persi". Considerato come il più noto "gangster" di questo settore della striscia di Gaza, Abu Shabab era stato dato per morto dopo un agguato lanciato contro il gruppo di saccheggiatori di un convoglio di camion carichi di aiuti delle Nazioni Unite, ma secondo quanto riportato dal Financial Times, il boss della criminalità palestinese di origini beduine sarebbe sopravvissuto.
• UN CRIMINE SOTTO GLI OCCHI DELL'IDF Funzionari umanitari e trasportatori palestinesi hanno affermato che i gruppi criminali in questione agiscono con il "tacito permesso dell'esercito israeliano", o meglio con quello che un promemoria delle Nazioni Unite definisce: "la benevolenza passiva, se non attiva" dell'Idf, dal momento che le azioni e depositi di aiuti rubati vengono "trascurati" dai droni di sorveglianza israeliani. Questi gruppi sono guidati da detenuti evasi e si basano sul concetto di clan familiare simile a quello di Cosa Nostra. Pesantemente armati, i gruppi criminali come quello guidato da Yasser Abu Shabab - che sta accentrando il suo potere nello schema di su questo meschino traffico - possono tranquillamente sfidare le autorità di Gaza. Dal momento che operano esclusivamente lungo il confine nella zona militare controllata dagli israeliani. Gli unici che potrebbero opporsi al traffico ma sembrano "disinteressarsene" secondo le fonti consultate dal Financial Times. L'aera interessata è sempre "oltre la portata della polizia rimanente di Gaza", nella "zona rossa" che è off-limits per la maggior parte dei palestinesi a causa della presenza delle truppe israeliane.
• LO SCHEMA CRIMINALE NEL MEZZO DI UNA GUERRA Il racket segue uno schema criminale abbastanza banale, e si basa sulla capacità di accumulare i beni saccheggiati - come farina, cibo in scatola, coperte e medicine - dai convogli che vengono intercettati subito dopo aver attraverso il valico di Kerem Shalom, per rivenderli a prezzi proibitivi alla popolazione attraverso degli intermediari. I camion invece vengono restituiti solo dopo il versamento di un riscatto. Ci troviamo di fronte a un'ulteriore piaga che si abbatte sulla già disperata condizione dei palestinesi, che hanno assistito al crollo del flusso di aiuti dopo l'invasione di Rafah da parte delle forze di difesa israeliane, ancora impegnate a rastrellare il settore meridionale della Striscia per eliminare ciò che resta di Hamas. Lasciando tuttavia nel totale impasse la crisi degli ostaggi, che non trova una risoluzione né ha assistito negli ultimi mesi a operazioni decisive che hanno condotto alla loro "liberazione". Secondo Israele dietro questo traffico si celano sempre e comunque la responsabilità e gli interessi di Hamas. Altre entità sottolineano come i saccheggi ai convogli abbiano "messo i gruppi armati in contrasto con il gruppo militante". Quale che sia la verità, queste azioni criminose ai danni dei convogli umanitari rimangono uno strumento di pressione che ha come vittime i civili palestinesi.
(il Giornale, 25 novembre 2024)
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UNWRA, emergono nuovi legami con Hamas e Jihad Islamica
di Olga Flori
Il direttore generale dell’ICRC (Comitato Internazionale della Croce Rossa) Pierre Krahenbuhl durante il suo mandato da Commissario generale di UNWRA tra il 2014 e il 2019 avrebbe incontrato leader di organizzazioni terroristiche palestinesi, secondo quanto rivelato in un nuovo rapporto di UN Watch.
L’ONG con sede a Ginevra spiega che nel febbraio del 2017, durante un meeting a Beirut, Krahenbuhl incontrò Ali Baraka (responsabile degli affari esteri di Hamas) e Abu Imad al-Rifai (leader in Libano del Movimento per la Jihad Islamica palestinese).
Baraka gestiva per conto di Hamas i legami con l’Iran, la Siria e l’Iraq. Pochi giorni dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, secondo il rapporto UN Watch, Baraka ha dichiarato che “gli abbiamo fatto pensare che Hamas era occupato a governare Gaza e che voleva concentrarsi sui 2.5 milioni di palestinesi lì presenti, e che aveva abbandonato la resistenza. Nel frattempo, di nascosto, Hamas stava invece preparando questo grande attacco”.
UN Watch precisa inoltre che Abu Imad al-Rifai, si era vantato di aver inviato nel 2003 un’ondata di attentatori suicidi a Baghdad per colpire le truppe statunitensi e britanniche.
Krahenbuhl, secondo il rapporto di UN Watch, avrebbe “ enfatizzato lo spirito di collaborazione tra UNWRA ed i gruppi terroristici” e sarebbe stato consapevole della necessità di mantenere l’incontro riservato per evitare di “mettere in dubbio la credibilità (di UNWRA) e di far perdere la fiducia dei paesi donatori in UNWRA” per evitare di perdere i finanziamenti.
Krahenbuhl, oggi a capo della Croce Rossa Internazionale, secondo il rapporto di UN Watch, avrebbe inoltre “preso atto del fatto che il ruolo di UNWRA non è principalmente quello di provvedere alla distribuzione di aiuti” e avrebbe sottolineato “lo spirito di collaborazione” con coloro che erano presenti all’incontro.
Dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre il ruolo di UNWRA e dei suoi dipendenti è stato fortemente criticato e messo in discussione da Israele, soprattutto dopo aver dimostrato la partecipazione di alcuni dipendenti all’attacco dello scorso autunno nel sud di Israele.
(Shalom, 25 novembre 2024)
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Israele accetta il cessate il fuoco con Hezbollah
Secondo diversi resoconti di domenica sera, dopo che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto consultazioni ad alto livello sulla questione, Israele ha accettato in linea di principio un cessate il fuoco con Hezbollah sostenuto dagli Stati Uniti e il primo ministro Benjamin sta ora lavorando su come presentarlo al pubblico. L’incontro si è svolto mentre Israele era stato colpito per tutto il giorno da ondate di razzi provenienti dal Libano e l’Aeronautica militare aveva effettuato ripetuti attacchi contro i siti di Hezbollah a Beirut. I resoconti su Kan, Ynet e Haaretz, che citavano funzionari di Gerusalemme, Washington e Beirut, hanno tutti notato che l’approvazione della proposta non era definitiva e che diverse questioni dovevano ancora essere risolte, ma che Gerusalemme aveva approvato i principi fondamentali della proposta. Secondo Ynet, questo era stato trasmesso al Libano. Il leader di Hezbollah, Naim Qassem, ha dichiarato la scorsa settimana che il gruppo terroristico aveva esaminato la proposta di tregua e presentato una risposta, e che la palla era nel campo di Israele. Secondo quanto riportato da Haaretz, la proposta comprenderà tre fasi: una tregua seguita dal ritiro delle truppe di Hezbollah a nord del fiume Litani; il ritiro di Israele dal Libano meridionale e, infine, i negoziati israelo-libanesi sulla demarcazione delle aree di confine contese. Ha affermato che un organismo internazionale guidato dagli Stati Uniti avrà il compito di monitorare il cessate il fuoco e che Israele si aspetta di ricevere una lettera da Washington che affermi il suo diritto di agire militarmente qualora Hezbollah violasse i termini del cessate il fuoco in assenza di azioni da parte delle forze militari e internazionali del Libano. Kan, riguardo al piano di Netanyahu di vendere l’accordo al pubblico, ha affermato che l’obiettivo è quello di presentare la tregua non come un compromesso, ma come vantaggiosa per Israele. La consultazione si è tenuta con alcuni ministri di alto rango e funzionari della sicurezza e, secondo Kan, si è concentrata anche sulla libertà di Israele di operare ai confini con Libano e Siria dopo la conclusione dell’accordo. Secondo quanto riportato da numerosi media ebraici, Hochstein ha dichiarato nel fine settimana ai funzionari israeliani che questa era la loro ultima possibilità di andare avanti con l’accordo e che se non lo avessero accettato, avrebbe rinunciato ai suoi sforzi e Israele e Hezbollah avrebbero dovuto aspettare che il presidente entrante Donald Trump entrasse in carica a gennaio prima che gli sforzi di mediazione americani riprendessero. La scorsa settimana Hochstein ha visitato Beirut e Gerusalemme per sollecitare un accordo sostenuto dagli Stati Uniti, che vedrebbe il graduale ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani e l’esercito libanese riprendere la responsabilità del Libano meridionale. In base a un eventuale cessate il fuoco, l’esercito libanese avrebbe il compito di impedire a Hezbollah di ristabilirsi nel Libano meridionale. Come parte degli sforzi per far sì che l’accordo venga firmato questa settimana, l’ex ambasciatore statunitense in Israele Dan Shapiro dovrebbe arrivare in Israele lunedì per agevolare la definizione degli ultimi dettagli dell’accordo, ha riferito Channel 12. Mentre i colloqui proseguivano domenica, Hezbollah ha intensificato i suoi attacchi contro Israele, lanciando più di 250 razzi e droni verso il nord e il centro di Israele nel corso della giornata, ferendo diverse persone. L’intensità degli attacchi dell’organizzazione terroristica contro Israele di domenica non è stata ritenuta sorprendente dalle autorità israeliane, secondo quanto riportato da Channel 12, che domenica sera ha riferito che Israele si aspettava che gli attacchi di Hezbollah sarebbero aumentati man mano che le parti si fossero avvicinate alla conclusione di un accordo. L’obiettivo del gruppo, secondo quanto riportato dal canale, era dimostrare di avere ancora la capacità di attaccare Israele e cercare di dissuaderlo dall’attaccare Beirut. Hezbollah ha anche pubblicato domenica una foto apparentemente generata dall’intelligenza artificiale che mostra i danni a un’autostrada causati da un attacco missilistico, con una didascalia che minaccia che “il destino di Tel Aviv sarebbe il destino di Beirut” se Israele continuasse ad attaccare la capitale libanese. Hezbollah cerca da tempo di imporre un equilibrio di potere nel tentativo di scoraggiare Israele. Tuttavia, Ynet ha riferito che Israele intendeva anche intensificare gli attacchi contro gli obiettivi di Hezbollah a Beirut per danneggiare il più possibile le sue capacità prima che un accordo fosse finalizzato. Negli ultimi giorni sono continuati pesanti combattimenti terrestri tra le IDF e Hezbollah nel Libano meridionale, con le truppe israeliane che si sono allontanate sempre di più dal confine.
(Rights Reporter, 25 novembre 2024)
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Arrestati i tre sospettati dell’omicidio del rabbino Chabad Zvi Kogan
di Luca Spizzichino e Michelle Zarfati
Le autorità degli Emirati Arabi Uniti hanno arrestato tre persone sospettate dell’omicidio del rabbino israelo-moldavo Zvi Kogan. Si tratta di tre cittadini uzbeki: Olimpi Toirovich (28 anni), Makhmudjon Abdurakhim (28 anni) e Azizbek Kamlovich (33 anni).
Le autorità degli Emirati Arabi Uniti hanno sottolineato “la determinazione delle autorità di sicurezza competenti ad adottare rapidamente le misure necessarie per scoprire i dettagli dell’incidente, le sue circostanze e i suoi moventi”. Hanno inoltre evidenziato come siano state sfruttate le loro competenze umane e professionali, insieme alle avanzate capacità tecniche, per arrivare rapidamente all’arresto dei responsabili.
Il ministero dell’interno emiratino ha dichiarato che utilizzerà “tutti i poteri legali per rispondere in modo deciso e senza clemenza a qualsiasi azione o tentativo che minacci la stabilità della società”.
Zvi Kogan, 28 anni, era un emissario del movimento Chabad-Lubavitch e lavorava negli Emirati Arabi Uniti dal 2020, anno della normalizzazione delle relazioni tra Israele e il Paese del Golfo grazie agli Accordi di Abramo. Kogan collaborava con il rabbino capo Levi Yitzchak Duchman per promuovere la vita ebraica negli Emirati, assicurando la disponibilità di cibo kosher e l’apertura del primo centro educativo ebraico nel Paese. Inoltre, gestiva il Rimon Market, un negozio di alimentari kosher a Dubai, già bersaglio di proteste da parte di manifestanti filo-palestinesi e anti-israeliani.
Il rabbino era scomparso giovedì a Dubai. Il suo corpo è stato ritrovato successivamente nella città di Al Ain, al confine con l’Oman, a circa 150 chilometri da Abu Dhabi. Le autorità israeliane hanno confermato il ritrovamento domenica, sottolineando che sul veicolo di Kogan erano visibili segni di colluttazione. Israele ha definito l’omicidio un attacco terroristico di matrice antisemita.
L’ambasciatore emiratino negli Stati Uniti, Yousef Al Otaiba, ha espresso cordoglio sui social, definendo l’uccisione “un crimine contro i valori degli Emirati”. Ha aggiunto che si è trattato di “un attacco alla nostra patria, ai nostri valori e alla nostra visione”. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha condannato l’omicidio e ringraziato le autorità degli Emirati per la rapidità nelle indagini e negli arresti, esprimendo fiducia nel fatto che i responsabili saranno assicurati alla giustizia. La Casa Bianca ha descritto l’omicidio come “un crimine orribile contro la pace, la tolleranza e la coesistenza”. Il portavoce della sicurezza nazionale statunitense, Sean Savett, ha elogiato gli Emirati per la rapidità degli arresti e ha garantito il pieno supporto degli Stati Uniti nelle indagini. Il movimento Chabad-Lubavitch, in un messaggio sui social, ha definito Kogan “una vittima di terrorismo” e ha espresso fiducia nel fatto che gli Emirati lavoreranno con altri Paesi della regione per perseguire i responsabili.
Da parte sua, Teheran ha negato qualsiasi coinvolgimento nell’omicidio attraverso una dichiarazione dell’ambasciata iraniana ad Abu Dhabi, definendo le accuse “categoricamente infondate”.
Le indagini sono ancora in corso, mentre il corpo di Zvi Kogan sarà rimpatriato in Israele nelle prossime ore per i funerali.
(Bet Magazine Mosaico, 25 novembre 2024)
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L’essenza dell’ebraismo non è l’Esilio
di Davide Cavaliere
È sconcertante, per malafede e grossolanità teorica, il recente scritto di Giorgio Agamben su Giudaismo ed esilio. Nel breve testo, programmaticamente intitolato La fine del Giudaismo, il filosofo propone un’interpretazione discutibile del Sionismo e del suo rapporto con l’Ebraismo.
Secondo quanto scritto da Agamben, il Sionismo costituirebbe una «negazione» dell’identità ebraica e della Galut, ossia dell’esilio. Il filosofo parla di «doppia negazione» ma, a ben vedere, si tratta di una sola, dato che l’ebraicità e l’esilio sono presentati come elementi simbiotici, ed è proprio questo l’errore fondamentale che inficia tutto il suo discorso.
Se la Diaspora ha certamente segnato il destino del popolo ebraico, a cui ogni stabilità è stata a lungo preclusa, l’ebraismo non ha mai implicato «l’accettazione senza riserve dell’esilio» né questo può essere definito, come fa il filosofo, «la forma stessa dell’esistenza degli ebrei sulla terra». L’esilio da Eretz Israel è sempre stato vissuto come una condizione di doloroso sradicamento.
Gli Ebrei, salvo quelli che hanno resistito come ostinata minoranza nella loro terra d’origine, non smisero mai di rivolgersi costantemente verso il Monte del Tempio di Gerusalemme, pregando e sperando di tornare, promettendosi l’un l’altro: «l’anno prossimo a Gerusalemme» e ammonendosi con il verso «se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra».
Proprio tra gli Ebrei dell’Europa centro-orientale, costretti a mantenersi in equilibrio fra confini mutevoli e governanti ostili, il Sionismo attecchì maggiormente e in profondità. Theodor Herzl veniva accolto come un nuovo Mosè nei ghetti dell’Ucraina e della Polonia. Il Sionismo ha rappresentato per gli ebrei diasporici la speranza di un’esistenza pienamente ebraica, lo stesso Herzl, pur da uomo laico, nel suo discorso d’apertura al primo Congresso, dichiarò: «Sionismo significa ritorno al giudaismo prima che ritorno al Paese degli ebrei».
Uno dei più importanti pensatori ebrei del secolo scorso, Gershom Scholem, a differenza di Agamben, non ritenne mai il Sionismo un «tradimento» dell’essenza del Giudaismo, ma vide nell’Israele Stato nazionale il luogo di un rinvigorimento dell’Ebraismo: «Con la realizzazione del sionismo sono sgorgate le fonti della grande profondità del nostro essere storico, liberando nuove forze dentro di noi», e ancora: «Per quanto concerne l’ebraismo nello Stato d’Israele, esso è la forza vivente del popolo di Israele».
Agamben concettualizza l’esilio e ne fa la cifra dell’Ebraismo, impiegando in modo scorretto e fuorviante alcuni concetti della Kabbalah lurianica. Come Lévinas e Derrida blandisce il presunto cosmopolitismo ebraico. In modo involontario, ripropone lo stereotipo antisemita dell’Ebreo errante, del luftmensch privo di ancoraggio al suolo. Il filosofo celebra quello che, un tempo, l’antisemita esecrava: l’inappartenenza, la mancanza di fondamento nazionale, e lo fa soprattutto ora, alla luce nera del Sionismo realizzato, del ritorno degli Ebrei alla loro patria storica.
Giorgio Agamben, come George Steiner o Enzo Traverso, esprime quella forma specifica di antisemitismo «progressista», dagli accenti marcioniti, che raffigura come demoniaca la «carne» della forma-stato. Gli Ebrei avrebbero rinunciato al privilegio della volatilità chagalliana, pertanto, a causa di questo «tradimento», si ha di nuovo il permesso di odiarli, non più come «razza» ma come «Stato».
Gli Israeliti dovrebbero abitare solo lo spazio della testualità e della morale. Erranza senza fine. A casa ovunque perché non c’è nessun dove. Non diversi dalle statuette di hassidim vendute come souvenir nel rynek di Cracovia. Essi hanno la colpa di aver reintrodotto in un mondo pensato in marcia verso l’universalismo lo Stato nazionale. Gli intellettuali come Agamben hanno eletto Israele a capro espiatorio del peccato supremo, quello della statualità.
Questo tentativo di recidere il legame dell’Ebraismo con la terra di Israele serve a legittimare e normalizzare la colonizzazione arabo-musulmana della Palestina, interrotta fattivamente dalla nascita del moderno Stato ebraico, ma ripresa simbolicamente dall’UNESCO, che da anni tenta di negare ogni collegamento tra Gerusalemme, gli Ebrei e la loro terra ancestrale.
Il tutto procede, parallelamente e senza apparente contraddizione, con l’insistenza sulla necessità morale e politica di uno Stato palestinese, non importa quanto teocratica e identitaria potrà essere tale entità.
L’interpretazione distorta fornita da Agamben ha il solo pregio di essere genuina. Egli afferma una verità che i critici contemporanei di Israele raramente osano menzionare (almeno in pubblico): sarebbe stato meglio per gli Ebrei morire tutti nelle camere a gas di Auschwitz piuttosto che fondare uno Stato.
Eric Voegelin invitava lo storico delle idee a «esplorare lo sviluppo dei sentimenti che si cristallizza nelle idee, e mostrare la relazione tra le idee e la matrice dei sentimenti in cui sono radicate». Le idee di Agamben affondano in un sentimento preciso: il desiderio di un mondo dove il Giudaismo abbia perso ogni connotato specifico, un mondo senza Ebrei. Judenfrei.
(L'informale, 25 novembre 2024)
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Prima ancora di riferirsi a Gershom Scholem (1897-1982), all'antisemitismo universalistico di Giorgio Agamben, secondo cui «l'accettazione senza riserve dell'esilio è la forma stessa dell'esistenza degli ebrei sulla terra», si può contrapporre il sionismo antelitteram di Leon Pinsker (1821-1891), che nel suo famoso "Autoemancipazione" sostiene l'esatto contrario, cioè che l'accettazione senza riseve dell'esilio è per gli ebrei una malattia mortale di cui la maggior parte di loro è inconsapevole:
«Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri. Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad un'esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione». M.C.
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Noè fu uomo giusto
di Marcello Cicchese
Noè fu uomo giusto, integro, ai suoi tempi; Noè camminò con Dio. E Noè generò tre figli: Sem, Cam e Iafet. Ora la terra era corrotta davanti a Dio; la terra era piena di violenza. Dio guardò la terra; ed ecco, era corrotta, poiché ogni carne aveva corrotto la sua via sulla terra. E Dio disse a Noè: “Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta; poiché la terra è piena di violenza a causa degli uomini; ecco, io li distruggerò, insieme con la terra. Fatti un'arca di legno di gofer; falla a stanze, e spalmala di pece, dentro e fuori. […] E Noè fece così; fece tutto quello che Dio gli aveva comandato (Genesi 6:9-14,22)
Per la prima volta nella Bibbia compare qui l'aggettivo "giusto". Che vuol dire? Nessuno può rispondere, se non Dio stesso, perché a dire questo è stato Lui, non un altro.
"Egli (Abramo) credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia" (Genesi 15:6).
Per la prima volta nella Bibbia compare qui il sostantivo "giustizia". Che vuol dire? Stessa risposta di prima: nessuno può rispondere, se non Dio stesso, perché è Lui che dice queste parole e, come fanno tutti i giudici in tribunale, pronuncia la sentenza in base alla nozione di giustizia stabilita dall'autorità superiore, e non in base all'opinione personale di chi deve essere giudicato.
Qui però si dice qualcosa di più sul criterio di giustizia usato dal Giudice: per la prima volta nella Bibbia compare il verbo "credere". Abramo "credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia". E poiché è Dio la fonte del diritto, nessuno può sollevare obiezioni contrapponendo una sua propria idea di giustizia.
Il peccato di Adamo è consistito nel non aver creduto, per superbia, a quello che Dio aveva minacciato e promesso; adesso allora il Signore decide di "giustificare", cioè considerare giusto, colui che umilmente crede a quello che Egli annuncia e promette.
• GIUSTIFICATO PER FEDE Nel mondo ebraico la dottrina della "giustificazione per fede" è vista come una caratteristica della "religione cristiana" che la allontana radicalmente dal modo di credere e di vivere dell'ebraismo.
Il primo a presentare questa dottrina è stato però un ebreo doc: Paolo di Tarso. Nel capitolo 4 della sua lettera ai Romani, Paolo inizia dicendo: "Che diremo dunque che il nostro antenato Abramo abbia ottenuto secondo la carne?" (v. 1). Parla di "nostro antenato", dunque si rivolge innanzi tutto ad altri ebrei come lui. E continua:
"Poiché se Abramo fosse stato giustificato per le opere, egli avrebbe di che vantarsi; ma non davanti a Dio; infatti, che dice la Scrittura? «Abramo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto di giustizia». Ora a chi opera, il salario non è messo in conto di grazia, ma di debito; mentre a chi non opera ma crede in colui che giustifica l'empio, la sua fede è messa in conto di giustizia" (vv. 2-5).
Si può non essere d'accordo con questa spiegazione della Scrittura, come accade spesso anche tra ebrei, ma non si può negare che l'apostolo Paolo qui non sta inventando una nuova dottrina per una nuova religione, ma presenta quello che secondo lui è il significato vero e profondo di quel testo della Torah. Continua infatti la sua argomentazione citando il Salmo 32:
"Così pure Davide proclama la beatitudine dell'uomo al quale Dio mette in conto la giustizia senza opere, dicendo: «Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti. Beato l'uomo al quale il Signore non addebita il peccato»" (vv. 5-7).
Il Re Davide aveva commesso gravissimi peccati, come adulterio ed omicidio, e secondo la Torah doveva essere messo a morte. Paolo, come rigoroso ebreo osservante, lo sapeva benissimo, e tuttavia, con un modo di argomentare di stile ebraico, sostiene che la giustizia messa in conto ad Abramo ha come conseguenza che con una fede simile alla sua il debito dell'uomo peccatore con Dio è saldato. Beati dunque coloro "le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti", proprio come è accaduto al Re Davide.
• SOLTANTO PER I CIRCONCISI? Qui Paolo fa una domanda interessante: "Questa beatitudine è soltanto per i circoncisi oppure anche per gl'incirconcisi?" (v. 9). Bella domanda! "Infatti - continua Paolo - noi diciamo che la fede fu messa in conto ad Abramo come giustizia" (v. 9). Ma Abramo è un circonciso - dirà forse qualcuno - quindi questa promessa di giustizia per fede riguarda soltanto gli ebrei.
Abituato com'era al pilpul ebraico (il rabbinico stile di studio per dibattito dei testi sacri), Paolo previene il suo ipotetico interlocutore con una domanda: "In che modo dunque gli fu messa in conto? Quand'era circonciso, o quand'era incirconciso?" (v. 10). E immediatamente si dà la risposta:
"Non quando era circonciso, ma quando era incirconciso; poi ricevette il segno della circoncisione, quale sigillo della giustizia ottenuta per la fede che aveva quando era incirconciso, affinché fosse padre di tutti gl'incirconcisi che credono, in modo che anche a loro fosse messa in conto la giustizia e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo sono circoncisi ma seguono anche le orme della fede del nostro padre Abramo quand'era ancora incirconciso" (vv. 10-12).
Potrà sorprendere, ma le più grandi promesse di benedizione, tra cui quella fondamentale della giustizia ottenuta attraverso la fede, sono state fatte ad Abramo prima di essere circonciso. Anche la prima chiamata, Lech Lechà, è stata rivolta a un gentile, non ad un ebreo, per il semplice fatto che allora gli ebrei non c'erano ancora. Soltanto in seguito, in risposta alla fede di Abramo, Dio si è formato attraverso di lui un popolo storico che avesse la circoncisione come segno della fede del capostipite.
Ciò non toglie che il popolo ebraico abbia ricevuto anche delle specifiche, esclusive promesse che riguardano soltanto lui, ma si può dire che esse cominciano a delinearsi soltanto dopo che Dio ha ordinato ad Abramo la circoncisione, con la nascita di Isacco e poi di Giacobbe.
La giustizia donata da Dio sulla base della fede nella Sua Parola comincia con Abramo, e dopo di lui riguarda tutti coloro che hanno una fede simile alla sua. Senza distinzione tra ebrei e non ebrei.
(da "Sta scritto")
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«La corte imparziale»
di Giulio Meotti
ROMA - “Un infelice compleanno a te. 48 anni di occupazione”. La dedica è rivolta a Israele e a firmarla è Nawaf Salam. E’ il giugno 2015 e, mentre posta sui social il suo augurio, Salam è in carica come rappresentante del Libano alle Nazioni Unite. Ora è il presidente della Corte penale dell’Aia che emette mandati d’arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ormai ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. Bastava il procuratore della Corte penale dell’Aia, il musulmano britannico Karim Khan che a settembre ha incontrato il presidente della Turchia Erdogan e quello dell’Autorità nazionale palestinese Abbas, per capire che la Corte ha un problema di pregiudizio quando si tratta di Israele.
Il libanese Salam è stato eletto a capo della Corte dell’Aia nel febbraio scorso. Quando fu nominato presidente arrivò la lettera di alcuni legislatori (democratici e repubblicani) americani al segretario di stato Antony Blinken: “Il chiaro e ben documentato curriculum di pregiudizi contro lo stato ebraico del giudice Salam e le persistenti violazioni dello statuto della Corte internazionale di giustizia rendono abbondantemente chiaro che non sarà un arbitro imparziale”.
Un rapporto di UN Watch, l’organizzazione di monitoraggio con sede a Ginevra, ha analizzato il curriculum di Salam come ambasciatore all’Onu. Durante il suo mandato come rappresentante libanese presso le Nazioni Unite, Salam ha votato per condannare Israele 210 volte. Denunce unilaterali di Israele e carta bianca a Hamas. Nei suoi discorsi all’Onu, Salam ha accusato “organizzazioni ebraiche terroristiche”, ha detto che la “suprema leadership sionista” persegue un piano di “pulizia etnica” e che “per troppo tempo i criminali di guerra di Israele hanno beneficiato dell’impunità”. Il 18 giugno 2014, Salam si oppose alla candidatura di Israele alla vicepresidenza del Quarto Comitato dell’Assemblea generale. Salam ha anche ripetutamente attaccato Israele sui social. Nel 2015, su Twitter ha definito Israele un “trionfo di palesi scelte razziste e colonialiste”. Salam si è costantemente schierato con la Repubblica islamica dell’Iran. Ha votato contro tutte le undici risoluzioni dell’Assemblea generale che condannavano le violazioni del regime iraniano contro il suo popolo. Salam ha votato contro una risoluzione che chiedeva il rilascio dei prigionieri politici in Bielorussia, unendosi a Cina, Russia, Cuba, Iran, Siria e Corea del nord. Mentre scoppiava la guerra civile in Siria nell’aprile 2011, Salam usava il suo seggio nel Consiglio di sicurezza per bloccare una dichiarazione che avrebbe condannato il regime siriano per aver attaccato i civili. Salam ha anche pubblicato sui social le sue lodi per Fidel Castro, definendolo “icona di ribellione e resistenza”. “La Corte dell’Aia è stata un fallimento” ha scritto sul Wall Street Journal il giurista dell’Università di Chicago, Eric Posner. “Con uno staff di settecento persone e un budget annuale di cento milioni di dollari, la Corte ha finora completato solo un processo, quello a Thomas Lubanga, comandante nella guerra civile in Congo”. Ora può riprovarci con il primo ministro dell’unica democrazia in un arco che va da Marrakech a Mumbai impegnata a non soccombere alla piovra del terrorismo islamico.
Il Foglio, 23 novembre 2024)
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Ingiustizia è fatta – I mandati d’arresto internazionali contro Netanyahu e Gallant
di Ugo Volli
• IL COMUNICATO DELLA CORTE PENALE
La Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja (da non confondere con la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), presso cui è in discussione una denuncia del Sudafrica contro Israele per “genocidio”) ha emesso mandati di arresto contro il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa, Yoav Gallant. In un comunicato, la CPI ha spiegato di avere “la ragionevole convinzione che Netanyahu e Gallant abbiano commesso crimini di guerra”. Essi, secondo la CPI, “hanno la responsabilità penale, inclusa la partecipazione condivisa ad atti commessi con altri, per il crimine di usare la fame come metodo di guerra e altri crimini contro l’umanità, inclusi omicidi, persecuzioni e altri atti disumani”. Inoltre essi, in quanto vertici civili delle forze armate, sarebbero “responsabili per il crimine di guerra di attacco intenzionale contro una popolazione civile”. I mandati di arresto naturalmente non avranno influenza nel funzionamento interno del governo israeliano, che li rifiuta, ma renderanno impossibile a Netanyahu e Gallant di recarsi all’estero, salvo i paesi che non aderiscono alla CPI, come gli Usa.
• LA REAZIONE DI ISRAELE
“La decisione antisemita della Corte penale internazionale equivale a un moderno processo Dreyfus, e finirà allo stesso modo”, ha dichiarato l’ufficio del Primo ministro. “Israele respinge con veemenza le azioni e le accuse assurde e false contro di essa da parte della Corte penale internazionale, un organismo politico di parte e discriminatorio”. Nel comunicato si afferma anche che la decisione è stata sollecitata da “un procuratore capo corrotto che ha tentato di salvarsi da gravi accuse di molestie sessuali e da giudici di parte spinti dall’odio antisemita verso Israele”. Dichiarazioni di sostegno a Netanyahu e Gallant sono arrivate anche da tutti i principali ministri, dal presidente di Israele Herzog, dall’ex primo ministro Bennett e altri leader dell’opposizione. Vi sono state anche forti espressioni di solidarietà internazionali, soprattutto da parte americana. Al Congresso Usa pende una proposta di legge per sanzioni contro le azioni antisemite dei giudici della CPI, che sono tutti di nomina politica.
• IL CONTESTO
Il mandato d’arresto contro Netanyahu, Gallant e due capi terroristi nel frattempo eliminati (Sinwar e Deif – un accostamento di per sé odioso e assurdo) era stato chiesto dal procuratore presso la CPI Karim Khan già il 20 maggio scorso e poi era rimasto in sospeso sia per motivi di diritto che per il fatto che Khan era stato a sua volta indagato per il sospetto di molestie sessuali a carico di sue collaboratrici. Sul piano del diritto, per statuto la CPI è competente solo per i paesi che hanno aderito al suo trattato istitutivo (e Israele non lo è, come non lo sono gli Usa); inoltre perché essa possa intervenire è necessario che non vi sia un sistema giudiziario nel paese interessato che ha l’autorità di occuparsi dei crimini sospettati. Il primo argomento di incompetenza è stato aggirato accettando l’adesione dello “Stato di Palestina” e dicendo che i “crimini” si sono svolti sul suo territorio; alla seconda, per quel che si sa, non è stata data risposta. Alla fine la “Camera preliminare” della CPI ha emesso il mandato di cattura, proprio il giorno dopo a quello in cui gli Stati Uniti avevano dovuto opporre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approvata da tutti i quattordici altri membri, che voleva imporre a Israele il cessate il fuoco (senza parlare degli ostaggi e senza poterlo fare con Hamas e Hezbollah, che non sono vincolati alle decisioni dell’Onu perché non sono stati membri); a quello in cui all’ex ministro della giustizia di Israele Ayelet Shaked era stato negato l’ingresso in Australia dal locale governo laburista perché contraria alla “soluzione dei due stati”; pochi giorni dopo che il “ministro degli esteri” uscente dell’Unione Europea, il socialista spagnolo Josep Borrell aveva proposto, per fortuna senza successo, di interrompere tutti i rapporti dell’Unione Europea con Israele.
• L’OTTAVO FRONTE
In realtà, al di là degli aspetti giuridici e politici della decisione della CPI, quel che risulta chiaro è che le relazioni internazionali diplomatiche e giudiziarie sono l’ottavo fronte della guerra contro Israele. Lo stato ebraico sta vincendo sul terreno a Gaza e in Libano, ha inferto colpi molto duri ai suoi nemici in Yemen e in Iraq, ha bombardato l’Iran tanto efficacemente da indurlo a non provare a replicare, ha duramente colpito l’organizzazione terroristica in Giudea e Samaria, ha bloccato i tentativi di coinvolgere nel terrorismo la Giordania. Insomma sta nettamente prevalendo sui sette fronti della guerra e attende l’ingresso in carica di Trump per poter usare appieno i suoi mezzi contro l’Iran senza i vincoli imposti dall’amministrazione Biden, in modo da poterne eliminare del tutto la minaccia. Ma resta il fronte esterno, quello delle piazze e delle università europee e americane invase da antisemiti violenti. E soprattutto resta quello della diplomazia e della giustizia, l’ottavo fronte, dove l’offensiva contro Israele non ha soste.
• IL SENSO POLITICO DI UNA DECISONE CONTRO LA GIUSTIZIA
Il provvedimento della CPI va pensato così, come parte di questa offensiva, che mira a paralizzare la solidarietà contro Israele, a impedire allo Stato ebraico di ottenere rifornimenti delle armi e munizioni necessarie, a preservare la dirigenza e la capacità offensiva dei terroristi che oggi colpiscono Israele e in futuro assalirebbero l’Occidente. Non solo dunque la delibera della CPI non ha nulla a che fare con la giustizia, anzi si può sintetizzare col motto “Ingiustizia è fatta”. Quel che deve essere chiaro è che si tratta di un atto di guerra, di un’azione pienamente allineata con Hamas, Hezbollah e l’Iran, che naturalmente hanno salutato con giubilo i mandati di arresto. Una delle tragedie del nostro tempo è che istituzioni concepite per portare giustizia e pace nel mondo, come l’Onu e la CPI, siano diventate strumenti del terrorismo e della distruzione.
(Shalom, 22 novembre 2024)
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L’Italia garantista del diritto internazionale da destra a sinistra
Eccetto la Lega di Matteo Salvini
di Ludovica Iacovacci
Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha definito il mandato d’arresto della CPI per il premier israeliano Beniamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant “sbagliato” ma ha precisato che l’Italia, aderendo allo Statuto di Roma, è obbligata ad applicarlo. “Io ritengo che la sentenza della Corte penale internazionale sia sbagliata” ma se Benyamin Netanyahu e Yoav Gallant “venissero in Italia dovremmo arrestarli perché noi rispettiamo il diritto internazionale”, ha affermato Guido Crosetto durante la puntata di Porta a Porta in onda su Raiuno. Anche il Partito Democratico concorda con il Ministro della Difesa di Fratelli d’Italia nell’attenersi alla decisione della Corte. “È partito l’attacco alla Corte Penale Internazionale, per il mandato di arresto a Netanyahu. La CPI è un’acquisizione fondamentale della giustizia internazionale, fondata sullo Statuto di Roma. L’Italia ha il dovere di rispettarla ma anche quello di adeguarsi alle sue decisioni” scrive su Peppe Provenzano, responsabile Esteri nella segreteria nazionale del PD. Così Fratoianni e Bonelli, leader di Avs, che definiscono la notizia del mandato d’arresto come “enorme” e chiedono il rispetto della decisione della Corte. Il Movimento5Stelle rincara la dose chiedendo un embargo di armi contro Israele. L’unica voce fuori dal coro è quella di Matteo Salvini, leader della Lega: “Conto di incontrare presto esponenti del governo israeliano e se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto. I criminali di guerra sono altri”, ha detto il vicepremier a margine dell’assemblea Anci.
- L’Europa si adegua alla Corte Josep Borrell, capo della diplomazia europea, ribadisce che «tutte le nazioni dell’Unione sono obbligate a rispettare la decisione». L’Olanda ha subito aderito ed è stata la prima a farlo: «Siamo pronti ad eseguire i fermi». Il Belgio ha sottolineato l’importanza della lotta all’impunità, dichiarando pieno sostegno alla Corte, così ha fatto anche la Svezia, che ha confermato il “supporto all’organo e alla sua indipendenza”, e la Slovenia, che ha dichiarato che si “adeguerà pienamente” alla decisione della Corte. “Sosteniamo i tribunali internazionali e applichiamo i loro mandati”, ha detto il capo del governo dell’Irlanda. La Francia “prende atto” dei mandati di arresto emessi dalla CPI contro Benjamin Netanyahu, ma al momento non pervengono dichiarazioni ufficiali riguardo all’intenzione di arrestare Netanyahu in caso di visita. Idem per il Regno Unito. Quanto alla Germania: “Le forniture di armi a Israele sono sempre soggette a una valutazione caso per caso, e questo rimane il caso attuale. Il nostro atteggiamento nei confronti di Israele rimane invariato”, ha affermato un portavoce venerdì mattina. Ieri, in concomitanza della comunicazione ufficiale del mandato d’arresto da parte della CPI per i leader israeliani e il terrorista palestinese Deif, il presidente spagnolo Pedro Sanchez inaugurava il primo incontro intergovernamentale tra Spagna e Palestina, ricevendo il capo dell’ANP Mahmud Abbas. “Questo incontro è il simbolo del compromesso che la Spagna ha con la Palestina: con il suo presente e con il suo futuro”, scriveva il leader spagnolo. Per quanto riguarda la posizione del suo governo, il tema del mandato d’arresto internazionale dalla stampa locale non sembra ancora essere toccato, ma la Spagna è l’unico Paese europeo ad essersi unito nella causa per genocidio che il Sudafrica sta portando avanti contro Israele dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia. Il sostegno dell’Ungheria di Viktor Orban a Israele: “Netanyahu venga a Budapest, non rispettiamo CPI” “Oggi inviterò il primo ministro israeliano Netanyahu a visitare l’Ungheria, dove gli garantirò, se verrà, che la sentenza della Corte penale internazionale non avrà alcun effetto in Ungheria e che non ne rispetteremo i termini”, ha detto il primo ministro ungherese e presidente di turno della Ue, Viktor Orban, alla radio di stato ungherese.
- Stati Uniti: il muro in sostegno di Israele Gli Stati Uniti si sono opposti fermamente al mandato d’arresto contro i leader israeliani. Il presidente Joe Biden ha definito la decisione “scandalosa” e ha riaffermato il supporto incondizionato a Israele, dichiarando: “Non c’è equivalenza tra Israele e Hamas”. Secondo fonti della Casa Bianca, la futura amministrazione Trump starebbe valutando di imporre sanzioni contro la Corte. Le fonti hanno parlato di sanzioni personali contro il procuratore capo Karim Khan e contro i giudici che hanno emesso i mandati. Mike Waltz, candidato dal presidente eletto Donald Trump alla carica di Consigliere per la sicurezza nazionale, ha scritto: “A gennaio ci si può aspettare una forte risposta al pregiudizio antisemita della Cpi e dell’Onu”. Di avviso contrario è il Primo Ministro canadese Justin Trudeau, il quale afferma che “sosterrà il diritto internazionale” per quanto riguarda i mandati di arresto della CPI nei confronti dei leader israeliani Netanyahu e Gallant.
- Russia: “Decisioni CPI insignificanti” Netto disprezzo da parte di Mosca per le decisioni della Cpi, lo stesso organo che lo scorso anno ha emesso un mandato d’arresto per il presidente Vladimir Putin, il quale, recatosi fisicamente in Mongolia – Paese che ha ratificato lo Statuto di Roma – non è stato arrestato dalle autorità locali, evento che di fatto ha delegittimato la recente Corte stessa. Per la Russia le decisioni della Corte penale internazionale sono “insignificanti” e quindi “non c’è motivo di commentarle”, ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, come riferisce l’agenzia di stampa Ria Novosti.
- La Cina, alleata solo di sé stessa, parla a tutti senza parlare a nessuno “Ci auguriamo che la Corte penale internazionale mantenga una posizione obiettiva ed equa, eserciti il suo potere in conformità con la legge e interpreti e applichi lo Statuto di Roma e il diritto internazionale generale in modo completo e in buona fede secondo standard uniformi”, ha affermato Lin Jian, il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, secondo quanto riporta il tabloid in lingua inglese del Quotidiano del Popolo.
- Per l’Iran il mandato d’arresto è “la morte politica di Israele” Il capo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, il generale Hossein Salami, ha definito il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Gallant come la “fine e la morte politica” di Israele. “Questo significa la fine e la morte politica del regime sionista, un regime che oggi vive in un assoluto isolamento politico nel mondo e i suoi funzionari non possono più viaggiare in altri Paesi”, ha detto Salami in un discorso trasmesso dalla TV di Stato.
- Altri Paesi Dall’America Latina, il presidente argentino Javier Milei ha duramente criticato la Cpi, accusandola di ignorare il diritto di Israele all’autodifesa contro Hamas e Hezbollah. Dello stesso avviso è il Paraguay, che parla di «strumentalizzazione politica» e ritiene compromessa «la legittimità della Corte». Il Sudafrica, Paese promotore dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) della causa contro Israele per genocidio, ha appoggiato con forza la decisione della Corte Penale Internazionale (CPI) definendola un passo significativo verso la giustizia per i crimini di guerra. Al momento non si registrano significative prese di posizione da parte degli altri Paesi (per lo più latinoamericani, ma non solo) che si sono uniti al Sudafrica nella causa al tribunale dell’Aja.
- Le Nazioni Unite “pacifiste per i diritti umani”… Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha ribadito il rispetto per l’indipendenza della Cpi, mentre Francesca Albanese, “relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina”, ha definito il mandato un “momento di euforia” per “le vittime di Gaza”.
- …si sposano con il “no comment” della Chiesa cattolica “Sulla cattura di Netanyahu? Nessun commento da parte della Santa Sede. Abbiamo preso nota di quanto è avvenuto. A noi quello che preoccupa e quello che interessa è che al più presto si ponga fine alla guerra che è in corso”. Così il Segretario della Santa Sede, card. Pietro Parolin parlando a margine di un evento all’università Lumsa di Roma in merito al mandato d’arresto emesso dalla Cpi per il presidente israeliano Benjamin Netanyahu.
(Bet Magazine Mosaico, 22 novembre 2024)
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Milei intende firmare un memorandum “contro il terrorismo e le dittature” con Israele
Il presidente dell'Argentina, Javier Milei, ha affermato che il suo governo sta lavorando per firmare un memorandum con Israele "contro il terrorismo e le dittature".
“Stiamo portando avanti un memorandum storico con il governo israeliano, un’alleanza bilaterale tra due nazioni sorelle, un memorandum in difesa della libertà e della democrazia, nella lotta contro il terrorismo e le dittature”, ha rivelato Milei parlando giovedì sera al Congresso Argentina. Israele Business Meeting tenutosi a Buenos Aires. Milei ha espresso il suo desiderio che “questa alleanza tra Argentina e Israele diventi un modello affinché anche altre nazioni del mondo libero scelgano la vita e la libertà, condannando fermamente e apertamente il terrorismo”. Il presidente argentino, che non ha fornito ulteriori dettagli sull'accordo al quale si sta lavorando, ha ricordato gli attacchi subiti dall'Argentina, quello dell'ambasciata israeliana a Buenos Aires, nel 1992, che causò 22 morti, e l'esplosione della sede della Mutua Associazione Israeliana Argentina (AMIA), nel 1994 con 85 morti. Ha parlato anche della “barbarie commessa dal gruppo terroristico Hamas il 7 ottobre 2023” in Israele e dei 101 ostaggi che rimangono sequestrati nella Striscia di Gaza, tra cui otto argentini, come precisato dal presidente. Milei ha affermato che Israele è sotto “la costante minaccia di essere distrutto dai nemici del mondo libero” e ha confermato che quel paese e gli Stati Uniti sono i “partner geopolitici più importanti” per l’Argentina. “Abbiamo la vocazione di rafforzare l’amicizia che storicamente esiste tra Israele e Argentina ed è per questo che stiamo portando le relazioni bilaterali tra le nostre nazioni ad un livello mai raggiunto prima, perché questa unione nasce dalla profondità in cui due nazioni possono collaborare. "Da un lato i valori della libertà e della democrazia, dall'altro la lotta al terrorismo e alle dittature", ha assicurato.
(Aurora Israel, 22 novembre 2024)
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BASKET – Olympia vince su Maccabi «in una bella serata di sport»
«È stata una bella serata di sport. Non ci sono stati cori contro il Maccabi Tel Aviv e noi abbiamo portato diverse bandiere israeliane». Lo racconta Milo Hasbani, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Insieme al consiglio della Comunità ebraica milanese, Hasbani ha organizzato la partecipazione di un gruppo di giovani e dei loro genitori alla partita di basket, giovedì sera al Forum di Assago, tra Olympia Milano e Maccabi Tel Aviv. «In particolare abbiamo invitato i nostri volontari del servizio di sicurezza».
Sul campo, la sfida valida per il torneo Eurolega è stata a tratti molto combattuta: il Maccabi nel primo quarto è riuscito a portarsi avanti, poi il quintetto milanese del coach Ettore Messina ha ribaltato il risultato nel secondo quarto. E sono rimasti avanti fino alla fine della partita, terminata 98-86 per i padroni di casa.
La politica, a differenza di altre occasioni, è rimasta fuori dal palazzetto. Uno striscione con scritto «Stop the war» è stato bloccato e, per protesta, un gruppo di tifosi dell’Olympia è entrato solo dopo il primo quarto. «C’era qualche volantino contro Israele, qualche scritta, ma tutto è stato gestito in grande sicurezza. C’era un importante dispiegamento di forze dell’ordine, che ringraziamo. Dispiace che sia necessario, ma questa purtroppo è la normalità», sottolinea Hasbani.
(moked, 22 novembre 2024)
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L’Aia vuole far arrestare Bibi: «Crimini contro l’umanità». No Usa, esultano Pd e Conte
La Corte penale internazionale accusa Netanyahu e Gallant. Crosetto: «Non condivido ma se arrivano in Italia vanno fermati». Borrell: «Mandati vincolanti per l'intera Ue»
di Stefano Piazza
Ieri pomeriggio la Corte penale internazionale (Cpi) dell'Aia ha emesso i mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell'ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. La Cpi ha spiegato che «vi è ragionevole convinzione che Netanyahu e Gallant abbiano commesso crimini di guerra». Nella dichiarazione si legge che i due «hanno la responsabilità penale per i crimini, tra cui la partecipazione condivisa ad atti commessi con altri: crimini di guerra come la fame com e metodo di guerra e crimini contro l'umanità, tra cui omicidio, persecuzione e altri atti disumani». Inoltre, «Netanyahu e Gallant hanno ciascuno la responsabilità penale individuale in quanto superiori civili per il crimine di guerra di attacco intenzionale contro una popolazione civile».
Per rendere tutto ancora più grottesco, L'Aia ha emesso un mandato di cattura anche per il terrorista di Hamas Mohammed Deif, ridotto in polvere da un drone israeliano a Khan Yunis il 13 luglio 2024. Ora che succederà? Come conseguenza diretta, i 124 Stati che aderiscono alla Cpi, tra i quali troviamo l'Italia, avrebbero la facoltà di eseguire i mandati di arresto sul loro territorio, qualora Netanyahu o Gallant si recassero in questi Paesi, rendendo di fatto quasi impossibile per loro viaggiare all'estero.
A proposito del nostro Paese, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, durante un punto stampa a Parigi, ha affermato: «L'Italia sostiene la Corte penale internazionale ricordando sempre che svolge un ruolo giuridico e non politico. Hamas è un'organizzazione terroristica e bisogna separare le due cose e valuteremo insieme ai nostri alleati come valutare questa decisione e come affrontare questa vicenda». Quello che però sfugge è come si possa farlo se la premessa è: «L'Italia sostiene la Corte penale internazionale». A Porta a porta il ministro della Difesa Guido Crosetto ha detto che, se il premier israeliano venisse in Italia, «dovremmo arrestarlo, siamo tenuti ad applicare la sentenza della Cpi. Io posso ritenere che la sentenza sia sbagliata e per me lo è, perché mette sullo stesso piano il presidente israeliano e il capo degli attentatori di Hamas. Sono due cose completamente diverse. Tuttavia, aderendo noi alla Corte penale internazionale, dobbiamo applicare le sue disposizioni. Non si tratta di una scelta politica, dobbiamo applicare questa sentenza, come ogni Stato che aderisce. L'unico modo per non applicarla sarebbe uscire dal trattato».
Sempre per restare all'Italia, su Facebook il leader del M5s, Giuseppe Conte, oltre a citare i numeri delle vittime forniti da Hamas «circa 44.000 vittime, la metà donne e bambini», ha chiesto «sanzioni ed embargo delle armi a Israele», mentre Peppe Provenzano, responsabile Esteri nella segreteria nazionale del Pd, scrive su X: « L'Italia rispetti la Cpi e si adegui alle sue decisioni». Per la Lega si tratta di una «richiesta assurda, una sentenza politica filo-islamica, che allontana una pace necessaria».
Il ministro degli Esteri olandese, Caspar Veldkamp, ha affermato che i Paesi Bassi «eseguiranno il mandato d'arresto della Corte penale internazionale contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu, Yoav Gallante Mohammed Deif». L'Alto rappresentante dell'Unione europea per la Politica estera, Josep Borrell, ha affermato: «I mandati d'arresto emessi dalla Corte penale internazionale contro Netanyahu e Gallant sono vincolanti e per tanto tutti i membri della Ue devono garantirne l'applicazione».
La pensano diversamente gli Stati Uniti con il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca che ha subito reagito alla notizia: «Rimaniamo profondamente preoccupati dall'impazienza del procuratore Karim Khan nel richiedere i mandati d'arresto e dai preoccupanti errori nel processo che ha portato a questa decisione e ribadiamo che la Cpi non ha alcuna giurisdizione legale in questa materia». Il nuovo consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Mike Waltz, su X scrive: « La Cpi non ha credibilità e queste accuse sono state confutate dal governo degli Stati Uniti. Israele ha difeso legalmente il suo popolo e i suoi confini dai terroristi genocidi. Potete aspettarvi una forte risposta al pregiudizio antisemita della Cpi e dell' Onu a gennaio»,
Unanime lo sdegno in Israele e la solidarietà a Netanyahu che ha così commentato: «La decisione antisemita della Corte penale internazionale equivale al moderno processo Dreyfus e finirà così. Israele respinge con disgusto le azioni e le accuse assurde e false contro di lui da parte della Corte penale internazionale, che è un organismo politico parziale e discriminatorio». Durissimo il commento del presidente israeliano, Isaac Herzog, che su X scrive: «Questo è un giorno buio per la giustizia. Un giorno buio per l'umanità. Presa in malafede, l'oltraggiosa decisione della Corte penale internazionale ha trasformato la giustizia universale in uno zimbello universale. Si fa beffe del sacrificio di tutti coloro che lottano per la giustizia, dalla vittoria degli Alleati sui nazisti a oggi» .
Dato che siamo di fronte ad una farsa ,non poteva mancare il commento del segretario generale di Amnesty International, Agnes Callamard: «Gli Stati membri della Cpi e l'intera comunità internazionale non devono fermarsi davanti a nulla finché questi individui non saranno processati dai giudici indipendenti e imparziali della Cpi», Esulta anche la Turchia con il ministro degli Esteri, Hakan Fidan, che ha dichiarato: «Questa decisione è un passo fondamentale per portare dinanzi a un tribunale i responsabili di crimini di guerra, i colpevoli del genocidio dei palestinesi. Il mandato di arresto è una fonte di speranza per la giustizia».
(La Verità, 22 novembre 2024)
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Israele spiega a Greta e agli apocalittici green come si fa ambientalismo
di Giulio Meotti
Lo stato ebraico è leader mondiale nell’utilizzo dell’energia solare e nella conservazione dell’acqua e lo dimostrano le start up israeliane alla conferenza dell’Onu. Bella lezione a chi urla “nessuna giustizia climatica in Palestina” Nel suo romanzo “Idromania” (Giuntina), lo scrittore israeliano Assaf Gavron immagina un futuro (il 2067) in cui i nuovi equilibri geopolitici sono legati al dominio sull’acqua che scarseggia. Uno scenario apocalittico alla Greta Thunberg che però contiene un fondo di verità: Israele, che ha abbondanza di deserto e penuria di acqua, da anni ha investito per evitare di sprecarne anche una sola goccia. Così, alla Cop29 sul clima in corso a Baku, Israele ha presentato una delle sue start-up, H2oll, sviluppata presso il Technion-Israel Institute of Technology boicottato dalle università occidentali che si pasciono nell’ecologismo, e in grado di estrarre acqua dall’aria rarefatta nel deserto. Gideon Behar, “inviato speciale per il cambiamento climatico e la sostenibilità” d’Israele, guida la delegazione di Gerusalemme alla 29a Conferenza dell’Onu sul clima a Baku, in Azerbaigian. “A causa della nostra storia, Israele è una superpotenza globale nell’innovazione climatica”, racconta Behar. “Israele può davvero rendere il pianeta un posto migliore”. Bella lezione agli ecologisti occidentali alla Greta che urlano “nessuna giustizia climatica in Palestina”. Israele è leader mondiale nell’utilizzo dell’energia solare e nella conservazione dell’acqua (oggi la desalinizzazione fornisce più dell’80 per cento dell’acqua che bevono gli israeliani). Israele tratta l’86 per cento delle sue acque reflue domestiche e le ricicla per uso agricolo. Al secondo posto la Spagna con il 17 per cento (gli Stati Uniti riciclano solo l’un per cento). Un’altra start up israeliana presentata all’Onu è BlueGreen, con cui Israele elimina le fioriture di alghe tossiche, ripristinando l’equilibrio ecologico naturale nei laghi e nei bacini idrici. Una manna per i paesi africani e mediorientali. Innovazione, pionierismo e genio ebraico: così Israele è diventata più green di tutti i soloni ambientalisti occidentali che annunciano l’apocalisse, tirano zuppe sui dipinti e urlano “dal fiume al mare”.
Il Foglio, 22 novembre 2024)
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Hamas attacca i convogli umanitari? L’Onu incolpa Israele
di Iuri Maria Prado
Da mesi e mesi a questa parte non c’è un provvedimento della Corte Internazionale di Giustizia né un ricorso che ne reclami l’emissione, non c’è un rapporto o una risoluzione dell’Onu, non c’è una dichiarazione del procuratore della Corte Penale Internazionale, non c’è un appello di qualche sigla della cooperazione internazionale in cui non si denunci – imputandone la responsabilità a Israele – l’aggravarsi della situazione umanitaria a Gaza. Sul presunto “uso della fame come arma di guerra” si affastellano, da ormai più di un anno, le requisitorie secondo cui Israele sarebbe colpevole di crimini di guerra, di sterminio e di genocidio riducendo appunto alla fame, e in condizioni di carestia, la popolazione di Gaza. In particolare, Israele si abbandonerebbe alla commissione di quei crimini ostacolando il flusso degli aiuti e deliberatamente attaccando il personale e i convogli umanitari. È successo – non frequentemente – che nel corso di azioni belliche nella Striscia siano stati coinvolti operatori della cooperazione internazionale. A volte – raramente – per colpevole avventatezza delle forze israeliane; altre volte – banalmente quanto tragicamente – perché si tratta di uno scenario di guerriglia urbana in cui simili incidenti possono succedere con facilità. Ciò che invece non è successo – mai – è che Israele abbia programmato e messo in atto la campagna di assedio e sterminio per fame di cui si straparla e che – dopo un anno e passa di guerra, e se davvero avesse avuto luogo – avrebbe annichilito gran parte della popolazione di Gaza. L’altro giorno l’Unrwa (l’agenzia Onu per il sussidio dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente) denunciava che cento camion di aiuti erano stati attaccati da uomini armati, dunque sequestrati e finiti chissà dove. Una denuncia molto circostanziata salvo che per il trascurabile dettaglio relativo all’identità degli aggressori: non discutendosi di sterminatori israeliani, ma di miliziani palestinesi, era inutile esercitarsi in troppe precisazioni. Ma non era inutile, per il rappresentante dell’Onu incaricato di raccontare la vicenda, spiegare che Israele, in quanto forza occupante, dovrebbe garantire l’incolumità del personale umanitario. Come? Scortando i convogli? No, ha risposto, perché in tal modo quegli operatori diventerebbero un bersaglio della controparte. A quel punto gli hanno domandato: scusi, prima dice che l’esercito deve difendervi, poi dice che l’esercito dovrebbe stare lontano dai vostri convogli. Non c’è qualche contraddizione? Il signore dell’Onu l’ha sciolta così: “La migliore protezione è che la guerra finisca”. Bellissimo. Il guaio è che la guerra che non finisce è anche, anzi prima di tutto, la guerra che Hamas (il nome che l’Onu fatica a pronunciare) conduce invocando il martirio della propria popolazione, trasformando in bunker gli edifici dell’Onu, non liberando gli ostaggi, attaccando i convogli umanitari, inguattando gli aiuti e rivendendoli a strozzo alla povera gente. Ma non è materia per le indignazioni delle Nazioni Unite.
(Il Riformista, 21 novembre 2024)
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L'Aia inaugura la caccia allo stato ebraico
di Giulio Meotti
La Corte penale internazionale emette mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant per conto dello “stato di Palestina” governato da Hamas. Un attacco alla legittimità di Israele e una minaccia per tutto il mondo libero
La Corte Penale Internazionale dell’Aia ha emesso mandati d’arresto a carico di Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, e Yoav Gallant, ministro della difesa. Accomunare i leader israeliani democraticamente eletti agli autori del peggiore attacco contro gli ebrei dalla Seconda guerra mondiale aveva già mostrato quanto la Corte fosse una farsa pericolosa. Poi Israele ha eliminato tutti i leader di Hamas inseriti dal procuratore dell’Aia, Karim Khan, togliendo ai soloni della Corte anche la foglia di fico dell’equivalenza fra Hamas e Israele. Così sono rimasti Netanyahu e Gallant.
L’espediente dell’Aia consiste nel dichiarare che sta perseguendo questi mandati per conto dello “stato di Palestina”. Ma chi governa quello stato? A Gaza è Hamas dal 2007, due anni dopo che gli israeliani hanno ritirato tutti gli ebrei, civili e militari, e persino le tombe ebraiche. La Corte dell’Aia sta dunque aiutando una delle organizzazioni terroristiche più odiose del mondo a mantenere il proprio potere e persistere nelle sue politiche, queste sì, genocide. È un po’ come se un tribunale internazionale avesse emesso un mandato d’arresto contro Winston Churchill per i bombardamenti su Dresda e Amburgo. Contro l’Aia c’è bisogno di una mobilitazione internazionale, sia degli ebrei che dei non ebrei, perché dare la caccia a colui che si difende intimidito da mandati d’arresto non è una minaccia solo per Israele, ma per tutto il mondo libero che non vuole finire nella morsa del terrorismo e del sopruso.
Ora c’è da capire come potrà Israele evitare di essere trasformato in uno stato paria. La Corte ha giurisdizione solo nei paesi che hanno firmato un trattato del 1998 noto come Statuto di Roma. Israele non l’ha firmato. E nemmeno gli Stati Uniti. Ma l’Europa l’ha firmato e, se domani Netanyahu e Gallant mettessero piede in un paese europeo, questo sarebbe legalmente tenuto ad arrestarli. I leader israeliani sono di fatti banditi da 120 paesi firmatari dello Statuto.
L’Aia sorge non lontano da Amsterdam, dove due settimane fa è andata in scena la caccia all’ebreo. I giudici hanno appena dato il via alla caccia allo stato ebraico.
Il Foglio, 21 novembre 2024)
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Come liberarsi dal giogo di Hezbollah?
di Sarit Zehavi
Nel nord di Israele, la vita quotidiana si è fermata, sconvolta dall’incessante minaccia di attacchi missilistici e droni lanciati da Hezbollah. Nelle aree vicino al confine, le scuole sono chiuse, le strade non sono sicure e le famiglie, compresa la mia, vivono ai margini, con solo 15 secondi per raggiungere un rifugio quando suona l’allarme. L'obiettivo di Israele nella guerra è chiaro: un ritorno alla normalità, non limitato da deboli cessate il fuoco, ma sostenuto da un accordo di sicurezza duraturo. Tuttavia, per raggiungere questa stabilità è necessario affrontare il nocciolo della lotta del Libano: la sua incapacità di prendere decisioni nazionali senza l’approvazione di Hezbollah, sia politicamente che militarmente. Finché Hezbollah manterrà la sua roccaforte nel governo libanese, un cessate il fuoco stabile e duraturo rimarrà sfuggente, non solo per gli israeliani ma anche per il popolo libanese. Israele si trova di fronte a tre opzioni strategiche nella ricerca di una soluzione. La prima opzione, molto impegnativa, è quella di stabilire una zona di sicurezza fisica nel Libano meridionale per limitare la capacità di Hezbollah di lanciare attacchi, con l'esercito israeliano di stanza nel Libano meridionale. Tuttavia, questa zona di sicurezza avrebbe un costo elevato, ricordando i dolorosi precedenti interventi militari in Libano negli anni ’1980 e ’1990, con soldati di stanza in territorio ostile che rischiavano quotidianamente la vita. Questo approccio non è attraente dopo decenni di amare esperienze che Israele non vorrà ripetere. La seconda opzione, spesso discussa dai media israeliani durante gli attuali negoziati di tregua, prevede un’intensa e costante applicazione della legge da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per frenare le attività di Hezbollah nel sud del Libano. Tuttavia, questo approccio solleva anche interrogativi. Un’applicazione militare prolungata potrebbe prevenire disordini quotidiani, ma potrebbe provocare ulteriori attacchi di ritorsione da parte di Hezbollah, perpetuando l’instabilità nel nord di Israele. Le comunità israeliane rimarrebbero vulnerabili agli attacchi e la vita normale rimarrebbe fuori portata nella zona. La terza e più praticabile opzione è l’istituzione di un cessate il fuoco globale e di un accordo di sicurezza solido e applicabile. Un simile accordo non deve solo limitare la libertà d'azione di Hezbollah, ma anche ridefinire completamente il rapporto del Libano con l'organizzazione terroristica sostenuta dall'Iran. Per raggiungere questo obiettivo, Israele e la comunità internazionale devono adottare un approccio strategico che enfatizzi sia gli incentivi che la responsabilità da parte del Libano, spingendolo a recidere i legami ufficiali con Hezbollah e a considerarlo per quello che è: un’organizzazione terroristica. Per raggiungere un accordo di sicurezza sostenibile, dobbiamo prima esaminare la natura del rapporto di Hezbollah con il Libano. L'organizzazione è più di un'entità terroristica pesantemente armata: è parte integrante della struttura politica del Libano e i suoi membri ricoprono posizioni di alto livello all'interno del governo libanese. Questa non è un'affiliazione casuale; Hezbollah ha un posto riconosciuto al tavolo, esercitando influenza sulla politica nazionale libanese e approfittando della sua posizione per rafforzare le sue operazioni. Ad esempio, la presenza di Hezbollah si estende anche ai punti critici di ingresso in Libano, come l’aeroporto di Beirut e i valichi di frontiera con la Siria, che rimangono sotto il controllo parziale di Hezbollah. Ciò è dovuto al fatto che il ministro ad interim responsabile dei punti di entrata e di uscita dal Libano è il ministro dei trasporti e dei lavori pubblici Ali Hamie, affiliato a Hezbollah. Ciò consente a Hezbollah di contrabbandare armi e risorse attraverso i confini, rafforzando ulteriormente le sue capacità militari ed erodendo la sovranità libanese. Non è ragionevole aspettarsi che il Libano applichi un accordo di tregua se Hezbollah rimane radicato nel suo governo. Anche se i funzionari libanesi possono offrire garanzie, la realtà è che hanno le mani legate finché l'influenza di Hezbollah non viene messa in discussione. Una negazione chiara e pubblica di Hezbollah è essenziale affinché il Libano riconquisti il suo status di nazione sovrana e diventi un partner credibile nel garantire la pace. Affinché il Libano possa liberarsi dall'influenza di Hezbollah è necessario che la comunità internazionale intervenga con incentivi e pressioni. Questo approccio ha un precedente nella risoluzione 1559 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che chiede lo scioglimento di tutte le forze armate non governative illegali in Libano. Tuttavia, fino ad ora, questa risoluzione è stata un gesto in gran parte simbolico, non attuato e largamente ignorato. Gli Stati Uniti, le Nazioni Unite e le principali nazioni occidentali devono svolgere un ruolo attivo nel sostenere il governo libanese affinché rimanga indipendente dall’influenza di Hezbollah. Gli aiuti finanziari, il sostegno militare e la legittimità internazionale devono essere subordinati all’adozione da parte del Libano di misure misurabili per tagliare i legami con Hezbollah. È contraddittorio inviare aiuti alle forze armate libanesi mentre Hezbollah, di fatto uno Stato nello Stato, mina la sicurezza stessa del Libano. Al di là delle implicazioni sulla sicurezza per Israele, il potere incontrollato di Hezbollah ha conseguenze devastanti per lo stesso Libano. Il popolo libanese si trova ad affrontare difficoltà economiche, instabilità politica e la costante minaccia di diventare un danno collaterale nelle campagne terroristiche di Hezbollah contro Israele. Il coinvolgimento di Hezbollah nella guerra civile siriana, per volere dell'Iran, ha spinto il Libano in conflitti regionali che non hanno fatto altro che esacerbare le turbolenze interne e le difficoltà economiche. Il Libano non può prosperare se rimane incatenato all’agenda di Hezbollah e dell’Iran, un’agenda che dà priorità agli interessi stranieri e alle guerre religiose rispetto alla prosperità libanese. Ci sono persone in Libano che si oppongono a Hezbollah e sostengono un Libano sovrano che possa prosperare in modo indipendente. Tuttavia, senza uno sforzo concertato da parte della comunità internazionale per esercitare pressioni sul governo libanese, queste voci sono troppo deboli e rischiano di essere soffocate. La comunità internazionale deve chiarire che il futuro del Libano come nazione pacifica e prospera dipende dalla sua volontà di affrontare la presenza destabilizzante di Hezbollah. Come cittadino israeliano che vive nel nord, capisco profondamente il desiderio di calma e sicurezza. Ma questa calma non può essere superficiale né può essere raggiunta attraverso false soluzioni. Israele adotterà le misure necessarie per proteggere i suoi cittadini, ma dobbiamo anche esortare il Libano a riconoscere che Hezbollah costituisce un ostacolo alla propria stabilità e al proprio futuro. Hezbollah deve essere privato della sua legittimità politica. Solo allora il Libano potrà riconquistare la propria sovranità, e solo allora Israele e il Libano potranno cercare un futuro più sicuro.
(Aurora Israel , 20 novembre 2024)
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Cosa cambia per Israele con il ritorno di Trump
di Nathan Greppi
Il risultato delle elezioni americane del 5 novembre ha aperto diversi possibili scenari su come cambierà l’atteggiamento di Washington nei confronti di Israele e della guerra in corso quando, il 20 gennaio 2025, Donald Trump rientrerà alla Casa Bianca. In molti pensano che sosterrà le decisioni del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu molto più di quanto non facesse Joe Biden.
Tuttavia, non mancano gli episodi che fanno pensare ad una rotta diversa rispetto al suo primo mandato; ad esempio, il fatto che personaggi fortemente filoisraeliani come Mike Pompeo e Nikki Haley non faranno parte del nuovo governo. In compenso, la scelta per l’Ambasciatrice americana all’ONU è caduta su una figura altrettanto vicina a Israele, la deputata Elise Stefanik, nota per aver condotto nel dicembre 2023 l’interrogazione sull’antisemitismo nelle università della Ivy League.
• GIUDIZI SU BIDEN Sull’operato del presidente uscente in merito alla guerra in corso tra Israele da una parte e Hamas e Hezbollah dall’altra, “l’opinione pubblica israeliana è divisa”, spiega a Mosaico la giornalista israeliana Ruthie Blum, nata a New York e che in passato ha lavorato come consigliere nell’ufficio del Primo Ministro Netanyahu. “All’inizio della guerra, molti israeliani erano convinti che Biden fosse sincero nel sostenerli dopo il 7 ottobre. Ma prima ancora che Israele iniziasse l’operazione di terra a Gaza, il Dipartimento di Stato americano aveva già cercato di scoraggiarli dall’entrare nella Striscia”.
Questo posizionamento, secondo la Blum, non ha stupito gli israeliani, in quanto “nel corso degli anni, il Partito Democratico si è spostato sempre più a sinistra, ed è diventato sempre più critico nei confronti d’Israele. E questa amministrazione, in particolare, si è rivelata una copia dell’Amministrazione Obama”, che aveva pessimi rapporti con Netanyahu.
• LA REAZIONE DEI PAESI ARABI Israele non è l’unico Stato del Medio Oriente ad aver seguito le elezioni americane con il fiato sospeso: anche i paesi arabi hanno i loro interessi da difendere, che possono risentire positivamente o negativamente della politica estera statunitense.
“Trump è più rispettato nel mondo arabo che nell’Europa occidentale”, spiega a Mosaico l’ex-diplomatico americano Alberto Miguel Fernandez, con una lunga esperienza di lavoro nelle ambasciate USA nei paesi islamici e oggi vicepresidente del MEMRI (Middle East Media Research Institute). “È visto come una figura forte e nazionalista, una visione del mondo che gli arabi comprendono, riconoscono e più o meno rispettano. Essere nazionalisti non è visto in modo negativo nella regione. Egli è anche percepito come un politico pragmatico, il che è un sollievo per molti se paragonato a pericolosi ideologi come George W. Bush, che invadono e distruggono le nazioni”.
Fernandez aggiunge che “molti arabi musulmani sunniti, che sono la maggioranza della popolazione nella regione, hanno anche apprezzato il fatto che Trump abbia eliminato una figura come il generale iraniano Qassem Soleimani, visto come un famigerato macellaio che ha fatto strage di arabi sunniti in Siria e altrove. Distribuivano dolci per le strade quando “Abu Ivanka” (padre di Ivanka in arabo) ha fatto fuori Soleimani. Gli occidentali vedono solo cose come il “Muslim Ban”, e pensano che danneggi il rapporto di Trump con i musulmani: tuttavia, gli stessi paesi musulmani controllano rigorosamente l’immigrazione e chi può diventare un loro cittadino”.
• EBREI AMERICANI E ISRAELIANI A CONFRONTO Nonostante Trump abbia sottratto ai democratici numerosi voti tra le minoranze, e in particolare tra i neri e i latinos, tra gli ebrei americani le cose sono andate diversamente: secondo la NBC, il 78% degli elettori ebrei ha votato per la Harris. Ma se a livello nazionale gli ebrei americani sono rimasti ancorati al Partito Democratico, a New York le cose sono andate diversamente: qui, circa il 45% dell’elettorato ebraico ha votato Trump, mentre nel 2020 aveva preso solo il 30% tra gli ebrei newyorkesi.
Se durante le elezioni gli ebrei americani erano in larga parte schierati contro Trump, tra gli ebrei israeliani invece il 72% riteneva che Trump fosse il candidato migliore per Israele, secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute (salendo al 90% tra i giovani nella fascia d’età 18-34 anni). Solo l’11% degli ebrei israeliani pensava che la Harris fosse l’opzione migliore per Israele.
La ragione di questa divergenza è dovuta al fatto che “gli ebrei americani sono tradizionalmente democratici”, spiega Ruthie Blum. “Sono rimasti fermi ai tempi in cui il Partito Democratico era il più accogliente nei confronti degli ebrei, mentre i repubblicani erano il partito dell’alta società WASP (White Anglo-Saxon Protestant). Ma tutto questo è cambiato molto tempo fa: oggi il Partito Repubblicano rappresenta la classe operaia, mentre i democratici sono il partito delle élite”.
Ha aggiunto che gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta: “Crescendo in America, non ho mai subito antisemitismo. Ma dopo il 7 ottobre è esploso, il che ha scosso molti ebrei. Ma anche se sono rimasti scossi da questi rigurgiti di antisemitismo a sinistra, molti di loro hanno scelto di non votare comunque Trump, e il giorno delle elezioni hanno preferito non andare a votare e restare a casa”. In compenso, se tra gli ebrei ortodossi il voto repubblicano è superiore alla media, secondo la Blum ciò non è dovuto solo al fatto che sono più conservatori: “Gli ebrei non praticanti in America non sono facilmente riconoscibili. Mentre gli ortodossi, con i cappelli neri, le kippot e le peot, sono più facili da riconoscere, e questo li rende anche più esposti ad aggressioni fisiche per le strade”.
Secondo lei un altro motivo riguarda il fatto che, mentre gli israeliani devono sempre fare il servizio militare perché storicamente circondati da nemici, gli ebrei americani invece tendono ad essere molto più pacifisti: “Anche quando l’America era in guerra, ad esempio in Vietnam, la maggior parte degli ebrei cercò di evitare l’arruolamento, ad esempio andando all’università. Gli ebrei che vivono in Israele, invece, non possono permettersi questo lusso”.
• LA COMUNITÀ ARABA NEGLI STATI UNITI Un altro fenomeno da prendere in considerazione è la comunità araba americana, che soprattutto in Michigan ha scelto di penalizzare Biden e la Harris per via del loro operato relativo a Israele e a Gaza: per fare un esempio, nella città di Dearborn, situata in Michigan e che ospita una delle più grandi comunità arabe negli Stati Uniti, la Harris ha preso solo il 36% dei voti. Una fetta consistente di quelli che ha perso è andata alla candidata presidente del Partito Verde Jill Stein, ferocemente antisionista e che a Dearborn ha preso il 18% dei voti, quando a livello nazionale ha preso solo lo 0,4%.
Secondo Alberto Fernandez, gli elettori arabi e musulmani “vedono la Harris, e più in generale l’Amministrazione Biden-Harris, come se avesse le mani sporche di sangue, dato il bilancio delle vittime a Gaza e in Medio Oriente. I democratici hanno trovato un modo creativo per far arrabbiare sia gli ebrei che gli arabi. Trump ha ottenuto tra le comunità musulmane e arabe del Michigan un consenso senza precedenti, ma anche a livello nazionale si è presentato come il candidato della pace. Qualcosa che molti americani, almeno in queste elezioni, hanno giudicato positivamente”.
• LE PROSPETTIVE CON TRUMP
Alla luce di tutti questi fattori, occorre chiedersi cosa accadrà quando Trump tornerà ad essere presidente: le sue politiche saranno le stesse del periodo 2017-2021? O ci saranno delle differenze?
A questo proposito, la Blum fa notare che il tycoon “è circondato da certe figure, come il conduttore Tucker Carlson, che sono fortemente isolazioniste. E lo stesso Trump ha detto chiaramente ‘Io pongo fine alle guerre, non le comincio’. Questo rende nervose molte persone, le quali temono che Trump non permetterà ad Israele di vincere la guerra. Ma mentre Biden ha continuato a parlare di cessate il fuoco, Trump ha detto che Israele deve finire in fretta la guerra, ma nel senso che deve vincerla in fretta. E non è la stessa cosa”.
Anche Fernandez è più o meno dello stesso avviso: “Trump sarà prevedibilmente un forte sostenitore di Israele, e non limiterà la vendita di armi a Gerusalemme. In generale, sarà molto più favorevole a Israele di quanto non lo fosse Biden. Ma anche se è contro il regime di Teheran, non vuole vedere gli Stati Uniti venire coinvolti in avventure militari all’estero, nemmeno per sostenere Israele. Quindi sarà politicamente contro il regime iraniano, e probabilmente aumenterà le sanzioni contro l’Iran allo stesso livello di quelle imposte durante la sua prima amministrazione, ma al tempo stesso traccerà una linea per evitare un coinvolgimento in qualsiasi conflitto diretto con l’Iran”.
(Bet Magazine Mosaico, 21 novembre 2024)
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“Trump è in una posizione unica per stabilizzare il Medio Oriente”
“Trump si è strategicamente circondato di una squadra di leader esperti che hanno una profonda comprensione delle complesse dinamiche del Medio Oriente”.
di Etgar Lefkovits
Il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump e la sua nuova amministrazione sono “in una posizione unica” per stabilizzare il Medio Oriente, ha dichiarato mercoledì il vice ministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel. “Il Presidente Trump si è strategicamente circondato di una squadra di leader esperti che hanno una profonda comprensione delle complesse dinamiche del Medio Oriente e della grave minaccia posta a Israele dai suoi nemici”, ha dichiarato Haskel a JNS. “Sostenuto da questa squadra di alto livello, il Presidente Trump si trova in una posizione unica per stabilizzare la regione e garantire un futuro migliore e più prospero - un futuro che serve non solo alla sicurezza di Israele, ma anche agli interessi strategici degli Stati Uniti e delle democrazie di tutto il mondo”, ha aggiunto. La partnership tra Israele e gli Stati Uniti si basa su valori condivisi, principi democratici e interessi comuni, ha dichiarato Haskel. “Insieme, affrontiamo molte sfide, ma abbiamo anche incredibili opportunità per promuovere la pace e la stabilità nella regione”. Tra i candidati di Trump figurano il senatore Marco Rubio, amico convinto dello Stato ebraico e noto per la sua politica estera energica, l'ex governatore dell'Arkansas Mike Huckabee, pastore e convinto sostenitore di Israele, e la rappresentante Elise Stefanik, che ha acquisito notorietà a livello nazionale e internazionale per aver denunciato i presidenti delle università d'élite per antisemitismo nei campus statunitensi; Pete Hegseth, conduttore televisivo americano ed ex ufficiale della Guardia Nazionale dell'Esercito, che ha criticato apertamente l'Iran, e Steve Witkoff, investitore immobiliare ebreo americano e sostenitore di Israele. Il genero di Trump , Jared Kushner, che ha guidato gli storici accordi di Abraham del 2020, dovrebbe essere un consulente esterno del governo statunitense. Sarà sicuramente un pilastro della politica mediorientale di Trump, che spinge per un accordo di pace tra Israele e Arabia Saudita. “Le nomine del gabinetto sono motivo di festa e saranno molto positive sia per Israele che per gli Stati Uniti”, ha dichiarato a JNS il ministro israeliano per gli Affari della Diaspora Amichai Chikli. Chikli ha poi affermato di aspettarsi “grandi cambiamenti” per il Medio Oriente e oltre con la nuova amministrazione statunitense, sottolineando la “chiarezza morale, la visione e la vera amicizia” con Israele dei candidati. Il ministro, responsabile della lotta all'antisemitismo, ha osservato che la nomina di Stefanik ad ambasciatore alle Nazioni Unite è una “cattiva notizia” per organizzazioni come l'UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione della Palestina nel Vicino Oriente). La nuova amministrazione statunitense è una cattiva notizia anche per l'Iran. “È chiaro a tutti i membri della squadra di Trump che l'Iran sventola la bandiera del dispotismo e della tirannia, mentre Israele sventola la bandiera della libertà”, ha affermato. Il ministro israeliano dell'Innovazione e della Scienza, Gila Gamliel, che, come il viceministro degli Esteri Haskel, presiede il Christian Allies Caucus alla Knesset, è d'accordo con lui. “Sono fiduciosa che il Presidente Trump e la sua squadra di alti membri del gabinetto e di consiglieri, che conoscono a fondo le sfide di sicurezza di Israele e il suo ruolo unico di leader nella lotta contro l'estremismo islamico, possano fare la storia con una storica pace regionale in Medio Oriente”, ha detto Gila Gamliel, che ha aggiunto: ‘Questo aprirà la strada a un cambiamento fondamentale nella regione per le generazioni a venire’.
(The Times of Israel, 21 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La verità nelle dichiarazioni di Tajani su Unifil
di Ugo Volli
• GLI SPARI CONTRO L’ONU
Come hanno riportato tutti i giornali (ma con pochissima evidenza) l’altro giorno sei missili sparati da Hezbollah hanno colpito una base delle forze Onu nel Libano meridionale, ferendo alcuni militari del Ghana. Dato che questa è un’aggressione diretta, si tratta di un episodio ben più grave delle azioni che l’esercito israeliano aveva compiuto qualche settimana fa non contro i militari dell’Onu ma contro i loro apparati elettronici e fisici di sorveglianza (torrette, telecamere, un cancello). La ragione di questo episodio è il fatto ampiamente documentato che le attrezzature dell’Onu erano sfruttate dai terroristi di Hezbollah, i quali avevano costruito caserme, punti di tiro, depositi d’armi e addirittura campi di addestramento a pochi passi dalle postazioni dell’Onu e sotto i loro occhi. Ma mentre in quel caso l’episodio era finito nei titoli di testa di tutti i giornali, vi erano state dichiarazioni durissime del ministro della Difesa Crosetto e anche del Presidente della Repubblica Mattarella, questa volta l’attacco di Hezbollah è passato praticamente inosservato. Crosetto ha di nuovo accusato l’esercito israeliano, senza nessuna giustificazione concreta; il Ministro degli Esteri Tajani l’ha corretto con una dichiarazione piuttosto sconcertante, che merita di essere attentamente meditata: “È inammissibile che si spari contro il contingente Unifil. Non hanno alcun diritto di farlo, sono truppe che hanno garantito anche la sicurezza di Hezbollah. Se è stato un errore, imparino a utilizzare meglio le armi”. È una considerazione che non può non lasciare molto perplessi: le truppe Onu, cui l’Italia contribuisce più di ogni altro Paese, servono dunque a garantire i terroristi? E uno stato democratico può invitarli a “sparare meglio”, cioè non contro l’Onu ma contro Israele? È questo forse il compito dell’Onu? Per capirlo bisogna fare un passo indietro.
• CHE COSA FANNO LE FORZE DELL’ONU IN LIBANO?
Uno dei fatti importanti della guerra difensiva che Israele sta sostenendo è che in Libano esiste una forza armata dell’ONU, che viene chiamata con la sigla UNIFIL. È una presenza che dura dal 1978 e che oggi è regolata dalla risoluzione 1701 dell’11 agosto 2006, più volte prorogata. La risoluzione formalizzava l’accordo per la conclusione della “seconda guerra del Libano”: l’esercito israeliano si ritirava dal territorio libanese, si costituiva una zona smilitarizzata in Libano fra il confine con Israele e il fiume Litani una ventina di chilometri più al nord (è il territorio dove si combatte oggi). La risoluzione impegnava il Governo libanese “a sorvegliare i propri confini in modo da impedire l’ingresso illegale in Libano di armamenti e materiali connessi”, e tutti gli Stati ad adoperarsi affinché armamenti, materiali bellici e assistenza tecnico-militare siano forniti “solo su autorizzazione del Governo libanese o dell’UNIFIL”. Tra i compiti di UNIFIL era stabilito anche quello di monitorare l’effettiva cessazione delle ostilità, di “mettere in atto i provvedimenti che impongono il disarmo dei gruppi armati in Libano”.
• LA VERITÀ NELLE PAROLE DI TAJANI
Queste sono le parole della risoluzione e dell’accordo che ha messo fine alla guerra del 2006. In realtà il comportamento di Unifil è stato assai diverso: non ha fatto nulla per disarmare Hezbollah; ha accettato senza reagire che i villaggi al confine con Israele diventassero fortificazioni, caserme, rampe di lancio missilistiche; non ha reagito al fatto che esse fossero massicciamente usate nell’ultimo anno (dal Libano sono stati sparati su Israele circa 15.000 missili, la maggior parte da località sotto il controllo di Unifil). In diverse circostanze i militari dell’Onu hanno clamorosamente accettato il dominio terrorista sul loro territorio, lasciandosi addirittura più volte arrestare e disarmare da loro. E non hanno mai impedito e neppure segnalato la costruzione di basi militari a ridosso delle loro installazioni. In sostanza dunque hanno interpretato il loro ruolo come ha detto Tajani: hanno protetto la sicurezza di Hezbollah, magari aiutando i terroristi a “sparare bene”, contro Israele. In sostanza, quel che emerge dalla sincera dichiarazione di Tajani è che, come ha più volte detto il presidente Cossiga, nel Libano meridionale vige una sorta di “Lodo Moro”: libertà d’azione per i terroristi in cambio dell’incolumità (neppure sempre garantita, come si vede in quest’ultimo episodio) per i militari dell’Onu. Un arrangiamento che mostra come le forze internazionali in un conflitto come quello fra i terroristi e Israele, è peggio che inutile: programmaticamente dannoso.
(Shalom, 21 novembre 2024)
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Fallisce il tentativo di Bernie Sanders di bloccare le armi americane per Israele
Ci è difficile capire il motivo per cui questi estremisti vengono chiamati "progressisti". Come fanno ad essere progressisti i sostenitori di Hamas?
di Sarah G. Frankl
Poco più di un terzo dei senatori democratici ha votato a favore di un tentativo fallito di bloccare la vendita di proiettili per carri armati a Israele, una misura che ha messo alla prova la forza dell’ala progressista del partito, che ha spinto per una linea più dura nei confronti dello Stato ebraico per la sua prosecuzione della guerra contro Hamas a Gaza. Diciotto legislatori, tutti democratici, hanno votato a favore della misura proposta dal senatore Bernie Sanders insieme a tre colleghi estremisti, mentre 79 legislatori di entrambi i partiti l’hanno respinta. È stata la prima delle tre risoluzioni congiunte di disapprovazione (JRD) presentate dagli estremisti guidati da Sanders, con le ultime misure volte a bloccare la vendita di colpi di mortaio e munizioni congiunte di attacco diretto (JDAM). I tre trasferimenti di armi ammontano a oltre 10 miliardi di dollari in assistenza alla sicurezza. La maggioranza dei senatori democratici ha respinto lo sforzo, che si sapeva già da tempo essere un fallimento. Tuttavia, il numero di democratici a disagio con la campagna militare di Israele a Gaza è apparentemente aumentato. Una risoluzione di Sanders del gennaio scorso volta a congelare gli aiuti statunitensi a Israele se il Dipartimento di Stato non avesse prodotto entro 30 giorni un rapporto sulle presunte violazioni dei diritti umani da parte di Israele a Gaza ha ottenuto solo 10 voti democratici. È improbabile che il voto di oggi soddisfi pienamente entrambe le parti del dibattito all’interno del Partito Democratico, dato che i membri più pro-Israele hanno mantenuto la maggioranza, mentre gli estremisti hanno aggiunto diversi membri di spicco. Entrambi i senatori Jon Ossoff e Raphael Warnock della Georgia hanno votato per bloccare la vendita di armi insieme al democratico n. 2 al Senato Dick Durbin e al membro di rango entrante del Comitato per le relazioni estere del Senato Jeanne Shaheen. Nessuno di questi quattro ha votato a favore della risoluzione guidata da Sanders a gennaio. Altri democratici che hanno votato a favore sono stati i senatori Martin Heinrich, Mazie Hirono, Tim Kaine, Angus King, Ed Markey, Jeff Merkley, Brian Schatz, Tina Smith, Elizabeth Warren, Peter Welch, Chris Van Hollen, Ben Ray Lujan e Chris Murphy. Una democratica, la senatrice del Wisconsin Tammy Baldwin, ha votato “presente”. Nel portare la misura al voto, Sanders ha descritto in dettaglio la spirale della crisi umanitaria a Gaza, evidenziando le decine di migliaia di civili uccisi e le condizioni sempre più disastrose di coloro che sono riusciti a sopravvivere. Ha citato testimonianze delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie che affermano che Israele sta bloccando gli aiuti umanitari affinché raggiungano i civili. Israele afferma di adottare misure per evitare di danneggiare i civili, mentre Hamas combatte tra loro, e ha respinto le affermazioni secondo cui sta bloccando gli aiuti ai palestinesi. Ieri, alcuni funzionari statunitensi hanno rivelato che l’amministrazione Biden ha fatto pressioni sui democratici affinché non sostenessero la misura , sostenendo che negare a Israele tali armi avrebbe incoraggiato gli avversari di Israele, non avrebbe affrontato la crisi umanitaria e avrebbe privato Israele di ciò di cui ha bisogno per difendersi.
(Rights Reporter, 21 novembre 2024)
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Israele ha ucciso due comandanti Hezbollah incaricati di lanciare missili
Le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno annunciato questo mercoledì la morte, diversi giorni fa, di due comandanti dell'organizzazione terroristica sciita libanese Hezbollah, responsabile del lancio di razzi contro il nord di Israele.
"L'aeronautica israeliana ha eliminato (domenica 17) i comandanti dei missili anticarro e delle unità operative di Hezbollah nel settore costiero", ha riferito in un comunicato l'organismo militare.
Secondo il testo, i due uomini, i cui nomi e luogo di morte non sono stati rivelati, erano responsabili di "attacchi missilistici contro comunità civili nella regione della Galilea occidentale e nella pianura costiera di Israele".
Le truppe israeliane hanno riferito che lo stesso giorno in cui i comandanti sono stati eliminati, hanno attaccato più di 100 obiettivi in Libano, tra cui lanciatori, depositi di armi e centri di comando.
Da parte sua, il capo del Comando Nord, generale Ori Gordin, che dirige le operazioni contro Hezbollah in Libano, ha sottolineato oggi che i soldati stanno ottenendo “buoni risultati”, nel quadro dell’obiettivo generale che si sono prefissati, che è quello di “creare le condizioni per il ritorno sicuro dei residenti del nord alle loro case”. Goldin ha aggiunto che le capacità di Hezbollah di attaccare Israele sono state "drasticamente ridotte".
Da parte israeliana, 77 persone sono state uccise in attacchi lanciati dal Libano, di cui 46 civili (di cui 6 stranieri). Inoltre, 43 soldati sono caduti in combattimento nel sud del paese vicino.
(Aurora, 20 novembre 2024)
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La Conferenza dei Rabbini Europei risponde a Papa Francesco
“Le affermazioni del Papa sono propaganda subdola”
di Luca Spizzichino
Il dibattito sulle parole di Papa Francesco riguardo alla guerra tra Israele e Hamas si accende ulteriormente, con la Conferenza dei Rabbini Europei (CER) che esprime preoccupazione per le dichiarazioni del pontefice. In una nota del suo Comitato Permanente ha dichiarato di essere “profondamente turbata” da questa affermazione. Citando la definizione di genocidio secondo la Convenzione Internazionale per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, che include “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso,” i rabbini hanno sottolineato come Israele stia conducendo una guerra difensiva.
“Mentre l’efficacia della guerra di Israele contro Hamas può essere oggetto di dibattito, essa rimane una risposta militare agli attacchi terroristici del 7 ottobre e alla minaccia esplicita di Hamas di replicare tali massacri indiscriminati. Israele è impegnato nel rispetto del diritto umanitario internazionale, mentre Hamas viola sistematicamente ogni norma di tale diritto”, afferma la Conferenza dei Rabbini Europei.
Particolarmente dura è stata la critica all’uso del termine “genocidio,” considerato una “propaganda subdola” che sposta la responsabilità dai perpetratori alle vittime, trasformando lo Stato di Israele in un simbolo di colpa. “Hamas, al contrario, ha manifestato chiaramente, nei suoi atti e nei suoi documenti fondanti, un’intenzione genocida nei confronti del popolo ebraico”, continua la nota.
“La Torah insegna che ‘la vita e la morte sono nelle mani della lingua’ e l’esperienza storica, segnata da un crescente antisemitismo, conferma che ogni parola emessa da una figura di spicco ha immense conseguenze”, si legge infine nella nota.
Anche l’Assemblea Rabbinica Italiana (ARI) si è espressa con fermezza, descrivendo le dichiarazioni del Papa come “apparentemente prudenti”, ma che in realtà “rischiano di essere molto pericolose”. In un comunicato, i rabbini italiani hanno sottolineato che “le parole sono importanti e bisogna stare molto attenti a come usarle, soprattutto se si svolge un ruolo di guida religiosa”. L’ARI ha ricordato come, nel corso della storia, gli ebrei siano stati accusati di crimini infamanti, come il deicidio o l’omicidio rituale, con conseguenze devastanti. Alla luce di questo, hanno avvertito che “considerare le colpe in modo unilaterale e trasformare gli aggrediti in aggressori” è il modo peggiore per perseguire la pace.
(Shalom, 20 novembre 2024)
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“Città libera da ebrei”
Adesivi nelle strade di Apeldoorn, in Olanda, dove neanche la statua di Anne Frank è al sicuro.
di Giulio Meotti
ROMA - Dei 1.549 ebrei di Apeldoorn, in Olanda, deportati dai nazisti tornarono in 150. Sopravvissuti alla Shoah e loro famigliari questa settimana si sono svegliati con degli strani adesivi affissi nelle strade: “Apeldoorn Joden vrij”. Apeldoorn libera dagli ebrei. Donald de Leeuw, uno dei capi della piccola comunità ebraica di Apeldoorn, dice al Telegraaf: “49 membri della famiglia non sono sopravvissuti. Non ho cugini. Ora posso immaginare cosa provassero. Non indosso più la kippah fuori”.
I pazienti dell’ospedale ebraico di Apeldoorn il 21 gennaio 1943 furono caricati dai nazisti sui treni per Auschwitz. Il trasporto di 921 pazienti, tra cui bambini e personale medico, arrivò a Birkenau il 24 gennaio. 869 di loro furono subito mandati subito a morire nelle camere a gas.
Intanto neanche la statua di una delle figlie più famose e tragiche di Amsterdam, Anne Frank, è al sicuro. In una nazione un tempo rinomata per la sua tolleranza e il suo liberalismo, la statua di Anne Frank in un parco pubblico deve ora essere sorvegliata 24 ore su 24 con telecamere intelligenti e luci di sicurezza: si teme che venga nuovamente vandalizzata di vernice rossa e deturpata con le parole “Liberate Gaza”. Intanto Femke Halsema, sindaco di sinistra di Amsterdam, torna indietro sull’uso della parola “pogrom” usata per la notte dell’attacco ai tifosi israeliani del Maccabi. In questo nuovo clima culturale gli ebrei hanno paura. “La gente ha paura: possiamo noi ebrei camminare per strada con una kippah o una stella di David senza essere attaccati? Senza che ci venga chiesto il passaporto, senza che venga gridato ‘caccia agli ebrei’?”, ha detto Menno ten Brink, un rabbino liberale di Amsterdam.
Hanno iniziato con le città “Zionist frei”. Come Leicester, la decima città più grande del Regno Unito. La prima a mettere al bando tutti i prodotti “made in Israel”. Nella città irlandese di Kinvara i negozi, i ristoranti e persino le farmacie non vendono più prodotti israeliani, nemmeno gli antibiotici della Teva, leader israeliana dell’industria farmaceutica. Ora sono passati allo Jüdenfrei.
Il presidente fondatore dell’Associazione ebraica europea, Menachem Margolin, lunedì ha chiesto all’Unione europea di dichiarare un periodo di emergenza di sei mesi per attuare misure speciali per affrontare la minaccia dell’antisemitismo, aumentando sicurezza e fondi per i siti ebraici. Menachem Margolin ha detto da Cracovia: “La situazione del popolo ebraico in Europa oggi è la peggiore dalla Kristallnacht”.
E intanto il capo della polizia di Berlino sembra riportarci ai tempi del nazismo. Barbara Slowik, capo della polizia berlinese, ha detto alla Berliner Zeitung: “Ci sono aree – e dobbiamo essere così onesti a questo punto – dove consiglierei alle persone che indossano la kippah o sono apertamente gay o lesbiche di essere più attente. Ci sono alcuni quartieri in cui vivono persone di origine araba, che hanno anche simpatie per i gruppi terroristici. L’ostilità aperta si articola lì contro le persone di fede e origine ebraica”. Abe Foxman, nato in Polonia nel 1940, sopravvissuto alla Shoah e che ha trascorso mezzo secolo a dirigere l’Anti-Defamation League americana, ha appena detto a Forward: “Penso che l’Europa sarà Jüdenrein”.
Il Foglio, 20 novembre 2024)
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Autorità Palestinese condannata a risarcire le vittime dell’attacco al ristorante Sbarro nel 2001
di David Fiorentini
Il 9 agosto 2001, un attentatore suicida si fece esplodere dentro al ristorante Sbarro a Gerusalemme, ferendo 130 civili e uccidendone 16, di cui 4 bambini. A più di un decennio di distanza, il Tribunale distrettuale di Gerusalemme ha condannato l’Autorità Palestinese (PA) e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) a risarcire le famiglie delle vittime dell’attacco con una somma pari a 10 milioni di shekel israeliani, circa 2,5 milioni di euro, per ogni vittima. La storica decisione riprende una sentenza della Corte Suprema israeliana del 2022, secondo cui l’Autorità Palestinese è da ritenere corresponsabile di tutti gli attentati terroristici perpetrati da palestinesi in Israele, a causa delle sue politiche assistenzialistiche nei confronti degli attentatori e delle loro famiglie. Oltre alla conclusione di un percorso legale annoso, la sentenza assume una rilevanza particolare poiché potrebbe diventare un precedente a cui le vittime del massacro del 7 ottobre 2023 potrebbero appellarsi per richiedere risarcimenti alla PA. Proprio nel marzo 2024, la Knesset ha promulgato una legge che impone alle organizzazioni sostenitrici del terrorismo una sanzione di 2,7 milioni di dollari per ogni persona uccisa e di 1,35 milioni di dollari per ogni ferito. Tuttavia, fino ad oggi non erano ancora mai state emesse sentenze basate su questa legge, considerata incostituzionale e nulla dalla PA. Per la prima volta, il giudice Arnon Darel del Tribunale di Gerusalemme ha applicato la nuova normativa, disponendo un ulteriore risarcimento per danni, inclusi dolore e sofferenza, ridotta aspettativa di vita e mancati guadagni, per un totale aggiuntivo di 5,4 milioni di dollari. L’intera ammenda sarà trattenuta dalle entrate fiscali che Israele raccoglie mensilmente per conto della PA dal 2018. “I palestinesi non potranno sostenere le conseguenze finanziarie,” ha affermato Meir Schijveschuurder, avvocato delle vittime, tra cui compaiono i suoi genitori e tre fratelli. La delibera, auspica, “porterà sollievo alle famiglie delle vittime e ridurrà significativamente il terrorismo”.
(Bet Magazine Mosaico, 20 novembre 2024)
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Netanyahu: Hamas non governerà mai più la Striscia di Gaza
Circa la metà dei 101 ostaggi detenuti dai terroristi sono ancora vivi, ha dichiarato il Primo Ministro ai parlamentari.
Hamas continua a ostacolare i negoziati in corso per uno scambio di ostaggi in cambio di un cessate il fuoco, nella speranza di porre fine alla guerra e riconquistare il potere a Gaza, ha dichiarato lunedì il Primo Ministro Benjamin Netanyahu alla Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset.
“L'unica cosa che Hamas vuole è un accordo che ponga fine alla guerra e il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia di Gaza per tornare al potere”, ha detto il primo ministro, secondo Walla. “In nessun modo sono disposto a permettere che questo accada”.
Netanyahu ha detto ai parlamentari che il gruppo terroristico palestinese “vede la pressione” esercitata sul suo governo sia a livello nazionale che internazionale e crede di poter ostacolare i colloqui per raggiungere condizioni migliori.
Durante l'incontro a porte chiuse, il Primo Ministro ha affermato di ritenere che circa 50 dei 101 ostaggi detenuti da Hamas siano ancora vivi.
Ha detto ai membri del comitato che, sebbene non vi sia alcuna proposta concreta al momento, negli ultimi giorni sono “emerse diverse idee”.
Il quotidiano Al-Araby Al-Jadeed, con sede in Qatar, ha citato una fonte di Hamas all'inizio della settimana, affermando che la leadership dell'organizzazione islamista aveva interrotto ogni contatto con le persone che detengono effettivamente gli ostaggi a causa delle “strette misure di sicurezza per proteggere l'importante carta negoziale”.
La fonte ha aggiunto che Hamas si è rifiutato di fornire informazioni sul luogo e sullo status degli ostaggi, in particolare di quelli con cittadinanza statunitense, perché non gli è stato offerto un “compenso” dai mediatori.
Secondo Channel 12, Netanyahu ha osservato lunedì che mentre l'operazione delle Forze di Difesa israeliane a Gaza ha distrutto la maggior parte delle infrastrutture “militari” di Hamas, le sue capacità di governo sono rimaste in gran parte intatte.
Secondo quanto riferito, Netanyahu avrebbe incaricato i funzionari di redigere un piano entro il 21 novembre per sostituire Hamas nella distribuzione degli aiuti umanitari.
Sempre lunedì, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che guida il partito del Sionismo religioso, ha dichiarato ai giornalisti che le forze israeliane dovrebbero occupare l'intera parte settentrionale della Striscia fino al rilascio degli ostaggi.
Gerusalemme deve “far capire ad Hamas che se gli ostaggi non tornano, eserciteremo la nostra sovranità e resteremo lì per sempre”, ha detto, aggiungendo: “Allora Hamas avrà la motivazione per lasciarli vivere”.
Il 7 ottobre 2023, circa 1.200 ebrei israeliani sono stati uccisi da Hamas, altre migliaia sono stati feriti e altri 251 sono stati rapiti nella Striscia di Gaza. I colloqui indiretti tra Israele e Hamas, in cui Stati Uniti, Egitto e Qatar agiscono come mediatori, si trascinano da mesi.
La restituzione degli ostaggi, che sono ancora trattenuti dai terroristi di Hamas dopo 409 giorni, rimane “l'obiettivo più importante” nella guerra in corso, ha ribadito il Ministro della Difesa Israel Katz in una dichiarazione di domenica. (JNS)
(Israel Heute, 19 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Se Hezbollah bombarda l’Unifil è l’ora di sloggiare
di Dmitri Buffa
Il presidente argentino Javier Milei, che è il vero rappresentante di una destra liberista e libertaria, senza appesantimenti ideologici nazionalisti o post fascisti, l’antifona l’ha già capita: dal Libano per l’Unifil è l’ora di sloggiare. Si dirà: per lui è facile, aveva solo tre funzionari militari di numero e avevano le valigie già pronte. Ma se Hezbollah, in una mossa disperata e con l’intento di fare ricadere la colpa su Israele, continuasse a bombardare le strutture Onu, che difesa ci sarebbe da parte di questi soldati e soldatini, un po’ raccomandati e super stipendiati che per anni sono stati lì a fare le belle statuine mentre gli sciiti di Teheran si armavano fino ai denti? La risposta è semplice: nessuna difesa. Bisognerebbe estendere loro il sistema Iron Dome che nell’Alta Galilea e in Samaria sta salvando il salvabile all’interno dello Stato ebraico. Ma la cosa sembra altamente improbabile. Nel frattempo il contingente italiano in loco, tanto voluto a suo tempo da Massimo D’Alema come risoluzione propagandistica alle tensioni di quella Regione, comincia a capire cosa provano gli abitanti israeliani delle su menzionate aree ogni giorno che Dio manda in terra. La verità è che Hezbollah, se volesse, in pochi giorni massacrerebbe l’intero schieramento Unifil che non ha né armi né altre chance per difendersi. Nella guerra vera, quella seria non quella delle teorie delle accademie militari, i caschi blu dell’Onu sono sempre stati i primi a darsela a gambe: è successo ad esempio anche all’epoca dei massacri fra tutsi e hutu nella cosiddetta guerra dei grandi laghi nel centro dell’Africa. E se finora questo inutile se non dannoso contingente Unifil a trazione italiana aveva resistito senza perdite era perché, in nome e per conto del famigerato “lodo Moro” e delle sue estensioni all’estero, aveva fatto finta di niente voltandosi dall’altra parte quando vedeva gli Hezbollah piazzare i lanciamissili spesso a poche decine di metri dal fortino in cui è asserragliato. Si tratta allora di prendere una decisione pragmatica, da destra alla Milei e alla Donald Trump, non da missini sull’orlo di una crisi di nervi: andarsene subito dal Libano prima che il morto (o i morti) italiano ci scappi per davvero.
(l'Opinione, 20 novembre 2024)
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Aiuti umanitari per Gaza: saccheggiati 97 camion su 109
L'Institute for the Study of War sostiene che gli uomini armati appartenevano apparentemente a gruppi criminali organizzati che hanno sostituito le forze di polizia di Hamas in gran parte della Striscia di Gaza.
Secondo una dichiarazione dell’UNRWA, il 16 novembre gruppi di uomini armati hanno saccheggiato 97 dei 109 camion di aiuti umanitari entrati nel sud della Striscia di Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom. L’agenzia di stampa Reuters ha citato le parole di Louise Wateridge, rappresentante dell’UNRWA, la quale ha affermato che il convoglio trasportava cibo fornito dalle agenzie delle Nazioni Unite e che aveva ricevuto istruzioni da Israele di partire con breve preavviso per un percorso sconosciuto dal valico di frontiera di Kerem Shalom. Il convoglio è stato poi saccheggiato e alcuni trasportatori sono rimasti feriti durante l’incidente. In uno studio pubblicato dall’Institute for the Study of War (ISW) con sede a Washington, si sostiene che “non è chiaro se questi gruppi armati appartengano a qualche milizia palestinese, ma a quanto pare i gruppi armati facevano parte di gruppi criminali organizzati che hanno sostituito le forze di polizia di Hamas in gran parte della Striscia”. Il canale televisivo di Hamas Al-Aqsa ha affermato che dopo il saccheggio l’organizzazione terroristica ha condotto un’operazione congiunta con i clan locali, nella quale Hamas e i clan hanno ucciso 20 persone coinvolte nel saccheggio dei camion. Fonti del Ministero degli Interni di Hamas hanno detto a Sky News in arabo che “questa operazione non sarà l’ultima. Questo è l’inizio di un’operazione di sicurezza estesa che è stata pianificata da molto tempo e si espanderà per includere tutti coloro coinvolti nel furto dei camion degli aiuti”. Il War Research Institute ha osservato che “il fatto che Hamas sia stato costretto a cooperare con questi gruppi locali (per prendere il controllo dei saccheggiatori n.d.r.) indica che il controllo di Hamas sulla Striscia rimane debole”, e ha aggiunto che Hamas ha combattuto gruppi locali clan e gruppi criminali organizzati tenendoli al guinzaglio per molto tempo. L’Istituto ha citato le parole di un portavoce dell’UNRWA, il quale ha spiegato che ai convogli umanitari non è consentito avere guardie armate e che di solito cercano di viaggiare velocemente per evitare imboscate da parte di gruppi armati. L’analisi dell’Istituto ha rilevato che l’IDF ha recentemente adottato diverse misure per aumentare il flusso di aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza, compresi i piani per riaprire i valichi di frontiera e facilitare il passaggio dei camion degli aiuti verso il nord della Striscia di Gaza, anche se non accompagnano i convogli.
(Rights Reporter, 19 novembre 2024)
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Kibbutz Sasa colpito da Hezbollah, Angelica Calò Livne: Rimaniamo qui
di Daniel Reichel
Dal nord fino al centro d’Israele i razzi di Hezbollah continuano a provocare vittime e danni. Ieri sera a Shfaram, a est di Haifa, una donna di 50 anni, Safa Awwad, è stata uccisa dai missili dei terroristi libanesi. Nello stesso attacco una decina di persone sono rimaste ferite. Poco dopo a Ramat Gan, parte dell’area metropolitana di Tel Aviv, un edificio è stato distrutto. Questa mattina ancora razzi e allarmi al nord. A farne le spese, tra gli altri, il kibbutz Sasa, dove i razzi di Hezbollah hanno danneggiato la biblioteca, una parte del liceo e l’Auditorium. «Per fortuna non ci sono state vittime o feriti. Mio marito Yehuda è lì, io sono rimasta a dormire fuori, ma tra poco torno», racconta a Pagine Ebraiche Angelica Edna Calò Livne.
Sasa è quasi deserto perché la maggior parte dei residenti è stata evacuata. Angelica e Yehuda, responsabile della sicurezza, sono tra i pochi rimasti nel kibbutz. «Tutti vorrebbero tornare, ma devono esserci le condizioni. Deve essere garantita la sicurezza. Si sta parlando di un accordo imminente con il Libano e Hezbollah. Israele ha dato le sue indicazioni e il punto di partenza è la demilitarizzazione della zona a sud del fiume Litani (prossima al confine con Israele, ndr). Si parla di una presenza nell’area delle forze americane, può essere una soluzione, ma per noi è difficile fidarci».
Non c’è rassegnazione nel tono di Calò Livne. «Quella mai. Non lasceremo il campo alla malvagità e alla prepotenza dei terroristi». Ma ammette di porsi molti interrogativi sul futuro. «Noi stiamo a Sasa e ci rimarremo. Però mi chiedo: inviterò qui ancora i miei nipotini?». Racconta di aver ascoltato la notte prima la testimonianza di un 35enne che il 7 ottobre era a Nahal Oz, kibbutz al confine con Gaza e tra i più colpiti dalle stragi di Hamas. «Ha ricordato come il 6 ottobre fosse tutto pronto per festeggiare il giorno seguente il 70esimo anniversario dalla fondazione del kibbutz. Ha sottolineato come molti siano venuti da fuori per festeggiare insieme Simchat Torah e poi l’anniversario. Una cosa comune in tutti i kibbutz». Sarà ancora possibile? La domanda rimane strozzata in gola. «Finché non sarà tutto smilitarizzato è difficile immaginarlo. Hezbollah pensava di compiere un altro 7 ottobre al nord. Vogliamo essere sicuri che questo non possa mai accadere».
Intanto il conflitto continua. «È una situazione insopportabile, ogni giorno ci sono morti civili o tra i nostri soldati e gli ostaggi sono ancora lì, prigionieri a Gaza. Il governo deve fare di tutto per riportarli a casa, non possono passare lì un altro inverno. Non sopravviveranno. Devono essere la nostra priorità».
Dal kibbutz Sasa Calò Livne si sposta di frequente per tenere le sue lezioni in sviluppo del pensiero umanistico attraverso le arti del palcoscenico. «Sono otto ore di lezioni frontali a cui non rinuncio. Voglio che i miei studenti, soprattutto ora, escano con un po’ di respiro. Li vedo e leggo la loro difficoltà nel sopportare questa guerra. Tutti hanno un fratello, un parente, un amico, ucciso, rapito o che rischia la vita nell’esercito». Lavorare con loro è una gratificazione e permette di guardare avanti. Anche i riconoscimenti dall’estero aiutano a sentirsi utili. «La prossima settimana andremo con Yehuda in Sicilia perché mi hanno conferito il premio Pino Puglisi, prete che ha combattuto contro la mafia. Con tutte le notizie contro Israele, è bello sapere che c’è chi riconosce i tuoi sforzi. Io mi sono sempre impegnata per la pace e, nonostante tutto, continuerò a farlo».
(moked, 19 novembre 2024)
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Una sopravvissuta agli attacchi di Hamas si confronta con un attivista a Los Angeles
In un video recentemente pubblicato, l'ostaggio liberato Moran Stela Yanai racconta la sua storia e si confronta con un attivista filo-palestinese.
di Dov Eilon
Durante un dibattito a Los Angeles, nel giugno di quest'anno, Moran Stela Yanai, sopravvissuta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, ha raccontato le sue esperienze di prigionia e si è confrontata con l'attivista filopalestinese Aidan Dewolf, che aveva organizzato un campo di protesta all'UCLA (Università della California). All'evento hanno partecipato anche Mosab Hassan Yousef (“Il Principe Verde”) e il Prof. Dov Waxman, direttore del Centro di Studi su Israele Y&S Nazarian dell'UCLA. Il racconto di Moran Yanai, ripreso in un video recentemente pubblicato, ha fornito una visione della brutalità dell'organizzazione terroristica e ha portato a un intenso dibattito sulla giustificazione di tale violenza. Moran Stela Yanai, una designer di gioielli israeliana di 40 anni, è stata una dei tanti partecipanti al festival rapiti durante l'attacco al Nova festival vicino al Kibbutz Re'im. Durante la prigionia, i terroristi l'hanno scambiata per un soldato a causa del suo abbigliamento verde oliva. Ha riferito di essere stata trattata in modo particolarmente brutale a causa di questa supposizione. La sua famiglia è venuta a conoscenza del suo rapimento attraverso un video pubblicato dagli autori su TikTok, che mostrava Yanai come ostaggio. La nipote dodicenne l'ha riconosciuta dal video e ha informato la famiglia. Yanai ha trascorso 54 giorni di prigionia nella Striscia di Gaza prima di essere rilasciata il 29 novembre 2023 nell'ambito di un cessate il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas. Durante la prigionia, ha appreso dai suoi rapitori il vero piano dell'attacco del 7 ottobre. Secondo questo, Hamas aveva pianificato attacchi su larga scala contro città israeliane come Be'er Sheva, Tel Aviv e Haifa. L'obiettivo era quello di uccidere il maggior numero possibile di civili e di provocare il caos. All'inizio dell'attacco, i terroristi non avrebbero saputo del festival musicale di Nova, che contava circa 3.000 visitatori. Durante il dibattito, Yanai si è rivolta direttamente ad Aidan Dewolf chiedendogli come potesse giustificare le azioni di Hamas alla luce del suo racconto. Dewolf è stato visibilmente messo sotto pressione dalle sue descrizioni dettagliate ed emotive. Ha eluso le domande e ha cercato di indirizzare la discussione verso questioni politiche più generali. Il video dell'evento mostra come abbia reagito in modo visibilmente imbarazzato, evitando di rispondere alle accuse specifiche contro Hamas. Il video dell'evento, che è diventato rapidamente virale sui social media, mostra le tensioni che possono sorgere tra i destini individuali delle vittime come Yanai e le posizioni politiche di attivisti come Dewolf. Mentre Yanai ha descritto le sue esperienze in modo chiaro e oggettivo, Dewolf ha cercato di spostare la discussione su un piano più ampio, che molti osservatori hanno trovato evasivo. La reazione al dibattito è stata enorme. I racconti di Yanai sono stati ampiamente elogiati per aver messo in luce le conseguenze umane della violenza di Hamas. Le reazioni di Dewolf, invece, sono state controverse e sia la sua posizione che le sue argomentazioni sono state messe in discussione. La partecipazione di Yanai al dibattito e le sue testimonianze dirette hanno fornito una visione potente dell'impatto personale del conflitto e delle sfide che sia le vittime della violenza sia gli attivisti politici devono affrontare nel dibattito pubblico. Dopo il suo rilascio e un lungo processo di riabilitazione, Moran Yanai è tornata nella sua città natale, Beersheva.
(Israel Heute, 19 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I ministri degli esteri europei rifiutano di interrompere il dialogo politico con Israele
di Anna Coen
Lunedì 18 novembre i ministri degli Esteri dell’Unione Europea non hanno appoggiato la proposta del capo della politica estera uscente del blocco di sospendere il dialogo politico regolare con Israele in risposta alla campagna militare in corso dello Stato ebraico contro il gruppo terroristico palestinese Hamas a Gaza. Come riporta il sito Algemeiner, la scorsa settimana il diplomatico di punta dell’UE Josep Borrell aveva proposto la sospensione del dialogo in una lettera ai ministri degli Esteri del blocco in vista della loro riunione di lunedì a Bruxelles, citando “serie preoccupazioni per le possibili violazioni del diritto umanitario internazionale a Gaza”, l’enclave palestinese governata da Hamas. Ha anche scritto: “Finora, queste preoccupazioni non sono state sufficientemente affrontate da Israele”. La proposta è stata accolta da un’ampia resistenza, con diversi ministri che hanno espresso il loro sostegno alla posizione di Israele o hanno sostenuto che interrompere il dialogo con lo Stato ebraico sarebbe controproducente. “Sappiamo che ci sono eventi tragici a Gaza, enormi vittime civili, ma non dimentichiamo chi ha iniziato l’attuale ciclo di violenza”, ha dichiarato il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski ai giornalisti dopo l’incontro di lunedì a Bruxelles, riferendosi al fatto che Hamas ha iniziato il conflitto con l’invasione del sud di Israele lo scorso 7 ottobre. “E posso dirvi che non c’è stato alcun accordo sull’idea di sospendere i negoziati con Israele”. I dialoghi regolari che Borrell ha cercato di interrompere sono stati sanciti da un accordo più ampio sulle relazioni tra l’UE e Israele, che comprende anche ampi legami commerciali, attuato nel 2000. “Alla luce di queste considerazioni, presenterò una proposta che prevede che l’UE invochi la clausola sui diritti umani per sospendere il dialogo politico con Israele”, ha scritto Borrell la scorsa settimana. Una sospensione richiede l’approvazione di tutti i 27 Paesi dell’UE, un risultato improbabile fin dall’inizio. Il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock ha respinto pubblicamente la proposta giovedì scorso. “Siamo sempre favorevoli a mantenere aperti i canali di dialogo. Naturalmente, questo vale anche per Israele”, ha dichiarato il Ministero degli Esteri tedesco in merito ai piani di Borrell. Il Ministero degli Esteri ha aggiunto che, mentre le conversazioni politiche nell’ambito del Consiglio di Associazione UE-Israele forniscono un’opportunità regolare per rafforzare le relazioni e, negli ultimi mesi, discutere la fornitura di aiuti umanitari a Gaza, interrompere questo meccanismo avrebbe poco senso. “L’interruzione del dialogo, tuttavia, non aiuterà nessuno, né le persone che soffrono a Gaza, né gli ostaggi che sono ancora trattenuti da Hamas, né tutti coloro che in Israele sono impegnati nel dialogo”, ha continuato la dichiarazione. Anche il ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp ha dichiarato di non essere d’accordo con la proposta e che l’UE deve continuare il dialogo diplomatico con Israele. “A quanto pare, l’alto rappresentante [Borrell] fa una svolta di 180 gradi. Non riesco a comprenderlo appieno”, ha dichiarato Veldkamp ai giornalisti a Bruxelles. “Secondo i Paesi Bassi, questa porta dovrebbe essere mantenuta aperta e dovremmo avviare una discussione con i ministri israeliani. Presto ci sarà un nuovo alto rappresentante. Sfruttiamo queste opportunità per avviare un dialogo, perché c’è molto da discutere, compresa la catastrofica situazione umanitaria della Striscia di Gaza”. Borrel, il cui titolo formale è Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e la politica di sicurezza, lascerà presto la sua posizione, poiché il suo mandato quinquennale come capo della politica estera dell’UE scadrà il mese prossimo. Il suo successore è l’ex primo ministro estone Kaja Kallas.
• L’UE E LA GUERRA A GAZA L’UE è stata divisa su come affrontare la guerra a Gaza. Mentre alcuni Paesi membri, come la Spagna e l’Irlanda, hanno criticato aspramente Israele dallo scoppio del conflitto, chiedendo al blocco di rivedere e persino sospendere l’accordo di libero scambio con Israele, altri sono stati più favorevoli. Per esempio, l’Ungheria, l’Austria e la Repubblica Ceca hanno finora sostenuto ampiamente gli sforzi militari di Israele. “La maggior parte degli Stati membri ha ritenuto che fosse molto meglio continuare ad avere relazioni diplomatiche e politiche con Israele”, ha dichiarato Borrell in una conferenza stampa dopo l’incontro di lunedì -. Ma almeno ho messo sul tavolo tutte le informazioni prodotte dalle organizzazioni delle Nazioni Unite e da tutte le organizzazioni internazionali che lavorano a Gaza e in Cisgiordania e in Libano per giudicare il modo in cui la guerra viene condotta”, ha aggiunto. In precedenza, Borrell aveva detto di non avere “più parole” per descrivere la situazione in Medio Oriente, prima di presiedere la sua ultima riunione programmata dei ministri degli Esteri del blocco. Israele afferma di aver compiuto sforzi senza precedenti per cercare di evitare vittime tra i civili, sottolineando i suoi sforzi per evacuare le aree prima di prenderle di mira e per avvertire i residenti delle imminenti operazioni militari con volantini, messaggi di testo e altre forme di comunicazione. Tuttavia, in molti casi Hamas ha impedito alla popolazione di andarsene, secondo i militari israeliani. Un’altra sfida per Israele è la strategia militare di Hamas, ampiamente riconosciuta, che consiste nel radicare i suoi terroristi all’interno della popolazione civile di Gaza e nel requisire strutture civili come ospedali, scuole e moschee per condurre operazioni, dirigere attacchi e conservare armi. L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon ha dichiarato il mese scorso che Israele ha consegnato a Gaza oltre 1 milione di tonnellate di aiuti, tra cui 700.000 tonnellate di cibo, da quando ha lanciato la sua operazione militare un anno fa. Ha anche osservato che i terroristi di Hamas spesso dirottano e rubano le spedizioni di aiuti mentre i palestinesi soffrono. Nelle ultime settimane, il governo israeliano ha aumentato la fornitura di aiuti umanitari a Gaza su pressione degli Stati Uniti, che hanno espresso preoccupazione per le condizioni dei civili nell’enclave devastata dalla guerra. Tuttavia, Borrell ha dichiarato, prima dell’incontro, che la sua proposta intendeva esercitare pressioni sul governo israeliano dopo che questo, a suo avviso, aveva ignorato diversi appelli ad aderire al diritto internazionale nella guerra di Gaza. “Molte persone hanno cercato di fermare la guerra a Gaza… questo non è ancora successo. E non vedo la speranza che ciò accada. Ecco perché dobbiamo fare pressione sul governo israeliano e anche, ovviamente, sulla parte di Hamas”, ha detto Borrell, senza menzionare il rifiuto di Hamas alle recenti proposte di cessate il fuoco.
• BORRELL IL PIÙ INFLESSIBILE CONTRO ISRAELE Nell’ultimo anno Borrell è stato uno dei critici più espliciti dell’UE nei confronti di Israele. Solo sei settimane dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre, parlando al Parlamento europeo ha tracciato un’equivalenza morale tra Israele e il gruppo terroristico, accusando entrambi di aver compiuto “massacri” e insistendo sul fatto che è possibile criticare le azioni israeliane “senza essere accusati di non amare gli ebrei”. Il discorso di Borrell ha fatto seguito alla visita in Medio Oriente della settimana precedente. Mentre si trovava in Israele, ha pronunciato quello che il quotidiano spagnolo El Pais ha descritto come il “messaggio più critico ascoltato finora da un rappresentante dell’Unione Europea riguardo alla risposta di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre”. “Non lontano da qui c’è Gaza. Un orrore non ne giustifica un altro”, ha detto Borrell in una conferenza stampa congiunta con l’allora ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen. “Capisco la vostra rabbia. Ma permettetemi di chiedervi di non lasciarvi consumare dalla rabbia. Credo che questo sia ciò che i migliori amici di Israele possono dirvi, perché ciò che fa la differenza tra una società civile e un gruppo terroristico è il rispetto per la vita umana. Tutte le vite umane hanno lo stesso valore”. Mesi dopo, nel marzo di quest’anno, Borrell ha affermato che Israele stava imponendo una carestia ai civili palestinesi di Gaza e che usava la fame come arma di guerra. I suoi commenti sono arrivati pochi mesi prima che il Comitato di revisione della carestia delle Nazioni Unite (FRC), un gruppo di esperti in sicurezza alimentare e nutrizione internazionale, respingesse l’affermazione che il nord di Gaza stesse vivendo una carestia, citando una mancanza di prove. I commenti di Borrell hanno suscitato l’indignazione di Israele. In agosto, Borrell ha spinto gli Stati membri dell’UE a imporre sanzioni ad alcuni ministri israeliani. Lunedì, oltre alla sua spinta a sospendere il dialogo UE-Israele, Borrell ha anche cercato di introdurre un divieto sull’importazione di prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nei “territori palestinesi occupati secondo le regole della Corte internazionale di giustizia”. Per queste posizioni, nel giugno di quest’anno, i leader dell’ebraismo europeo hanno accusato Borrell di aggravare il problema dell’antisemitismo criticando eccessivamente Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 19 novembre 2024)
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Il Papa e il “genocidio”, un pregiudizio cristiano
di Ugo Volli
Il mondo ebraico è stato profondamente colpito e deluso dalla frase dell’ultimo libro di Papa Francesco anticipata dalla Stampa per cui bisognerebbe «indagare» se l’azione militare israeliana a Gaza costituisca un «genocidio». Non si tratta di un’accusa diretta bensì di un interrogativo; ma l’accostamento fra Israele e genocidio per bocca di una autorità spirituale come quella del Papa e non solo degli estremisti filoterroristi e antisemiti suscita indignazione e sconcerto. «Genocidio» è il concetto proposto dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin per definire il tentativo nazista di eliminare il popolo ebraico. Vedersi ribaltare addosso questa accusa da chi governa oggi un’istituzione, la Chiesa, che ha dovuto riconoscere di aver ingiustamente perseguitato gli ebrei per molti secoli e la cui azione durante il genocidio nazista è ancora oggetto di dubbi e polemiche storiche, aumenta ancora la delusione ebraica: come se gli ultimi decenni di dialogo fossero cancellati e tornasse in azione l’antico antigiudaismo cristiano. Nel merito l’accusa è del tutto infondata: Per genocidio, secondo la definizione dell’Onu, si intendono «gli atti commessi con l’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Che vi sia da parte di Israele «l’intenzione di distruggere» i palestinesi è un’affermazione insensata. La popolazione palestinese residente, secondo le dichiarazioni dello «Stato di Palestina» era nel 2023 di 5. 483. 000 persone, di cui circa 1, 8 milioni a Gaza con una crescita annua intorno al 3, 3% (180. 000 persone), che non è diminuita quest’anno. Secondo i numeri di Hamas in tredici mesi di guerra sono morte 43. 000 persone (ma Israele contesta queste cifre e l’Onu dice di averne potuto accertare solo 8. 500). Si tratterebbe comunque di meno dell’un per cento della popolazione, un quarto della crescita demografica annuale. Sono numeri che dimostrano in maniera chiarissima che Israele, lungi dal voler «distruggere» la popolazione civile, ha cercato come poteva di tutelarla, annunciando in anticipo e dettagliatamente le zone sottoposte ad offensiva, indicando vie di fuga e luoghi sicuri, introducendo centinaia di camion di rifornimenti al giorno, anche con la consapevolezza che i terroristi si sarebbero impadroniti della maggior parte di questi aiuti per usarli a loro vantaggio. Non è mai esistita nella storia una guerra in cui un esercito si facesse carico in maniera simile della necessità di salvaguardare nei limiti del possibile la popolazione civile. Il fatto è che questa è una guerra, e di tipo asimmetrico che rende difficilissima l’azione militare: i terroristi si mimetizzano fra la popolazione civile, non portano uniformi e hanno costruito le fortificazioni da cui sparano sotto ospedali, scuole e moschee. È una guerra che Israele non desiderava e che l’ha colto di sorpresa e chiaramente impreparato: il 7 ottobre 2023, quando i terroristi irruppero nel territorio israeliano, uccidendo più di 1200 persone, rapendone più di 200, violentando, bruciando vivi vecchi e bambini, sparando 5000 missili sulle città, le difese intorno a Gaza erano deboli, perché Israele non credeva a una guerra. Essa invece era stata preparata e progettata per anni dall’Iran e dai suoi satelliti, accumulando quantità enormi di armi offensive. Finora su Israele sono piovuti circa 40 mila missili, partiti da Gaza, Siria, Libano, Yemen, Iraq, Iran. Hanno fatto un numero limitato di vittime, perché Israele ha investito molte risorse nella difesa dei civili, con rifugi e sistemi antimissile. Parlare di genocidio o anche solo di sproporzione militare significa ignorare che vi è una volontà esplicita e dichiarata di Hamas, Hezbollah, ma anche dell’Iran, di distruggere lo Stato ebraico e di sterminare i suoi cittadini. Di fronte a questa minaccia non solo proclamata, ma portata all’azione concreta da sette fronti, lo Stato di Israele ha il dovere di difendere l’incolumità dei suoi cittadini eliminando la forza militare e l’organizzazione politica dei terroristi. Un modo per fermare i combattimenti e le morti c’è ed è facile: basterebbe che i terroristi restituissero le persone che hanno rapito, consegnassero le armi e si arrendessero. Israele ha garantito di recente vie d’uscita sicure a chi lo facesse. Ma non ha ricevuto risposta. Se si continua a morire a Gaza, la responsabilità è di Hamas e dell’Iran.
(La Stampa, 19 novembre 2024)
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Che il mondo ebraico sia “profondamente colpito” da quello che ha detto Bergoglio è comprensibile, ma che sia anche “deluso” dovrebbe sorprendere. Ma che cosa speravano gli ebrei dalla CCR (Chiesa Cattolica Romana)? e in particolare da quel personaggio che all’interno stesso della CCR viene considerato espressione della cosiddetta “mafia di Sangallo”. L’istituzione papale, che nel passato ha perseguitato non solo gli ebrei ma anche tanti cristiani classificati come “eretici”, oggi si sta accartocciando su se stessa, in preda a furiose convulsioni interne. Non vale la pena di prenderla seriamente in considerazione. Quanto ai
rapporti di Bergoglio con gli ebrei...
M.C.
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Gal Gadot in giro per Londra per un nuovo film
La superstar israeliana del cinema Gal Gadot sta per assumere il ruolo di protagonista in un nuovo thriller d'azione per Amazon. I precedenti cast dell'attrice israeliana hanno spesso causato proteste in passato.
di Jörn Schumacher
Gal Gadot si sta muovendo: La superstar israeliana di Hollywood avrà il ruolo principale nel nuovo thriller d'azione “The Runner”. Come riporta la testata americana “Deadline”, nel film la Gadot interpreta un avvocato di alto profilo che deve correre per Londra seguendo gli ordini criptici di un misterioso interlocutore mentre lotta contro il tempo per salvare il figlio rapito. Il film è prodotto da Amazon. Gadot è diventata famosa a livello internazionale per il suo ruolo di protagonista di “Wonder Woman” e per la sua partecipazione alla serie “Fast & Furious”. I suoi film più recenti includono “Red Notice” e “Heart of Stone” di Netflix. Gadot sarà nelle sale tedesche dal 20 marzo 2025 nel ruolo della regina cattiva nel film live-action della Disney “Biancaneve”. La madre, sposata con quattro figlie, è cintura nera di karate e pratica arti marziali come il Krav Maga. Pochi giorni prima dell'annuncio, l'attrice ha postato sul suo account Instagram un video che la mostra mentre inizia a correre con un allenatore. Presumibilmente si sta mettendo in forma per il suo nuovo ruolo. Gadot ha ammesso che la corsa è l'unico esercizio che non le piace.
• L’ISRAELIANA GADOT È SPESSO DIVENTATA UN FATTO POLITICO
Gadot è diventata una star internazionale come “Wonder Woman” e allo stesso tempo una sorta di ambasciatrice di Israele nel mondo. Lei stessa ha dichiarato: “Voglio che la gente abbia una buona impressione di Israele. Non mi sento un'ambasciatrice del mio Paese, ma parlo molto di Israele: sono felice di dire alla gente da dove vengo”. All'età di 20 anni, Gadot è stata arruolata nelle Forze di Difesa israeliane come istruttrice di combattimento. L'attraente ex “Miss Israele” è nata nello Stato ebraico ed è nipote di sopravvissuti all'Olocausto. Suo nonno è sopravvissuto dopo essere stato imprigionato nel campo di concentramento di Auschwitz, mentre sua nonna è riuscita a fuggire dall'Europa prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Nel 2017, Gadot è stata eletta attrice più popolare dell'anno dalla rivista “The Hollywood Reporter”, sulla base dei commenti degli spettatori sui social network. Nel giugno 2023, la Camera di Commercio di Hollywood ha annunciato che Gadot riceverà una stella sulla Hollywood Walk of Fame. Questo la rende la prima persona di origine israeliana a ricevere questo onore. Il fatto che Gadot sia israeliana ed ebrea ha spesso portato a controversie politiche e proteste; l'attrice stessa ha anche regolarmente reso pubbliche le sue opinioni su questioni politiche e sociali. Quando Gadot avrebbe dovuto sostituire Elizabeth Taylor nel ruolo di Cleopatra sul grande schermo, molte persone sui social media hanno reagito con derisione: una donna ebrea “bianca” non avrebbe dovuto interpretare un'egiziana. In seguito ai brutali attacchi contro Israele da parte del gruppo terroristico Hamas, l'attrice israeliana ha chiesto di sostenere lo Stato ebraico nel 2023: “Io sto dalla parte di Israele, e anche voi dovreste farlo”, ha scritto su Instagram. Poiché l'attrice israeliana recita nel film Disney “Biancaneve”, sono state lanciate richieste di boicottaggio preventivo: La “Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele” (PACBI), che fa parte del movimento “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” (BDS), ha invitato a boicottare il film il giorno X.
• REGISTA CON ANTENATI EBREI Kevin Macdonalds dirigerà il suo nuovo film “The Runner”. È nipote del regista ebreo Emeric Pressburger, che ha realizzato classici del cinema come “Vita e morte del colonnello Blimp”, “L'errore nell'aldilà” e “Le scarpe rosse”. Il regista di origine scozzese non è solo autore di lungometraggi di successo come “L'ultimo re di Scozia”, ma in passato si è anche dedicato alla realizzazione di documentari. Nel 2000, ad esempio, ha vinto l'Oscar per il film “One Day in September” nella categoria “Miglior documentario”. Il film tratta della presa in ostaggio degli atleti israeliani alle Olimpiadi estive del 1972 a Monaco da parte del gruppo terroristico palestinese “Settembre Nero”. Nel suo documentario “The Making of an Englishman” (1995), Macdonalds è andato alla ricerca di indizi e si è concentrato su suo nonno, lo sceneggiatore premio Oscar Emeric Pressburger. Pressburger, che era ebreo, lavorò per gli studi UFA di Berlino, ma fuggì a Parigi quando i nazisti presero il potere. Nel 2007, Macdonalds ha realizzato un documentario sul criminale di guerra nazista Klaus Barbie, capo della Gestapo di Lione e noto come il “Macellaio di Lione”. Nel 2018, lo scozzese ha realizzato il documentario “Whitney” sulla cantante Whitney Houston.
(Israelnetz, 18 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Operatori sociali ultraortodossi curano i traumi della guerra
“Il mio compito è garantire che non ci sia una seconda generazione che soffra per le conseguenze del 7 ottobre”, afferma Pinchas Weiss, direttore fondatore di una ONG che inizialmente si rivolgeva agli ultraortodossi.
di Etgar Lefkovits
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Pinchas Weiss, fondatore e direttore della ONG Mivtach di Gerusalemme
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Tre giorni dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, una donna israeliana il cui fratello era stato ucciso nell'attacco terroristico transfrontaliero a sorpresa parlò con un'assistente sociale di come poterne parlare con i suoi genitori.
Alla fine della conversazione, la donna chiese casualmente all'assistente sociale da dove venisse.
La sua risposta la sorprese: Beitar Illit, una comunità ultraortodossa a sud-ovest di Gerusalemme, nel Gush Etzion.
“Non è una città ultraortodossa?”, ha chiesto, ammettendo che per lei, che proviene da un ambiente molto liberale, le possibilità di conversare con un ultraortodosso - per non parlare di ricevere aiuto da lui - erano “vicine allo zero”.
D'altra parte, non capita tutti i giorni che una ONG creata esclusivamente per il settore ultraortodosso faccia un'inversione di rotta e decida di concentrarsi sull'aiuto al grande pubblico, a volte anche gratuitamente.
Ma questo è esattamente ciò che Pinchas Weiss, il 35enne direttore fondatore di Mivtach con sede a Gerusalemme, ha deciso di fare dopo il massacro del 7 ottobre. Per lui, la mossa è stata più di un semplice superamento di un soffitto di vetro; è stato il suo modo di chiudere un capitolo familiare personale e un trauma derivante dall'Olocausto.
• UN PAESE TRAUMATIZZATO
“Il 7 ottobre ha innescato qualcosa che dimostra la necessità di creare unità e coesione come nazione, sia in Israele che nella diaspora”, ha spiegato Weiss in un'intervista rilasciata al JNS presso gli uffici dell'organizzazione a Gerusalemme la scorsa settimana.
“Non c'è dubbio che per anni avremo a che fare con decine di migliaia di persone che avranno bisogno di essere curate per i traumi diretti e indiretti causati dalla guerra”, ha detto Weiss. “Credo che continueremo ad essere un Paese traumatizzato per diversi anni dopo la fine della guerra”.
Nell'ultimo anno, Weiss e il suo staff di 12 persone hanno fornito consulenza a persone direttamente traumatizzate, compresi i familiari in lutto e le famiglie dei sopravvissuti, nonché ai bambini indirettamente traumatizzati che hanno paura di uscire a causa della guerra.
Alcune cicatrici sono molto profonde.
Un diciannovenne che è stato aggredito sessualmente durante l'attacco e che Weiss aveva chiesto di curare per volere dei genitori del giovane, ha tentato il suicidio ed è ora ricoverato in un ospedale psichiatrico. Il mese scorso, una 22enne sopravvissuta al massacro al festival musicale Nova, vicino al Kibbutz Re'im, si è suicidata dopo una battaglia di un anno contro il disturbo da stress post-traumatico.
“Ci sarà lavoro per gli anni a venire”, ha detto Shraga Weiss, 31 anni, assistente sociale di Gerusalemme. "In fin dei conti, questa è una ONG Haredi [ultraortodossa], ma il nostro obiettivo è la professionalità. Ogni persona viene con i suoi problemi e noi la aiutiamo a risolverli, indipendentemente da chi sia”.
• “QUALCOSA CHE DEVE ESSERE FATTO”
L'ufficiale di polizia israeliano Shmuel Ashkenazi, che ha prestato servizio nelle riserve per quasi quattro mesi dopo l'inizio della guerra e ha diretto il centro che ha cercato i corpi di 1600 terroristi, ha detto a JNS di essere entrato in contatto con Pinchas quando si è reso conto, dopo circa un mese di servizio nella riserva, di essere facilmente agitato e stressato.
“Mi ha fatto capire che era qualcosa che andava affrontato e che non dovevo metterlo da parte”, ha detto Ashkenazi.
Alla fine gli è stata diagnosticata la sindrome da stress post-traumatico (PTSD) ed è stato indirizzato a un trattamento.
“Il 7 ottobre ha dimostrato a questa ONG che non esiste una cosa come ‘solo gli ultraortodossi’”, dice Ashkenazi.
Mivtach, il cui bilancio è finanziato da donazioni dall'estero, prevede di aprire quest'inverno un corso che combina EMDR (Eye Movement Desensitisation and Reprocessing) e terapia di gruppo per altri 50 operatori sociali.
• LA STORIA DELLA FAMIGLIA
La decisione di Pinchas di impegnarsi nel lavoro sociale ha a che fare con la sua storia personale.
Una decina di anni e mezzo fa, dopo essersi consultato e con la benedizione del suo rabbino, abbandonò gli studi di ingegneria elettronica e si iscrisse all'Università Bar-Ilan per studiare lavoro sociale, trasferendosi poi all'Università di Haifa (“sarà un bene per te e per il popolo di Israele”, aveva detto il rabbino). In un corso gestito dall'organizzazione umanitaria ebraica The Joint , era l'unico ultraortodosso della classe, racconta.
Da allora, si è abituato alla sorpresa che alcune persone in Israele mostrano quando incontrano un assistente sociale ultraortodosso.
“Mi rattrista che sia stata la morte a farci incontrare”, ha detto del suo incontro con la donna poco dopo il 7 ottobre.
I nonni di Weiss erano dei sopravvissuti all'Olocausto provenienti dall'Ungheria, le cui intere famiglie sono state uccise dai nazisti.
“Sono stati in grado di costruire una nuova generazione, ma l'unica cosa per cui non sono mai stati curati è il loro trauma, che hanno trasmesso alla generazione successiva”, ha spiegato Weiss. “Il mio lavoro consiste nel fare in modo che non ci sia una seconda generazione che subisca le conseguenze del 7 ottobre”.
(Israel Heute, 18 novembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«Occupazione, l’elefante nella stanza di Israele»
Il recente libro di Anna Foa, “Il suicidio di Israele”, potrebbe essere accostato a un altro libro di una ventina d’anni fa dal titolo simile: “La fine di Israele”, di Furio Colombo, ex direttore nei primi anni duemila del giornale “l’Unità”. Stessa provenienza politica degli autori: ebraismo di sinistra; stesso sguardo pessimistico sul futuro di Israele causato dalla politica dei suoi governanti. Due giorni fa su “La Stampa” è uscita quella che Emanuel Segre Amar definisce “un’ orribile recensione dell’altrettanto orribile libro di Anna Foa, a firma di Bruno Montesano” . Riportiamo la recensione di Montesano e il commento che ha voluto trasmetterci Segre Amar. NsI
di Bruno Montesano
Anna Foa si colloca in una posizione scomoda ma comune a diversi ebrei critici, spesso isolati dalle proprie comunità e visti con sospetto da parte della sinistra più intransigente. Ne Il suicidio di Israele, pubblicato da Laterza, Foa, oltre a denunciare i crimini contro l’umanità a Gaza e del 7 ottobre, compie degli affondi anche sulla dubbia amicizia tra destra postfascista ed ebrei: se ad El Alamein gli italiani non fossero stati sconfitti, gli ebrei in Palestina sarebbero stati massacrati. Il governo Meloni cade quindi in “contraddizione” quando celebra i coraggiosi di El Alamein e mostra amicizia al popolo ebraico.
Foa affronta poi i luoghi comuni più diffusi e scarta rispetto all’ingiunzione per cui «Israele non si critica, si ama». Prima del 7 ottobre Israele era attraversata da imponenti manifestazioni contro l’ulteriore torsione autoritaria di Netanyahu. Ma c’era un “elefante nella stanza”: la mancata richiesta della fine dell’illiberale occupazione della Cisgiordania. Con l’inizio della guerra, Israele è ulteriormente scivolata a destra, verso il suicidio. E mentre l’antisemitismo – che pure non è affatto paragonabile a quello degli anni ’30 - andava montando, la diaspora ha taciuto.
Nella via stretta tra le violenze di Hamas e Netanyahu, bisogna quindi tornare, ancora una volta, sulla storia di quel piccolo lembo di terra che alcuni chiamano Palestina e altri Israele e sgomberare il campo da pregiudizi e semplificazioni, ad esempio sul sionismo.
«Il sionismo non è né una risposta all’emancipazione né una risposta al suo rifiuto. È molte ideologie insieme, molti progetti diversi». Il luogo dove insediare gli ebrei era infatti oggetto di dibattito tra territorialisti – che proposero l’Argentina prima e l’Uganda poi – e culturalisti – che vedevano nella Palestina il territorio dove rinnovare la vita spirituale degli ebrei. La tesi della “terra senza popolo per un popolo senza terra” era meno diffusa di quanto si pensi. Inoltre, fino a metà anni ’30 molti sionisti volevano uno stato binazionale. In questo senso, un'altra falsità che spesso si sente anche tra persone progressiste è che i palestinesi, prima del sionismo, non avessero ancora un’identità nazionale definita.
Tuttavia, il rapporto tra ebrei e palestinesi, da pacifico che era, a inizio ‘900, assunse presto la forma dello “scontro culturale”: da un lato i palestinesi erano ostili a modi di vita “altri” rispetto ai propri, dall’altro gli ebrei socialisti dei kibbutzim espulsero i lavoratori arabi.
Rispetto alla dibattuta questione su se il sionismo sia un movimento nazionalista o coloniale, Foa scrive che, fino al ’48, rispetto ad altri casi di settler colonialism, colonialismo d’insediamento, l’assenza di uno stato nazione dietro al movimento e la mancata colonizzazione in armi della Palestina costituiscano delle differenze inaggirabili. C’era però un’idea di superiorità culturale europea. Ad ogni modo, dopo la Nakba, secondo Foa, il sionismo cambia e Israele scivola più compiutamente verso il colonialismo di insediamento. Che subisce un’ulteriore torsione con la guerra del ’67. Dopo quella data, infatti, anche i laburisti favorirono la colonizzazione della Cisgiordania. E, oggi, il governo e l’esercito appoggiano pogrom contro i palestinesi.
Si potrebbe qui obiettare a Foa che molte colonizzazioni di insediamento siano passate per la coercizione economica: l’imposizione dei diritti di proprietà su una terra altrui regolata da un diritto diverso. Inoltre, sul problema dell’apartheid, e sulla dimensione giuridica della discriminazione contro i palestinesi, a cui Foa accenna brevemente, è molto utile la ricerca di Enrico Campelli, Prove di convivenza (Giuntina 2022).
Ad ogni modo, Foa chiude questo magistrale saggio abbracciando la prospettiva post-sionista: Israele ha svolto il suo compito e deve diventare qualcos’altro. Il superamento del dilemma tra stato ebraico e stato democratico sta nel fatto che i cittadini vengano, finalmente, riconosciuti come “liberi e uguali nella loro diversità”. E, se è vero che il sionismo prima del ’48 non era esclusivamente un movimento razzista, bisogna comunque riconoscere la sofferenza che da allora ha inflitto ai palestinesi. Solo così, uniti da trauma, esilio e sofferenza, ebrei e palestinesi potrebbero convivere.
(La Stampa, 16 novembre 2024)
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Commento di Emanuel Segre Amar:
Tra le gravità di questo articolo, uno dei tanti scritti a pubblicizzare al massimo l’ultimo libro di una persona che odia lo Stato di Israele (basterebbe il titolo, anche se è scritto in modo nascosto, a comprenderlo), sottolineo, nell’ordine:
- “Nella via stretta tra le violenze di Hamas e di Netanyahu” Montesano paragona un feroce terrorista ad un primo ministro eletto di una nazione democratica.
- Per l’autore sarebbe “una falsità che i palestinesi, prima del sionismo, non avessero ancora un’identità nazionale definita”, ma si guarda bene dallo spiegarlo, non potendo farlo.
“Il rapporto tra ebrei e palestinesi, da pacifico che era, a inizio ‘900…”; evidentemente Montesano non conosce la storia dei pogrom che afflissero gli ebrei di Hebron nel 1775 e di Safed nel 1799, 1834 e 1838, e potrei continuare.
“Imposizione dei diritti di proprietà su una terra altrui”: era tradizionalmente terra di proprietà di latifondisti turchi e siriani che vendettero regolarmente ad acquirenti ebrei secondo il diritto ottomano
Il peggio sta però in: “se è vero che il sionismo, prima del ‘48 non era esclusivamente un movimento razzista…”; qui Foa e Montesano, oltre a dimenticare le parole del Presidente Napolitano che affermò che l’anti-sionismo nega le ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele”, girano attorno alla Risoluzione dell’ONU 3379 che definì il sionismo una forma di razzismo, Risoluzione poi annullata nel 1991.
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Per la prima volta le soldatesse dell’IDF entrano in Libano
di Michelle Zarfati
Per la prima volta nella storia militare di Israele, le donne soldato sono entrate in Libano come parte di una missione operativa. Il capo del Comando Nord, il magg. Ori Gordin ha approvato il dispiegamento di una squadra del battaglione di intelligence da combattimento nel sud del Libano diverse settimane fa.
Dall’inizio della guerra, la squadra di intelligence da combattimento, composta da soldatesse, era stata di stanza vicino al confine siriano e nella regione del Monte Dov. I loro compiti includevano la raccolta di informazioni, l’identificazione di agenti terroristici, la creazione di elenchi di obiettivi e la direzione del fuoco da parte delle forze di terra e aeree per neutralizzare le minacce e smantellare le infrastrutture terroristiche. Il caporale Tehila, 21 anni, una soldatessa del Battaglione “Aquila”, ha descritto la sua esperienza in diverse operazioni, tra cui l’identificazione di individui legati ad attività terroristiche. “Libano meridionale? Siamo entrati a piedi. Quanto peso abbiamo trasportato? Troppo”, ha detto sorridendo. “Circa il 40% del nostro peso corporeo. Ci stavamo preparando per una lunga imboscata”.
Il caporale Shani, 20 anni, ha spiegato la logistica della missione: “Abbiamo camminato per circa 1,5 chilometri in Libano, stabilito una posizione sul campo, mantenuto il camuffamento e iniziato la raccolta di informazioni utilizzando strumenti di osservazione. Operativamente, siamo entrati in aree non toccate dalle forze israeliane dalla seconda guerra del Libano”. I soldati hanno rivelato che la missione ha scoperto preziose informazioni sui siti dei missili anticarro, sugli edifici utilizzati da Hezbollah e sulle posizioni precise degli obiettivi – ha spiegato la soldatessa – In un caso, abbiamo guidato il fuoco dei carri armati in base alle nostre fotografie. Le immagini che abbiamo catturato incriminavano direttamente Hezbollah, mostrando le loro armi all’interno di case e villaggi. Più tardi, gli elicotteri d’attacco hanno colpito quegli obiettivi”, ha detto il caporale Shani.
La squadra inizialmente aveva pianificato di rimanere dietro le linee nemiche per oltre 24 ore vicino a un villaggio con note attività di Hezbollah. Tuttavia, un incendio inaspettato è scoppiato nella zona, costringendoli all’evacuazione dopo 12 ore. “La ritirata attraverso una fitta vegetazione è stata molto impegnativa”, hanno osservato. Riflettendo sulla missione, le soldatesse hanno detto che il loro obiettivo era interamente quello di nascondere la loro posizione e raccogliere informazioni. Solo al ritorno in Israele hanno pienamente compreso la gravità della loro operazione. “Siamo la prima squadra di combattimento femminile ad entrare in Libano. Dirlo alla mia famiglia è stato emozionante: mia madre era sconvolta, ma mio padre era orgoglioso. Non c’è paura in questo momento, solo adrenalina. Ti concentri interamente sulla missione” ha detto il caporale Shani. “Alle ragazze che si uniscono alle unità di combattimento viene spesso detto che non avranno missioni significative, ma questo dimostra il contrario. Se ti spingi oltre ed eccelli, ti aspettano opportunità incredibili” ha concluso il caporale Tehila.
(Shalom, 18 novembre 2024)
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L’ex capo di stato maggiore Camporini: Israele opera nel rispetto delle regole
«Le procedure, gli atti compiuti, i provvedimenti correttivi e la gestione degli incidenti da parte dell’esercito israeliano a Gaza rispondono a criteri condivisibili, tipici delle democrazie occidentali. Se fossero sanzionati, provocherebbero un danno alle forze armate dell’Occidente».
Parola di Vincenzo Camporini, l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e della Difesa. Ospite della Federazione delle Associazioni Italia-Israele a Roma, Camporini ha affrontato varie questioni collegate alle guerre di Israele contro il terrorismo. Tra le altre, il ruolo di Unifil nel sud del Libano come forza di interposizione con Hezbollah. «Il suo intervento è stato utile, ma non ha conseguito il risultato perché non è stata messa nelle condizioni di conseguirlo», ha sostenuto il generale. Per Camporini, in ogni caso, «Unifil deve rimanere, perché con Unifil sul terreno potrà riprendere il dialogo». Al tavolo, moderati da Ruben Della Rocca, c’erano anche due altri ex generali di alto livello: Paolo Capitini e Giuseppe Morabito. Per il primo, oggi docente presso la Scuola sottufficiali dell’esercito, l’anomalia di questa guerra combattuta anche nei tunnel presenta «un nuovo ambiente operativo, con nuove tecniche di combattimento e una particolare natura del nemico: le incomprensioni verificatesi non rientrano nel campo della “cattiveria”, ma possono accadere in un contesto di esperienze militari così diverse dal consueto». Dal suo canto Morabito, attuale membro del Nato Defense College, ha affermato: «Il rispetto delle regole, da parte di Israele, è sancito: non c’è scritto da nessuna parte che un esercito debba avvisare dove colpirà, però Israele lo fa». Morabito non è sorpreso che Israele sia sotto accusa per genocidio all’Aja: «I magistrati sono avulsi dal contesto? Ragioniamo sull’ambiente in cui vivono e sulle pressioni che ricevono».
(moked, 18 novembre 2024)
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Il collettore di Hamas in Italia e l’intervento di Washington
di Giovanni Giacalone
Hannoun non è nuovo a tali vicissitudini visto che nel 2021, dopo diverse segnalazioni all’Antiriciclaggio, l’Unicredit sospese l’operatività sui conti dell’ABSPP per una serie di anomalie: dalla mancata iscrizione al registro dell’Agenzia delle Entrate alla massiccia movimentazione di contante, in alcuni casi a soggetti iscritti nelle black list dei database europei. Nel dicembre 2023 anche Poste Italiane aveva chiuso il proprio rapporto con l’associazione. Subito dopo erano stati PayPal ed altri operatori tra cui Visa, Mastercard e American Express a bloccare le transazioni intestate alla sua associazione. Le autorità israeliane avevano inoltre chiesto a quelle italiane di provvedere con il sequestro dei fondi di Hannoun in quanto indicati come ricompensa per le famiglie degli attentatori suicidi di Hamas.
Nella mappa delle ramificazioni internazionali di Hamas non poteva mancare l’Europa, dove l’organizzazione terroristica gode di rappresentanze più o meno mascherate in Germania, Austria e Italia.
Un recente rapporto del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, redatto il 7 ottobre del 2024, a un anno esatto dall’eccidio compiuto da Hamas in Israele, ha identificato nell’architetto arabo di origine giordana, Mohammad Hannoun, residente a Genova, il collettore di Hamas per l’Italia.
Secondo il Dipartimento di Stato, Hannoun, dietro il paravento di una ONG da lui fondata, “L’Associazione Benefica di Solidarietà per il Popolo Palestinese” avrebbe raccolto nell’arco di dieci anni 4 milioni di dollari destinati all’ala militare dell’organizzazione jihadista .
Hannoun, il quale considera i trucidatori di israeliani del 7 ottobre, “resistenti”, si è presentato sabato scorso a Milano ad una manifestazione propalestinese dove ha lodato i perpetratori della caccia all’ebreo avvenuta ad Amsterdam, esibendo una foto di Yahya Sinwar, il pianificatore dell’eccidio.
A causa di ciò, Hannoun ha ricevuto la notifica del foglio di via dalla Procura di Milano per “istigazione all’odio e alla violenza”, ma ciò non lo ha demotivato. Oggi, durante l’ennesimo corteo propalestinese che si è svolto nella capitale lombarda si è fatto sentire da Torino dove ha partecipato a una manifestazione analoga, affermando che quanto è accaduto non fermerà la sua lotta per la “resistenza” palestinese, ovvero il suo supporto al jihadismo, approfittandone per scagliarsi contro i “giornalisti corrotti, bastardi e figli di puttana che hanno preso una parte del mio discorso di sabato scorso”, cioè che avrebbero falsificato il suo messaggio improntato alla pace e alla concordia.
La domanda che sorge spontanea è, come è possibile che un soggetto indicato dal Dipartimento di Stato americano quale collettore di una organizzazione che anche l’Italia considera terroristica, possa liberamente continuare la sua attività di megafono dello jihadismo e di apologeta dell’antisemitismo.
Ci si augura che le autorità competenti prestino l’attenzione dovuta alla segnalazione arrivata da oltreoceano, la quale non perderà di rilievo quando la nuova amministrazione americana guidata da Donald Trump si insedierà il 20 gennaio prossimo.
(L'informale, 18 novembre 2024)
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Israele, le nazioni e i credenti in Gesù
Riportiamo gli ultimi due paragrafi della prima edizione del libro “Dio ha scelto Israele”, scritto circa vent’anni fa. Nella seconda edizione fu aggiunto un altro capitolo dal titolo ”Un interrogativo inquietante: sparirà Israele?” che voleva essere anche un inserimento nella discussione sollevata in quel momento da un libro dal titolo significativo: “La fine di Israele”, di Furio Colombo.
“La fine di Israele è cominciata - si dice in un passaggio di quel libro -. Si sono incrinati i pilastri che finora hanno sostenuto questo paese persino al di là di persuasioni, intenzioni, dissensi, e giudizi negativi. Quei pilastri erano l’opinione pubblica dell’Occidente, il cambiamento del mondo islamico, il sostegno americano, l’imminenza - o almeno la realistica speranza - di una qualche forma di pace o di convivenza con la Palestina.”
Anche in risposta a questa azzardata affermazione di Colombo, la seconda edizione del libro “Dio ha scelto Israele” finisce con una frase netta: “E Israele non sparirà”. Ma il finale della prima edizione, che qui riportiamo, costituisce già un’implicita risposta.
di Marcello Cicchese
Lo Stato d’Israele è ormai una realtà da più di cinquant’anni [oggi sono diventati più di settanta]. Come questo sia potuto accadere, nonostante le enormi difficoltà e il freddo odio di nemici determinati a distruggerlo, non è facilmente spiegabile con categorie puramente umane. Possiamo ricordare le parole con cui lo storico Benny Morris conclude il suo poderoso trattato sul conflitto arabo-israeliano “Vittime”:
“Fin qui, i sionisti hanno potuto considerarsi i vincitori dello scontro. Ogni vittoria può essere spiegata alla luce di fattori concreti e specifici, ma nell’insieme il successo dell’impresa sionista appare quasi miracoloso. Come descrivere altrimenti il radicarsi, in un paese inospitale, in un impero non amico e in una popolazione ostile, di una piccola e mal equipaggiata comunità di qualche decina di migliaia di ebrei russi? Come descrivere lo sviluppo di quella comunità, sia pure all’ombra delle baionette britanniche, nonostante la crescente opposizione e violenza arabe? E la vittoria contro la coalizione araba del 1948? La nascita di un paese solido e vitale? Le vittorie in altri quattro conflitti?”
L’autore dice: “Fin qui...”, e naturalmente non può essere sicuro che i sionisti continueranno ad essere i vincitori dello scontro. Ma di quale scontro si tratta?
Nel libro del profeta Isaia si parla del “giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Lo scontro vero che si sta preparando è tra il Dio che ha scelto Israele e le nazioni che sono spinte da Satana a muoversi contro il popolo eletto. Sarà un giorno di vendetta “poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage” (Isaia 34:2). L’indignazione è causata dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna. Questo trattamento assumerà forme tragiche e spaventose negli ultimissimi tempi che precedono il ritorno in gloria del Signore Gesù, ma i suoi caratteri sono riconoscibili anche adesso. Non dovrebbe questo fatto provocare anche nei credenti sentimenti di indignazione per il comportamento ingiusto e ipocrita delle nazioni verso Israele, pur sapendo che a Dio soltanto spetta la vendetta? E la mancanza di questi sentimenti non potrebbe essere un segnale preoccupante di un intorpidimento spirituale che impedisce di riconoscere le manovre dell’Avversario?
Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l’Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione seppero riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: “No”. La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare.
Un fratello tedesco che nella seconda guerra mondiale ha combattuto in Russia come ufficiale della Wehrmacht, negli ultimi anni della sua vita si è interessato molto di Israele, e in un suo libro sull'argomento (Ernst Schrupp, Israel in der Endzeit, Wuppertal, 1991) onestamente confessa:
“In Germania non pochi cristiani, tra cui anche chi scrive, hanno visto nel Nazionalsocialismo la salvezza del popolo. Abbiamo accolto con favore l’espulsione degli ebrei dalla nazione tedesca. Fin dal 1933 il “Täuferbote”, giornale delle Chiese Battiste austriache, scrisse che “Dio, attraverso la Rivoluzione nazionale in Germania, ha imposto agli ebrei un potente alt”. Su “Die Botschaft” e “Die Tenne”, giornali delle Assemblee dei Fratelli, il primo per le chiese, il secondo per i giovani, si può trovare una sconsiderata approvazione della epurazione della Germania dai nemici dello Stato, e in particolare dagli ebrei immigrati. Di fronte alla forzata emigrazione, alla brutalità delle SS, alle crudeli sofferenze che si abbattevano sugli ebrei, sembrava possibile, anche nei nostri ambienti, spiegare alla luce della Bibbia, senza problemi, la persecuzione e l’espulsione degli ebrei con la maledizione che incombeva su Israele. In questo modo tranquillizzavamo la nostra coscienza e ci sembrava che anche un “antisemitismo evangelico” fosse giustificato.”
Quando poi si cominciò a capire come stavano veramente le cose, all’entusiasmo subentrò la paura, e le varie chiese furono talmente occupate a risolvere il problema dei loro rapporti con lo Stato totalitario da non avere più né il tempo, né la forza, né lo spirito di martirio per impegnarsi a favore degli ebrei.
I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E’ preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice “globalizzata”, le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una “umana comprensione”, dell’odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele. Le mostruosità diaboliche di giovani educati all’odio e spinti a uccidere sé stessi insieme a uomini, donne e bambini colpevoli soltanto di essere ebrei non sollevano indignazione, non fanno quasi più notizia. I pacifisti, i sognatori di una pace universale raggiunta con sforzi umani si lasciano ingannare dall’anelito di giustizia con cui si presenta la “lotta di liberazione” della Palestina dagli ebrei “usurpatori”. Come tutte le persone imbrogliate, cercheranno di rinviare il più possibile il momento in cui dovranno ammettere di essersi lasciati ingannare; e quando non potranno più farlo, saranno occupati a risolvere il problema della loro paura.
• Il residuo d’Israele è di nuovo visibile sulla terra promessa
La lampada della Parola di Dio espressa nelle profezie deve essere fatta risplendere per capire quello che il Signore ha voluto rivelare del Suo piano; e alla luce di questa lampada devono essere esaminati i fatti che stanno avvenendo nel popolo di Israele, per avere pensieri corretti e prendere decisioni giuste.
Tra questi fatti deve essere data particolare importanza alla novità assoluta degli ebrei “messianici”. Il residuo d’Israele oggi è diventato visibile all’interno dello Stato ebraico, tornando a sollevare una serie di questioni che erano presenti agli albori della chiesa cristiana. Qualcosa accomuna i primi e gli ultimi tempi di questo periodo della storia della salvezza: si può dire che prima della distruzione di Gerusalemme Israele era ancora presente quando la Chiesa era già presente; dopo la Dichiarazione d’indipendenza del 14 maggio 1948 si può dire che la Chiesa è ancora presente quando Israele è già di nuovo presente. Forse siamo in molti a non essere ben preparati alla particolarità di questa situazione. Ma il tempo urge, e oltre alla necessità di intensificare l’opera di predicazione del vangelo in tutto il mondo, è necessario tenere gli occhi aperti e la mente attenta su tutto quello che riguarda Israele, senza lasciarsi fuorviare da chi dice che tutto questo non è importante perché lo Stato ebraico di oggi non crede ancora in Gesù.
Un ebreo educato fin da piccolo all’osservanza delle tradizioni ebraiche, un giorno ha scoperto che Gesù non è un personaggio che riguarda il Papa e il Vaticano, ma è il Messia promesso a Israele. E ha creduto in Lui. In una sua predicazione ha detto che se esiste un velo su Israele che gli impedisce ancora di riconoscere in Gesù il Suo Messia, esiste anche un velo su gran parte della Chiesa, un velo che le impedisce di riconoscere quello che Dio sta operando nel Suo popolo di Israele. Chi scrive riconosce di non essere stato cosciente, per molto tempo, dell’esistenza di questo velo.
E’ compito dei credenti in Cristo pregare ed operare affinché questo secondo velo sia rimosso dai loro occhi, sapendo che sarà il Signore stesso, quando il tempo sarà giunto, a togliere il primo velo dagli occhi di Israele.
(da Dio ha scelto Israele)
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Israele ha distrutto un sito di ricerca sulle armi nucleari in Iran il mese scorso
L'attacco ha distrutto un complesso di ricerca per componenti essenziali alla costruzione di un ordigno atomico, componenti che l'Iran non riuscirà a reperire con facilità.
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Questa foto satellitare di Planet Labs PBC mostra edifici danneggiati nella base militare iraniana di Parchin, fuori Teheran, Iran, 27 ottobre 2024. Le strutture danneggiate si trovano nell’angolo in basso a destra e in basso al centro dell’immagine.
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Gli attacchi aerei israeliani in Iran compiuti il mese scorso hanno distrutto un centro di ricerca sulle armi nucleari attivo a Parchin. Lo ha riferito venerdì il sito di notizie Axios, citando tre funzionari statunitensi, un attuale funzionario israeliano e un ex funzionario israeliano.
Secondo Axios, un attacco israeliano su Parchin, parte di un’operazione durata ore il 26 ottobre, ha distrutto le sofisticate apparecchiature utilizzate per progettare gli esplosivi in grado di circondare l’uranio in un dispositivo nucleare, danneggiando in modo significativo gli sforzi dell’Iran per riprendere la ricerca sulle armi nucleari.
L’attacco israeliano “renderà molto più difficile per l’Iran sviluppare un ordigno esplosivo nucleare se sceglierà di farlo”, hanno detto due funzionari israeliani.
L’Iran avrebbe bisogno di “sostituire l’equipaggiamento che è stato distrutto” se volesse produrre armi nucleari, secondo quanto affermato nel rapporto dai funzionari israeliani, “e se l’Iran cercasse di procurarselo, credono di poterlo rintracciare”.
Era già noto che il complesso “Taleghan 2” era stato preso di mira negli attacchi, come testimoniato dalle immagini satellitari, ed era già stato riconosciuto come sito del precedente programma nucleare iraniano, ufficialmente interrotto nel 2003.
Secondo quanto riferito, all’inizio di quest’anno i servizi segreti statunitensi e israeliani hanno iniziato a rilevare nuove attività sul sito, tra cui modellizzazione computerizzata, metallurgia e ricerca sugli esplosivi, che potrebbero essere rilevanti per la creazione di un ordigno nucleare.
“Hanno condotto un’attività scientifica che avrebbe potuto gettare le basi per la produzione di un’arma. Era una cosa top secret. Una piccola parte del governo iraniano ne era a conoscenza, ma la maggior parte del governo iraniano no”, ha detto un funzionario statunitense ad Axios.
La conoscenza delle ricerche condotte a Taleghan 2 avrebbe spinto il Direttore dell’intelligence nazionale statunitense a modificare la sua valutazione ufficiale del programma nucleare iraniano ad agosto, che in precedenza aveva osservato che l’Iran “non stava attualmente intraprendendo le attività necessarie per produrre un dispositivo nucleare testabile”.
Non risulta che Israele abbia colpito altri siti nucleari negli attacchi aerei del 26 ottobre, quando decine di aerei israeliani hanno distrutto siti di produzione e lancio di droni e missili balistici, nonché batterie di difesa aerea.
Gli Stati Uniti hanno esortato Israele ad astenersi dal colpire siti nucleari nell’attacco, per evitare di innescare una grave escalation con l’Iran, pur avendo approvato la mossa di Israele in risposta all’attacco dell’Iran contro Israele del 1° ottobre, quando la Repubblica islamica ha lanciato 181 missili balistici contro Israele, il suo secondo attacco diretto di questo tipo da aprile.
Israele ha fatto però una eccezione per Taleghan 2, perché il sito non faceva parte del programma nucleare dichiarato dall’Iran, che la Repubblica islamica nega abbia una componente militare, ma riconosce come un’impresa presumibilmente civile.
Se l’Iran avesse riconosciuto la portata dell’attacco, avrebbe ammesso anche la violazione del trattato di non proliferazione nucleare.
“L’attacco è stato un messaggio non troppo sottile che gli israeliani hanno una conoscenza significativa del sistema iraniano, anche quando si tratta di cose che erano tenute top secret e note a un gruppo molto ristretto di persone nel governo iraniano”, ha detto un funzionario statunitense ad Axios.
Il sito di notizie ha anche citato funzionari israeliani, i quali hanno affermato che l’attacco renderebbe molto più difficile per Teheran sviluppare un’arma nucleare se decidesse di farlo.
“Questa attrezzatura è un collo di bottiglia. Senza di essa gli iraniani sono bloccati”, ha detto un alto funzionario israeliano.
“Si tratta di un equipaggiamento di cui gli iraniani avrebbero bisogno in futuro se volessero fare progressi verso una bomba nucleare. Ora non ce l’hanno più e non è una cosa da poco. Dovranno trovare un’altra soluzione e la vedremo”, ha aggiunto il funzionario.
• ISPEZIONI NUCLEARI
Il rapporto è stato pubblicato lo stesso giorno in cui il responsabile dell’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite ha visitato due siti nucleari iraniani nell’ambito di una visita in Iran.
Durante la visita, il ministro degli Esteri iraniano ha dichiarato al capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi, che Teheran è disposta a risolvere le controversie in sospeso sul suo programma nucleare, ma non cederà alle pressioni.
Secondo quanto riportato dai media statali, senza però fornire dettagli, Grossi ha visitato la centrale nucleare di Natanz e il sito di arricchimento di Fordow, scavato in una montagna a circa 100 km a sud della capitale Teheran.
I rapporti tra Teheran e l’AIEA si sono inaspriti a causa di diverse annose questioni, tra cui l’esclusione dal paese degli esperti di arricchimento dell’uranio dell’agenzia e la mancata spiegazione delle tracce di uranio trovate in siti non dichiarati.
“La palla è nel campo UE/E3”, ha scritto il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi su X dopo i colloqui a Teheran con Grossi giovedì, riferendosi a tre paesi europei – Francia, Gran Bretagna e Germania – che rappresentano l’Occidente insieme agli Stati Uniti nei colloqui sul nucleare.
“Disposti a negoziare sulla base del nostro interesse nazionale e dei diritti inalienabili, ma non pronti a negoziare sotto pressione e intimidazione”, ha affermato Araqchi.
Il portavoce del ministero degli Esteri francese ha detto ai giornalisti che le tre potenze europee attenderanno di vedere i risultati della visita di Grossi prima di decidere come rispondere.
“Siamo pienamente mobilitati con i nostri partner E3 e gli Stati Uniti per portare l’Iran alla piena attuazione dei suoi obblighi e impegni internazionali, nonché alla cooperazione in buona fede con l’agenzia”, ha affermato.
“Questa mobilitazione avviene in diversi modi, anche attraverso risoluzioni… quindi ci aspettiamo che questi messaggi vengano trasmessi durante la visita di Rafael Grossi e adatteremo di conseguenza la nostra reazione”.
Il ritorno di Trump alla presidenza degli Stati Uniti a gennaio sconvolge la diplomazia relativa alla questione nucleare con l’Iran, che era rimasta in stallo sotto l’amministrazione uscente di Joe Biden dopo mesi di colloqui indiretti.
Durante il precedente mandato di Trump, Washington ha abbandonato l’accordo nucleare del 2015 tra l’Iran e sei potenze mondiali, che limitava l’attività nucleare di Teheran in cambio dell’allentamento delle sanzioni internazionali.
Trump non ha ancora spiegato in dettaglio se riprenderà la sua politica di “massima pressione” sull’Iran quando entrerà in carica.
(Rights Reporter, 16 novembre 2024)
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“Trump presidente proteggerà Israele”
di Alessandra Mori
In questa nuova puntata di “Pop economia-Rumore”, la nostra rubrica condotta da Alessandra Mori, l’ambasciatore Stefano Stefanini e l’assessore ai rapporti internazionali della comunità ebraica di Roma Yohanna Arbib parlano degli scenari internazionali dopo l’elezione di Donald Trump, in particolare sui riflessi che potranno avere su Israele e sul conflitto nel Medio Oriente, e dei retroscena sui fatti di Amsterdam.
Yohanna Arbib, sulla vittoria di Donald Trump: “Sono contenta che abbia vinto l’amministrazione Trump, parliamo di persone che conoscono bene la politica internazionale e porteranno una grandissima chiarezza. Netanyahu ha detto molto nitidamente alle Nazioni Unite: i soldati israeliani sono quelli che stanno morendo sul territorio: aiutateci a mettere fine a due organizzazioni terroristiche che stanno controllando il Libano nel nord e Gaza nel sud. Questo chiede Israele e io sono convinta che questa nuova amministrazione Trump porterà questo in politica estera”.
Riguardo ai fatti di Amsterdam, di concerto con l’ambasciatore Stefanini: “È stata una seconda notte dei cristalli, proprio una caccia all’ebreo e potrebbe essere l’inizio. Israele è in prima linea alla difesa dei valori occidentali. Dopo la caccia agli ebrei verranno gli altri. Sulla scia dell’antisemitismo ci sarà l’attacco alle minoranze, alla democrazia”.
“È stato allucinante quello che è successo dopo. La reazione della polizia è stata totalmente sottotono, in alcuni casi si è addirittura rifiutata di proteggere i turisti israeliani. Questo in Italia non succede e dobbiamo ringraziare le forze dell’ordine perché proteggono noi ebrei, 24 ore al giorno, 7 giorni a settimana. La seconda riflessione è sulla reazione di alcuni giornalisti. Se non ci fossero state le registrazioni sui social, qualcuno avrebbe detto che quella manifestazione era il risultato di una reazione ad alcuni israeliani che hanno manifestato contro il popolo palestinese. E l’informazione errata, la diseducazione dei nostri cittadini, crea quello che è successo il giovedì notte”.
Stefanini, sul Medio Oriente: “Trump sul Medio Oriente ha seguito tre linee abbastanza costanti. La prima è l’appoggio quasi incondizionato a Israele, al punto di prendere decisioni che nessun altro aveva preso, per esempio il riconoscimento dell’annessione delle alture del Golan e il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. E ha riconosciuto la non illegalità delle colonie che Israele ha stabilito in Cisgiordania. La seconda costante è quella di spingere molto per il ravvicinamento di Israele agli Stati Arabi del Golfo, in particolare all’Arabia Saudita, che è l’antagonista principale dell’Iran. Trump è appunto l’artefice degli accordi di Abramo, accordi fra gli Emirati e Israele che aspettano l’adesione dell’Arabia Saudita. Tutto questo è stato complicato ed è tuttora reso molto più complicato dal dopo 7 ottobre. La terza costante, legata alle altre due, è l’essere anti-Iran”.
“Gli accordi di Abramo sono praticamente fermi, ma nessun Paese arabo ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele. L’Arabia Saudita indica di essere pronta a riprendere quel percorso qualora Israele offrisse una prospettiva di Stato palestinese, ma questo Netanyahu non l’ha fatto. Il secondo sviluppo è il fatto che Israele e Iran sono passati da una guerra per procura, che l’Iran conduceva tramite le varie milizie contro Israele, a una guerra attiva che ha avuto già due scambi diretti”.
Su Donald Trump: “Trump si pone come l’uomo che mette fine alle guerre e che anche perché nella sua filosofia gli Stati Uniti hanno speso troppe risorse in guerre in cui non è in gioco il loro interesse nazionale”. Ha promesso di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore potrebbero essere le prime in cui Trump sarà presidente il 20 gennaio, precedute però da quello che sta facendo adesso, cioè creare le condizioni per arrivare alla cessazione dell’ostilità”.
Sugli eventi di Amsterdam: “C’è stata una pianificazione e non un’esplosione di antisemitismo olandese che colava sotto le ceneri, che è solo una componente. È stata una manifestazione organizzata da sostenitori di Hamas, cioè l’organizzatore della strage del 7 ottobre”.
(Radio Libertà, 16 novembre 2024)
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L’albergatore che rifiuta gli ebrei è una vergogna fuori dalla storia
Una struttura di Selva di Cadore chiude le porte ai clienti israeliani, in quanto «responsabili di un genocidio». Come se le eventuali colpe dei governi ricadessero sulle persone. La Regione si dissocia, poi arrivano le scuse.
di Paolo Del Debbio
Una volta, sulla porta di alcuni ristoranti e anche di alcuni alberghi, c'erano dei cartelli raffiguranti un cane con scritto «Io non sono gradito». Chissà se questo albergatore di questa struttura di Selva di Cadore, sulle Dolomiti, in particolare il titolare dell'Hotel Garni Ongaro, metterà la stella di David e delle foto rappresentanti degli ebrei sulla porta e sui suoi social scrivendo «Io non sono gradito». Questo signore si è reso responsabile di un gesto indegno perché, a pochi giorni dall'arrivo di due ospiti ebrei da Tel Aviv, ha scritto un messaggio su Booking che dice così: «In quanto responsabili di genocidio, non siete clienti bene accetti». L'antisemitismo alberghiero non lo avevamo ancora conosciuto, conoscevamo quello animale ma, evidentemente, questo «signore» non fa distinzione. Ciò che lo caratterizza è un'ignoranza talmente grossa che non meriterebbe neanche di spendere parole per commentarla. Cosa c'entrano gli israeliani e gli ebrei con il genocidio di cui parla questo tale? Forse tutto il popolo ebreo israeliano è responsabile delle politiche (pur non condivisibili) del premier israeliano, Benjamin Netanyahu? Cosa vuol dire «responsabili del genocidio»? Vuol dire che ogni ebreo israeliano è responsabile in prima persona di quello che fa il governo del suo Paese? E poi, non una parola su quello che il 7 ottobre dell'anno passato ha fatto Hamas nei confronti di Israele? Sarebbero ben venuti i terroristi di Hamas nell'albergo del «signor» Ongaro? Una bella colonia di terroristi palestinesi, ospitati nel suo albergo a Selva di Cadore, rappresenterebbe un segno di progressismo e rivoluzione culturale contro gli indegni ebrei a favore dei paladini terroristi di Hamas? Se da questo tipetto arrivassero un gruppo di iraniani li ospiterebbe o no e se venissero dalla Corea del Nord? E se venissero dalla Cina, dove non proprio tutti i diritti umani sono rispettati? Forse si sognerebbe di attribuire a due turisti cinesi o coreani o iraniani la responsabilità complessiva di quello che avviene nel loro Paese?
Qualcuno fornisca in fretta a questo scellerato un manuale di storia e uno di geografia contemporanea, o anche semplicemente l'annuario edito ogni anno da De Agostìni, così potrà studiare tutti i regimi di tutti i Paesi, vedere dove ci sono delle violazioni dei diritti umani e respingere tutti i cittadini di Stati dove i governi abusano del loro potere. Strano modo di concepire la democrazia: punire i cittadini per educare i governanti, non accogliere i due israeliani per colpire Netanyahu.
Per fortuna i suoi colleghi albergatori si sono dissociati dal suo comportamento e così ha fatto anche il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. D'altra parte, il caso è talmente assurdo e l'antisemitismo è talmente evidente che sarebbe stato difficile non pronunciarsi contro le follie di questo albergatore, che infatti ieri in serata è stato costretto a scusarsi.
Mentre scrivo «follie» mi viene alla mente che, purtroppo, questo albergatore, in oltraggio a qualsiasi tipo di libertà religiosa e di diritto alla libertà di professione religiosa, è uno che magari ci ha anche ragionato, a suo modo. Certo, la decisione è folle ma più grave è il ragionamento che ci sta dietro. Gli ebrei, in quanto tali, sono comunque persone da rigettare, da escludere, da mettere all'angolo, anche ove siano due pacifici turisti che vogliono godere delle bellezze del Veneto per qualche giorno.
No, niente accesso all'albergo ideologico (nuova forma di albergo che non rigetta chi non paga ma chi è ritenuto indegno dal titolare da un punto di vista religioso e ideologico, razzismo alberghiero, ci mancava pure questo).
Ora voi capite bene che la questione e gravissima, non solo per gli aspetti simbolici, cioè di una struttura ricettiva che di per sé deve essere aperta a tutti, fuorché a soggetti che non rispettino i regolamenti e le leggi che tutelano gli alberghi stessi. Ma si tratta di una questione sostanziale perché, se nella civilissima Italia, un albergo si permette di discriminare potenziali clienti sulla base delle strampalate e irricevibili convinzioni del gestore dell'albergo, di che tipo di turismo stiamo parlando? Abbiamo parlato tanto male, e giustamente, in Italia, del turismo sessuale nei Paesi dell'Est, anche da parte degli italiani che andavano là per poter usufruire del corpo di bambine o bambini minorenni. Non dovremmo forse indignarci per questa specie di turismo razziale di questo, che non so definire, che ha proibito l'ingresso a due israeliani perché responsabili del genocidio? Ignoranza, non conoscenza del diritto, della storia di un popolo, di come funziona normalmente la ricezione turistica. Insomma, un accumulo di macerie di ignoranza e di insensibilità che fanno paura e non rendono ragione agli albergatori del Veneto e agli operatori turistici che fanno, di quella regione, una regione accogliente, come del resto altre regioni italiane, nei confronti di tutti, a prescindere da tutto, fatta eccezione per il rispetto della legge. Che schifo.
(La Verità, 16 novembre 2024)
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«La decisione è folle ma più grave è il ragionamento che ci sta dietro». Proprio così, perché lo stesso ragionamento si trova certamente nella mente di tanti altri criptoantisemiti che hanno soltanto l'accortezza di non scivolare in un'uscita stupida come quella dell'albergatore di Selva di Cadore. M.C.
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Nella soffitta di Anne Frank. Gli ebrei di Amsterdam ci raccontano la fine dell’illusione multiculturale
“Questa non è più la nostra città”
di Giulio Meotti
Jodenjacht, “caccia agli ebrei”. Un’espressione olandese che nel 1944 ha segnato la storia di Amsterdam al numero 263 di Prinsengracht, dove c’è la casa di Anne Frank, e di nuovo quella del 2024, durante una settimana in cui gli olandesi commemoravano la Kristallnacht. Una chat di gruppo WhatsApp filopalestinese aveva chiesto una “caccia ai cani ebrei” la sera prima della partita tra Ajax e Maccabi. Sapevano dove alloggiavano gli israeliani. Sapevano quali hotel, quale strada avrebbero preso al termine della partita. Era tutto organizzato. Tassisti, autisti di uber, motociclisti.
In un anno, l’Olanda ha registrato la metà degli attacchi antisemiti che si sono verificati in Francia. Ma rispetto al numero degli abitanti, il dato è molto più preoccupante, perché la popolazione olandese è tre volte e mezzo inferiore a quella francese e la sua comunità ebraica è molto più piccola per tragiche ragioni storiche (il 75 per cento è stata uccisa durante la Seconda guerra mondiale, rispetto al 30 per cento in Francia).
“Nessun ebreo che conosco salirà più su un Uber o su un taxi ad Amsterdam senza prima controllare che la stella di David che indossa sia ben nascosta”, ha scritto il romanziere olandese Leon de Winter. Nella notte in cui centinaia di tifosi di calcio hanno temuto per la propria vita, la comunità ebraica è entrata in azione. Hanno aiutato gli israeliani braccati fornendo riparo per la notte e un passaggio per l’aeroporto di Schiphol, dove avrebbero atteso i voli speciali della El Al israeliana arrivati da Tel Aviv.
Quattro giorni dopo le autorità di Amsterdam accusano le vittime di essersela cercata. Nel suo primo rapporto sulle aggressioni di massa ai tifosi di calcio israeliani ad Amsterdam, il comune della città a guida di sinistra li ha accusati di aver intonato “canzoni odiose e razziste contro gli arabi”. Un cambiamento di 180 gradi rispetto alla retorica dei funzionari della città finora, inclusa la dichiarazione del sindaco Femke Halsema secondo cui “non ci sono scuse” per le aggressioni. Jazie Veldhuyzen, membro del consiglio comunale di sinistra di Amsterdam, è tra i manifestanti arrestati e rilasciati. Poi la sindaca è andata a incontrare un gruppo di manifestanti: alcuni avevano il passamontagna e la fascia verde dell’ala militare di Hamas.
Amsterdam è una delle città più cosmopolite del mondo, con residenti provenienti da 180 paesi. Gli olandesi non sono la maggioranza, né lo sono quelli di origine europea. Quindici anni fa, gli olandesi costituivano il 50 per cento della popolazione, oggi sono scesi al 44 per cento. Il gruppo più numeroso dopo gli olandesi sono i marocchini, seguiti dagli immigrati dal Suriname, 63 mila, e dalla Turchia, 45 mila. Amsterdam avrebbe dovuto essere come Berlino, Londra e Parigi: un rifugio per gli oppositori degli stati nazionali e i sostenitori delle frontiere aperte e del multiculturalismo. Un modello di città libera e aperta, ma non avevamo bisogno del Maccabi Tel Aviv per sapere che era un’illusione.
Vista da davanti, la sinagoga dell’Aia non è riconoscibile, due spesse porte verdi presentano una facciata chiusa sulla strada. Ad Amsterdam, la scuola elementare ebraica ha livelli di protezione ancora più distopici, nascosti dietro diversi strati di metallo e recinzioni. Dall’esterno, la vista della scuola è completamente chiusa. Molte famiglie hanno tolto dagli stipiti della porta di ingresso la mezuzah, che li avrebbe resi identificabili come ebrei.
Amsterdam era già stata teatro di proteste pro palestinesi, tra cui una avvenuta a marzo davanti al Museo della Shoah, quando il presidente israeliano Isaac Herzog ha partecipato alla sua inaugurazione.
In una cerimonia ad Auschwitz lo scorso gennaio, a cui hanno partecipato ex presidenti, primi ministri e leader parlamentari di vari paesi (dall’Italia Matteo Renzi), Bianca Sirdzinka, studentessa ebrea dell’Università di Groningen nei Paesi Bassi, ha raccontato: “La situazione per gli studenti ebrei è terribile! E’ spaventoso camminare per le strade. Studenti del Memoriale dell’Olocausto sono stati presi di mira con il lancio di pietre. Rivelare la propria origine è rischioso; bisogna nascondersi. La nostra sicurezza è compromessa e l’antisemitismo è dilagante”.
Intanto anche la celebrazione ebraica di Hanukkah nella città olandese di Enschede prendeva una piega strana, dopo che il sindaco ha rifiutato di farsi vedere vicino all’ambasciatore israeliano. La sinagoga di Enschede aveva invitato il sindaco Roelof Bleker alla celebrazione di Hanukkah e gli aveva riservato un posto accanto all’ambasciatore israeliano, Modi Ephraim. Ma poche ore prima, la sinagoga ha ricevuto una telefonata da Bleker. “Il sindaco non vuole sedersi accanto all’ambasciatore e non vuole stringergli la mano”. La piccola comunità ebraica di Enschede – 45 ebrei in totale – era già frustrata dal primo cittadino, che ha respinto le loro richieste di maggiore sicurezza dopo il 7 ottobre, nonostante un’ondata di attacchi antisemiti.
Al Foglio, lo scrittore ebreo Leon de Winter non nasconde il suo pessimismo: “Da molti anni gli ebrei ad Amsterdam non vogliono farsi riconoscere come ebrei. In una-due generazioni, se ne saranno andati dall’Europa”. All’Aia una scuola ebraica ha rimosso la targa in onore dei sopravvissuti alla Shoah nel timore di atti di vandalismo. La polizia non ha permesso a una famiglia di esporre la sukkah fuori dalla casa.
“L’impatto della notte dell’attacco è molto significativo, siamo ancora troppo vicini a quanto successo, ma le persone sono molto impaurite, abbiamo perso la fiducia nel governo e nella polizia”, ci racconta Elliott Hollander, ebreo olandese tornato ad Amsterdam da Israele per lavorare per un’azienda di servizi. “Dal 7 ottobre c’è stata una accelerazione. Da qui a dieci anni, temo sia finita. Io me ne andrò. Mi piaceva tornare nel mio paese, ma il 7 ottobre come ebreo mi ha messo in una posizione diversa. Prima l’apertura del museo della Shoah, dedicato alla memoria degli ebrei gasati in Germania. Sopravvissuti e famigliari erano presenti: il sindaco con il capo della polizia hanno accettato che una manifestazione palestinese si tenesse di fronte al museo. Gli ebrei sono dovuto passare davanti a questa gente, tra urla, sputi, accuse che eravamo ‘assassini di bambini’. Il 7 ottobre poi abbiamo tenuto una commemorazione dei morti israeliani. E quel giorno hanno manifestato nuovamente in Piazza Dam, davanti a noi. E ora l’attacco durante la partita. Dalla stazione al mio ufficio è come camminare per Teheran: se portassi una kippah non arriverei senza danni al lavoro. E tutto è accettato per politicamente corretto, paura e ideologia. Gli ebrei, amici ebrei, rimuovono la kippah e tolgono la mezuzah. Evitano certi quartieri di Amsterdam. Ai miei figli ho detto di non parlare ebraico in centro. Ma gli olandesi, persone con cui lavoro, se ne fregano. Io me ne andrò, ma l’Europa sarà completamente fottuta. Anche se ho un po’ di ottimismo: vedo le persone stanche di come sta tutto precipitando”.
Qualche anno fa, un gruppo di ragazzine ebree della stessa età di Anne Frank dichiarava al quotidiano Het Parool che non sarebbe più uscita di casa con al collo la stella di David: erano state picchiate per strada da una banda di immigrati. Lo aveva previsto l’ex eurocommissario sotto Romano Prodi, Frits Bolkestein, il guru dei liberali che lanciò un invito choc: “Gli ebrei non hanno futuro qui e dovrebbero emigrare negli Stati Uniti o in Israele”. La denuncia di Bolkestein era contenuta in un libro, “Het Herval”, scritto da Manfred Gerstenfeld. Fra i primi leader politici a reagire alla “proposta” di Bolkestein ci fu proprio Femke Halsema, allora deputata ecologista e oggi sindaco di Amsterdam, la quale si chiese se l’ex commissario europeo non si fosse “kierewiet”, rimbambito. Il ministero della Giustizia dell’Aia è ricorso anche a metodi a dir poco fuori dal comune. Poliziotti vestiti con gli abiti della tradizione ebraica ortodossa che si fingono ebrei. Esche per le strade.
I suggerimenti di Bolkestein sono stati fatti propri anche da un’eminente rappresentante della comunità ebraica di Amsterdam, Bloeme Evers-Emden. Sopravvissuta ad Auschwitz, professoressa dell’università della città, la donna afferma di aver detto a figli e nipoti di lasciare il paese e che una sola direzione si offre loro: Israele. “I problemi non toccheranno me fintanto che sarò viva, ma consiglio fortemente ai miei figli di andarsene dall’Olanda”. La secolare sinagoga di Weesp è diventata la prima che in Europa, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha cancellato i servizi di Shabbat a causa delle minacce alla sicurezza dei fedeli.
Ayaan Hirsi Ali, che è stata una deputata liberale olandese e la collaboratrice di Theo van Gogh per il film “Submission”, racconta che c’è un problema di infiltrazione islamica nella polizia. “Conosco bene Amsterdam. Per molti anni ho vissuto nei Paesi Bassi. Vent’anni fa è stato implementato un piano ben intenzionato per incoraggiare la partecipazione delle minoranze etniche in tutte le aree in cui sono sottorappresentate. La polizia e le agenzie di sicurezza erano considerate ‘troppo bianche’. Gli islamisti (Fratellanza musulmana) hanno adottato la strategia dell’islamizzazione attraverso la partecipazione. Quindi l’impazienza dell’establishment di sinistra di accelerare il processo di partecipazione ha portato all’abbassamento degli standard per le minoranze. I controlli sono diventati sempre meno rigorosi. Ricordo bene quando facevo affidamento sulla protezione della polizia olandese per assicurarmi di non subire la stessa sorte del mio amico Theo van Gogh, che era stato accoltellato a morte da un jihadista nelle strade di Amsterdam. Un giorno, uno degli agenti assegnati alla mia scorta di sicurezza si è rivelato di origine turca. Mi sentii a disagio quando iniziò a criticarmi per il mio lavoro con van Gogh su ‘Submission’. Quando espressi le mie preoccupazioni, il suo superiore mi disse che non spettava a me, a lui era stato affidato il compito di proteggermi. Dovevo imparare un nuovo tipo di sottomissione. Oggi, gran parte della forza di polizia di Amsterdam è composta da migranti di seconda generazione provenienti dal Nord Africa e dal medio oriente”. Dal 7 ottobre, alcuni ufficiali si sono già rifiutati di sorvegliare luoghi ebraici come il Museo dell’Olocausto.
“Per anni l’antisemitismo è cresciuto e nessuno voleva sentire”, ci racconta il rabbino capo d’Olanda, Binjamin Jacobs. “E cresce ogni giorno. I nuovi olandesi, i musulmani, stanno crescendo in numero. Non mi hanno meravigliato le scene di Amsterdam. Va avanti da cinquant’anni. La polizia non vuole che prendere i mezzi pubblici. Qualche settimana fa c’è stato un mega evento alla sinagoga portoghese: mai visti tanti poliziotti, incredibile”. Tutti i sette figli del rabbino capo Jacobs, tranne due, hanno lasciato l’Olanda per Israele e altrove. “Sono arrivato in Olanda nel 1975 e capii subito che sarebbe successo. Rimarremo in numeri sempre più piccoli. Ho un figlio in Olanda, uno a Londra e uno a New York. Poi le figlie: una in Olanda, una a Montreal e un’altra a Londra. Sono come il capitano in servizio su una nave che affonda”.
Qualche mese fa, l’unica scuola ebraica ortodossa dei Paesi Bassi ha chiuso a causa dei rischi per la sicurezza. La scuola Cheider di Amsterdam ha deciso di fornire lezioni online agli alunni. La comunità ebraica di Groningen ha smesso di pubblicare online gli orari delle preghiere. Un gruppo di volontari manda messaggi agli amici via WhatsApp.
“Dopo l’attacco, le persone hanno tre emozioni”, dice al Foglio Esther Voet, direttrice del settimanale ebraico olandese, il Nieuw Israëlietisch Weekblad. “Le persone hanno paura. Sono molto tristi, specie la generazione più anziana. I giovani sono arrabbiati”. Voet ha offerto la sua casa a persone che cercavano rifugio dalle strade del centro. Unendo le forze con un collega che guidava per Amsterdam raccogliendo israeliani spaventati all’idea di uscire, Voet ha ospitato dieci persone nella sua casa tra l’una di notte e l’una di pomeriggio di venerdì. “E’ stato un movimento organizzato a Amsterdam, dove dopo il 7 ottobre ci sono state molte dimostrazioni violente. Vivo a duecento metri dalla casa di Anne Frank. Le autorità non intervenivano. Speravano che passasse. Il 10 marzo di quest’anno c’è stata l’apertura del museo della Shoah. Ed è stato orribile, le autorità hanno consentito ai manifestanti di urlare fuori dalla famosa sinagoga portoghese, mentre il re parlava all’interno. Il sindaco ha dato a questi gruppi il diritto di avvicinarsi a questa cerimonia. Da allora, altre manifestazioni hanno avuto luogo, specie all’università, che hanno distrutto facendo quattro milioni di danni. Poi una commemorazione il 7 ottobre a Piazza Dam e ancora il sindaco ha consentito ai filopalestinesi di arrivare vicino alla commemorazione. Sapevamo che prima o poi sarebbe diventata fisica”. E’ stata organizzata, erano pronti. “E ora molti ebrei si nasconderanno. Questa non è più la mia città. Gli ebrei sanno che per loro non c’è più Mokum, come chiamano Amsterdam. Non posso neanche andare al negozio vicino casa senza vedere una bandiera palestinese alle finestre. Ma non vedrai mai una bandiera israeliana, è troppo pericoloso. Non andrà meglio, soltanto peggio. Questo è il paese dove gli ebrei non avevano mai avuto un ghetto in Europa. Ma è tutto finito. E ora non mi interessano più le parole delle autorità, che in molte zone di Amsterdam hanno persino paura a entrare”.
Macabra, ma giusta, l’ironia di un sito americano: “Questa settimana il museo Anne Frank di Amsterdam rimarrà chiuso: ci sono cento ebrei nascosti nella soffitta”. Mokum è diventata la Mecca sul fiume Amstel.
Il Foglio, 16 novembre 2024)
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In Europa è caccia al cristiano: oltre 2.400 aggressioni in un anno
Boom di attacchi e profanazioni in Francia, Germania, Inghilterra, E il dato è al ribasso
di Giuliano Guzzo
Oltre 2.400 crimini d'odio anticristiani in Europa in un anno, sei e più al giorno. È lo sconvolgente quadro che filtra dalle 55 pagine di Intolerance and discrimination report 2024, l'ultimo rapporto - relativo allo scorso anno - redatto dall'Osservatorio sull'intolleranza e la discriminazione dei cristiani di Vienna (Oidac), una realtà che dal 2010 monitora costantemente la situazione europea classificando e fornendo dati oggettivi, affidabili e comparabili sulla cristianofobia. Guidato dall'austriaca Anja Hoffmann, 31 anni, che ne è direttrice esecutiva, questo Osservatorio redige annualmente dei rapporti che, per descrivere l'intolleranza dei cristiani in Europa, si servono di dati raccolti con una varietà di metodi e fonti, per garantire accuratezza e completezza.
Nell'ultimo di tali documenti, diffuso ieri, si certifica come nel 2023 Oidac abbia conteggiato 793 episodi - inclusi casi di furto - , 501 dei quali sono stati classificati quali crimini d'odio anticristiani. Questi dati sono stati incrociati con i 2.111 crimini d'odio anticristiani registrati dalle polizie europee e, scartando quelli già registrati da Oidac, si è giunti a un numero complessivo di 2.444 crimini d'odio in 35 Paesi. Un numero, con ogni probabilità, che è pure una sottostima. Sono infatti appena cinque i Paesi le cui forze dell'ordine classificano gli atti di violenza come anticristiani: Austria, Finlandia, Francia, Germania e Regno Unito (Inghilterra e Galles). Posto quindi che la già allarmante cifra di 2.444 crimini d'odio anticristiani è con ogni probabilità una stima al ribasso, Oidac segnala come quasi il 10% di essi - 232, per l'esattezza - riguardi attacchi personali contro i cristiani: molestie, minacce, violenza fisica, anche un tentato omicidio.
Per Oidac i Paesi dove la situazione è più grave sono tre. Il primo è la Francia, dove nel 2023 gli atti d'odio anticristiani sono stati quasi 1.000, il 10% dei quali contro cimiteri e chiese ma con anche 84 casi di aggressioni ai danni di persone fisiche; come il caso di due suore che, nel marzo dello scorso anno, hanno deciso di lasciare la città di Nantes dopo essere state «sottoposte a percosse, sputi e insulti», Per non parlare degli incendi dolosi ai luoghi di culto, tutt'ora in aumento se si pensa che, se ci furono otto casi confermati nel 2023, nei primi dieci mesi del 2024 sono saliti a 14.
La situazione non è più rosea nel Regno Unito, secondo Paese attraversato dall'odio anticristiano e dove, nel 2023, ci sono stati 702 casi di cristianofobia, il 15% rispetto all'anno precedente. Un aumento ancor più consistente si è verificato in Germania, dove gli atti d'odio anticristiani dal 2022 al 2023 hanno fatto segnare un'impennata del 105% .
E da noi? Per la nostra Penisola, come in realtà pure per altre nazioni, Oidac fa affidamento solo al proprio database e segnala comunque come, lo scorso anno, gli atti d'odio anticristiano in Italia siano stati numerosi. Quanti? Sessantacinque, ben più di quelli di Paesi come la Spagna (54) e l'Austria (23). Benché non se ne parli quasi mai sui mass media, dove si preferisce liquidare le profanazioni di chiese e cimiteri nonché le distruzioni di presepi come meri atti di vandalismo - quando non come ragazzate - , anche nel nostro Paese l'odio anticristiano si fa insomma sentire. Ma è tutta l'Europa dei «nuovi diritti» e che si focalizza quasi esclusivamente sulle discriminazioni solo verso le minoranze a sottovalutare un'ondata di violenza che anno dopo anno appare sempre più minacciosa.
(La Verità, 16 novembre 2024)
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