La riconciliazione tra Turchia e Israele parte dal gas
ANKARA - Turchia e Israele sono pronte a collaborare per esportare in Europa il gas del Mediterraneo orientale. E' il dato più importante emerso dall'incontro ad Istanbul tra i ministri dell'Energia dei due paesi, l'israeliano Yuval Steinitz e quello turco Berat Albayrak, a margine del Congresso mondiale dell'energia. Steinitz è stato il primo esponente del governo di Gerusalemme a recarsi in Turchia da quando i due paesi hanno siglato l'accordo di riconciliazione a giugno scorso, al termine di un lungo periodo di trattative diplomatiche per risolvere la crisi seguita ai fatti del maggio 2010 sulla nave turca Mavi Marmara.
(Agenzia Nova, 15 ottobre 2016)
Israele e i contrasti di Tel Aviv
di Giuseppina Serafino
Dopo le grandi aspettative di un viaggio "fai da te" in Israele, denso di ansie per i possibili pericoli in una terra che avvertivo come culturalmente "esplosiva", ecco l'arrivo a Tel Aviv. Profonda la sensazione di disorientamento fra i grattacieli di quella che pareva Manhattan, acuita ancora più da frotte di scalmanati con travestimenti carnevaleschi per il Purim, in ricordo della liberazione della schiavitù persiana.
Strano vedere passeggiare sulla spiaggia odalische o schiere di creature che parevano reduci da una sfortunata battuta di caccia. Per il resto ci si aggirava in una vera e propria palestra a cielo aperto dove la cultura del fisico sembra l'unico valore preponderante sui 13 chilometri che lambiscono il mare.
Da Herzliya nel nord fino al centro storico di Giaffa (Jaffa) e a Bat Yam ancora più a sud, la città ha sviluppato un grande assortimento di aree per il divertimento e la vita notturna, così come nel vecchio porto. Dal punto di vista culturale spiccano alcuni musei come quello della diaspora (Bet Hatefuzot) situato nel campus dell'Università di Tel Aviv. Nelle vicinanze si trova il Museo Eretz Israel, che ripercorre gli sviluppi dei mestieri e dei commerci del Paese, non lontano si raggiunge il Museo del Palmach, una struttura interattiva che documenta la storia delle principali unità paramilitari attive prima dell'indipendenza di Israele.
Vicino al centro della città si può visitare il Museo dell'Arte di Tel Aviv, con dipinti che vanno dai vecchi maestri olandesi, agli impressionisti, insieme a una collezione dei più noti artisti israeliani del XX secolo. Piazza Balik, nel centro storico della città, offre l'opportunità di notare una varietà di stili che documentano lo sviluppo dell'architettura a Tel Aviv. L'edificio del Vecchio Municipio, ristrutturato anni fa, espone l'ufficio di Meir Dizengoff, il primo Sindaco della città, completo degli arredi e dei cimeli di quel tempo.
Ma ciò che colpisce di più è l'antico porto di Giaffa, per secoli la porta d'accesso dei pellegrinaggi in Terra Santa, che venne utilizzato come porto sia da re Salomone che dal re Erode, affascina per i vicoli stretti e l'antico porto dei pescatori che fa da contrasto alla modernità di Tel Aviv con cui è collegata a nord. Caratteristico è il vecchio Shuk Hapishpeshim, il Mercato delle Pulci, situato all'ingresso nord di Giaffa da dietro l'angolo della suggestiva Torre dell'Orologio del tardo periodo Ottomano. Qui si avverte un colorito spaccato di umanità che ben si accosta all'affascinante miscuglio di merci di ogni sorta.
All'interno delle mura di cinta della Città Vecchia è stato fatto un grande investimento per sviluppare la centrale piazza Kedumim e ricostituire il Centro Visitatori della Vecchia Giaffa. Molteplici sono le sfaccettature di questa grandiosa città che trasmette un profondo senso di smarrimento ma che inebria per le diverse suggestioni che offre sul piano dei contrasti architettonici e degli stili di vita. La speranza è quella di ritornarvi presto per scoprire i molteplici volti di una realtà poliedrica e fortemente coinvolgente.
(Non solo turisti, 15 ottobre 2016)
In Germania 75 anni fa primi deportati ebrei
BERLINO - Settantacinque anni fa cominciarono le prime deportazioni di massa degli ebrei da parte dei nazisti. Lo ricordano la Spd e il Pse.
In Germania, oggi, i politici hanno ricominciato ad usare alcune parole del lessico nazista. Alcuni esempi: il movimento xenofobo di estrema destra Pegida parla spesso di 'Lügenpresse' ('stampa bugiarda'), che fu un termine usato da Hitler negli anni Venti. I manifestanti anti Merkel hanno sovente striscioni con il termine 'Volksverräter' ('traditori del popolo'), parola spesso usata dai nazisti. A Dresda un manifestante aveva un cartello con una citazione di Goebbels.
Alcuni politici, come la leader di Pegida, Frauke Petry, usano l'aggettivo 'völkisch' ('etnico'), che fu una parola simbolo per il nazismo e la sua ideologia. Addirittura una politica della Cdu, Bettina Kudla, ha usato la parola 'Umvolkung', un termine che i nazisti usavano per definire la germanizzazione delle regioni conquistate dal Terzo Reich. In pratica il termine indica il cambio di una popolazione in una determinata regione.
(AGI, 15 ottobre 2016)
Unesco e Israele, Netanyahu: "Teatrino dell'assurdo"
"Dire che Israele non ha legami con il Monte del Tempio o il Muro Occidentale è come dire che la Cina non ha legami con la Grande Muraglia o l'Egitto con le piramidi". Così il premier israeliano Netanyahu ha annunciato la decisione di sospendere la cooperazione con l'Unesco dopo la risoluzione che disconosce i legami ebraici con i luoghi santi di Gerusalemme. "Siamo di fronte a un teatrino dell'assurdo"
(la Repubblica, 15 ottobre 2016)
Gli sterminatori della cultura ebraica
L'Unesco e le conseguenze di una decisione ridicola, e pericolosa.
di Marco Carrai
La decisione dell'Unesco di non legare all'ebraismo il Muro del Pianto e il Monte del Tempio è non solo sconcertante ma anche ridicola. L'Unesco con questa decisione ha probabilmente deciso di riscrivere la Bibbia e anche centinaia di anni di libri di scuola. Non me ne vogliano i funzionari dell'Unesco se paragono questa decisione a quelle prese da coloro che più volte nella storia millenaria hanno perseguitato e quasi sterminato il popolo ebraico. Io non so se sia una decisione presa per politica, per convinzione o per ignoranza e non so neppure quali delle condizioni sarebbe la peggiore. Nel primo caso l'Unesco entrerebbe in un campo che non gli è proprio. L'Unesco deve tutelare la storia e non riscriverla. Altrimenti nella apocalittica ipotesi che l'Isis non sia sconfitta, tra decine di anni l'Unesco probabilmente considererebbe patrimonio storico da dimenticare il Crac des Chevaliers, Palmira, la Chiesa di San Simeone e le altre centinaia di siti archeologici presi di mira. Nel caso in cui l'Unesco abbia preso la decisione per convinzione beh allora siamo difronte a una decisione nazista. E la parola è stata ben soppesata. Nel caso in cui invece sia stata per ignoranza nel significato proprio del termine allora non capisco come dei non portatori di conoscenza possano tutelare il patrimonio culturale mondiale. Forse però è stata presa per un insieme dei tre fattori che compongono una parola: ipocrisia. Per blandire un mondo culturale che in quei luoghi sta diventando dominante e cercare facendo torto alla propria intelligenza e anche coscienza di cambiare la storia in modo da farla sembrare anche convinzione comune. Per fortuna la mano invisibile dell'intelligenza umana molte volte supera la deficienza (nel senso latino di mancanza) intellettuale e culturale delle organizzazioni a essa preposta e ad esempio in Turchia secoli fa la bellissima e storica chiesa di Santa Sofia fu trasformata in moschea e poi in museo a protezione delle culture e della storia in essa custodite. Nessuno ha mai pensato di scrivere che Santa Sofia non era una chiesa e nessuno ha mai pensato che successivamente in Santa Sofia non si venerasse Allah.
(Il Foglio, 15 ottobre 2016)
L'Unesco abbatte il Muro del Pianto e Israele
Una risoluzione nega che a Gerusalemme vi sia un luogo di culto ebraico. E la pavida Italia non vota contro.
di Carlo Panella
«L'ebraismo non ha alcun rapporto col monte del Tempio di Gerusalemme»: questa incredibile, folle e irridente affermazione è contenuta in una risoluzione adottata tre giorni fa dall'Un esco su proposta della Autorità Nazionale Palestinese. E purtroppo l'Italia si è astenuta a fronte di questo delirio.
La questione non è astratta, ma tocca il nodo vero, profondo del contenzioso arabo-israeliano. La negazione dell'esistenza del Tempio sulla Spianata, a ridosso del Muro occidentale nega il cuore stesso dell'ebraismo e del suo rapporto bimillenario con Gerusalemme e quindi con Israele. Si accompagna infatti alla proclamazione della santità della Roccia solo ed esclusivamente per l'Islam. Si riallaccia alla proclamazione contenuta nel Corano, che Abramo, che appunto sulla Roccia fu chiamato da Dio a sacrificare Isacco, «è stato il primo Hanif, il primo musulmano». Dunque Abramo e il Tempio sono sottratti dall'Unesco all'ebraismo e diventano patrimonio religioso esclusivo dell'Islam. Una tesi talmente irreale, falsa e oltraggiosa che è stata duramente criticata dalla stessa Irina Bokova, direttrice dell'Unesco: «La Moschea di Al-Aqsa, o Al-Haram al-Sharif, il sacro santuario dei musulmani, è anche Har HaBayat, il Tempio del Monte, e il Muro occidentale del Tempio
Durissima la reazione israeliana. Il ministro della Educazione Naftali Bennet ha tuonato: «I terroristi di domani possono ricevere ispirazione e legittimazione dall'atto deplorevole dell'Unesco. Il mondo si deve opporre apertamente e ad alta voce alla risoluzione approvata dall'agenzia dell'Onu su proposta palestinese».
Non c'è esagerazione nel legame evocato da Bennet tra terrorismo islamico e negazione del Tempio ebraico, là dove con evidenza storica indubitabile sorgeva. Non a caso fu il filo nazista Gran Mufti di Gerusalemme Amin Al Husseini a far proclamare per la prima volta la negazione dell'esistenza del Tempio ebraico da un Congresso musulmano Mondiale nel 1929. Tutti i pogrom anti ebraici fino al 1939, la guerra per impedire che Israele nascesse, la guerra per distruggerlo del 1967, l'Intifada delle Stragi del 2001 e quella dei Coltelli iniziata l'anno scorso, erano tutti intesi a negare il carattere ebraico del Tempio. Per questo, tra il 1948 e il 1967 la Giordania, che occupava Gerusalemme, impedì agli ebrei di pregare davanti al Muro. 51 Stati arabi su 54 tuttora non riconoscono l'esistenza di Israele proprio a partire dalla negazione del Tempio. Tutto ha origine nella volontà di Maometto di legittimare la sua profezia come ultima rivelazione divina, sostenendo di essere stato portato sulla Roccia della Spianata di Gerusalemme e da lì di essere asceso in Paradiso in groppa al cavallo alato Al Buraq. Solo per questo Gerusalemme è città Santa anche per l'Islam. Dunque, una meta-storia islamica che ora i musulmani e incredibilmente anche l'Onu pretendono di sovrapporre alla storia.
Israele invece, occupata Gerusalemme e la Spianata nel 1967, ha proibito agli ebrei di pregare sulla Spianata e ne ha riconosciuto la gestione a un Wakf, istituzione islamica giordano-palestinese.
La presentazione della risoluzione da parte di Abu Mazen dimostra la volontà di usare l'Onu, non per facilitare la pace, ma per eccitare gli animi dei palestinesi e legittimare in pieno la stessa Intifada dei Coltelli.
In questo contesto, l'astensione dell'Italia è stata un gravissimo errore, a cui il ministro Gentiloni deve rimediare. Informalmente, la Farnesina sostiene che il nostro voto ha impedito che altri Stati europei votassero la risoluzione. Ma oltre gli Usa, anche Germania, Olanda, Gran Bretagna, Lituania e Estonia hanno votato un sacrosanto «no». L'abituale caos europeo non può vedere l'Italia cedere, con un'opportunistica astensione, di fronte alla tracotanza di una posizione palestinese e araba che punta a esacerbare il conflitto e renderlo irrisolvibile, eccitando una vera e propria guerra dell'Islam contro l'ebraismo.
(Libero, 15 ottobre 2016)
Unesco in stile Isis, ora mutila Israele
Con una risoluzione, rasi al suolo quattromila anni di Gerusalemme ebraica. L'agenda qatariota-islamista e le scuse contraddittorie della Bokova. Intanto la cultura e le democrazie tacciono e acconsentono.
di Giulio Meotti
Irina Bokova, direttore generale dell'Unesco
Sulle rovine di Palmira distrutte dall'Isis, l'Unesco e la cultura (anche italiana) si sono scandalizzati e mobilitati. Due giorni fa, un simile furore negazionista si è abbattuto sulla città santa di Gerusalemme, ma stavolta non soltanto l'Unesco ha favorito il vandalismo, ma gran parte delle democrazie occidentali sono rimaste a guardare (Italia compresa). L'Unesco ha approvato una mozione in cui cancella de facto la storia millenaria della Gerusalemme ebraica. Si nega ogni rapporto fra l'ebraismo e il Monte del Tempio e il Muro del Pianto, il primo luogo santo degli ebrei, da oggi non va più chiamato con l'ebraico "Kotel", ma con l'arabo "al Burak". Ieri Irina Bokova, direttore generale dell'Unesco, è corsa ai ripari dicendo che "l'eredità di Gerusalemme è indivisibile, e ciascuna delle sue comunità ha diritto al riconoscimento esplicito della sua storia e del rapporto con la città".
Ammenda tardiva: per l'Unesco, a Gerusalemme, la storia degli ebrei diventa il mito di colonizzatori destinati a essere spazzati via. Il governo israeliano ha interrotto i rapporti con l'Agenzia. "Qual è il prossimo passo dell'Unesco, negare il legame fra Batmam e Robin?", ha chiesto il premier Benjamin Netanyahu. Soltanto sei paesi hanno votato contro: Stati Uniti, Gran Bretagna, Lituania, Olanda, Germania ed Estonia. I paesi arabo-islamici dominano ormai il board dell'Unesco: la mozione contro Israele è stata depositata dal regime islamico del Sudan, il cui presidente Bashir è ricercato all'Aia. Da anni l'Unesco collabora con l'Isesco, l'agenzia dell'Organizzazione della conferenza islamica propugnatrice di un suprematismo musulmano. Non solo l'Unesco ha intascato venti milioni di dollari dall'Arabia Saudita, ma il re Abdullah è stato insignito della medaglia Unesco per "la cultura del dialogo e della pace".
Il Qatar di recente ha donato dieci milioni all'Unesco e non è un mistero che il suo ministro della Cultura, Hamad bin Abdulaziz al Kuwari, sia favorito per diventare segretario dell'Unesco (il Qatar ha avuto un ruolo decisivo nella mozione antisraeliana). Alcuni giorni fa, al Kuwari era a Roma a sponsorizzare la propria nomina e ha raccolto una onorificenza all'Università Tor Vergata. La guerra dell'Unesco contro Israele è iniziata nel 1974, quando l'Agenzia votò per la cacciata d'Israele da quella esperanto culturale diretta da Amadhou M'Bow, estimatore dello statalismo sovietico più della democrazia liberale e che trasformò l'Unesco da costosa "fabbrica di carta" a tribuna per le crociate ideologiche del Terzo mondo e dei paesi dell'est. L'Amministrazione Reagan uscì dall'Unesco, dicendo che "in politica il criterio del porgere l'altra guancia significherebbe resa o, peggio, tradimento". Allora, le migliori intelligenze della cultura firmarono l'appello "Non lavoreremo per l'Unesco": "Israele non ha il diritto di esistere, dunque non esiste. L'annullamento spirituale giustifica in anticipo l'annientamento fisico: è un processo di sterminio messo a fuoco dai totalitarismi del XX secolo".
Firmarono Argan, Jemolo, Silone, Biagi, Dorfles, Foà, Gassman, Primo Levi, Montale, Montanelli, Sciascia, Soldati e Strehler. Persino il Papa, Paolo VI, fece pressioni sull'Unesco, e all'estero, dal filosofo Raymond Aron a scrittori come Dürrenmatt, Ionesco e Graham Greene, ad artisti come Joan Miró e Leonard Bernstein, abbracciarono il "caso Israele". Il Nobel per la Medicina André Lwoff disse che "la maggior parte degli stati che compongono la maggioranza all'Onu sono paesi per i quali la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è lettera morta". Quarant'anni dopo, la situazione è la stessa all'Onu, il negazionismo storico ha preso piede anche nei giornali occidentali, mentre si sente la mancanza di appelli contro questo attacco al patrimonio mondiale dell'umanità. Perché se gli ebrei non hanno legami con Gerusalemme, anche la storia cristiana è un'impostura secondo gli uomini dell'Isis in doppio petto che siedono nel palazzo dell'Unesco in cemento e vetro di Place de Fontenoy a Parigi.
(Il Foglio, 15 ottobre 2016)
Lo stato islamico di Gerusalemme
di Roberto Santoro
Con una risoluzione balzana, l'agenzia culturale delle nazioni unite, l'Unesco, ha cancellato le radici ebraico-cristiane di Gerusalemme. Il Monte del Tempio, luogo sacro all'ebraismo, diventa unicamente "Al Aqsa", la spianata delle moschee. E' un colpo basso sferrato al già pericolante principio "due popoli due stati", una decisione che danneggia le prospettive di pace tra Israele e palestinesi. Di stato, a quanto pare, ne resta solo uno: quello islamico.
La risoluzione è stata votata da 24 paesi, 6 contrari, 26 gli astenuti tra cui l'Italia. La Casa Bianca e i leader israeliani hanno condannato il testo, Washington l'ha giudicata una mossa "di parte", ricordando che l'Unesco non è nuova a sortite del genere. Gli Usa fanno sapere che continueranno a opporsi "a un uso politicizzato di questi meeting della organizzazione". Israele invece ha deciso di andarsene.
La direttrice dell'Unesco ha cercato di spegnere l'incendio, dicendo che "l'eredità di Gerusalemme è indivisibile, e ognuna delle sue comunità ha diritto al riconoscimento esplicito della sua storia e il suo rapporto con la città", ma al di là delle frasi fatte ormai sappiamo da tempo che le Nazioni Unite hanno un atteggiamento punitivo nei confronti di Israele, alimentando come in questo caso la tensione in uno dei luoghi storici del conflitto israelo-palestinese, ma soprattutto "fornendo supporto al terrorismo islamico", come ha detto il ministro dell'istruzione israeliano Bennett.
Venerdì un attacco di Isis nel Sinai ha fatto dodici vittime tra i soldati egiziani, ferendone altri sei. L'Egitto denuncia legami tra Isis e i palestinesi di Hamas: gli islamisti collaborano al confine tra Gaza e Sinai, scambiandosi armi e facendo contrabbando attraverso i tunnel costruiti a Gaza. Sempre secondo fonti egiziane, Hamas provvede a fornire "decine di migliaia di dollari" al mese all'Isis nel Sinai, oltre ad addestrare i combattenti del Califfato nel costruire e piazzare ordigni esplosivi improvvisati (IEDs) e ad usare batterie antimissile.
Gli "ufficiali" delle due gruppi terroristi si incontrano abitualmente sul confine. Almeno uno dei capibastone di Hamas sarebbe stato eliminato in uno scontro tra militari egiziani e Isis. L'intelligence definisce quella tra jihadisti e palestinesi della Striscia una "stretta collaborazione". Dall'ottobre di un anno fa l'Intifada dei coltelli insanguina Israele, diretta contro i civili, con morti e feriti.
A quanto pare il terrorismo che si alimenta della ormai decennale questione palestinese, destabilizzando tutta l'area, per l'Unesco non è un problema culturale. Per l'Unesco, Israele ha "invaso la spianata delle Moschee". Non c'è molto altro da aggiungere dopo aver letto frasi come questa.
L'Italia. Nel marzo del 2015, stesso governo, stesso ministro degli esteri, grazie a una mozione delle forze di centrodestra in maggioranza, il nostro paese legò il riconoscimento dello Stato di Palestina a una soluzione negoziale e condivisa, diversa da quella sponsorizzata dall'Onu, appiattita sulla visione unilaterale dei palestinesi, altra mossa che non ha aiutato il processo di pace.
Stavolta però il nostro governo si è comportato male, molto male, schierandosi con il vasto fronte dei "non allineati", astenendosi, un "ni" che la dice lunga anche sul peso rimasto alla componente di centrodestra nella maggioranza che sostiene Renzi quando c'è da far valere le proprie ragioni. Sui temi di politica estera, ormai ondeggiamo come l'albero di una nave in tempesta.
(l'Occidentale, 15 ottobre 2016)
Una sola parola: Miserabili
di Deborah Fait
Miserabili. E' la prima parola che mi è venuta in mente e che ho gridato non appena letta la notizia del voto aberrante dell'Unesco contro Israele.
Sì, miserabili ma, attenzione, non mi riferisco soltanto ai 24 paesi che hanno votato per cancellare ogni legame tra il Popolo ebraico e i propri luoghi santi, altrettanto miserabili sono gli astenuti, ben 26, Italia compresa.
Se costoro avessero avuto il coraggio e la preparazione storica di votare contro questa aberrazione, la risoluzione non sarebbe passata perché, con i 6 paesi che hanno votato contro (Germania, Estonia, Lituania, Olanda, Inghilterra, USA) la maggioranza sarebbe stata dalla parte di Israele, della verità storica e della giustizia.
La solita vigliacca Europa si è astenuta, solo 6 nazioni si sono opposte e tra queste, ripeto, non c'è l'Italia che, mettendo vergognosamente la testa sotto la sabbia, ha permesso alle peggiori dittature arabo/islamiche e non islamiche del mondo di negare ogni legame tra noi ebrei e i nostri luoghi santi.
Grazie a quell'indegno carrozzone antisemita che si chiama ONU e alle sue agenzie, tutti i luoghi sacri del mondo ebraico che si trovano in Giudea e Samaria sono stati dichiarati, uno dopo l'altro, "siti palestinesi":
Alla Tomba di Rachele (la Matriarca moglie di Giacobbe) è stato dato dall'Unesco, nel 1990, il nome arabo di Bilal Bin Rabah e trasformata in moschea.
La Tomba del patriarca Giuseppe, nel 2000, è stata anch'essa trasformata in moschea dopo che i palestinesi avevano dato fuoco all'edificio venerato da ebrei e cristiani e quando gli ebrei osano avvicinarvisi per pregare, vengono malmenati, aggrediti e, se capita, uccisi.
La Grotta dei Patriarchi e della Matriarche di Israele, detta in ebraico Me'arat HaMachpela, è stata consegnata alla "Palestina" col nome di Al Haram Al Ibrahimi.
Le tombe dei nostri patriarchi sono chiamate nel testo della risoluzione: "false tombe ebraiche". Israele viene nominato soltanto come "forza occupante".
La risoluzione Unesco, assurda, ignorante, antistorica, totalmente antisemita, il 13 ottobre 2016, il giorno dopo lo Yom Kippur , ha eliminato il nome originale ebraico del luogo più sacro per gli ebrei di tutto il mondo, il Monte del Tempio, Har HaBait, cambiandolo in "Al-Aqsa Mosque/Al-Haram Al-Sharif ", decretando che il sito è sacro solo per i musulmani.
Il Kotel, detto anche Muro del pianto per le lacrime che gli ebrei piangono da 2000 anni ricordando il loro Tempio distrutto, non si chiama più Kotel Hamaaravì (Muro occidentale) bensì "al Buraq " in onore dell'asina di Maometto.
Cancellando i siti storici di un popolo se ne cancellano automaticamente la storia e il diritto ad esistere, quindi di avere un Paese.
E' questo l'obiettivo dei palestinisti che da anni e anni lavorano, grazie ai soldi e alla simpatia di tutto il mondo antisemita, affinché diventi realtà ed è semplicemente spaventoso che della gente da sempre dedita al terrorismo e al parassitismo, riesca da avere un simile potere assoluto , dimostrazione di come sia caduto in basso l'Occidente.
L'Unesco ha eliminato più di 3000 anni di storia ebraica, i luoghi santi che sono da sempre l'essenza del Popolo di Israele sono stati spazzati via e consegnati agli arabi che naturalmente non hanno su di essi nessun diritto storico, religioso e politico.
Temo che questa non sia altro che la premessa per arrivare al peggio e toglierci anche Gerusalemme, la nostra Capitale "... gli ebrei non hanno una storia né un luogo sacro quindi nessun diritto... Israele non deve esistere e Gerusalemme non è altro che Al Quds, una città palestinista.." E' questo il senso malefico e demoniaco della risoluzione.
La cosa più stupida di questa ignominia è che l'Europa, che vanta radici ebraico cristiane e che si è nascosta dietro a un dito pur di non disobbedire all'islam, rischia di veder negata anche la propria storia cristiana.
Come la mettiamo con Gesù? Era ebreo (lasciamo stare le bestemmie palestinististe che lo dichiarano arabo palestinese), è stato circonciso a 8 giorni come prevede la legge ebraica. A 13 anni, età in cui i meschietti ebrei diventano religiosamente adulti (Bar Mitzvà), Gesù si è recato proprio al Tempio di Salomone a Gerusalemme per dissertare con i rabbini, da adulto è entrato in Gerusalemme per partecipare alla festa di Pesach (Pasqua ebraica).
Allora? Semplice, per l'Unesco tutto questo non è mai esistito quindi la cristianità chiuda i battenti. Su cosa si basa il Cristianesimo? Sui Vangeli che parlano della vita di Gesù, di ebrei, di giudei, di Gerusalemme, del Tempio degli ebrei, allora dal momento che tutto questo viene sconfessato lo sono automaticamente anche i Vangeli, esattamente come la Torà e... tutto diventa Islam.
Grandioso, no? La decisione drammatica, antistorica, revisionista, antisemita, anticristiana e negazionista dell'Unesco e' molto pericolosa e, a questo punto, è lecito chiedersi se qualcuno al Ministero degli Esteri italiano capirà che ogni presenza ebraica e cristiana a Gerusalemme e in Giudea è stata cancellata dai 24 voti in favore e dalla vigliaccheria dei 26 astenuti.
L'odio per gli ebrei è talmente radicato in Europa che quest'ultima arriva a mettere in pericolo addirittura la propria esistenza, il proprio Credo e la propria cultura assoggettandosi ai palestinisti, all'islam e alle spregevoli dittature che questi rappresentano.
Israele, per protesta, ha congelato ogni suo rapporto con l'Unesco, varie organizzazioni sioniste e amiche di Israele hanno già scritto al ministero degli Esteri, vorrei perciò invitare chi mi legge a scrivere, meglio se a gruppi ma anche individualmente, il proprio sdegno al Ministro Gentiloni, gabinetto@esteri.it e per conoscenza al premier Renzi .
Agli ebrei dico: BASTA, basta essere educati e civili, BASTA accettare in silenzio le prepotenze del mondo antisemita, ricordiamoci che la demonizzazione degli ebrei ha portato alla Shoà.
Adesso, quasi 80 anni dopo, tentano il colpaccio cancellando le nostre radici, rubando l'intera nostra storia, stuprando la verità per arrivare al raggiungimento del loro stramaledetto sogno, la distruzione fisica di Israele e di tutto il popolo ebraico.
Basta! Andiamo in piazza, manifestiamo, protestiamo civilmente come è nella nostra natura ma facciamo loro capire che non ci piegheranno, che noi esistiamo con tutto il nostro passato e il nostro presente e che Israele, sia come Stato che come Nazione ebraica, non sarà mai cancellato.
Diciamo BASTA!
(Inviato dall'autrice, 15 ottobre 2016)
E ora gli arabi si sentono offesi dal gas «sionista»
Per la terza settimana di fila, alcune migliaia di persone hanno preso parte ieri ad Amman alla dimostrazione contro l'accordo per l'importazione del gas israeliano da parte della Giordania. Secondo quanto riferisce la stampa giordana, i dimostranti hanno gridato slogan contro il finanziamento dello Stato di Israele attraverso l'importazione di gas. La protesta è stata organizzata dalle realtà sindacali e politiche che si oppongono al trattato di pace tra Giordania e Israele firmato nel I 994. L'accordo sottoscritto dalla compagnia elettrica giordana di acquisto del gas israeliano a partire dal 2019 per decine di miliardi di dollari ha provocato l'ira ad Amman delle organizzazioni palestinesi contrarie a ogni normalizzazione dei rapporti con lo stato ebraico. La stampa giordana parla di pressioni da parte degli Stati Uniti per la firma di questo accordo, il cui tramite è la compagnia statunitense Nobel Energy, sia sul parlamento giordano che sulla Knesset israeliana «per creare un clima di pace civile tra i due Paesi». L'accordo firmato dalla Giordania National Electric Power Company (NEPCO) e dalla Noble Energy prevede l'importazione di gas naturale dal giacimento Leviathan al largo della costa di Israele. Una decisione che ha portato alle proteste di piazza, dando vita alla «Campagna nazionale per rovesciare l'accordo del gas con l'entità sionista».
(Libero, 15 ottobre 2016)
Le autorità egiziane apriranno valico di Rafah nei prossimi giorni
IL CAIRO - Il valico di Rafah sarà aperto il 15 ed il 16 ottobre prossimi. Lo ha stabilito il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi, precisando che il transito sarà aperto anche dal 19 al 22 ottobre prossimi. L'apertura del valico consentirà alla popolazione residente nella Striscia di Gaza di reperire beni di varia natura ed avere accesso alle cure mediche. Nel corso degli ultimi tre anni il valico di Rafah è rimasto chiuso per la gran parte del tempo per ragioni di sicurezza. Il governo del presidente al Sisi, infatti, accusa il movimento palestinese di Hamas di sostenere i presunti terroristi che compiono attacchi proprio nel Sinai. La popolazione della Striscia di Gaza ha raggiunto negli ultimi giorni i due milioni di abitanti, secondo quanto riportato da fonti del ministero dell'Interno dell'Autorità nazionale palestinese.
(Agenzia Nova, 14 ottobre 2016)
La Spianata delle Moschee è sacra solo per i musulmani
L'Unesco ha adottato oggi una Risoluzione che ignora i legami dell'ebraismo con Monte del Tempio e mette in dubbio i legami col Muro del Pianto - Durissime le reazioni israeliane.
Israele contro Unesco: l'organizzazione dell'Onu ha infatti votato oggi una Risoluzione che, a giudizio dello stato ebraico, non riconosce i legami con il Monte del Tempio (come gli ebrei chiamano la Spianata delle Moschee a Gerusalemme) e il Muro del Pianto. Una decisione bollata dal premier Benyamin Netanyahu che l'ha definita "assurda" e che equivale a dire che "la Cina non ha legami con la Grande Muraglia o l'Egitto con le Piramidi".
La Risoluzione - presentata dai Palestinesi insieme ad Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan - è stata approvata da 24 paesi, respinta da 6 (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda). In 26 si sono astenuti, mentre i rappresentanti di 2 nazioni non erano presenti al momento del voto.
Nel provvedimento - che condanna Israele su vari temi riguardo Gerusalemme e i suoi luoghi santi - si sostiene, come hanno riferito i media israeliani, che la Città è sacra alle tre religioni monoteiste (ebraismo, islam e cristianità) ma che il Monte del Tempio lo è solo per i musulmani senza menzionare che è santo anche per gli ebrei. Per indicare il luogo non usa né il termine ebraico ('Har HaBayit') né quello inglese equivalente (Temple Mount). Ad essere adoperate sono invece le definizioni musulmane di 'Moschea di Al-Aqsa' e di 'Haram al-Sharif'.
Per quanto riguarda il Muro del Pianto, i media hanno sostenuto che nella Bozza di Risoluzione è menzionato con questo nome solo due volte, mentre per il resto si usa la definizione araba di 'Buraq Plaza'.
La mossa dell'Unesco - che già nello scorso aprile aveva adottato un simile provvedimento, votato anche dalla Francia con conseguente crisi diplomatica tra Parigi e il governo a Gerusalemme - ha suscitato l'ira di Israele. Netanyahu ha attaccato l'organismo denunciando che "continua il suo teatro dell'assurdo... Se non vogliono leggere la Bibbia almeno guardino ciò che è raffigurato sull'Arco di Tito a Roma e la Menorah che i romani rubarono a Gerusalemme dal Tempio. Anche l'imperatore Tito faceva propaganda sionista?"."Negare i legami ebraici con il Monte del Tempio - ha denunciato - è come negare quelli della Cina con la Grande Muraglia o quegli degli egiziani con le Piramidi".
Stesso tono da parte del presidente Reuven Rivlin secondo cui "nessun forum o organizzazione nel mondo può recidere i legami tra il popolo di Israele e la Terra di Israele e Gerusalemme". Anche il leader dell'opposizione, il laburista Isaac Herzog, ha alzato la voce: "Su questa materia non c'è disaccordo tra il popolo di Israele. Esorto l'Unesco a ritirare questa bizzarra Risoluzione ed a impegnarsi nel proteggere, e non distorcere, la storia umana". E l'ambasciatore israeliano a Roma Ofer Sachs ha bollato "la vergognosa decisione di oggi" dell'Unesco che dimostra che "se si ha una maggioranza automatica, si può anche decidere che il mondo sia piatto".
Nella vicenda Israele ha comunque incassato un punto: secondo l'ambasciatore all'Unesco Carmel Shama-Hacohen "i Palestinesi hanno perso ogni appoggio in Europa, inclusa la Francia, la Spagna e anche la Svezia". Poi ha fatto notare che anche Paesi come l'India e l'Argentina "si sono astenuti" e che questo costituisce un risultato per Israele che in questi giorni aveva diffuso in seno all'Unesco una brochure nella quale si ripercorrevano i legami storici tra l'ebraismo, il Monte del Tempio e il Muro del Pianto.
(Corriere del Ticino, 13 ottobre 2016)
La presidente Di Segni: "Unesco, su Gerusalemme voto aberrante"
"Con un voto sconcertante e fuori dalla storia, su cui anche l'Italia porta delle responsabilità, il Consiglio esecutivo dell'Unesco ha avallato la pretesa di alcuni paesi arabi di sradicare ogni riferimento alla radice ebraica dall'area della Città Vecchia di Gerusalemme in cui sorge il Muro Occidentale, il luogo più sacro agli ebrei di tutto il mondo. Gerusalemme, la capitale unica e indivisibile di Israele. Città nella quale oggi, tutte le fedi trovano il loro spazio, garantito dallo Stato, per professare liberamente il proprio credo", così la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni ha commentato la risoluzione votata ieri dall'Unesco, organizzazione delle Nazioni Unite dedicata alla tutela dei patrimoni artistici, che nega il legame tra l'ebraismo e il Monte del Tempio di Gerusalemme.
"Una decisione che non esito pertanto a definire aberrante - continua Di Segni - e che non può passare nell'indifferenza dell'opinione pubblica, dell'intero governo Italiano e delle Istituzioni europee. Oggi più che mai è invece necessaria una corretta, e non distorta, lettura delle reali concatenazione storiche che hanno portato all'assetto attuale dei rapporti in Medio Oriente.
Nella risoluzione votata ieri a larga maggioranza dal Consiglio, ci si riferisce a questi luoghi soltanto con il nome indicato dalla tradizione islamica. Dei 58 paesi rappresentati nel Consiglio, soltanto sei si sono opposti. Voglio qui ricordarli: Stati Uniti d'America, Regno Unito, Germania, Olanda, Lituania ed Estonia.
Questa risoluzione conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la totale sconnessione delle Nazioni Unite dagli obiettivi autentici e sinceri che hanno ispirato la sua costituzione nel Dopoguerra. Un'organizzazione che di unito non ha più nulla - conclude la presidente dell'Unione - e che nelle sue diverse ramificazioni si esprime sempre più come realtà politicizzata e appiattita, miope e incapace di farci sognare un futuro di pace e sicurezza".
(moked, 14 ottobre 2016)
Scelta choc dell'Unesco: il Muro del Pianto non è un simbolo ebraico
Schiaffo a Israele. Una mozione dell'organismo dell'Onu nega una verità storica legando il sito solo ai musulmani. Contro la decisione solo sei Paesi tra cui gli Stati Uniti L'Italia si è astenuta.
di Fiamma Nirenstein
Adesso chi vuol far votare una mozione per dire che esistono le sirene, o che il
Vaticano non è mai stato la sede del papato, lo può fare. Passerà. Perché l'Unesco, il braccio artistico dell'Onu, su proposta dei palestinesi e dei giordani (i primi che dovrebbero essere un interlocutore credibile per un processo di pace, i secondi che la pace l'hanno già firmata) sta per approvare una mozione che nega ogni rapporto storico fra l'ebraismo e il Monte del Tempio. Cioè, fra l'altro, il Muro del Pianto, il primo luogo santo degli ebrei nei secoli dei secoli.
Ieri l'assemblea ha votato una mozione preliminare, e 21 nazioni, indovinate quali, hanno votato in favore della mozione, 26 pusillanimi (indovinate quali. Ma davvero anche l'Italia? Sì, davvero) si sono astenute e sei coraggiose hanno votato contro. Le sei sono gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Lituania, l'Olanda, la Germania, e l'Estonia. Che imbarazzo, che vergogna che una delle più accertate verità archeologiche e storiche, di cui per altro c'è una prova lampante proprio a Roma nel bassorilievo dell'arco di Tito (che conquistò il Tempio) che ritrae i prigionieri ebrei con la lampada a sette braccia a spalla proprio da quel tempio che ora si chiamerà spianata di al Buraq, dal nome del cavallo che trasportò Maometto in cielo.
La risoluzione cominciò il suo iter ad aprile, legando il sito solo alla storia musulmana. Non importa all'Unesco se gli attentati terroristici in nome della Moschea di Al Aqsa fanno decine di vittime al mese. Né che uno degli sport preferiti del terrorismo sia appunto negare ogni nesso degli ebrei con la loro vera storia, che ne tesse l'origine e lo sviluppo a e di Gerusalemme. Che importa: l'importante è manipolare lo scenario internazionale. A luglio fu formalizzata la mozione e fu spostato il voto a causa del colpo di stato mancato in Turchia. Il direttore generale dell'Unesco Irina Bokova ebbe la decenza di dichiarare che non si può negare il rapporto fra le tre religioni e il sito, ma si sa, la febbre antisemita dell'Onu è sempre alta, e la paura un po' compiaciuta di chi si tira da una parte grande. Così siamo arrivati a questo prevoto, e la settimana prossima al voto definitivo. 39 senatori americani, in un gruppo bipartisan, chiedono di recedere da questo folle passo, ma visto che anche la Tomba di Rachele e la sinagoga di Hevron, quella dove sono seppelliti i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe sono stati dichiarati retaggio musulmano, c'è da aspettarsi il peggio. Se si vuole consultare un documento che dica tutta la verità sul Monte del Tempio, c'è una brochure del 1924 redatta dall'WAQF, l'autorità islamica, che, anzi, con grande orgoglio dice che non c'è alcun dubbio che il sito fosse quello del Tempio di Salomone di quello di Erode (non l'uccisore dei bambini, il padre). Ma i testi sono innumerevoli.
Non c'è bisogno di essere uno storico per sapere che Gerusalemme e gli ebrei sono un nodo solo, che quel sito è nella Bibbia il luogo del sacrificio di Isacco ( sul Monte Moriah), poi della conquista del re David (equi ci sono molte prove archeologiche), poi tempio di Salomone distrutto nel 632 da Nabuccodonosor, poi del Tempio di Erode, e che anche Gesù Cristo, da buon ebreo, ci andò in pellegrinaggio e là predico ai mercanti. Si vedono ancora i loro negozietti di pietra e le scale da cui salì Cristo ragazzino. Inoltre i reperti della città di Davide, gli scritti di Tacito e di Flavio Giuseppe che testimonia nelle virgole la caduta del tempio, sono noti ai più. Si sa anche bene che il riferimento musulmano a Gerusalemme come città santa è ben scarso: una riga nel Corano per il volo di Maometto a al Masjiid al Aqsa alla «città lontana», quando ancora non esisteva la Moschea dato che Mohammed è morto nel 632 ed essa si costruisce nel 705.
La risoluzione dell'Unesco lascia senza parole, fa tristezza, fa pensare che si viva in un momento in cui ancora l'antisemitismo vince. Con tutto ciò gli ebrei seguiteranno ad andare, come nei secoli dei secoli, a toccare il loro muro occidentale del Tempio di Gerusalemme e piangeranno. Quella dell'Unesco è una forma di distruzione come quella di Palmira, o non ce ne siamo accorti?
(il Giornale, 14 ottobre 2016)
Una semplice domanda: questo è antisemitismo o no? Per molti probabilmente no. Bisognerà aspettare per dirlo, dicono. Bisognerà aspettare che gli ebrei tornino nei forni crematori. Allora sì. Allora, e soltanto allora, dopo che saranno stati bruciati, si potrà parlare di vero antisemitismo. Allora tutti sinviteranno lun laltro ad esecrarlo. A fatti compiuti, naturalmente. Prima no. Prima non è vero antisemitismo: è paranoia di Benjamin Netanyahu. M.C.
La vergognosa astensione dell'Italia in sede UNESCO
Riceviamo, per conoscenza e diffusione, due lettere di Emanuel Segre Amar, Presidente del Gruppo Sionistico Piemontese, inviate al Presidente del Consgilio dei Ministri e al Ministro degli Affari Esteri a seguito dell'ipocrita, vergognoso atteggiamento dell'Italia nella recente votazione in sede UNESCO sul Monte del Tempio, attualmente indicato dagli islamici come Spianata delle Moschee. Molto volentieri diffondiamo il contenuto di queste lettere.
Al Presidente del Consiglio dei Ministri
Matteo Renzi
Signor Presidente,
Le invio qui di seguito copia della mail che ho inviato al Ministro degli Affari Esteri a seguito della vergognosa astensione dell'Italia in sede UNESCO.
Tale astensione, non posso nasconderLe, mi ha particolarmente stupito avendo ben presenti le parole da Lei pronunciate di fronte al Parlamento israeliano a Gerusalemme.
Mi auguro che Lei vorrà provvedere affinché nella votazione finale l'Italia onori, col suo voto, quella che è l'unica, storicamente indiscutibile, realtà.
Distinti saluti
Emanuel Segre Amar
Presidente Gruppo Sionistico Piemontese
*
Al Ministro degli Affari Esteri
On. Paolo Gentiloni
A nome del Gruppo Sionistico Piemontese Le esprimo la nostra protesta per il voto di astensione che l'Italia ha espresso in merito alla risoluzione dell'Assemblea dell'Unesco che ha deciso di considerare legittimo solo l'uso dei termini arabi per designare luoghi come il Monte del Tempio e lo stesso Muro Occidentale. Di fatto questa risoluzione nega ogni legame tra la storia ebraica e quei luoghi, un legame affermato da qualunque fonte storica e archeologica.
Questa pretesa di riscrivere la storia attraverso una risoluzione di un organismo profondamente screditato come l'UNESCO farebbe sorridere se non fosse invece di una inaudita gravità. Come Lei dovrebbe sapere, l'UNESCO non è nuova a queste prodezze: nel 1974 approvò una risoluzione che condannava il sionismo come una forma di razzismo, salvo poi a rimangiarsi quella presa di posizione molti anni dopo, in seguito agli accordi di Oslo, confermando la sua natura di organismo politico e non culturale. Ma allora contro quella risoluzione si levò alta la voce di Giovanni Spadolini, mentre adesso il rappresentante italiano si rifugia nell'astensione, il che significa dichiararsi incapace di esprimere un giudizio su quanto affermato nella risoluzione.
Ciò che rende ancora più grave e inaccettabile il voto del rappresentante italiano è che altri Paesi appartenenti all'Unione Europea - come la Germania, i Paesi Bassi e l'Estonia, nonché la Gran Bretagna - hanno espresso voto contrario alla risoluzione.
Mi auguro, signor Ministro, che, quando sarà chiamato a rispondere in Parlamento del voto espresso dal rappresentante del nostro Paese, Lei sia in grado di fornire una risposta convincente.
Emanuel Segre Amar
Presidente Gruppo Sionistico Piemontese
(Notizie su Israele, 14 ottobre 2016)
Bernardo: solidarietà a Israele dopo la risoluzione Unesco
ROMA - "Esprimo solidarieta' allo Stato d'Israele per una decisione che lascia stupiti". Ad affermarlo, in una nota, e' l'on. Maurizio Bernardo, presidente dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, all'indomani della risoluzione votata dall'Unesco in cui ci si riferisce al Monte del Tempio e al Muro del Pianto solo con il nome indicato dalla tradizione islamica.
(ANSAmed, 14 ottobre 2016)
Perché stupiti? Sono anni che su Israele e i suoi luoghi sacri le menzogne e le favole hanno rotto la diga della verità storica. Ormai, per chi parla di Gerusalemme con bocca islamica lOnu ha stabilito una volta per tutte che con quella bocca può dire quello che vuole. Verrà presto il tempo in cui chi oserà mettere pubblicamente in dubbio che Maometto ha fatto un "viaggio notturno" dalla moschea remota al cielo, sarà denunciato e incriminato come negazionista. M.C.
Israele rompe con l'Unesco: «Filopalestinese»
Il ministro dell'Istruzione israeliano, Naftali Bennett, ha annunciato l'immediata sospensione della collaborazione con l'Unesco, dopo che l'organizzazione ha approvato una risoluzione in cui nega ogni legame tra il Monte del tempio di Gerusalemme e l'ebraismo, considerandolo luogo di culto esclusivamente musulmano.
La decisione di Bennett è stata riferita dal Jerusalem Post, il quale precisa che il ministro ha detto che la posizione dell'agenzia Onu "nega la storia e incoraggia il terrorismo". Bennett terrà un incontro la prossima settimana, per discutere passi ulteriori.
Nel frattempo, sottolinea Jerusalem Post, non ci saranno incontri con funzionari Unesco, collaborazione nelle conferenze internazionali o collaborazione professionale con l'organizzazione.
La Risoluzione, presentata dai palestinesi insieme ad Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan, è stata approvata da 24 paesi, respinta da 6 (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda). In 26 si sono astenuti, tra cui l'Italia. Nel provvedimento viene condannato il comportamento di Israele in relazione alle restrizioni ai musulmani imposte nel luogo sacro, che si trova a Gerusalemme Est. Questo non viene chiamato nella risoluzione Monte del tempio, ma soltanto con la definizione araba, cioè moschea di al-Aqsa.
(Avvenire, 14 ottobre 2016)
Un misconosciuto Bob Dylan sionista
di Guido Vitiello
Leggevo ieri sul Corriere della Sera un'intervista al ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni, la prima donna a ricoprire quest'incarico dai tempi della racchiona Golda Meir, quando mi sono imbattuto in questa frase: "So che tanti nel mondo vogliono farci passare per i teppisti del quartiere". Teppisti del quartiere. È pressoché certo che la Livni abbia usato l'espressione inglese neighborhood bully, a cui (l'ho verificato) ha già fatto ricorso in altre interviste nei mesi scorsi.
Ebbene, Neighborhood bully è il titolo di una canzone di Bob Dylan, un pugnace manifesto sionista scritto ai tempi della prima guerra in Libano, agli inizi degli anni Ottanta. Il "bullo del vicinato" di cui parla la non bella canzone è lo Stato di Israele, che tale appare agli occhi dei paesi arabi confinanti. Possibile che si tratti di un'espressione gergale usata abitualmente per definire Israele; non sono abbastanza addentro per saperlo. Vi trascrivo però la canzone anche perché svela un volto poco noto di Dylan.
Tutti hanno in mente l'immagine oleografica e dolciastra del "menestrello della pace", che canta contro la guerra in Vietnam e la bomba atomica. In realtà, canzoni sul Vietnam Dylan non ne ha mai fatte, e molti l'hanno rimproverato per questa latitanza; è un autore "impolitico", che se parla di politica lo fa in un orizzonte messianico e apocalittico (secolarizzato, si dirà; ma non troppo). È quel che accade anche in Neighborhood bully, tramata da cima a fondo di immagini bibliche - e, per la cronaca, uscita sull'album Infidels.
Neighborhood bully
Bè, il bullo del quartiere è solo uno
I suoi nemici dicono che è sul loro territorio
Loro sono più numerosi circa un milione contro uno
Lui non ha nessun posto dove scappare, nessun posto dove correre
È il bullo del quartiere.
Il bullo del quartiere vive solo per sopravvivere
È criticato e condannato solo per essere vivo
Non è ritenuto capace di difendersi, né di avere la pelle dura
Si pensa che si faccia uccidere quando gli si sfonda la porta
È il bullo del quartiere.
Il bullo del quartiere è stato sbattuto via da ogni terra
Girovaga per il mondo, è un esiliato
Ha visto disperdere la sua famiglia, la sua gente perseguitata e dilaniata
È sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato.
È il bullo del quartiere.
Ha evitato il linciaggio di una folla ed è stato criticato
Vecchie donne lo hanno condannato, dicendo che avrebbe dovuto scusarsi
Poi ha distrutto una fabbrica di bombe, e nessuno ne fu lieto
Le bombe erano per lui, fu ritenuto ancora cattivo
È il bullo del quartiere.
Bè, la sorte è contro di lui e le sue probabilità sono poche
Che accetti di vivere entro le regole che il mondo gli impone
C'è un cappio al suo collo ed un fucile puntato alla sua schiena
E la licenza di ucciderlo è concessa a qualsiasi maniaco
È il bullo del quartiere.
Bè, non ha nessun alleato con il quale parlare
Deve pagare per qualunque cosa faccia, non è mai amato
Compra armi obsolete e non vuole essere ripudiato
Ma nessuno gli concede la propria pelle ed il proprio sangue per combattere al suo fianco.
È il bullo del quartiere.
È circondato da pacifisti che vogliono la pace
Loro pregano ogni notte perché lo spargimento di sangue finisca
E non farebbero male ad una mosca, a far male a qualcuno piangerebbero
Ma si nascondono ed attendono solo che questo bullo cada addormentato
È il bullo del quartiere.
Ogni impero che l'ha fatto schiavo è morto
Egitto e Roma, anche l'antica Babilonia
Ha fatto un giardino di paradiso nella sabbia del deserto
A letto con nessuno, sotto il comando di nessuno.
È il bullo del quartiere.
Ora il suo libro più sacro è stato calpestato
Nessun contratto che ha firmato valeva quanto quello scritto lì
Prese le briciole del mondo e le tramutò in ricchezza
Prese malattia ed affezione e le tramutò in salute
È il bullo del quartiere.
È qualcuno indebitato con lui?
Nessuno, dicono, egli ha solo causato la guerra
Superbia e pregiudizi e superstizione in realtà
Aspettano questo bullo come un cane aspetta il cibo.
È il bullo del quartiere.
Che cosa ha fatto per portare così tante cicatrici
Ha cambiato il corso dei fiumi, ha contaminato la luna e le stelle
Il bullo del quartiere lì sulla collina
Mentre il tempo si va esaurendo, col tempo immobile
Il bullo del quartiere.
(Blog di Guido Vitellio, 14 ottobre 2016)
Il sociologo: "Così dall'antisemitismo si arriva al terrorismo"
di Rossella Tercatin
Ha scritto Paolo Mieli in un editoriale pubblicato sulla prima pagina del Corriere della Sera negli scorsi giorni: "Alle solite. L'emozione mediatica per l'uccisione, domenica, da parte di un palestinese di due cittadini di Gerusalemme (una donna e un poliziotto) è stata pressoché nulla. Come se ci si fosse trovati al cospetto di un non evento. Eppure si trattava di un accadimento doloroso ma simile a tanti altri che di trepidazione ne hanno provocata molta" si legge nell'articolo. "Un po' quel che accade sempre più spesso in Europa e negli Stati Uniti dove ultras islamisti muovono all'attacco di cittadini inermi, colpevoli solo di trovarsi lì per caso. Solo che se questi cittadini sono ebrei, la pietà generale si fa più tenue", nota ancora il giornalista, già due volte direttore della testata.
È proprio analizzando questa incongruenza, che lo studioso Shmuel Trigano, professore emerito di sociologia all'Università di Parigi, spiega come gli attacchi terroristici che hanno trafitto la Francia nell'ultimo anno arrivino dopo, e siano la diretta conseguenza, di un decennio e oltre di aggressioni contro la sua comunità ebraica. Aggressioni spesso ignorate, minimizzate, in qualche modo giustificate alla luce di una presunta correlazione con gli accadimenti in Medio Oriente, in un crescendo di violenza impunita e maggiormente organizzata che è arrivata infine a partorire anche Charlie Hebdo e Nizza.
"Un decennio e più passato a sottovalutare o ignorare la violenza antisemita ha garantito a coloro che lo praticavano una forte esperienza nell'arte del negare le realtà del jihadismo e quindi contribuito a creare la attuale confusione" ha scritto Trigano in un saggio pubblicato dal quotidiano francese Le Figaro. Il sociologo per esempio riporta l'ammissione di Daniel Vaillant, ministro dell'interno transalpino tra il 1995 e il 2014, secondo cui il primo ministro Lionel Jospin (1997-2002) aveva esplicitamente richiesto di mantenere un basso profilo "per non aggiungere benzina al fuoco". "La Francia dunque ha sacrificato i suoi cittadini ebrei sull'altare dell'ordine pubblico e dell'ideale del vivre ensemble (vivere insieme)" punta il dito Trigano, che ricorda come troppo spesso la classe dirigente abbia in effetti fornito un alibi a quanto accadeva attribuendone la responsabilità a situazioni di povertà o emarginazione sociale. "Quel che è ancora peggio, diventò utile colpevolizzare Israele e dunque per estensione gli stessi ebrei francesi - si legge ancora - La rispettabilità dell'anti-sionismo rese rispettabile il più evidente antisemitismo".
A rompere parzialmente il meccanismo furono gli attacchi di Mohammed Merah che nel 2012 uccise tre soldati francesi (e musulmani) prima di colpire una scuola elementare ebraica a Tolosa assassinando tre bambini e un insegnante, e poi la strage di Charlie Hebdo, che fu seguita a poche ore di distanza da quella del supermercato HyperCacher. "Senza i primi omicidi, quelli al supermercato casher sarebbero stati inseriti nella categoria 'ebraica' e quindi non considerati un problema della Francia nel suo complesso. Lì divenne più chiaro che a essere minacciata era l'intera società".
Trigano conclude indicando la forte necessità per i leader francesi di imparare a chiamare i problemi con il loro nome, e ad affrontarli. Non proibendo il burkini (un classico esempio di come nel paese si preferisca guardare ovunque tranne che alle questioni vere, secondo il professore), ma andando alla sostanza dell'attacco, senza aver paura del politicamente corretto.
(moked, 13 ottobre 2016)
Israele: numero di immigrati francesi in diminuzione
di Nathan Greppi
Il numero di ebrei francesi emigrati in Israele attraverso l'aliyah, cresciuto esponenzialmente negli ultimi tre anni, ha subito un forte calo nell'ultimo anno. Ne dà notizia il sito EJ Press.
Nei primi otto mesi del 2016, nonostante le paure legate al terrorismo e al crescente antisemitismo, il numero di nuovi olim è calato del 42% rispetto allo stesso periodo del 2015.
Nel suo ultimo report prima di Rosh HaShana, il Jewish People Policy Institute (JPPI) ha rivelato che solo 3452 persone sono emigrate dalla Francia dal gennaio all'agosto 2016, mentre negli stessi mesi del 2015 ne erano emigrate 5930.
Il JPPI sostiene che questo declino è causato da più fattori: il fatto che le autorità francesi si stanno impegnando maggiormente per proteggere le comunità ebraiche, il fatto che la maggior parte dei sionisti francesi ha già fatto l'aliyah, e l'aumento degli attentati in Israele.
Un'altra spiegazione riguarda il fatto che molti ebrei francesi non riescono a trovare lavoro in Israele, e così decidono di emigrare altrove.
Tuttavia, secondo un rapporto del JPPI, il 40% dei 200.000 ebrei che vivono in Francia, la comunità più grande dell'Europa Occidentale, hanno detto di essere interessati a emigrare in Israele.
Il rapporto sostiene che, più che investire sulla campagna per incoraggiare gli ebrei francesi a emigrare, il governo dovrebbe concentrarsi nell'aiutare quelli che si trovano già in Israele. Esso afferma inoltre che non occorre fare leva sul desiderio emigrare, ma piuttosto bisogna dare delle risposte ai bisogni di base dei nuovi arrivati, aiutandoli a trovare un posto di lavoro e una fissa dimora.
(Mosaico, 12 ottobre 2016)
Israele nella "lista nera" dell'Onu
Le Nazioni Unite vogliono marchiare chi fa affari con lo stato ebraico.
L'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti uman
L'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, il principe giordano Zeid Ra'ad Zeid al Hussein, dovrebbe avere ben altre priorità: gli ospedali di Aleppo, di Sanaa e il carnaio mediorientale. Ma si sa che ogni volta che nel suo Consiglio le democrazie hanno sollevato il problema dei crimini nei regimi islamici questi sono riusciti sempre a insabbiare tutto. Sarà forse per coprire la propria insipienza e nullità che al Hussein ha deciso di preparare una "lista nera" delle imprese israeliane e delle aziende internazionali che hanno legami con la Cisgiordania, Gerusalemme est e le alture del Golan per facilitare la promozione di boicottaggi.
"E' ragionevole supporre che l'Onu abbia legami con le imprese che si vogliono includere nella lista, e quindi le Nazioni Unite devono fermare questi collegamenti illegittimi", ha detto al Hussein scrivendo al vicesegretario generale, lo svedese Jan Eliasson. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto in risposta: "Il Consiglio dei diritti umani è diventato un circo anti Israele. Attacca l'unica democrazia in medio oriente e ignora le gravi violazioni di Iran, Siria e Corea del nord. Israele invita i governi responsabili a non onorare le decisioni del Consiglio che discriminano Israele".
Da tempo l'Onu è diventato la principale fonte di antisemitismo nel mondo. E fra queste fonti spicca il Palais des Nations di Ginevra. Un posto talmente grottesco che il matematico francese Laurent Lafforgue ha detto che "è come se un Alto Consiglio dei diritti dell'uomo decidesse di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per i diritti umani".
(Il Foglio, 13 ottobre 2016)
Parashà della settimana: Haazinu (Porgete orecchio)
Deuteronomio 32:1- 32.52
- "Porgete orecchio (Haazinu) o cieli ed io (Moshè), parlerò in modo che la terra oda i detti della mia bocca". All'inizio dell' attività profetica di Moshè la Torah riporta la cantica del mare (Esodo 14.15) e alla fine della sua vita riporta quella che potremmo chiamare la cantica del Giordano. Queste due cantiche sono una visione dei tempi futuri del cammino d'Israele attraverso la storia.
Secondo Nahmanide (Ramban) questa cantica apporta una testimonianza vera e fedele sulla storia del popolo ebraico e come questa si sia avverata nel corso dei tempi. Dalla liberazione dalla schiavitù d'Egitto, alle peripezie nel deserto del Sinài, all'abbondanza nella terra promessa causa di rivolte contro il Signore, fatto ingelosire dal culto con Dei stranieri (Deuteronomio 32:16).
L'azione "morale" d'Israele ha un influenza sia fisica che spirituale nel mondo creato. Ecco perché l'obbedienza alla Legge è una condizione importante nell'ordine cosmico. Nella cantica il cielo e la terra sono chiamati come testimoni, essendo questi subordinati al comportamento morale d'Israele. Atti sconsiderati difatti possono portare a conseguenze nefaste incalcolabili.
In questa cornice si può spiegare l'esilio del popolo dalla sua terra e la dispersione tra gli altri popoli. E nonostante la sua condotta errata il Signore perdonerà il Suo popolo e punirà coloro che hanno fatto del male ad Israele. Il Signore difatti punisce i nostri nemici perché non credano che siano essi la causa delle avversità del popolo bensì la Sua mano che interviene per fermare il suo comportamento sbagliato.
"I-o sono il Signore che faccio morire ma faccio rivivere" (Deuteronomio 32:39).
Questa espressione della Torah mi porta a soffermarmi sul significato del "Nome Divino" in considerazione anche della solennità del giorno di Kippur alle porte di Gerusalemme, per ora una città di esuli in attesa della Redenzione.
Il Cohen gadol (grande sacerdote) invocava nel Tempio il perdono divino per tutto il popolo d'Israele e così intonava: " ho trasgredito, Hashem (Nome del Signore in ebraico), mi sono ribellato a Te . ma Ti prego per merito del Nome (Bashem) perdona i peccati del popolo", Yoma 3.8 [trattato del Talmud, ndr].
Quale messaggio più chiaro di questo può essere trasmesso al popolo d'Israele se persino il gran sacerdote non si vergognava di ammettere di aver peccato? Il testo liturgico non solo registra un'antica cerimonia ma invita noi stessi alla sua partecipazione. Siamo sul Monte del Tempio trasportati nello spazio-tempo e cadiamo con la faccia a terra quando il rabbino ripete nella preghiera le parole del gran sacerdote che pronuncia nel Santo dei Santi il Nome Ineffabile del Signore.
Il gran sacerdote inizia con una supplica al Signore (Hashem) e continua con una richiesta di perdono che avverrà per merito del Nome (Bashem). Ora la piccola differenza di una lettera deve essere compresa con precisione. Il gran sacerdote si rivolge prima al Signore (Hashem) e di seguito implora il perdono per merito del Suo Nome (Bashem) (Rav Soloveitchik).
A questo punto è lecito gettare uno sguardo sulla "Lettera agli Ebrei" per trovare legami di dialogo con il mondo cristiano.
Bisogna dire che di questa lettera non si conosce l'autore. I nomi più ipotizzati sono stati quelli di Sila e dell'evangelista Luca, che secondo alcuni autori è il più accreditato. Da questo si può evincere che l'epoca della sua stesura sia stata subito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme per mano di Roma. La liturgia del Tempio viene descritta nella lettera per consolare il popolo ebraico dalla perdita della cerimonia che il gran sacerdote svolgeva nel Tempio il giorno di Kippur per l'espiazione dei peccati. I destinatari della lettera difatti erano i giudei-cristiani essendo questo il solo scritto neo-testamentario che si avvale della liturgia giudaica per la riconciliazione. Anche se in passato alcuni passi della lettera hanno dato adito ad un possibile anti-giudaismo ecclesiastico, con l'enciclica "Nostra Aetate" questa interpretazione è stata abbandonata.
Dopo la distruzione di Gerusalemme e il conseguente esilio del popolo ebraico inizia anche l'esilio della Shekinà (presenza di D-o) che va in esilio con gli ebrei dispersi tra le Nazioni del mondo. A questi esuli restava solo la fede intesa come un'apertura verso un futuro che D-o Benedetto aveva progettato non solo per loro, ma per tutta l'Umanità. Ma tutto questo dal mondo cristiano è stato poco compreso perché più attento al "culto" di Gesù che alla Parola di D-o (Torah). F.C.
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- Come aveva annunciato, Mosè inizia il suo cantico chiamando a testimoni il cielo e la terra invitandoli quindi ad ascoltare le sue parole, perché esse avranno valore fino a che ci saranno quei testimoni a confermarle con la loro presenza.
Nel cantico si parla di Dio, di Israele e delle nazioni. Dio è fedele, giusto, retto, senza iniquità. Israele è una stirpe contorta e perversa, un popolo stolto e insensato. Il discorso a questo riguardo potrebbe chiudersi qui e aspettare, come forse molti vorrebbero, che su questo popolo si abbatta il giudizio tremendo e definitivo del Signore.
Certo, Dio si arrabbia con questo popolo, e molto, ma non come quando un tenente si arrabbia con la truppa che non segue i suoi ordini; qui la relazione in gioco è di tipo diverso: è una relazione d'amore. Un amore che ha già un passato, una storia antica, per questo il Signore dice al popolo per bocca di Mosè:
"Ricorda i giorni del tempo antico, considera gli anni del passato. Interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno" (Deuteronomio 32:7).
Ricordando il passato, entrano in gioco anche le nazioni, fin dalle loro origini:
"Quando l'Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, in base il numero dei figli d'Israele, Poiché la parte dell'Eterno è il suo popolo, Giacobbe è la porzione della sua eredità" (Deuteronomio 32:8-9).
Dopo l'esperienza della torre di Babele, Dio fissò i confini dei popoli, cioè permise a ciascuno di loro di attribuirsi una parte di terra da considerare come propria eredità. Ma in questa ripartizione il Signore si riservò una parte speciale come sua eredità personale: Giacobbe. La Bibbia non dice in quale senso Dio tenne conto del numero dei figli d'Israele nella ripartizione della terra fra gli altri popoli, ma in ogni caso è chiaro che dal momento in cui la nazione d'Israele è venuta al mondo dopo essere uscita dalla casa di schiavitù d'Egitto, il destino delle altre nazioni è commisurato a quello del popolo che il Signore ha scelto come "sua parte".
Per il futuro Mosè vede in anticipo lo svolgersi della situazione: Dio continua a manifestare il suo amore per il popolo proteggendolo e provvedendogli beni di ogni tipo, e alla fine il risultato è questo: Israele "si è fatto grasso, grosso e pingue; ed ha abbandonato l'Iddio che l'ha formato e ha disprezzato la Rocca della sua salvezza!" (Deuteronomio 32:15).
Ingratitudine! Questa è la costante del popolo prescelto dal Signore. Ma non solo questo. Israele rivolge il suo culto a dèi stranieri, come se da loro provenisse il bene di cui godono e a cui sempre anelano. E l'Eterno soffre. Soffre di gelosia. E si arrabbia. Si arrabbia molto. Ma è proprio in questo che si manifesta il suo inestinguibile amore.
"L'hanno ingelosito con divinità straniere, l'hanno irritato con pratiche abominevoli" (Deuteronomio 32:16).
Ed ecco allora che cosa decide di fare il Signore:
"Loro mi hanno ingelosito con ciò che non è Dio, mi hanno irritato con i loro idoli vani; io li ingelosirò con ciò che non è popolo, li irriterò con una nazione stolta" (Deuteronomio 32:21).
Nell'originale la contrapposizione è ancora più netta: a un secco לא אל (lo El, non-Dio), si contrappone un altrettanto secco לא עם (lo am, non-popolo).
E se il popolo irrita Dio con divinità prive di consistenza: הבל (hevel, vanità), Dio irrita il popolo con una nazione priva di saggezza: נבל (naval, stolto).
Atteggiamento umano, molto umano, quello di Dio, direbbe qualcuno. Ma è il Dio della Bibbia che imita noi, o siamo noi ad imitare Dio?
Il fatto interessante è che questo versetto viene citato anche dall'apostolo Paolo nel passo in cui parla dell'indurimento di Israele di fronte al Vangelo:
"Allora dico: forse Israele non ha compreso? Mosè per primo dice: «Io vi renderò gelosi di una nazione che non è nazione; contro una nazione senza intelligenza provocherò il vostro sdegno». Isaia poi osa affermare: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano; mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me»" (Romani 10:19-20).
E più avanti:
"Io dico dunque: Hanno essi così inciampato da cadere? Così non sia; ma per la loro caduta la salvezza è giunta ai Gentili per provocarli a gelosia" (Romani 11:11).
Il popolo dei credenti in Gesù è un non-popolo, secondo i comuni canoni storici, e costituisce un fatto nuovo nella storia d'Israele. E' percepito da molti ebrei come un elemento di disturbo, e tuttavia resta un fatto interno alla storia d'Israele, inscindibile da questa. Il disturbo indubbiamente esiste, e in certe epoche la superbia dei cristiani l'ha fatto diventare un tormento, ma il disturbo della gelosia è una manifestazione d'amore del Signore verso il suo popolo.
Ma che significa "provocare gli ebrei a gelosia"? A noi cristiani gentili resta più facile provocare gli ebrei a irritazione, più che a gelosia. Da che parte si comincia? Si comincia da se stessi, occupando umilmente la posizione che Dio ci ha fissato nel suo piano: essere davanti a Israele una "nazione senza intelligenza".
Questo tema è trattato in modo egregio in un ottimo articolo che compare da qualche anno sul nostro sito. Si consiglia di leggerlo attentamente, meditarlo ed eventualmente discuterlo con altri. Il titolo aderisce pienamente al tema: "Provocare a gelosia gli ebrei con una nazione senza intelligenza". M.C.
Frank Miller vuole esplorare le origini ebraiche di Superman
Frank Miller, nel corso degli anni, ha affrontato quasi sempre tematiche complesse nelle sue opere. Ora il leggendario scrittore di fumetti vuole affrontare uno delle più vecchie (e trascurate) origini dell'intera industria: L'eredità ebrea di Superman.
Secondo un'intervista fatta da Inverse al New York Comic-Con, Miller ha affermato che spera riportare Superman ai tempi della seconda guerra mondiale, il periodo in cui è stato creato:
"Lui ha una storia nella seconda guerra mondiale, e mi piacerebbe riportarlo lì di nuovo. Superman ha bisogno di confrontarsi con le sue origine ebraiche, e mi piacerebbe scrivere di ciò. Mi piacerebbe vederlo davanti ad un campo di sterminio."
Superman è stato creato nel 1938 da Jerry Siegel e Joe Shuster che non a caso erano ebrei, e durante il periodo della guerra era ritenuto il colpevole della sterminazione degli ebrei. Paradossalmente, il ministero della propaganda del terzo reich Joseph Goebbels denunciò Superman e Siegel.
Le origini ebree di Superman sono state col tempo dimenticate e sostituite a quelle cristiane.
Il suo stesso nome (Kal-El) è un nome ebraico che significa "voce di Dio".
Confidiamo in Miller ed in questo suo nuovo progetto.
(Red Capes, 12 ottobre 2016)
Il nazismo secondo Heidegger: «Hitler risveglia il nostro popolo»
Esce il 17 ottobre in Germania per Herder un carteggio inedito con il fratello Fritz. Il filosofo aveva letto «Mein Kampf» e apprezzava l'istinto politico del Führer.
di Donatella Di Cesare
Martin Heidegger (a sinistra) con il fratello Fritz nel 1961 presso la canonica di Schwandorf
Lieber Fritz, «Caro Fritz, sembra che la Germania si risvegli, che comprenda il suo destino. Desidero che tu legga il libro di Hitler, che è debole negli iniziali capitoli autobiografici. Nessuno può ormai contestare che quest'uomo possieda, e abbia sempre posseduto, un sicuro istinto politico, quando noi tutti eravamo ancora obnubilati. Il movimento nazionalsocialista si arricchirà, in futuro, di nuove ulteriori forze. Non si tratta più di meschina politica di partito ne va piuttosto della salvezza o del tramonto dell'Europa e della cultura occidentale».
Questa lettera del 18 dicembre 1931 fa parte del carteggio tra Martin Heidegger e il fratello minore Fritz, che esce il 17 ottobre in Germania dalla casa editrice Herder. Il volume, curato da Walter Homolka e Arnulf Heidegger, contiene anche una raccolta cospicua di interventi firmati da filosofi, scrittori, intellettuali sul tema dell'antisemitismo. Il carteggio, che occupa più di cento pagine, è la grande novità editoriale che farà certamente discutere.
Le lettere vanno dal 1930 al 1949 un periodo decisivo per la Germania, per Heidegger, per il suo pensiero. Anche se il carteggio non è completo (si può però leggere il resto nell'Archivio di Marbach), la pubblicazione ha grande rilievo perché, dopo i Quaderni neri, diviene accessibile un'altra significativa fonte che può far luce sull'impegno politico di Heidegger.
Oltre a offrire uno spaccato della vita privata, le lettere fanno emergere lo stretto rapporto tra i due fratelli, che si rivela un forte sodalizio intellettuale. Sorprende la figura di Fritz, del quale si sapeva poco: soltanto che era rimasto sempre a Messkirch, il villaggio natìo, che una balbuzie gli aveva impedito di proseguire gli studi, che ciò aveva paradossalmente acuito il suo senso per la lingua, al punto che si era fatto una certa fama per i giochi di parole e le arguzie. Il ritratto del saggio giullare, che di mestiere faceva, suo malgrado, l'impiegato di banca, viene corretto dal carteggio.
Fritz Heidegger appare una figura di primo piano. A lui Martin affida i manoscritti delle sue opere, affinché vengano riletti, rivisti, ricopiati e messi al sicuro. Fritz ammira il fratello, ne segue con orgoglio il successo, lo difende. È il suo migliore amico. Già Hannah Arendt aveva scritto: «L'unica persona che ha realmente è il fratello». Ma Fritz è anche un interlocutore nei temi filosofi e politici.
L'ulteriore grande sorpresa del carteggio sta nell'importanza che riveste Hitler. Fin qui non si sapeva se Heidegger lo avesse letto e molti negavano. Ora è chiaro che dal 1931 al 1933 Hitler diventa addirittura tema di dibattito tra i due fratelli. Fritz si mostra poco convinto. Resta perplesso quando Martin gli spedisce in regalo Mein Kampf; ma promette che lo leggerà. Gli confessa tuttavia il suo «disgusto» per la politica volgare, l'esigenza di giudicare autonomamente gli eventi. I fratelli concordano, però, nel considerare ineluttabile la fine della Repubblica di Weimar e della socialdemocrazia. Solo che Fritz vede nel tracollo finanziario della Germania, oberata dai debiti, l'occasione colta dal nazionalismo di Hitler. La sua analisi politica è più prudente. Martin invece insiste; gli spedisce lo scritto propagandistico di Beumenburg La Germania in catene e gli consiglia la lettura del romanzo di Hans Grimm Popolo senza spazio. E commenta: «Chi non lo sa, può imparare qui che cosa vuol dire patria per il nostro popolo». Di fronte alle «inibizioni» del fratello verso il nazismo, Martin prende una posizione netta. Nel 1932 afferma che, nonostante tutti gli errori, «occorre essere dalla parte dei nazisti e di Hitler. Ti manderò il suo nuovo discorso».
La novità delle lettere sta proprio nella fermezza che Heidegger mostra. E in una adesione che appare incondizionata. Divenuto rettore a Friburgo, racconta in una lettera del 4 maggio del 1933: «Sono entrato ieri nel partito, non solo per intima convinzione ( ). In questo momento è necessario pensare non tanto a se stessi, quanto al destino del popolo tedesco». E rivolto al fratello: «Se non ti sei ancora deciso, vorrei che ti preparassi interiormente per fare il tuo ingresso».
Negli anni successivi affiorano le delusioni e le amarezze di Heidegger. Più cauto, più pacato, Fritz guarda gli eventi con una certa distanza. Nel luglio del 1941 giudica «problematica» la vittoria tedesca, mentre qualche mese dopo Martin calcola la distanza dell'esercito da Mosca: «Solo 30 chilometri!». Quando l'isolamento politico, filosofico, soprattutto umano, tormenta e angustia il filosofo, Fritz gli resta accanto. Lo sostiene; legge i suoi scritti. «Ho iniziato a studiare la Storia dell'essere, frase per frase». Si capisce perché Heidegger vada spesso a Messkirch e, quando è lontano, spedisce al fratello una lettera dopo l'altra. Ricorda la loro infanzia, apprezza quel forte legame fraterno, parla delle loro passeggiate lungo il sentiero di campagna.
A lui si rivolge nel febbraio del 1946 da Badenweiler, vicino Friburgo, dove è ricoverato nella clinica psichiatrica. Non è chiaro che cosa lo «spirito del mondo» intenda fare dei tedeschi, né perché voglia servirsi, per i suoi disegni, degli americani. Lieber Fritz gli scrive «nell'epoca della spaesatezza», in cui nessuno più è a casa, nel tempo della «piattezza planetaria», resta la possibilità di una dimora. Per lui è quel rapporto con il fratello. «La dimora resta, Fritz; siamo noi a rifondarla».
(Corriere della Sera, 12 ottobre 2016)
La Sinagoga di Savoca rischia la demolizione.
Non si trovano i soldi per metterla in sicurezza mentre il Comune pensa all'esproprio.
di Giuseppe Puglisi
Resti della Sinagoga di Savoca
SAVOCA - La Sinagoga di Savoca rischia la demolizione perché mancano i finanziamenti per metterla in sicurezza. Il Comune non dispone delle risorse i proprietari preferiscono demolirla perché costa meno, da Regione e Città Metropolitana non arriva alcun segnale. Il Comune di Savoca pensa all'esproprio, poi però bisognerà trovare i soldi per il pieno recupero dell'edificio. L'anno scorso la dirigente responsabile della sezione beni architettonici della soprintendenza di Messina, arch. Maria Mercurio, aveva autorizzato i lavori di messa in sicurezza. Il progetto era stato presentato dai proprietari dell'immobile, la famiglia Smiroldo di Santa Teresa di Riva, e redatto dal geom. Santi Mastroeni, già presidente dell'Archeoclub Area Jonica, prevedeva un intervento di pulizia e di consolidamento dei muri perimetrali della struttura di via San Michele. "Si tratta di un intervento di semplice messa in sicurezza - ci spiegava il geom. Mastroeni - volto soprattutto ad evitare che si arrivi al crollo dei muri ed al collasso degli archi, ormai sin troppo pericolanti, come hanno accertato i sopralluoghi che sono stati fatti con i tecnici comunali e della soprintendenza. Al contempo si provvederà alla completa pulizia e scerbatura dell'area".
Era "appena" febbraio 2014, da allora non si è mossa foglia. Dal comune l'assessore ai beni culturali, Enico Salemi Scarcella, ci fa sapere che l'attenzione verso la sinagoga non è scemato e che si stanno cercando soluzioni per possano essere percorribili. Nel frattempo l'edificio, che non ha alcun vincolo architettonico, potrebbe venire demolito per evitare pericoli alla pubblica incolumità confinando con la strada pubblica. Sarebbe una sconfitta per tutto il comprensorio anche perché documenti ritrovati recentemente negli archivi dallo studioso Santo Lombardo confermano al cento per cento la presenza di insediamenti ebrei nella Valle. Conferme che arrivano anche dalle tracce scoperte qualche settimana fa a Castoreale che confermano a loro volta come la conversione al cristianesimo in seguito all'editto del 1492 fosse fittizia e gli ebrei del circondario, in segreto, tra le mura domestiche, continuassero a praticare il culto ebraico.
La Sinagoga di Savoca è tornata prepotentemente di attualità grazie al rinvenimento al suo interno di una pietra con incisa la stella di David. L'interesse suscitato portò a Savoca il capo della Comunità ebraica di Sicilia, il rabbino sefardita ortodosso Yitzhak Ben Avraham, fondatore della sinagoga di Siracusa, che arrivò con una nutrita delegazione di studiosi autorevoli che "Certificarono" che quel sito era una sinagoga. Sul frontespizio e all'interno del rudere, sono stati rinvenuti segni che per il rabbino ed il suo pool di esperti erano significativi della destinazione e dell'uso dell'edificio. Sono passati due anni ed ancora si discute come recuperarlo alla Storia della nostra Valle.
(Gazzetta Jonica, 12 ottobre 2016)
Shoah: all'Unite seminario di ricerca e disseminazione memoria
TERAMO - Si terra' giovedi' 13 e venerdi' 14 ottobre, nella sala delle lauree della Facolta' di Scienze politiche, un seminario di ricerca e disseminazione della memoria della Shoah organizzato dall'Universita' di Teramo con la Rete Universitaria per il Giorno della Memoria e il Centro interuniversitario 27 gennaio che riunisce gli atenei di Teramo, Macerata e della Calabria. Il seminario - realizzato in collaborazione con l'Ufficio Scolastico Regionale per l'Abruzzo, l'Unione delle Comunita' Ebraiche Italiane e l'Ambasciata d'Israele in Italia - e' uno dei dieci promossi dal Centro interuniversitario 27 gennaio ed e' curato per la parte scientifica da Raffaella Morselli e Paolo Coen, della Facolta' di Scienze della comunicazione, in collaborazione con la dirigente scolastica Sandra Renzi.
La due giorni, gratuita e aperta a tutti, ma rivolta principalmente agli insegnanti delle scuole secondarie di primo e di secondo grado, iniziera' giovedi' 13 ottobre alle ore 15.00 con i saluti di Luciano D'Amico, rettore dell'Universita' di Teramo; Rafael Erdreich, consigliere politico dell'Ambasciata d'Israele in Italia; Ruth Dureghello, presidente della Comunita' Ebraica di Roma; Ernesto Pellecchia, direttore dell'Ufficio Scolastico Regionale per l'Abruzzo. Dopo la presentazione di Raffaella Morselli e Paolo Coen, Roberto Finzi, dell'Universita' di Bologna, interverra' su Modernita' e antisemitismo. Seguira' la relazione di Rita Borioni, consigliere di amministrazione Rai, dal titolo Roma, 1938: il fascismo, le industrie culturali italiane e il mito del "bravo italiano".
Venerdi' 14 ottobre, a partire dalle ore 15.00, interverranno Romano Orru' e Paola Besutti, dell'Universita' di Teramo, che terranno una relazione rispettivamente su Liberta', eguaglianza, minoranze e su La musica nella Shoah e per la Shoah. La Rete Universitaria per il Giorno della Memoria, costituitasi nel marzo 2011 e presentata ufficialmente il 24 gennaio successivo alla Camera dei Deputati, dal 2012 al 2015 ha organizzato il 16 ottobre (in memoria del rastrellamento al Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943) quattro Corsi nazionali di storia e didattica della Shoah, seguiti complessivamente da oltre cinquemila persone. Dopo una prima collana di volumi, uscita fra il 2010 e il 2013 per i tipi di Rubbettino, la Rete ha fondato nel 2014 una seconda collana per le Edizioni Universita' di Macerata, dal titolo Il tempo, la storia e la Memoria. Il nuovo Centro interuniversitario 27 gennaio, che riunisce gli Atenei di Teramo, Macerata e della Calabria, parte dall'esperienza della Rete Universitaria per il Giorno della Memoria per svilupparla e approfondirla sul piano della ricerca e della disseminazione. Insieme, Rete e Centro intendono diffondere, fra l'altro in occasione del 27 gennaio e del 16 ottobre, "buone pratiche" nella lotta contro ogni forma di razzismo e antisemitismo, in vista della costruzione nelle generazioni piu' giovani di un sentimento di cittadinanza europea condivisa e di una cultura volta al pluralismo e alla tutela dei diritti umani e civili.
(AGI, 12 ottobre 2016)
Treni ad alta velocità: Belgrado-Budapest e Gerusalemme-Tel Aviv
di Alessia Pellonara
Recentemente sono stati avviati due progetti per la costruzione di una rete ferroviaria che supporti i treni ad alta velocità. Uno prevede il collegamento Belgrado (Serbia) - Budapest (Ungheria) e il secondo il collegamento di Gerusalemme a Tel Aviv (Israele).
Una novità interessante per chi vuole conoscere una meta insolita come la Serbia o per chi sta progettando di visitare Israele e preferisce viaggiare via terra.
Belgrado - Budapest
Il progetto di collegare Belgrado a Budapest ha visto un incontro iniziale assieme a Macedonia e Grecia, in quanto il collegamento ad alta velocità si potrebbe estendere a questi due paesi. Durante l'incontro avvenuto a dicembre 2014 è stato firmato un accordo e oggi il progetto prende vita.
Il treno ad alta velocità viaggerà a 200 km/h, riducendo le 8 ore di viaggio a solamente 2h40.
Durante il summit tra gli stati sono state discusse tutte le modalità tecniche e tecnologiche per rendere possibile l'infrastruttura. Il progetto è largamente finanziato da capitali cinesi e senza dubbio favorirà l'economia e l'industria serba e ungherese creando nuovi posti di lavoro, nonché offrirà un modo alternativo di visitare l'est europeo.
Gerusalemme - Tel Aviv
La seconda ferrovia ad alta velocità è quella che faciliterà lo spostamento tra Gerusalemme e Tel Aviv. Due città, due mondi separati, che si stanno avvicinando grazie a questo progetto. Nonostante le numerose problematiche sollevate per quanto riguarda l'espropriazione delle terre necessarie alla costruzione delle strutture, a marzo 2018 la nuova ferrovia diventerà realtà.
Questa permetterà di spostarsi da una città all'altra alla velocità di circa 160km/h in soli 30 minuti, riducendo nettamente i tempi di percorrenza attuali che sfiorano le 2 ore. I treni a due piani che serviranno la tratta trasporteranno circa 1700 passeggeri lungo le ripide colline israeliane e attraverso gallerie avveniristiche e ponti sospesi. Si calcolano 10 milioni di viaggiatori all'anno, grazie alle frequenti partenze giornaliere (4 partenze all'ora).
(Le tue notizie di viaggio, 12 ottobre 2016)
Il pericoloso espansionismo sovietico di Putin (e dell'Iran)
Putin non scherza con il suo espansionismo e se Putin non scherza non è una bella notizia per il mondo libero. Spiace per i tanti, troppi, estimatori dello Zar russo, ma per le democrazie e per i sistemi democratici l'espansionismo muscolare in stile sovietico che sta mettendo in mostra il capo del Cremlino non è proprio una bella notizia.
Ieri la conferma della notizia che Putin intende aprire/mantenere una base navale permanente a Tartus, in Siria, è stata solo la ciliegina sulla torta di una serie di notizie e indiscrezioni che vogliono la Russia lavorare per la riapertura di diverse basi militari in tutto il mondo, da Cuba all'Egitto passando per il Vietnam, Nicaragua, Venezuela, Singapore, e addirittura alle Seychelles. Non sono solo rumors, si tratta di una strategia ad ampio raggio di potenziamento militare che riguarda sia il Medio Oriente che il Sud America, una strategia tutt'altro che difensiva o di semplice salvaguardia degli interessi russi....
(Right Reporters, 12 ottobre 2016)
"Impariamo a essere giudici solo di noi stessi, a usare le parole per unire e non distruggere"
Il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni ha pronunciato nell'ora di Nei'là di questo Kippur 5777, nel Tempio maggiore della Capitale, le seguenti parole:
"Dio nostro e dei nostri padri, non ci lasciare, non ci abbandonare, non ci svergognare, non cancel- lare il tuo patto con noi; avvicinaci alla tua Torà, insegnaci i tuoi precetti, mostraci le tue strade "
Queste sono alcune righe della preghiera che leggeremo tra pochi minuti. È la preghiera di chi si sente senza riferimenti, di chi rischia l'abbandono, di chi vuole trovare la strada smarrita. La preghiera di Israele esprime le sue necessità collettive accumulate in millenni di storia. Vi sono momenti in cui queste necessità non si avvertono tanto, altri in cui si pensa che le soluzioni non siano quelle richieste dalla preghiera; altri momenti in cui le parole pronunciate in una lingua considerata estranea non vengono neppure capite, prima ancora di essere condivise. Eppure queste preghiere sono un documento essenziale, una chiave per capire la nostra vita, una guida che potremmo anche mettere in discussione, ma non possiamo fare a meno di conoscere.
L'anno che è passato non è stato un anno buono per la nostra Comunità, per questo Paese, per l'Europa. È stato anno di crisi economica non risolta, di catastrofi naturali, di attentati terroristici islamici; e su questo sfondo la nostra Comunità ha dovuto gestire l'emergenza di una crisi giudiziaria che ha coinvolto uno dei suoi Enti, con conseguenze negative sulla nostra immagine e ripercussioni economiche dalle quali sarà molto faticoso emergere e che hanno imposto tagli dolorosi in settori essenziali. Sarebbe bello poter dire che da questi fatti usciamo rinforzati. Abbiamo reagito ma non ne siamo ancora usciti. Proprio il giorno di Kippur trasmette un insegnamento importante, quello di saper gestire i fatti negativi. Lo dice la preghiera dell'Untanè Toqef: La teshuvà, la preghiera e la tzedaqà fanno passar via et roa' haghezerà, il male degli eventi cattivi. Non gli eventi cattivi che non possiamo evitare più di tanto. Ma il male che li accompagna. Male di sofferenza personale, di ulteriori divisioni, di perdita di speranza. L'antica ricetta appunto ci dà una chiave di comprensione e mostra una via di uscita. Che dipende molto da noi.
Tra le tante cose che insegna la storia del profeta Jonà, che abbiamo letto poco fa come haftarà di Minchà, c'è la potenza di un piccolo atto di ravvedimento. Il profeta che aveva fatto di tutto per sottrarsi ai suoi doveri, scappando e mettendo in pericolo sé stesso e i compagni di viaggio, è dal ventre di un pesce che l'ha ingoiato che chiede scusa. Con una pistola puntata alla tempia è facile chiedere scusa. Eppure gli basta questo per riconciliarsi e ottenere il perdono. Ci vuole poco per ricominciare. In questi giorni così intensi il richiamo alla teshuvà coinvolge tutti, ognuno dovrebbe farlo per sé stesso e per chi gli è vicino o per chi può ascoltarlo.
Chiaramente, quando si parla di teshuvà si devono mettere in conto, per criticarli, i comportamenti scorretti; ma c'è il rischio di ergersi a giudici non richiesti e senza autorità. Persino a Mosè venne rinfacciato, all'inizio del suo percorso di ritorno all'ebraismo: "chi ti ha messo come principe e giudice su di noi".
Mettersi a criticare, poi, sebbene sia necessario, rischia di trasformarci in accusatori e pubblici ministeri che sottolineano solo gli aspetti negativi degli imputati per arrivare alla condanna. E non è che ci manchino già gli accusatori e coloro che ci sono ostili. La virtù è quella di trovare il giusto equilibrio tra colpe e meriti, tra assoluzioni a tutti i costi e condanne senza appello. Ci penserà Qualcuno dall'alto a valutare il peso delle nostre azioni, e la bontà delle nostre intenzioni. Per quanto riguarda noi, questo è il momento speciale per tutti di essere severi e insoddisfatti con noi stessi, per poterci migliorare, ma nel rapporto con gli altri di riscoprire, in contrapposizione all'odio, la grande e difficile virtù dell'ahavàt Israel, dell'amore per il popolo d'Israele. E purtroppo abbiamo tutti quanti uno strumento potente per seminare divisione, disprezzo e odio: questo strumento è la nostra lingua, la parola.
La parola è ciò che distingue l'uomo dall'animale, è il suo principale strumento di comunicazione, ma può essere strumento di distruzione. In questa giornata abbiamo letto varie volte, e tra poco la ripeteremo, la confessione dei peccati, che è collettiva al plurale e in ordine alfabetico, per due volte: una elenca le colpe e l'altra i modi per commetterle. La lashon harà', la maldicenza, compare in entrambe le liste. Controllare la propria lingua è tra le cose più difficili da fare. In questo giorno abbiamo esercitato e imparato, o almeno avremmo dovuto imparare, ad usare la lingua per dire cose belle, per purificarci, per raccontare storie che fondano la nostra identità.
Proviamo da ora in avanti a fare l'esercizio più difficile, quello di controllare le parole e di rispettare gli altri. Usiamo i nostri mezzi per unire, costruire, seminare solidarietà. In questi momenti solenni, benché rari nell'anno, gran parte della Comunità si ritrova insieme, e dovrebbe mettere da parte orientamenti e pensieri differenti, divisioni politiche e religiose, origini e stato sociale, per vivere esperienze collettive di salita spirituale. Bisogna comprendere la forza incredibile che possiamo avere grazie a queste esperienze. Forse non riusciremo a evitare la confusione e il chiasso che disturba le preghiere purtroppo poco comprese, ma ci sarà silenzio al momento solenne della berakhà nella ricomposta unità dei gruppi famigliari, commozione al passaggio dei sefarìm, liberazione collettiva al momento del suono dello shofàr. Dobbiamo comprendere questa forza che nasce, anche se spesso inconsapevolmente, dall'unione tra di noi e dal legame contemporaneo con il Signore benedetto. Caricarci di questa forza e portarcela con noi a casa, in famiglia, nel lavoro quotidiano.
Questa giornata non avrebbe senso se non ci fosse un ottimismo di fondo, una certezza di speranza, una fiducia illimitata sia nella misericordia divina che nelle nostre capacità di migliorare. È questa speranza che ci guida nell'ora di ne'ilà di chiusura delle porte del cielo, con le parole del profeta Isaia (58:8) che abbiamo letto questa mattina:
"Allora la tua luce esploderà come l'aurora e la tua guarigione spunterà rapidamente, la tua giustizia ti precederà e la maestà del Signore ti seguirà."
חתימה טובה, תזכו לשנים רבות
(moked, 12 ottobre 2016)
Israele - Digiuno del Kippur
Israele, per tutto il tempo del Kippur (Digiuno), i trasporti pubblici all'interno e le trasmissioni delle emittenti radio televisive, vengono sospese. La polizia ha decretato lo stato di massima allerta a Gerusalemme, in seguito all'attentato di domenica in cui un palestinese membro del gruppo islamico Morabitun ha ucciso due israeliani prima di essere abbattuto a sua volta da alcuni agenti.
All'interno di Gerusalemme la polizia ha istituito posti di blocco per separare i rioni palestinesi, dove la vita prosegue normalmente, da quelli ebraici dove invece c'è il Kippur.
Ai fedeli che si recano in sinagoga il municipio ha consigliato di portare con sé un'arma (se dotati della necessaria licenza) e dei telefoni cellulari, per possibili situazioni di emergenza.
(Knights of the World, 11 ottobre 2016)
Israele e il venture capital di Stato: perché il governo finanzia l'innovazione
La Israel Innovation Authority del ministero dell'economia eroga centinaia di milioni di dollari alle startup, che restituiscono il denaro solo se hanno successo. C'è anche un fondo di vc a partecipazione governativa e uno privato "scaturito" dal primo. «Sono driver di crescita» dice a EconomyUp Ora Dar, dirigente dell'Autorità.
di Luciana Maci
Ora Dar, capo del settore Life Sciences della Israel Innovation Authority
Centinaia di milioni di dollari di finanziamenti pubblici erogati in questi anni, un fondo di venture capital con partecipazione minoritaria del governo che nel 2015 ha raccolto 222 milioni di dollari, un altro fondo vc privato "scaturito" dal primo con raccolta pari a 320 milioni di dollari, varie centinaia di progetti innovativi che nascono ogni anno: sono alcuni dei numeri della Israel Innovation Authority, esempio particolarmente interessante di sostegno pubblico all'innovazione. Israele sta puntando molto, e da molto tempo, sull'imprenditoria innovativa, convinta che sia una delle principali leve per incrementare il Pil (Prodotto interno lordo), generare occupazione e attirare capitali stranieri nel piccolo Stato medio-orientale. Perciò è nata presso il ministero dell'Economia l'Autorità per l'Innovazione di Israele, la cui missione è contribuire ad ottenere la prosperità economica attraverso l'innovazione tecnologica lavorando a stretto contatto con l'industria. Un'iniziativa con ben 40 anni di storia alle spalle. Lo conferma Ora Dar, capo del settore Life Sciences della Israel Innovation Authority, intervistata da EconomyUp. "Da gennaio 2016 è cambiato il brand, adesso ci chiamiamo appunto Autorità israeliana per l'Innovazione, prima eravamo l'Office of the Chief Scientist (Ocs). E siamo sempre stati sotto il ministro dell'Economia".
- Il governo irsaeliano aveva una strategia per l'innovazione già 40 anni fa?
Sì. Da cinque anni a questa parte abbiamo scoperto sul nostro territorio risorse naturali come il gas, ma fino a quel momento non ne avevamo a disposizione. Il "cervello" era l'unica risorsa in nostro possesso. Così abbiamo iniziato a pensare come sfruttare al meglio questa risorsa. Siamo diventati terzi al mondo per l'esistenza di centri di trasferimento di tecnologie e attiriamo investimenti stranieri: sono 270 i grandi gruppi che oggi lavorano in Israele, nel 2010 erano appena cinquanta.
- Come è organizzata l'Autorità?
Sostanzialmente in tre rami: supporto alle società, agevolazione dei rapporti tra industria e università e venture capital finanziato dal governo. Per quanto riguarda il link tra atenei e aziende, noi non ci occupiamo di finanziare le attività scientifiche, ma di fornire fondi per il trasferimento di tecnologie dalle università all'industria. Il nostro contributo a progetti di questo tipo va dall'85% al 90% del budget richiesto e lo versiamo a fondo perduto. Non mettiamo il 100% perché vogliamo stimolare il mondo dell'industria a farsi avanti, valutare l'importanza del progetto e contribuire a delineare il piano di lavoro. In un arco di tempo di 2 o 3 anni vogliamo che la tecnologia sviluppata sia più attrattiva per gli investitori privati. Questo è lo scopo specifico del percorso.
- Stiamo parlando di startup?
Sì, ma non solo. Questo tipo di finanziamenti non riguarda soltanto le startup, è denaro che va alle università. Le startup nascono quando c'è un trasferimento tecnologico e quando la tecnologia si sposta dagli atenei all'impresa. Talvolta continua ad essere sviluppata all'interno delle università per un certo periodo, ma questo serve per sviluppare qualcosa che alla fine sia più orientata al pensiero commerciale. In sostanza eroghiamo fondi alle università per la ricerca applicata.
- Come funziona invece il ramo dell'Autorità a sostegno delle imprese?
Il Techological Incubators Program dello Stato di Israele ci consente di finanziare le startup ospitate negli incubatori. Dopo un'apposita selezione delle startup da finanziare, l'Autorità eroga finanziamenti per l'85% del valore dell'investimento, che è già molto ma non è tutto. L'incubatore deve provvedere con un ulteriore 15%.
- Anche questi sono finanziamenti a fondo perduto?
Non esattamente. Mentre per le università ovviamente lo sono, alle imprese diamo fondi chiedendone la restituzione una volta che il prodotto è sul mercato. Condividiamo il rischio, ma se la startup ha successo, vogliamo indietro il grant in base alla percentuale delle vendite effettuate e fino a quando non è del tutto ripagato. Non mettiamo equity, non siamo partner, è una sorta di prestito condizionato senza interessi.
- Come avviene la selezione delle startup da finanziare?
Abbiamo un gruppo di valutatori con esperienza sia nel settore della ricerca sia in quello dell'industria. Valutano le imprese che si sono candidate incontrando il team, andando a visitare la società e cercando di farsi un'idea. Dopodiché elaborano un report, poi la parola passa a un Comitato al quale spetta il giudizio finale. È una procedura molto competitiva, cerchiamo la qualità.
- Quanti fondi avete erogato l'anno scorso?
125 milioni di dollari come grant solo per le scienze della vita. Una cifra minore è andata agli incubatori, i quali talvolta aggiungono volontariamente denaro di tasca propria perché vogliono che il progetto si sviluppi in modo più veloce.
- Sono sempre co-investimenti con le imprese private?
Sempre. Da parte nostra non imponiamo diktat, non diciamo in quali direzioni deve essere allocato il budget, se per la ricerca sul cancro o per quella sulle malattie infettive. Ma le realtà che finanziamo nel Life Science dovranno avere particolari strumenti innovativi, perché in questo momento il settore lo richiede. Abbiamo poi un Fondo di venture capital privato, dove il governo è un partner minoritario. Funziona così: il governo sceglie i management partner e poi dice loro 'Andate e trovate il denaro, noi metteremo una certa quota'. Siamo partner di minoranza perché in questo modo saremo i primi a perdere e gli ultimi a guadagnare, mentre gli altri hanno un ritorno sugli investimenti. È stata un'iniziativa unica nel suo genere e ha riscosso un tale successo che sono arrivati finanziamenti dalle industrie in misura maggiore di quanto prefissato. Così è nato un Fondo addizionale, senza il nostro coinvolgimento.
- Quanto denaro avete raccolto con il Fondo di venture capital governativo?
222 milioni di dollari. L'altro fondo, annunciato un mese fa, ha raccolto 320 milioni di dollari. Basato sul successo del primo fondo, è nato il secondo fondo, solo per startup israeliane. In genere le nuove società si creano inizialmente grazie ai business angels. Oggi i fondi di vc stanno creando nuove società.
- Quante startup sono nate l'anno scorso grazie alla vostra attività?
Non ho numeri precisi, anche perché eroghiamo finanziamenti per il primo anno, ma continuiamo anche nel secondo o nel terzo. Cominciamo con finanziamenti early stage, poi passiamo a un importo superiore, è un processo continuativo. Tuttavia posso stimare che ogni anno vengono finanziati almeno 400 progetti tra ricerca universitaria e startup.
- Quanto influisce sull'andamento dell'economia?
Il 50% delle attività industriali israeliane viene dall'hi-tech, di questo il 25% proviene dal settore delle Scienze della Vita. Ogni dollaro versato dal Chief Scientist si moltiplica per 10.
Dove trovate il denaro?
- Per noi finanziare l'innovazione è una cosa molto importante per l'economia. Nel 2009, in piena crisi economica, abbiamo ottenuto denaro aggiuntivo per il nostro fondo perché abbiamo ritenuto che, grazie alle attività innovative, l'economia sarebbe migliorata. Inoltre, come governo, stiamo anche supportando le banche nell'erogazione di prestiti e stiamo dando incentivi fiscali ai privati che investono nel settore. Tutto si tiene, l'intero ecosistema è focalizzato sull'innovazione.
(EconomyUp, 12 ottobre 2016)
Tensione in Israele
Misure di sicurezza rafforzate dopo l'attentato perpetrato a Gerusalemme
Gerusalemme - La polizia perquisisce un giovane nei pressi della porta di Damasco
Tensione sempre più alta in Israele e nei Territori palestinesi in Cisgiordania, a meno di 48 ore dall'attentato a Gerusalemme nel quale due persone sono morte e otto sono rimaste ferite. Al termine del consiglio di difesa, ieri sera, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha disposto un rafforzamento delle misure di sicurezza. Il timore è che altri "lupi solitari" palestinesi possano tornare ad agire in città, specialmente in occasione del digiuno del Kippur che inizierà oggi all'imbrunire. Nella notte l'esercito israeliano ha chiuso i valichi con la Cisgiordania e i fedeli ebrei hanno ricevuto istruzione di mantenere la massima vigilanza anche all'interno delle sinagoghe.
«Non c'è dubbio che ieri è stato sventato un disastro pesante grazie all'intervento molto rapido, determinato, degli agenti di polizia che hanno mostrato uno spirito da combattenti» ha osservato Netanyahu. Riferendosi poi al Kippur e anche alla successiva festa dei Tabernacoli, il premier ha aggiunto: «Ben sappiamo che questo periodo viene scelto dai fomentatori di terrorismo e dagli incitatori per appiccare fiamme. Dobbiamo dunque tutti restare vigili; civili e forze dell' ordine assieme».
Nelle ultime 24 ore le forze di sicurezza hanno compiuto decine di arresti a Gerusalemme est nel tentativo di verificare se l'autore dell'attentato di ieri - un palestinese del movimento islamico Morabitun, attivo particolarmente nella Moschea Al Aqsa - avesse complici. L'uomo aveva vissuto in prima persona tutte le frizioni degli ultimi anni con quanti in Israele vorrebbero garantire un libero accesso alla Spianata, dove sorgeva il Tempio di Gerusalemme. Si cerca di risalire soprattutto all' origine del fucile M16 da lui utilizzato, probabilmente rubato all' esercito israeliano. L'uomo aveva con sé anche numerosi caricatori e una bomba a mano. L'inchiesta mira inoltre ad appurare se, alla luce della perizia da lui mostrata sparando sui passanti mentre era alla guida di un'automobile, avesse avuto anche «una sorta di addestramento militare». L'attentatore era noto da tempo ai servizi di sicurezza israeliani e ieri doveva presentarsi in carcere per sco~tare una reclusione di quattro mesì.
Ieri sera a Gerusalemme si sono svolti i funerali degli israeliani uccisi. Al Fatah, una delle principali fazioni politiche palestinesi, ha indetto uno sciopero generale di lutto. Soddisfazione per l'attentato è stata invece espressa da Hamas, il movimento che controlla la striscia di Gaza dal giugno 2006. Quanto accaduto «dimostra che nel suo secondo anno la Intifada Al Aqsa si sviluppa e si rafforza» ha commentato Ibrahim Madhun, un opinionista legato all' organizzazione. La Intifada Al Aqsa è stata invocata da Hamas nel 2015 per rispondere a una serie di operazioni israeliane al confine con Gaza e in Cisgiordania. Da ottobre 2015 sono morti 232 palestinesi, 34 israeliani, due americani, un giordano, un eritreo e un sudanese.
(L'Osservatore Romano, 12 ottobre 2016)
Suonala ancora, Roger
L'ex leader dei Pink Royd e quella specie di ossessione senile contro Israele.
Il copione, ormai da anni, è sempre lo stesso. Inizia "Pigs", un brano dei Pink Floyd del 1977, che Roger Waters già all'epoca aveva dedicato a tutti "i politici, gli uomini d'affari, i maiali". Inizia l'assolo di chitarra di "Pigs" e Waters inizia a inveire contro l'impresentabile di turno. Domenica scorsa l'ex frontman dei Pink Floyd, ormai settantatreenne, si è esibito al Desert Trip 2016 che si sta svolgendo a Indio, in California: si tratta di una specie di festival Coachella - stessi organizzatori - fatto per un pubblico di più anziani. Se alla fine degli anni Settanta la destinataria delle invettive contenute nelle parole di "Pigs" era l'ex primo ministro britannico Margaret Thatcher, domenica sul palco Waters ha dedicato la performance al "maiale Trump", proiettando durante l'esecuzione alcune delle frasi più scandalose del candidato alla presidenza repubblicano (chissà cosa avrebbero detto i puristi del linguaggio senonoraquandista se al posto di Trump ci fosse stata una donna). Dopo il video virale del magnifico Robert De Niro, che ha esplicitato tutta la sua rabbia contro The Donald dando al contempo una considerevole lezione di recitazione, anche Waters ha voluto dire la sua. Ma non si è fermato a Trump. Com'è nello stile di Roger, ormai fermo agli anni Settanta, cambia canzone, cambia protesta. Mentre suonava "Fearless", ecco apparire sullo sfondo le immagini di Black Lives Matter, il movimento per i diritti degli afroamericani che nel tempo è stato riempito più di retorica che di numeri. Poi Waters è passato alla lettura di "Why Cannot the Good Prevail", una poesia di protesta scritta di suo pugno dopo la rielezione di George W. Bush (forse dimenticata nel cassetto dal 2004). Infine, prima di chiudere, Waters ha ribadito il suo sostegno nei confronti di chi aderisce al boicottaggio di Israele, e ha incoraggiato gli altri artisti a non esibirsi nel paese. Negli ultimi dieci anni, non c'è concerto in cui Waters non inveisca contro Israele, in una specie di ossessione senile che gli impedisce ormai di suonare qualunque canzone senza dedicarla a chi vorrebbe distruggere Gerusalemme. "Non succede spesso che mi lascino un palco così, tanto vale che lo utilizzi", ha detto. E se non lo lasciano cantare, forse non è per le sue idee politiche. Piuttosto perché ha smesso di essere un musicista da un pezzo.
(Il Foglio, 12 ottobre 2016)
Saluto romano in Israele, ultrà del Bari indagati
I tre tifosi erano sugli spalti di Haifa i1 5 settembre durante l'incontro di qualificazione per i Mondiali. Nella loro abitazione la Digos ha trovato anche manganelli e pubblicazioni inneggianti al fascismo.
di Angela Balenzano
BARI - Un saluto romano in Israele. Il 5 settembre mentre l'Italia giocava ad Haifa la prima partita per le qualificazioni ai Mondiali di calcio tutta l'Europa si indignò di fronte a quel gesto. Da pochi minuti le squadre erano entrate in campo quando dal settore occupato dai tifosi azzurri si alzarono tre braccia verso l'alto. Era il saluto fascista.
A distanza di una quarantina di giorni da quell'episodio i responsabili sono stati identificati dai poliziotti della Digos di Bari, diretti da Michele De Tullio, e sottoposti a perquisizione personale e domiciliare. Sono ora iscritti nel registro degli indagati per manifestazioni di razzismo negli stadi. Si tratta di tre ragazzi baresi di 23, 24 e 25 anni (uno di loro lavora in un bar, un altro non ha occupazione e l'altro ancora si è da poco laureato) che ormai da tempo non appartengono al direttivo della Curva Nord e il loro gesto è stato peraltro condannato dalla tifoseria biancorossa.
Durante le perquisizioni gli investigatori hanno sequestrato oggetti che dimostrerebbero «la militanza in gruppi ultras violenti»: in particolare è stato trovato un manganello telescopico e poi ancora una mazza da baseball, materiale pubblicistico riconducibile al!'ideologia nazì-fascìsta, magliette con la scritta «Speziale libero», gli indumenti indossati durante la partita della Nazionale con l'Israele e infine il tagliando di ingresso allo stadio di Haifa. Per impedire che tengano altre condotte illecite all'estero, il questore ha disposto per l'indagato 24enne il provvedimento Daspo esteso anche in ambito internazionale per la durata di tre anni, mentre al 25enne l'aggravamento della misura già in corso da tre a cinque anni con la previsione dell'obbligo di firma e l'estensione in ambito internazionale. Sull'accaduto era intervenuto anche il presidente della Figc Carlo Tavecchio che parlando al telefono con l'ambasciatore italiano in Israele, Francesco Maria Talò aveva detto: «Condanniamo fermamente quanto accaduto e auspichiamo che le autorità competenti possano al più presto accertare quanto accaduto e individuare i responsabili». L'episodio era stato successivamente denunciato da Moked, il portale dell'ebraismo italiano e le foto dei responsabili erano finite su alcuni giornali online dove apparivano due bandiere con le scritte Casarano e Bari. Di qui è partita !'indagine della Digos in collaborazione con la Direzione centrale della Polizia di prevenzione. Il primo elemento trovato a carico degli indagati è stata la loro presenza sui voli aerei diretti in Israele nei giorni precedenti e successivi alla partita dell'Italia e poi ancora gli investigatori hanno scoperto che due di loro (già destinatari del Daspo) non erano andati in commissariato a firmare proprio nel giorno in cui è stata giocata la partita: il provvedimento Daspo impone infatti l'obbligo di firma in un registro presso il commissariato della zona di residenza tutte le volte che vengono giocate le partite del Bari in casa o in trasferta, così come le partite della Nazionale.
Durante gli accertamenti investigativi è inoltre emerso che due degli indagati erano stati arrestati nel 2015 al termine della partita Bari-Avellino. Avevano assaltato l'autobus dei tifosi campani rompendo i finestrini. Erano quasi arrivati allo scontro fisico quando i poliziotti della Digos intervennero riuscendo a fermare i responsabili dell'aggressione. Furono arrestati e a entrambi furono concessi gli arresti domiciliari. Qualche giorno dopo erano di nuovo in libertà.
Esprimo la mia gratitudine per il lavoro svolto dalla Digos - ha detto Luigi De Santis, console onorario dello Stato di Israele in Puglia - che ha permesso di individuare questi pseudo tifosi che con la loro azione danno un'idea distorta della Puglia, terra di accoglienza e in rapporti amichevole con lo stato di Israele».
(Corriere del Mezzogiorno, 12 ottobre 2016)
Contrordine da Putin: Erdogan non fa affari con l'Isis, ma con noi
Russi e israeliani a Istanbul per negoziare sui due dossier chiave: energia e cosa fare nella guerra in Siria.
di Daniele Raineri
ROMA - Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan esce dall'isolamento diplomatico in cui si era cacciato di recente, grazie a due visite internazionali in una settimana. Giovedì il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, arriva a Istanbul per partecipare alle ventitréesima conferenza mondiale sull'energia, presieduta da Erdogan. E' la prima volta in sei anni che un ministro israeliano visita la Turchia, dal giorno dell'incursione dei commando israeliani sulla nave Mavi Marmara che aprì una fase di tensione altissima tra i due paesi. Da mesi si parla di riavvicinamento tra i due governi e di accordi in campo energetico e a fine giugno c'era stata la firma di un protocollo per normalizzare le relazioni, ma poi era arrivato il golpe fallito dei militari. Steinitz non incontrerà Erdogan ma il suo omologo, il ministro turco Berat Albayrak, che è il genero del presidente (per chi segue il gossip mediterraneo: ha sposato la figlia, Silvio Berlusconi era presente all'altro matrimonio in casa Erdogan, quello del figlio). Nel finesettimana è uscita la notizia che il nuovo ambasciatore in Israele sarà Kemal Okem, stretto consigliere di Erdogan.
La visita di Steinitz non riguarda soltanto l'energia, che comunque è un affare importante perché la Turchia potrebbe diventare il primo acquirente del gas che gli israeliani intendono estrarre dai giacimenti marini davanti alla costa. Steinitz tra il 2013 e il 2015 è stato ministro dell'Intelligence e degli Affari Strategici, e non sfugge che in questo momento la Turchia è il crocevia di negoziati e incontri molto fitti, discreti e meno discreti, che riguardano la situazione in Siria. Israele si tiene defilato e non si pronuncia, salvo bombardare quando la situazione strategica lo impone - quindi quando il governo Assad tenta di trasferire armi sofisticate al gruppo libanese Hezbollah - ma è ovvio che è coinvolto da vicino.
La visita a livello ministeriale di Steinitz di domani arriverà tre giorni dopo il secondo incontro fra Erdogan e il presidente Vladimir Putin a Istanbul, dopo quello a Mosca in agosto. I due hanno parlato a lungo della situazione in Aleppo, hanno detto ai giornalisti che si preoccupano per la situazione umanitaria dentro la città, e che stanno coordinando gli aiuti per alleviare le sofferenze della popolazione. Ma è chiaro che a ogni incontro corrispondono decisioni militari e politiche. I due appoggiano fronti opposti della guerra: Erdogan i gruppi dell'opposizione armata al presidente siriano Bashar el Assad (ma non lo Stato islamico, che è una fazione differente che combatte una guerra per motivi suoi), Putin il governo centrale di Damasco (che oggi è guidato da Bashar el Assad, un domani chissà). Dopo il primo incontro, in agosto, la Turchia ha invaso il nord della Siria assieme ad alcuni gruppi ribelli e la Russia non ha battuto ciglio, il che ha fatto pensare che ci fosse una coordinazione decisa in anticipo. E un po' tutti hanno notato che in queste settimane di bombardamenti russi indiscriminati contro Aleppo i turchi hanno taciuto. Tra i dossier affrontati di persona e non detti ai giornalisti ci sono di certo: la questione dei curdi e l'assetto della Siria nel futuro, nelle due sole varianti possibili, con o senza Assad.
E pensare che soltanto dieci mesi fa, il 2 dicembre, il ministero della Difesa russa teneva una conferenza stampa in cui accusava ufficialmente "Erdogan e la sua famiglia" di essere coinvolti nel business criminale del contrabbando di petrolio assieme allo Stato islamico. Il gruppo estremista estrae il greggio dai pozzi conquistati in Iraq e Siria, e poi lo vende alla Turchia - era l'accusa infamante e presentata con tanto di foto satellitari (poco esplicative, in realtà). Erano i giorni della rabbia dopo l'abbattimento di un bombardiere russo vicino al confine siriano e i tamburi della propaganda di Mosca suonavano a pieno volume contro il presidente turco. Le navi della marina russa che attraversavano il Bosforo, in Turchia, per andare in Siria sfoggiavano una vedetta in piedi armata con un missile terra-aria, ben visibile dal ponte di Istanbul.
Lunedì, invece, Putin ha firmato con Erdogan un accordo per la costruzione a partire dal 2017 del gasdotto Turkish Stream, che sarà formato da due linee entrambe passanti sotto il Mar Nero con una capacità - ciascuna - di circa 15 miliardi di metri cubi (si tratta di una grandezza media, il progetto North Stream per ora fermo prevede una capacità di circa 55 miliardi di metri cubi di gas). Una linea porterà gas in Turchia, l'altra attraverserà la Turchia diretta al mercato europeo. L'Iran, altro nemico di Erdogan, ha ieri dato la sua benedizione e ha detto che Turkish Stream porterà benefici a tutta la regione. A Putin, risolte per ora le faccende a Istanbul, tocca pensare all'occidente dove - secondo il ministro inglese Boris Johnson, rischia di diventare un paria.
(Il Foglio, 12 ottobre 2016)
Erdogan: "La Turchia via più affidabile per distribuire il gas del Mediterraneo orientale"
ISTANBUL - La Turchia rappresenta la via più affidabile per la distribuzione del gas del Mediterraneo orientale. Lo ha detto oggi il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, nel suo discorso al Congresso mondiale dell'energia in corso ad Istanbul, alla presenza dell'omologo russo, Vladimir Putin, per la prima volta in visita in Turchia dopo il congelamento dei rapporti diplomatici tra i due paesi. Erdogan ha aggiunto che la Turchia vuole aprire "il quarto corridoio del gas in Europa con il progetto del gasdotto transanatolico Tanap". Ankara intende inoltre arrivare a una produzione del 10 per cento del suo fabbisogno energetico da fonti nucleari e sta pianificando di aumentare il contributo dell'energia solare, eolica e idroelettrica al 30 per cento, ha continuato Erdogan.
Il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, incontrerà giovedì 13 ottobre, l'omologo turco Berat Albayrak, in occasione del Congresso mondiale dell'energia, per discutere, tra le altre cose, dello sfruttamento del gas israeliano nel Mediterraneo orientale. Si tratta del primo incontro ufficiale turco-israeliano a livello ministeriale da quando Ankara e Gerusalemme hanno firmato l'accordo - lo scorso giugno - per il ripristino delle relazioni diplomatiche. Israele e Turchia avevano ritirato entrambi gli ambasciatori nel 2010, in seguito all'incidente della nave di aiuti umanitari Mavi Marmara, durante il quale erano morti nove attivisti turchi.
Le esportazioni di gas da Israele alla Turchia e la cooperazione nel settore energetico saranno tra i temi al centro dei colloqui tra i due omologhi. L'incontro è il risultato di una serie di contatti istituzionali condotti in un lungo periodo di tempo, sottolineano fonti ufficiali israeliane. Riguardo all'eventuale esportazione di gas israeliano verso la Turchia, il quotidiano israeliano d'informazione economica "Globes" sottolinea come non si debba considerarlo come un fatto già assodato. Si tratta soltanto di un incontro preliminare, evidenzia "Globes", precisando che ci sono dei dubbi sulla "fattibilità economica" dell'esportazione di gas dal giacimento del Leviathan verso la Turchia.
(Agenzia Nova, 12 ottobre 2016)
Se l'Isis teme Israele, allora l'occidente ha qualcosa da imparare
La preoccupazione principale di Gerusalemme è quella di esercitarsi in uno sforzo di deterrenza sufficientemente deciso, persuadendo il maggior numero di nemici della "inutilità di continuare a combattere" e ricordandogli sempre "i risultati degli scontri precedenti". Le differenze con gli appelli retorici dei leader occidentali.
di Marco Valerio Lo Prete
ROMA - Nel gennaio 2014, in un'intervista al New Yorker, Barack Obama parlò così dello Stato islamico (Isis): "Se una squadra di basketball composta dalle riserve del college indossa le uniformi dei Lakers, questo non ne fa automaticamente un gruppo di Kobe Bryant". Una dichiarazione irridente ma azzardata, visto che proprio in quel gennaio 2014 l'Isis conquistò la città irachena di Falluja e la capitale della stessa provincia di Anbar, Ramadi. Così quelle parole sono divenute uno dei simboli del fallimento obamiano nell'affrontare l'insurrezione islamista che poi non ha mancato di colpire anche all'interno dei confini americani. A nessuno invece è mai venuto in mente di ironizzare sulle parole di Amos Yadlin, già capo dell'intelligence militare israeliana, che in modo sarcastico aveva descritto così l'Isis: "In fin dei conti, stiamo parlando di qualche migliaio di terroristi senza freni che vanno a bordo dei loro pick up, sparando con i loro kalashnikov e le loro mitragliatrici".
Il generale Gadi Eizenkot
Se tali parole sono giudicate più consapevoli e credibili di quelle di Obama, è perché si fondano su una strategia degna di tale nome. E' quella illustrata dal generale Gadi Eizenkot, capo dell'esercito israeliano che per la prima volta nella storia nel 2015 ha reso nota una versione sintetica delle "linee guida" dell'esercito di Gerusalemme, l'Israeli Defence Forces (Idf), una nota passata inosservata fino a quando il Belfer Center dell'Università di Harvard non ha deciso di tradurla in inglese. La deterrenza nei confronti di attori terroristici e semi statuali - come Israele giudica Hezbollah, Hamas e più di recente lo Stato islamico - viene applicata combinando una superiorità militare schiacciante e una reputazione da Padrino delle relazioni internazionali, ha scritto Graham Allison (direttore del Belfer Center) sull'ultimo numero della rivista National Interest. Il Padrino "prende ogni offesa sul personale", come il personaggio Don Vito Corleone del romanzo di Mario Puzo, che così parla del suo protetto Michael: "Persino se fosse colpito da un fulmine, qualcuno dei presenti ne sarebbe responsabile. E allora io non perdono".
Per citare il generale Eizenkot, "Israele deve essere percepito (da questi gruppi terroristici, ndr) come un nemico imprevedibile che può reagire in maniera molto drastica". La preoccupazione principale di Gerusalemme è quella di esercitarsi in uno sforzo di deterrenza sufficientemente deciso, persuadendo il maggior numero di nemici della "inutilità di continuare a combattere" e ricordandogli sempre "i risultati degli scontri precedenti". A differenza dei leader occidentali, che alla sottovalutazione iniziale dell'Isis hanno sostituito appelli retorici alla distruzione del Califfato, Israele ha fatto in modo di ricordare a Hezbollah e a Hamas le loro responsabilità per economia, educazione e vita quotidiana delle persone che vivono sotto di loro: "All'improvviso non si azzardano a ricorrere al terrore ogni singolo giorno".
L'apparato di sicurezza del paese è consapevole di non riuscire a impedire in questo modo - affiancato certo da prevenzione, difesa e repressione più classiche - ogni singolo attacco, come dimostra l'attentato di domenica scorsa a Gerusalemme (due morti, oltre al terrorista). Tuttavia, al netto della propaganda anti Gerusalemme dell'Isis, è indubbio che i suoi discepoli attivi a ridosso del confine israeliano, sia nel Sinai sia nel Golan, si sono finora guardati dall'attaccare lo stato ebraico. "Semplicemente, perderebbero", ha detto una volta Benny Gantz, capo delle forze israeliane dal 2011 al 2015. Probabilmente oggi l'occidente ha atteso troppo per poter praticare un simile tipo di deterrenza nella lotta anti Isis, conclude Allison, ma la lezione israeliana potrà tornare utile "quando si farà vivo il prossimo Stato islamico o la prossima dozzina di mutazioni di questo cancro".
(Il Foglio, 11 ottobre 2016)
Il nodo palestinese si risolve solo vincendo il terrorismo
di Fiamma Nirenstein
Oggi il mondo ebraico celebra Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, in cui si medita sulla natura umana, sui nostri peccati e sul perdono.
E non a caso ieri Israele ha seppellito due innocenti assassinati dal terrorismo. Alla comunità musulmana apparteneva il terrorista Masbach abu Sabich, di 39 anni, che ieri sparando all'impazzata sulla folla ha ucciso prima una signora di 60, un'impiegata della Knesset, Levana Malhi, nonna di sei nipoti; e poi colpendo un ufficiale di polizia di 29 anni, la cui misera giovanissima moglie piange alla radio la morte del suo eroe «senza il quale il mondo non potrà più esistere». Così è il terrorismo: attacca la civiltà democratica, le sue regole, i suoi affetti colpendo a caso e contandp sulla conseguente distruzione della struttura politica e religiosa nemica.
Spesso, dal Papa alla Mogherini, quando si elencano i paesi colpiti dal terrorismo, Israele non c'è, nonostante le migliaia di morti innocenti sugli autobus, nei caffè, per strada. Il terrorismo di Israele come quello della Spagna, del Canada o dell'Irlanda viene collocato nell'ambito del terrorismo territoriale, una guerra per l'indipendenza. Ma è una menzogna pericolosa per tutto il mondo da decenni colpito dal terrorismo palestinese a sfondo religioso presente in tutte le organizzazioni sciite e sunnite come alleato e come simbolo, internazionale, innestato in quasi tutti i gruppi.
Ieri, dopo l'attacco del terrorista e la sua eliminazione il gruppo ufficiale di Fatah su Facebook ha scritto: «Chi ha condotto l'operazione è un pellegrino alla Mecca, un martire, uno dei migliori rappesentanti di Gerusalemme e della Moschea di Al Aqsa». Hamas ha definito l'attacco «eroico»; Khaled Mashaal si è congratulato con la famiglia: «I palestinesi sono fieri di vostro figlio, un esempio per tutti». È un costume identico a quello usato in qualsiasi gruppo terrorista, gli «shahid» vengono rappresentati in mille foto e osannati. È necessario dunque sapere chi è il terrorista palestinese solo per un dovere morale: è anche una necessità per la sicurezza. I grandi attentati che punteggiano il globo, da Parigi agli Usa, sono segnati dall'ispirazione e dalla partecipazione palestinese. A volte si dice che per fermare al terrorismo occorrerebbe concludere la questione israelo-palestinese. Vero il contrario: la questione palestinese cesserebbe di esistere battendo il terrorismo islamico.
(il Giornale, 11 ottobre 2016)
Attentato a Gerusalemme: analisti si interrogano sulle falle dei servizi di sicurezza interni
Gilad Erdan, ministro della Sicurezza nazionale
GERUSALEMME - L'attacco terroristico di domenica a Gerusalemme ha portato alla luce aspetti inediti sulla nuova ondata di violenze in Medio Oriente e, in particolare, sulla gestione della sicurezza e sulla circolazione illegale di armi. L'attentatore, Misbah Abu Sbeih, un palestinese di 39 anni, era noto alle forze di sicurezza israeliane per aver commesso altri crimini in passato. Proprio per questa ragione ieri avrebbe dovuto recarsi nuovamente in prigione per scontare quattro mesi di detenzione. Da parte sua, l'intelligence israeliana sostiene di non aver ricevuto alcun allarme circa la possibilità di un imminente attacco - altamente probabile visto che l'11 ed il 12 ottobre prossimi si celebra la festa dello Yom Kippur (il Giorno dell'espiazione). Il ministro della Sicurezza nazionale, Gilad Erdan, ha affermato subito dopo l'attacco che non vi è stato nessun alert specifico ed ha accusato il social network Facebook per aver riaperto le sue pagine all'incitamento terroristico palestinese. Tuttavia, l'aspetto che testimonia una vera e propria falla nella gestione della sicurezza è la possibilità che l'assalitore ha avuto di muoversi liberamente su tre diverse scene del crimine prima di essere ferito a morte. Generalmente, infatti, gli assalitori vengono prontamente neutralizzati dalle forze di sicurezza israeliane. Gli analisti si domandano come sia stato possibile che un "lupo solitario" abbia potuto muoversi su tre siti diversi senza essere fermato prima. Secondo alcuni, l'azione è stata possibile solo perché l'uomo ha potuto beneficiare di una rete di fiancheggiatori. Nel caso in cui questa rete di sostegno sia realmente esistita, significherebbe che lo Shin Bet (il servizio di intelligence interna) non l'ha scovata prima. L'altro aspetto che genera preoccupazione tra le autorità israeliane, ed attira l'attenzione degli analisti, è la tipologia di arma utilizzata: un fucile automatico M16. Questo tipo di arma da fuoco ha un costo di circa 1.500 euro, e non è di semplice reperimento. Un altro aspetto da evidenziare è che gli attacchi si sono verificati tutti nelle vicinanze del quartier generale della polizia israeliana.
Ritornando alla presunta falla del sistema di sicurezza interna del paese si nota che l'assalitore, che ha provocato la morte di due persone, ed il ferimento di altre sei, non fosse uno sconosciuto. L'uomo, residente a Silwan, era un volto noto delle forze di sicurezza israeliane, infatti. In passato, Abu Sbeih è stato un attivista del gruppo palestinese estremista "I leoni di Gerusalemme". L'uomo, inoltre, ha partecipato a numerose manifestazioni sventolando la bandiera del movimento islamista palestinese di Hamas ed è stato attivista del movimento islamista palestinese anti-israeliano al Murabitun. Fonti dell'antiterrorismo hanno inoltre rivelato che all'uomo era stato imposto l'allontanamento da Gerusalemme soltanto due settimane fa per aver partecipato ad una campagna anti-israeliana davanti alla moschea di al Aqsa. Gli analisti, pertanto, si domandano come sia stato possibile che l'uomo circolasse liberamente nella capitale del paese senza che ne fosse segnalata la presenza e monitorati gli spostamenti. Oggi, il ministro della Sicurezza pubblica Erdan ha difeso l'operato delle forze di sicurezza israeliane, accusate di non aver saputo sventare l'attacco prima che avvenisse. "L agente deve guardare il quadro d'insieme", ha detto Erdan alla radio dell'Esercito, facendo notare come nell'ultimo anno gli attentati compiuti da palestinesi nell'ultimo anno siano diminuiti. "Non diciamo che è stato un fallimento perché non lo è stato", ha precisato Erdan. Da parte sua, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha indirizzato un messaggio di condoglianze alla nazione, invitando i cittadini israeliani a restare in allerta in vista delle imminenti festività dello Yom Kippur e del festival di Sukkot, che inizierà domenica prossima, 16 ottobre. Subito dopo l'episodio di ieri, condannato sia dall'Unione Europea che dagli Stati Uniti, le forze di sicurezza israeliane hanno condotto una campagna di arresti tra la popolazione palestinese che ha elogiato l'operato di Abu Sbeih.
L'episodio terroristico risale al 9 ottobre, quando Abu Sbeih ha sparato dalla sua auto prima contro una fermata del tram e poi contro un'automobile, provocando la morte di una donna di 60 anni, Levana Malihi, e di un militare israeliano, Yosef Kirma, di 29 anni. L'attentatore è poi fuggito dalla scena e ha continuato a sparare ferendo altre due persone sedute all'interno della propria auto. L'uomo si è quindi diretto verso la Tomba di Simeone ma è stato fermato dagli agenti di polizia in motocicletta, con cui ha ingaggiato un conflitto a fuoco. Lo scambio di colpi con l'attentatore, che è rimasto ucciso, ha provocato la morte di un agente ed il ferimento di un altro militare.
(Agenzia Nova, 11 ottobre 2016)
Arriva l'auto-spia super tecnologica. Ore contate per i furbetti del volante.
Auto civetta made in Israele per scoprire chi telefona mentre guida. Speciali telecamere a bordo già utilizzate a Tel Aviv nella lotta al terrorismo.
di Stefano De Biase
A Lissone l'auto civetta della Safer Place
è in funzione già da qualche mese. Parla il comandante della polizia locale
PRATO - A Tel Aviv è servita per arrestare un palestinese che aveva accoltellato alcuni passanti alla fermata del bus. L'auto civetta intelligente, prodotta in Israele dall'azienda Safer Place e spesso usata in attività antiterrorismo, presto sbarcherà a Prato. Il comando della polizia municipale è in trattativa per noleggiare il sistema che permette da un lato di rilevare le infrazioni alla guida e dall'altro di riprendere in diretta furti, scippi, rapine e aggressioni. Il mezzo è dotato di sei telecamere (laterali, frontali, sul retro) e di un software con tecnologia militare.
Durante l'attività di controllo, l'auto civetta registra in automatico i numeri di targa delle macchine che incrocia e interroga i sistemi ministeriali per sapere se i mezzi sono in regola con l'assicurazione, la revisione o se risultano rubati o nella black list delle forze dell'ordine. Non solo. Le telecamere registrano anche i comportamenti alla guida degli automobilisti. E quindi scoprono se si sta utilizzando il cellulare, se si viaggia senza cintura, se si passa col rosso. Quando la multa sarà notificata nelle case dei pratesi sarà quasi impossibile da contestare, visto che il comportamento scorretto al volante sarà corredato da un'immagine in alta definizione. «Questo sistema - spiega Fabio Marangini, direttore commerciale per l'Italia di Safer Place - rappresenta una garanzia anche per gli automobilisti. Le multe saranno supportate dalle immagini e quindi ci sarà una certezza in più. L'idea nasce in Israele. La macchina viene utilizzata nelle principali città, a cominciare da Gerusalemme e Tel Aviv. E in alcuni casi è stata fondamentale per la sicurezza urbana».
Al termine del turno della pattuglia della municipale, le immagini vengono scaricate sul server del comando. I video possono essere messi a disposizione delle altre forze dell'ordine per indagini su episodi di microcriminalità: l'auto civetta intelligente potrebbe essere fondamentale per identificare un ladro o uno scippatore, o comunque fornire elementi utili al lavoro di polizia e carabinieri. In Italia finora il sistema è utilizzato a Verona e Vercelli. Prato è la prima città a sperimentarlo in Toscana. E per i furbetti al volante sarà dura farla franca.
(La Nazione, 11 ottobre 2016)
Firenze - Restaurati arredi e testi ebraici
Preziosi arredi e testi ebraici salvati dall'alluvione di Firenze del 1966 e restaurati saranno esposti il 23 ottobre nel complesso della sinagoga. L'iniziativa sarà l'occasione per ricordare uno dei protagonisti di quel salvataggio, Luciano Camerino, che riceverà l'omaggio del presidente della comunità ebraica fiorentina, Dario Bedarida.
Sopravvissuto alla deportazione dopo il rastrellamento del 16 ottobre 1943 a Roma e al campo di sterminio, Camerino fu raggiunto dalla notizia dell'alluvione mentre si trovava nella Capitale dove la comunità ebraica romana organizzò squadre di soccorso. Camerino ne faceva parte e raggiunse Firenze con uno dei camion di aiuti per gli alluvionati. Uno degli scopi della missione era salvare gli oggetti e gli arredi sacri per gli ebrei, travolti da acqua e fango nella sinagoga di via Farini: i libri della Torah, i Sefer Torah, tutti oggetti dal valore religioso inestimabile. Alla vista di quella devastazione ebbe un ictus che lo uccise il giorno dopo.
Nel corso delle operazioni di quei giorni furono recuperati e portati a Roma circa 800 reperti tra volumi, registri e paramenti sacri. Molti anni dopo Renzo Funaro, vicepresidente delle fondazione beni culturali ebraici in Italia, si rese conto del valore inestimabile di quel materiale e per riportare alla luce quel patrimonio universale contattò le suore benedettine del Monastero di Santa Maria a Rasano, che restaurarono i testi.
(la Repubblica - Firenze, 11 ottobre 2016)
La libertà come punizione
"Rivendichiamo la nostra libertà",
dissero gli uomini a Dio stringendo i denti.
Ed Egli allor per renderli contenti
concesse lor la libertà:
liberi di affogare
nellimmenso e profondo mare
della loro stupidità.
Gerusalemme e Tel Aviv i due volti di Israele
di Elena Pizzetti
Entrati a Gerusalemme si ha la sensazione che il proprio destino sia legato in qualche modo a quello di questa città. Millenaria e sacra, trasuda storia da ogni pietra e a ogni angolo presenta luoghi eccezionali: dal Monte degli Ulivi al giardino dei Getsemani, dal Muro del Piano al Santo Sepolcro, dalla via Dolorosa a Yad Vashem, il memoriale alle vittime dell'Olocausto, e così via lungo tappe che scandiscono la storia della nostra civiltà. Nello spazio di poche centinaia di metri si incontrano i luoghi sacri alle tre grandi religioni monoteistiche: basta girare un angolo per passare dallo scampanio delle campane al richiamo alla preghiera del Muezzin, e in un'altra strada accorgersi che è iniziato lo Shabbat, tra cappelli e ondeggianti «payot», i tipici riccioli degli ebrei ortodossi .
Molte le iniziative musicali e culturali nella città vecchia, inclusa la Torre di Davide, e la First Station che è stata trasformata in un complesso dedicato al tempo libero con locali e ristoranti. Emoziona sempre lo spettacolo di suoni e luci proiettate sulle mura della Cittadella di David ogni giorno dopo il tramonto che racconta 3.000 anni di storia della città, a cominciare dal re Davide.
Ma Israele ha anche un altro volto, frizzante, dinamico, proiettato al futuro. Per conoscerlo basta andare a Te! Aviv. Vivace, dinamica nel tempo libero e nell'attività economica tanto da essere chiamata «la startup city» , la città ha una popolazione tra le più giovani al mondo ed è stata premiata per le sue spiagge e i suoi ristoranti vegetariani. Senza dimenticare il clima: a Tel Aviv sono garantiti 300 giorni di sole l'anno. Oltre al divertimento con i suoi locali fronte mare e le discoteche, offre la scoperta del quartiere Bauhaus, la città Bianca, sito Unesco straordinario per scoprire l' architettura irripetibile che qui ha avuto un grandioso sviluppo a partire dagli anni '30 del XX secolo.
Per scoprire Gerusalemme e Tel Aviv in un unico city-break, il Tour Operator Caleidoscopio Viaggi propone fino al 30/11 due notti a Tel Aviv tre a Gerusalemme con volo da Milano e Roma in hotel tre stelle da 550 euro a persona. Per informazioni.
(il Giornale, 11 ottobre 2016)
Digiuno del Kippur: rabbini in Israele pregano per la Siria
Sul Golan è già suonato lo shofar. Paese isolato per un giorno
In occasione del digiuno penitenziale del Kippur, che inizia nella serata di oggi, alcuni rabbini hanno organizzato ieri in diverse località di Israele, della Cisgiordania e delle alture del Golan preghiere affinchè terminino gli spargimenti di sangue in Siria.
L'iniziativa e' stata lanciata su Facebook da Shibi Froman, figlio del defunto rabbino Menachem Froman che nel movimento dei coloni si era distinto come il più convinto fautore della pace con i palestinesi e un dialogo inter-religioso anche con Hamas.
"Ogni giorno in Siria sono massacrati centinaia di esseri umani, uomini, donne, bambini, ed il mondo resta indifferente. In occasione del Kippur - ha scritto Shibi Froman nei giorni scorsi - ci raccoglieremo dai quattro angoli del nostro Paese per gridare, pregare, sperare, cantare, indignarci, ed invocare pietà per il mondo in generale e per quanti soffrono a breve distanza da noi".
Una delle cerimonie si è già svolta nel Golan, a poche centinaia di metri dalla zona dove forze fedeli a Bashar Assad si confrontano con ribelli sunniti. I rabbini hanno letto alcune preghiere e suonato lo shofar, il corno rituale. "Non possiamo restare indifferenti di fronte a questa tragedia", ha spiegato il rabbino Ariav Rosen, un abitante delle alture del Golan.
(ANSAmed, 11 ottobre 2016)
"Domani suoneranno ancora le campane delle chiese?". Choc francese
Il visconte de Villiers e la "figlia prediletta dell'islam"
di Giulio Meotti
ROMA - "Le campane suoneranno ancora domani?". E' questa la domanda che dà il titolo a un libro-choc (domani in uscita a Parigi per Albin Michel) a firma di Philippe de Villiers. La Francia "figlia primogenita" e prediletta della chiesa cattolica, come si usava definirla, "fille ainée de l'Eglise", il paese di Mounier, Bernanos, Mauriac, Maritain, De Chardin. Quella Francia si sta trasformando ora nella "figlia prediletta dell'islam". Nel mirino di De Villiers, aristocratico, saggista oltranzista liberale e sovranista, padre di sei figli ed ex ministro della Cultura nel 1986, giscardiano dissidente e ferocemente antieuropeista, ci finisce soprattutto Dalil Boubaker, che rappresenta l'islam francese istituzionale: "E' stato audace quando il 5 aprile 2015, davanti a un pubblico di cinquantamila credenti, da rettore della Grande Moschea di Parigi ha detto: 'Abbiamo 2.200 moschee, ce ne vogliono il doppio'". De Villiers assale anche i politici e i media:
"Tre generazioni di politici hanno consegnato il paese all'islam. Le cause? Oscillano tra spensieratezza e cecità, con quel pizzico di esotismo che ha spinto i cinici postmoderni ad andare nella terra dell'islam".
Scrive De Villiers, in estratti del libro anticipati dal Figaro, che "oggi le autorità spirituali, morali e politiche sono tutte orientate verso la 'Casa dell'Altro' e lo 'stare-insieme', che è di fatto la fine dell'Europa, la fine dell'Europa cristiana".
E' il tema anche del libro di Jean Sévillia, "La France catholique", dei sociologi Hervé Le Bras e Emmanuel Todd, che parlano di "cattolicesimo zombie", e dell'appello di Valeurs actuelles "Touche pas à mon église".
De Villiers è stato candidato "ribelle" del centrodestra francese alle elezioni presidenziali del 1995, alleato di Charles Pasqua nel 1999, capopopolo della campagna contro il referendum europeo del 2005 e da anni è una sorta di eminenza grigia della "Francia eterna", quella che sintetizzò così anni fa: "In Francia non abbiamo il petrolio, ma abbiamo il patrimonio artistico" (lo scorso maggio, De Villiers è riuscito a far restare in Francia l'anello di Giovanna d'Arco, conteso dall'Inghilterra). De Villiers è il simbolo della Vandea: fu lui a invitare lo scrittore russo Aleksandr Solgenitsin all'inaugurazione di un memoriale a Lucs-sur-Boulogne, dove cinquecento persone furono massacrate nel 1794 dai giacobini.
Nel libro, De Villiers attacca "la nuova èra della fusione dei cuori, l'epoca della confusione fra moschee e chiese". Attacca il vescovo di Evry che invita i musulmani a cantare il Corano nella Basilica di Longpont. Invoca Millet e il suo Angelus. Ma anche un manifesto elettorale di François Mitterrand del maggio 1981, dove si mostra una chiesa di campagna. "Con arroganza, ci spingono a riscrivere la storia di Francia alla luce del 'contributo della civiltà islamica"', denuncia il libro. "Gli insegnanti sono in giubilo. Finalmente qualcosa di nuovo, nuove storie da raccontare ... ". Attacca Tariq Ramadan, il quale teorizza che "l'islam è una religione francese e il francese è la lingua dell'islam".
Scrive De Villiers che "la Francia ha sperimentato tante disgrazie nella sua storia. Ma per la prima volta deve affrontare la paura di scomparire. In terra di Francia ci sono due popoli: un popolo nuovo che si è trasferito con il suo orgoglio e un popolo esausto, che non è più nemmeno a conoscenza delle condizioni della propria sopravvivenza".
"Avignone non è più la città dei Papi, ma dei salafiti". A Saint-Denis, di fronte alla basilica dove riposano i santi e Carlo Martello, "dominano oggi le tuniche e le barbe e le bambine vestite col sudario islamico. Se la parrocchia è viva e vegeta, è grazie allo zelo della comunità cristiana degli africani e dei tamil. Il cimitero dei re è solo una enclave. Appartiene a una storia che non conta più". I campanili delle chiese di cui parla De Villiers si stanno già ammutolendo. E' successo a Boissettes (Seine-etMarne), silente giorno e notte, a partire dal gennaio 2014. E' successo alla periferia di Metz, dove le campane della chiesa di Sainte Ruffine sono a riposo coatto. E' successo nel villaggio bretone di Hédé-Bazouges, dove il silenzio è d'oro ed è riempito dal fragore di quelli che Philippe de Villiers chiama "i sacrestani in djellaba".
(Il Foglio, 11 ottobre 2016)
Florida: vandalizzata una sinagoga alla vigilia di Rosh HaShanah
di Nathan Greppi
La sinagoga di Parkland vandalizzata la notte di Rosh ha Shanà
Sabato 1 ottobre una sinagoga Chabad è stata oggetto di vandalismo a Parkland, nel Sud della Florida.
Come riportato su Haaretz, qualcuno ha usato delle bombolette spray per scrivere dei graffiti come "Free Palestine" sull'insegna della sinagoga e il numero 12 sui muri; quest'ultimo in America è spesso usato come termine dispregiativo per indicare la polizia.
Rav Shuey Biston ha dichiarato alla stampa locale che questo è senza dubbio un crimine d'odio, e che i graffiti sono stati scritti per cercare di intimidire la comunità ebraica. "La nostra risposta a questo genere di atti è sempre di aggiungere un'energia positiva e un po' di luce e amore."
Il sindaco di Parkland, Michael Udine, ha detto che quella Chabad è solo una delle tante sinagoghe che sono state coperte di graffiti in città.
Scott Israel, sceriffo di Parkland e membro della comunità ebraica locale, ha aiutato a cancellare i graffiti assieme ad altri volontari. Ha inoltre iniziato a investigare per trovare i colpevoli. "Il mio messaggio alla comunità ebraica è che, ogni volta che affrontiamo questi atti di terrore, violenza e intimidazione, tutti noi dovremmo rispondere con atti di bontà e carità", ha dichiarato Rav Mendy Gudnick.
Purtroppo non è la prima volta che si verificano atti simili. Secondo un rapporto dell'FBI, nel 2014 ci sono stati 1140 crimini aventi come bersaglio minoranze religiose, e di questi il 56,8% erano contro la popolazione ebraica.
(Mosaico, 10 ottobre 2016)
L'antisemitismo e gli ultimi ebrei europei
Non solo islamismo. Il j'accuse del rabbino Coldschmidt
da The Independent (02/10)
La decisione della Gran Bretagna di lasciare l'Unione europea potrebbe portare a una destabilizzazione dell'intero continente tale che la stessa sopravvivenza delle comunità ebraiche è oggi in forse. Lo ha detto uno dei rabbini più importanti d'Europa, Pinchas Goldschmidt, presidente della Conferenza dei rabbini europei, secondo cui "le conseguenze entro trent'anni saranno catastrofiche". In un discorso al Parlamento europeo, Goldschmidt ha detto che gli ebrei oggi hanno i piedi su due binari, "con i treni provenienti a velocità sempre crescente". "Uno è il treno dell'islam radicale e del terrorismo islamico. L'altro è il treno dell'antisemitismo della vecchia Europa, l'estrema destra". Ha poi aggiunto: "Entrambe le minacce sono minacce esistenziali per gli ebrei europei. Entrambi i treni devono essere fermati prima che sia troppo tardi". Il suo discorso è stato tenuto a Bruxelles nell'ambito di un dibattito speciale dal titolo "Il futuro delle comunità ebraiche in Europa". Dati sconcertanti, quelli portati da Goldschmidt: il 22 per cento (quasi uno su quattro) degli ebrei intervistati in nove paesi europei ha detto di evitare eventi ebraici perché teme per la propria sicurezza; il 40 per cento degli intervistati (1.200 ebrei in Francia) ha detto che non indossa più i simboli religiosi nel timore di attacchi antisemiti. Secondo Goldschmidt, le ondate di immigrati in Europa "devono lasciarsi alle spalle il rabbioso antisemitismo e il radicalismo dilagante in medio oriente". Goldschmidt si è lanciato in una previsione: "A trent'anni da oggi, l'Europa sarà sotto l'influenza dei Fratelli Musulmani o sotto l'effetto della destra radicale". La minaccia per gli ebrei d'Europa non è confinata "agli elementi fascisti dell'islam", fede caratterizzata da estremisti come Amedy Coulibaly che ha ucciso quattro ostaggi in un supermercato kosher a Parigi lo scorso anno. "Nuove forme di espressioni antisemite travestite, politicamente corrette, sono riemerse dopo essere rimaste in gran parte inattive a partire dalla Shoah". Secondo Goldschmidt, "l'islam radicale non vincerà la guerra contro l'Europa soltanto in virtù della propria forza, ma a causa della debolezza dell'Unione europea". E' un problema interno al multiculturalismo europeo, secondo il rabbino: "E' impensabile che in alcune delle case di preghiere d'Europa, il clero chieda ai propri seguaci di sottomettere le mogli e di promuovere i delitti d'onore". Nel suo intervento di chiusura nel convegno, anche il socialista tedesco Martin Schulz, il presidente del Parlamento europeo, ha dichiarato:
"Quando vediamo che un ebreo su cinque in Europa ha sperimentato la violenza verbale o fisica, quando vediamo che la popolazione ebraica in Europa è diminuita da quasi quattro milioni nel 1945 a poco più di un milione di oggi, allora sappiamo che è giunto il momento non solo di fare una dichiarazione politica chiara, ma di intraprendere azioni efficaci nel più breve tempo possibile".
(Il Foglio, 10 ottobre 2016)
Rinnovabili: energia pulita dalle foglie di spinaci
Uno studio pubblicato su Nature Communications riguarda l'estrazione di energia pulita dalle foglie di spinaci. Lo studio è stato portato avanti da alcuni ricercatori del Technion-Israel Istituto di Tecnologia.
Arriva da Israele la notizia innovativa e rispettosa dell'ambiente che riguarda l'estrazione di energia pulita dalle foglie di spinaci grazie alla luce solare. I ricercatori del Technion-Israel Istituto di Tecnologia hanno studiato il metodo per ricavare energia dalle foglie attraverso un ciclo che parte da acqua e si conclude in acqua. Il sistema è basato su una cella Bpec bio-foto-elettro-chimica che funziona con l'energia solare e acqua ed è capace di produrre energia e idrogeno.
Il processo di fotosintesi che utilizza la luce per avviare trasformazioni chimiche è alla base dello studio di sperimentazione pubbicato su Nature Communications. Un altro elemento naturale utilizzato dagli scienziati è il ferro che produce energia elettrica grazie allo spostamento di elettroni. L'energia prodotta è utilizzata per separare idrogeno e creare un combustibile "pulito" che come materia di scarto ha solamente acqua pulita.
Energia pulita quindi a partire da foglie di spinaci. Il riferimento al famoso cartone animato Braccio di Ferro è immediato. Il famoso personaggio infatti acquistava energia mangiando spinaci proprio come dimostra lo studio israeliano.
(Alternativa Sostenibile, 10 ottobre 2016)
Israele: Al via la sperimentazione di un trattamento per la leucemia
Cellect Biotechnology Ltd., uno sviluppatore israeliano di tecnologia innovativa che permette la selezione funzionale delle cellule staminali, ha recentemente annunciato di aver ricevuto da parte del Ministero israeliano della Salute l'approvazione per iniziare una fase I / II della sperimentazione clinica in pazienti affetti da leucemia.
Le sperimentazioni verranno effettuate presso il Rambam Hospital e guidate dalla Clinical Assistant Professor, Zila Zuckerman, direttrice dell'unità.
Questo studio è il primo del suo genere in pazienti affetti da leucemia che necessitano di trapianto di midollo osseo e valuterà la sicurezza e l'efficacia di questa tecnologia. Il processo di selezione è progettato per evitare gravi effetti nocivi derivanti da cellule mature, compresa la morte del paziente.
Questi effetti collaterali si manifestano a causa dell'interazione tra il sistema immunitario del donatore e del sistema immunitario del ricevente. La tecnologia innovativa messa a punto da Cellect ha la capacità di isolare le cellule staminali da un qualsiasi tessuto e può consentire una controllata distruzione delle cellule mature del sistema immunitario, impedendo così gli effetti negativi.
Il Dott. Shai Yarkoni, Chief Executive Officer della Società, ha osservato:
Siamo entusiasti di avere l'opportunità di avviare questo studio clinico e siamo ansiosi di iniziare a reclutare i pazienti. I preparativi completi, che comprendono ampi studi su volontari sani, hanno dimostrato un impressionante successo nei trapianti di midollo osseo, con nessuno degli effetti indesiderati.
L'approvazione concessa dal Ministero della Salute israeliano può facilitare altre approvazioni di studi clinici in altri paesi negli Stati Uniti e in Europa. Una volta verificata la sicurezza di questa tecnologia ed una volta che sarà convalidata, si potrà procedere con studi di ricerca sulle cellule staminali e la produzione di terapie ad hoc.
(SiliconWadi, 10 ottobre 2016)
L'attentato a Gerusalemme che spaventa l'Europa
Palestinese spara sulla folla in attesa del bus, due morti. Rischio emulazione da parte di jihadisti di casa nostra.
di Carlo Panella
È bene tenere a mente quanto accaduto ieri a Gerusalemme, perché da qui a poco verrà replicato in Europa. Il fatto: ieri un palestinese si è avvicinato in auto ad un gruppo di persone che aspettavano la metropolitana leggera ad una fermata vicino alla sede della polizia di Amm unition Hill e ha iniziato a sparare. Due i morti, una donna di 60 anni e un poliziotto, otto i feriti, tra loro una donna al volante della sua auto. Poi è fuggito verso il quartiere arabo di Sheikh Jarrah dove è stato intercettato da poliziotti in moto. Sceso dall'auto il palestinese ha ripreso a sparare, ha ferito gravemente un agente ma è subito stato ucciso dai suoi colleghi.
L'uomo, membro del gruppo palestinese fuorilegge dei Morabitun, avrebbe dovuto entrare in carcere oggi per una condanna a 4 mesi per avere postato su Facebook appelli a uccidere ebrei. Dunque, un nuovo, ma diverso, episodio della Intifada dei coltelli, subito salutato con entusiasmo dai media di Hamas a Gaza.
Non c'è dubbio che presto, in Europa, questa nuova tattica assassina, sparare su civili da una macchina in moto, verrà imitata. Lo insegna l'esperienza, perché contagiosa è stata l'Intifada dei coltelli, imitata in Inghilterra (due militari uccisi con una mannaia), in Germania, in Francia e anche in Italia, a Milano, col ferimento a coltellate di un ebreo. Molti "lupi solitari" jihadisti europei, arabi di seconda generazione, trovano comodo ed efficace non impegnarsi in complessi preparativi per mettere in atto attentati con l'esplosivo e colpiscono più semplicemente, vigliaccamente, a sorpresa, magari su un treno, come in Baviera, cittadini inermi e innocenti. Spesso urlando come ossessi «Allah 'o Akhbar», per levare ogni dubbio sul significato rituale della loro voglia di morte. Sono kamikaze, cercano, vogliono la propria morte pur di poterla infliggere agli odiati "cristiani ed ebrei", sono seguaci di una teologia della morte, uno scisma dell'Islam ampiamente motivato dall'ayatollah Khomeini, che ormai è strutturato come una vera e propria religione apocalittica e ferale.
Il fatto tragico è che l'Occidente, l'Europa, persino l'ottimo papa Francesco
Ottimo ?!?
, si rifiutano di prendere atto della profondità ed estensione di questo scisma islamico, si perdono nella ricerca di astruse motivazioni che muoverebbero questi kamikaze. Vengono dipinti come "spostati", emarginati, frustrati, si sprecano economicismo, sociologia e psicologia pur di non comprendere quello che è evidente: i kamikaze che uccidono civili inermi sono seguaci di una ideologia lucida, di un culto della morte che nulla ha da invidiare a quello dei nazisti. Ma quello che è ancora più grave è che quando questo osceno culto colpisce gli ebrei, gli israeliani, l'Europa trova un'altra scusa per non comprendere. Si racconta che la colpa in fondo è loro, degli ebrei, degli israeliani, che non risolvono la questione palestinese. Non comprende, non vuole comprendere che la questione palestinese non si risolve proprio perché è intrisa, contaminata, deviata da questo culto di morte di cui Hamas e il suo stato del terrore a Gaza è la rappresentazione politica e ideologica. Non comprende che da un secolo il sionismo contrasta questo jihadismo assassino - dal Gran Mufti a Hamas - che impedisce ogni pace, ogni accordo, anche quando Israele dichiara di essere pronto a restituire il 95% dei Territori, come fece Ehud Barak nel 2.000. E Arafat rifiutò. Non comprende che il destino che il jihadismo propugna per Israele, la sua distruzione, è lo stesso che propugna per l'intero Occidente.
(Libero, 10 ottobre 2016)
Il bimbo ucciso a Roma e le nostre troppe ipocrisie
di Pierluigi Battista
Il 9 ottobre del 1982, esattamente 34 anni prima dell'attentato di Gerusalemme, venne ucciso in Italia un bambino ebreo da un commando di terroristi «mediorientali» come si diceva allora. Si chiamava Stefano Gay Taché, aveva due anni e stava uscendo con la sua famiglia insieme alla folla di fedeli dalla Sinagoga Maggiore di Roma. Un bambino ebreo, colpito perché ebreo, era stato assassinato.
Ma la comunità nazionale non volle capire l'enormità di quel crimine. Non lo volle capire perché non poteva ammettere che chi chiedeva l'annichilimento dello Stato di Israele e la cancellazione anche fisica degli ebrei che lo abitavano non avanzava una rivendicazione di indipendenza nazionale, ma dava corpo a un'ossessione antiebraica. Chi chiede l'indipendenza non vuole la cancellazione fisica del nemico. Gli irlandesi chiedevano un'Irlanda libera e indipendente non la cancellazione della Gran Bretagna e degli inglesi. I baschi vogliono l'indipendenza da Madrid, non radere al suolo Madrid. Uccidere un bambino ebreo a Roma al termine di una preghiera voleva dire non fare alcuna differenza tra un ebreo, un sionista, un israeliano, tra un bambino e un adulto, in una folle spirale in cui l'antisemitismo trova terreno fertile in un'opinione pubblica incline a fare di Israele il carnefice, il responsabile di ogni male. Ecco perché c'è voluto tempo perché la nostra comunità nazionale si rendesse conto della mostruosità di quel gesto. Ecco perché l'assassinio del piccolo Stefano e il ferimento di tanti italiani di religione ebraica smascherò le nostre ipocrisie.
Anche quello che è accaduto a Gerusalemme ieri lo vogliamo considerare come una cosa diversa dalle stragi di Parigi o di Bruxelles. Non è vero, sono la stessa cosa. La stessa cosa di Roma 1982, quando un bambino ebreo venne trucidato nell'indifferenza nazionale.
(Corriere della Sera, 10 ottobre 2016)
L'ipocrisia continua. A fronte di un articolo semplice e chiaro come questo, sullo stesso giornale ne compare un altro a firma di Davide Frattini in cui, dopo aver descritto quello che è successo a Gerusalemme, si aggiungono queste considerazioni su Israele:
«La paura che torna a Gerusalemme contraddice l'ottimismo del sindaco Nir Barkat: quindici giorni fa ha esaltato le misure decise per scoraggiare gli arabi, dalle punizioni collettive (come i posti di blocco che chiudono gli ingressi ai villaggi dove vivevano gli assalitori) alle sanzioni amministrative (i permessi di lavoro cancellati ai parenti). Rappresaglie che gli ufficiali dell'esercito considerano invece poco efficaci: in questo ultimo anno sono stati loro a suggerire la strategia più morbida per evitare i disagi e le sofferenze alla popolazione civile. Sanno che il presidente Abu Mazen è debole, non sarebbe in grado di controllare i disordini e le proteste tra i palestinesi.»
Nel velato linguaggio degli ipocriti si pone laccento non sulla disumanità degli omicidi ma sugli errori dei cattivi israeliani parlando di punizioni collettive (come fanno gli antisemiti di Hamas) e rappresaglie. La morale è quella solita di tutti i tempi: cari ebrei, guardatevi dentro, se vi ammazzano, in fondo in fondo, la colpa è vostra. M.C.
Roma - "9 ottobre, una ferita di tutti"
Poche parole, niente cerimoniali, solo la luce sobria di una candela in ricordo della purezza di una giovanissima vita spezzata. Così l'ebraismo romano ha voluto commemorare il piccolo Stefano Gaj Taché, vittima a soli due anni dell'attacco terroristico palestinese che il 9 ottobre del 1982 colpì il Tempio Maggiore di Roma. Ai feriti sopravvissuti a quell'orribile episodio, di cui alcuni raccolti con molti altri amici davanti al tempio in Largo Stefano Gaj Taché, è andato il pensiero della presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello. "Sono qui a parlare a nome di tutti i feriti, ma credo che quanto accaduto 34 anni fa costituisca una ferita un po' per tutta questa Comunità", ha aggiunto al suo ricordo Gadiel Gaj Taché, fratello di Stefano.
"Insieme ricordiamo il drammatico 9 ottobre di 34 anni fa, quando terroristi palestinesi colpirono a morte non solo una famiglia, ma tutti quei cittadini che, a Roma e in Italia, rifiutano l'odio, l'integralismo, la violenza", il messaggio della presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, letto da dall'assessore ai Beni culturali dell'Unione Gianni Ascarelli. La presidente ha anche rievocato le parole del discorso di insediamento pronunciato un anno fa dal capo dello Stato Sergio Mattarella, il quale aveva sottolineato che "Stefano Gaj Taché era il nostro bambino, un bambino italiano".
Dureghello ha quindi sottolineato anche l'importanza dell'aiuto delle autorità nel ricordo di quanto avvenuto quel tragico 9 ottobre e nella tutela della Comunità, testimoniato tra le altre cose dalla presenza del presidente dell'Assemblea Capitolina Marcello De Vito e della consigliera della Regione Lazio Maria Teresa Petrangolini, nel cui discorso è stato ribadito "l'impegno della testimonianza contro l'oblio". Una collaborazione fondamentale anche per il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, il quale ha ricordato che "l'attentato non è nato dal nulla, ma ha costituito il culmine di un processo di emarginazione, criminalizzazione e isolamento progressivo della nostra Comunità, che non è stata capita per molto tempo e a cui resta ancora la sensazione amara di essere stata venduta". Nonostante questo, ha però concluso il rav, la vitalità della Comunità capitolina oggi testimonia che "non sono riusciti a rendere questo luogo un luogo di morte".
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Le parole della presidente Ucei
Di Segni: "Oggi come nel 1982, uniti contro il terrorismo"
«L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, i presidenti delle singole Comunità, tutti gli ebrei italiani. Insieme ricordiamo il drammatico 9 ottobre di 34 anni fa, quando terroristi palestinesi colpirono a morte non solo una famiglia, ma tutti quei cittadini che, a Roma e in Italia, rifiutano l'odio, l'integralismo, la violenza. Ricordando l'attentato al Tempio Maggiore in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché, ricordando quelle ore convulse e drammatiche, ricordando la vergognosa campagna di odio che precedette l'attentato, sottraiamo questa terribile pagina del Novecento italiano da un oblio cui è stata troppo spesso condannata. "Stefano Gaj Taché era il nostro bambino, un bambino italiano" ha sottolineato il capo dello Stato Sergio Mattarella nel suo emozionante discorso di insediamento lo scorso anno. Il nostro è un impegno tristemente attuale. Come ci ricordano, proprio in queste ore, nuovo odio e nuovi spari che insanguinano il 9 ottobre degli abitanti di Gerusalemme nell'indifferenza di molti. Seguiamo con preoccupazione gli sviluppi, preghiamo per i feriti ed esprimiamo il nostro profondo cordoglio per le due vittime.»
(moked, 9 ottobre 2016)
La fatica di chiamarsi Himmler. La pronipote: ossessionata dalla Storia
Katrin racconta il gerarca nazista. «Fin da piccola papà mi disse tutto»
di Letizia Magnani
Lorenzo Pavolini, nipote di Alessandro, e Katrin Himmler, pronipote del gerarca nazista
Quanto pesano la colpa e la memoria? Tanto, perfino in una generazione, quella dei nipoti, che la guerra l'ha sempre e solo sentita raccontare. Ma è diverso essere nato in Italia, in Germania, in Francia da! lato giusto e da quello sbagliato. E questo che dice oggi Katrin Himmler, pronipote di Heinrich Himmler, sodale di Hitler e gerarca nazista fra i più noti per i più efferati crimini di guerra e contro l'umanità.
Katrin è arrivata a Forlì assieme a Niklas Frank, figlio di Adam Frank, che fu governatore nazista della Polonia e venne ucciso dopo Norimberga e Lorenzo Pavolini, nipote di Alessandro Pavolini, ministro di Mussolini e suo fedelissimo: fu appeso a piazzale Loreto con il Duce.
Tutti sono intervenuti su «Le colpe dei padri», all'interno del 900fest, il Festival del Novecento diretto da Marcello Flores. «Ancora un'intervista? - ha detto Katrin -. Per me non è facile rilasciare interviste, perché le domande sono sempre le stesse, ovunque in Europa e alla lunga è un po' noioso. Inoltre è sempre un andare e tornare allo stesso punto. E un po' doloroso, anche. Ma proviamo».
- Ha mai pensato di cambiare nome?
(Sorride) «Questa è sempre la prima domanda. In Germania non c'è mai stato realmente un problema con il mio cognome, perché la parola è simile a 'ragazzo', quindi quando ti presenti la gente pensa a questo significato, che è simpatico e non a Himmler. No, non ho cambiato nome ... forse da piccola ci ho pensato».
- Lei ha scritto due libri. Il primo, «Fratelli», una storia familiare, nella quale racconta di suo nonno Ernst e del fratello, Heinrich Himmler appunto. Poi ha scritto un altro libro, tradotto in italiano da Newton Compton, «Heinrich Himmler. Il diario segreto», nel quale si trovano alcuni documenti inediti.
«Il primo è più un libro con un approccio personale. A un certo punto della mia vita ho voluto fare ricerche su mio nonno e suo fratello, ma anche sugli altri componenti della mia famiglia, per capire se ci fosse qualcuno che non aveva partecipato al nazismo. In effetti non ho trovato nessuno. La verità è che tutti erano implicati con il nazismo e che la nostra storia è fatta di persone che hanno collaborato col nazismo a vario titolo o lo hanno sopportato».
- C'è anche la storia di chi ha lottato contro il nazismo e il fascismo.
«Fortunate, quelle persone! Ma anche se la narrazione della Resistenza, in particolare in Italia e Francia, è molto diffusa, credo che, in verità, com'è successo in Germania, molti fossero complici anche da voi. E sono rimasti in silenzio».
- Lei incontra molti giovani, va nelle scuole, che cosa racconta?
«La mia storia. Coi giovani non mi annoio, fanno domande sempre diverse. Sono curiosi. Partecipo anche a conferenze come queste. E bene continuare a parlare della storia. Mi stupisce qui a Forlì per esempio il fatto che non si vedono segni del fascismo ... ».
- Che cosa intende? In Germania non è così?
«In Germania abbiamo monumentalizzato la memoria, ha presente le pietre dell'inciampo?».
- Certo, ma sono dedicate alle vittime. Sarebbe choccante trovare una tarsia che ricorda il passaggio di Mussolini in Italia, perfino a Forlì...
«Ecco, dicevo proprio questo. Da qualche anno in Germania ci sono anche targhe che danno informazioni non solo sulle vittime, ma sui carnefici. Qui in Italia, come anche in Francia, c'è un tabù su questo».
- Era mai stata da queste parti? Qui vicino è nato Mussolini. Ho letto che il suo prozio è stato sia a Forlì che a Predappio.
«Non ci ero mai venuta, però sì, Himmler ci era stato. Era un grande estimatore di Mussolini. Ho trovato documenti e testimonianze su questo».
- I suoi genitori sono entrambi ancora vivi?
«Sì, sono fortunata».
- Con loro paria ancora della vostra storia familiare?
«Sì, ne abbiamo sempre parlato. Mio padre ci ha detto chi eravamo, sin da bambini. Ancora ne parliamo. Il primo libro nasce da questo».
- La Germania ha fatto i conti col passato. E lei?
«Mio padre era certo che suo padre, cioè il fratello di Heinrich, non fosse esente da colpe e infatti abbiamo scoperto che militava nelle SS. La Germania i conti li ha fatti, persino più dell'Italia. Io ora vorrei occuparmi di narrativa per un po'. Ma continuerò a incontrare i giovani».
(Nazione-Carlino-Giorno, 9 ottobre 2016)
Attentato in strada a Gerusalemme: morti due israeliani e l'attentatore palestinese
Due israeliani, colpiti oggi dal fuoco di un attentatore palestinese, sono morti dopo il ricovero in ospedale. Lo ha riferito radio Gerusalemme secondo cui si tratta di una anziana di 60 anni e di un poliziotto di 30 colpiti insieme ad altre persone in una a sparatoria in una stazione della metropolitana leggera a Gerusalemme. I feriti attualmente sarebbero cinque.
La dinamica
L'uomo, un palestinese di 39 anni, è sceso da un'auto bianca davanti a una fermata del tram ad Ammunition Hill, dove tra l'altro si trova il memorial della "Battaglia per Gerusalemme" relativo alla Guerra dei 6 giorni, e ha sparato contro le persone presenti. Poi è risalito a bordo del veicolo e si è diretto verso la stazione di Shimon Hatzadik, dove ha di nuovo aperto il fuoco sulla folla. A quel punto sono intervenute le forze di sicurezza israeliane, che lo hanno ucciso al termine di una breve sparatoria nella quale due agenti sono rimasti feriti.
Un anno di sangue
Da ottobre 2015 nelle violenze di quella che è stata chiamata, forse impropriamente, la "terza Intifada" sono morti 232 palestinesi, 34 israeliani, due americani un giordano, un eritreo e un sudanese. Il bilancio potrebbe aumentare nei prossimi giorni, quando comincerà in Israele, a partire da martedì prossimo, Yom Kippur, il Giorno del pentimento, che segue di poco il Capodanno ebraico (Rosh Hashanah), celebrato la settimana appena trascorsa.
Hamas si felicita per l'attentato
«Dimostra che nel suo secondo anno la Intifada al-Aqsa si sviluppa e si rafforza» ha commentato Ibrahim Madhun, un opinionista del giornale di Hamas Falastin. Citato dai media il portavoce di Hamas Fawzi Barhum ha da parte sua affermato che l'attentato «è la reazione naturale ai crimini» perpetrati a suo parere da Israele nei confronti dei palestinesi «e in particolare - ha precisato - nella moschea al-Aqsa» di Gerusalemme.
(Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2016)
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Attentato a Gerusalemme, il messaggio d'addio del terrorista: «Fate come me»
Un messaggio di implicito addio registrato da Misbah Abu Sbeih - l'uomo indicato dai media palestinesi come l'autore dell'attentato di Gerusalemme - è stato trasmesso a Gaza dalla emittente di Hamas, la tv al-Aqsa. L'uomo conferma di essere un attivista del Morabitun, un gruppo islamico legato alla massima fedeltà nei confronti di Gerusalemme e della Moschea al-Aqsa, ed esorta tutti i fedeli musulmani a seguire il suo esempio. Un volantino distribuito da Hamas in Cisgiordania lo definisce con deferenza «il leone di Gerusalemme», per il suo impegno nella difesa della moschea al-Aqsa, ma non precisa se fosse inquadrato o meno anche in Hamas.
(Il Messaggero, 9 ottobre 2016)
Con i pacifisti al potere il mondo è sempre più vicino alla guerra
Obama si batte il petto a Hiroshima, la Mogherini è -felice per la pace». Intanto in Siria è un'ecatombe. Il dittatore nordcoreano fa esplodere atomiche «in difesa della pace».
di Fiamma Nirenstein
Ogni tanto lo ammette anche il Papa, perfino Kerry talvolta si piega all'idea, e accade persino di vedere Obama preoccupato: viviamo ormai in un mondo in guerra. In linea di massima però il messaggio va contromano rispetto a questa schiacciante realtà. La realtà dovrebbe essere maestra di vita: invece nel mondo di oggi non accade. Il pacifismo oltre che l'ideologia inventata dal mondo comunista nel 1952 dichiaratamente come arma per vincere lo scontro con l'imperialismo è diventato un costume politico invincibile, non c'è chi non si dica pacifista, e con esso si moltiplicano le guerre. Basta pensare al discorso della Mogherini che il 21 settembre, giorno europeo della pace, che si è detta molto soddisfatta dello stato del mondo perché il primo valore dell'Ue è una pace mantenuta per 70 anni; o a Obama che a Hiroshima ha scelto di battersi il petto dichiarando l'America colpevole della proliferazione nucleare e promettendo di emendarsi, o a Putin che bombarda Aleppo, certo, per il bene della pace ...
La pace è un valore così di moda che Kim Jong-un in Corea del Nord non esita a dichiarare che la sua atomica le dà un contributo, e Assad mentre ammazza centinaia di migliaia di persone se ne proclama custode. La parabola più evidente agli occhi del mondo è la Siria, dove non c'è chi non stia combattendo per la pace, e che di fatto è una «terra desolata» dove si svolge uno scontro mortale che implica fondamentalisti, ribelli, milizie organizzate, forze al potere dittatoriali, mentre la Russia, gli Stati Uniti, la Turchia, l'Iran, gli Hezbollah, l'Arabia Saudita sganciano bombe e proiettili o armano forze amiche. Persino Israele talvolta deve intervenire per dire «stop». Ma sono innumerevoli le dichiarazioni di buona volontà, le asserzioni che là si va per preservare la pace. Mentre Putin e gli Usa rompono sugli accordi nucleari, Putin ha intenzioni chiare, e molto meno Obama: Putin vuole tenere Assad al potere e per questo usa l'Iran e gli Hezbollah mentre bombarda i sunniti di Aleppo, incurante dell'imperialismo sciita. Inoltre, combattono anche i rifugiati afghani che vogliono essere accolti in Iran, mentre gli Hezbollah vogliono missili per distruggere Israele. Ma Obama vuole combattere l'Isis, ed è alleato in Irak con le milizie sciite per batterlo, però in Siria queste milizie combattono a fianco di Assad, e Obama vuole deporlo. Così sarebbe al fianco dei ribelli che le milizie sciite combattono. Che casino. Ma allarghiamo lo sguardo. Ci aiuta su Washington Freebacon Matthew Continetti elencando molte zone di un panorama fumigante, lasciando da parte l'Africa. Si estende di un bel po' oltre il Medio Oriente: guerre calde e fredde incatenano l'Eurasia dal Baltico al Donbass, attraverso il crescente sciita, il confine in - do-pakistano, di là dei mari di Cina. Putin infiamma la guerriglia in Ucraina, e bombarda Aleppo; i turchi combattono l'Isis e molto di più i Curdi, l'America è in Siria e in Irak, l'Iran sta sul confine di Israele che promette di distruggere e intralcia le navi americane nello stretto di Hormuz. L'India e il Pakistan si scontrano sul Kashmir, la Cina costruisce la sua forza nel Pacifico, e la Nord Corea ... fa esplodere bombe atomiche. Le scelte dei leader occidentali sembrano spesso legate a vantaggi di breve durata, come quello dell'incerto accordo nucleare con l'Iran fra i primi violatori dei diritti umani e sponsor del terrorismo. Ma è la pace, bellezza. Così lo sguardo è breve: non che fosse un acquirente ideale, ma Obama ha bloccato la vendita al Bahrein di 19 fighter jets Fl6 della Lockheed Martin, una transazione ingente, di oltre 4 miliardi di dollari incitandolo a migliorare i diritti umani. Difficile pensare che sia davvero per quello. Il Bahrein, sostenuto dall'Arabia Saudita, ha colpito duramente gli sciiti ribelli, e di nuovo qui Obama ha preso le parti nel disegnare un Medio Oriente in cui l'Iran può vedere terra di conquista. Così si rimarca un conflitto etnico in cui gli alleati sunniti vengono umiliati. Intanto il mondo si batte con difficoltà contro la crisi economica, Europa e Giappone sono nei guai e gli Usa sono in affanno, la Russia è stagnante. Aria, aria. Dice Continetti che c'è da aver paura. È così: gli imperi soffrono un terremoto bellico nel cellophane del pacifismo.
(il Giornale, 9 ottobre 2016)
Il cardinal Fossati e gli ebrei "turbolenti"
Botta e risposta tra L'Osservatore Romano e Giulietta Weisz, dopo che La Stampa ha riferito venerdì del ritrovamento, da parte della ricercatrice, di una lettera del 1946 in cui card. Fossati, arcivescovo di Torino, rispediva al Vaticano un assegno di 100 mila lire per gli ebrei del campo profughi di Grugliasco, perché «soggetti turbolenti» e di dubbia moralità. Ieri la lunga risposta del giornale della Santa Sede, a firma di Sergio Pagano, secondo cui la ricercatrice non si sarebbe mai recata negli archivi vaticani, mentre il card. Fossati dopo le leggi razziali del '38 avrebbe manifestato «un atteggiamento di aperto appoggio agli ebrei».
«Non mi sono inventata nulla», contro-replica la Weisz. «Le parole del card. Fossati, anche quando riportate, verso gli ebrei reduci dai campi di sterminio nazista, sono sprezzanti e inaccettabili. Dalla lettura dell'articolo di Sergio Pagano si evince che nessuno smentisce il contenuto della lettera, a disposizione di tutti coloro che la volessero leggere presso gli Archivi della Curia di Torino (faldone 14.14.84/A, fascicolo Unrra). E personalmente resto dell'opinione che l'arcivescovo Fossati, trascrivendo le parole della crocerossina "ottima cristiana" - "Parrebbe che dalla strage degli ebrei siano sopravvissuti i meno degni: ungheresi e rumeni poi sono i più cattivi" - ne ha condiviso il contenuto. Mio padre era un ebreo ungherese e sicuramente è stato degno di vivere, e io sono orgogliosa di lui, come sicuramente tutti i suoi pazienti curati in 50 anni di professione medica».
(La Stampa, 9 ottobre 2016)
Il Marocco si affida ancora a islamici e comunisti
Vittoria elettorale dei Fratelli musulmani
di Carlo Panella
Vittoria piena degli islamisti del partito moderato islamista della Giustizia e Sviluppo (Pjd) del premier uscente Abdelillah Benkhirane e discreta affermazione del Partito della Modernità e Autenticità (Pam), il partito laico, con discrezione supportato dal re Mohammed VI. I risultati delle elezioni in Marocco segnano di fatto la prevedibile sconfitta del tentativo del Pam di «bloccare la deriva islamista», tutt'altro che disprezzato dalla Corte. La Costituzione del Marocco prevede infatti che il re assegni il mandato di formare il governo al partito che ha raggiunto la maggioranza relativa, il Pjd, appunto, che è passato dai 107 seggi del 2011 ai 125 seggi di ieri. Seggi in larga parte vinti proprio là dove vive il Marocco più moderno ed europeo, le grandi città (Rabat, Marrakesh, Casablanca, Tangeri, Fez), mentre il Pam si è imposto con i suoi 107 seggi solo nella grande provincia marocchina, là dove i suoi dirigenti, tutti della vecchia guardia politica, hanno consolidato da decenni clientele, voto di scambio e anche una buona dose di corruzione. Là dove peraltro è addirittura venerata la persona del re, simbolo nazionalista dell'anima del Marocco ancestrale. Ennesima conferma della incapacità dei movimenti laici di ispirazione non islamica, di rinnovare la propria piattaforma politica, persino di rappresentare i ceti medio alti e di essere interlocutori degli strati urbani medio bassi. Una replica degli insuccessi del laico Chp che in Turchia non riesce a sottrarre consistenti favori elettorali all'islamista Erdogan.
A questi ampi strati popolari il Pyd offre invece la concretezza di un welfare islamico reale. Ma soprattutto, a differenza di tutti gli altri partiti islamisti legati alla Fratellanza Musulmana, il Pyd ha sinora avuto l'accortezza di non intervenire sul codice di famiglia, non ha proposto di ritornare alle regole shariatiche e ha mostrato un deferente rispetto nei confronti del re, popolarissimo, a ragione, nel paese.
A causa del sistema elettorale proporzionale, con soglia di sbarramento del 6%, gli altri voti si sono dispersi in una decina di liste. Non è scontato che Benkhirane riesca a replicare la coalizione uscente - composta persino dagli ex comunisti - che avrebbe una maggioranza di soli 6 seggi. Ma la mancanza di una alternativa seria farà probabilmente il suo gioco. Questo risultato enfatizzerà comunque lo straordinario molo e di garante della democrazia - soprattutto contro derive islamiste - svolto dal re, che ora dovrà mettere mano ad uno svecchiamento e rinnovamento radicale del Pam, sostenuto palesemente, ma con estremo tatto dalla Corte. Fautore di un «Islam del giusto mezzo», Mohammed ha sinora ispirato una europeizzazione (graduale e ancora incompleta) del codice di famiglia e una Costituzione che addirittura annovera gli ebrei tra le componenti del popolo marocchino. Ora, si impegnerà sicuramente nell'opera di rifondazione di un quadro politico che emargini un domani gli islamisti, e sia capace di affrontare le sfide della modernità nell'unico paese arabo a democrazia compiuta.
(Libero, 9 ottobre 2016)
Nobel americano spiega come migliorare l'approvvigionamento idrico della Crimea
La Crimea e Israele hanno molto in comune. Nei due Paesi ci sono gli stessi problemi. In Crimea, è necessario utilizzare l'esperienza israeliana per risolvere i problemi di fornitura idrica, dice il professore biochimico Roger Kornberg, della Stanford University, vincitore di un premio Nobel. "Voglio attirare la vostra attenzione su un dato: la Crimea e Israele hanno molto in comune. Nei due Paesi ci sono gli stessi problemi. Oggi in Israele tutta l'acqua ha bisogno di essere dissalata per le esigenze di un Paese con una popolazione di 8 milioni di persone. Credo che sarebbe saggio investire in Crimea in questa direzione" ha detto Kronberg in una riunione consultiva del Consiglio scientifico del Fondo "Skolkovo" all' università di Sebastopoli. Kornberg ha anche sottolineato che in Israele tutto il settore agricolo è stato progettato tenendo conto del clima locale. "In Israele usiamo metodi efficaci, abbastanza tradizionali, ma allo stesso tempo economici. Ritengo opportuni tutti questi approcci se si applicassero in Crimea" ha detto Kornberg, che ha ricordato che in Israele la maggior parte della popolazione è di lingua russa ed è stata educata in Russia. Kornberg ha ricevuto il premio Nobel per la chimica nel 2006 per la ricerca sulla trascrizione delle cellule di informazione ereditarie.
(Sputnik Italia, 8 ottobre 2016)
In Israele sperimentate cellule staminali embrionali contro la cecità senile
Il Cell Cure Neurosciences, centro di ricerca israeliano, hanno elaborato una nuova terapia, attualmente in fase sperimentale, che si basa sulle cellule staminali embrionali per contrastare la degenerazione maculare senile. Se darà i risultati sperati, la terapia potrà salvare la vista di molte persone anziani.
I ricercatori del Cell Cure Neurosciences, che ha sede nella città di Gerusalemme, hanno annunciato di aver messo a punto una nuova terapia, basata sull'uso di cellule staminali embrionali, contro la cecità senile. Si tratta di OpRegen, e ha già registrato i primi esiti positivi nella prima fase degli studi clinici.
La degenerazione maculare senile (o cecità senile) rappresenta la più importante causa di irreversibile perdita della vista nei malati con più di 60 anni. La patologia coinvolge tantissime persone, circa 11 milioni di pazienti solo negli USA. Se in soggetti sani, nella retina, un sottile strato di epitelio pigmentato retinico (cellule pigmentate all'esterno della retina) contribuisce alla nutrizione dei fotorecettori, ovvero le cellule che sovrintendono il processo di visione. Quando queste cellule pigmentate si danneggiano, ai fotorecettori viene a mancare il principale sostegno. Quindi anch'esse finiscono per deteriorarsi, arrivando a causare la totale cecità.
L'innovativo trattamento messo a punto da Cell Cure Neurosciences cosiste nel trapianto di cellule ottenute da cellule staminali embrionali umane, sotto la retina del paziente. Se i risultati saranno positivi anche nei prossimi studi clinici, quest'infusione prevista dalla terapia denominata OpRegen sarà quindi in grado eliminare le cellule danneggiate dell'anziano malato, allo stesso tempo sostenendo le cellule sane rimaste.
(Conservazione cordone ombelicale, 8 ottobre 2016)
Asaf Avidan, il cantante israeliano amante dell'Italia ospite nello show di Rai 1
Il suo amore per l'Italia
Tra gli ospiti del programma "Roberto Bolle - La mia danza libera" in onda stasera [8 ottobre] su Rai 1 ci sarà anche Asaf Avidan. Il cantante israeliano non ama essere sotto gli occhi delle telecamere e preferisce far parlare la sua musica, impreziosita da una voce capace di soddisfare anche i palati più fini e da uno stile inconfondibile. Lo scorso anno, Asafha rilasciato un'intervista a Io Donna in cui ha dichiarato di aver comprato casa nelle Marche, manifestando tutto il suo amore per l'Italia e il desiderio di lasciare Tel Aviv. Il cantante ha motivato la sua decisione con la forte connessione tra la sua carriera e l'Europa, continente nel quale trascorre la maggior parte dei mesi dell'anno e dove è in tour per molto tempo.
La carriera
La sua carriera è legata prettamente al gruppo folk Asaf Avidan & the Mojos, del quale è stato il front-man assoluto per diversi anni. Nato a Gerusalemme il 23 marzo 1980, Asaf ha iniziato ad appassionarsi al mondo dello spettacolo dopo aver prestato il servizio militare obbligatorio. Il suo primo album insieme alla band risale al 2006 e si intitola Now That You're Leaving. Dopo due anni, il nuovo album The Reckoning gli frutta un disco di platino e lo pone tra gli artisti più interessanti del momento in Israele. Ma la vera consacrazione a livello internazionale arriva nel 2012 con la struggente Reckoning Song, con la sua versione remixata intitolata One Day che raggiunge risultati straordinari. Nello stesso anno, Asaf decide di proseguire la sua carriera da solista e di esibirsi spesso in acustico, continuando a mietere successi in tutti i suoi concerti. Nel 2013, è ospite al Festival di Sanremo condotto da Fabio Fazio e concede persino il bis con la sua Reckoning Song.
Avidan punta tutto sulla sua anima intimista durante i concerti, creando un giusto mix di canzoni tristi e di intermezzi nei quali far sorridere il suo affezionato pubblico. Molti telespettatori lo attendono anche se il vero protagonista stasera sarà il ballerino Roberto Bolle.
(ilsussidiario.net, 8 ottobre 2016)
Basket - Maccabi Tel Aviv preview: la sfortuna ostacola il rilancio, ma il talento c'è
di Simone Mazzola
La prossima stagione di Eurolega, oltre ad essere la capostipite di un nuovo corso, dovrà essere per forza di cose quella del riscatto per il Maccabi Tel Aviv che dopo una campagna disastrosa nella scorsa stagione, ha il dovere di far fruttare i grandi investimenti fatti in estate per tornare grande. In patria ha già dovuto subire la prima sconfitta per mano di Simone Pianigiani e Curtis Jerrells che gli hanno sfilato la supercoppa.
Le attenuanti ci sono e sono evidenti. L'acquisto di punta dell'estate israeliana è stato Quincy Miller che nella scorsa stagione ha giocato ad altissimi livelli con la Stella Rossa. Il giocatore si è infortunato al ginocchio durante una partita di scrimmage negli Stati Uniti e resterà fermo più di sei mesi. Per questo motivo la società ha ristrutturato il suo contratto portandolo avanti di un anno a conferma della voglia d'investire su di lui. Per quanto riguarda il breve periodo, però, c'era da intervenire sul mercato e per sostituirlo si è andati su Andrew Goudelock, realizzatore di grande pedigree che non sarà sicuramente Miller a livello globale di gioco, ma è altrettanto certamente un giocatore che appartiene all'elitè europea.
Quando la sfortuna si accanisce diventa difficile gestire la situazione, infatti anche Goudelock si è infortunato e sarà obbligato a saltare la prima partita di Eurolega al Forum contro Milano. Stessa sorte toccherà anche a Sonny Weems, altro acquisto di grande valore che per ultimo si è infortunato al tendine del ginocchio e dovrà stare ai box per quattro settimane.
Sembra tutto davvero troppo brutto per essere vero, ma il Maccabi rimane una squadra di grande tradizione e talento. Gael Mekel avrà il compito di guidare l'attacco avendo quasi certamente il ruolo di playmaker titolare, riportando Ohayon come backup in vestito che meglio gli s'addice.
Il talento offensivo e le responsabilità saranno divise tra i due assenti Weems e Goudelock, ma l'esperienza di Devin Smith sarà sempre fondamentale per fare da collante tra il talento e la sostanza tecnico tattica, oltre al fatto di essere un vero e proprio beniamino della folla.
Nel frontcourt ci sarà una caratteristica principale, ovvero quella di aprire molto il campo con il nuovo acquisto Rudd, la solita precisione di Pnini e il cavallo di ritorno Alexander che non ha di certo brillato a Sassari.
Sotto le plance ci sarà Malik Zirbes che con Quincy Miller avrebbe composto un duo davvero spaziale come fatto a Belgrado, ma purtroppo per questo bisognerà aspettare e alle sue spalle doveva esserci Segev, ma come in una reinterpretazione della legge di Murphy, anche lui si è infortunato e starà fuori quattro mesi.
L'inizio sarà duro, ma recuperando i giocatori chiave, il Maccabi ha il pedigree e il talento per insidiare le grandi corazzate. Bisogna vedere se e quanto terreno perderanno in un inizio che sarà fisiologicamente difficile.
(Baskettissimo, 8 ottobre 2016)
Israele, passi avanti nella ricerca sull'Autismo
Scoperte serie genetiche comuni nei pazienti affetti da DSA.
di Micol Anticoli
Ricercatori della Ben Gurion University of the Negev, hanno annunciato alcuni passi avanti intrapresi nella conoscenza dell'autismo. I dottori Erez Tsur e Michael Friger, guidati dal prof. Idan Menashe, hanno scoperto che 651 serie genetiche sono comuni ai pazienti affetti da Disturbo dello Spettro Autistico, e queste riguardano sia geni sani che anomalie geniche.
"Alcuni casi di autismo sono dovuti a mutazioni sviluppate dopo la fecondazione, nel feto in via di sviluppo - ha spiegato Menashe - mentre altri sono causati da mutazioni ereditarie, ma solo se associate a fattori di rischio non genetici", come possono essere alcuni fattori ambientali. "Pertanto, se le mutazioni si verificano nel DNA senza altri fattori di rischio - ha proseguito - queste non portano all'autismo e saranno eventualmente trasmesse alle generazioni successive".
L'esito della ricerca risulta importante in quanto allo stato attuale, l'autismo viene diagnosticato solo con un'analisi comportamentale, senza un'indagine rigorosa come quella genetica. Capire invece quali geni sono coinvolti, può portare a sviluppare nuovi trattamenti per la malattia e ad individuare un più ampio spettro di casi.
(Progetto Dreyfus, 7 ottobre 2016)
Obama prepara una mossa d'addio contro Israele
Obama scende nel grottesco con la sua ormai quasi noiosa antipatia per Israele che sembra alla ricerca di nuovi orizzonti.
di Fiamma Nirenstein
Mentre ci perseguitano le terribili immagini dello sterminio di Aleppo e ci accompagnano nella desolazione di aver visto, nella nostra era, naufragare il «successo della libertà» del discorso inaugurale di John Fitzgerald Kennedy, ovvero della garanzia americana di un mondo in cui la democrazia fosse almeno in lizza per stabilire il suo primato, è ancora più paradossale, persino frivola, la china su cui in questi giorni ci tocca discendere.
Da parte di Obama, dopo la rinuncia (ormai irrecuperabile data la presenza russa con gli S300), a bombardare gli aerei di Assad, Obama scende nel grottesco con la sua ormai quasi noiosa antipatia per Israele che sembra, proprio adesso, alla ricerca di nuovi orizzonti. Potrebbe essere la sua legacy in un Medio Oriente a pezzi: una povera cosa per la leadership che era partita col mantello rosso del premio Nobel. Ma come un filo d'Arianna, una quantità di indizi portano a sospettare che Obama proprio subito dopo il voto dell'8 novembre e prima della nomination del 20 gennaio, quando non si può più influenzare il voto e danneggiare Hillary, immagini una durissima mossa antisraeliana. Ovvero, di fronte a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu nel periodo dell'«anatra zoppa» la quale ignorando la necessità di una trattativa fra le parti imporrebbe confini e caratteristiche per la nascita di uno Stato palestinese, non porrebbe il solito veto statunitense. Lascerebbe vincere la risoluzione affiancata all'iniziativa francese per una conferenza di pace.
Sul terreno, le conseguenze sarebbero solo quelle del discredito e eventualmente di sanzioni per Israele, ma è proprio il discredito, la messa all'angolo quello che, in tempi di BDS, sembra, più o meno consciamente, animare la politica americana verso Israele. Incredibile, ma la Casa Bianca ha cancellato fisicamente, dopo aver già diffuso il comunicato sul discorso del Presidente, il riferimento al fatto che al funerale di Peres abbia parlato da «Gerusalemme, in Israele». Cioè, quel Peres tanto incensato non sarebbe più sepolto in Israele, ma chissà dove, in una terra di nessuno. Più avanti, usando il funerale come una clava, mentre il mondo brucia, il Dipartimento di Stato ha emesso un comunicato dai toni iperviolenti per la costruzione a Shiloh di alcuni appartamenti (per ricollocare i settler espulsi da Amona, un insediamento illegale sgomberato) dicendo in sostanza, che la memoria del leader scomparso veniva tradita e che «si cementa così un'occupazione perpetua inconsistente col futuro di Israele come Stato ebraico e democratico». Addirittura! Le case, ha ripetuto il governo, verranno costruite in un vecchio insediamento per profughi di un altro insediamento distrutto, senza portare un uomo in più. Dunque, la critica sproporzionata fa pensare a due cose: la prima è che si stia costruendo l'atmosfera per un attacco politico, la seconda che Obama voglia lasciare un segno in Medio Oriente con quello che ritiene una spinta al processo di pace. Ma è difficile pensare che abbia ragione: il vero contributo che avrebbe potuto dare, è concepire un'idea nuova di distribuzione territoriale (i suoi predecessori l'hanno tutti fatto); spingere finalmente le parti al colloquio; chiedere ad Abu Mazen di rinunciare al sostegno al terrorismo; favorire l'integrazione di Israele in Medio Oriente. Non l'ha fatto. Obama se insiste verrà ricordato per un retaggio di fallimenti, che verrebbe solo peggiorato dalla sanzione dell'unica democrazia del Medio Oriente fedele agli Usa.
(il Giornale, 8 ottobre 2016)
Il re del Marocco ultimo baluardo contro gli islamo-comunisti
Il voto a Rabat
Re Mohammed VI
In un clima politico infuocato e instabile, il Marocco è andato ieri alle urne in un clima politico infuocato (e instabile). «C'est une situation à l'italienne», dicono molti analisti e si può tradurre: «Siamo nel solito caos, come in Italia». Ovviamente i protagonisti sono ben diversi. Anche se va ricordato che la democrazia nel Paese è tanto solida che vi sono candidati ebrei e che su 395 seggi, 60 sono riservati alle donne e 30 a chi ha meno di 35 anni, unico modo per contrastare l'abituale gerontocrazia araba. Grazie alle riforme democratiche ( e alla leadership illuminata di re Mohammed VI), il Marocco non ha affatto vissuto il trauma delle «primavere arabe» che si sono risolte in una serie di grandi manifestazioni senza incidenti. Ma dalle «primavere» ha subito il contagio, cioè la legittimazione di governo dei Fratelli Musulmani.
Contro i pronostici infatti, nel 2011 vinse le elezioni il partito della Giustizia e Sviluppo (Pjd) guidato da Abdellah Benkirane, che riuscì a conquistare la maggioranza relativa, si fermò a meno di un terzo dei seggi, ma riuscì a formare un esecutivo alleandosi con gli ex comunisti (!).Dopo 5 annidi governo dai risultati mediocri, scarso sviluppo dell'economia con una media di incremento ddel Pil del solo3% (range bassissimo nel Paese), ma sostanziale tenuta del quadro democratico, lo scontro - accesissimo - è ora tra il Pjd del prudente Benkirane e la coalizione di partiti laici Autenticità e Modernità (Pam), che si contenderanno il primato, seguiti dal tradizionale Istiqal, che non ha speranze di affermazione.
Lo straordinario sviluppo economico del Paese, il suo solido assetto democratico (anche se solo 15 milioni di elettori su 26 si sono iscritti alle liste elettorali, anche a causa di un'abnorme emigrazione) e lo stesso contesto «europeo» delle città marocchine, porterebbero a ritenere maturo un trionfo della componente laica, se non fosse appesantita da decenni di gestione arrogante del potere, quindi da corruzione, gerontocrazia e scandali. Una zavorra che coinvolge anche il partito berbero (il Marocco è l'unico Paese arabo che riconosce tutti i diritti dei berberi), favorisce quindi il Pjd. Anche perché Benkirane è di statura politica ineguagliata nel mondo arabo ( e nella Fratellanza). In più il Pjd, gode dei risultati del «welfare islamico», che favorisce la pratica assistenziale dei suoi militanti e delle sue sezioni sin nei più sperduti paesini e periferie.
Dall'altra parte però, Benkirane paga il prezzo della involuzione autoritaria di Tayyp Erdogan, che era il suo modello di riferimento quando era un leader moderatissimo. I non pochi elettori laici dalla mentalità europea che lo votarono nel 2011 in spregio alla corruzione del Pam, oggi pare lo vogliano abbandonare per timore del «contagio turco». Partita comunque aperta.
(Libero, 8 ottobre 2016)
Il Pd milanese caccia Daniele Nahum. Ahi
Aveva criticato l'islam politico. Nuovo caso dopo la somala Maryan.
Prima il caso di Maryan Ismail Mohamed, portavoce della comunità somala di Milano, candidata con la lista di Giuseppe Sala, che ha lasciato il Partito democratico in polemica con la scelta di sostenere Sumaya Abdel Qader, musulmana velata eletta in Consiglio comunale. Per Maryan, "il Pd milanese ha scelto di interloquire con la parte minoritaria ortodossa ed oscurantista dell'islam". Dopo la somala, l'ebreo. Daniele Nahum è stato cacciato dalla segreteria e si è visto ritirare le deleghe dal segretario, Pietro Bussolati. Già portavoce della comunità ebraica milanese, Nahum aveva criticato i rapporti fra il suo partito e il Coordinamento dei centri islamici (Caim) che fanno capo a Davide Piccardo. Nahum aveva denunciato la loro "totale inaffidabilità per gestire un luogo di culto nella nostra città", portando numerosi esempi dell'ambiguità di Piccardo: "Un video con scritto 'è finita la pacchia' dove si vedevano dei giovani ragazzi musulmani che assaltavano una Sinagoga a Parigi. L'invito a un imam che predicava il martirio dei bambini. La dichiarazione che le bandiere israeliane erano vergognose in quanto Israele è uno stato razzista. Manifestazioni pro Morsi ed Erdogan". Infine, Hamza Piccardo aveva chiesto di introdurre la poligamia nell'ordinamento italiano e il figlio, portavoce del Caim, "ha messo prontamente mi piace a queste affermazioni".
Onore a Daniele Nahum che ha avuto il raro coraggio e l'onestà di denunciare la zona grigia in cui si muove l'islam politico italiano di cui il Caim è espressione. Un brutto giorno per il Pd milanese che lo ha cacciato.
(Il Foglio, 8 ottobre 2016)
Gli israeliani addestrano le forze militari d'élite a battere i Boko Haram
di Francesca Paci
Dal 2013 intorno al lago Ciad si combatte una sanguinaria guerra contro Boko Haram, l'estrema frontiera subsahariana della jihad. Ma nonostante i quattro Paesi minacciati dai talebani d'Africa abbiano messo insieme le forze per fronteggiare il nemico comune, ognuno combatte con le proprie divise e i progressi sono scarsi, troppo corrotti i militari di Nigeria e Niger e non efficientissimi quelli del Ciad. Le uniche vere vittorie sul terreno sono da almeno un anno quelle delle unità d'élite dell'esercito camerunense, il Rapid Intervention Battallion (Bir) addestrato dagli israeliani. La notizia del coinvolgimento in forma non ufficiale di Israele, nota quasi esclusivamente tra gli esperti militari, racconta lo sforzo del governo di Yaounde che due giorni fa ha annunciato un reclutamento eccezionale proprio per il Bir, 1800 uomini camerunensi, single, di età compresa tra 18 e 23 anni, scolarizzazione medio alta.
Secondo il sito d'intelligence Blasting News, il Camerun sta rafforzando tutte le sue forze sul lago di Ciad, il Multi-purpose Response Squad della Gendarmeria Nazionale (Gpign), il Motorised Infantry Battalion (Bim) e in modo particolare il Bir, che oltre al training dei contractors israeliani riceve regolarmente attrezzature americane e israeliane, fucili di precisione e di assalto americani, mitragliatrici 50mm, cannoni, mortai e blindati. Poco meno di un anno fa il Camerun ha lanciato l'Operazione Alpha nella zona settentrionale di Kolofata, uno dei punti caldi dei 400 km di confine divisi con la Nigeria dove dal 2014 Boko Haram fa razzia nei villaggi e ha proclamato l'emirato di Gwoza, a sostegno della quale ci sarebbero anche 300 marines impegnati nel sostegno con i droni, ma secondo fonti locali attivi anche sul terreno, sulle montagne di Mandara.
L'Operazione Alpha, iniziata quasi 2 anni fa con 2000 uomini del Bir, 1000 regolari e 700 poliziotti della gendarmerie, coincide con l'entrata in scena dei contractors e israeliani, un momento in cui Yaounde denunciava di essere solo nel fronteggiare Boko Haram. Da allora la controffensiva guidata dal Bir è diventata via via più efficace. Secondo il ministero della difesa camerunense dopo un anno erano stati uccisi 2000 miliziani e 600 erano nella prigione di Maroua.
«L'Operazione Alpha coopera con truppe americane, è sostenuta da ufficiali israeliani e assistita dall'intelligence francese via Ciad», spiega il colonnello Joseph Nouma al New African Magazine (l'equipaggiamento è anche russo, cinese e tedesco). Alcuni mesi fa Camerun e Nigeria hanno raggiunto un accordo per cui nella guerra a Boko Haram i rispettivi eserciti possono sconfinare, vale a dire che il Bir va a caccia dijihadisti anche oltre la frontiera Nord. Racconta una fonte locale che ultimamente, proprio grazie ai progressi nell'addestramento delle unità camerunensi, Boko Haram ha perso le sue capacità convenzionali e sta passando alla guerra irregolare: il Bir bracca con omicidi mirati i capijihadisti che ora si nascondono e mandano avanti truppe non scelte, l'età dei miliziani si è molto abbassata, molti oggi sono adolescenti e poco addestrati.
(La Stampa, 8 ottobre 2016)
L'altra fuga dei cervelli
"Altro che poveri sfigati, i terroristi dell'Isis sono laureati e benestanti". Un rapporto della Banca mondiale.
di Giulio Meotti
ROMA - Tutta la storia del terrore politico è segnata da fanatici con un'istruzione elevata e che hanno condotto esistenze dorate. La palingenesi genocida dei Khmer rossi è uscita dalle aule della Sorbona ornate dai ritratti severi di Racine e Cartesio (lì Pol Pot ha letto "Umanesimo e terrore" di Maurice Merleau-Ponty, mentre il suo futuro ministro degli Affari sociali, Ieng Thirith, traduceva Shakespeare). Le Brigate Rosse sono state il gioco di pochi privilegiati e ricchi borghesi. C'è stato il "Giangi" dei salotti milanesi, rimasto ucciso sotto un traliccio mentre detonava una bomba rivoluzionaria. Fusako Shigenobu, leader dell'Armata rossa giapponese, era una coltissima specialista di letteratura antica che nel tempo libero uccideva turisti all'aeroporto di Tel Aviv. Abimael Guzmàn, fondatore di quel Sendero Luminoso che avrebbe scatenato una delle più spietate guerriglie della storia, insegnava all'Università di Ayacucho, dove sognava di rovesciare "la democrazia delle pance vuote". La sua furibonda utopia ha trovato radici non sulle Ande, ma nei miti della sinistra europea.
Ahmed Omar Saeed Sheikh
Si arriva poi all'11 settembre. Ad Ahmed Omar Saeed Sheikh, la mente dell'uccisione del giornalista ebreo Daniel Pearl, brillante laureato alla London School of Economics. A Zacarias Moussaoui, il ventesimo uomo delle Torri gemelle, un dottorando in Economia alla South Bank University di Londra. I terroristi di Hezbollah che, come avrebbe scoperto Alan Krueger di Princeton, erano "più colti ed educati" della maggioranza dei libanesi. E all'élite bengalese che questa estate ha ordito il macello di otto italiani in un ristorante di Dacca.
Adesso ci pensa la Banca mondiale a smontare la menzogna del lumpenproletariat del terrore. La stessa Banca mondiale il cui presidente, James Wolfensohn, dopo l'11 settembre a ripetizione diceva ai media che quell'attentato era legato a povertà e diseguaglianza. Una menzogna che sarebbe finita sulla bocca di tutti come un pettegolezzo, di John Kerry, di Colin Powell ("Poverty aids terrorism"), di Bill Clinton, di George W. Bush e di Tony Blair.
Il nuovo, mega rapporto della Banca mondiale, "Economic and Social Inclusion to Prevent Violent Extremism", spiega che "le reclute dello Stato islamico sono più istruite rispetto ai loro connazionali". Povertà e privazione non sono alla base del sostegno per il gruppo. Studiando i profili di 331 reclute da un database dell'Isis, la Banca mondiale ha scoperto che il 69 per cento ha almeno una formazione di scuola superiore, mentre addirittura un quarto di loro ha conseguito la laurea. La vasta maggioranza di questi terroristi aveva una professione o un lavoro prima di entrare nell'organizzazione islamista. "Le proporzioni di combattenti suicidi aumentano con l'istruzione", si legge. Più sono colti, più vogliono entrare nel paradiso delle vergini urì. Alla faccia della superstizione.
"Questi individui sono ben lungi dall'essere ignoranti", continuano gli esperti della Banca mondiale Meno del due per cento dei terroristi è analfabeta. Lo studio indica anche i paesi che riforniscono maggiormente l'Isis di reclute: Arabia Saudita, Tunisia, Marocco, Turchia ed Egitto. Esaminando la situazione economica di questi paesi, i ricercatori hanno infine scoperto che "i paesi più ricchi hanno maggiori probabilità di fornire reclute straniere al gruppo terroristico Isis". Il terrorismo è una gnosi delle classi abbienti e colte. Ieri era Jean Genet che metteva in versi "la violenza imperiosa e necessaria" della Rote Armee Fraktion. Oggi sono i versetti del jihad. Guerra santa, non di classe.
(Il Foglio, 8 ottobre 2016)
"Jerusalem Post": la trama di Hezbollah per ottenere più potere in Libano
GERUSALEMME - Il Libano sta affrontando una crescente instabilità politica: da una parte la guerra civile di cinque anni nella vicina Siria e un'inondazione di rifugiati, dall'altra un alto tasso di disoccupazione ed il debito crescente. È questo il quadro della situazione socio-economica del Libano su cui oggi si concentra un'analisi del quotidiano israeliano "Jerusalem Post", che descrive una situazione instabile. Per più di due anni, e nonostante decine di sforzi, il parlamento libanese non è riuscito a eleggere un nuovo capo di Stato, che secondo le leggi, deve essere membro della comunità cristiana. La situazione è instabile a causa dei circa due milioni di rifugiati nel paese ed una guerra in corso nella confinante Siria che sta influenzando l'instabilità politica, spiega Carmen Geha, professore associato all'Università americana di Beirut. "Una delle componenti libanesi sta attivamente combattendo all'interno del paese e le elezioni presidenziali sono in stallo", afferma Geha. Il gruppo a cui si riferisce Geha è Hezbollah, movimento sciita libanese, che combatte ha dispiegato i suoi combattenti in Siria, a sostegno del presidente siriano, Bashar al Assad.
(Agenzia Nova, 7 ottobre 2016)
La vita di Luciano Camerino, sopravvissuto ai campi di sterminio, sia un esempio per i giovani
di Vittorio Pavoncello
Ero bambino, novembre 1966, la notizia che l'Arno avesse straripato e che Firenze fosse coperta dal fango, mi colpì in modo particolare. Le immagini che la televisione trasmetteva erano paragonabili a una tragedia dalle enormi proporzioni. Una delle città d'arte più belle al mondo, colpita al cuore. In tutta Italia nacquero movimenti di volontari, moltissimi giovani accorsero a soccorrere la popolazione fiorentina sommersa dall'acqua e dai detriti: furono chiamati "gli angeli del fango".
Non fu risparmiata la sinagoga di Via Farini: nell'acqua fluttuavano, inesorabilmente, gli oggetti e gli arredi sacri per gli ebrei. L'allarme arrivò alla comunità ebraica di Roma dove fu immediatamente allestita una squadra di salvataggio. Uomini non più giovani partirono da Roma con dei camion carichi di aiuti per gli alluvionati, con un occhio alla sinagoga per cercare di salvare il libri della Torah, i Sefer Torah, oggetti dal valore religioso inestimabile.
Tra questi volontari c'era un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti deportato il 16 ottobre, uno dei solo 16 tornati su 1024 rastrellati: Luciano Camerino. Alla vista di quella devastazione Luciano si sentì male, ebbe un ictus cerebrale che lo uccise il giorno dopo. Morì così, a 40 anni, lasciando una giovane vedova e tre figlie piccolissime. Testimoni dissero che Luciano avesse rivisto le immagini dei campi di sterminio. Nel 1943 la famiglia Camerino - padre, madre, tre figli e uno zio, viveva in un appartamento a via delle milizie a Roma: lì, il 16 ottobre, fu sorpresa dai nazisti, guidati dai registri anagrafici trafugati dalla comunità ebraica.
Su carri bestiame, pieni all'inverosimile, senza acqua, senza mangiare, come animali, arrivarono al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dove la famiglia fu divisa: lo zio messo a morte al suo arrivo; Luciano, il padre e il fratello Enzo furono invece avviati alla miniera di Jawischowitz. Il padre, già esausto dal lavoro massacrante, fu finito da una guardia a calci e pugni; Luciano fu trasfetito a Buchenwald, da dove, insieme al fratello e a un altro deportato, Lazzaro Anticoli, riuscì a fuggire. Il ritorno a Roma fu terribile. Fu costretto a fare ogni mestiere possibile per mantenersi.
Il 3 aprile del '49 sposò la sua Graziella Terracina, nello stesso giorno di un altro deportato ritornato dai campi nazisti, Angelo Calò, mio futuro suocero. Nonostante le difficoltà, collaborò con la Ose, un ente assistenziale sanitario ebraico. Sotto la sua organizzazione, centinaia di giovanissimi ebrei, poterono usufruire di vacanze estive, presso le colonie marine e montane delle comunità ebraiche italiane, con grande sollievo delle famiglie. Tutto quel che faceva aveva una chiara connotazione ebraica: aprì, insieme a un altro sopravvissuto, Marco Calò Chicco, una Israel gallery con oggettistica sacra nel cuore del ghetto.
Il suo "da Luciano", fu il primo ristorante casher di Roma. Per un uomo con il suo passato era naturale andare a soccorrere Firenze e i suoi cittadini, senza alcuna distinzione. Nel corso delle operazioni di quei giorni furono recuperati e portati a Roma circa 800 reperti tra volumi, registri e paramenti sacri. Molti anni dopo l'architetto Renzo Funaro, vice Presidente delle fondazione beni culturali ebraici in Italia, si rese conto del valore inestimabile di quel materiale abbandonato ormai a se stesso. Qui si compie un altro piccolo miracolo. Realtà molto diverse collaborano per riportare alla luce un patrimonio universale: Funaro contatta le Suore Benedettine del Monastero di Santa Maria a Rosano, che con grande amore e professionalità si adoperano per restituire nuovamente questi capolavori alla loro città.
Ora, finalmente un primo lotto di opere restaurate verrà esposto il 23 ottobre a Firenze presso la sala Servi di via Farini, in occasione del cinquantesimo anniversario dell'alluvione,. Sarà presentata la mostra di documenti antichi del 700 e dell'800, con i nomi dei Parnassim del Tempio e delle Confraternite mortuarie ritrovati. Il 27 ottobre, invece, verranno esposti i libri restaurati dalle suore benedettine. Dopo l'inaugurazione, i vertici comunitari fiorentini, con il presidente Dario Bedarida, ricorderanno, giustamente, Luciano Camerino.
La memoria della sua figura sia di benedizione, l'augurio è che il suo sacrificio non sia stato vano: la sua vita, le sue testimonianze, il suo altruismo, ciò che i suoi occhi videro, sia di monito alle generazioni future.
(L'Huffington Post, 7 ottobre 2016)
Casalebraica. Tutto il Museo a portata di mano
Casalebraica è la nuova App mobile del Complesso Museale Ebraico di Casale Monferrato. Un progetto di Heritage Srl, startup innovativa di Torino, che lavora per la valorizzazione del patrimonio culturale progettando e sviluppando nuovi modelli di fruizione per i beni culturali.
La particolarità di Casalebraica, progettata da Heritage a partire dallo studio TAP THE ARTWORK (ARTAP), è quella di integrare in un'unica soluzione audioguida, storytelling, esplorazione interattiva delle opere e tour virtuale. Il tutto sui dispositivi personali (smartphone e tablet) dei visitatori, che potranno dunque consultare l'applicazione non solo durante la visita, ma anche dopo di essa.
Grazie alla tecnologia iBeacons, l'App si presenta come una guida multimediale che, sul luogo, è in grado di riconoscere la posizione del visitatore e offrigli in presa diretta la storia degli ambienti e degli oggetti del Museo. L'utente può scegliere tra "Visita guidata" e "Visita libera". Nel primo caso viene guidato dalla voce di Micol, avatar virtuale di una giovane ebrea legata alla Comunità locale, in un percorso speciale alla scoperta del Museo: ad ogni punto di interesse, l'audioguida parte in automatico nel posto giusto e al momento giusto. Nella visita libera, invece, si può accedere ai contenuti, suddivisi per piani e ambienti, indipendentemente dal percorso effettuato.
Per gli oggetti più significativi delle collezioni, l'App offre una modalità visiva di "immersione" nei dettagli per scoprirne e capirne caratteristiche e peculiarità. Infine, è ricca di contenuti aggiuntivi, sia audio che testuali, come il Glossario dei termini ebraici a cura di Cristina Mancini. E' inoltre possibile vedere tutti gli ambienti del complesso museale attraverso il Virtual Tour con immagini panoramiche a 360 gradi.
L'Applicazione è stata lanciata il 2 ottobre a Casale Monferrato, alla presenza di tutta la Comunità ebraica locale in occasione dei festeggiamenti per il Capodanno ebraico. Al momento è disponibile solo per utenti Apple, in una prima versione che comprende la Sinagoga e il primo piano. Entro l'estate, in successivi aggiornamenti, verrà implementata di tutti i piani e gli ambienti, e verrà infine lanciata anche la versione per Android.
(archeomatica, 7 ottobre 2016)
Haifa Film Festival 32 - Tanti film italiani in Israele
In concorso per il Golden Anchor "Le Confessioni" di Roberto Andò e "L'Ultima Spiaggia" di Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan
Si terrà dal 15 al 24 ottobre 2016 la trentaduesima edizione Haifa International Film Festival.
La manifestazione israeliana presenta una nutrita schiera di film italiani:
- "A Bigger Splash" di Luca Guadagnino: Double Feature - Screening the classic and the remake
- "Fai bei Sogni" di Marco Bellocchio: International Panorama
- "Fiore" di Claudio Giovannesi: International Panorama
- "Good News" di Giovanni Fumu: International Short Cinema
- "Il Giardino dei Finzi Contini" di Vittorio De Sica: Haifa Classics
- "Il Silenzio" di Farnoosh Samadi ed Ali Asgari: International Short Cinema
- "La Pazza Gioia" di Paolo Virzì: Opening Film
- "La Ragazza del Mondo" di Marco Danieli: International Panorama
- "Le Confessioni" di Roberto Andò: Golden Anchor Competition
- "L'Ultima Spiaggia" di Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan: Golden Anchor Competition
- "Una Giornata Particolare" di Ettore Scola: Haifa Classics
(cinemaitaliano.info, 7 ottobre 2016)
La vitale necessità d'essere forti, in Medio Oriente
La feroce violenza che insanguina i paesi arabi lascia immaginare cosa farebbero a Israele, se solo potessero.
Il marchio distintivo delle guerre civili che da più di cinque anni imperversano nel mondo arabo è la loro sconfinata crudeltà. Quartieri, villaggi o intere città "nemiche" vengono sistematicamente sottoposti a prolungati assedi che li privano di cibo, acqua, medicinali. Il deliberato bombardamento di aree civili, ospedali, luoghi di culto e scuole è all'ordine del giorno. L'uso di armi chimiche, sia da parte delle forze definite ribelli sia di quelle allineate col regime, è quasi di routine.
Se questo è il modo in cui i combattenti musulmani sono capaci di comportarsi fra di loro, è facile immaginare cosa farebbero agli israeliani se solo potessero metter loro addosso le mani. In effetti, non è per improbabili sentimenti umanitari che tutte le parti coinvolte nelle guerre civili arabe evitano di colpire Israele (salvo caso sporadici). Il fatto è che lo stato ebraico è riuscito a dotarsi di un esercito forte, moderno e motivato che scoraggia chiunque dall'attaccarlo sul serio. In Medio Oriente, la forza viene tenuta in grande rispetto....
(israele.net, 7 ottobre 2016)
Israele - Vietato odiare
di Adam Smulevich
Nessuno spazio per l'odio. E pene ancora più dure per chi cavalca la tensione, distrugge legami, semina violenza tra i più giovani. Anche e soprattutto nel mondo della scuola, dove si formano le nuove coscienze della nazione.
È un messaggio molto chiaro quello che arriva in questi giorni dalla Corte suprema israeliana, che ha intensificato le misure detentive predisposte contro tre giovani ebrei estremisti che, nel settembre dello scorso anno, erano stati condannati per il rogo appiccato a una scuola di Gerusalemme bilingue (ebraico e arabo) e per aver scritto, all'esterno dell'istituto, messaggi violenti e intimidatori contro i molti studenti arabi che la frequentano.
Il comportamento dei tre giovani, il 22enne Yitzhak Gabai e i fratelli Nahman e Shlomo Twitto, rispettivamente di 18 e 20 anni, tutti appartenenti a movimenti ultra-nazionalisti ispirati ai deliri anti-islamici e razzisti del rabbino Meir Kahane, è stato ritenuto "un pericolo concreto per la sicurezza di studenti e insegnanti". Per questo, la pena è stata aumentata in modo rilevante. Per Gabai, si è passati da 36 a 40 mesi di reclusione. Per i fratelli Twitto, che avevano ricevuto inizialmente condanna meno severe, si parla adesso rispettivamente di 38 e 32 mesi.
Le azioni violente dei tre estremisti hanno suscitato la ferma indignazione del presidente della Repubblica Reuven Rivlin, che ha parlato di "attacco all'identità democratica di Israele".
(moked, 7 ottobre 2016)
Il cardinale Fossati: niente aiuti agli ebrei sono turbolenti e hanno già fin troppo"
Alla fine della guerra, l'arcivescovo di Torino disse no all'assegno del Vaticano destinato a un campo di rifugiati. Una studiosa ha ritrovato la lettera del rifiuto.
di Ariela Piattelli
Il cardinale Maurilio Fossati
Nel marzo del 1946 l'Arcivescovo di Torino Maurilio Fossati rispediva al mittente, al Vaticano, un assegno di 100 mila lire destinato agli aiuti per i mille ebrei scampati ai campi di sterminio nazista, ospitati nel campo profughi di Grugliasco, una delle stazioni di sosta, prima di prendere il mare per la Palestina. I sopravvissuti all'orrore, tutti stranieri, non erano considerati degni della carità perché «in massima parte soggetti turbolenti, trattati troppo bene e che abusano vendendo al mercato nero quello che sovrabbonda, che lasciano molto a desiderare quanto a moralità, donne in soli calzoncini succinti». Lo rivela un documento straordinario, ritrovato quasi per caso da Giulietta Weisz, ricercatrice volontaria dell'Associazione Italia-Israele. La lettera firmata dal Cardinal Fossati del 31 marzo del '46, in cui spiega al Monsignor Baldelli della Pontificia Commissione Assistenza a Roma le ragioni del rifiuto dell'assegno, riporta parole durissime e di disprezzo nei confronti degli internati.
Il comandante del campo di Grugliasco, il Maggiore Brunnel, timoroso che il Vaticano potesse entrare nei suoi affari e aprire un'inchiesta sul campo, aveva convinto il Cardinale, prima con una visita, poi con un rapporto dettagliato, che i mille sopravvissuti alla Shoah erano trattati fin troppo bene e che non era necessario altro denaro visto che di loro se ne occupavano già gli alleati (come l'Unrra - «United Nations Relief and Rehabilitation Administration» e l'ente ebraico «American Joint Distribution Committee» ). Ed è bastato poco per convincere Fossati ad impedire che l'assegno fosse destinato agli aiuti. Brunnel era andato da lui con due crocerossine, descritte dall'Arcivescovo nella lettera ritrovata come «persone mature, di molto criterio, ottime cristiane».
«Parrebbe che dalla strage degli ebrei siano sopravvissuti i meno degni: ungheresi e rumeni poi sono i più cattivi» scrive ancora Fossati, riportando le parole di una delle accreditate sorelle.
E con la promessa che forse in un pomeriggio libero avrebbe visitato il campo, il cardinale allega alla missiva l'assegno, perché era inutile che «il S. Padre sprecasse denaro per loro (i sopravvissuti)».
Il documento è stato ritrovato per caso da Weisz, nel corso di un'altra ricerca. «Cercavo notizie sulla permanenza di Judith Arnon (personaggio della danza israeliana) in un convento ad Avigliana - spiega Weisz - Sono andata in Curia e nel corso della ricerca ho visto sporgere un foglio ingiallito da una cartella. Era la lettera di Fossati. Mi sono subito resa conto della portata storica del documento, che mi ha rivelato un'unica realtà. Si trattava di una dichiarazione di puro antisemitismo. Ogni parola della lettera che si riferisce ai sopravvissuti, a gente che ha perso ogni cosa e che porta i segni dell'orrore nel corpo e nella mente, è durissima. Ma la citazione della suora crocerossina sui "meno degni" mi ha colpito di più. Sono figlia di un ebreo ungherese, e ho trovato queste parole insostenibili».
Dopo la scoperta della lettera, la ricercatrice è andata a verificare se questa era conservata anche nell'archivio segreto vaticano.
«Ho trovato una cartella sulla corrispondenza, ma era vuota - continua -. È presumibile che qualcuno abbia ritenuto il documento scomodo». Ieri sera la Weisz insieme a Laura Camis de Fonseca, ha presentato il documento a Torino durante l'evento dell'Associazione Italia-Israele «Shoah, Alia Bet e Vaticano. Un ritratto del Cardinale Maurilio Fossati e della politica di Pio XII verso gli ebrei».
«Questo terribile documento è una goccia in un mare dice Angelo Pezzana, direttore di Informazione corretta, da sempre impegnato su questo tema - nel sommerso degli archivi secretati che il Vaticano si rifiuta di rendere pubblici, impedendo così agli storici di conoscere e studiare quanto avvenuto durante la Shoah e negli anni successivi».
(La Stampa, 7 ottobre 2016)
L'esercito russo coordinerà con Israele l'impiego di sistemi S-300 in Siria
MOSCA - L'esercito israeliano ha chiesto al ministero della Difesa della Federazione russa di concordare protocolli aggiuntivi e regole di interoperabilità in connessione con il rafforzamento dei gruppi di difesa aerea russi in Siria e la ricollocazione del sistema missilistico anti-aereo Antej-2500 (S-300V4). Lo ha riferito una fonte all'interno del ministero della Difesa di Mosca. "Israele ci ha inviato una richiesta per concordare nuovi protocolli e regole di ingaggio, per l'integrazione dei meccanismi esistenti e il coordinamento dei reparti militari dei due paesi dopo l'avvio delle attività delle forze aerospaziali in Siria", ha riferito la fonte ad "Izvestia".
(Agenzia Nova, 7 ottobre 2016)
Israele: Donne alla guida del settore biomedico
I settori scientifici e tecnologici sono stati a lungo dominati dagli uomini, ma nel mercato globale ci sono segnali che indicano che questo panorama potrebbe cambiare. In Israele, le donne hanno cominciato a far valere la loro influenza a tutti i livelli della fiorente industria biotecnologica del paese.
Bloomberg News ha riferito che ad esempio, in Israele le università a prevalenza maschile stanno vedendo un aumento esponenziale del numero di studenti di sesso femminile, in particolare nelle classi relative alle scienze biotecnologiche e della vita.
Commentando il numero di donne nei corsi di neurofisiologia e processi biologici, Daniella Nistenpover, una studentessa in biomedicina presso l'Università di Haifa, ha dichiarato:
Nel campo delle scienze della vita, una donna può lasciare il segno.
Tutto ciò lascia prevedere che in futuro le donne potranno dominare l'industria biotech israeliana. Le donne superano gli uomini attualmente in biologia e scienze correlate nel campo dell'istruzione superiore. E mentre i lavoratori nel settore high-tech sono prevalentemente di sesso maschile, le donne costituiscono il 60-70% dei dipendenti nel campo delle biotecnologie, secondo la società di Tel Aviv Nisha Group.
Il settore biotecnologico potrebbe essere una scelta di carriera vantaggiosa, dato l'elevato livello di finanziamento che il governo israeliano ha investito in questo settore.
Il progresso delle donne nelle posizioni esecutive e manageriali in Israele, non si limita al settore biotech. Come rivela un'indagine internazionale realizzata dall'istituto di ricerca IMD, lo Stato di Israele è al 24esimo posto su una lista di 59 nazioni sviluppate, in termini di donne che ricoprono ruoli esecutivi a livello mondiale.
Circa il 18% di tutti gli amministratori di società pubbliche in Israele sono donne e circa la metà delle posizioni manageriali di alto livello nelle principali aziende israeliane, come Gazit-Globe, Ormat, Delek, Strauss Group e Electra sono donne.
(SiliconWadi, 7 ottobre 2016)
Nahum cacciato dalla segreteria dopo le polemiche col segretario
Tolte le deleghe all'ex portavoce della comunità ebraica. Troppo libero sul caso islam.
di Alberto Giannoni
Daniele Nahum cacciato dalla segreteria dopo le critiche al Pd sull'islam. Un nuovo caso Ismail si profila per il partito di Matteo Renzi a Milano. Il responsabile Cultura del partito, coscienza critica del Pd sui temi della libertà di culto, in occasione del riassetto dell'esecutivo metropolitano del partito si è visto ritirare le deleghe dal segretario Pietro Bussolati, Senza neanche una telefonata. È stato lo stesso Nahum a raccontarlo, senza aver contestato la legittimità della decisione ma sottolineandone «lo stile». «Non mi è arrivata né una telefonata né una email - ha scritto - tanto meno mi è stato detto quali sarebbero le motivazioni di carattere politico di questa scelta. Niente di male, ognuno ha il proprio stile nel comunicare le sue legittime decisioni».
Nahum è piuttosto noto a Milano. Prima di assumere l'incarico di responsabile Cultura nella segreteria Pd, infatti, era stato vicepresidente e portavoce della Comunità ebraica. Dal 2013 milita nel Pd ed è vicino politicamente a Stefano Boeri, già avversario di Giuliano Pisapia alle primarie 2010, poi assessore alla Cultura e capofila di un'area «liberal» cui apparteneva anche Maryan Ismail, l'antropologa italo-somala protagonista a sua volta di un clamoroso abbandono del Pd. Ismail aveva criticato il bando sulle moschee, per questo era stata sostanzialmente messa alla porta un anno fa e poi, a suo dire, emarginata fino all'addio, quando ha accusato il Pd di aver scelto la parte «più oscurantista dell'islam». I rapporti fra Coordinamento dei centri islamici (Caim) e Pd erano stati al centro anche della polemica che ad agosto si è aperta fra Nahum e Bussolati, in seguito all'ormai famoso caso poligamia, chiesta a gran voce dal fondatore dell'Ucoii, Hamza Piccardo, padre di Davide, leader del Caim. Nahum ha sempre criticato l'interlocuzione Pd-Caim, In quella occasione Bussolati lo aveva rimproverato platealmente ma Nahum ha tenuto il punto con fermezza. Evidentemente quel dissidio ha pesato nel momento in cui il segretario ha dovuto riassegnare gli incarichi, in una fase molto calda, quella che precede una campagna referendaria molto dura. La compagine di governo del partito, come del resto già la Festa dell'Unità, sembrano schierate senza eccezioni per il «sì». D'altra parte, nel partito, sembra che viga una tregua-accordo fra i renziani, orientati sulle questioni politiche nazionali e la sinistra interna, con l'assessore Pierfrancesco Majorino ha assunto posizioni chiave in Comune, nella giunta e nel gruppo consiliare. Intanto la modernizzazione del partito, obiettivo dichiarato dei renziani, anche a Milano sembra aver perso ogni smalto. L'emarginazione di voci «liberal» (e di area Boeri) sembra un segnale di crisi per la segreteria di un partito tornato al vecchio «andazzo».
(il Giornale, 7 ottobre 2016)
Qualificazioni Mondiale 2018, Israele conquista la prima vittoria in Macedonia
Macedonia-Israele 1-2. La squadra di Levy conquista una preziosissima vittoria in trasferta riscattando la sconfitta casalinga all'esordio contro l'Italia. Per gli israeliani vanno a segno Hemed e Ben Chaim, mentre ai macedoni non basta il palermitano Nestorovski.
L'Israele batte la Macedonia a Skopje e conquista tre punti preziosissimi in vista del prosieguo del girone di qualificazione a Russia 2018. La squadra di Levy si dimostra particolarmente cinica e concreta nel segnare ben due reti nel primo tempo. I padroni di casa infatti partono meglio e creano occasioni da rete con i due uomini più propositivi, ovvero Alioski e Nestorovski, ma nè il centrocampista nè il centravanti del Palermo riescono a finalizzare le chances da rete create. Allora l'Israele prova a colpire in contropiede ed al 25' passa in vantaggio con Hemed, ben pescato in area da Golasa.
La Macedonia subisce il contraccolpo psicologico e non riesce a reagire, ne approfittano gli israeliani che raddoppiano prima dell'intervallo con Ben Chaim. Nel secondo tempo la squadra di Angelovski prova ad assediare la metà campo avversaria riuscendo ad accorciare le distanze solamente al 63' con Nestorovski abile a raccogliere una conclusione dalla distanza di Spirovski e battere Golesh con un tiro potente e preciso. Israele va in confusione e non riesce più a rendersi pericoloso. La Macedonia va vicina alla rete con i soliti due, Alioski e Nestorovski, ma solamente nel finale ha la vera opportunità per pareggiare: Jahovic viene atterrato in area di rigore da Tibi; s'incarica della battuta del penalty lo stesso n.18 ma la sua conclusione viene respinta dall'estremo difensore avversario. La Macedonia rimane dunque a zero, mentre l'Israele sale al 4o posto con 3 punti. I prossimi impegni vedranno la squadra di Angelovski ospitare l'Italia, mentre gli israeliani attenderanno il Liechtenstein.
La gara
Il primo tiro in porta è per la Macedonia con Pandev, che servito da Alioski, si accentra e lascia partire una conclusione mancina che si spegne di poco a lato. Un minuto dopo ancora la mezzala macedone (Alioski) crossa per Pandev, che anticipa il diretto marcatore e davanti a Goresh calcia in porta spedendo la palla oltre la traversa. Israele reagisce con un calcio di punizione battuto da Zahavi, l'ala israeliana trova in area di rigore lo stacco imperioso di Tibi ma la palla incoccia sul palo e termina fuori. Al 22' gol annullato ai padroni di casa: sugli sviluppi di un calcio piazzato Petrovikj fa da sponda per Nestorovski che in spaccata spedisce la sfera in fondo alla rete, ma l'arbitro ferma tutto per il fuorigioco dell'attaccante del Palermo. Poco dopo Israele passa sorprendentemente in vantaggio: Golasa crossa dalla destra trovando in area il liberissimo Hemed che di testa manda la palla alle spalle dell'estremo difensore avversario.
La Macedonia reagisce con un cross dalla sinistra di Alioski, che viene mal calcolato da Goresh, il quale favorisce la conclusione di Nestorovski che però si spegne sul fondo. Al 34' Petrovikj ci prova dalla distanza ma il portiere israeliano si fa trovare pronto nella parata. Due minuti dopo Hasani s'incarica della battuta di un calcio di punizione, indirizzando la palla verso l'angolo più lontano ma Goresh non si fa sorprendere e respinge lontano la sfera. A due dal termine del primo tempo la seconda beffa, Israele raddoppia: Ben Chaim finalizza un contropiede condotto dai suoi superando l'estremo difensore avversario e depositando la palla in porta con il destro. Prima dell'intervallo Nestorovski ha una buona occasione su un'azione di mischia all'interno dell'area di rigore israeliana, ma il suo tiro si perde abbondantemente sul fondo. I primi 45 minuti di gioco quindi si chiudono sul punteggio di 2-0 in favore della squadra di Levy.
Il secondo tempo con Israele che vuole approfittare degli spazi lasciati liberi dalla difesa macedone ed infatti Zahavi al 47' cerca il 3-0 con una conclusione che costringe Bogatinov alla deviazione in tuffo. Al 54' Macedonia vicina al gol con Nestorovski che stacca bene di testa sul calcio di punizione battuto da Alioski, ma la palla viene respinta con grande reattività da Goresh che salva così la propria squadra dalla capitolazione. Risponde Zahavi, il più attivo tra i suoi: scambia con Ben Chaim ed una volta giunto al limite dell'area di rigore macedone lascia partire un tiro che si spegne di poco fuori. Su capovolgimento di fronte, Ibraimi riceve a sinistra, si accentra, salta un avversario e conclude in porta ma Goresh si fa trovare pronto nella parata. Al 61' Alioski attacca sulla fascia destra e crossa in mezzo, Nestorovski non arriva sulla sfera per pochi centimetri. Preludio al gol che accorcia le distanze poco dopo: Spirovski tenta un improbabile tiro dalla lunga distanza, la palla viene raccolta da Nestorovski che supera Goresh con un tiro potente e preciso.
I padroni di casa credono nel pareggio e continuano ad attaccare con Alioski che scambia con Nestorovski e crossa dalla destra, la palla sbatte sulla traversa e finisce fuori. Al 70' sempre Alioski crossa dalla destra, la sfera viene deviata verso la porta israeliana, ma Goresh evita rischi respingendo il pallone in calcio d'angolo. All'83' il neoentrato Jahovic prova la conclusione in porta ma l'estremo difensore avversario non ha problemi nel bloccare la sfera. In pieno recupero la Macedonia ha l'opportunità del pareggio: Tibi atterra in area di rigore Jahovic, l'arbitro fischia il rigore ed espelle il difensore israeliano; lo stesso numero 18 s'incarica della battuta dagli undici metri, ma la sua conclusione viene respinta da Goresh che così consegna la vittoria per 2-1 ad Israele.
(Vavel, 6 ottobre 2016)
Germania-Iran: Gabriel invita a "riconoscere Israele", ma Zarif non lo riceve
Prima di imbarcarsi alla volta di Teheran, il ministro tedesco Gabriel ha sostenuto che l'Iran può avere relazioni amichevoli con la Germania a condizione che "riconosca il diritto ad esistere di Israele".
Il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ed il presidente del parlamento Ali Larijani hanno annullato il proprio colloquio con il vice-cancelliere tedesco Sigmar Gabriel in visita ufficiale in Iran. Secondo l'agenzia Irna, i due alti esponenti iraniani che avevano in programma il colloquio con Gabriel, che è altresì responsabile del dicastero dell'economia, hanno improvvisamente annullato gli incontri, senza indicare la ragione per questa decisione che pero' non giova all'immagine del vice della Merkel.
Gabriel si è recato per due volte negli ultimi mesi in Iran per dare seguito ad una serie di accordi economici, guidando importanti delegazioni; la Germania è oggi il principale partner commerciale dell'Iran nell'Unione Europea, seguito dall'Italia. Poco prima di imbarcarsi alla volta di Teheran, il ministro tedesco aveva però sostenuto che l'Iran può avere relazioni normali ed amichevoli con la Germania a condizione che "riconosca il diritto ad esistere di Israele". A stretto giro di posta gli aveva risposto il ministro degli esteri Zarif ricordando che "nessuno può porre condizioni all'Iran che e' una nazione indipendente". L'Iran non riconosce l'esistenza dello Stato di Israele e sostiene che uno Stato in Palestina, qualsiasi nome esso abbia, verrà riconosciuto solo se vi saranno elezioni aperte a tutti (musulmani, ebrei, cristiani) e potranno tornare a vivere nelle loro case, i profughi palestinesi cacciati dalle loro terre.
È ancora presto per capire se la dichiarazione di Gabriel e la successiva reazione iraniana avrà ricadute sulle fiorenti relazioni economiche tra i due Paesi. Dopo l'intesa sul nucleare del 2015 si è aperto un fiorente mercato in Iran a cui le aziende occidentali, in primis quelle italiane, guardano con grande interesse.
(Il Populista, 6 ottobre 2016)
Sar-el, volontariato in Israele: il 7 maggio partirà il primo gruppo solo italiano
Il 7 maggio 2017 partirà il primo gruppo di soli volontari italiani per Sar-el, il programma di volontariato nelle basi militari israeliane.
Sono già tanti gli italiani che hanno provato questa esperienza indimenticabile, ma non era mai accaduto che partisse una spedizione di soli italiani. Per fare questo, è necessario trovare almeno 10 volontari.
Il gruppo, in realtà, si sta già formando e la data di partenza scelta è il 7 maggio 2017. C'è tutto il tempo, quindi, per organizzarsi anche con il proprio lavoro (ferie) e non prendere altri impegni.
Il programma dura tre settimane, precisamente dal 7 al 25 maggio. Qualora si riuscisse a superare quota 10 volontari, qualcuno potrebbe anche scegliere di restare in Israele solo due settimane.
Per partecipare, oltre ovviamente al passaporto, serve un certificato medico di sana e robusta costituzione e una lettere di referenze. Per ulteriori informazioni o per dare la propria adesione, chiunque può contattare L'Informale alla nostra mail info@linformale.eu, fornendo i propri recapiti (indirizzo mail e numero di cellulare) e manifestando la volontà di essere contattati dal coordinamento Sar-el Italia.
Ogni lettore de L'Informale potrebbe essere protagonista della prima storica spedizione tutta italiana per il programma Sar-el.
Non sono chiesti requisiti di età né particolari attitudini fisiche. Le mansioni sono distribuite in base all'età e alle proprie possibilità. Necessario solo un certo spirito di adattamento per dormire in camere con 3, 4 o 5 letti.
Costi? Solo l'iscrizione, circa 100 dollari, e il viaggio. Vitto e alloggio sono gratuiti.
Per tutto il resto, vi invitiamo a leggere la nostra recente intervista a Michael Begnini, coordinatore di Sar-el Italia.
Contiamo sulle vostre numerose adesioni per un'esperienza davvero indimenticabile.
(L'Informale, 6 ottobre 2016)
AirFrance, fra guasti e "Allah Akbar", la compagnia teme la radicalizzazione dei dipendenti
AirFrance ha motivo di ritenere che alcuni dei suoi dipendenti siano a rischio radicalizzazione islamica. Il timore della nota compagnia aerea francese nasce dal fatto che si sono verificati una serie di episodi che la direzione ha giudicato "anomali". Ad esempio, scritte "Allah Akbar" che compaiono sugli aerei, guasti strani ai motori, addirittura un aereo che si è visto rifiutare il permesso di atterrare in quanto era "pilotato da una donna".
Il settimanale francese Canard Enchainé sostiene che AirFrance, pur non parlando di rischi concreti per i clienti e per il personale, ha sostenuto che un comandante ha rifiutato di far decollare un aereo dopo che è avvenuto l'ennesimo incidente. AirFrance ha dichiarato di aver sporto denuncia perché ha trovato 40 scritte riportanti la frase "Allah u Akbar" su altrettanti aerei, nella zona del serbatoio del carburante.
Un'inchiesta interna ha identificato un soggetto dipendente, francese convertito all'Islam, come sospetto. Non appena identificato, l'uomo è fuggito in Yemen. Due dipendenti che lo conoscevano sono sospettati di aver manomessi gli scivoli di evacuazione. Non solo, dalle cartine distribuite ai passeggeri del volo per Tel Aviv era "misteriosamente scomparso" Israele. Inoltre erano state ritirate dall'azienda 73 autorizzazioni di accesso alle piste ad altrettanti soggetti tenuti radicalizzati.
(New Notizie, 6 ottobre 2016)
Marocco: ebrei festeggiano il capodanno in diverse città del paese
RABAT - Gli ebrei marocchini hanno festeggiato ieri il capodanno ebraico in diverse città del Marocco con incontro e celebrazioni pubbliche. Secondo quanto riporta il sito informativo "Hespress", a molte di queste feste non sono mancati i marocchini musulmani che hanno celebrato quasi contemporaneamente il capodanno del calendario islamico. Sono circa 4 mila i marocchini di fede ebraica che vivono nel paese nord-africano ma in occasione di queste celebrazioni, come quella del giorno del Kippur o della pasqua ebraica, sono centinai gli ebrei provenienti dall'Europa e da Israele nel paese per trascorrere le vacanze. La maggioranza degli ebrei in Marocco vivono a Casablanca, mentre il resto si divide tra Rabat, Marrakesh ed Essaouira. Secondo il rapporto annuale del Dipartimento di Stato Usa sulle libertà religiose, il Marocco "tiene in grande considerazione la sua comunità ebraica e non si registrano restrizioni o violazioni dei suoi diritti all'interno del territorio marocchino".
(Agenzia Nova, 6 ottobre 2016)
In Germania antisemiti truccati
I focolai più preoccupanti sono a Monaco di Baviera
di Roberto Giardina
BERLINO - Ogni giorno in Germania chiude qualche decina di locali, e altrettanti se ne riaprono, ma Die Welt in un lungo articolo si chiede: «Warum ein jüdisches Lokal in München dicht macht?», perché un locale ebraico a Monaco è costretto a chiudere? Dopo 16 anni, lo Schmock nel quartiere di Maxvorstatd era diventato un'istituzione nella capitale bavarese, ma il proprietario Floran Gleibs, 46 anni, chiude perché aveva «die Schnauze voll», le scatole piene, in libera traduzione. «Ne ho abbastanza di tutte queste critiche agli ebrei e a Israele. L'antisemitismo in Germania è più avvertibile oggi, rispetto anche a un passato recente». Due anni fa, a Monaco scesero in strada a protestare per Gaza, ricorda, e urlavano «ebreo, vile maiale, vieni fuori».
Al posto di Schmock, Gleibs aprirà un ristorante laotiano: specialità orientali invece che mediterranee. Da ragazzo, racconta, frequentò per due anni un collegio ad Haifa, ma non possiede il passaporto
Le critiche alla politica di Israele nascondono in realtà il sempre latente antisemitismo. Il 30% di quanti si riconoscono nei movi- menti di estrema sinistra ritengono che «gli ebrei avrebbero sempre troppo potere».
israeliano. Per gli ebrei è diventato più difficile e pericoloso vivere in Germania?, come ha denunciato Charlotte Knobloch, presidente della comunità israelitica di Monaco. Le critiche alla politica di Israele nascondono in realtà il sempre latente antisemitismo. Secondo una ricerca della Freie Universität di Berlino, il 30% di quanti si riconoscono nei movimenti di estrema sinistra ritengono che «gli ebrei avrebbero sempre troppo potere».
Da due anni, dice Gleibs, ho cominciato a perdere i clienti: «I tedeschi hanno paura o si vergognano di odiare gli ebrei, ma non hanno scrupoli nel dichiarare di non sopportare Israele». La sua opinione è condivisa dal Verfassungschutz, letteralmente l'ufficio per la difesa della costituzione, uno dei tre servizi segreti tedeschi, addetto alla sorveglianza interna. «Anche gli estremisti di destra attaccano Israele», dice Markus Schäfert, responsabile per la Baviera, ciò non è altro che ben mascherato antisemitismo. Si sostiene di criticare Israele, ma se ne mette in discussione il diritto a esistere».
Il Bayerische Landeskriminalamt, la sezione criminale della polizia di Monaco, ha registrato nel 2015 tre atti di violenza con chiari motivi antisemiti. «Sembra poco», commenta Die Welt, «ma la realtà non si può ridurre in cifre ». Molto più alto è il numero di piccole violenze, di pressioni, di minacce e di insulti che non vengono denunciati. E il patron dello Schmock, racconta: «Clienti, anche di vecchia data, continuano a chiamarmi, mi urlano voi ebrei di merda, uccisori di bambini vi spediamo nelle camere a gas».
Prima essere ebreo non era un tema, e poi all'improvviso è tornato a essere un problema, continua. Ha aperto il ristorante nel Duemila perché la cucina israeliana è molto simile a quella italiana meridionale, che piace ai tedeschi, in particolare ai bavaresi. «Poi i clienti hanno cominciato a prendermi per responsabile di quelli che secondo loro erano errori commessi da Israele, ogni sera ero costretto a giustificarmi». Per reazione ha appeso un cartello in vetrina: «Noi non ci occupiamo di politica», non è servito a nulla.
Gli estremisti tedeschi non fanno distinzione, dichiara Markus Schäfert. A Monaco, Pegida, il movimento razzista e violento che attacca i centri profughi, minaccia anche turchi e gli ebrei «tutti raus», fuori dalla Germania ariana. In internet, continua il responsabile del Verfassungsschutz, vengono diffusi appelli al boicottaggio contro prodotti israeliani. Il ministro agli interni, il socialdemocratico Heiko Maas, dichiara di essere preoccupato «però non interviene», scrive Der Spiegel.
All'inizio, Gleibs ha cercato di reagire con umorismo, citando lo slogan nazista: «Deutsche, kauft nicht bei Juden», tedeschi non comprate dagli ebrei, e lo ha cambiato in «Deutsche esst bei Juden», tedeschi mangiate dagli ebrei. A Marian Offman, 68 anni, consigliere comunale dei cristianosociali e membro del direttivo alla Comunità ebraica, la pubblicità non piacque. Ma oggi si rammarica della chiusura del locale, e ammette che la violenza radicale aumenta in modo preoccupante, in particolare secondo una ricerca dell'Università di Lipsia, in Baviera, dove iniziò la carriera di Hitler. Su 35 mila ebrei che vivevano nella regione, ricorda Offmann, solo alcune centinaia sono sopravvissuti all'olocausto. A Monaco, su 10 mila, 4.500 furono uccisi, gli altri riuscirono a fuggire: «È una ferita nella storia della città che è ancora aperta».
(ItaliaOggi, 6 ottobre 2016)
Abu Mazen : Aiuti internazionali usati per distruggere Israele
Il mondo offre pseudo-giustificazioni giuridiche alle pretese palestinesi. E permette che si chiami "economia palestinese" quello che è un racket per l'estorsione di denari alla comunità internazionale e agli stessi palestinesi
Nel suo discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del mese scorso, il capo dell'Olp e di Fatah nonché mai rieletto presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha detto molte cose per far capire bene che fondamentalmente non è interessato alla pace con Israele. Quello che gli interessa è distruggere Israele.
Eppure una delle sue richieste spicca in modo particolare. Spicca non perché sia nuova. Non lo è affatto. Abu Mazen la ripete in continuazione, e i suoi consiglieri fanno altrettanto. La ripetono sia agli ascoltatori palestinesi che a quelli internazionali, suscitando sempre espressioni di sostegno, o perlomeno di simpatia.
Abu Mazen chiede che Israele la smetta di arrestare i terroristi palestinesi e scarceri tutti i terroristi palestinesi detenuti. In altri termini, chiede che Israele permetta a migliaia di terroristi condannati di andarsene a piede libero e che si astenga dal fare qualsiasi cosa che possa ostacolare i terroristi impegnati a progettare e realizzare omicidi e stragi di cittadini israeliani.
La stragrande maggioranza dei palestinesi sostiene questa richiesta.
E lo stesso fanno i governi occidentali, a cominciare da quello degli Stati Uniti.
Durante il fallito processo di pace mediato dal Segretario di stato americano John Kerry del 2013-14, l'amministrazione Obama abbracciò la richiesta di Abu Mazen che Israele scarcerasse 104 terroristi assassini come precondizione per accettare di sedersi a negoziare con lo stato ebraico. Cedendo alle pressioni degli Stati Uniti, Israele rilasciò 78 terroristi in tre tranche.
In vista della quarta tranche, Abu Mazen e i suoi consiglieri sbandierarono che avrebbero interrotto i colloqui con Israele non appena l'ultimo gruppo di terroristi assassini fosse uscito di galera. In altre parole, ammisero che i negoziati che erano in corso non erano altro che un espediente per conseguire l'obiettivo della liberazione degli assassini.
Anziché condannare Abu Mazen e i suoi colleghi per questa loro cinica manifestazione di malafede e di disgustosa immoralità, l'amministrazione Obama rimproverò Israele per essersi rifiutato di stare al gioco.
Quando Israele reagì alle dichiarazioni dei capi palestinesi bloccando la scarcerazione dell'ultimo gruppo di 26 terroristi condannati, Washington accusò Israele d'aver violato i termini del negoziato. Ecco come mai Obama, Kerry e i loro consulenti ritengono che Israele sia il responsabile del fallimento dei colloqui.
La campagna palestinese per la scarcerazione dei terroristi, come tutta la propaganda palestinese, non nasconde il proprio obiettivo: cancellare Israele dalla carta geografica.
La campagna palestinese per la scarcerazione dei terroristi, come tutta la propaganda palestinese, non nasconde il proprio obiettivo: cancellare Israele dalla carta geografica.
E' importante considerare cosa ci dice di Abu Mazen la sua pretesa che i terroristi siano a piede libero. E' importante riflettere su cosa ci dice della loro società il fatto che la stragrande maggioranza dei palestinesi si associa a questa richiesta. E vale la pena riflettere anche sulla razionalità strategica e sulla statura morale dei governi occidentali che sostengono questa posizione.
Per quanto riguarda Abu Mazen e i palestinesi, il loro rifiuto di considerare criminali gli assassini e gli stragisti ci dice molto su chi sono e cosa vogliono.
Il movimento nazionale palestinese che hanno incarnato non è mai stato caratterizzato da un profondo desiderio di liberazione nazionale. Non è mai stato un movimento la cui ragion d'essere fosse costruire la "Palestina".
Sin dal momento in cui è venne creata da Amin el-Husseini nel 1920, l'identità palestinese si è costruita sulla negazione del movimento di liberazione nazionale ebraico, cioè il sionismo. E sin dal momento in cui Israele ottenne l'indipendenza nel 1948, i palestinesi si sono definiti in base al loro impegno collettivo per la cancellazione dello stato ebraico: da qui il loro sostegno ai terroristi che uccidono gli ebrei.
L'erede di Husseini, Yasser Arafat, condivideva la sua opinione che il terrorismo è sia un obiettivo strategico in sé stesso sia un mezzo per raggiungere il fine ultimo del movimento palestinese: l'eliminazione violenta di Israele.
Allo stesso modo l'erede di entrambi, Abu Mazen (come i suoi mezzo-soci e mezzo-rivali di Hamas), non è mai stato realmente interessato a costruire qualcosa. E infatti non ha costruito niente.
Si consideri quella che viene impropriamente indicata come "l'economia palestinese". In un articolo pubblicato a fine settembre dal giornale on-line in lingua ebraica Mida, l'economista Uri Redler ha mostrato che l'economia palestinese non è in realtà un'economia. Si tratta di un racket per l'estorsione di denaro. Utilizzando i dati della Banca Mondiale, Redler ha dimostrato che l'economia palestinese è un'illusione ottica. Nei suoi 22 anni di esistenza, l'Autorità Palestinese ha quasi completamente distrutto il settore privato in Giudea, Samaria e striscia di Gaza.
Il 75% del suo reddito fiscale proviene da imposte indirette che Israele riscuote per conto dell'Autorità Palestinese sulle importazioni. Il 40% del suo bilancio proviene da donatori. Solo il 18% proviene da imposte dirette. E la maggior parte di queste provengono da ritenute alla fonte sui dipendenti della stessa Autorità Palestinese.
Dalla fine della guerra anti-Hamas a Gaza dell'estate 2014, solo il 15% degli aiuti esteri per la ricostruzione di Gaza è stato utilizzato per progetti di ricostruzione. Il resto del denaro è stato utilizzato
come fondi a disposizione di Hamas. Il 70% di quei fondi sono arrivati dai contribuenti americani ed europei. Ciò significa che Stati Uniti e Unione Europea hanno direttamente finanziato i terroristi di Hamas.
"Il terrorismo è un obiettivo strategico in sé e un mezzo per raggiungere il fine ultimo del movimento palestinese:
"Il terrorismo è un obiettivo strategico in sé e un mezzo per raggiungere il fine ultimo del movimento palestinese: l'eliminazione violenta di Israele", come mostra tutta la pubblicistica palestinese anti-israeliana.
l'eliminazione violenta di Israele", come mostra tutta la pubblicistica palestinese anti-israeliana
Non sorprende che gli aiuti siano stati dirottati. Né sorprende che Stati Uniti e Unione Europea abbiano continuato a fornire il denaro pur sapendo che veniva dirottato da Hamas. Hamas, come Fatah, non ha a
lcun interesse a sviluppare un'economia palestinese.
Lo sviluppo economico non procura loro denari, il terrorismo sì. Palestinesi dotati di libertà economica non dipenderebbero per il proprio sostentamento da personaggi come Abu Mazen e dalle sue controparti in Hamas.
Ecco perché costoro hanno interesse a bloccare qualunque percorso indipendente verso la prosperità. Anziché costruire strade e altre infrastrutture necessarie per lo sviluppo economico indipendente, Autorità Palestinese e Hamas pagano le persone perché uccidano gli ebrei.
E più ebrei uccidono, più soldi si ricevono. Possono permettersi questa politica perché Stati Uniti ed Europa li pagano per farlo. Più i palestinesi commettono terrorismo, più titoli ricevono sui mass-media. E più titoli ricevono sui mass-media, più soldi ottengono dalle Nazioni Unite e dai governi occidentali per far progredire la causa della "soluzione a due stati".
Il che ci riporta agli Stati Uniti e all'Europa e al loro sostegno senza riserve per la pretesa palestinese di scarcerare i terroristi. All'inizio di settembre Eugenio Kontorovich, della Northwestern University Law School, e il Forum Kohelet hanno pubblicato un documento sull'interpretazione generale da parte della comunità internazionale dell'art. 49 comma 6 del Quarto Protocollo di Ginevra del 1949, quello che afferma che "una potenza occupante non deve espellere o trasferire parte della propria popolazione civile nel territorio che occupa".
Come ha osservato Kontorovich, questa clausola è quella che sta alla base dell'eterno ritornello della comunità internazionale secondo cui le comunità israeliane costituite a Gerusalemme e in Giudea/Samaria al di là delle linee armistiziali (provvisorie) del 1949 sarebbero illegali.
In altre parole, sta alla base dei capi d'accusa dell'Occidente contro Israele e, per estensione, a favore dei palestinesi.
Kontorovich ha analizzato come la stessa comunità internazionale considera comunità costituite da cittadini di una dozzina di altri stati in terre occupate in conflitti armati, e ha notato che la presenza e le attività di marocchini nel Sahara occidentale, di turchi nella Cipro del Nord, di indonesiani a Timor Est e di altri cittadini in molteplici altri territori sono legalmente indistinguibili dalla presenza e attività di cittadini israeliani in aree che Israele ha tolto al controllo della Giordania durante la guerra arabo-israeliana del 1967. Ma in nessuno degli altri casi gli Stati Uniti, l'Unione Europea, l'Onu né qualunque altra autorità nazionale o internazionale ha mai invocato la Quarta Convenzione di Ginevra né ha mai sostenuto in qualche altro modo che tali presenze e attività costituissero una violazione del diritto internazionale.
In altre parole, la base giuridica per la criminalizzazione e la condanna politica di Israele in relazione ai palestinesi è del tutto pretestuosa e discriminatoria. Essa non serve a promuovere la causa della pace e della giustizia. Serve solo a dare una pseudo-giustificazione giuridica a gangster terroristi che uccidono ebrei israeliani ed estorcere soldi sia ai palestinesi che alla comunità internazionale.
(Debug Lies News, 6 ottobre 2016)
La pace arriverà quando l'irredentismo palestinese ammetterà la propria sconfitta
Il diritto degli ebrei all'autodeterminazione non è esclusivo, ma la pace non può che passare dalla sconfitta storica del nazionalismo estremista palestinese che quel diritto vuole negare.
La sinistra sionista aspira alla sconfitta del nazionalismo irredentista palestinese almeno quanto vi aspira la destra sionista. Solo quando lo ammetterà, la sinistra sionista potrà guidare lo stato di Israele verso un accordo di pace, se e quando ciò diventerà fattibile. Infatti un accordo di pace basato sulla divisione del paese sarà possibile solo quando il movimento irredentista palestinese riconoscerà la propria sconfitta rispetto al movimento nazionalista ebraico, il sionismo.
In generale, la sinistra preferisce non pensare né parlare in termini di vittoria e sconfitta. Le persone di sinistra preferiscono pensare di essere gente buona, incline al compromesso. La sinistra considera il proprio sostegno alla divisione del paese in due stati come il giusto compromesso in cui ciascuna parte riconosce che non si può avere tutto per via dell'esistenza dell'altra parte. Purtroppo, quello che la sinistra considera un giusto compromesso viene visto da parte palestinese come una sconfitta umiliante....
(israele.net, 6 ottobre 2016)
Parashà della settimana: Va-yelech (E rivolse)
Deuteronomio 31:1-31:30
- E Moshè rivolse (va-yelech) queste parole a tutto israele: "Sono giunto all'età di centoventi anni e non posso più andare e venire con facilità. Il Signore mi ha detto: Tu non passerai questo Giordano" (Deuteronomio 31.2).
L'uomo Moshè è vivo davanti a noi e le sue parole attraversano i secoli raggiungono le nostre orecchie che ascoltano il Maestro pieno di comprensione ma anche di severità. Moshè trasmette il suo potere al fedele discepolo Giosuè della tribù di Efraim che ha dimostrato durante le peregrinazioni nel deserto del Sinài di essere un uomo capace di governare situazioni difficili come la guerra contro Amalek, la ribellione degli esploratori ecc E nonostante queste sue qualità la posizione di Giosuè rischiava di vacillare . Per questa ragione inteviene D-o stesso per rassicurare il popolo sulla sceltà fatta da Moshè e soprattutto per testimoniare l'eternità della Torah. " chiama Giosuè e avvicinatevi insieme alla tenda della radunanza ed I-o gli darò le Mie disposizioni" (Deuteronomio 31.14).
In questa parashà viene data un'ultima legge da osservare e cioè la lettura pubblica della Torah " affinchè essi ascoltino, imparino e temano il Signore vostro D-o e osservino tutte le parole di questa legge" (Deuteronomio 31.12).
E' una lettura che deve essere fatta dal Re stesso ogni sette anni, nell'anno della "schemità" durante la festa di Succot (Capanne). Devono essere presenti, senza eccezioni, tutti i membri del popolo bambini compresi affinché questa mitzvà non sarà dimenticata dai suoi discendenti.
Rashì sostiene che il popolo d'Israele nel corso dei secoli ha mantenuto questa promessa. Lo studio della Torah difatti accompagna ogni ebreo durante la sua vita ed è considerato dalla Tradizione una mitzvà che illumina tutte le altre.
La breve parashà si chiude con il cantico di Moshè che non si stanca di attirare l'attenzione del popolo sull'importanza capitale dell'osservanza della Parola di D-o. "Perché io (Moshè) so che dopo la mia morte vi corromperete e vi allontanerete dalla strada che vi indicai" (Deuteronomio 31.29).
Tale pessimismo di Moshè è giustificato? E' poi tanto difficile restare fedeli alla Legge e sottomettersi a questa? Dalla storia del popolo ebraico si possono notare le difficoltà che si incontrano per una tale osservanza, ma è la stessa Torah che rivela a noi un insegnamento fondamentale. Contrariamente alla tradizione che addossa ai "non-ebrei" le responsabilità delle nostre tragedie la Torah viene ad insegnarci che siamo noi stessi a procurarci le sofferenze dell'esilio a causa della nostra cattiva condotta. "Israele è dal tuo seno che sono usciti quelli che vogliono distruggerti" tuona il profeta Geremia.
La tradizione talmudica riferisce che giammai le Nazioni del mondo potrebbero distruggere Israele se questa all'interno fosse unita. Quello che i non-ebrei fanno ad Israele non è altro che il riflesso di quello che Israele ha cominciato a fare dentro se stesso cioè ad adorare gli Dei delle altre Nazioni.
E riflettendo con attenzione sulla storia del popolo ebraico, si trova che i responsabili di questa deviazione siamo spesso noi ebrei, dalla cervice dura, che pretendiamo di essere "liberi" di fare quello che crediamo, rifiutando l'insegnamento della Torah.
In quest'ottica si possono spiegare gli sciagurati accordi di Oslo, che hanno causato ad Israele due sanguinose "intifade" in nome di una chimerica pace con i palestinesi mai raggiunta. A riguardo ecco quanto scritto: "Essi Mi fecero provare gelosia per chi non era D.o, Mi fecero adirare con le loro vane divinità e per questo I-.o li farò diventare gelosi di gente indegna di essere un popolo" (Deuteronomio 32.21). F.C.
*
- Mosè sta per lasciare questo mondo e si preoccupa di portare a termine il compito affidatogli da Dio. Parla al popolo e a Giosuè, riuniti davanti a lui, invitandoli a non temere, perché Dio cammina davanti a loro e "non li lascerà e non li abbandonerà" (Deuteronomio 31:8). Essi quindi entreranno nel paese e ne prenderanno possesso. Fin qui non c'è alcun dubbio.
Poi scrive il libro della legge e lo consegna ai leviti e agli anziani d'Israele con l'ordine di leggerlo al popolo ogni sette anni, durante la festa delle capanne.
Dopo di che l'Eterno si rivolge direttamente a Mosè e gli dice di presentarsi a lui nella tenda di convegno, insieme a Giosuè. I due vanno e "l'Eterno apparve nella tenda, in una colonna di nuvola"; e "la colonna di nuvola si fermò all'ingresso della tenda", come per impedire che altri si avvicinassero.
Mosè, che aveva incoraggiato il popolo con le sue parole, in quella tenda sente parole che per lui non sono davvero incoraggianti: "Questo popolo ... si prostituirà ... e mi abbandonerà... e io li abbandonerò, nasconderò loro la mia faccia", comunica il Signore.E continua dicendo che a loro cadranno addosso tanti di quei mali che li spingeranno a chiedersi: "Questi mali non ci sono forse caduti addosso perché il nostro Dio non è in mezzo a noi?" (Deuteronomio 31:17). Ed è proprio così. Non si tratta di inadempienza di severe regole di comportamento, ma di un rapporto d'amore che si è infranto. "Il popolo mi abbandonerà... io li abbandonerò..." e la gravità della situazione è espressa da una sola frase: "il nostro Dio non è in mezzo a noi". Nell'originario patto stabilito al Sinai, il Signore aveva un meraviglioso progetto d'amore con il suo popolo: "... all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, io v'incontrerò.... E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò loro Dio" (Esodo 29:42,45).
Dopo il fattaccio del vitello d'oro, il Signore aveva deciso di rompere tutto e sterminare il popolo, ma Mosè riuscì a farlo desistere. Tuttavia, il Signore, non essendo più vincolato da un patto ormai violato, aveva deciso di non mantenere più la promessa di "dimorare in mezzo ai figli di Israele"; e così, attraverso Mosè fece sapere al popolo,: "... io non salirò in mezzo a te, perché sei un popolo di collo duro" (Esodo 33:3). Ancora una volta Mosè riuscì ad evitare che questo avvenisse e il Signore acconsentì a dimorare in mezzo al popolo nel santuario che in seguito sarebbe stato costruito.
Adesso però Mosè viene a sapere che un giorno la presenza di Dio in mezzo al popolo si interromperà. E questo si è avverato letteralmente nella storia d'Israele.
Nei capitoli 10 e 11 del libro del profeta Ezechiele si vede la "gloria dell'Eterno", quella che in seguito sarà chiamata la Shekhinah, abbandonare la "casa dell'Eterno" poco prima che il Tempio fosse distrutto dai Babilonesi. Lasciò il Tempio lentamente, in tre tappe, come se esitasse, come se fosse in attesa di un ravvedimento del popolo:
"La gloria dell'Eterno s'alzò di sui cherubini, movendo verso la soglia della casa" (Ezechiele 10:3);
"E la gloria dell'Eterno si partì di sulla soglia della casa, e si fermò sui cherubini. E i cherubini... si fermarono all'ingresso della porta orientale della casa dell'Eterno" (Ezechiele 10:18-19);
"E la gloria dell'Eterno s'innalzò di mezzo alla città, e si fermò sul monte che è ad oriente della città" (Ezechiele 11:23).
Su quel monte, che è il monte degli ulivi, secondo una tradizione rabbinica la Shekhinah rimase tre anni e mezzo, poi sparì. In ogni caso, è certo che non tornò più, neanche dopo la ricostruzione del secondo Tempio.
Il suo ritorno però è già preannunciato, sempre nel libro di Ezechiele,:
"Ed ecco, la gloria del Dio d'Israele veniva dal lato d'oriente.... E la gloria dell'Eterno entrò nella casa per la via della porta che guardava a oriente" (Ezechiele 43:2,5).
Adesso dunque a Mosè sono annunciati i guai che colpiranno il popolo perché l'Eterno cesserà di essere "in mezzo a loro". Il popolo perderà la presenza di Dio, perderà la terra, ma comunque, è vero, gli resterà la Torah. A che scopo? con quale funzione?
Mosè, che ai Leviti aveva ordinato di leggere periodicamente al popolo il libro della legge, adesso, dopo le tremende parole contro Israele udite nella tenda, aggiunge un ordine per i Leviti:
"Prendete questo libro della legge e mettetelo accanto all'arca del patto dell'Eterno, vostro Dio; e lì rimanga come testimonio contro di te" (Deuteronomio 31:26).
Ecco dunque spiegata la funzione della Torah d'emergenza dopo la rottura del patto d'amore: essere testimone contro il popolo infedele e nello stesso tempo mantenerlo legato al suo Dio fino al compimento del predisposto progetto di redenzione. E' in questo senso che si può capire la frase di Gesù: "Non pensate ch'io sia venuto per abolire la legge; io sono venuto non per abolire, ma per portare a compimento." (Matteo 5:17).
Ma non c'è solo la legge ad essere indicata come testimone. Sulla bocca di Mosè il Signore mette un cantico, riportato nel capitolo successivo, accompagnandolo con una istruzione:
"Scrivetevi dunque questo cantico, e insegnatelo ai figli d'Israele; mettetelo loro in bocca, affinché questo cantico mi serva di testimonio contro i figli d'Israele" (Deuteronomio 31:19).
E dopo tutte queste cose, alla fine della cerimonia di commiato, in un crescendo di indignazione Mosè chiama a testimoni anche il cielo e la terra, e conclude così quello che in altri ambienti sarebbe stato un solenne discorso di autocelebrazione del popolo che si appresta a compiere una gloriosa azione di conquista:
"Radunate presso di me tutti gli anziani delle vostre tribù e i vostri ufficiali; io farò loro udire queste parole, e prenderò a testimoni contro di loro il cielo e la terra. Poiché io so che dopo la mia morte voi certamente vi corromperete e lascerete la via che vi ho prescritta; e la sventura v'incoglierà nei giorni a venire, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi dell'Eterno, provocandolo a sdegno con l'opera delle vostre mani" (Deuteronomio 31:28-29).
Come si vede, dire che Israele è il popolo eletto non significa dire che è moralmente esemplare. Ma Dio lo sapeva fin dall'inizio, fin da quando decise di eleggerlo come suo popolo per i suoi scopi particolari. Qualcuno ha qualcosa da dire? Ne parli a Dio. M.C.
GERUSALEMME - L'imbarcazione Zaytouna-Oliva della Freedom Flottilla, con a bordo un equipaggio di 13 attiviste donne che intendevano superare il blocco navale imposto alla Striscia di Gaza, è arrivata ieri molto vicina alle coste dell'enclave palestinese ma è stata accostata dalla marina militare israeliana che ha interrotto le comunicazioni della barca e l'ha scortata al porto israeliano di Ashdod. All'abbordaggio hanno partecipato anche alcune soldatesse. Nei giorni scorsi fonti ufficiali israeliane avevano ribadito che a quel battello, come a qualsiasi altro, non sarebbe stato sarà consentito di raggiungere la costa di Gaza. La tensione tra la Striscia e Israele resta molto alta. Ieri un razzo lanciato dall'enclave è caduto nel centro della cittadina israeliana di Sderot, sul confine.
La Radio militare ha precisato che non ci sono state vittime nonostante il razzo sia esploso tra due condomini. Israele ha reagito facendo alzare in volo i suoi caccia, che hanno compiuto diversi raid nel nord di Gaza. Hamas ha denunciato l'«escalation israeliana» avvertendo che, se proseguirà, lancerà operazioni di ritorsione.
(Avvenire, 6 ottobre 2016)
La non totale accettazione della pace israelo-giordana dietro le proteste per l'accordo sul gas
GERUSALEMME - Le tensioni generate in Giordania in seguito alla firma di un contratto di 10 miliardi di dollari per l'acquisto di gas israeliano continuano a suscitare polemiche nel regno hashemita. Secondo quanto riporta oggi un editoriale del quotidiano israeliano "Jerusalem Post", le critiche sono sintomatiche di come la pace tra i due paesi non sia stata ancora pienamente digerita dall'opinione pubblica giordana. La Giordania, insieme all'Egitto ed alla Mauritania, sono gli unici paesi della Lega araba che riconoscono lo Stato di Israele. I sostenitori della campagna di protesta hanno annunciato per i prossimi giorni iniziative di più ampia portata.
(Agenzia Nova, 5 ottobre 2016)
Firenze - La Sinagoga aderisce alla 'Giornata delle Famiglie al Museo'
ìÈ' un'appassionante caccia al tesoro quella che andrà in scena domenica 9 ottobre, in occasione dell'edizione 2016 della Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo dedicata quest'anno ai giochi olimpici. Un momento divertente per scoprire il calendario delle feste e gli oggetti rituali del mondo ebraico in compagnia di tutta la famiglia: durante l'attività dal titolo "Misteri in Sinagoga. Piccoli investigatori al lavoro" i bambini potranno addentrarsi tra i segreti e gli spazi della Sinagoga e, attraverso piccoli lavoretti, indovinelli da risolvere e oggetti da trovare, scopriranno una cultura apparentemente così lontana da loro ma in realtà alla portata di tutti.
Sarà divertente "sfidarsi" nel riprodurre le decorazioni della Sinagoga, componendo le lettere dell'alfabeto ebraico e scovando oggetti reconditi di questo suggestivo luogo in una magica atmosfera da mille e una notte. Tempo permettendo, una parte dell'attività si svolgerà nell'accogliente giardino della Sinagoga ricco di piante e alberi simbolici della tradizione ebraica. Un dolce tesoro tutto da scoprire, a base di leccornie, aspetterà i bambini alla fine di questa divertente attività.
La Giornata Nazionale della Famiglie al Museo cui aderiscono la Sinagoga e il Museo Ebraico di Firenze rappresenta un giorno in cui poter visitare i musei in Italia in modo speciale con tutta la famiglia: il 9 ottobre prossimo, in occasione di F@Mu 2016 (Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo), su tutto il territorio nazionale musei, fondazioni ed altri luoghi espositivi si apriranno alle famiglie con visite didattiche, giochi a tema, iniziative speciali e attività pensate apposta per l'occasione.
(gonews.it, 5 ottobre 2016)
Italia 'Porta di Sion' negli anni 45-48
TEL AVIV - Tra il 1945 e il 1948, e oltre, l'Italia fu la 'Porta di Sion': dalle sue coste partirono verso la Palestina, allora sotto Mandato britannico, migliaia di ebrei sopravvissuti alla Shoah. A loro gli italiani, appena usciti dal Fascismo e dall'occupazione nazista, offrirono aiuto e collaborazione con l'obbligo morale di riscattare l'orgoglio nazionale macchiato dalle Leggi Razziali del 1938. Ora una mostra, appena aperta al Museo di 'Eretz Israel' di Tel Aviv, dal titolo 'In risposta ad un capitano italiano', ripercorre quegli anni che segnarono l'epopea della 'Aliya Bet', la seconda 'salita' verso la Terra Promessa. Curata da Rachel Bonfil con l'aiuto della ricercatrice Fiammetta Martegani, la rassegna è uno spaccato dell'epopea messa in atto per portare in maniera clandestina sull'altra sponda del Mediterraneo quanti nell'Europa erano stati discriminati, traditi e infine uccisi dalla Germania nazista e dai suoi alleati.
(ANSA, 5 ottobre 2016)
Razzo da Gaza caduto nel centro di Sderot
Nessun morto nonostante sia esploso tra due palazzine
Un razzo lanciato da Gaza e' caduto oggi nel centro della cittadina israeliana di Sderot, al confine con la Striscia. Lo ha detto la radio militare secondo cui non ci sono state vittime nonostante il razzo sia esploso tra due condomini. Poco prima nella zona erano risuonate le sirene di allarme anti missili. Quello di oggi è il primo incidente di questo tipo nel sud di Israele da quando lo scorso metà settembre un colpo di mortaio dalla Striscia cadde nella stessa zona senza provocare nè danni nè vittime. In risposta l'aviazione israeliana colpì, secondo il portavoce militare, tre "strutture del terrore di Hamas" nella parte nord di Gaza.
(ANSAmed, 5 ottobre 2016)
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Gruppo salafita palestinese rivendica il lancio di razzi su Sderot
GERUSALEMME - Un gruppo salafita presente nella Striscia di Gaza affiliato allo Stato islamico ha rivendicato il lancio di razzi che nelle ore precedenti hanno colpito la città israeliana di Sderot, nel sud del paese. L'attacco fa parte della strategia del "jihad (la guerra santa) contro gli ebrei", si apprende da un comunicato diffuso dal gruppo su internet. Il lancio di razzi in territorio israeliano sarebbe avvenuto in risposta al recente arresto di una cellula legata all'Is attiva a Gaza che stava pianificando degli attacchi contro edifici governativi a Gerusalemme, secondo quanto riferito dai servizi di sicurezza. In seguito all'episodio di oggi, i carri armati israeliani hanno colpito postazioni del movimento islamista palestinese di Hamas nel nord della Striscia di Gaza.
(Agenzia Nova, 5 ottobre 2016)
La catastrofe di Oslo
Articolo OTTIMO!!!
Lo storico Karsh sulle conseguenze di un'intesa che legittimò i terroristi palestinesi e terremotò Israele.
di Antonio Donno
Efraim Karsh
L'attuale situazione dei rapporti fra Israele e l'Autorità palestinese, le incertezze dell'odierno quadro politico israeliano, la diffusione dell'antisemitismo nel mondo occidentale e l'inesistenza di un vero processo di pace sono state causate dal tragico errore compiuto dal governo israeliano nell'accettare e poi sottoscrivere gli accordi di Oslo (nelle sue due fasi) con Arafat tra il 1993 e il 1995. E' questo il succo del quaderno n. 123 del Begin-Sadat Center for Strategie Studies della Bar-Han University, dal titolo significativo "The Oslo Disaster", scritto dal grande storico ebreo Efraim Karsh. "Facciamo la pace con i nemici", disse il primo ministro Yitzhak Rabin agli israeliani, dopo la firma degli accordi, mentre, qualche giorno prima della conclusione del negoziato, Arafat affermò in modo fin troppo chiaro: "In futuro, Israele e Palestina saranno un unico stato nel quale gli israeliani e i palestinesi vivranno insieme". Quest'affermazione fu del tutto trascurata dai negoziatori israeliani. Alcuni anni dopo, nel 2000, quando il "processo di pace" si era già rivelato privo di significato, un leader dell'Olp, Faisal Hussein, disse in un'intervista ad Al-Arabi che gli accordi di Oslo erano "un cavallo di Troia indispensabile per raggiungere il fine strategico di una Palestina dal fiume Giordano al mar Mediterraneo", "cioè - conclude Karsh - una Palestina al posto di Israele".
Il ragionamento di Karsh porta alla conclusione che Oslo fu una iattura sia per Israele sia per il popolo palestinese. I palestinesi della West Bank, prima di Oslo, avevano buoni rapporti con Israele, tramite i leader locali interessati al benessere dei propri concittadini. Ma Oslo conferì di fatto una legittimità all'Autorità palestinese che prima non aveva. Per mezzo di intimidazioni e minacce di ogni tipo, i leader dell' Ap assoggettarono la loro popolazione a un indottrinamento massiccio, incentrato sul falso slogan dell'illegittimità dello stato di Israele e rispolverando le vecchie accuse medievali contro gli ebrei. Non mancarono durissime repressioni. "Rabin - scrive Karsh - fu indotto dal ministro degli Esteri Peres (appena scomparso, ndr) e dal suo vice Yossi Beilin ad abbandonare gli abitanti della West Bank e di Gaza a un'organizzazione terroristica". Così, Oslo rappresentò un vero e proprio spartiacque: la legittimazione politica a livello internazionale e locale attribuita all'Ap fu sfruttata da Arafat per scatenare una campagna di odio contro lo stato ebraico, nell'indifferenza internazionale e nella passività del governo di Rabin. Il "processo di pace" di Oslo fu soltanto una foglia di fico per mascherare un intento ben diverso: la distruzione dello stato di Israele.
Eppure, l'appoggio dato da Arafat all'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein - invasione condannata da tutti gli stati arabi - aveva prodotto un grave isolamento dell'Ap, senza che Israele approfittasse della situazione, essendo ancora colpevolmente legato agli schemi di Oslo, che l'Ap aveva abbondantemente violato già dal momento della firma. Tutto quello che è seguito sino a oggi è la conseguenza - scrive Karsh - del fatidico errore dell'allora governo laburista d'Israele che, nei fatti, aveva riconosciuto Arafat come l'unico interlocutore nel "processo di pace". Per di più, la legittimazione dell'Ap consentì all'organizzazione palestinese di ottenere ascolto nei paesi occidentali e nelle stesse organizzazioni internazionali, benché in diverse circostanze Arafat avesse scatenato ondate di terrore e di uccisioni in Israele. Ma ormai parte dell'opinione pubblica internazionale, abilmente suggestionata dalla propaganda palestinese e preda di un rinascente antisemitismo, era sorda alle denunce dei governi israeliani. "L'Olp si era accreditata agli occhi della comunità internazionale- afferma Karsh - come il rappresentante legittimo, pacifico e democratico di un futuro stato palestinese contro l'evidenza dei fatti". Nello stesso tempo, Hamas aveva a sua volta ricevuto legittimazione da parte di Arafat di condurre azioni terroristiche contro Israele, prima che Gaza, nel 2005, cadesse nelle sue mani.
Gli accordi di Oslo, a detta di Karsh, ebbero un effetto negativo sul sistema politico di Israele. Nei 23 anni successivi a Oslo solo un governo concluse il suo mandato. La violenza palestinese, prodotta dalla legittimazione dell'Olp, sconvolse la vita degli israeliani a più riprese, soprattutto dopo il 2000, quando Arafat respinse le offerte di pace di Barak. Arafat sapeva che il terrorismo era stato "legittimato" a Oslo. E la vita politica di Israele ne subì le conseguenze, sino a oggi.
(Il Foglio, 5 ottobre 2016)
«Faisal Hussein disse in un'intervista ad Al-Arabi che gli accordi di Oslo erano 'un cavallo di Troia indispensabile per raggiungere il fine strategico di una Palestina dal fiume Giordano al mar Mediterraneo'». Fu proprio il riconoscimento di questo enorme imbroglio a far nascere "Notizie su Israele" nell'aprile del 2001, in piena seconda intifada. Abbiamo tentato, nel piccolo, di fare qualcosa per far sì che almeno qualcuno in più capisse la gravità del macroscopico inganno che si era rivelato nelle parole di Faysal Husseini. Un anno dopo, nel marzo 2002, abbiamo ripreso l'argomento nell'articolo "L'obiettivo strategico dell'OLP". Se ne può anche scaricare una copia in fomato PDF. M.C.
Saluti fascisti in Israele: Figc multata 27mila euro
II daspo (acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) all'estero non esiste, altrimenti ci sarebbero tutti gli estremi: l'Italia è stata infatti multata di 30mila franchi svizzeri (circa 27mila euro) dalla Fifa per il saluto romano di alcuni suoi tifosi durante gli inni prima di Israele-Italia, il 5 settembre allo stadio Sammi Ofer di Haifa.
Discriminazione
La Commissione Disciplinare Fifa parla di comportamento «improprio e discriminatorio» di alcuni tifosi nel settore occupato dai sostenitori italiani. Il saluto fascista era stato denunciato dal portale dell'ebraismo italiano Moked, anche con la pubblicazione di video e fotografie. La sanzione è stata disposta in base agli articoli 58 e 67 del codice di disciplina. In realtà non è la prima volta che i tifosi italiani all'estero si distinguono per questi atteggiamenti.
Tante sanzionate
L'Italia non è l'unica a essere stata sanzionata. Altre dieci federazioni sono state punite per comportamenti antisportivi o discriminatori dei tifosi nelle qualificazioni mondiali, tra le quali Albania (50mila franchi), Brasile (20mila) e Argentina (25mila). Il Cile dovrà disputare in campo neutro una partita in casa e pagare una multa di 65mila franchi per cori omofobi dei tifosi.
(La Gazzetta dello Sport, 5 ottobre 2016)
Two Seas Canal: un progetto per far vivere il Mar Morto
Prevede il pompaggio delle acque dal mar Rosso e vedrà la collaborazione di israeliani, giordani e palestinesi
di Giorgia Calò
Il Mar Morto cala ogni anno di un metro circa. Il livello scende a causa dell'estrazione dei sali minerali e della deviazione del fiume Giordano e dei suoi affluenti, da parte della Giordania e della Siria per ottenere acqua potabile, riducendo così drasticamente la quantità di acqua che confluiva nel Mar Morto.
Il Mar Morto inoltre è soggetto da diversi anni ad un doppio e opposto fenomeno: la parte a Nord si riduce ogni anno di 4 piedi, ovvero 1,2 metri, di contro, quella a sud esonda di frequente, minacciando le strutture alberghiere nelle immediate vicinanze.
Per salvare una delle maggiori attrattive che ogni anno richiama turisti da tutto il mondo, nel dicembre 2015, la Giordania e Israele hanno firmato una convenzione per la realizzazione di un progetto - sponsorizzato dalla Banca Mondiale di Washington - che prevede la costruzione di un impianto di dissalazione nel Golfo di Aqaba e un acquedotto che colleghi il Mar Rosso con il Mar Morto, chiamato Two Seas Carrai. L'impianto avrà una capacità annuale tra 65 e 85 milioni metri cubi d'acqua che saranno trasformati in acqua potabile, che sarà poi suddivisa tra Giordania, Israele e i territori palestinesi. L'acqua residua non dissalata sarà condotta e scaricata nel Mar Morto per impedire che si prosciughi del tutto.
Il tracciato dei canali e acquedotti che dovranno portare acqua dal Mar Rosso al Mar Morto sarà lungo 180 km e largo fino a 60m. Oltre ai due impianti di dissalazione, il progetto prevede anche una centrale idroelettrica e un impianto di miscelazione. L'acquedotto sarà costruito esclusivamente su territorio giordano. Ultimati i lavori del primo stralcio, verso il 2024 si prevede che passeranno annualmente 300 milioni di metri cubi d'acqua dal Mar Rosso al Mar Morto.
Oltre all'ingente costo del progetto (stimato sui 400 milioni di dollari), il problema principale, sollevato dalle associazioni ambientaliste come Friends of the Earth Middle East, riguarderà il mescolamento tra i due mari: non si sa infatti come le acque del Mar Rosso si integreranno con il particolare ecosistema del Mar Morto posto a 400 metri sotto il livello del mare e caratterizzato dall'accumulo di sali.
Esistono poi altri aspetti ambientali che preoccupano, come l'alta sismicità dell'area: in caso di un terremoto, le condutture si potrebbero rompere e versare le salamoie all'interno dei depositi alluvionali attraversati, quali ad esempio quelli della valle di Wadi, alterando in modo quasi irrimediabile la composizione delle falde; alcuni critici inoltre sostengono che il pompaggio spinto nel Mar Rosso, potrebbe andare a intaccare anche i delicati equilibri della barriera corallina.
Nonostante i numerosi dubbi, il ministro israeliano dell'Energia Silvan Shalom, il capo della Water Authority palestinese Shaddad Attil e Hazim el-Naser capo del Ministero dell'acqua del Giordano sono ottimisti riguardo al progetto e hanno siglato un accordo riguardante la fornitura d'acqua potabile nei tre paesi. In totale infatti, il pompaggio annuale prevede volumi per 175 milioni: oltre ai 100 impegnati nel Mar Morto, i restanti 75 milioni di metri cubi, saranno desalinizzati presso Aqaba (punta settentrionale del Mar Rosso): circa il 50% di queste acque saranno convogliate verso Israele, mentre le altre viaggeranno fino ad Amman, in Giordania. In cambio Israele si impegnerà ad aumentare il rilascio di acqua dal lago Kinneret, da cui vengono già pompati 50 milioni di metri cubi annuali alla Giordania.
(Shalom, settembre 2016)
Prima visita della Corte penale Aja in Israele e Cisgiordania
Ma per ora solo come attività di sensibilizzazione
Prima visita di una delegazione della Corte Penale Internazionale dell'Aja in Israele e in Cisgiordania. Secondo la Corte - che ha dato notizia della missione sul suo sito internet - la visita è legata alle indagini in corso sulle accuse di presunti crimini di guerra durante la guerra con Gaza del 2014. Scopo del viaggio - ha spiegato Fatou Bensouda procuratore capo della Corte - è però quello di "svolgere attività di sensibilizzazione e di educazione al fine di aumentare la consapevolezza circa la Corte e, in particolare, il lavoro dell'Ufficio. E anche per affrontare eventuali idee sbagliate circa la Corte stessa". In questa occasione, dunque la Corte - che ha ringraziato sia il governo israeliano sia quello palestinese per l'aiuto dato all'organizzazione - non "si impegnerà nella raccolta delle prove in relazione ad eventuali presunti crimini, nè effettuerà visite sui luoghi, nè l'adeguatezza dei rispettivi sistemi giuridici nell'occuparsi dei reati che rientrano nella giurisdizione della Corte stessa".
(ANSAmed, 5 ottobre 2016)
Scoprendo Tel Aviv: spiagge, relax e hot spot per una vacanza ideale
Per il poeta persiano Omar Khayyam, la vita è un viaggio e chi viaggia vive due volte.
Sono sicuramente cambiati i tempi, rispetto a quando Omar Khayyam scriveva i suoi testi filosofici e le sue poesie. Quello che però non è cambiato è il desiderio dell'uomo di fare nuove scoperte, di conoscere luoghi diversi da quelli abituali e di lasciarsi alle spalle bollette, vita quotidiana, stress e tutte quelle problematiche con cui è costretto a confrontarsi durante l'anno lavorativo. Per chi ha desiderio di conoscere posti nuovi, consigliamo una vacanza alternativa, ma al contempo completa e confortevole in Israele. Per i viaggiatori più esperti la meta del Mediterraneo è diventato un vero luogo di culto, per via dei suoi molteplici aspetti che la rendono al contempo caratteristica e ospitale. Si tratta di un vero angolo dove riordinare le idee e godersi alcuni luoghi davvero suggestivi. Dalle spiagge di Tel Aviv passando per l'importanza storico-museale di Gerusalemme, senza dimenticare altri posti da visitare come Haifa, Giaffa o Nazareth.
Il nostro viaggio ideale parte però da quella che è diventata la città simbolo, in chiave di turismo e di accoglienza per lo stato di Israele: Tel Aviv. Capace di accogliere e di ospitare una vasta gamma di turisti, dai più esigenti a quelli più casuali ed occasionali, la Miami del Medio Oriente, con le sue spiagge e i ristoranti, club esclusivi dove sentire i migliori dj set del Mediterraneo, è stata eletta come una delle mete più ambite del 2015. Non è di sicuro casuale il fatto che secondo Lonely Planet, Tel Aviv è tra le prime dieci città meglio attrezzate al mondo e quindi da visitare in ambito turistico. Un fatto davvero sorprendente se si pensa che posti come Città del Capo, Rio de Janeiro, Barcellona o la stessa Miami, sono luoghi turistici piuttosto blasonati e conosciuti al grande pubblico. Malgrado questo aspetto e con una concorrenza sempre più agguerrita, Tel Aviv ha saputo credere nelle sue potenzialità e ha dato una certa credibilità a quelli che sono considerati gli hot spot della città mediterranea. Da un lato quindi la capacità di richiamare quel segmento di turisti più attenti e dall'altro il fattore novità e sorpresa che sta dando ottimi risultati anche sotto un profilo dei grandi numeri. Così se la cucina è considerata tra le più equilibrate e sane, e le spiagge sono attrezzate e accoglienti, i voli per Tel Aviv anche in bassa stagione sono sempre più richiesti e gettonati. Il fatto di essere poi in autunno rende l'esperienza del viaggio ancora più gradevole. Le temperature sono mediamente ancora alte, ma la presenza dei turisti è ridotta, e questo rende la permanenza ancora più gradevole, per quel tipo di viaggiatore esigente e in cerca di relax. Per quanto riguarda il pernottamento sono disponibili diversi pacchetti di soggiorno, sia per comitive, sia per coppie. Da questo punto di vista viaggiare in bassa stagione offre delle possibilità di scelta che in un altro periodo dell'anno sarebbero impensabili. Al di là di questi aspetti, meramente organizzativi, conoscere e scoprire una città in espansione come Tel Aviv è probabilmente quello di cui avete bisogno in questo particolare momento. Come diceva lo scrittore statunitense Jack Kerouac, le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita. In determinati momenti della nostra vita abbiamo bisogno di staccare la spina, e la cosa migliore è scegliere un posto che è nelle nostre corde, un po' diverso dalla solita meta che ci renderebbe nostalgici e un po' tristi. Per questo motivo viaggiare in Israele potrebbe essere un modo per ricaricare le pile e affrontare al meglio l'arrivo di un nuovo inverno.
(Turismo Magazine, 5 ottobre 2016)
Centrosinistra verso il governo con Netanyahu
A buon punto i contatti, otto ministeri in cambio compreso gli Esteri
Potrebbe presto cambiare la composizione politica di destra del governo del premier Benyamin Netanyahu. Secondo indiscrezioni dei media israeliani, l'opposizione di centro sinistra, guidata dal laburista Isaac Herzog, si appresta ad entrare nell'esecutivo che diventerebbe così un governo di Unità Nazionale. Sembrano infatti a buon punto i contatti che da mesi si dice siano in corso tra le parti per una nuova maggioranza istituzionale più forte sia come numeri sia come impatto politico. In cambio dell'ingresso al governo, l''Unione Sionista' - formata dai laburisti di Herzog e dal partito 'Hatnua' di Tizpi Livni - otterrebbe otto ministeri, compreso quello strategico degli esteri, ora retto ad interim da Netanyahu. Un cambio di prospettiva che - secondo fonti del Likud citate da Haaretz, anche se Herzog ha negato la possibile intesa - si basa sulla necessità di Netanyahu di fronteggiare l'intenzione palestinese di ottenere una Risoluzione all'Onu sul conflitto a novembre prossimo, dopo le elezioni Usa ma prima che il presidente Barach Obama lasci la Casa Bianca.
(ANSAmed. 4 ottobre 2016)
L'Autorità Palestinese annuncia ufficialmente il rinvio delle elezioni amministrative
RAMALLAH - Il governo dell'Autorità palestinese, riunito oggi nella zona di Hebron, ha deciso ufficialmente di rinviare di 4 mesi le elezioni amministrative, in programma in un primo momento nel mese di agosto. Secondo quanto riportano i media palestinesi, la decisione di oggi è stata presa alla luce della sentenza emessa ieri dall'Alta Corte di Ramallah che ha stabilito il rinvio delle elezioni che si terranno solo in Cisgiordania e non a Gaza. La Commissione elettorale palestinese aveva chiesto di tenere le elezioni solo in Cisgiordania non riconoscendo come legittime le istituzioni che governano Gaza, posizione che ha provocato l'ira di Hamas la quale si è riservata di consultarsi con le altre fazioni per assumere una posizione comune in merito e che accusa l'Anp di legittimare la divisione tra la Cisgiordania e la Striscia palestinese.
(Agenzia Nova, 4 ottobre 2016)
Il 6 ottobre a Milano il ritorno in Italia di Ehud Ettun Trio
Presso la Sala del Conservatorio il gruppo musicale israeliano sara' per la prima volta a Milano con un concerto gratuito.
Ehud Ettun Trio
Giovedì 6 ottobre torna in Italia il gruppo musicale israeliano Ehud Ettun Trio, che si esibirà per la prima volta a Milano presso il Conservatorio offrendo un concerto gratuito con un programma dedicato alla musica jazz questa volta contaminata da sonorità tipicamente ebraiche.
Tutti e tre i componenti del gruppo sono giovani talenti nel vasto panorama del jazz internazionale a partire da Ehud Ettun, al contrabbasso per proseguire con Daniel Schwarzwald, pianista e Nathan Blankett, batterista. Hanno una formazione simile in quanto nati e cresciuti in Israele. Si sono conosciuti frequentando i concerti per poi decidere di suonare insieme. La loro musica ha assunto sempre di più i connotati di un jazz fluido, contaminato dalle esperienze, dai viaggi e dalle persone che si incontrano sul proprio cammino.
L'appuntamento milanese giunge al termine di un tour di concerti in tutto il mondo che si è concluso al Seul Jazz Festival, ed è dovuto alla sponsorizzazione dell'Ambasciata Israeliana e all'Associazione Italia Israele di Milano. Dopo aver suonato il pubblico milanese faranno poi tappa a Roma per un concerto previsto presso il rinomato Alexanderplatz Jazz Club nei giorni 7 e 8 ottobre.
In occasione della loro tournée in India Ehud Ettun intervistato da "Hindu" ha detto: "Continueremo a essere creativi, a registrare musica e a suonare. E continueremo ad avere l'idea che la curiosità e la diversità rende il mondo un posto migliore. Speriamo di fare qualcosa di sociale grazie alla nostra curiosità. Il mondo diventa più stimolante accettando le diversità. La musica può essere un modo di unire le persone quando tutto il resto fallisce".
(La Voce, 4 ottobre 2016)
L'Islam è un pericolo: vogliono sottometterci con le armi e con i figli"
Il prelato: "Quando saranno maggioranza imporre la sharia al mondo sarà un obbligo"
di Fausto Biloslavo
TRIESTE - L'Islam che vuole conquistare il mondo, le bandiere nere che puntano su Roma, l'immigrazione che sovverte la maggioranza, i cristiani sotto tiro pure in Occidente, nessuna alternativa alla famiglia tradizionale e Vladimir Putin «convertito» sono solo alcune risposte forti del cardinale Raymond Leo Burke nell'intervista esclusiva a il Giornale.
Patrono del Sovrano Militare Ordine di Malta e membro della Congregazione delle cause dei santi, il porporato del Wisconsin, classe 1948, è lo stendardo della chiesa tradizionale. Non pronuncia mai una parola contro Papa Francesco, ma durante tutta l'intervista naviga fuori dal coro del politicamente corretto a cominciare dalla difesa a spada tratta della famiglia classica.
- Nel 2016 i cristiani sono ancora perseguitati? «In certe parti del mondo sono perseguitati e anche espulsi dalle loro terre. E accade in paesi storicamente importanti dal punto di vista religioso come l'Iraq, dove arrivò Abramo, terra dei caldei. Ma anche nei paesi del primo mondo, per esempio nel mio paese (gli Stati Uniti, nda), c'è il tentativo di negare ai cristiani il diritto di seguire la propria coscienza. E di resistere all'aborto, alla sterilizzazione o altre prassi mediche che procurano la morte (eutanasia, nda). I problemi per i cristiani non riguardano solo il Medio Oriente, ma anche l'Occidente».
- La stessa Unione europea, in nome del politicamente corretto, spesso chiude gli occhi sulle minacce ai cristiani. Cosa ne pensa?
«É chiaro che i musulmani hanno come obiettivo finale conquistare il potere sul mondo. L'Islam attraverso la sharia, la loro legge, deve governare il mondo e permette atti di violenza contro gli infedeli, come i cristiani. Ma noi stentiamo a riconoscere questa realtà e a reagire difendendo la fede cristiana».
- Lei sostiene che chiudiamo gli occhi?
«Sì e penso che le ragioni siano molte. In tanti non capiscono cos'è veramente l'Islam. E creano questi slogan, che crediamo tutti nello stesso Dio, che siamo tutti quanti uniti dall'amore e così via. Non è vero. Un'altra ragione è che i cristiani hanno molto trascurato una verità fondamentale: c'è un solo salvatore del mondo, Gesù Cristo. Non dobbiamo fare proselitismo imponendo la cristianità, ma se crediamo in Gesù è nostro dovere darne testimonianza. Penso che questa testimonianza non sia più molto forte anche nei paesi che un tempo venivano chiamati cristiani, come le nazioni europee».
- Lei ha appena scritto un libro, «Hope for the world: to unite all things in Christ», che parla anche di Islam.
«L'Islam è una minaccia nel senso, che per il vero musulmano Allah deve governare il mondo. Cristo nel Vangelo disse date a Cesare quello che è di Cesare. Al contrario la religione islamica che si basa sulla legge del Corano punta a governare nel Paese dove si trovano i musulmani. Fino a quando sono minoranza non possono insistere, ma quando diventano maggioranza devono applicare la sharia. Oggi ci sono enclave, interi quartieri, in Europa dove vige di fatto il regime musulmano».
- Si riferisce a Molenbeek, le banlieue, quartieri in Inghilterra e paesi del Nord, villaggi in Bosnia. Rappresentano dei tentativi di integrazione falliti?
«É un fallimento perché si tratta di uno Stato dentro uno Stato. Il problema è che i musulmani puntano all'espansione. Tutta la storia della presenza islamica in Europa è un tentativo di conquistarla. Abbiamo appena celebrato l'8 settembre la vittoria dei cavalieri di Malta dopo tre mesi di assedio dei musulmani nel 1565. Malta sarebbe stato il trampolino di lancio verso l'Europa».
- Sui muri di Sirte, ex roccaforte delle bandiere nere in Libia, c'erano tante scritte dello Stato islamico sulla conquista di Roma.
«É un pericolo reale. L'Islam si realizza nella conquista. E qual è la conquista più importante nei confronti dei cristiani? Roma».
- In Siria e Iraq i cristiani rischiano di scomparire?
«Certo. Esiste un piano per sradicarli. I paesi cosiddetti cristiani insistono sull'eguale diritto per tutte le religioni, ma in determinate nazioni musulmane non si può neppure costruire una chiesa o professare il proprio credo in pubblico».
- Contro lo Stato islamico bisogna intervenire militarmente?
«Bisogna fermarlo con i giusti mezzi a nostra disposizione trattandosi di criminali della peggior specie».
- Il nostro giornale ha lanciato una campagna con il sostegno dei lettori per raccontare la tragedia attuale dei cristiani. Che ne pensa?
«Apprezzo quello che il Giornale sta facendo per rendere nota la persecuzione dei cristiani. Il vero servizio dei media non è ripetere le cose che piacciono alla maggioranza, ma rincorrere la verità dei fatti. Negli Stati Uniti, ma non solo, la gente non sente mai una voce diversa, fuori dal coro».
- L'immigrazione è una risorsa o un pericolo?
«Ho sentito diverse volte degli islamici che spiegavano: Quello che non siamo riusciti a fare con le armi in passato lo stiamo facendo oggi con la natalità e l'immigrazione. La popolazione sta cambiando. Se va avanti così, in paesi come l'Italia, la maggioranza sarà musulmana».
- Se così fosse siamo noi troppo deboli?
«Tutto questo accade per la corruzione dell'Occidente. Non ci sono più famiglie sufficientemente numerose. In maniera supina accettiamo prassi che sono contrarie alla legge naturale come l'aborto o il cosiddetto matrimonio fra persone dello stesso sesso. É la dimostrazione che non siamo più forti nelle fede. Ed una facile preda per la conquista».
- Lei è americano. Vladimir Putin, il presidente russo, ex ufficiale del Kgb, è una minaccia o l'ultimo difensore di valori tradizionali?
«Sono molto soddisfatto della sua difesa della vita e della famiglia, come Dio ha creato dall'inizio con un uomo e una donna. Non possiamo negare ad un persona come Putin la conversione. É possibile che oggi abbia capito quello che non capiva 30 anni fa (ai tempi del Kgb, nda)».
(il Giornale, 4 ottobre 2016)
Calcio - Qualificazioni Mondiali, Macedonia-Israele
Giovedì 6 ottobre si giocano i match di qualificazione ai prossimi Mondiali e alle ore 20.45 nel girone G si gioca Macedonia-Israele, match tra formazioni che cercano riscatto. Macedonia sconfitta 2-1 in Albania all'esordio; Israele che nonostante una buona prestazione ha dovuto cedere il passo all'Italia. Per entrambe sembra comunque in salita la strada verso Russia 2018 considerando che nel girone oltre agli Azzurri ci sono la Spagna e l'Albania con il Liechtenstein destinato probabilmente all'ultimo posto. Tra i convocati della Macedonia c'è ancora Pandev, ma anche il Cobra Nestorovski del Palermo che sta vivendo un momento magico con la maglia rosanero dopo lo scetticismo delle primissime giornate. Tre infine i precedenti tra le due nazionali, tutti vinti da Israele: 3-2 nel 2002, 2-1 e 1-0 nel 2007.
(La Quota vincence, 4 ottobre 2016)
Scienziati da Israele, Iran e Pakistan sviluppano un acceleratore di particelle
Scienziati israeliani parteciperanno insieme ai colleghi provenienti da Pakistan, Iran, Egitto e Giordania ad un progetto di 100 milioni di dollari per sviluppare il nuovo acceleratore di particelle del Medio Oriente, chiamato Sincrotrone-Light o SESAME.
La costruzione del sito, che dovrebbe essere inaugurato ufficialmente la prossima primavera nella città collinare di al-Balqa, a nord ovest di Amman, è in corso, ed i primi esperimenti dovrebbero aver luogo in autunno.
I membri di SESAME sono Iran, Pakistan, Israele, Turchia, Cipro, Egitto, l'Autorità palestinese, Giordania e Bahrain - un gruppo tra i quali il disagio diplomatico è diffuso: l'Iran e il Pakistan non riconoscono Israele, ad esempio, né la Turchia riconosce Cipro.
Si tratta comunque di un ambizioso progetto di cooperazione che sta funzionando molto bene.
Queste le parole di Giorgio Paolucci, direttore scientifico di SESAME:
Stiamo cooperando molto bene insieme. Questo è il sogno.
Lo scopo di SESAME è quello di "promuovere l'eccellenza scientifica e tecnologica in Medio Oriente e nei paesi vicini" e prevenire o invertire la fuga dei cervelli regionali. Questo progetto si può raggiungere solo consentendo la ricerca scientifica a livello mondiale, toccando temi come biologia, archeologia e scienze mediche, fisica, chimica e molto altro.
(SiliconWadi, 4 ottobre 2016)
Autorità israeliane annunciano l'arresto di sei palestinesi per affiliazione allo Stato islamico
GERUSALEMME - Sei palestinesi di Gerusalemme Est sono stati incriminati dalle autorità israeliane per adesione e sostegno allo Stato islamico. Lo hanno riferito funzionari della sicurezza israeliana, secondo cui gli arrestati, operativi nelle vicinanze del campo profughi di Shuafat, avrebbero potuto compiere attacchi terroristici in tutto il paese. Gli agenti dello Shin Bet e della sicurezza hanno scoperto questa cellula affiliata allo Stato islamico circa un mese fa. L'accusa sostiene che quattro dei sei arrestati pianificavano attacchi con una particolare enfasi su Gerusalemme. Secondo gli inquirenti, gli attacchi avrebbero potuto essere condotti con bombe, sparatorie, accoltellamenti, e rapimenti. Quattro degli arrestati avrebbero, inoltre, cercato di prendere parte ai combattenti dello Stato islamico nel Sinai settentrionale ed in Siria. L'arresto risale alla metà di agosto, ma è stato rivelato soltanto in seguito alla registrazione presso la Corte distrettuale di Gerusalemme dell'atto. Il capo della cellula è Ahmad Shwiki, di 29 anni, che a partire dal 2015 ha indottrinato Muhammad Handiyeh (27 anni), Amer Albana'a (32 anni), Muhammad Hammid, (32 anni) e Saad Armin (23 anni).
(Agenzia Nova, 3 ottobre 2016)
L'Esercito israeliano si addestra alla distruzione dei tunnel
Le forze di difesa israeliane hanno effettuato i primi addestramenti nella base di Nahal, nella zona meridionale d'Israele, allestita per formare i militari al combattimento nei claustrofobici tunnel sotterranei scavati da Hamas. Lo riferisce "Haaretz". A questo particolare regime di addestramento in un ambiente buio, claustrofobico e povero di ossigeno, frutto delle lezioni apprese durante l'operazione Protective Edge su Gaza, dovranno sottoporsi a turno tutti i militari dell'esercito israeliano. Le unità regolari di fanteria affronteranno un'esperienza limitata ,e si concentreranno soprattutto nell'individuazione e conquista delle parti terminali dei tunnel. Le unità speciali, invece, si addestreranno a combattere all'interno delle gallerie, anche se l'esercito cercherà per quanto possibile di evitare questo scenario in un vero e proprio conflitto. Il capo del comando dell'esercito del sud, il maggiore Eyal Zamir, ha inaugurato al struttura, costata circa 1 milione di shekel (266 mila dollari), soltanto la scorsa settimana. Il Capo di stato maggiore delle Forze di difesa, il tenente generale Gadi Eisenkot, ha dichiarato che la distruzione dei tunnel impiegati da Hamas per infiltrare i propri combattenti in territorio israeliano è la priorità delle Forze di difesa per il 2016. L'esercito ha finora annunciato il rilevamento di due gallerie al di sotto del territorio israeliano. Dopo averne scoperto una nel mese di aprile, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha annunciato che Tel Aviv aveva trovato una soluzione al problema. Tuttavia, dei 2,7 miliardi di Shekel promessi a sostegno di questa missione, solo una piccola parte ì stata sinora concretamente stanziata, e la politica resta divisa in merito alle misure da opporre alla minaccia.
(Agenzia Nova, 3 ottobre 2016)
Le elezioni in Palestina si faranno solo in Cisgiordania
L'ha deciso oggi la Corte Suprema palestinese, che le ha anche rinviate ufficialmente (erano previste per l'8 ottobre in tutto il paese).
La Corte Suprema palestinese ha deciso che le prossime elezioni amministrative si terranno solamente in Cisgiordania, e non nella Striscia di Gaza. Le elezioni erano previste originariamente per l'8 ottobre in tutta la Palestina, ed erano state sospese a inizio settembre: oggi sono anche state ufficialmente rinviate, anche se ancora non è stata scelta una data. Secondo una fonte palestinese di Haaretz, è probabile che si terranno a novembre.
Le elezioni erano molto attese per vari motivi: principalmente perché in Palestina il Parlamento non viene rinnovato da 10 anni, e le amministrative erano considerate una prova generale in vista delle "vere" elezioni, promesse da anni dal governo palestinese. In settembre, motivando la sospensione, la Corte Suprema aveva spiegato che i tribunali della Striscia di Gaza - controllata dal 2006 da Hamas, il principale gruppo politico-terrorista palestinese - avevano escluso delle liste elettorali di Fatah, il partito che teoricamente "governa" su tutta la Palestina ma in pratica solo in Cisgiordania, nonostante non avessero l'autorità per farlo. Praticamente tutti gli osservatori concordano che la sospensione è l'ultima conseguenza di uno scontro politico fra Fatah e Hamas, che da anni hanno rapporti molto freddi se non ostili.
In settembre Hamas aveva descritto come "politica" la scelta della Corte Suprema - che ha sede a Ramallah, la stessa città dove risiede il governo palestinese - di sospendere le elezioni, spiegando che Fatah temeva una vittoria di Hamas sia nella Striscia di Gaza sia in Cisgiordania. Motivando la sua decisione di non tenere le elezioni amministrative nella Striscia, la Corte ha in qualche modo confermato i sospetti di Hamas, spiegando che ha deciso di «implementare la decisione del governo palestinese di tenere le elezioni in tutte le circoscrizioni tranne che nella Striscia di Gaza».
(il Post, 3 ottobre 2016)
Dalla risposta alla responsabilità
di Rav Alberto Moshe Somekh
C'è una sorprendente analogia linguistica fra Yom Kippur e Pessach. Per entrambe le feste la Torah adopera la stessa radice 'anah che significa "essere affiitti". La Matzah è chiamata lechem 'oni, lachmà 'anyà in aramaico, ovvero "pane dell'afflizione". Anche a proposito del digiuno di Yom Kippur cinque volte la Torah scrive we'innitem et nafshoteykhem, "affiiggerete le vostre anime". Sappiamo peraltro che questo verbo ha anche un altro significato: rispondere. E parlando del lechem 'oni i nostri Maestri dicevano che la Matzah è un pane she'onim 'alaw devarim harbeh, "sul quale si danno molte risposte". Se applichiamo lo stesso gioco di significati a Yom Kippur, l'ingiunzione del digiuno assumerebbe un sapore tutto particolare. Con un minimo di ardimento grammaticale potremmo reinterpretarla: "mettete le vostre anime in condizione di rispondere"!
Di chi? Di se stesse, naturalmente. Ad onta di chi pensa che l'Ebraismo sia una cultura di sole domande, in cui ci si limita ad interrogarci e poi ciascuno è libero di regolarsi come più gli pare e piace, non è così. Le domande sono sempre finalizzate ad una risposta, le discussioni talmudiche sono sempre indirizzate alla ricerca di una soluzione e la risposta/soluzione si chiama assumersi la propria responsabilità. Potremmo concludere affermando che a Yom Kippur la persona è chiamata a rispondere di se stesso in quanto individuo, l'individuo ricreato dal Giudizio Divino, nella misura in cui a Pesach ciascuno di noi è chiamato a farlo in quanto membro di una collettività, il popolo ebraico uscito dalla schiavitù. Le due feste, ricorrendo a circa sei mesi l'una dall'altra, costituiscono perciò un monito forte e costante in tal senso. Ma la realtà è a ben vedere ancora più affascinante. La Parashah di Yom Kippur contiene un contrappunto. "Non farete come si fa nella Terra d'Egitto, né farete come si usa nella terra di Canaan verso la quale Io vi sto conducendo" (Wayqrà 18,3). La Torah nomina qui due realtà statali dell'antichità come altrettanti esempi negativi. Spiegano i Maestri che l'Egitto era il simbolo dell'idolatria, mentre la terra abitata dai
Cananei rappresentava i facili costumi. Argomenta lo Sfat Emet di Gur che nel primo caso il popolo ebraico prese le distanze in modo risoluto. Appena usciti dall'Egitto giunsero al monte Sinai e lì waya'anù, "risposero". Che cosa? Na'asseh we-nishmà', "faremo e ascolteremo". Si assunsero in toto la responsabilità di accettare la Torah il cui scopo, dice il Maimonide, è precisamente quello di sradicare l'idolatria dal mondo. La Torah che prescrive, fra tante altre cose, di non ritornare mai più in Egitto. E per il merito di questa accettazione la Torah è rimasta possesso perpetuo del popolo d'Israele. Ad onta di tanti tentativi in contrario, nessuno è mai riuscito a portarcela via. Diverso il caso di Canaan e di ciò che simboleggia. Già nel deserto i Figli d'Israele espressero dubbi in proposito. E quando giunsero a quella terra dopo quarant'anni di peregrinazioni e la conquistarono sotto la guida di Yehoshua', alla morte di questi si rifiutarono di affrontare la cultura cananea con la stessa fermezza e determinazione che avevano manifestato nei confronti di quella egiziana. Il primo capitolo dei Giudici testimonia i compromessi, politici e morali, che segnarono quell'epoca decisiva: "ciascuno faceva ciò che gli pareva giusto ai suoi occhi" (17,6). Per questo motivo la Terra non ci fu garantita per sempre con la stessa decisione con cui ci fu data la Torah. Ancora oggi soffriamo di questo problema, che infiniti addusse lutti agli Ebrei. E' mancato, sotto questo aspetto, il waya'anù, Non c'è stata la risposta, in quanto assunzione di responsabilità piena da parte nostra. Alla Haggadah di Pessach resta ancora da commentare un'ultima parte, quella corrispondente al versetto: "... e ci ha condotto in questo luogo, dandoci questa terra che stilla latte e miele" (Devarim 26,9). Il verbo "rispondere", all'inizio di questo brano (v.5), è e rimane al futuro: we-'anìta. Alla stregua di un desiderio tuttora da realizzare.
Ma torniamo a Yom Kippur. Che risposta sono chiamate a dare oggi le nostre anime? Manifestandoci gli esempi negativi degli Egiziani e dei Cananei, la Parashah ci invita a prendere le distanze da ogni atteggiamento frivolo e superficiale, di cui quelle società consumiste e materialiste sono il simbolo, ieri come oggi. Qualsiasi iniziativa, anche quella che non è oggetto di alcuna specifica prescrizione, deve essere portata avanti con spirito ebraico e non "come si fa nella terra d'Egitto". Il modo migliore per conseguire tale scopo, per quanto laico e profano possa essere, consiste nel legarlo ad una Mitzwah: "che tutte le tue azioni siano in Nome del Cielo".
"Conosci D. in tutte le tue vie, ed egli raddrizzerà le tue strade" (Mishlè 3,6). Per metterci seriamente in questo ordine di idee occorre in via preliminare un profondo tiqqun ha-middot, "perfezionamento del carattere". I nostri Maestri affermano che derekh eretz qademah leTorah, "il perfezionamento morale è un prerequisito persino per lo studio della Torah". Lo Sfat Emet identifica i principali difetti che siamo chiamati a correggere con quelli contenuti nell'affermazione dei Pirqè Avòt: "la gelosia, il desiderio materiale e la ricerca di onori escludono l'uomo dal mondo" (4,21). Un voto importante e impegnativo cui non possiamo sottrarci per l'anno entrante. E, così speriamo, per tanti anni ancora.
(Pagine Ebraiche, ottobre 2016)
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La Torah è un rimedio allidolatria?
di Marcello Cicchese
Gli articoli di Rav Somekh sono forse la parte più valida della rivista Pagine Ebraiche. Si respira in essi uno spirito che affonda le sue radici nella tradizione scritta e non scritta del popolo ebraico. E questo li rende interessanti, anche perché i riferimenti alla Scrittura permettono un confronto con coloro che ebrei non sono, ma come credenti in Gesù sono attenti a quello che sta scritto nel cosiddetto Antico Testamento perché lo considerano autorevole Parola di Dio. Ed è indubbio che da certi riferimenti al significato linguistico e alla collocazione di certe espressioni non potrebbe che venirne un utile anche ai cristiani. Interessante, per esempio, è la distinzione di valore tra Yom Kippur e Pessach, il primo pensato come atto di contrizione personale, il secondo come gioiosa esperienza collettiva.
Naturalmente nascono anche perplessità e domande in chi ha soltanto la tradizione scritta, e non avverte questo come una lacuna, anche perché, pur non essendo parte di quella tradizione, si sente tuttavia legato al popolo di quella tradizione perché crede nel Messia promesso a quel popolo per la salvezza di tutto il mondo, e riconosce con gioia e gratitudine di essere parte del popolo dei salvati.
Rav Somekh sostiene che agli ebrei potrà essere tolta la terra per il loro adeguarsi ai costumi libertini dei Cananei, che appunto da quella terra furono cacciati, ma a loro non potrà essere tolta la Torah, perché essa è la garanzia di un non ritorno allidolatria, simboleggiata dalla Terra dEgitto, a cui per volontà di Dio non sarebbero più ritornati. La Torah resta possesso perpetuo del popolo dIsraele perché dopo la lettura del libro del patto il popolo ha risposto: Noi faremo e ubbidiremo (Esodo 24:8). Questo possesso, che da nessuno potrebbe essere sottratto, garantirebbe al popolo il non ritorno nellidolatria dellEgitto e gli assicurerebbe il compito, affidatogli dal Signore, di sradicare lidolatria dal mondo attraverso la Torah.
Ora, è vero che il popolo ha detto: Noi faremo e ubbidiremo, ma poco dopo si è visto che in realtà il popolo non ha né fatto, né ubbidito. Che cosa si ricorderà allora di ciò che sta allinizio di una storia che arriva fino ai nostri giorni? la loro promessa o la loro disubbidienza?
Lepisodio del vitello doro non è un incidente come tanti altri nella storia di un popolo di collo duro, ma il crollo totale di un programma. Un crollo espresso in modo solenne e giuridico dalla rottura delle due prime tavole della legge. La Torah che si formerà dopo è determinata da questa prima, originaria ribellione del popolo a Dio.
Si sottovaluta molto, anche in campo cristiano, la gravità dellepisodio del vitello doro. Nessun altro popolo di quel tempo ha commesso un atto di idolatria così grave come quello di Israele; nè poteva, proprio perché non era il popolo scelto da Dio.
Ai piedi del Sinai, il popolo stanco daspettare chiede ad Aaronne di fargli un dio che ci vada innanzi. Niente di strano: tutti i popoli si facevano qualche dio, era assolutamente impensabile non averne qualcuno. Gli ebrei ne hanno chiesto uno solo, e in questo sono stati originali; se vogliono vantarsi di aver inventato il monoteismo, qui hanno un argomento. Dopo aver cesellato il modello fatto con oro preso in Egitto, ne hanno fatto un bel vitello di getto. Dopo di che hanno detto qualcosa che solo il popolo eletto poteva dire: O Israele, questo è il tuo dio che ti ha tratto dal paese dEgitto! (Esodo32:1). Dunque, con le loro mani non hanno fabbricato un dio qualsiasi, hanno fabbricato in forma di idolo proprio il Dio vivente e vero che li aveva tratti dal paese dEgitto. Nessuna idolatria può essere più grave di questa. Con i loro totem gli altri popoli indicavano potenze demoniache, con il loro vitello doro gli israeliti invece hanno indicato il vero, unico Dio che ha creato il cielo e la terra. Si può dire allora che se i popoli pagani costruivano i loro idoli con riferimenti a fatti diabolici, il popolo dIsraele ha costruito il suo idolo con riferimenti a fatti divini.
Si capisce allora che il seguito della storia non è il sereno passaggio di un prezioso regalo dalle mani di un generoso e sorridente Signore nelle mani di un sussiegoso e riconoscente popolo. Lo spettacolo è terrificante: Io avevo paura a vedere lira e il furore da cui lEterno era invaso contro di voi, al punto di volervi distruggere (Deuteronomio 9:19), dice Mosè al popolo, ricordando quello che dovette patire in quei quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare pane né bere acqua, che per la seconda volta dovette passare sul monte cercando di placare lira del Signore. Alla fine ci riuscì, come sappiamo, e Dio permise che il popolo partisse verso la Terra promessa, ma da nessuna parte nellAntco Testamento si trova scritto che quelloriginario peccato sia stato perdonato. Ora va, conduci il popolo dove tho detto; ma nel giorno che verrò a punire, io li punirò del loro peccato (Esodo 32:34), dice il Signore, che non aveva smesso di essere arrabbiato.
Nel seguito la Torah ha effettivamente mantenuto il popolo, ma lha mantenuto nel continuo ricordo di una punizione che pende, insieme alla promessa di un perdono che proverrà da uniniziativa di Dio, non da una rigorosa quanto impossibile osservanza di una Torah che non contiene in sè la forza di rendere il popolo gradito a Dio.
Alla fine però il perdono arriverà. Anzi, è già arrivato.
(Notizie su Israele, 3 ottobre 2016)
Il vecchio cuore di Corrado Caprotti e il Memoriale della Shoah
Sono in pochi ad esserne a conoscenza ma il Memoriale della Shoah non si sarebbe realizzato senza la donazione di Caprotti.
Corrado Caprotti
Corrado Caprotti, il papà di Esselunga, mancato due giorni or sono, non finisce di stupirci e questa volta per aver contribuito alla realizzazione di un'opera molto importante che rende i milanesi molto orgogliosi: "Il Memorale della Shoah". Ricordiamo che tra il 1943 e il 1945 dalla Stazione Centrale di Milano, precisamente dal famigerato Binario 21 (un binario sotterraneo nascosto alla vista degli altri passeggeri), partirono migliaia di ebrei e deportati politici destinati ai campi di sterminio nazisti: il #Memoriale della Shoah è stato realizzato proprio li, in corrispondenza del Binario 21.
Una dedica significativa
Qualche tempo fa venne inaugurato al Memoriale uno Spazio Mostre intitolato proprio a Bernardo Caprotti e le ragioni di questa scelta ce le spiega Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione per il Memoriale: "Questa grande opera è nata grazie alla generosità di Caprotti, che inizialmente ci ha aiutato con una cospicua donazione, a raggiungere il 30% dei versamenti iniziali dovuti. Il Patron di Esselunga non si aspettava questo gesto ma si emozionò molto e ne fu contento."
Quale è il motivo per cui un manager tanto determinato, che lottato per il successo della sua impresa contro tutto e tutti, ha deciso di contribuire alla realizzazione del Memoriale della Shoah? Per scoprirlo occorre andare indietro nel tempo, negli anni tragici della guerra, in quegli anni accaddero fatti tragici e il novantenne Caprotti, quei fatti li aveva vissuti in prima persona.
Le ragioni del cuore
La sua non era una famiglia ebrea ma suo padre, imprenditore nel campo del cotone, di amici ebrei ne aveva tanti: imprenditori, agenti, commercianti. Nella vita del piccolo Corrado le persone di religione ebraica erano di casa e da quel binario 21 della Stazione Centrale ne erano partite molte, padri e madri di suoi coetanei che non avevano più fatto ritorno.
Fu l'incontro con Liliana Segre, deportata ad Auschwitz-Birkenau e che perorava la costruzione del Memoriale, fu determinante. La Segre è stata una dei 25 bambini sopravvissuti fra i 776 piccoli italiani deportati ad Auschwitz.
Caprotti ammirava molto Liliana per la sua umanità e per il suo coraggio: passarono molti pomeriggi a chiacchierare, a ricordare e scoprirono nel loro passato sconosciute assonanze, ad esempio che entrambi i loro padri erano "ragazzi del 99" e che si conoscevano, essendo tutti e due operatori nel settore del cotone. La drammatica differenza su marcata proprio dal Binario 21, il padre di Caprotti tornò a casa mentre il papà di Liliana Segre salì su quel treno e non tornò mai più.
(Bastling News, 3 ottobre 2016)
Altro che Trump, l'incubo di Hillary sono i sauditi
L'approvazione della legge Jasta è una sconfitta per Obama e sarà un enorme problema per la Clinton. Emergono i legami equivoci e irrisolti tra Usa e Arabia Saudita.
Chissà. Può anche darsi che nei futuri libri di storia il nome di Barack Obama venga dopo quello di Stephanie Ross De Simone. E che l'azione di questa madre, rimasta vedova dell'ufficiale di marina Patrick Dunn, morto l'11 settembre del 2001 mentre lei aspettava la loro figlia, quando i dirottatori di Al Qaeda colpirono il Pentagono con l'aereo che avevano dirottato, risulti alla fine politicamente più incisiva degli otto anni di presidenza Obama. Sarebbe il paradosso finale di un doppio mandato già di per sé paradossale, cominciato con il discorso del Cairo per la pacificazione con il mondo islamico e del Medio Oriente e finito con la difesa a spada tratta dell'Arabia Saudita, ovvero del Paese che più di ogni altro ha contribuito a fomentare e finanziare l'estremismo islamico, il terrorismo e la guerra.
Come in tutte le storie che si rispettino, anche in questa è necessario il classico passo indietro. Nel gennaio del 2015 venne presentato al Congresso un progetto di legge denominato Jasta (ovvero Justice Against Sponsors of Terrorism Act, Legge per la giustizia contro gli sponsor del terrorismo) che ha concluso il proprio iter parlamentare poche settimane fa, con un finale pieno di fuochi d'artificio: il Congresso ha approvato la legge, Barack Obama ha posto il veto presidenziale alla sua promulgazione, il Congresso ha risposto votando con la necessaria maggioranza dei due terzi l'annullamento del veto. Al Senato 97 voti contro 1, alla Camera dei rappresentanti 348 voti contro 77. Il che significa che anche molti democratici hanno votato contro il "loro" Presidente.
Alcuni parlano della collaborazione tra Usa e Arabia Saudita nella lotta al terrorismo, il che è quasi una barzelletta. Come si può pensare di lottare contro il terrorismo con il Paese che finanzia il terrorismo?
Che cosa prevede, dunque, questa legge che Obama ha definito "pericolosa per gli interessi nazionali"? Solo questo: attribuisce alle corti federali il potere di decidere "su una causa civile portata contro uno Stato straniero per un danno fisico o patrimoniale o una morte occorsa all'interno degli Stati Uniti in seguito a un atto di terrorismo o a un'azione commessa in qualunque luogo da un funzionario, un agente o un impiegato di detto Stato straniero nell'esercizio delle sue funzioni".
Tutto qui? Sì. Ma per Obama, e per un'eventuale presidenza Clinton, questo rischia di diventare un incubo. Il tema non è nuovo nel dibattito politico-giudiziario degli Usa. Nel 2011, la Bank of China (la banca di Stato che opera soprattutto sui mercati internazionali, fondata nel 1912) fu portata in tribunale da 20 famiglie americane i cui parenti erano stati colpiti in attacchi terroristici in Israele tra il 2003 e il 2008. La causa è andata avanti fino al 2015 quando, dopo intense trattative diplomatiche (anche lo Stato di Israele aveva fornito documenti agli avvocati delle famiglie) è stata infine archiviata da un tribunale di New York: non è provato, pare, che la Bank of China abbia trasferito denaro a militanti di Hamas.
Sempre a New York, nel 2014, un altro tribunale ha condannato la Arab Bank (fondata a Gerusalemme nel 1930, nel 1948 trasferita ad Amman in Giordania, oggi un colosso con 600 filiali in 30 Paesi tra cui gli Usa) dopo la causa presentata dieci anni prima da un gruppo di 300 cittadini americani, parenti di persone uccise o ferite in attentati palestinesi in Israele o nei Territori Occupati. Secondo il tribunale, la banca avrebbe disposto transazioni finanziarie a favore di Hamas. E nel luglio di quest'anno, altre cinque famiglie americane hanno chiesto un miliardo di dollari di danni a Facebook, accusando l'azienda di aver "coscientemente fornito supporto materiale e risorse a Hamas sotto forma di accesso alla piattaforma Facebook di social networking e di servizi di comunicazione". Secondo le famiglie, questo aveva aiutato i terroristi di Hamas a uccidere quattro dei loro familiari e a ferirne un quinto.
Più o meno fondate che siano, queste cause dimostrano che le famiglie delle vittime hanno appreso alla perfezione la lezione che tutti gli esperti di terrorismo ripetono da decenni: ovvero, che per battere i terroristi bisogna prima di tutto intervenire sul flusso di denaro che li alimenta.
Il Jasta offre ai parenti dei morti dell'11 settembre un'arma potentissima. Perché un conto è portare in tribunale singole banche o aziende, tutt'altra faccenda fare causa agli Stati. E chi ha perso qualcuno al Pentagono o alle Torri Gemelle ha un solo Stato in mente: l'Arabia Saudita, appunto.
Le famiglie delle vittime hanno appreso alla perfezione la lezione che tutti gli esperti di terrorismo ripetono da decenni: ovvero, che per battere i terroristi bisogna prima di tutto intervenire sul flusso di denaro che li alimenta. Nel 2010, quando Wikileaks mise in rete migliaia di documenti riservati del Dipartimento di Stato allora diretto da Hillary Clinton, saltò fuori che l'attuale candidata alla presidenza scriveva questo ai suoi funzionari e diplomatici: "L'Arabia Saudita resta una base di supporto finanziario per Al Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba e altri gruppi terroristici, compreso Hamas"
Obama ha fatto di tutto per bloccare la legge. Anche se è ormai abbondantemente provato che dietro larga parte del terrorismo islamico ci sono proprio i sauditi. Lo sanno tutti, grazie a una miriade di studi prodotti in ogni parte del mondo. Nel 2005, per esempio, Jonathan Halevi, ex ufficiale dell'esercito di Israele, ex consigliere politico del ministero degli Esteri di Israele, scriveva in un rapporto per il Jerusalem Center for Public Affairs: "L'Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo Persico costituiscono ancora la più cospicua fonte di finanziamento per i gruppi islamisti. Nuovi documenti ritrovati presso molte "fondazioni caritatevoli" mostrano un continuo flusso di quattrini da organizzazioni ufficiali saudite a queste fondazioni che sia Israele sia gli Usa hanno dichiarato terroristiche".
E lo sa benissimo anche Obama. Nel 2010, quando Wikileaks mise in rete migliaia di documenti riservati del Dipartimento di Stato allora diretto da Hillary Clinton, saltò fuori che l'attuale candidata alla presidenza scriveva questo ai suoi funzionari e diplomatici: "L'Arabia Saudita resta una base di supporto finanziario per Al Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba e altri gruppi terroristici, compreso Hamas". E aggiungeva: "I donatori privati dell'Arabia Saudita costituiscono la più significativa fonte di finanziamento per i gruppi del terrorismo sunnita nel mondo".
Quindi non si scappa: Obama è conscio che l'Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico sono il cuore finanziario del terrorismo internazionale sunnita. Però cerca lo stesso di impedire che le famiglie delle vittime dell'11 settembre provino a rivalersi in tribunale. Perché?
L'unica motivazione addotta dal Presidente è l'interesse nazionale. Molti hanno pensato ai circa 750 miliardi di dollari che l'Arabia Saudita ha investito negli Usa o nei loro strumenti finanziari e che, in caso di sentenza, potrebbero essere "congelati" per risarcire gli eventuali querelanti. È vero, i sauditi potrebbero ritirare i loro quattrini per investirli altrove. Ma ci rimetterebbero comunque un sacco di soldi e comunque gli Usa, tra basi dell'esercito in Arabia Saudita, forniture militari, assistenza di ogni genere (tecnologica, politica, finanziaria e, appunto, militare) hanno una tale gamma di strumenti di pressione da non dover essere intimoriti.
Altri parlano della collaborazione tra Usa e Arabia Saudita nella lotta al terrorismo, il che è quasi una barzelletta. Come si può pensare di lottare contro il terrorismo con il Paese che finanzia il terrorismo? Non a caso, infatti, dal 2000 a oggi le vittime del terrorismo, nel mondo, sono cresciute di nove volte, a dispetto della "war on terror" proclamata nel 2001 da George Bush. Si può piuttosto parlare di collaborazione politico-militare, vista l'intesa con cui Usa e Arabia Saudita agiscono in Siria (gli Usa rifiutano di riconoscere come "gruppi terroristici" le formazioni armate e finanziate dai sauditi) e nello Yemen (dove gli Usa forniscono armi e intelligence militare alla coalizione guidata dall'Arabia Saudita). Ma, anche qui, chi ha bisogno di chi? Davvero gli Usa possono farsi intimidire dai sauditi?
Insomma, la sensazione è che le vere ragioni di questa obamiana difesa a oltranza dei sauditi siano altre, e che difficilmente verremo a saperle. Anche se fa male al cuore degli idealisti notare che il Presidente del "yes, we can", dei valori e dei nobili pensieri, all'atto pratico si comporta come un Putin qualunque.
(Linkiesta, 3 ottobre 2016)
Lido, vandalismo notturno al cimitero ebraico: carabinieri sulle tracce dei colpevoli
Avrebbero scavalcato il muro di cinta per poi spostare e rovinare una lapide provvisoria: prima di andarsene, probabilmente cercando qualcosa, hanno scavato una buca.
Il cimitero ebraico di Venezia
I carabinieri stanno indagando su quanto sembrerebbe essere accaduto nella notte tra giovedì e venerdì: alcuni vandali, come riporta il Gazzettino, si sono introdotti nel cimitero ebraico del Lido di Venezia scavalcando il muro di cinta.
L'obiettivo del gruppo (il numero dei componenti non è ancora chiaro) pare fosse una tomba in costruzione di una signora precedentemente residente a Torino: prima hanno rovinato la lastra provvisoria per poi scavare con un qualche oggetto di metallo una buca profonda poco meno di mezzo metro, non riuscendo però a raggiungere la bara.
Il gesto, le cui motivazioni sono al vaglio delle forze dell'ordine, potrebbe spiegarsi con una "semplice" bravata. La gravità del gesto però sarebbe resa addirittura maggiore se si considera che oggi, secondo la tradizione ebraica, ricorre il Capodanno religioso.
(Venezia Today, 2 ottobre 2016)
Israele punta a costruire un gasdotto da Cipro fino in Grecia
GERUSALEMME - Dopo aver firmato un importante contratto fra i partner del giacimento di gas del Leviathan con la Giordania, Israele punta a realizzare un gasdotto a Cipro e in Grecia, in modo che il gas del paese possa essere esportato fin lì e in altri paesi europei: lo ha reso noto il ministro delle Infrastrutture nazionali dell'energia e dell'acqua d'Israele, Yuval Steinitz. Il funzionario, parlando con i giornalisti prima della riunione settimanale di gabinetto, ha ribadito che l'accordo con la Giordania è stato "storico" per il paese, perché per la prima volta Tel Aviv è diventato un esportatore di energia. Steinitz ha aggiunto che incontrerà i suoi omologhi in Grecia e Cipro per discutere della costruzione di un corridoio "lungo" fino Cipro e in Grecia, e da lì verso l'interno ad altre parti d'Europa. "Noi esporteremo il gas ad altri paesi della regione e anche nell'Ue", ha detto Steinitz. "Questo ci trasformerà in un attore mondiale del settore energetico e scopriremo e svilupperemo nuovi siti di grandi dimensioni".
(Agenzia Nova, 2 ottobre 2016)
Ebraismo a Trani, sabato prossimo omaggio a Cesare Colafemmina
Prima ancora che la comunità ebraica ritornasse a Trani nel 2004, ci aveva pensato il professor Cesare Colafemmina a tenere sempre vivo l'interesse dell'opinione pubblica, e segnatamente del mondo culturale, intorno alla presenza ebraica nella storia della di Trani: infatti, per lungo tempo curò in ogni minimo particolare la ricerca intorno ad una parte fondamentale della storia della città, e non mancò di collaborare intensamente con il nucleo intorno al quale si sarebbe riformata la comunità ebraica in città.
Allo stesso studioso di Acquaviva delle Fonti, adesso, la città renderà un omaggio organizzando una serata in suo onore sabato 8 ottobre, alle 18 presso il Polo museale, in piazza Duomo, per porne in risalto l'opera e la sua centralità nella storia culturale di Trani. «Il rapporto tra il professor Colafemmina e Trani è stato intensissimo - conferma il presidente di Obiettivo Trani, Eduardo De Simola -. I suoi studi sugli ebrei nel Mezzogiorno, durante il Medioevo, non potevano non portarlo a Trani, dove annoverava due grandi amici: uno era il professor Aurelio Carella, scomparso prematuramente, l'altro sarà presente tra i relatori del convegno, ed è l'avvocato Antonio Di Maggio. Insieme hanno girato per i luoghi dove vi era stata la presenza ebraica, soprattutto Trani e Venosa. Negli ultimi anni un altro tranese ha collaborato con il nostro Cesare ed è diventato suo amico, l'architetto Giorgio Gramegna: insieme ci hanno donato il Museo ebraico Sant'Anna, presso l'ex sinagoga Scola grande, e la relativa Guida al museo».
Colafemmina fu il relatore di una delle prime conferenze di Obiettivo Trani, nata il 6 febbraio 1994: era l'11 dicembre di quello stesso anno e, nel salone "Raggio di sole" della parrocchia San Giuseppe, parlò de "La comunità ebraica di Trani dall'XI al XVI secolo". Poi, il 13 dicembre 2008, presentò il volume del dottor Emanuele Gianolio, "Gli ebrei a Trani e in Puglia nel Medioevo", stampato dall'editore Landriscina in collaborazione con la Sezione di Trani della Società di storia patria per la Puglia, quale secondo volume della Collana di studi tranesi.
Molte altre le sue pubblicazioni su Trani: Un'iscrizione ebraica inedita di Trani (1973); Iscrizioni romane di Brindisi a Trani (1974); Documenti per la storia degli ebrei a Trani nel secolo XV (1985); Documenti per la storia degli ebrei a Trani nei secoli XV-XVI (1987); Momenti di vita ebraica tranese nei secoli XV-XVI (1999); Di alcune iscrizioni ebraiche a Trani (2001); Sinagoga Museo Sant' Anna. Guida al Museo" (con Giorgio Gramegna) (2009); Ebrei a Trani. Fonti documentarie. Andria, Barletta, Bisceglie, Corato, Molfetta, Trani (a cura di Mariapina Mascolo) (2013).
La bibliografia completa dei suoi scritti è alla fine del volume "L'umanità dello scriba. Testimonianze e studi in memoria di Cesare Colafemmina", che sarà presentato nel corso del convegno, cui interverranno numerosi docenti e suoi amici: oltre Di Maggio e Gramegna, Pina Belli D'Elia, Benedetto Ligorio, Emilio Rosato, Nicola Surico, Sonia Vivacqua. Al termine dell'incontro si svolgerà una visita guidata al Museo ebraico Sant'Anna, che rappresenta la Sezione ebraica Polo museale.
Il Convegno è organizzato dalla Sezione di Trani "Benedetto Ronchi" della Società di storia patria per la Puglia, dall'Associazione "Obiettivo Trani" e dalla Fondazione Seca, con il patrocinio gratuito del Comune di Trani e dell'Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie.
(il Giornale di Trani, 2 ottobre 2016)
Israele chiude i valichi con i Territori
L'esercito israeliano ha predisposto la chiusura dei valichi con i Territori Palestinesi, compresa la Striscia di Gaza, in vista del Capodanno ebraico che comincia questa sera.
Lo ha annunciato il portavoce militare spiegando che la chiusura prenderà il via dalle 24 di stasera e si protrarrà fino alla stessa ora di martedì 4 ottobre. Lo stesso portavoce ha precisato che "durante la chiusura, ogni transito, eccetto le emergenze sanitarie, sarà sottoposto all'approvazione del Cogat", la struttura militare che si occupa della attività civili nei Territori.
(ANSA, 2 ottobre 2016)
Rosh HaShannah 5777 - Gli auguri dell'ambasciatore
Ofer Sachs, ambasciatore d'Israele in Italia
A poche settimane dal mio insediamento in qualità di nuovo ambasciatore d'Israele in Italia, ringrazio Pagine Ebraiche per la gradita occasione di poter scrivere queste righe di presentazione.
Nel poco tempo trascorso dal mio arrivo a Roma con la mia famiglia ho potuto già conoscere un po' la profondità del legame fra Israele e l'Italia e anche il profondo legame fra le due comunità, la comunità ebraica in Italia e quella che vive in Israele. Un legame profondo e significativo, che porta con sé un saldo e lungo sodalizio di ideali.
Le comunità ebraiche della Diaspora hanno una grande importanza e un'influenza immediata sulla salute e il vigore dello Stato d'Israele. La comunità italiana è una comunità calorosa e molto coinvolta, i cui figli migliori servono nell'esercito israeliano, alcuni di loro anche come "soldati soli", e prendono parte attiva nella difesa del nostro Paese con grande rischio personale.
La lotta per il carattere e l'identità d'Israele da una parte, e per la possibilità della comunità ebraica di vivere e prosperare anche al di fuori dei confini d'Israele dall'altra parte, costituisce una sola unica battaglia. Una battaglia che riguarda la nostra legittimità in quanto popolo, e il nostro diritto di agire in una società intrisa di pregiudizi e antisemitismo, nella quale ognuno possa vivere secondo le proprie idee e la propria fede.
Sono molto colpito dal fatto che l'antisemitismo sia affrontato in Italia anche dalle più alte cariche istituzionali, a partire dal Presidente della Repubblica, passando dal Parlamento e fino al Presidente del Consiglio. Il popolo italiano, per la stragrande maggioranza, vede nella comunità ebraica un elemento importante nel panorama culturale dell'Italia. I responsabili delle comunità operano senza sosta per far conoscere la ricchezza culturale del nostro popolo e la nostra magnifica storia.
Alla fine di ottobre il Presidente della Repubblica italiano partirà per una visita ufficiale in Israele. Nel corso di questa visita, il Presidente incontrerà il suo omologo israeliano, il Presidente Rivlin, e il Primo Ministro Netanyahu. Nel prosieguo dell'anno ci aspettiamo una vivace attività ai più alti livelli, fra esponenti ufficiali in campo istituzionale ed economico, a testimonianza del potente legame fra i nostri due paesi.
In vista delle festività di Tishrè, desidero concludere questo mio intervento con un accenno personale. Da figlio di una famiglia di agricoltori, nato e cresciuto in un moshav non lontano dall'antica città romana di Cesarea, io sento tutta la grave responsabilità per l'avvenire. Spero vivamente che il caloroso abbraccio riservatomi finora possa continuare, e che insieme possiamo agire per continuare a far avvicinare le nostre comunità e i nostri paesi. Le feste di Tishrè sono occasione di nuovi inizi, di gioia, ma anche di autocritica ed esame di coscienza. Un'occasione per passare al vaglio il passato e prepararsi a quanto dovrà venire. Che l'anno che arriva sia un anno buono e di buone notizie, di salute e prosperità.
Concludo con i miei auguri alla Presidente dell'UCEI, da poco insediatasi nella sua nuova carica. Sono certo che compirà grandi cose nel Suo cammino.
Shanà tovà, buon anno a tutti noi e a tutto il popolo d'Israele.
(moked, 2 ottobre 2016)
L'assordante silenzio dell'Occidente sulle stragi in atto nel mondo arabo
Lettera al Direttore di "La Stampa"
Caro Direttore,
ormai ci stiamo abituando agli eccidi che quotidianamente vengono perpetrati in Siria. Una volta c'erano i pacifisti a «ricordarci» le guerre in atto in altre parti del mondo, oggi queste voci tacciono. Si organizzavano marce, sit-in, ai balconi si esponevano le bandiere della pace e gli intellettuali compravano qualche pagina di giornale per far sentire la loro voce. E ora?
Pasquale Mirante, Sessa Aurunca (CE)
Caro Mirante,
il silenzio dei «pacifisti» sulle oltre 300 mila vittime della guerra civile in Siria consente di riflettere sulla sensibilità dell'Occidente davanti a stragi, eccidi e decapitazioni in corso nel mondo arabo-musulmano, teatro di uno scontro violento ed epocale, fra regimi dispositivi e gruppi jihadisti. Dittatori e terroristi sono quasi sempre sul fronte opposto ma ad accomunarli è il ricorso alle violenze più efferate per imporsi sui rivali. Gheddafi voleva schiacciare la rivolta di Bengasi «come si fa con i topi», Bashar Assad usa le bombe a grappolo contro i quartieri civili di Aleppo, i jihadisti del Califfo bruciano e decapitano per imporre il proprio terrore, le rivoluzioni egiziane - guidate da leader concorrenti - sono state accompagnate da migliaia di persone arrestate e scomparse nel nulla. Dozzine di comunità cristiane sono state distrutte. In Yemen il conflitto fra milizie sciite filo-iraniane e truppe sunnite ha causato per l'Onu grave carenza di cibo per oltre 370 mila bambini.
È una raffica di emergenze umanitarie nel cuore del mondo arabo-musulmano che nasce dalla carenza di rispetto per gli esseri umani da parte di molteplici leader politici, militari, religiosi e tribali. E sulla quale prevale in Occidente un assordante silenzio delle coscienze.
Maurizio Molinari
(La Stampa, 2 ottobre 2016)
Il caso Kielce e non solo. La Shoah oltre la Shoah
Il pogrom del 1946 nella città polacca e la commemorazione di Babi Yar in Ucraina.
di Daniel Mosseri
BERLINO - Settantacinque anni fa a Babi Yar, in Ucraina, nazisti tedeschi e collaborazionisti locali massacravano alcune decine di migliaia di ebrei: gli storici non hanno ancora stabilito se i civili uccisi furono 33 mila o anche tre volte tanto, come indicano alcuni ricercatori. Quella compiuta alle porte di Kiev nel settembre del 1941 resta una delle peggiori carneficine della storia recente e il segno di come la macchina dello sterminio del popolo ebraico fosse già ben avviata dopo un rodaggio avviato con la Notte dei cristalli il 9 novembre del 1938. L'Ucraina di oggi ricorda con una serie di commemorazioni aperte dal presidente Poroshenko assieme al suo omologo israeliano Rivlin, poi rientrato a Gerusalemme per i funerali di Shimon Peres. Babi Yar è una macchia di sangue indelebile sulla mappa dell'Europa in guerra, eppure la fine del Secondo conflitto mondiale non ha comportato la fine delle violenze contro gli ebrei.
E' il caso di Kielce, il 4 luglio del 1946. Quel giorno, nella città della Polonia centromeridionale si consuma il peggiore pogrom del Dopoguerra: l'efferata violenza di civili su altri civili in tempo di pace in virtù di odii antichi e moderni. La guerra è finita da un anno e la Polonia ricomincia appena a respirare. Nelle città ha fatto ritorno qualche sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e qualche altro sparuto ebreo che era riuscito a scappare a est prima dell'arrivo delle SS. Non è un controesodo ma un rientro alla spicciolata: nel 1939 gli ebrei di Kielce erano 24 mila, un terzo della popolazione; sotto i nazisti la città viene dichiarata Judenrein, libera da ebrei; dai lager torneranno in 200 e, di questi, 42 perderanno la vita nel pogrom scatenato dai loro vicini di casa.
Al loro rientro i sopravvissuti non sono bene accolti: non amati perché ebrei, ora sono anche considerati traditori filosovietici; in prima fila a odiarli ci sono i comunisti polacchi. La miscela esplosiva trova la sua miccia in un'accusa tanto abusata nella storia quanto ancora attuale nel 1946: l'omicidio rituale. Il 1o luglio del 1946 Henryk Blaszczyk, 8 anni, sparisce da Kielce; due giorni dopo torna a casa spiegando di essere riuscito a scappare da una palazzina abitata da ebrei che si accingevano a ucciderlo per impastarne il sangue. Da anziano Blaszczyk confesserà che il suo racconto fu pura messinscena. E tuttavia il ricorso all'accusa del sangue vecchia di mille anni scatena la furia dei suoi concittadini. Miliziani comunisti entrano nella palazzina "del rapimento", disarmano e fucilano 17 fra gli ebrei presenti. Gli altri, datisi alla fuga, sono linciati dalla folla, sostenuta da un gruppo di minatori provvidenzialmente apparsi a dare man forte. Le forze dell'ordine restano a guardare: a fine giornata si contano 42 ebrei uccisi e 80 feriti. I fatti di Kielce spinsero molti degli ultimi ebrei polacchi a emigrare per sempre.
"Il comportamento della polizia, dell'intelligence e dei comunisti fu scandaloso", dice al Foglio Jan Rydel, docente di Storia all'Università Jagellonica e promotore di una giornata di studi a Kielce 70 anni dopo. Lo scorso 4 luglio il presidente polacco Andrzej Duda ha inaugurato i lavori ricordando "i cittadini polacchi di origine ebraica scampati per miracolo alla Gehenna dell'Olocausto" e trucidati per mano di altri concittadini. Non si trattò di un caso isolato: "In tutta l'Europa orientale", riprende Rydel, "la fine della guerra coincise con rinnovate violenze antiebraiche", ma il pogrom del 4 luglio spicca per truculenza. Lo storico tenta di spiegare le ragioni dell'odio attraverso la dura situazione dell'epoca, fra miseria e delinquenza diffuse in una popolazione abbrutita dalla guerra: "Al loro ritorno i pochi ebrei sopravvissuti reclamarono le proprietà che i nazisti non avevano depredato", come i beni immobili distribuiti fra la popolazione polacca, "suscitando odio anziché solidarietà".
Alla violenza seguì la menzogna. La macchina della propaganda si attivò per imputare la strage alle milizie nazionaliste malate di antisemitismo, "per una volta invece estranee al pogrom". Il regime comunista polacco fece cadere i fatti di Kielce nel silenzio, rotto dagli storici solo dopo l'avvento di Solidarnosc. Oggi il clima è cambiato, assicura Rydel: la popolazione cittadina ha partecipato al ricordo e il presidente Duda, la cui moglie è di origine ebraica, "è molto impegnato su questo tema". La Polonia di oggi non è un paese più antisemita degli altri, sottolinea l'accademico polacco citando una ricerca israeliana secondo cui ben il 20 per cento dei tedeschi ha pregiudizi antiebraici. Punti di vista. Due settimane dopo le celebrazioni, la ministra polacca dell'Istruzione Anna Zalewska ha declassato a "opinioni" le responsabilità polacche nel pogrom di Kielce e in quello terribile di Jedwabne del 1941 (340 ebrei furono arsi vivi in un granaio).
C'è stata rimozione collettiva o no?
In un'intervista a Deutschlandradio Kultur, lo storico Jörg Baberowski dell'Università Humboldt di Berlino punta il dito contro la "rimozione collettiva" dell'antisemitismo in Polonia. Chiesa cattolica e Partito comunista "si sono sempre presentati come i veri oppositori del nazismo, per cui solo i tedeschi sarebbero responsabili dello sterminio". Un discorso tanto più vero per i comunisti, "che nell'antinazismo trovavano la loro principale fonte di legittimazione. Secondo Baberowski, "i vecchi continuano a rimuovere, mentre i giovani si disinteressano di avvenimenti così lontani nel tempo". Lo storico tedesco sposa la tesi del collega americano Jan Gross, secondo cui i polacchi sono stati ben lieti di aiutare i tedeschi nello sterminio. Per Rydel, che ricorda anche "i moltissimi polacchi 'giusti fra i popoli'", i rapporti fra polacchi ed ebrei "non possono essere letti solo alla luce dell'Olocausto".
Al di là delle battaglie storiografiche restano i numeri: "Prima della guerra eravamo più di 3,5 milioni, oggi siamo poco più di 4 mila", dice al Foglio Artur Hofman, impresario teatrale e presidente delle associazioni sociali e culturali ebraiche di Polonia. Nonostante l'anno scorso a Breslavia una dimostrazione di xenofobi abbia dato fuoco in piazza a un pupazzo raffigurante un ebreo, per Hofman l'antisemitismo non è più un'emergenza in Polonia "e idioti del genere si trovano ovunque nel mondo". Atti antiebraici potranno ripetersi, "ma la situazione è in continuo miglioramento" osserva, elencando un fiorire di musei, festival, e rassegne teatrali dedicate all'ebraismo polacco con una crescente partecipazione del pubblico. "Da Cracovia a Varsavia, da Breslavia fino a Kalisz l'interesse del pubblico per 'Il violinista sul tetto' è sincero". E questi eventi, conclude, si possono tenere senza massicci spiegamenti di poliziotti, "una cosa impensabile a Londra, Copenaghen o Parigi". E' la triste sorte degli ebrei polacchi. Odiati da vivi, rimpianti solo da morti.
(Il Foglio, 2 ottobre 2016)
I geni della commedia ebraica
Da oggi fino al 14 ottobre la retrospettiva sul filone hollywoodiano.
«Frankenstein Junior», «Alta tensione», «Zelig», «Io e Annie» Tredici titoli culto tra gli anni 70 e 80 da Mel Brooks a Woody Allen.
di Luciana Cavina
Anche la rigorosa traduzione in italiano - che ha rispettato l'arguzia dei giochi di parole - ha permesso che Frankenstein Junior fosse uno dei film più citati del secolo. Tra «Non c'e scampo più per me» e «castello ululì lupo ululà», insomma, la si mette sempre sul ridere. Eppure il capolavoro di Mel Brooks - che fa, certo, molto ridere - è uno dei più scrupolosi della filmografia demenzial-geniale del regista. Nella scrittura dei dialoghi e della trama, nella definizione dei bianchi e neri.
La rassegna che inizia oggi al cinema Lumière dal titolo «Gene e i geni della commedia ebraica» parte dunque da qui. Dalla parodia dei classici dell'horror ispirati da Mary Shelley, dove i mostri si muovono tra presunta follia e riscatto. La prima proiezione alle 17-30 (replica alle 22). Scelta anche per omaggiare il grande Gene Wilder, protagonista di «Frankenstein» e attore/ autore feticcio di Mel Brooks scomparso il 29 agosto scorso.
La retrospettiva - che prosegue fino al 14 ottobre per un totale di tredici titoli - è dedicata alla commedia ebraica, una sorta di filone hollywoodiano che si distingue per l'ironia affilata che affonda le radici in un'unica multiforme cultura e he ha raggiunto il suo apice negli anni 70 e 80. Mel Brooks e Woody Allen ne sono le star. Del primo saranno proietta ti anche Per favore non toccate le vecchiette, Il mistero delle dodici sedie e Alta tensione. L'imbarazzata borghesia newyorkese dipinta da Woody Allen viene presentata invece attraverso Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, Prendi i soldi e scappa, Io e Annie, Zelig e Il dormiglione. È la «prima» comicità di Woody Allen, surreale, fitta di gag. Si comincia dalle domande sul sesso del medico innamorato della pecora armena fino ad approdare al romanticismo amaro e punteggiato di dipendenze farmacologiche di Io e Annie (il 6 ottobre) passando dal camaleonte umano Leopold Zelig.
In mezzo, altre perle. C'è il Gene Wilder regista, per esempio. Con Il fratello furbo di Sherlock Holmes, realizzato nel 1975 sulla scia del successo planetario di Frankenstein Junior. La parodia del mito letterario si gioca sull'idea di creare un fratello più giovane e geloso dell'investigatore di Baker Street. Accanto a Wilder recitano Marty Feldman, Dom DeLuise e Madeline Kahn. Wilder è protagonista anche in Scusi dov'è il West di Robert Aldrich, previsto in cartellone il 5 ottobre. Scrive Guido Fink: «In alcuni casi si avverte il bisogno che al comico ebreo venga affiancato un amico che abbia l'aspetto simpatico, leale e sportivo dell'eroe all american: Gene Wilder, nella parte del timido rabbino galiziano capitato nel selvaggio Ovest, si affianca a un bandito non troppo temibile, interpretato da Harrison Ford».
Tornando a Mel Brooks, la critica sostiene che è nel suo primo lavoro Per favore non toccate le vecchiette, anno 1968, che l'autoironia della cultura ebraica - nella storia degli impresari intenzionati a far fallire uno spettacolo teatrale per sfuggire ai creditori - viene messa in massima luce.
Curioso è invece Il mistero del cadavere scomparso, film del 1982 di Carl Reiner, in programma 1'8 ottobre. Ambientato negli anni 40, grazie a tecniche di montaggio, fa dialogare i suoi personaggi con i divi dell'età dell'oro. Feroce è, infine, Il rompicuori (12 ottobre) di Elaine May, anno 1972. Lo sguardo mordace della regista penetra implacabile in una storia che sembra classica: quella dell'ebreo inquieto che perde la testa per una ragazza non ebrea. Lei è un'affascinante bionda del Minnesota che, malgrado le apparenze, alla fine, non fa altro che cercare l'amore.
(Corriere di Bologna, 2 ottobre 2016)
Israele ha aperto in Camerun un centro di alta tecnologia
L'Ambasciata di Israele in Camerun ha riferito sull'apertura all'istituto politecnico Nazionale di Yaounde israeliano centro di alta tecnologia.
Secondo il comunicato dell'ambasciata, il centro, il più moderno in Africa, è il frutto della collaborazione dei due paesi in materia di educazione e di alta tecnologia.
Tra Israele e Camerun stabilito un buon diplomatiche e le relazioni commerciali. Inoltre, Israele ha le autorità del Camerun assistenza in materia di lotta al terrorismo e di altri settori. Così, nell'estate di quest'anno, Israele ha aiutato il Camerun nella lotta contro l'epidemia di influenza aviaria.
(Notizie dal mondo, 1 ottobre 2016)
Ciclismo - La Epic Israel è finita,
Vince la coppia ceco-olandese formata da Novak e Becking che hanno fatto la differenza nella seconda tappa. I corridori del team Olympia Polimedical hanno collezionato due terzi posti mentre venerdì sono arrivati secondi.
YESOD HAMAALA - Oggi in alta Galilea, nei pressi delle aride alture del Golan, vicino al confine con la Siria e il Libano, dopo 265 km e tre tappa, si è conclusa l'edizione 2016 della Epic Israel, gara internazionale corsa in coppia. Alla fine l'hanno spuntata i due favoriti della vigilia, ossia due bikers che hanno un bel background in questo genere di competizioni, stiamo parlando dell'olandese Hans Becking e del ceco Jiri Novak, che hanno lasciato 2 tappe all'israeliano Haimy Shlomi ed al tedesco Martin Gluth (giovedì ed oggi) ma con l'affondo di ieri (venerdì) avevano ipotecato la corsa.
Oggi infatti i due sono partiti sapendo che nell'ultima tappa, la più breve (62 km) avevano ben 3' 39'' da amministrare e così hanno fatto, arrivando come nella prima tappa insieme alle altre due coppie che hanno dominato questa competizione.
Pietro Sarai e Marzio Deho (Olympia Polimedical) chiudono tappa e Epic Israel in terza posizione. Il racconto del bergamasco: "Oggi è stata la tappa più corta ma molto tecnica caratterizzata da lunghissimi tratti di single track sia in salita che discesa. Ritmo subito alto dal primo km, nella prima parte ho fatto moltissima fatica a tenere il ritmo e accusavo sempre qualche secondo di ritardo dalla testa. - prosegue Marzio nella sua cronaca - La svolta decisiva a 20km dal traguardo, insieme ai leader abbiamo attaccato guadagnando un bel vantaggio. Quando la vittoria di tappa sembrava alla nostra portata, nell'ultima discesa una foratura di Pietro ci rallentava, prima 2 volte con il fast e gli ultimi 2 km sul cerchio. Venivamo così superati tagliando il traguardo in terza posizione sia di tappa che in generale".
(Pianeta Mountain Bike, 1 ottobre 2016)
Litiga con il vicino, a processo per minacce razziste
Accusato di aver insultato un professionista di origini israeliane. Il pm contesta l'aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico razziale o religioso.
BOLOGNA - Una lite tra vicini di casa, protagonisti un tecnico veterinario italiano e un professionista di origini israeliane, è finita in tribunale con il primo, imputato a Bologna, che dovrà difendersi dall'accusa di aver rivolto all'altro minacce razziste. Il processo, alle battute iniziali, nasce da una querela presentata in Questura il 22 aprile 2013 dal professionista, costituitosi parte civile con l'avvocato Alessandro Gamberini. Denunciò un'aperta ostilità da parte del vicino, che inizialmente lo offendeva in quanto `arabo, invitandolo a tornarsene a casa propria. Poi, una volta scoperto che era israeliano, avrebbe cambiato il bersaglio degli insulti, indirizzandoli contro gli ebrei.
I due abitavano in campagna, avevano un pezzo di strada in comune e il professionista raccontò in particolare un episodio del 21 aprile, quando l'altro fermò la macchina e gli venne incontro, mentre stava rientrando. Lo avrebbe affrontato e ricoperto di insulti anche razzisti, con minacce di morte, accusandolo di aver preso a calci i suoi cani il giorno prima, mentre lui sostiene di essere stato aggredito dagli animali.
L'indagine si è conclusa con un decreto penale di condanna per minacce aggravate e ingiuria per il tecnico, che si è opposto ed è partito il dibattimento. Il pubblico ministero in udienza ha contestato anche l'aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico razziale o religioso, prevista dalla legge Mancino.
(Corriere di Bologna, 1 ottobre 2016)
Se un bambino ebreo chiedesse alla propria mamma...
Abbiamo trovato casualmente in rete questo scritto. Non è anonimo, ma ne riportiamo solo il testo per mostrare in quale livello di ignoranza si può tranquillamente vivere e a quale grado di "pacifico" accanimento contro Israele si può arrivare. L'ignoranza è la forza della menzogna, ma è un'ignoranza colpevole, che può diventare criminale.
Se un bambino ebreo chiedesse alla propria mamma del perché i palestinesi ce l'abbiano tanto con loro, probabilmente la mamma avrebbe un sussulto, e poi, con mestizia, esploderebbe in uno sfogo contenuto, fino a quel momento represso, e, cosciente che il bambino non avrebbe capito fino in fondo la sua risposta, potrebbe rispondere: «Perché con il sostegno dell'America abbiamo loro rubato la terra, ammazzato i loro parenti e ne abbiamo deportati a milioni; abbiamo demolito le loro case con le ruspe e distrutto i loro villaggi; li abbiamo affamati, ed ora li stiamo assediando nelle loro città con i carri armati, aerei, navi da guerra e coprifuochi, li costringiamo a vivere come in campi di concentramento; abbiamo impregnato di sangue la loro terra e ne distruggiamo le messe».
A questo punto al bambino verrebbe spontaneo chiedere: «e perché, mamma, abbiamo fatto e facciamo tutto questo ai palestinesi?». E la mamma, ancora eccitata dalla propria risposta, e rossa in viso, potrebbe rispondere : «per potere stare bene noi abbiamo fatto e facciamo tutto questo, senza curarci del loro strazio».
Allora il bambino, probabilmente, tornerebbe ai suoi giochi sorridente e soddisfatto della risposta, e la sua mamma ad attendere ai propri lavori domestici o preparare la cena al marito, con mestizia, pensando anche che quel bambino innocente potrebbe diventare una vittima del comportamento iniquo della propria gente.
(Notizie su Israele, 1 ottobre 2016)
Rotolo di En Gedi, letto il più antico reperto della Bibbia
di Angelo Petrone
Rotolo di En Gedi, letto il più antico reperto della Bibbia
I ricercatori dell'Università di Gerusalemme sono riusciti a leggere il famoso rotolo di En Gedi, un testo che riprende uno dei cinque libri della Bibbia.
Un reperto in pessime condizioni composto da pagine impossibili da sfogliare. E' il famoso rotolo di En Gedi, un manoscritto in ebraico considerato come Ia più antica rappresentazlone del la Bibbia. In realtà la collocazione temporale del rotolo è del tutto incerta e va dal IV secolo a.C. al I d.C. Il testo riprende uno dei cinque libri che compongono la Bibbia: il Levitico. Si tratta di un insieme di indicazioni relative alla società ebraica del tempo.
Il ritrovamento di questa preziosissima fonte risale agli anni settanta e fu realizzato in un'oasi sulle sponde del Mar Morto, dal nome di En Gedi. Una località non casuale per la presenza, fin dall'ottavo secolo avanti Cristo, di un insediamento di Ebrei. Sono tante le sventure
che il frammento della Bibbia ha dovuto superare. Nel seicento, in particolare, un incendio ne compromise quasi del tutto la leggibilità. Ma le ultime tecnologie hanno consentito di "leggere" il manoscritto senza sfogliarlo, operazione che lo avrebbe definitivamente distrutto, attraverso le rilevazioni 3D. Le varie frasi, composte solo da consonanti, riprendono esattamente il testo della Bibbia ebraica confermando l'autenticità della scoperta.
(Pianetablu news, 1 ottobre 2016)
Medicina, bioetica e Shoah. Un convegno a Milano
Per l'apertura della mostra «Medicina e Shoah», che sarà visitabile a Milano dal 6 ottobre al 2 novembre presso l'atrio dell'Aula Magna dell'Università Statale, si tiene nel capoluogo lombardo il convegno «Responsabilità della scienza e etica della cura: la lezione della Shoah e le nuove frontiere della bioetica», organizzato dall'ateneo milanese insieme al Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), al centro Politeia e ali' Associazione medica ebraica. I lavori avranno inizio alle 15 di giovedì 6 ottobre presso la Sala di rappresentanza dell'Università Statale (via Festa del Perdono) e proseguiranno per l'intera giornata. Non si parlerà soltanto di come la medicina venne assoggettata ai progetti di purificazione razziale e di sterminio del Terzo Reich, ma anche dei problemi bioetici attuali, oggetto di accese discussioni. Tra i relatori: gli storici Michele Sarfatti e Marcello Pezzetti: l'epistemologo Gilberto Corbellini; il giurista Amedeo Santosuosso: lo scienziato Giuseppe Testa. Presiede l'incontro Laura Boella, docente di Filosofia morale alla Statale di Milano. (j.ch.)
(Corriere della Sera, 1 ottobre 2016)
Israele perde i fondatori ma le radici restano salde
Le nuove generazioni sono più «occidentali» senza perdere il senso di appartenenza e unicità
di Fiamma Nirenstein
É stato triste davvero per tutta quella folla di politici, leader, teste coronate, da Obama a Hollande, da Clinton a Carlo d'Inghilterra, a Donald Tusk, al re Felipe, a Tony Blair e quant'altri mai che con i loro settanta aerei sono piombati all'aeroporto Ben Gurion, dare l'ultimo saluto a Shimon Peres. Sì certo, il dialogo politico filtrava fra le lacrime: importante è stato che Bibi Netanyahu abbia stretto la mano ad Abu Mazen, che Sara lo abbia invitato a cena. Brutto invece che gli arabi israeliani che siedono alla Knesset abbiano deciso di disertare un evento di questa portata. Ma più forte è stata la memoria di tutti gli oratori: Netanyahu, il presidente Rubel Rivlin, i tre figli di Peres, Amos Oz, Barack Obama. Quest'ultimo ha spinto la sua identificazione con Peres fino a sovrapporre, con slancio poetico davvero inaspettato, la sua biografia di girovago, meticcio, gente del mondo con quella del polacco Shimon Persky immigrato a 11 anni.
Ora che Peres se ne è andato salendo con le auto lungo la strada dall'aeroporto a Gerusalemme, ora in via di rapido raddoppiamento contro un traffico frenetico, tutti i Grandi del mondo spiavano il paesaggio circostante per misurare la propria nostalgia sul cambiamento del paesaggio umano e geografico. Peres è stato l'ultimo dei padri fondatori, un eroe d'Israele, e questo lo hanno detto tutti; è colui che non ha mai mancato un appuntamento con la speranza di pace e neppure con la dura difesa del suo piccolo Paese. A parte la costruzione del reattore atomico di Dimona, la costruzione dell'esercito di cui Ben Gurion lo incaricò, ha sempre scelto di combattere con le unghie e con i denti come decise di fare a Entebbe; Peres è l'uomo che chiese all'Onu di espellere l'Iran, che chiamò antisemita Cameron quando disse che Gaza era «un campo di prigionia»; che nel 2009 ha parlato della deprecatissima missione «Piombo fuso» come di un indispensabile momento di autodifesa contro i missili sparati sui civili.
Ma dopo i grandi combattenti, Ben Gurion, Moshe Dayan, Peres stesso, Begin e Shamir, la gente che è venuta a piedi dalla Polonia e dalla Russia, che ha fatto fiorire il deserto e mangiato solo banane e poco pane per anni, che dopo il matrimonio come Peres sono andati a vivere in una tenda seguitando a scrivere poesie mentre imparavano a sparare, chi sono gli israeliani d'oggi? La risposta è scritta nella storia, e in quello che ha detto Netanyahu al funerale: abbiamo tanto discusso, ha detto in sostanza, ma alla fine chi aveva ragione fra il mio punto di vista sicurista e il suo, pacifista? Tutti e due, si è risposto Bibi, e alla fine eravamo diventati amici per questo.
Se si può dare una risposta sintetica e un po' stupefacente alla nostalgia di tanti, essa è: Netanyahu non è distante da Peres. Sentire nostalgia di un uomo ottimista, divertente, colto e instancabile come Peres è quasi necessario, ma immaginare che la sua specie si sia perduta non funziona per Israele. Peres ha fatto da ragazzo il pastore («e non ho mai perso una pecora») e il postino, ma chiunque in Israele ha figli e nipoti che dopo l'esercito hanno faticato parecchio (come cameriere, autista, donna delle pulizie ... ) per guadagnare per lezioni, viaggi, affitto. In Israele faticare non è un problema, come non lo è affrontare il pericolo. I giovani di oggi, come quelli di ieri, lo devono fare: lo fanno. Devono combattere: combattono. Devono inventare: dalla irrigazione a gocce sono passati all'hi tech. Certo, è finito il tempo della penuria di cibo, dell'economia dell'esportazione di arance. Il consumismo ha buon giuoco specie nelle cose che tutti i ragazzi amano, telefonini, auto. Ma la disponibilità verso la comunità si verifica nel gran numero di volontari nei servizi civili, di sicurezza, sanitari, oltre che nella richiesta di servire nelle unità combattenti. I ragazzi sono viziati fino al punto che gli è consentito, le canzoni non sono più fatte di patria e di guerra, ma quando c'è da offrire la vita o da vantarsi del Paese, i giovani israeliani sono come Peres.
(il Giornale, 1 ottobre 2016)
Cyber, chi spinge per rapporti più stretti fra Italia e Israele
di Simona Sotgiu
"Tra Italia e Israele ci sono alcune piccole cooperazioni, prevalentemente in ambito ricerca e sviluppo e in campo accademico, ma sono in crescita". Sono le parole di Ofer Sachs, ambasciatore d'Israele in Italia, intervistato da Cyber Affairs a margine di Cybertech Europe, forum internazionale organizzato da Cybertech Global Events in collaborazione con Leonardo-Finmeccanica a Palazzo dei Congressi a Roma nella giornata di ieri. L'Italia guarda a Israele anche con Enel, che poche settimane fa ha aperto un centro a Tel Aviv, nel cuore del sistema cyber e tecnologico.
Enel in Israele
L'ambasciatore Sachs ha sottolineato il rapporto sempre più stretto tra l'Italia e il Paese che rappresenta: "È un'azione simbolica particolarmente forte e importante per un Paese piccolo come il nostro, perché per competere su scala globale abbiamo bisogno di cooperare con un Paese come l'Italia, che sa come lavorare su una scala così grande. Apprezziamo tantissimo l'unione fra l'innovazione e la tecnologia israeliana e l'abilità imprenditoriale italiana". E aggiunge che la collaborazione non si ferma solo all'ambito tecnologico: "Ritengo - ha proseguito l'ambasciatore - che ci sia piena intenzione di cooperare anche sul versante politico. Le nostre agenzie stanno collaborando e condividendo know-how e informazioni. Ci sono alcune sfide che stiamo affrontando in Israele e che ancora non sono arrivare in Italia - e mi auguro che sia così per sempre -, ma c'è bisogno di essere pronti in breve tempo se ciò dovesse accadere".
Il ruolo centrale di Israele nel mondo cyber
Parlando delle best practice israeliane nei settori della cyber security e dell'innovazione, Sachs ha spiegato che "Israele ha raggiunto questa posizione per due ragioni principali: innanzitutto grazie a un ecosistema di imprenditori, un sistema unico; la seconda, la necessità, che riteniamo essere la 'madre' di tutte le invenzioni. Ciò che facciamo, particolarmente per le Forze della difesa, è investire in giovani brillanti, che non facciamo passare per il classico percorso universitario, ma semplicemente diamo loro la possibilità di essere in un ambiente che è molto ricco di persone come loro: menti brillanti, estremamente innovative. Dopo tre anni, in media, cercano di creare un business proprio e questo crea grandiose opportunità".
"Il governo di Israele - ha aggiunto parlando con Cyber Affairs - ha deciso un paio di anni fa di creare la città di Beer-Sheva come capitale del mondo cyber e il concetto è molto semplice: prendi le élite, unità delle Forze di difesa, dell'università e del settore privato e li metti tutti nello stesso posto. Pensa a un semplice pranzo: un giovane soldato, uno appartenente a una multinazionale e un ricercatore che vanno a pranzo insieme e iniziano a condividere informazioni. Ci accorgiamo che nascono spontaneamente spunti interessanti, e che tutti i soggetti crescono insieme, e anche molto velocemente".
L'apertura di Leonardo-Finmeccanica
Una cooperazione che vede più che disponibile anche Mauro Moretti (qui il suo discorso completo), ad di Leonardo-Finmeccanica, che sempre giovedì scorso intervenendo a Cybertech Europe, ha spiegato che "Leonardo intende rafforzare la propria collaborazione con l'industria della sicurezza israeliana" e che la conferenza, organizzata da Cybertech Global Events in collaborazione con Leonardo-Finmeccanica, "vuole essere un collegamento con l'industria della sicurezza israeliana, allo scopo di promuovere un confronto aperto ed uno scambio concreto di esperienze, ed avviare una collaborazione con il settore cyber israeliano. Bisogna allargare i confini, dal momento che il cyberspace non ne ha".
Cybertech Global Events
Dal 2014, Cybertech è uno dei più grandi eventi a livello mondiale dedicato alle soluzioni cibernetiche. Nato a Tel Aviv (in cui conta più di 10.000 di partecipanti provenienti da oltre 50 nazioni) è uno degli eventi di network più popolari per leader del settore e responsabili di governo in materia di cibernetica, tecnologia, innovazione e investimenti si è tenuto ieri per la prima volta in Europa. Tra le aziende israeliane erano presenti Iai, nel settore della difesa, Check Point, Cyberbit, Cybergym, Iec e Siga.
La presenza di Marco Carrai
"Il mio ruolo è semplice - ha spiegato durante l'evento Marco Carrai, consigliere di Renzi e in procinto di avere un ruolo formale a Palazzo Chigi anche su questioni legate alla sicurezza cibernetica - sono qui come anchorman. Non mi presento, la gente che legge i giornali conosce più cose di me di quanto sappia io", ha detto come riferito ieri da Gianni Dragoni del Sole 24 Ore. Carrai, presidente e fondatore di CmcLabs, ha molte attività nell'ambito della cubersecurity, anche in Israele, ed è infatti lui a presentare Reuven Aronashvili, fondatore e Ceo della società israeliana Hyver: "Vi consiglio di ascoltarlo e per alcuni minuti non armeggiare con i vostri telefonini".
(formiche.net, 1 ottobre 2016)
«Mi cercò per finanziare il memoriale della Shoah»,
di Paola D'Amico
MILANO - «Sono tristissima. È un grande dolore. Per me è come se fosse mancato un fratello. Bernardo Caprotti è stato un grande amico. Era un uomo duro ma molto deciso nelle sue cose e quando prendeva a cuore una situazione era generosissimo». Parla di getto, con la voce carica di commozione, Liliana Segre, la testimone della Shoah che ha riportato alla luce un luogo dimenticato: il binario 21, nella pancia della Stazione Centrale, dal quale tra il dicembre del 1943 e il 15 gennaio 1945 partirono i treni della morte diretti ai campi di concentramento nazisti. Anche Liliana fu deportata, caricata su un carro bestiame diretto ad Auschwitz con il padre. Aveva tredici anni. E una dei pochi sopravvissuti. E ha molto lottato perché quel luogo, in cui è tornata nel 1977, insieme alla Comunità di Sant'Egidio, diventasse un luogo della memoria. «Ho una profonda gratitudine nei confronti di Caprotti. È stato il più grande amico del Memoriale della Shoah. Ne aveva compreso l'importanza per Milano e ha contribuito in modo importante alla sua rinascita. Non era soltanto un imprenditore, ci sono tanti enti che hanno ricevuto un aiuto da lui». Era stato Caprotti a cercare Liliana Segre, un giorno del 2007. «Era rimasto colpito dalla mia storia e voleva fare qualcosa per contribuire a riparare i torti subiti. Senza di lui non avremmo aperto il Memoriale. Nel libro "Falce e carrello" aveva voluto mettere anche una foto mia e del mio papà».