Riapre a Tel Aviv il parlamento dell'intellighenzia israeliana
Sin dai tempi del mandato britannico, il meglio della sinistra israeliana si ritrovava al Cafè Tamar. Fino alla traumatica chiusura nel 2015. Giovedì il leggendario locale ha riaperto con una grande festa. Ma è bastata una serata per capire che quel mondo non esiste più.
di Fabiana Magrì
TEL AVIV - Giovedì sera a Tel Aviv: le feste ebraiche di Sukkot e Simchat Torah si sono appena concluse e una gran folla partecipa all'inaugurazione di "Rega" (che significa "un attimo" in ebraico), un nuovo locale al numero 57 della centralissima Shenkin Street, all'angolo con Ahad Ha'am Street. Per qualcuno è una festa, per altri è quasi una profanazione.
A quello stesso indirizzo, fino a due anni fa, c'era un altro locale. L'insegna con la palma e il numero 1941, data dell'apertura ai tempi del Mandato britannico nell'allora Palestina, davano il benvenuto agli avventori dello storico Cafè Tamar dove, per settantaquattro anni, l'intellighenzia israeliana si è ritrovata ogni giorno come in una sorta di parlamento.
Nei giorni precedenti l'apertura, il viavai degli abitanti del quartiere, sorpresi e curiosi, è stato un continuo. «Che fine ha fatto la palma?» chiede una donna «Da bambina giocavo intorno a quell'albero che affondava le radici nel pavimento del caffè. Nella tettoia avevano fatto un buco per lasciarlo crescere. Per me era una delle sette meraviglie.» Purtroppo la palma è stata sradicata subito dopo la chiusura del Cafè Tamar (tamar significa "dattero" in ebraico), prima ancora che la nuova gestione prendesse possesso degli spazi.
La sera dell'inaugurazione, appoggiate al palo del semaforo, un bicchiere di vino in una mano e una sigaretta nell'altra, un gruppetto di signore della "generazione Tamar" guarda con aria piuttosto scettica il pubblico che spintona per entrare a curiosare l'arredamento vintage, le opere di artisti locali emergenti e un buffet vegano. Che cosa le manca di più del Cafè Tamar? «Mio marito seduto ogni giorno in quell'angolo. E altre persone che oggi non ci sono più.» Hanna Kofler è la vedova di Shmulik Kraus, attore, cantante pop-rock e compositore israeliano morto nel 2013, personaggio controverso per il suo carattere facinoroso ma adorato per l'enorme talento artistico.
Come Kraus, anche lo scrittore Yoram Kaniuk, morto nello stesso anno, era tra gli habitué del Cafè Tamar. «Le loro foto erano in vetrina,» aggiunge Kofler «potevo ritrovarli ogni giorno passandoci davanti.» A differenza loro, il poeta Ronny Someck, gli attori Natan Zahavi, Yossi Pollak e Uri Gavriel, il giornalista Yossi Melman, l'attrice Evelin Hagoel, il regista Doron Tsabari e il giudice Hanan Efrati hanno vissuto le tensioni intorno alla chiusura del locale, nel 2015. Da allora il conduttore radiofonico Eran Sabag si aggira tra i vari caffè del quartiere ma nessun posto ha potuto colmare quel vuoto.
Era il 1956 quando al Cafè Tamar arrivarono Abraham Nahmias e Sarah Stern, una coppia dal sapore biblico, la cui storia d'amore era nata tra le fila dell'esercito inglese, in Egitto. Dopo la morte di Abraham nel 1966, Sarah era rimasta sola dietro il bancone a servire colazioni e spuntini a base di caffè, bagel tostati e rugelach (piccoli cornetti al cioccolato di origine viennese). Come spesso succede alle persone anziane che affrontano cambiamenti traumatici, pochi mesi dopo la chiusura l'ormai novantenne Sarah morì.
Se le pareti del Cafè Tamar erano tappezzate di adesivi di politici di sinistra, manifesti che appoggiavano la fine dell'occupazione dei Territori Palestinesi e il ritorno al potere del primo ministro Yitzhak Rabin, Nobel per la Pace poi assassinato da un estremista ebreo, oggi sui muri del Rega Cafè ci sono poster in edizione limitata di opere di artisti locali emergenti. Il contrasto si fa ancora più forte quando, durante la serata inaugurale, compare Meir Sheetrit, membro della knesset ed ex Ministro delle Finanze, della Giustizia, dei Trasporti e dell'educazione per la Destra del Likud, prima di passare alle fila di Kadima e di Hatnuah, entrambi partiti di Centro.
Nel salotto del Rega è a suo agio, si fa fotografare al fianco di alcuni artisti. Uno dei cinque soci fondatori del nuovo locale è suo figlio David. Hanna Kofler fa spallucce «Sarà soltanto un altro nuovo locale di Tel Aviv» che, oltretutto, ha già la data di scadenza. Tra un "rega" lungo dodici mesi l'edificio al numero 57 di Shenkin Street sarà abbattuto per essere rinnovato dalle fondamenta.
(eastwest.eu, 15 ottobre 2017)
Arabia Saudita e Russia fanno immaginare nuovi scenari in movimento
di Alberto Cossu
Per la prima volta, agli inizi di ottobre, un sovrano saudita si è recato in visita ufficiale a Mosca. Un evento registrato dai giornali internazionali e nazionali ma che nel complesso è scivolato quasi inosservato dall'opinione pubblica senza gli approfondimenti dovuti.
Eppure costituisce un segnale evidente che la politica estera dell'Arabia Saudita può cambiare, cosi come la posizione della Russia verso Ryiad. Insomma potrebbe essere non un evento isolato ma preludere ad una correzione di rotta nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi tale da avere un impatto globale. La Russia e l'Arabia Saudita hanno sempre avuto relazioni piuttosto fredde e da un punto di vista diplomatico si collocano su posizioni distanti sulle principali questioni relative al Medio Oriente. Perciò un segnale di tale forza richiede una riflessione più attenta.
La Arabia è tradizionalmente un alleato degli USA. E la visita del Presidente Trump a maggio di quest'anno ha inteso riaffermare, dopo che il predecessore Obama aveva lasciato raffreddare le relazioni tra i due paesi, la centralità Saudita nella politica estera americana legata al Medio Oriente.
La Russia è uno dei principali alleati dell'Iran paese competitore dell'Arabia per il predominio nell'area del Golfo ed è attivamente presente militarmente in Siria a supporto del regime di Assad. Il regno Saudita, invece, si oppone ad Assad e supporta le forze che intendono destituirlo.
Rispetto al Medio Oriente i sauditi percepiscono gli USA distratti e con l'attenzione focalizzata in altre parti del mondo, refrattari a impegnarsi attivamente e concretamente nella soluzione delle problematiche enormi che sono sul tappeto in quell'area. Questa politica aveva caratterizzato la presidenza Obama e nonostante il viaggio compiuto dal Presidente Trump, sembra dare l'impronta anche a questo inizio di presidenza. La visita del monarca saudita a Mosca lancia un preciso segnale in direzione degli Stati Uniti. Aldilà delle parole sono necessari gesti concreti ed un impegno diretto per superare la crisi.
In questo contesto l'Arabia Saudita intravede nella Russia un attore sempre più importante in Medio Oriente. Considerata l'influenza che esercita sull'Iran e la reputazione che gli altri paesi le riconoscono tra cui anche Israele, la Russia costituisce un paese che potrebbe essere in grado di fornire un realistico supporto per la soluzione della crisi che attanaglia l'area mediorientale.
Il sovrano saudita non si è dimostrato ostile ad un maggior coinvolgimento russo in Siria. Percepisce, infatti, il presidente Putin interessato ad esaminare soluzioni positive. Ha lanciato segnali di disponibilità a rinunciare alla richiesta di deporre Assad purché la Russia eserciti una politica di contenimento nei confronti dell'Iran che è considerato un elemento destabilizzatore dell'area per le sue pretese egemoniche e costanti interferenze.
Ma le ragioni che spingono al dialogo due attori di questo calibro sono anche geo-economiche. Le ansie relative al prezzo del petrolio, già da diversi anni ancorato a livelli molto bassi, uniscono i due paesi che geo-politicamente sono schierati su campi differenti. Il basso prezzo del petrolio sta creando un impatto pesante soprattutto sul bilancio del Regno Saudita. Da quando nel 2014 è iniziata la caduta del prezzo del petrolio il deficit del bilancio statale ha sfiorato i 100 miliardi di dollari annuali e rischia di diventare insostenibile anche per un paese che dispone di risorse valutarie ingenti. Le risorse finanziarie che provengono dalla vendita del petrolio costituiscono, infatti, la principale fonte delle entrate del bilancio dello stato. Pertanto diviene sempre più difficile in carenza di risorse economiche mantenere il welfare ma soprattutto completare la diversificazione della struttura economica del paese e costruire un futuro in cui la rilevanza del petrolio sull'economia sia ridotta.
La Russia ha in parte lo stesso problema in quanto il petrolio costituisce una delle principali voci dell'export in grado di finanziare le entrate statali. Ma può contare su un economia maggiormente diversificata capace di esportare tecnologie militari e civili non comparabile a quella della monarchia saudita. Il calo del prezzo del petrolio e le sanzioni hanno inciso negativamente sulla performance dell'economia della Russia, ma sono stati uno stimolo per cercare soluzioni alternative spingendo ad un maggiore protagonismo nel palcoscenico economico globale.
I due paesi sono uniti dall'obiettivo comune di far balzare verso l'alto il prezzo del petrolio ed in questo modo dare ossigeno alle loro economie. L'Arabia Saudita ha provato in un primo tempo, rinunciando a tagliare la produzione, a far crollare il prezzo del petrolio nel tentativo di mettere in difficoltà gli USA ed i produttori di shale oil. Il gioco non è riuscito perché questi ultimi hanno resistito facendo stabilizzare il prezzo del petrolio su un livello ancora troppo basso per generare guadagni consistenti. Dopo aver rinunciato a tagliare la produzione ora l'Arabia, invece, in accordo con Mosca che ha convinto a partecipare agli eventi dell'OPEC pur non facendone parte, ha attivamente operato tra i membri dell'organizzazione per tagliare la produzione ed ora si prodiga per prolungarli anche nel 2018 nel tentativo di provocare un aggiustamento dei prezzi verso l'alto.
Insomma interessi economici e politici contingenti, che possono diventare di lungo periodo, stanno producendo un cambiamento nel quadro geopolitico e geoeconomici mondiale avvicinando i due colossi della produzione mondiale di risorse energetiche.
Tutto è accaduto in un quadro in cui l'amministrazione Obama ha impresso un forte spinta verso una politica di autonomia energetica degli USA, che ora il Presidente Trump sta solo proseguendo. Gli USA mirano ad utilizzare fonti energetiche proprie ed addirittura a diventare un player nell' esportazione di GNL e petrolio. In questi mesi si registrano le prime esportazioni americane in Europa, in paesi come Polonia ed Italia dove è arrivato il primo carico di GNL ed inoltre in Asia particolarmente in Giappone ed India, dove è stato attivato un contratto per la fornitura di petrolio spezzando la dipendenza di questo paese dalla produzione del OPEC. Ovviamente questo protagonismo americano preoccupa in primo luogo l'Arabia Saudita che ha messo in atto una strategia mirata a ridurre il proprio l'export di petrolio verso gli USA per colpire il paese che ritiene la causa principale dei bassi prezzi. Ma non riesce ancora a vedere i benefici di questa decisione perché i prezzi continuano a rimanere troppo bassi. Inoltre si sta prospettando il rischio di perdere rilevanti quote di mercato cedendole agli USA con la conseguenza che le cose si complichino ulteriormente.
Ovviamente queste dinamiche preoccupano anche la Russia che si vede minacciata direttamente non solo dalle sanzioni occidentali ma da una politica energetica americana che fino a questo momento sta comprimendo i prezzi del petrolio e anche di altre fonti energetiche come il gas naturale liquefatto.
Nel vuoto di iniziative lasciato in Medio Oriente dagli USA e ancor di più dall'Europa la Russia e l'Arabia Saudita possono approfittarne, sebbene spinti principalmente da interessi di carattere principalmente economico, per tentare di percorrere una strada che può portare a delineare delle vie di uscita dalla situazione di crisi mediorientale. La Russia ha tutto l'interesse a percorrere questa strada nel momento in cui ha deciso con l'intervento in Siria di ritornare ad essere protagonista in questo contesto. L'Arabia Saudita, invece, dimostrandosi disponibile ad una soluzione ragionevole in Siria potrebbe trovare la disponibilità di Mosca affinché questa eserciti la sua influenza sull'Iran in funzione di contenimento delle interferenze di questo paese in Medioriente. Questo è quanto ha detto il re Salman nel suo incontro con Putin. Una prospettiva di questo genere sarebbe vista positivamente da entrambe le parti in un momento in cui le risorse economiche per finanziare interventi armati sono scarse. La sintonia per il momento è economica, infatti, sono stati firmati accordi per miliardi di dollari nel settore militare, aerospaziale, dell'estrazione di petrolio. Si è parlato inoltre di un fondo congiunto russo-saudita dotato di un miliardo di dollari per progetti energetici e di un altro, sempre da un miliardo, che investirà in tecnologie.
Il ministro degli esteri russo ha affermato che le relazioni tra Russia e Arabia Saudita hanno raggiunto un nuovo livello qualitativo segnato anche dal fatto che i sauditi hanno dichiarato che sono pronti ad acquistare il sistema di difesa russo S-400.
In conclusione si aprono nuovi scenari di collaborazione per ora di livello geoeconomico ma che nel prossimo futuro possono portare a cambiamenti nella struttura del potere globale come i più attenti analisti internazionali intravedono. La Russia, infatti, può essere in questo contesto il paese più funzionale per bilanciare gli interessi divergenti di Iran e Arabia ed aprire un nuovo scenario nel Medio Oriente. In questo senso vanno le dichiarazioni del vice ministro degli esteri russo Bogdanov che ha dichiarato che la Russia è disponibile per creare una piattaforma per agevolare i contatti tra Arabia Saudita e Iran. Già oggi, come molti osservatori constatano, la reputazione e l'affidabilità della Russia e del presidente Putin, tra i paesi del Medio Oriente ed in particolare Israele è notevolmente aumentata. Gli Stati Uniti non dimostrano con chiare decisioni e comportamenti di voler giocare una leadership rivolta a cercare soluzioni che portano a percorsi di pace a breve termine nell'area. Anche perché la nuova politica di autonomia energetica impone di considerare il contesto mediorientale come sempre meno rilevante strategicamente. Forse è venuto il momento in cui altri player si devono far avanti per tentare di risolvere i problemi mediorientali a cominciare dalla Russia e l'Arabia Saudita che hanno interessi geopolitici e geoeconomici che si possono muovere verso la convergenza al fine di trovare risoluzioni pacifiche che possano generare stabilità di lungo periodo.
(Sputnik Italia, 15 ottobre 2017)
Dopo mezzo secolo la metropolitana che cambierà Tel Aviv
Attesa dagli abitanti dal lontano 1970, la metropolitana di Tel Aviv ha fatto questa settimana un timido esordio concreto quando il suo primo vagone è stato orgogliosamente esposto nel centrale Rothschild Boulevard.
I bambini hanno fatto a gara per correre nell'abitacolo, balzare sui sedili ed indossare occhiali di 'realtà virtuale' con cui hanno potuto immaginare come sarà viaggiare su una ferrovia leggera nelle strade di Tel Aviv.
La prima 'rondine', dunque, si è materializzata. Ma per la 'primavera' dei trasporti di massa occorrerà attendere l'ottobre 2021, quando entrerà in funzione la 'Linea Rossa' lungo un tragitto di 24 chilometri, metà dei quali sotto terra. Finora ne sono stati scavati 2,5 chilometri.
L'esposizione della carrozza è stata concepita dalla società Neta addetta alla realizzazione del progetto per sentire i pareri dei futuri passeggeri e andare incontro ai loro gusti. E su Facebook si leggono già i primi mugugni. Il vagone è "noioso" ed il suo colore bianco "ricorda un ospedale", i sedili "sono scomodi, minimalisti", non ci sono "attacchi Usb". Anche sui nomi delle stazioni c'è chi ha da eccepire.
Il bilancio dell'opera - che una volta in funzione sarà in grado di trasportare 200 mila passeggeri al giorno - è di 17 miliardi di shekel (oltre 4,7 miliardi di franchi). Oltre alla 'Linea Rossa' ne saranno approntate altre due: la 'Verde' e la 'Viola' che dovrebbero essere pronte nel 2024. Allora Tel Aviv sarà comodamente collegata alle principali città satelliti di Herzlya e Petach Tikva, a nord, e di Jaffa e Bat Yam, a sud.
Alla realizzazione del progetto - che sta provocando seri intralci per il traffico automobilistico - partecipano due società cinesi, con équipe che lavorano anche di notte per minimizzare il disturbo. La loro presenza è risultata egualmente sgradita nel sobborgo ortodosso di Bene Braq perchè i macchinari di scavo non possono essere bloccati nemmeno in concomitanza con le solennità religiose. Per il recente digiuno penitenziale del Kippur i rabbini hanno montato una accesa campagna di stampa contro i lavori, ottenendo che i macchinari, se non proprio messi a tacere, almeno non avanzassero quel giorno nelle viscere della terra. Ma cosa succederà quando, una volta in funzione, la ferrovia leggera attraverserà Bene Braq di sabato con le strade affollate da fedeli in uscita dalle sinagoghe?
Secondo il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai (laburista), a differenza degli altri trasporti pubblici, che di sabato si fermano, la metropolitana potrà appunto operare sette giorni la settimana. "Grazie ad una moderna tecnologia - ha spiegato - è in grado di procedere con una guida autonoma", ossia senza un conducente. Se così sarà davvero, la metropolitana avrà un impatto importante nello stile di vita della città.
Alla Neta resta molto lavoro da svolgere. Nel 2018 saranno depositati i binari, nel 2019 saranno installate le apparecchiature di comando e nel 2020 si faranno i primi viaggi di prova. L'inaugurazione, se tutto andrà per il meglio, avverrà nell'autunno 2021. È occorso mezzo secolo: ma la promessa (o meglio: la profezia) del sindaco Rabinovic sta diventando realtà.
(swissinfo.ch, 15 ottobre 2017)
Isis minaccia Israele: su Telegram l'invito a liberare Gerusalemme
La riapertura del valico di Rafah può favorire i miliziani del Califfo
Mentre le autorità egiziane annunciano la riapertura del corridoio umanitario del valico di Rafah per la durata di quattro giorni, per consentire il transito di medicinali e viveri dal Sinai alla Striscia di Gaza, nuove minacce contro Israele sono apparse sui canali Telegram postate proprio da parte di sostenitori palestinesi dell'Isis.
L'invito a liberare Gerusalemme, rivolto ai miliziani del Califfato, è accompagnato da una foto ritraente la Cupola della Roccia e un guerrigliero del Daesh, e ricalca altre immagini che nel recente passato i sostenitori dell'Isis hanno pubblicato sui maggiori social network per perorare attacchi contro Israele.
Ma è la quasi contemporaneità tra la riapertura del valico di Rafah e la pubblicazione dell'immagine a preoccupare l'intelligence israeliana. Infatti, la penisola del Sinai costituisce un invitto baluardo del Daesh a cavallo tra l'Egitto e Israele, e la città di al Arish è la roccaforte della Wilayat Sinai del Califfato dalla quale partono gli attacchi che da mesi impegnano le forze di sicurezza egiziane con altissimi costi in vite umane.
E proprio la massiccia presenza di migliaia di miliziani del Daesh desiderosi di colpire il nemico di sempre partendo dalla base sicura del Sinai potrebbe rendere permeabile il confine a ridosso di Rafah, con i possibili tentativi del Daesh di infiltrare suoi uomini tra i civili in transito e raggiungere Gaza, dove poter contare su appoggi sicuri per tentare di portare attacchi contro lo Stato ebraico.
Il gruppo Alwiyah Naseer Salahuddin, composto da fedeli sostenitori del Califfato e basato a Gaza, sembra essere, agli occhi degli analisti, il candidato a sostenere eventuali mire espansionistiche del Daesh in Terra Santa. I suoi miliziani, infatti, sono pesantemente armati ed equipaggiati e sempre più spesso svolgono anche attività di proselitismo all'interno della striscia di Gaza in favore dell'Isis, presentandolo come unica forza in grado di riconquistare Gerusalemme.
(OFCSreport, 15 ottobre 2017)
L'lsis verso la sconfitta a Raqqa. Ma scoppierà un'altra guerra
Verso la battaglia finale fra i tagliagole islamici e le milizie curde dell'Ypg che conquistano la città grazie all'intervento militare degli Stati Uniti
di Carlo Panella
La caduta certa di Raqqa, non domani, ma da qui a poco (500 foreign fighters hanno deciso di combattervi sino allo spasimo) segnerà la fine del breve governo dell'Isis su uno Stato con una decina di milioni di abitanti.
Ma non segnerà la fine dell'Isis. Non solo, per il modo con cui è stata condotta la campagna per la sua conquista, per le truppe che l'hanno condotta, la caduta di Raqqa segnerà l'inizio di nuove terribili tensioni tra i curdi siro-turchi e la Turchia. Inoltre, la decisione del comando americano-curdo di accettare una trattativa con i miliziani dell'Isis che hanno la possibilità di lasciare indisturbati, e con le armi, la città assediata, addirittura su pullman messi a disposizione dagli assedianti, dà la certezza di una vittoria incompleta, di un compromesso che avrà pesanti conseguenze. Migliaia di miliziani dell'Isis infatti si sposteranno in altri ridotti in Siria per continuare a combattere e molti di loro torneranno nei paesi di origine. Pochi per tornare alla vita normale, moltissimi, per continuare con altri mezzi la loro guerra. La caduta di Raqqa, a differenza da quella di Mosul dove non fu accettato alcun compromesso e si è com battuto sino alla fine, darà quindi probabilmente l'avvio di una nuova pericolosissima campagna terroristica in Medio Oriente e in Europa. I miliziani dell'Isis che lasciano liberamente Raqqa sono infatti guerrieri formidabili, addestrati da anni di combattimento e possono trasformarsi in terroristi devastanti nelle «città degli infedeli».
Per di più, né a Mosul, né oggi a Raqqa, gli assedianti sono riusciti a mettere le mani sulla dirigenza dell'Isìs, ma solo ad ucciderne alcuni esponenti. Abu Bakr al Baghdadi, nonostante i tanti annunci della sua uccisione, è ancora vivo ed è in grado di lanciare nuovi proclami e dare nuovi ordini di morte. E così farà, incrementando i già martellanti proclami ai seguaci per «seminare morte nelle città degli infedeli».
Inoltre, la sciagurata decisione della amministrazione Obama, che quella di Trump non ha potuto smentire, perché presa dai vertici militari Usa, di usare come truppe d'assalto su Raqqa i curdi siriani della Ypg, supportati dall'aviazione Usa e da reparti speciali americani, rafforzerà immensamente la componente curda in Siria. La Ypg, però, non è una organizzazione affidabile, come invece sono i partiti dei curdi iracheni. È marxista - leninista ed è egemonizzata dai curdi turchi del Pkk, che praticano irresponsabilmente il terrorismo in Turchia.
Dunque, la vittoria della Ypg a Raqqa provocherà una forte reazione della Turchia, che ha già un corpo di spedizione in Siria che sta conquistando Idlib, altra roccaforte del Califfato, per impedire che rafforzi lo Stato autonomo curdo-siriano, il Rojava, che si trova a nord della ex capitale del Califfato dell'Isis.
È così facile prevedere che da qui a qualche settimana, il corpo di spedizione turco in Siria e le milizie della Ypg, si affronteranno, perché Ankara deve assolutamente impedire che i 15.000 miliziani Ypg impegnati sinora a Raqqa dirigano la loro forza d'urto a nord, per rafforzare il loro Stato curdo. Stato che costituisce un pericolo mortale per la Turchia perché è un sicuro è formidabile «santuario» per i miliziani curdi del Pkk turco.
Uno scenario intricato ed esplosivo, che ha la sua origine nella demente decisione di Obama di non far mettere ai soldati Usa i boots on the ground contro l'Isìs e di impiegare quindi chiunque fosse disponibile. Anche i curdi dell'Ypg, inaffidabili politicamente e supporter dei terroristi curdi del Pkk. Un disastro.
(Libero, 15 ottobre 2017)
Medioriente, dai conflitti spunta l'Iran
Perché Trump si è mosso
di Maurizio Molinari
Per comprendere la scelta di Donald Trump di contestare all'Iran la violazione dell'accordo sul nucleare bisogna partire da cosa sta avvenendo in Medio Oriente, dove Teheran si profila come il vincitore della guerra siriana proiettandosi nel ruolo di potenza regionale in rapida ascesa.
A poco più di due anni dall'intervento russo in Siria il regime di Bashar Assad sta per cogliere il successo militare e ciò implica un'affermazione strategica dell'Iran di vasta portata. Il successo di Assad è descritto dal terreno: riconquistate Aleppo e Palmira, eliminati i ribelli nel Qalamun ed isolati alla periferia di Damasco, i reparti del regime combattono a Deir ez-Zour, nell'Est, ciò che resta dello Stato Islamico. La resistenza di almeno 15 mila jihadisti è accanita ma i raid aerei russi e americani non gli lasciano scampo: saranno eliminati o fuggiranno entro fine anno, secondo le previsioni prevalenti. Il punto è che la sconfitta dei ribelli sunniti e il declino di Isis implica l'ascesa dell'Iran.
I motivi sono tre. Primo: le forze combattenti più efficaci a fianco di Assad sono state gli Hezbollah libanesi, emanazione di Teheran. Su circa 40 mila effettivi, gli Hezbollah ne schierano in Siria almeno 8000 ed hanno subito circa 1800 perdite. Anche a Deir ez-Zour sono gli Hezbollah che guidano l'offensiva, operando con truppe russe e milizie sciite di più Paesi.
Secondo: sul lato iracheno del confine a comandare è Al-Hashd Al-Sha'abi, le Forze di mobilitazione popolari create dagli sciiti iracheni sul modello di Hezbollah grazie ad armi, fondi ed addestratori iraniani. Ciò significa che l'incontro fra le milizie sciite irachene e gli Hezbollah libanesi sulla frontiera disegnata da Sykes-Picot nel 1916 consente all'Iran di avere il controllo su un'area che va da Teheran a Beirut, passando per Baghdad e Damasco, creando quella «Mezzaluna sciita» che nel 2004 il re giordano Abdullah identificò come il maggiore pericolo per gli Stati sunniti. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l'ex capo della Cia David Petraeus adoperano l'espressione «autostrada sciita» per far comprendere che consentirà a Teheran di avere accesso diretto alle coste del Mediterraneo Orientale, con conseguenze strategiche di rilievo. Dopo l'arrivo di Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno tentato di impedire la nascita di tale «autostrada» spingendo le milizie arabo-curde a insediarsi lungo la sponda orientale dell'Eufrate ma il tentativo, pur portando all'entrata a Raqqa, è fallito perché i russi sono stati più abili nel sostenere l'avanzata concorrente di Assad ed Hezbollah. Di recente reparti curdi, sostenuti dal Pentagono, si sono trovati a breve distanza da unità di Assad affiancate da russi: l'attrito si è risolto con Washington che ha frenato i curdi e Mosca che ha spinto avanti i siriani. Ed è un segno del nuovo equilibrio di forze nella regione, dove ad essere in vantaggio sono i russi. È senza dubbio vero che unità americane sono posizionate ad Al-Tanf, ai confini con la Giordania, e nel Rojava curdosiriano, ma al momento non sembrano in grado di impedire all'Iran di disporre del corridoio terrestre che ridisegna gli equilibri.
Ma non è tutto perché il terzo e decisivo fattore a favore di Teheran è il comportamento della Russia. Nei negoziati svoltisi ad Amman con Usa e Giordania, i russi hanno respinto le richieste di porre limiti geografici alla presenza iraniana in Siria. Anche Israele ha sostenuto tale necessità con Mosca - nell'ultimo incontro al Cremlino di Netanyahu con Putin - ma senza successo. Ciò significa che oltre due anni di combattimenti hanno forgiato un'alleanza Russia-Iran-Siria-Hezbollah a cui Mosca non intende rinunciare considerando l'asse sciita lo strumento più efficace per strappare il Medio Oriente agli Stati Uniti. La conseguenza è una vittoria strategica iraniana che porta la firma di Qasem Soleimani, l'alto ufficiale dei Guardiani della rivoluzione responsabile delle operazioni all'estero, agli ordini diretti del Leader Supremo dell'Iran, Ali Khamenei. Ad accrescere il prestigio militare, e l'influenza politica, di Soleimani c'è quanto avviene in Yemen dove i ribelli houthi, addestrati ed armati da Teheran, tengono in scacco il contingente pansunnita creato da Riad e riescono a bersagliare il territorio saudita con piogge di razzi, mortai e perfino qualche Scud.
La descrizione di tale scenario fa comprendere che l'Iran è la potenza militare in ascesa in Medio Oriente, giovandosi delle debolezze di un fronte sunnita lacerato dalle divisioni interne come la disputa fra Qatar ed Arabia Saudita evidenzia. E trae autorità dal possesso di un programma nucleare legittimato dalla comunità internazionale con gli accordi di Vienna del 2015. L'unico vero grattacapo per Teheran è la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, determinata ad avere sotto il controllo delle sue milizie l'enclave siriana Idlib, proteggendo ciò che resta dell'opposizione sunnita.
Nulla da sorprendersi se Hassan Nasrallah, sceicco di Hezbollah, pronuncia discorsi sulla «vittoria in Siria» così come le indiscrezioni sullo spostamento di sunniti da alcuni quartieri attorno a Damasco lasciano intendere la volontà di consolidare gli sciiti nelle località più strategiche come l'aeroporto internazionale, che Teheran adopera per far arrivare ad Hezbollah in Libano più tipologie di missili. Israele ha condotto dozzine di raid per bloccare tale traffico d'armi ma Hezbollah è comunque riuscito ad ammassare in Libano un arsenale di almeno 150 mila vettori con gittata tale da minacciare l'intero Stato ebraico. Se a ciò aggiungiamo il tentativo di Hezbollah di produrre missili in appositi siti libanesi non è difficile arrivare alla conclusione che una Siria satellite iraniano può innescare un conflitto con Israele destinato a far impallidire il precedente del 2006. Chi più teme tale orizzonte è la Giordania di re Abdallah perché l'«autostrada sciita» la trasforma nell'avamposto sunnita, circondato da reparti filo-iraniani lungo i confini con l'Iraq e la Siria. Amman chiede protezione a Washington così come Gerusalemme fa pressione su Mosca: per impedire che il successo iraniano nella guerra siriana si trasformi nella premessa di una devastante guerra regionale.
È davanti a tale prospettiva che il presidente Trump ha deciso di assumere l'iniziativa puntando a frenare l'avanzata iraniana, aggredendone i pilastri: i Guardiani della rivoluzione, l'arsenale missilistico e il programma nucleare.
(La Stampa, 15 ottobre 2017)
Ebreo e musulmano, ecco l'uomo che aveva capito tutto di Stalin
Lev Nussimbaum, azero di origini russe, convertito all'islam, cambiò il nome in Essad Bey. E scrisse una biografia del dittatore, diventata best seller, che oggi getta luce sul comunismo.
di Marco Respinti
Lev Nussimbaum, noto come Essad Bey
Sembra un personaggio da film, ma Lev Nussimbaum è esistito realmente. Ebreo askhenazita azero di origini russe, nasce in una facoltosa famiglia di petrolieri nel 1905 a Baku, in Azerbaijan. Allevato da una governante tedesca, studia nella facoltà di Orientalistica della Friedrich-Wilhelms Universitàt di Berlino. Ma l'islam lo ammalia e così, il 13 agosto 1922, si converte, 17enne, nell'ambasciata turca della capitale tedesca. Un ebreo islamico, insomma, prima delle sue molte bizzarrie.
Si prende tanto sul serio da cambiare look e nome: ora è Essad Bey, il «principe leone» musulmano (Lev in russo e Essad o Assad in arabo significano "leone"), fascinoso e colto, introdotto nelle cancellerie occidentali. Poliglotta, scrive molto (anche con lo pseudonimo di Kurban Saìd), diventando un autore di grido nell'Italia fascista ( alcuni suoi libri escono solo in italiano) e nella Germania nazionalsocialista che ne apprezzano l'anticomunismo implacabile. Del resto è un amore ricambiato, visto che nel Duce e nel Führer l'ebreo musulmano vede l'ultima speranza della civiltà. È, questa, la seconda delle sue bizzarrie: se Roma e Berlino non nascondevano il filoislamismo, lui aveva pur sempre il medesimo sangue di tanti giudei perseguitati. Infatti, quando se ne scopre la vera identità, Essad Bey cade in disgrazia. Fugge dalla Germania hitleriana e da ultimo ripara, terza bizzarria, nell'Italia mussoliniana dove vive al confino dorato a Positano fino alla morte, nel 1942.
Quarta bizzarria, l'ebreo musulmano filofascista che detestava i rossi, era figlio di Bertha Slutzkin, morta suicida come eroina dell'Unione Sovietica: aveva sposato il ricco padre di Essad Bey, Abraham Nussimbaum (morto poi a Treblinka), solo per infiltrarsi tra i borghesi e preparane la disfatta; scoperta, si era uccisa. Si era persino legata di amicizia al giovane Iosif Vissarionovic Dzugasvlli, il mostro sovietico che Essad Bey poi biograferà in Stalin. La giovinezza del «piccolo padre» sovietico raccontata da un amico d'infanzia, uscito nel 1932 a New York con il titolo Stalin: The Career of a Fanatic, divenuto subito un best-seller e tradotto immediatamente in italiano dai Fratelli Treves di Milano semplicemente come Stalin.
Oggi i libri di questo strano tipo sono guardati dall'alto in basso da un'accademia che lo considera zero per motivi politici (e dall' Azerbaijan che sfida il mondo della critica letteraria negando che il Kurban Said islamico di cui è entusiasta sia la stessa persona dell'Essad Bey ebreo filofascista di cui si vergogna, imitato anche dalla Germania), ma è innegabile che la sua produzione sia un pezzo di storia non obliterabile come si vorrebbero forse obliterare i tombini delle fogne di Roma perché li pose il Duce. Importante dunque che la Oaks Editrice ne ridia alle stampe la succitata vecchia traduzione della biografia di Stalin, corredata da un intrigante saggio introduttivo di Carlo Saccone, professore associato di Lingua e letteratura persiana nell'Università di Bologna. Perché, nonostante la biografia guascona e molta furbizia, le analisi di Essad Bey sul comunismo sovietico sulle vie politiche del petrolio nel Caucaso o sull'islam restano serie.
All'inizio della sua biografia del "piccolo padre" sovietico c'è un distico significativo: «Ignazio di Loiola cominciò come guerriero e come predone, Stalin come pio alunno del seminario georgiano». Entrambi si mutarono nell'esatto contrario e il secondo divenne un "gesuita" della Rivoluzione. Sottile se serviva e rozzo se pagava, lucido e spietato, con lui in Russia giunse al potere il peggio del bolscevismo, e questo dalle pagine di Essad Bey è chiarissimo; ma è che Stalin non ne è per nulla una perversione, bensì il distillato più puro del comunismo. «La mediocrità, il bolscevismo genuino, rozzo, grossolano, ottuso, arrivò inosservatamente ad afferrare il timone», scrive Essad Bey, «esso venerava in Stalin la sua più alta incarnazione, l'uomo della sua carne e del suo sangue, il bolscevico pratico e il cospiratore grossolano».
C'è persino, nel bizzarro «principe musulmano ebreo», un'eco dello storico svizzero della cultura Gonzague de Reynold che ricorda come il destino dell'Europa, classica prima e cristiana poi, sia il confronto estenuante con le mille pressioni dell'Asia, dai persiani all'islam. Essad Bey sottolinea infatti che «Stalin raggiunse il potere come simbolo della maggioranza asiatica» e «nella dittatura egli vide l'unica salvezza della rivoluzione o, meglio ancora, l'unica salvezza dell'imperialismo asiatico e dispotico che riteneva assolutamente adatto per la rivoluzione». Curioso come tutto torni anche nell'Europa di oggi, che è un fantasma, di fronte a un'Asia turgida invece di tentazioni ricorrenti.
(Libero, 15 ottobre 2017)
L'Unesco e un futuro da riscrivere
di Fiamma Nirenstein
Non sarà più, come tutti si aspettavano, un signore sospetto antisemita qatariota, ma di un'ebrea francese di origine marocchina. Il nuovo capo dell'Unesco non è, cioè, Hamad bib AbdulazizAl Kawari, ex ministro della Cultura del Paese arabo miliardario che tutti si aspettavano, ma Audrey Azoulay, ex ministra della Cultura. Nata nella famiglia prestigiosa di un banchiere, Andre Azoulay consigliere del re Mohammed VI, laureata in Francia all'Ena, niente è scritto nel suo dna sul futuro dell'organizzazione che si è pregiata in questi anni di perseguitare Israele assegnando al patrimonio islamico tutti i luoghi più certificati della cultura ebraica: il Muro del Pianto, Gerusalemme tutta intera, e anche la Tomba dei Patriarchi. Sono note anche delle sue iniziative anti israeliane, tanto che il ministro dell'Intelligence Yisrael Katz prima si è fatto scudo: «Non aspettiamoci che diventi un'organizzazione sionista». Poi ha detto: «Se cambia politica, certamente Israele può riconsiderare le cose».
Perché la Azulay è molto abile, e subito la sua prima mossa è stata chiedere agli Usa e a Israele di ripensarci, e sa bene che questo non può avvenire gratis. Come è accaduto che la Azulay ce l'abbia fatta, è da ascrivere a circostanze geopolitiche molto larghe: magari il ritiro degli Usa dall'Unesco non è stata la molla immediata, ma di sicuro ha costruito le quinte favorevoli della situazione geopolitica mediorentale causa dell'evento.
Infatti il sentiero alla leadership della Azulay è stato pavimentato dalla divisione del mondo arabo dopo l'embargo dell'Arabia Saudita e di molti paesi sunniti subita dal Qatar. L'Egitto, parte dello schieramento anti Qatar, antiraniano e anti Fratellanza Musulmana, ha presentato un suo candidato, Mushira Khattab: così il mondo arabo, in genere compatto contro l'imperialismo occidentale, e soprattutto sionista, si è spaccato. La Azulay ce l'ha fatta con sei round. Quarantacinquenne, elegante e graziosa, era stata nominata ministro della cultura un anno, una giovane di sinistra che ha danzato solo nella stagione Hollande. Ma ora le posizioni troppo di sinistra sono problematiche all'Unesco, e la Azulay cercherà, probabilmente, di fare il suo primo grande colpo spingendo gli Usa a tornare sulle sue decisioni. È una donna abituata al successo, arrivata al ministero ha subito ottenuto una crescita del budget dopo anni di tagli e si è dedicata a una legge in favore della «creazione e retaggio». Adesso, si trova nelle mani un'organizzazione che tratta la cultura nel mondo come terreno di cattura per le sue battaglie politiche contro l'Occidente e Israele in particolare. Vedremo, intanto il Qatar non è là.
(il Giornale, 15 ottobre 2017)
«Perché cercate il vivente tra i morti?»
Durante il sabato si riposarono, secondo il comandamento. Ma il primo giorno della settimana, di buon mattino, esse si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparato. E trovarono che la pietra era stata rotolata dal sepolcro. Ma quando entrarono non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre se ne stavano perplesse di questo, ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti. Tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: «Perché cercate il vivente tra i morti? Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand'era ancora in Galilea, dicendo che il Figlio dell'uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare». Ed esse si ricordarono delle sue parole.
Dal Vangelo di Luca, cap. 24
Memoria della deportazione degli ebrei di Roma
ROMA - Domenica 15 ottobre 2017, alle ore 18.30, una marcia silenziosa si snoderà a ritroso da Piazza S. Maria in Trastevere lungo il percorso dei deportati di quel 16 ottobre 1943, che dal quartiere ebraico furono condotti al Collegio militare a Trastevere prima di essere imprigionati nei treni con destinazione Auschwitz-Birkenau fino al Portico di Ottavia.
Il 16 ottobre 1943, durante l'occupazione nazista di Roma, oltre 1.000 ebrei romani furono presi e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Solo un esiguo numero, 16 persone, tra cui una sola donna, tornarono alle loro case. A 74 anni dalla deportazione degli ebrei romani, la Comunità di Sant'Egidio e la Comunità Ebraica di Roma, come ogni anno dal 1994, ricordano questo tragico momento della vita della città con un "pellegrinaggio della memoria".
Il ricordo del 16 ottobre 1943 è un fatto decisivo per rafforzare la coesione sociale di Roma, in un momento segnato da risorgenti episodi di razzismo, ed è significativa la presenza, crescente lungo gli anni, di giovani - studenti delle scuole e università romane - e di immigrati "nuovi italiani", insieme a cittadini di ogni età. La marcia silenziosa per le vie di Trastevere e del quartiere ebraico sarà accompagnata da alcuni cartelli con i nomi dei campi di concentramento nazisti e si concluderà presso il Tempio maggiore di Roma con gli interventi di alcune personalità.
(Fidest, 14 ottobre 2017)
LItalia e lo specchio del pregiudizio
Lo studio della Fondazione Cdec in collaborazione con Ipsos mette a fuoco il pensiero degli italiani.
La percezione della presenza di ebrei in Italia
La crisi economica, l'emergenza umanitaria legata ai migranti, il tema dell'integrazione, il terrorismo. Sono i principali elementi di cui si discute oggi nel dibattito pubblico: partiti che fomentano sentimenti di insicurezza e paura guadagnano sempre più consensi in Europa e non solo. D'altra parte, la lentezza delle istituzioni nel rispondere a queste problematiche facilita la strada a chi cerca di guadagnare il potere attraverso la retorica xenofoba e creando confusione senza però proporre ricette reali. E in questo quadro di una società la cui tenuta democratica rischia di vacillare e che vive una profonda crisi identitaria torna ad essere interessante, come termometro della situazione, analizzare il tema del pregiudizio e in particolar modo di quello anti-ebraico, da sempre cartina di torna sole delle dinamiche sociali. A farlo, l'indagine "Stereotipi e pregiudizi degli italiani", voluta dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano in collaborazione con la società di analisi e ricerche di mercato IPSOS. Realizzata nell'ambito di un progetto sulla storia dell'antisemitismo coordinato dall'Università Statale di Mila110, con la partecipazione di Università La Sapienza di Roma, Università di Genova e di Pisa. Una ricerca già effettuata dieci anni fa e che permette di capire se vi sono stati cambiamenti all'interno della società italiana rispetto ai rapporti con i propri concittadini ebrei. Tra i dati emersi dallo studio presentato a Roma dal direttore del CD EC Gadi Luzzatto Voghera, dalla sociologa Betti Guetta, responsabile dell'Osservatorio Antisemitismo della fondazione, assieme al presidente IPSOS Nando Pagnoncelli uno fa riflettere: moltissime persone non hanno opinioni né conoscenze del mondo ebraico, ovvero vi è un area grigia molto ampia che può essere considerata un'area vergine da coltivare in modo proficuo ma che può diventare un'area appetibile per chi spinge alla crescita dei sentimenti xenofobi. Così è accaduto - come ricordato in queste pagine - in Germania, dove ha votare il partito xenofobo sono stati molti elettori di quella zona grigia.
Si legge nella relazione di accompagnamento all'indagine, i cui dati salienti sono stati illustrati in prima battuta da Pagnoncelli: "Era probabile che alla fine l'incapacità di progettare come risolvere alcune questioni di vitale importanza per le persone che abitano la loro vita, avrebbe prodotto rabbia, rancore, razzismo, complotti e rigurgiti fascisti. In questo quadro di 'smottamento sociale' quello che resta stabile è il pensiero stereotipato, i pregiudizi. Una costante in termini quantitativi. La cosa straordinaria almeno per ora (sperando che le cose non peggiorino ulteriormente) è che l'immagine degli ebrei, i luoghi comuni, gli stereotipi non siano cresciuti ma siano stabili".
È aumentata l'intolleranza verso gli immigrati, la xenofobia, cresce il pensiero di destra e, come è stato osservato, ci si sarebbe potuti aspettare un balzo in avanti dell'antisemitismo, Invece i dati, a distanza di dieci anni dal primo studio, sono rimasti quasi invariati. Una stabilità che conferma che gli ebrei rappresentano nell'immaginario collettivo qualcosa di fisso che, è stato fatto notare, "prescinde dagli episodi dell'attualità, della politica, dell'economia".
Come appare dalla ricerca la conoscenza degli ebrei è in genere piuttosto scarsa. Solo pochi tra gli intervistati indicano infatti correttamente la quantità di ebrei presenti in Italia, mentre la maggioranza assoluta non sa esprimersi e molti (il 36%) ne sovrastimano la presenza. Gli ebrei sono in perlopiù percepiti come una comunità coesa e solidale al proprio interno, capace di fare affari, secondo uno stereotipo storico. Tanto che la prima caratterizzazione, spiega la ricerca, "è data dalla convinzione che siano capaci di manovrare la fìnanza mondiale a proprio vantaggio.
Per quanto concerne gli atteggiamenti di fondo verso gli ebrei, il gruppo prevalente appare, per la scarsa informazione generale, quello dei neutrali (41% oggi, 43% 10 anni fa). Cioè quelli che non prendono cioè posizione su gran parte delle affermazioni testate. Sono i più distanti dalla politica, un po' più residenti nel Sud del paese, tendenzialmente più giovani della media della popolazione. Vi sono poi due gruppi speculari e di analoga consistenza: in primis quello di chi non ha pregiudizi (15% oggi, 13% nel 2007), cioè che non aderisce a nessuno o quasi degli stereotipi testati. Sono giovani, con un livello di scolarizzazione elevato, maggiormente presenti nel Nord Est, di sinistra e non credenti, soddisfatti delle proprie relazioni con atteggiamenti di apertura verso gli immigrati. All'estremo opposto il gruppo degli antisemiti (11% oggi, 12% dieci anni fa), che aderiscono a tutti o quasi gli stereotipi testati. "Gli antisemiti - si legge nella relazione - si caratterizzano per essere maggiormente uomini, di bassa istruzione, più presenti al Sud, di destra, con un'elevata ostilità verso gli immigrati" Infine esiste un gruppo articolato di ambivalenti, cioè di intervistati che aderiscono solo ad alcuni degli stereotipi. Sono complessivamente il 33% degli italiani (32% nel 2007) che si suddividono a loro volta in tre gruppi di circa il 10% ciascuno: i contemporanei, che reputano che gli ebrei strumentalizzino la loro storia per giustificare la politica di Israele, trasformandosi così da vittime in aggressori. In maggioranza persone di sinistra, di buona scolarizzazione, maggiormente residenti al Nord.
Quindi i classici che ritengono gli ebrei persone subdole, non affidabili, non integrate con gli italiani. E questo un gruppo di età elevata, "di centrosinistra e con una presenza consistente di cattolici praticanti" Infine gli ambivalenti moderni che ritengono gli ebrei un gruppo con vasto potere politico ed economico, fedeli a Israele e non all'Italia. "Di età medio/'alta - spiega la ricerca - tendono a collocarsi di più al centro dello schieramento politico, cattolici saltuari, sono un po' più residenti nel centroNord, le cosiddette 'regioni rosse". In buona parte degli intervistati (il 46%) vi è inoltre la convinzione che gli italiani abbiano una vena antisemita, prodotta da un mix di atteggiamenti antiebraici e antiisraeliani. Per quanto concerne la specifica realtà israeliana, anche in questo caso la maggioranza relativa non si esprime. Circa il 30% invece richiede un atteggiamento più duro della comunità internazionale nei confronti di Israele "a causa dei suoi comportamenti verso i palestinesi" e perché il conflitto israelo-palestinese "è percepito come una delle concause del terrorismo internazionale". Ma dall'altra parte si pensa anche che tutto sommato Israele sia uno Stato che cerca la convivenza pacifica con i suoi vicini. E la maggioranza assoluta ritiene che per appianare il conflitto siano necessari due Stati.
La ricerca si apre con un focus sull'immigrazione, il grande tema di oggi. Dai dati emersi si apprende che due gruppi numericamente equivalenti si contrappongono: quello di chi risponde che i migranti dovrebbero essere accolti tutti in quanto persone in fuga dalla fame o dalla guerra (25,4%) e chi invece risponde che bisognerebbe respingere tutti perché l'Italia non può accogliere più nessuno (24%). In mezzo la maggioranza (44,4%), che ritiene necessario accogliere solo i rifugiati politici.
Per molti inoltre in Italia ci sono troppi immigrati e l'immigrazione ha messo a dura prova i servizi pubblici e il mercato del lavoro. Ma c'è anche un quarto circa degli intervistati che esprime un giudizio positivo: l'immigrazione è un bene per l'economia e contribuisce alla sprovincializzazione del paese.
Il multiculturalismo in genere non convince. Molti intervistati esprimono infatti bisogno di rassicurazione: per la maggioranza (54%) le culture di minoranza devono adattarsi alla cultura della maggioranza. La migrazione da paesi islamici è considerata una minaccia per l'Occidente per il 60,8% degli intervistati, mentre l'Islam appare una religione troppo tradizionalista e incapace di adattarsi al presente per il 65,5%. Tuttavia il 44,7% pensa che i musulmani abbiano il diritto di costruire le loro moschee in Italia, (opinione non condivisa dal 31,8%) e questo dato, si legge, "evidenza una discreta tolleranza". Per quanto riguarda la Shoah maggioranza degli intervistati (52.9%) pensa che sia stata una grande tragedia insieme ad altre di cui si parla meno mentre circa un terzo pensa che la Shoah sia stata la più grande tragedia dell'umanità (34,6). Il resto del campione si divide tra chi dichiara di non sapere cosa sia (9%) e chi la nega (3,5%).
(Pagine Ebraiche, ottobre 2017)
Con le risoluzioni su Gerusalemme e Hebron l'Unesco ha perso la propria credibilità
Lettera al Direttore di La Stampa
Caro Direttore,
ritengo pienamente condivisibile la scelta di Stati Uniti e Israele di uscire dall'Unesco. L'organizzazione Onu è diventata, da tempo, l'espressione del più feroce fanatismo islamico che, come il nazismo, intende riscrivere a suo piacimento la storia. Ormai questi regimi hanno il controllo economico di molte istituzioni culturali e universitarie internazionali e le usano per dettare falsi storici a loro uso e consumo. I governi europei dovrebbero avere il coraggio di rifiutare tali imposizioni.
Antonello Pennes
Caro Pennese,
la decisione dell'amministrazione Trump di uscire dall'Unesco, seguita da un analogo passo di Israele, si deve alla recente approvazione da parte della stessa organizzazione di due risoluzioni che, con formulazioni lessicali differenti, hanno negato il legame dell'ebraismo con i luoghi santi di Gerusalemme e Hebron. Poiché Gerusalemme è la città verso la quale gli ebrei pregano - ed in cui vivono - da oltre tremila anni e Hebron ospita le tombe dei patriarchi del Vecchio Testamento, Abramo, Isacco e Giacobbe, tali risoluzioni hanno evidenziato un'ostilità preconcetta nei confronti di una delle tre grandi fedi monoteiste. Tutto ciò stride con il fatto che l'Unesco ha per missione la tutela del patrimonio culturale universale. Si è trattato di un evidente duplice vulnus, morale prima che politico, che delegittima la credibilità dell'organizzazione stessa.
Ma c'è dell'altro perché la negazione del legame storico fra gli ebrei e la terra d'Israele - così definita dal Vecchio Testamento - è sin dalla fine dell'Ottocento il principale argomento adoperato per delegittimare il sionismo prima e la nascita dello Stato ebraico poi. I leader arabi, di più Paesi, che negli ultimi cento anni si sono opposti all'esistenza di Israele hanno sostenuto l'inesistenza di legami storici e religiosi fra gli ebrei e quella terra. Con le suddette risoluzioni l'Unesco si è dunque fatta strumento delle posizioni più estreme del nazionalismo arabo, fatte proprie oggi dal fondamentalismo islamico.
Tutto ciò stride con quanto sta avvenendo sul terreno oggi in Medio Oriente, dove i rapporti fra Israele e Paesi arabi sunniti vivono una stagione di vivacità senza precedenti a cui in molti guardano nella convinzione che possa portare anche ad una composizione del conflitto israelo-palestinese. Insomma, mentre Paesi arabi ed Israele sono protagonisti di un dialogo senza precedenti, l'Unesco si è fatta portavoce dell'intolleranza che vuole ostacolare proprio tale riavvicinamento.
(La Stampa, 14 ottobre 2017)
Il varesino che salvò centinaia di ebrei . La sua storia diventerà presto un film
Mauro Campiotti ha in cantiere un pellicola sull'impresa di Calogero Marrone
di Laura Botter
Calogero Marrone
Mauro Campiotti è pronto a rimettersi dietro la macchina da presa e la storia di Calogero Marrone diventerà un film.
La coraggiosa e drammatica vicenda del Capo dell'Ufficio Anagrafe del Comune di Varese ha ispirato il regista varesino Mauro Campiotti che spiega: «è in corso uno studio di fattibilità. Stiamo verificando se ci sono energie, forza civica e culturale per affrontare un progetto di questo genere». Non si sbilancia completamente, ma «l'impressione è positiva».
Più di un'idea
La prudenza del regista non è tanto una forma di garanzia, ma il frutto di un insegnamento: «il mio maestro mi diceva di non pensare di aver mai fatto un film, finchè non sarà proiettato sul muro».
Marrone, cui nei mesi scorsi l'amministrazione comunale di Varese ha dedicato una strada cittadina, è certamente una figura coinvolgente ed interessante. Un uomo, riconosciuto "Giusto tra le nazioni", che, durante il periodo fascista e l'occupazione tedesca, ebbe il coraggio di mettere a repentaglio la propria vita per proteggere persone di origine ebraica e antifascisti. Azioni che gli costarono la deportazione nel campo di Dachau, dove morì il 15 febbraio 1945.
«Sono di Varese - prosegue Campiotti - e ho scoperto questo personaggio perché lo si incontra inevitabilmente affrontando certe tematiche. Ha una bella personalità di uomo italiano e siciliano in particolare. Dal Sud si è trasferito per lavoro al Nord. C'è un bel filo rosso che collega Sicilia, in particolare Favara che è il suo paese natio, dove effettueremo le riprese, e Varese».
Se tutto andrà per il meglio, il lungometraggio si girerà in prevalenza nella Città Giardino e nei suoi dintorni. E anche comparse e attori verranno selezionati principalmente sul territorio cittadino, unitamente a tecnici ed artistici, come ad esempio i membri della nostra Orchestra Civica. Attualmente «si sta ancora lavorando alla sceneggiatura e, se tutto va in porto, il film poterebbe essere pronto per la fine del 2018». Tutte le novità arriveranno «presto anche tramite una comunicazione attraverso i Social Network. Troveremo il modo di tenerci agganciati al territorio a livello di contenuto ed economico».
«Da insegnare ai ragazzi»
Per coadiuvare la realizzazione della sceneggiatura, è prevista anche una ricerca storica che ha come tema centrale la nostra città e i luoghi della memoria nel momento più tragico del nostro Paese. Le diverse fasi del progetto «verranno dettagliate con una apposita campagna». Intanto la prossima settimana la Giunta del Comune di Varese discuterà l'assegnazione del patrocinio al progetto.
Come amministrazione non possiamo che sostenere questa importante iniziativa - dichiara il sindaco Davide Galimberti - La produzione del film che si intende realizzare infatti vuole essere un'occasione per evidenziare le gesta del funzionario tramite il racconto e la rappresentazione cinematografica con una diffusione e distribuzione del film a livello nazionale. Questa importante iniziativa rappresenta inoltre una grande opportunità di trasmettere anche ai più giovani, attraverso una modalità più moderna e innovativa come quella di un film e del cinema, i valori di libertà e democrazia che guidarono i Giusti tra le nazioni di cui Marrone fa a pieno titolo parte».
(La Provincia di Varese, 14 ottobre 2017)
La ricetta vincente? Menù e solidarietà
Crescono i ristoranti che offrono un servizio sociale di impiego a giovani disagiati. Come nel caso di due locali in Israele
di Fabiana Magri
Le storie migliori, si sa, si condividono a tavola. Poi ci sono occasioni in cui la storia più meritevole da raccontare è quella della tavola stessa. Da quando Jamie Oliver in Inghilterra ha portato all'attenzione internazionale il format del ristorante come 'impresa sociale' con il primo Fifteen a Londra nel 2002 - seguito da Amsterdam nel 2004 (ma chiuso nel 2016) e Cornwall nel 2006 - altri locali con la doppia vocazione, business e sociale, sono comparsi in tutto il mondo.
Anche se non si può parlare di una tendenza diffusa perché si tratta di poche eccellenze isolate, il mondo ebraico non è rimasto a guardare. AII'Head Room Café di Londra e nei ristoranti israeliani Liliyot a Tel Aviv e Anna a Gerusalemme, la cucina è kosher e mangiare qui vale una mitzvah. "Sip. Shop. Share" ovvero "Sorseggia. Acquista. Condividi" è l'invito dell'Head Room Café, situato nel quartiere fortemente multietnico Golders Green di Londra, dove la presenza ebraica è particolarmente numerosa. La caffetteria offre anche un'ampia scelta di piatti kosher halavi, sia a pranzo sia a cena. Il locale è anche negozio e punto di raccolta di abiti e accessori vintage e di seconda mano. Questo per quanto riguarda il business. Dietrol'Head Room Café c'è Jarni, il servizio di salute mentale della Comunità Ebraica di Londra. L'obiettivo è il recupero degli individui con disordini mentali attraverso un'esperienza professionale qualificante. La sfida di Jami è seguire le persone nel percorso di reinserimento nella comunità - ebraica e non solo - come membri attivi, aiutandole ad acquisire responsabilità sempre maggiori e il controllo della propria vita.
«Un'impresa sociale», spiega Tamar Levine, responsabile marketing di Dualis, fondo per gli investimenti sociali attivo in Israele, «è un business che ha come scopo migliorare la società e contribuire al benessere degli individui appartenenti alle fasce deboli della comunità. Si utilizzano strumenti aziendali», continua Levine, «per affrontare le problematiche sociali».
Ne parliamo a Tel Aviv, sedute a tavola al Liliyot, davanti a uno sfizioso menu basari. L'ambiente è elegante ma informale, i tavoli si riempiono in fretta intorno all'ora di pranzo. Nella zona ci sono molti uffici, privati e pubblici: il tribunale di Tel Aviv, il Tel Aviv Museum of Art, il Performing Arts Center, il Teatro Cameri e quello dell'Opera, ambasciate e ospedali. Facciamo un giro nelle cucine, dove il lavoro è frenetico e Anat, sguardo amorevole ma fermo, lavora fianco a fianco con i ragazzi, trattandoli da pari a pari. Ogni anno una dozzina di casi sono selezionati dalle liste di giovani considerati a rischio, con background diversi come disoccupazione cronica, criminalità, disturbi dell'attenzione. Anat, e i servizi sociali li preparano alla professione di cuoco per un periodo di un anno e mezzo, dando loro istruzione, formazione e un contratto. I giovani che partecipano al programma sono trattati come dipendenti ordinari: ricevono uno stipendio fin dal primo giorno in cui entrano nelle cucine del ristorante Liliyot, hanno obblighi e responsabilità come qualunque membro dello staff. «La chiave del successo delle imprese sociali, sia in termini di affari sia di empowerment delle risorse», ribadisce con convinzione Levine, «è competere sul mercato come tutte le altre attività, perseguire e generare un profitto. La differenza è che questo profitto sarà reinvestito nuovamente nel business.» Se è vero che la maggior parte dei ragazzi acquisisce un'indipendenza e una stabilità economica e riesce a trovare lavoro in ristoranti e caffè di prestigio nel panorama culinario israeliano, «questa esperienza è importante soprattutto a lungo termine», spiega Anat in una pausa dopo il picco di lavoro del pranzo, «anche per chi non vuole proseguire con la professione della cucina. Quello che è importante per questi ragazzi è conquistare fiducia in se stessi, metodo e disciplina. Le prime lezioni sono proprio queste: presentarsi in orario, indossare una divisa, tenerla in ordine, svolgere mansioni sia basilari sia più complesse.»
Anche Anna, ristorante italiano a Gerusalemme, è una creatura di Dualis. La cucina è guidata da Nirnrod (Nimi) Norman, chef del gruppo Mona, giganti della ristorazione in Israele. Il ristorante porta il nome di Anna Ticho, cugina dell'oftalmologo
Avraham Albert Ticho, ed è situato al primo piano e nel giardino della loro casa, poco fuori le mura della Città Vecchia. L'edificio fu costruito nella seconda metà del XIX secolo da un dignitario arabo, poi acquistata dai Ticho nel 1924. Già allora, e fino alla morte di Anna nel 1980, la struttura aveva una vocazione sociale: il piano terra era adibito a clinica oftalmica per la popolazione di Gerusalemme, senza distinzione di reddito. Oggi la casa è un interessante museo e un ottimo ristorante dove rigenerare palato e coscienza.
(Shalom, settembre 2017)
Trump non firma l'intesa con Teheran: «L'Iran sostiene i terroristi contro Israele»
Sconfessato Obama
Donald Trump e Hassan Rohani
L'Iran è sotto «il controllo di un regime fanatico» che sostiene il terrorismo, ha detto ieri il presidente americano Donald Trump nel discorso alla Casa Bianca con cui ha annunciato la nuova politica americana contro «il regime canaglia iraniano». Come era stato anticipato da Rex Tillerson, Trump ha annunciato che chiederà al Congresso di imporre nuove sanzioni contro i Guardiani della Rivoluzione per le loro attività a sostegno del terrorismo.
L'obiettivo da abbattere, dichiara, è l'accordo sul nucleare iraniano «una delle peggiori intese che gli Stati Uniti abbiano mai raggiunto», che consente alla comunità internazionale di effettuare «controlli deboli». «Quale è l'obiettivo di un accordo che nella migliore delle ipotesi si limita a rinviare le capacità nucleari dell'Iran per un breve periodo?», ha chiesto.
«La storia ci ha mostrato che più a lungo ignoriamo una minaccia, più pericolosa questa minaccia diventa», ha detto ancora Trump nel discorso pronunciato nella Diplomatic Reception Room alla Casa Bianca, osservando che, «mentre gli Stati Uniti rispettano gli impegni presi con l'accordo, il regime iraniano continua a sostenere conflitti, terrorismo e disordine in tutto il Medio Oriente ed oltre».
Dunque, nella sostanza Trump non certificherà al Congresso l'accordo sul nucleare con l'Iran, la «dittatura» che ha «addestrato al Qaeda» e «nascosto Osama bin Laden», ma per il momento non si ritira dall'intesa siglata con Teheran e il resto della comunità internazionale nel giugno del 2015. Al Congresso e agli alleati, invece, chiede che ne sia negoziato uno nuovo. Altrimenti, ha detto, «cancellerò» quello attuale.
(Libero, 14 ottobre 2017)
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E' una scelta coraggiosa: non è con il pacifismo che si batte il terrorismo
Teheran arma tutte le guerre contro Usa e Israele. Putin e Ue fingono che non sia così.
di Fiamma Nirenstein
La «decertificazione» del trattato del 2015 fra l'Iran e i P5 più uno è una mossa audace e strategica, dalle conseguenze di lunga durata e con un forte significato di rottura, anche se Trump dalla cancellazione dell'accordo è passato a proporre di cambiarlo profondamente. Ma il tono è molto deciso: nel passare la sua decisione al Congresso, ha promesso che se esso non si deciderà a rivederlo, sarà lui stesso a cancellarlo. Insomma: Trump cerca un approccio che non irriti troppo il mondo che tiene per l'accordo, anche perché cancellarlo cessa il flusso di affari e può spingere l'Iran a una corsa veloce al nucleare, ma avverte la comunità internazionale e il suo Congresso: se non vi decidete a intervenire, passerò alla cancellazione. Non sembra impressionato dalla reazione preventiva dell'Iran: «Se Trump insiste saremo noi a cancellare l'accordo», né dall'Ue che come sempre invita alla prudenza.
L'accordo contiene di fatto degli errori impensabili, dettati dal timore di Obama di arrivare alla rottura: l'impossibilita dell'agenzia atomica l'Aea di verificare lo stato dell'arricchimento dell'uranio perché è esclusa dalla visita agli impianti militari; la previsione che l'accordo si esaurirà fra meno di tredici anni restituendo all'Iran la corsa alla bomba; non comprendendo nell'accordo i missili balistici destinati al trasporto di testate atomiche. L'accordo quindi, ha avuto la caratteristiche di ringalluzzire le ambizioni degli ayatollah e della Guardia Rivoluzionaria (segnata da Trump a dito per sanzioni), un insieme violento, antidemocratico, persecutorio nei confronti dell'Occidente che vuole schiacciare secondo i dettami islamici più estremi. Obama temette di chiedere a Teheran qualsiasi rinuncia seria (è mai possibile ritenere 15 anni un tempo ragionevole per cessare dalla costruzione dell'atomica?), rispondendo al fanatismo con il pacifismo. Questo ha impedito di vedere quello che Trump ha denunciato ieri: l'Iran è un paese terrorista che ha interesse a restare tale, e agisce contro gli interessi americani e di tutto il mondo. In Siria, in Libano, in Iraq, in Yemen, in Iraq, l'Iran suscita guerre come quella che gli consente ora dalla Siria di minacciare la vita di Israele. La minaccia di morte a Israele e all'America è l'inno di guerra delle piazze di Teheran. I Paesi Sunniti tutti, i più quieti e amici dell'Occidente, si sentono traditi e fuggono dal rapporto con gli Usa per approdare alla Russia e alla Cina. Trump vuole dunque cambiare gli accordi, anche per il danno economico procurato al suo paese dal flusso di danaro manipolato dall'Iran, speso in armi e guerra.
Trump non cancella l'accordo, ma lo mette nelle mani del congresso perché sia l'assemblea elettiva degli Usa a stabilire se le sanzioni debbano tornare a definire il rapporto con gli ayatollah. E' un'inversione a «U», un ritorno dell'America sulla scena mondiale, una posizione anche morale contro un Paese che perseguita i dissidenti, impicca gli omosessuali e prevede la lapidazione delle donne. Anche la fuoriuscita dall'Unesco è una dichiarazione di guerra all'unilateralismo delle istituzioni internazionali. Le critiche sono molto serie, e altrettanto possono essere le conseguenze. L'Iran si può mettere di nuovo ventre a terra a costruire la bomba; l'Europa, almeno in queste settimane, sarà il difensore d'ufficio dell'accordo, e anche Putin è contro gli Usa. Ma questo è il prezzo dei cambiamenti in corso. L'accordo è pericolosissimo, mezzo mondo lo sa: l'altra metà, lo nega, come accadde col Nord Corea.
(il Giornale, 14 ottobre 2017)
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Nucleare iraniano: il salto nel buio di Trump che potrebbe accelerare la guerra
Premesso che l'accordo sul nucleare iraniano fa schifo, premesso che il Presidente Trump ha ragione quando dice che quell'accordo non impedirà a Teheran di dotarsi di armi nucleari e che l'Iran è un pericolo mortale per tutto il mondo, tutto ciò premesso la decisione presa ieri dal Presidente americano di "decertificare" l'accordo sul nucleare iraniano, decisione che con ogni probabilità sancirà l'uscita unilaterale degli USA dall'accordo con l'Iran attraverso l'INARA (Iran Nuclear Agreement Review Act), è un bel salto ne buio per tutta una serie di motivi.
Il primo motivo che mi viene in mente più che un vero e proprio motivo è una domanda: whats now? Cosa succede adesso? L'impressione che si ha è che il Presidente Trump non abbia una strategia post-accordo il che in un quadro già complesso come quello mediorientale è un po' come procedere a tentoni. Cosa faranno gli Stati Uniti per impedire che l'Iran ottenga ordigni nucleari? Cosa faranno al prossimo test balistico iraniano? Non sono domande da nulla....
(Right Reporters, 14 ottobre 2017)
Svolta Unesco, una vittoria di Israele
La direttrice promette: «L'agenzia tornerà universale, non deve più essere coinvolta nelle battaglie politiche»
Audrey Azoulay, ex ministra francese, ebrea di origine araba. Dovrà rilanciare l'ente dopo l'addio di Washington e Gerusalemme
Battuto il candidato del Qatar, favorito alla vigilia, osteggiato da Trump e Netanyahu ma anche dagli altri Paesi islamici
di Francesca Pierantozzi
Audrey Azoulay
PARIGI - Toccherà a Audrey Azoulay, ex ministra della Cultura francese, famiglia ebrea e marocchina, economista convertita alla cultura, rimettere insieme i cocci dell'Unesco. Ieri sera, al termine di una settimana horribilis per l'Agenzia dell'Onu per l' educazione, la scienza e la cultura, Azoulay è stata eletta nuova direttrice generale dell'Organizzazione, abbandonata da Usa e Israele e lacerata da un'elezione che si è trasformata in una guerra mondiale. Alla fine gli arabi presenti nel Consiglio esecutivo hanno votato in maggioranza per Azoulay (partita nettamente sfavorita) pur di bloccare la strada al qatariota Hamad bin Abdoulaziz al-Kawari, anche lui ex ministro della Cultura, accusato di antisemitismo, e soprattutto messo al bando da Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, e Bahrein.
La prima volta
Mai prima d'ora un francese era arrivato alla testa dell'Unesco: di norma, gli enti internazionali non sono mai diretti da un membro originario del paese in cui si trova la sua sede. Gli arabi avevano da subito rivendicato alto e forte il loro turno a ottenere il posto supremo ma sono arrivati divisi all' elezione, funestata dall'abbandono, due giorni fa, degli Stati Uniti (che hanno criticato la posizione «troppo politica» e soprattutto «anti israeliana» dell'Agenzia) e poi di Israele. Ieri si sono addirittura sparse le voci che una vera e propria operazione di corruzione era in atto da parte dei qatarioti per favorire l'elezione del loro candidato - promosso al ballottaggio finale - mentre si svolgeva lo "spareggio" tra Azoulay e l'egiziana Moushira Khattab, arrivate ex aequo in seconda posizione. La suspense si è conclusa intorno alle 19, la francese ha battuto il qatariota, aggiudicandosi 30 dei 58 voti del Consiglio esecutivo. La nuova direttrice, che succede alla bulgara Irina Bokova, avrà un compito non facile: «Non tocca né agli arabi, né alla Francia, adesso è il turno dell'Unesco, che arriva a una svolta della sua storia e deve entrare nel XXI secolo», ha detto.
Un campo di battaglia
Un ingresso nel secolo che comincia sotto i peggiori auspici. Ad Azoulay spetterà la difficile missione di rimettere in piedi un'Organizzazione di cui tutti lodano le intenzioni e tutti criticano l'operato, arrivando perfino a considerarne ineluttabile la chiusura. Costi di funzionamento considerati aberranti, risultati - in particolare per quanto riguarda l' educazione - criticati come insufficienti, azioni spesso denunciate come troppo "politiche" e soprattutto un Consiglio diventato campo di battaglia della geopolitica mondiale. L'ammissione della Palestina nel 2011 come stato membro aveva provocato una prima, profonda spaccatura, con Usa e Israele che avevano sospeso i loro contributi, azzoppando in modo drammatico il bilancio dell'Agenzia. A luglio, la decisione di considerare Hebron, in Cisgiordania, come "sito palestinese" minacciato di distruzione o degrado da parte di Israele è stato visto come l'ultimo atto ostile. La bocciatura del candidato del Qatar ha probabilmente evitato l'implosione dell'Ente. L'ex ministra di Hollande ha già annunciato che intende ridare all'Unesco la sua originaria vocazione «universale», sottraendola alle battaglie «politiche». Direzione che non dovrebbe dispiacere ai fuoriusciti americani e israeliani. Il primo, arduo, compito sarà di riportare la pace nell'immenso palazzo di vetro e cemento dell'avenue Suffren, così come recita il motto fondatore: «Rinsaldando attraverso l'educazione, la scienza e la cultura, la collaborazione tra le nazioni».
(Il Messaggero, 14 ottobre 2017)
Donald Trump: "(Un)esco"
Lettera al Direttore del Foglio
Trump, per una volta, ha fatto una cosa di buon senso, e resta un mistero perché ci siano ancora così tanti paesi di buon senso, come l'Italia, che di fronte a un'agenzia delle Nazioni Unite che definisce Israele una "potenza occupante" a Gerusalemme e che assegna all'islam e ai palestinesi la sovranità della tomba dei patriarchi a Hebron, dove sono seppelliti Isacco, Giacobbe e alcune delle loro mogli, negando i legami con la tradizione ebraica di quello che è considerato il secondo luogo più sacro dell'ebraismo, restino lì fermi senza fare nulla. L'Unesco, da anni, è la capofila di una Shoah culturale contro lo stato ebraico e ci sarebbe solo una condizione affinché possa dimostrare di aver cambiato direzione: dichiarare Israele patrimonio dell'umanità. Se si volesse davvero dare un senso alla sua spallata (giusta) all'Unesco forse converrebbe partire da qui.
Giuliano Cazzola
(Il Foglio, 14 ottobre 2017)
L'uscita di USA e Israele dall'UNESCO indica una crescente sintonia tra i due Paesi
di Alessandro Guetta
Gli USA hanno reso noto che entro fine 2018 usciranno dall'UNESCO, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, per divenirne osservatori permanenti contribuendo con opinioni, prospettive e conoscenze specialistiche; l'annuncio del ritiro degli USA è stato seguito dall'annuncio del ritiro di Israele in parallelo con gli USA.
Tali mosse parallele giungono in concomitanza con la festività ebraica di Succot e dopo un anno di tensioni in seno all'UNESCO che, nell'ottobre 2016, su richiesta di Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan a nome della protezione del patrimonio culturale palestinese, ha adottato una risoluzione che nega il legame millenario tra il popolo ebraico e la Città Vecchia di Gerusalemme e quindi tra gli ebrei e il Monte del Tempio, definito Spianata delle Moschee, e il Muro del Pianto, avvantaggiando la Palestina, entrata nell'UNESCO nel 2011, nelle sue pretese su Gerusalemme, relativamente alla quale Israele è definita "potenza occupante" e quindi, secondo una risoluzione del luglio 2017, priva di sovranità su Città Vecchia e Gerusalemme Est; inoltre, in un vertice a Cracovia, l'UNESCO ha definito la Tomba dei Patriarchi a Hebron un "sito palestinese".
Le motivazioni degli USA sono la necessità di una riforma dell'UNESCO e la sua tendenza anti-Israele.
La decisione del Presidente Trump, la cui figlia Ivanka è sposata con l'ebreo Jared Kushner e convertita all'ebraismo dal 2009, è stata accolta con rammarico dalla comunità internazionale salvo Israele il cui Premier Netanyahu l'ha definita "coraggiosa e morale" perché "l'UNESCO è diventato un teatro dell'assurdo che distorce la storia invece che preservarla".
L'uscita degli USA dall'UNESCO fa seguito alla decisione di non finanziare l'UNESCO presa nel 2011 dopo l'ingresso della Palestina e, implicando una maggiore tendenza anti-Israele, ha peraltro indotto Israele a fare la stessa mossa sancendo l'avvio di una "nuova era all'ONU".
USA e Israele agiscono sempre più in sintonia quindi, come già sta avvenendo relativamente alla questione del nucleare iraniano.
La crescente sintonia tra USA e Israele riduce l'isolamento internazionale di Israele e potrebbe spingere altri paesi alleati degli USA a seguirne l'esempio.
(La Voce, 14 ottobre 2017)
All'Unesco comandano i carnefici di LiuXioobo, Asia Bibi e dei dissidenti iraniani
di Giulio Meotti
ROMA - Scossa dall'uscita annunciata di Stati Uniti e Israele, l'Unesco si prepara ad accogliere il nuovo segretario generale, l'ex ministro della Cultura francese, Audrey Azoulay, eletta ieri sera. La crisi con l'America e lo stato ebraico si è consumata stavolta sui "pregiudizi anti israeliani" palesi da parte dell'agenzia dell'Onu per la cultura, l'educazione e la scienza (le risoluzioni antisemite su Gerusalemme e Hebron). Ma c'è di più. C'è che nel board esecutivo dell'Unesco, l'autogoverno dell'agenzia, siedono alcuni dei regimi più oppressivi della terra per la cultura.
C'è il Libano, che ha appena arrestato il regista Ziad Doueiri all'aeroporto di Beirut di ritorno dalla mostra del cinema di Venezia. Doueiri è stato accusato di "collaborazionismo con Israele" per aver girato alcune scene nello stato ebraico. C'è la Cina, che ha appena lasciato morire in carcere Liu Xiaobo, lo scrittore e premio Nobel, l'autore di Carta 08, manifesto per la democrazia in Cina, condannato a undici anni di detenzione per "istigazione alla sovversione", passato anche dai campi di rieducazione al lavoro. La morte in carcere di un poeta ha riportato alla memoria il terribile Novecento di Osip Mandel'stam, IsaakBabel e Dietrich Bonhoeffer.
All'Unesco c'è l'Iran, dove Rahim Safavi, capo dei pasdaran della Repubblica islamica, aveva promesso: "Dovremo tagliare la gola a qualcuno e la lingua a qualche altro". La Repubblica islamica è oggi la più grande persecutrice al mondo di scrittori, poeti, editori. Come il poeta Said Sultanpour, rapito il giorno del matrimonio del figlio e ucciso in prigione a Teheran. L'Iran di Siamak Pourzand, che si è gettato dal sesto piano della sua abitazione a Teheran. Era uno scrittore e un decano del giornalismo iraniano, accusato di aver dichiarato la "guerra contro Dio" e di "consumo di vino". Scriveva per la rivista francese di critica cinematografica Cahiers du Cinéma. C'è l'Algeria, dove gli imam sono liberi di condannare a morte scrittori come Kamel Daoud. Ci sono paesi, come Camerun, Ciad, Oman, Sudan e Uganda, dove scrittori, poeti e giornalisti sono gettati in carcere e perseguitati soltanto per sillabare qualcosa di ironico sui regimi al potere, dove non esiste libertà editoriale, accademica, letteraria. C'è il Pakistan, il paese dove una donna cristiana, Asia Bibi, sconta in carcere la propria condanna a morte da viva, "rea" di blasfemia, con la famiglia che si nasconde, l'avvocato minacciato di morte, governatori e ministri uccisi perché intervenuti a sua difesa. C'è l'Egitto, dove scrittori come Ahmed Naji, l'autore del romanzo "Using life", sono arrestati e imprigionati per "oscenità", per aver descritto la vita sessuale degli egiziani. C'è il Qatar, dove il poeta Rashid al Ajami ha scontato tre anni di prigione per aver composto una poesia critica del sovrano, l'emiro al Thani. Negli anni Ottanta, Stati Uniti e Inghilterra uscirono dall'Unesco di fronte al grottesco più assurdo propugnato dall'Unione sovietica e dai suoi alleati. Mosca era riuscita a imporre all'ordine del giorno un orwelliano "nuovo ordinamento mondiale dell'informazione e della comunicazione", in cui l'Unesco propugnò il filtraggio delle notizie attraverso Minculpop nazionali, discriminando fra le notizie "utili" ai cittadini e quelle "nocive".
Trent'anni dopo, le satrapie africani e mediorientali sono riuscite a impossessarsi a loro volta della cittadella della cultura, usando la propria posizione per mettere a tacere le critiche ai propri regimi e ideologie, comuniste e islamiste. Nell'emiciclo di Place de Fontenoy, dove c'è la sede dell'Unesco a Parigi, costruita da Pier Luigi Nervi con gli affreschi di Pablo Picasso, oggi comandano i carnefici della cultura.
(Il Foglio, 14 ottobre 2017)
La riconciliazione porterà alla distruzione di Hamas?
Riprendiamo questo articolo da un sito filo-Hamas. Anche da quelle parti ci sono perplessità e interrogativi. NsI
di Amira Abo el-Fetouh
Non criticherò ulteriormente Hamas o la nostra gente nella Striscia di Gaza. Hanno sopportato ciò che nessun altro umano avrebbe potuto sopportare, tra cui tre guerre in dieci anni condotte da Israele e un assedio economico soffocante imposto dal nemico israeliano e dai loro fratelli in Egitto che controllano l'attraversamento di Rafah impedendo che gli aiuti forniti da paesi di tutto il mondo entrassero. Hanno subito scarsità di medicinali, di cibo e di materiali da costruzione, mentre l'ANP traditrice - guidata da Mahmoud Abbas - ha tagliato gli stipendi dei dipendenti e non ha pagato le bollette elettriche all'occupazione, tagliando così l'elettricità nella Striscia di Gaza. Ciò ha indotto gli abitanti di Gaza a vivere nell'oscurità, mentre le apparecchiature negli ospedali e nelle istituzioni vitali non sono state alimentate.
Gli abitanti di Gaza vivono una vita difficile, ma, nonostante questo, hanno sostenuto il loro governo, Hamas, che hanno eletto, anche se tutto il mondo vi si è opposto e l'ha accusato di terrorismo. Questa è stata la carta giocata dal governo golpista in Egitto per degradare Hamas e costringerlo ad aderire alle sue condizioni per la riconciliazione con Fatah, vale a dire dimettersi permettendo all'ANP di governare la Striscia di Gaza.
È un fatto ben noto che Al-Sisi odia la Fratellanza Musulmana e che considera Hamas parte della Fratellanza, questo spiega la sua ostilità verso il movimento e i suoi sforzi per intensificare l'assedio imposto a Gaza. Lo ha fatto per spingere i Gazawi alla rivolta contro Hamas e a rovesciarla, ma quando ciò non è accaduto, ha fatto ricorso alla riconciliazione tra Fatah e Hamas e tenendo nuove elezioni attraverso cui Hamas può essere sconfitto.
E' ricorso a questo malgrado gli sforzi passati per conciliare i due partiti, compresi i tentativi a Jeddah durante il governo del defunto re Abdullah, noto come accordo di Jeddah e gli altri tentativi al Cairo e nel Qatar, entrambi conclusi nel fallimento.
Cos'è cambiato ora che potrebbe portare al successo della riconciliazione, che è senza dubbio necessaria e desiderata da tutti? In primo luogo, l'ambiente internazionale è completamente cambiato. Inoltre, il successo delle controrivoluzioni e la posizione di Hamas sulla rivoluzione siriana e il suo rifiuto della guerra contro il suo popolo hanno influenzato le relazioni con l'Iran, il sostenitore principale della rivoluzione. Questo ha lasciato Hamas da solo ad affrontare le trame del mondo.
Inoltre, il cambiamento nella leadership, l'assunzione di Ismail Haniyah dell'ufficio politico e di Yahya Sinwar a capo del movimento nella Striscia di Gaza ha causato un cambiamento nelle politiche del movimento. Hamas ha anche giocato sul conflitto tra Mahmoud Abbas e Muhammad Dahlan. Ha svolto un ruolo importante nella realizzazione di questa riconciliazione, attuata con l'arrivo del primo ministro Rami Hamdallah nella Striscia di Gaza e la sua presa del potere dopo che Hamas ha sciolto il comitato amministrativo attraverso il quale ha governato la Striscia di Gaza. Naturalmente, il controllo dei valichi sarà consegnato dall'Egitto a Israele, che è un desiderio dell'Egitto più che degli israeliani.
A mio parere, il punto più importante che la riconciliazione non ha affrontato è la forza militare di Hamas, cioè le brigate Qassam, l'ala militare di Hamas. Naturalmente il governo egiziano e l'ANP vogliono smantellare le Brigate di Qassam e disarmarle: ciò è anche la richiesta israeliana e americana, in quanto gli Stati Uniti e Israele non appoggeranno gli sforzi di riconciliazione senza una promessa da parte di Al-Sisi e Abbas di raggiungere questo importante obiettivo. Non sono rimasti delusi, poiché appena il primo ministro palestinese è arrivato a Gaza, Mahmoud Abbas ha immediatamente pubblicato una dichiarazione affermando che non permetterà l'esistenza delle armi al di fuori dell'autorità dello Stato.
Qui risiede il pericolo della riconciliazione e solleva dubbi sul fatto che il vero scopo sia quello di eliminare Hamas in quanto movimento di resistenza e disarmarlo. Questo è ciò che temo.
Sarà così semplice l'eliminazione delle brigate Qassam, quando l'esercito e l'equipaggiamento di Israele non saranno in grado di sconfiggerle, spingendo così Israele a consegnare il compito ai palestinesi in modo che si possano combattere a vicenda, causando una guerra palestinese-palestinese, simile a quelle in Siria, Iraq, Yemen e Libia? È questo il nuovo piano per sbarazzarsi dell'ultima forma di resistenza della nazione contro l'occupazione israeliana? Hamas distruggerà se stessa con questa riconciliazione? Queste domande e altre ancora riceveranno risposta nei prossimi giorni. Non diremo ancora addio a Hamas, ma arrivederci a presto.
(infopal, 14 ottobre 2017 - trad. Bushra Al Said)
Gli Usa fuori dall'Unesco. «Pregiudizi su Israele». Esce pure Gerusalemme
Washington abbandona l'organismo in polemica con le scelte «troppo filo palestinesi». Decisiva la decisione di includere la Palestina come membro nel 2011.
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Sembra che l'Unesco non possa più fare proprio tutto quello che gli pare, assegnare la tomba a Hebron dei patriarchi ebrei Abramo, Isacco e Giacobbe al patrimonio islamico come ha fatto quest'anno in luglio, o dichiarare che Gerusalemme, compreso il muro del Pianto, è tutta quanta araba e appartiene all'islam anch'essa. Magari dovrà organizzarsi diversamente, abbandonare la sua totale arbitrarietà interessata, come quando ha dichiarato Asmara patrimonio dell'umanità o ha fatto un piacere alla Cina esaltando la riserva naturale tibetana di Hoh Xil Qinghai (Achen Gnagyap in tibetano) come se la Cina la preservasse e non la occupasse, fra le proteste dei tibetani. E soprattutto, piantarla con la persecuzione di Israele.
L'organizzazione scientifica e culturale delle Nazioni Unite ha esagerato lasciandosi scappare il suo vecchio tic antimperialista e terzomondista, per il quale era già stata lasciata degli Usa nel 1984 e dall'Inghilterra nel 1985 (poi rientrare di fronte a promesse non mantenute). Ultimamente ha voluto sbalordire il mondo con la sua inverosimile ignoranza nella negazione di ogni radice ebraica in Israele. Ha detto l'ambasciatore all'Onu di Israele Danny Danon che «finalmente qui si paga un prezzo per le vergognose decisioni adottate negli anni passati», e che forse «si è arrivati all'alba di una nuova era in cui prendere ingiustificate e aggressive decisioni antisraeliane ha una conseguenza».
Nikki Haley. Ambasciatore degli Stati Uniti all'ONU
La svolta ha la faccia giovane e decisa della rappresentante dell'amministrazione Trump all'Onu, un viso da indiana, Nikki Haley, che fin dal primo giorno avverti dagli scranni dell'organizzazione: così non si può continuare, non ci stiamo più ad avallare il pregiudizio, le continue ossessive e fantasmagoriche risoluzioni che scippano gli ebrei della loro appartenenza storica alla terra d'Israele, negando per esempio che la tomba dei patriarchi di Hebron sia loro retaggio e facendo lo stesso con la città che per gli ebrei è la vita stessa: Gerusalemme. Un segnale di amicizia non solo culturale, ma anche politica di fronte all'islam estremo, il terrorismo, la palude mediorentale, e adesso, all'orizzonte, la questione dell'accordo con l'Iran da cui Trump intende ritirare gli Usa.
C'è anche la spesa ingente che tutto il mondo paga per l'Unesco, gli Usa le devono 500 milioni, e Rex Tyllerson vuole imporre una politica che «fermi il sangue». L'Unesco è ostile da sempre agli Usa, lo ripaga con scelte controverse, debolucce, spesso interessate. La portavoce del Dipartimento ha annunciato che «la decisione non è stata presa a cuor leggero, ma riflette le preoccupazioni americane su molte mancanze, il bisogno di riforme fondamentali, e il continuo pregiudizio contro Israele». E dopo gli Usa anche Gerusalemme annuncia il suo addio all'organizzazione, sempre per lo stesso motivo. Rappresaglia per l'ingresso della Palestina (formalmente l'Anp di Abu Mazen) nel 2011 ma soprattutto le risoluzioni su Gerusalemme quella che ha suscitato le controversie più profonde. Il premier israeliano Benjamin Netanyhau aveva definito la decisione degli Usa di lasciare come una scelta «coraggiosa ed etica, dato che l'Unesco è diventata un teatro dell'assurdo e perché, invece di preservare la storia, la distorce».
Chiudendo l'ovile dopo la fuga delle pecore, l'Unesco ha evitato la votazione di un remake delle solite dichiarazione che niente è ebraico. Ma ormai è tardi. È in predicato di divenire presidente dell'organizzazione dopo Irina Bokova, che se ne va, un personaggio addirittura in odore di antisemitismo militante e diffusione di libelli, Hamad bin Abdulaziz al Kawari, del Qatar, che nelle votazioni guida con 20 dei 30 voti necessari; al secondo posto appare Audrey Azoulay, francese, come al Kawari ex ministro degli esteri, con 13 voti per ora. Giovedì l'eventuale ballottaggio. Chiunque vinca, l'Onu è avvertito: il disinvestimento dall'Unesco può diventare disinvestimento dall'Onu.
(il Giornale, 13 ottobre 2017)
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L'America esce dall'Unesco, ormai diventata la casa di chi impicca e rade al suolo
Quell'«omicidio simbolico» di Israele
di Giulio Meotti
Quelli si attaccano i valori fondamentali dell'occidente", disse Jean Gerard, ambasciatrice americana all'Unesco, nell'annunciare nel 1984 la decisione degli Stati Uniti di uscire dall'agenzia dell'Onu per la cultura. Sono trascorsi più di trent'anni e la scena si è ripetuta ieri, quando il dipartimento di stato ha certificato all'Unesco la decisione di uscire e di diventare "osservatore" - la stessa cosa, sempre ieri, l'ha fatta Israele, annunciando l'uscita dall'Unesco. Una decisione che, dicono a Washington, "non è stata presa a cuor leggero e riflette le preoccupazioni degli Stati Uniti per il crescente arretramento dell'Unesco, per la necessità di una fondamentale riforma dell'organizzazione e per i suoi persistenti pregiudizi anti Israele". All'epoca in cui Ronald Reagan e Margaret Thatcher abbandonarono l'Unesco, questa era dominata dal blocco sovietico terzo mondista e l'America accusò l'agenzia di politicizzazione, sperperi e pregiudiziali anti israeliane. Sulla scia della guerra del Kippur, per iniziativa dei paesi arabi, l'Unesco aveva escluso Israele da ogni gruppo. Nel 1984 l'America non escluse di rientrare, "se le condizioni migliorano". Accadde soltanto nel 2002. Speriamo che stavolta lo strappo possa ricucirsi prima. Nel 2011, già l'Amministrazione Obama aveva deciso di sospendere i fondi all'Unesco a causa dell'ingresso della "Palestina" fra i membri. All'epoca di Reagan, l'Unesco subiva il ricatto dei paesi sotto influenza sovietica, quando l'allora segretario generale dell'Unesco, il musulmano senegalese Amadou-Mahtar M'Bow, proclamava nella Ville Lumière che "i paesi del Terzo mondo sono i portatori della speranza nel pianeta". Oggi nel board siedono 58 paesi. Di questi, secondo Freedom House, 20 sono "parzialmente liberi", 15 "non liberi" e 23 "liberi". Dittature e autocrazie islamiche e africane dominano ancora la commissione mondiale delle idee (il Sudan di Omar al Bashir, ricercato per genocidio dall'Aia, siede nel board esecutivo dell'agenzia). E il sessanta per cento del bilancio finisce ancora in stipendi. L'America esce a pochi giorni dalla scelta del nuovo capo dell'Unesco, dove si profila una gara fra i due ex ministri della Cultura di Francia e Qatar, Audrey Azoulay e Hamad al Kawari. Se la più alta istanza mondiale della cultura finisse nelle mani dell'emirato qatariota, sponsor mondiale dell'islam politico (Hamas, Hezbollah, Jabat al Nusra, Talebani) e delle risoluzioni che quest'anno hanno cancellato le radici ebraiche (e cristiane) di Gerusalemme e Hebron, l'Unesco invierebbe all'America il segnale che la situazione non è recuperabile, ma anche che l'abbandono dell'Unesco da parte dell'occidente ai "non allineati" e alla mezzaluna, gli stati che impiccano, mutilano e spalleggiano chi ha raso al suolo Palmira, si era già consumato da tempo. Un anno fa, lo scrittore algerino Boualem Sansal al convegno del Foglio a Roma disse che l'Unesco aveva compiuto un "omicidio simbolico": "Sta dicendo che gli ebrei non hanno nulla a che fare con Israele, vengono da altrove, torneranno lì". Con una simile agenzia dell'Onu non dialoghi, gli chiudi i rubinetti, lo intimorisci, lo metti all'angolo e speri che rinsavisca, smettendo di essere quella che Jean-François Revel definì "l'internazionale della menzogna". Una bugia, ripetuta molte volte, finisce per diventare verità, diceva il ministro della Propaganda nazista Goebbels. Di bugie, su Israele, l'Unesco ne ha dette tante, troppe. E il terreno che le accoglie è sempre più fertile e una bugia va tagliata prima che, una volta ben radicata, diventi una quercia.
(Il Foglio, 13 ottobre 2017)
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Le troppe distrazioni dell'Italia sull'Unesco
Dopo la decisione americana di rompere con l'agenzia per la cultura delle Nazioni Unite a causa della manifesta ostilità nei confronti di Israele
di Paolo Mieli
La decisione statunitense di lasciare, entro il 31 dicembre, l'Unesco (che non finanziavano più già dal 2011), a causa della sua comprovata ostilità allo Stato di Israele, non è manifestamente impropria e sarà utile, si spera, a puntare un riflettore sull'inesorabile deriva presa negli ultimi decenni dall'agenzia culturale delle Nazioni Unite. A partire dal 2018 gli Stati Uniti resteranno a Parigi dove ha sede l'Unesco come «osservatori», sia pure da «non membri». È una decisione presa in extremis, appena un attimo prima che sia nominato alla guida dell'Unesco stessa un esponente politico del Qatar, Hamad bin Abdulaziz Kawari, che, al primo voto per l'importante incarico, ha ottenuto il maggior numero di suffragi. E il Qatar ricordiamolo è da tempo identificato come uno dei quattro o cinque Paesi al mondo più inclini ad alimentare il fondamentalismo islamico. In Italia questo problema è poco avvertito ed è ipotizzabile che all'origine della nostra distrazione sia la generosità con la quale l'emiro Tamim bin Hamad Al Thani si è sempre mostrato disponibile a investire nel nostro Paese. L'indulgenza italiana nei confronti del Qatar è iniziata ai tempi del governo presieduto da Mario Monti: l'economia per usare un eufemismo andava male e i soldi dell'emirato, in quell'emergenza, furono considerati benvenuti. Vanno inserite in questo quadro una serie di operazioni immobiliari e finanziarie in Italia.
Il Qatar ha acquistato grattacieli a Milano, un bel pezzo di Costa Smeralda, il gruppo Valentino, una parte del gruppo Cremonini, numerosi hotel di lusso. Oltre allo stanziamento di venticinque milioni di euro per la costruzione di oltre trenta moschee e centri islamici nel nostro Paese. Ai tempi in cui presidente del Consiglio era Matteo Renzi, l'ex ministro della Cultura del Qatar, il succitato al Kawari, fu ricevuto dal ministro dell'Istruzione Stefania Giannini per un accordo con l'università romana di Tor Vergata che gli conferì una laurea «honoris causa» (concessa in maniera assai affrettata, tra i mugugni degli accademici più sensibili al decoro del loro ateneo). Un anno fa Kawari incontrò di nuovo Stefania Giannini e stavolta anche il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan assieme a quello della Cultura Dario Franceschini. Quest'«operazione simpatia» (accompagnata dalla promessa di nuove generose elargizioni) ha fatto sì che l'Italia lo abbia sempre appoggiato per l'elezione a Direttore generale dell'Unesco come successore dell'attuale direttrice, la bulgara Irina Bokova. Shimon Samuels, direttore del Centro Wiesenthal, a questo punto ha ricordato alla distratta Italia e agli altri sponsor del discusso uomo politico che fu proprio Kawari a far designare nel 2010 sempre dall'Unesco Doha «capitale della cultura araba»: dopodiché nella fiera internazionale del libro della principale città del Qatar furono esposti ben trentacinque titoli antisemiti tra cui nove edizioni dei Protocolli dei Savi di Sion e quattro del Mein Kampf. Kawari come proprio ieri ha ricordato sul Foglio Giulio Meotti ha per di più curato (firmandone la prefazione) Jerusalem in the Eyes of the Poets. Un libro che avvalendosi di una testimonianza di Roger Garaudy, l'ex comunista francese convertito all'islamismo più radicale denuncia il «controllo degli ebrei» (sottolineiamo: qui si parla di ebrei, non di israeliani) su media e case editrici degli Stati Uniti. Quanto a Israele, il volume prefato da Kawari stabilisce che lo Stato ebraico «è responsabile per la guerra civile in Libano, per la prima e la seconda Guerra del golfo, per l'invasione dell'Iraq e dell'Afghanistan, per il caos in Sudan e in Egitto».
Ma come è possibile che personaggi del genere siano anche solo presi in considerazione per guidare l'Unesco? La risposta è sempre la stessa. Il Qatar ha «donato» all'Unesco dieci milioni di dollari (non è il solo: l'Arabia Saudita ne regalò venti e il re Abdullah fu immediatamente insignito della medaglia per «la cultura del dialogo e della pace»). Per quel che riguarda l'Italia, poi, dobbiamo considerarci recidivi in questo genere di impresa: in passato sostenemmo la nomina a quello stesso incarico dell'esponente egiziano Farouk Hosni. Hosni poi saltò allorché vennero rese note alcune sue prese di posizione inequivocabilmente antiebraiche (tra l'altro come ministro della Cultura si era detto disponibile a bruciare «di persona» libri israeliani nel caso qualcuno avesse pensato di introdurli nella biblioteca di Alessandria e aveva fatto bandire dalle sale cinematografiche il film «Schindler's List»).
Può bastare? No. C'è un problema specifico tra Unesco e Israele. Esattamente un anno fa l'Unesco ha approvato una mozione in cui il Muro del Pianto non veniva più identificata con il nome ebraico «Kotel» ma con quello arabo «al Burak». A un tempo la Spianata delle moschee di Gerusalemme considerata sacra sia dai musulmani che dagli ebrei veniva chiamata solo con il nome islamico Al Haram Al Sharif. Ne è venuta fuori una tempesta intercontinentale. Persino la Bokova, protestò: «L'eredità di Gerusalemme è indivisibile, e ciascuna delle sue comunità ha diritto al riconoscimento esplicito della sua storia e del rapporto con la città», disse. Anche l'Italia, che al momento del voto su questa imbarazzante risoluzione si era astenuta, fu costretta a rivedere le proprie posizioni. Si dirà: sono controversie che hanno origini recenti e hanno colto i nostri governi impreparati. Non è così. La guerra dell'Unesco contro Israele iniziò nel 1974 quando lo Stato ebraico fu cacciato (per poi essere riammesso due anni dopo) dall'agenzia, all'epoca guidata dal senegalese Amadhou Mahtar M'Bow. E raggiunse l'apice l'anno passato quando, assieme alla non riconducibilità a Israele del Muro del Pianto, in una riunione a Cracovia, l'Unesco definì Israele «potenza occupante» e la Tomba dei Patriarchi di Hebron un sito «palestinese». Qualcuno sosterrà adesso che la decisione americana di rompere con l'agenzia per la cultura delle Nazioni Unite è stata precipitosa. Non è così. Forse servirà, anzi, a impedire all'ultimo minuto utile che l'uomo politico qatariota sia chiamato a guidare l'organizzazione che per conto delle Nazioni Unite dovrà valutare i danni arrecati da Daesh a Palmira senza ricondurne, per qualche via tortuosa, la responsabilità allo Stato ebraico.
(Corriere della Sera, 13 ottobre 2017)
Così l'Italia proverà a "copiare" Israele per far crescere le sue startup
La misura allo studio del governo potrebbe entrare in manovra. L'idea seguita con successo da Israele punta sul fatto che lo Stato si accolli buona parte del rischio fornendo il capitale necessario a fronte di un investimento in equity. Ma se il progetto ha successo i fondi vanno restituiti.
di Marzio Bartoloni
È il mercato che deve decidere se una startup è un buon investimento, ma lo Stato - se i privati ci scommettono almeno un po' dei loro soldi- è pronto ad accollarsi gran parte del rischio dell'investimento con un maxi prestito da restituire solo se il progetto avrà successo . Questo è il meccanismo che Israele sperimenta con successo da molti anni per attrarre gli investitori e che ha contribuito a trasformarla nella "startup nation". Un meccanismo che ora il Governo italiano sta pensando di replicare nel nostro Paese con un fondo da 100 milioni per dare vigore al venture capital, il vero anello debole finora del piano industria 4.0 come ha sottolineato recentemente il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda.
Il modello israeliano
La misura potrebbe entrare in manovra, ma è anche possibile che il ministero dello Sviluppo economico ricorra a un semplice decreto ministeriale con il quale rivedere l'attuale incentivo governativo più importante - «smart & start» di Invitalia - che oggi funziona a bando. L'idea è quella di adottare il modello israeliano per provare ad avvicinarsi ai numeri del suo ecosistema innovativo che cresce costantemente grazie alla sua capacità di attrarre investimenti (5 miliardi di dollari nel solo 2016 in venture capital) con oltre 300 multinazionali hi-tech che hanno aperti centri di ricerca e sviluppo in Israele (da Facebook ad Amazon, da Google ad Apple fino a Huawei ). Qui si contano 5mila startup e ogni anno ne nascono circa 1500, di cui più della metà dopo 3 anni chiudono. Un fatto fisiologico perché?il rischio è insisto in ogni startup. La differenza qui però la fa lo Stato che investe e rischia a fianco dei venture capital, ma senza avere la pretesa di guidare il mercato: in pratica l'Authority dell'innovazione di Tel Aviv fornisce fino all'85% del capitale necessario a fronte però di un investimento del privato che così qualifica il progetto. Se l'azienda ha successo deve restituire il prestito, altrimenti non deve nulla (il contributo è a fondo perduto).
Il sistema allo studio in Italia
In Italia il meccanismo che sta studiando il Mise prevede che a fronte di un certo investimento in equity scatti automaticamente un contributo che vale da due a quattro volte la somma investita. Si tratterebbe di un prestito a tasso agevolato o molto probabilmente a tasso zero. Il ministero sta valutando anche di introdurre la stessa soluzione adottata in Israele e cioè la restituzione del prestito solo in caso di successo della start up. L'obiettivo è spingere sull'acceleratore dell'attrazione del venture capital che in Italia non è mai decollato. Lo scorso anno le startup italiane hanno ricevuto finanziamenti complessivi per 180 milioni di euro contro gli 1,4 miliardi conquistati delle startup francesi. Nel triennio 2014-2016 il venture capital in Italia ha apportato equity per soli 330 milioni di euro. Eppure le startup crescono ogni anno di numero: in Italia sono oltre 7mila con un incremento dell'11% rispetto all'anno precedente con oltre 35mila addetti impegnati. Ma alla fine dello scorso anno, le imprese registravano ricavi annui medi per 133mila euro, un Ebitda negativo del 25% e soprattutto una capitalizzazione limitata con investimenti medi per 61mila euro e debiti finanziari per 54mila euro.
(Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2017)
Un altro accordo Hamas-Al Fatah: ecco cosa significa
Egitto e, soprattutto Russia dietro l'intesa. L'incognita del disarmo dell'ala militare di Hamas. Le preoccupazioni di Israele
di Luciano Tirinnanzi
Stretta di mano tra Saleh al-Aruri (Hamas) e Azzam al-Ahmad (Fatah)
Dal Cairo le due principali forze politiche palestinesi, Al-Fatah e Hamas, affermano di aver raggiunto un accordo "definitivo".
L'intesa è stata siglata grazie alla mediazione dell'Egitto, che ha ospitato il summit nei locali del quartier generale dell'intelligence egiziana, non proprio in un luogo trasparente, dunque.
La riconciliazione segna apparentemente la fine della guerra civile esplosa a Gaza nel 2006 proprio tra Al-Fatah e Hamas, che ha portato quest'ultimo movimento a prendere il controllo della Striscia per i successivi dieci anni.
Hamas è da tempo in crisi di consensi nella Gaza Strip, attraversata da spinte centrifughe verso gruppi ancor più radicali del partito legato a doppio filo ai Fratelli Musulmani, ossia proprio gli arcinemici dell'Egitto di Al Sisi.
Lo stesso Stato Islamico negli ultimi anni ha raggiunto cuori e menti di parte della popolazione più giovane e, complice l'incapacità di Hamas nel provvedere a sufficienza ai beni primari della popolazione locale (vedi luce, acqua e gas), ha iniziato a erodere da dentro il potere che Hamas deteneva nella Striscia grazie soprattutto ai finanziamenti provenienti dall'estero. Che nel tempo sono andati scemando.
L'accordo raggiunto adesso con Al Fatah, che invece controlla da tempo la cosiddetta West Bank (Cisgiordania), è dunque anche sintomo della posizione sempre più debole del "partito di Gaza".
La road map prevede la creazione di un governo congiunto per la gestione di tutti quei territori considerati Palestina.
Ma soprattutto stabilisce che d'ora in avanti saranno esclusivamente i funzionari dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) - cioè l'istituzione scaturita dagli Accordi di Oslo (1994) che si potrebbe definire come una cabina di regia governativa di cui Abu Mazen è presidente - ad avere il controllo diretto dei valichi di frontiera nella Striscia di Gaza.
L'intesa, solo pochi anni fa considerata improbabile, è sì frutto dell'instancabile lavoro diplomatico egiziano, che ha tutto da perdere da avere un nemico al confine e tutto da guadagnare nel depotenziare la minaccia della Fratellanza.
Ma in verità è stato reso possibile dal crescente peso della Russia nella regione.
Un accordo di principio per la costituzione di un governo di unità nazionale, infatti, era stato raggiunto già lo scorso 17 gennaio a Mosca, nel corso di consultazioni informali fra esponenti di Al Fatah, di Hamas e della Jihad islamica, seguito dall'annuncio dell'indizione di nuove elezioni.
Il Cremlino si muove ormai da anni nel tentativo di costruirsi una posizione da arbitro (ma anche da dominus) del Mediterraneo.
È innegabile il suo lavoro per la definizione di un nuovo assetto nell'intera regione. Mosca si è ritagliata un ruolo progressivo da protagonista alternando all'esperienza dei suoi diplomatici e all'abile tessitura di accordi politici impegni diretti sui campi di battaglia, in soccorso di paesi come Siria ed Egitto in risposta a una convergenza d'interessi reciproci.
Adesso, i frutti cominciano a vedersi. Il processo di riavvicinamento politico in Palestina, relativamente breve, è stato favorito non soltanto dal ritrovato dialogo tra Al Fatah e Hamas, che è solo una somma delle loro debolezze interne, ma anche da una serie di sviluppi internazionali che comprendono l'imminente vittoria delle forze sostenute da Mosca in Siria, che ridisegnerà i rapporti di forza in Medio Oriente, così come la Risoluzione 2334 delle Nazioni Unite, che ha condannato gli insediamenti israeliani.
E così pure dalla Conferenza di pace di Parigi, che ha dissertato circa la questione israelo-palestinese sbilanciandosi molto in favore di questi ultimi. Una preparazione del terreno che Mosca ha opportunamente favorito, proprio quando gli Stati Uniti stavano andando in direzione opposta. Se si considera poi che gli Stati Uniti hanno appena ufficializzato la loro uscita dall'Unesco il prossimo 31 dicembre (e presto li seguirà Israele) in polemica con l'inclusione della Palestina tra i membri, si comprende meglio dove tiri il vento diplomatico.
L'incognita principale nel processo di omogeneizzazione politica tra le due anime della Palestina, si annida invece nelle "piccole cose": nella questione del disarmo dell'ala militare di Hamas, ad esempio. Una forza che a oggi conta qualcosa come 25mila uomini mediamente armati e dove si è già incagliato il processo di riconciliazione. Visto che il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha anticipato a mezzo stampa che non ha alcuna intenzione di smobilitare le sue "forze di resistenza".
Questa spia d'allarme non sorprende gli israeliani, da sempre scettici sulle reali intenzioni di entrambe le forze palestinesi, e di Hamas in particolare, considerato che né l'una né l'altra forza politica intendono riconoscere l'esistenza dello stato d'Israele.
Una grana in più per Egitto e Russia e un problema di non poco conto per la popolazione palestinese, che non ha più intenzione di essere strumentalizzata per logiche diverse dalla traiettoria della propria sussistenza.
(Panorama, 13 ottobre 2017)
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Tremila agenti di polizia a Gaza dopo accordo del Cairo tra Fatah e Hamas
GAZA - Uno dei punti principali dell'accordo siglato tra i partiti palestinesi di Fatah e Hamas, al termine dei colloqui tenuti al Cairo e sponsorizzati dall'Egitto, è lo schieramento di 3 mila agenti della polizia dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza. Lo riferisce l'emittente televisiva "al Arabiya". Secondo quanto ha riferito un funzionario egiziano "in base all'accordo il governo palestinese prenderà il controllo di tutti i settori civili e di sicurezza e tornerà a schierare 3 mila agenti di polizia dell'Anp". Le due delegazioni riunite ieri nella sede dei servizi segreti palestinesi hanno deciso di applicare l'accordo di riconciliazione nazionale del 2011. L'accordo del Cairo prevede anche la formazione di un governo di unità nazionale, l'organizzazione di elezioni politiche e presidenziali, la formazione di una commissione congiunta sugli impiegati assunti da Hamas negli enti istituzionali, che sono circa 45 mila persone tra civili e militari. Una delegazione egiziana monitorerà l'applicazione dell'accordo a Gaza. Il governo palestinese prenderà il controllo dei valichi di frontiera tra Egitto e Israele. L'accordo verrà applicato dopo un incontro con tutte le fazioni palestinesi che si terrà dopo la prevista visita storica del presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, a Gaza.
(Agenzia Nova, 12 ottobre 2017)
La difesa antimissile israeliana punta sull'Arrow 4
di Sigrid Lipott
Il Ministero della Difesa israeliano ha cominciato a sviluppare quello che con tutta probabilità diventerà l'Arrow-4, un nuovo sistema di intercettazione missilistica in grado di difendere la sicurezza interna da future minacce balistiche sempre più' sofisticate. Le autorità del MAFAT Ricerca e Sviluppo della Difesa stanno lavorando con le Industrie Aerospaziali per valutare le tecnologie necessarie al fine di migliorare la capacità di identificare e combattere tali minacce.
Il sistema Arrow è un missile di difesa antibalistico di teatro (TMD) ad alta accelerazione e dovrebbe essere l'unico sistema al mondo operativo capace di intercettare bersagli nell'alta stratosfera. "L'architettura della difesa contro i missili balistici israeliana funziona bene - ha affermato Moshe Patel, Direttore per l'Organizzazione per la Difesa Missilistica israeliana - ma non possiamo rimanere fermi. Dobbiamo trovarci almeno un passo avanti rispetto alla minaccia" ha aggiunto, sottolineando che il progetto è ancora agli stadi iniziali e la via da percorrere in termini di tecnologia deve ancora essere analizzata.
Israele è l'unico paese al mondo coperto totalmente da una costosissima rete di difesa ABM (anti Ballistic Missile) ma nemmeno i recenti successi servono a tranquillizzare le autorità e gli esperti di sicurezza.
Gli studi non si concentrano solamente sullo sviluppo di un nuovo sistema d'intercettazione ma anche e soprattutto sulle infrastrutture di cui necessiterebbe e recentemente Israele avrebbe condiviso i risultati preliminari del concept work - i cui contenuti sono ancora riservati - con i partner americani e in particolare con l'Agenzia per la Difesa Missilistica del Pentagono.
L'importanza crescente della special relationship è evidente nella costruzione del missile Arrow 4 ed è stata confermata dallo stesso Patel in un'intervista a Defense News. Second Boaz Levy, vice presidente esecutivo di Isreali Aerospace Industries (IAI) è troppo presto chiamare il nuovo progetto Arrow 4. Tuttavia, siamo chiaramente di fronte ad una nuova generazione del missile Arrow e gli studi attuali hanno lo scopo di avviare la costruzione di un nuovo sistema che estenderà le sue capacità ben oltre le capacità dei sistemi di intercettazione attuali.
La difesa anti-aerea israeliana è strutturata su tre livelli principali: l'Iron Dome contro razzi, proiettili di artiglieria e missili a corto raggio, il sistema anti-missile David Sling (la "Fionda di David") progettato per intercettare missili a breve raggio, ed il sistema Arrow per missili balistici a medio/lungo raggio.
Il progetto Arrow ABM prese il via dopo un accordo del 1986 tra gli Stati Uniti ed Israele con particolare riguardo alla minaccia portata dai programmi di missili avanzati sviluppati da Iraq e Iran. Il primo sistema operativo venne dispiegato nel 2000.
Il sistema Arrow 2, versione migliorata dell'Arrow, intercetta missili balistici a medio raggio entro l'atmosfera terrestre, mentre Arrow-3, testato nel dicembre 2015, ha un raggio di azione di oltre 200 chilometri ed è in grado di intercettare obiettivi che viaggiano a un'altitudine di 50.000 metri, quando sono ancora al di sopra della stratosfera.
L'intera rete di sicurezza israeliana è imperniata sulla negazione al nemico dell'accesso al proprio spazio aereo e gli Stati Uniti hanno sviluppato o finanziato congiuntamente tutti e tre i livelli di difesa missilistica: Iron Dome contro i razzi a corto-medio raggio (in dotazione ad Hamas a Gaza e a Hezbollah in Libano), David Sling contro i razzi a medio-lungo raggio in dotazione a Hezbollah ed Arrow contro i missili balistici di cui sono dotati siriani e iraniani, per citare gli Stati che Gerusalemme considera nemici.
L'accelerazione degli sforzi in tema di difesa missilistica intrapresi da Israele nell'ultimo anno va letta alla luce dell'obiettivo di inviare un chiaro segnale ai nemici. Con Iron Dome, David Sling e Arrow (e in futuro Arrow 4), Gerusalemme potrebbe risultare "blindata" rispetto a qualunque tipologia di minaccia aerea.
David Sling è diventato operativo lo scorso aprile e in tale occasione il primo ministro Netanyahu aveva ribadito che: «chiunque minaccia la nostra esistenza, si mette egli stesso in pericolo esistenziale».
Anche questa dichiarazione va letta alla luce delle tensioni che nel corso della primavera si erano riaccese lungo i confini a nord e a Gaza e poco dopo l'intercettazione di un missile terra-aria siriano, occasione ideale per testare per la prima volta il nuovo Arrow 3.
Nonostante la distanza fra i missili siriani e gli aerei israeliani fosse tale da non mettere in pericolo velivoli e piloti, il ricorso al sistema Arrow-3 è stato deciso per impedire che il missile siriano esplodesse in territorio israeliano.
Arrow del resto è concepito specialmente per contrastare la minaccia balistica iraniana.
Un mese fa, Netanyahu ha accusato pubblicamente l'Iran di costruire siti di produzione missilistica in Siria e Libano. Poco prima, in agosto, i media israeliani riportavano foto satellitari che mostravano un sito sospetto nel nord est della Siria vicino alla città di Baniyas. Tale sito sarebbe largamente utilizzato come deposito missilistico.
Israele sperava si sarebbe trasformata in un pantano per gli alleati chiave di Bashar Assad, ossia Teheran ed Hezbollah ma dopo l'intervento della Russia, Israele si trova sempre piu' preoccupata dall'ipotesi di uno scenario che vedrebbe l'influenza iraniana proiettata direttamente alle sue porte, e senza intermediari.
La capacità operativa iniziale del sistema di intercettazione Arrow 3 era stata dichiarata dall'aeronautica israeliana appena 8 mesi fa, a metà gennaio 2017. Secondo il Pentagono l'Arrow 3 aumenta di quattro volte la capacità di distruggere le minacce avanzate, può essere lanciato in anticipo dopo il rilevamento delle minacce ed impegnare obiettivi ad altitudini maggiori al di fuori dell'atmosfera terrestre rispetto ai sistemi precedenti.
"Iron Dome" ha avuto un impiego più intenso registrando un tasso di successo nell'intercettazione pari all'85% ed è Stato usato principalmente contro i razzi lanciati da Hamas a Gaza.
Hezbollah costituisce però un pericolo maggiore e si calcola disponga di almeno 100.000 razzi campali che potrebbero essere lanciati contro Israele, un numero imprecisato dei quali a lunga gittata.
Secondo l'Institute for National Security Studies, gli strateghi del governo israeliano devono ancora mettersi d'accordo e decidere che cosa esattamente debba essere difeso da David Sling e che cosa da altri sistemi come l'Arrow ammettendo che non esistono garanzie di protezione al 100 per cento. Accanto alla sindrome da accerchiamento bisogna contare anche i costi di tale sistema a tre livelli: un missile David Sling è stimato attorno a un milione di dollari americani, 100.000 dollari per un intercettore dell'Iron Dome e 3 milioni per un missile Arrow di seconda e terza generazione e non sono ancora noti i costi di Arrow 4 circa il quale non è chiaro il raggio d'azione operativo.
Levy si mantiene vago rispetto al progetto affermando «stiamo appena lavorando per definire la prossima generazione di minacce. Lo sviluppo di tali sistemi richiede un preparazione che può durare anni, e il nostro prossimo obiettivo è quello di essere preparati alla futura minaccia». Pur non menzionando l'Iran, il riferimento appare piuttosto esplicito e del resto anche Arrow 3 era stato congeniato per far fronte agli arsenali balistici della potenza sciita.
Il successo del sistema Arrow 3 "è un importante passo avanti per far diventare operativo uno dei più significativi progetti per Israele e la sua industria aerospaziale" aveva riferito l'amministratore delegato di Israeli Aerospace Industries (IAI) e le dichiarazioni iniziali su Arrow 4 sembrano ricalcare la stessa linea.
Tal Inbar, a capo Centro di ricerca aerospaziale all'interno dell'Institute for Air and Space Strategic Studies, è responsabile di monitorare accuratamente i discorsi politici, la "narrativa", le immagini ed i nuovi trend strategici che provengono dall'Iran, e se possibile di anticiparli.
Il Ministro della Difesa iraniano Hosseign Dehghan circa un anno fa aveva parlato della necessità di evadere i sistemi di difesa antimissilitici del nemico con missili balistici capaci di distruggere bersagli "massicci e multipli", con un linguaggio che ricorda la narrativa della massive retaliation di dullesiana memoria.
Le fonti citate dalle autorità israeliane per indicare la crescente minaccia iraniana sono alquanto bizzarre: una recente illustrazione ufficiale di un artista conterrebbe l'immagine di un missile Sahab che rilascia munizioni nello spazio.
Per Inbar sarebbe dunque chiaro che l'Iran sta muovendo in una direzione minacciosa per Israele ed il prossimo passo logico è evidentemente il missile a testata multipla. Nel frattempo, si attende con trepidazione il test Caravan-3 pianificato per l'anno prossimo sull'isola di Kodiak, in Alaska. Il test è stato preparato assieme all' Agenzia per la Difesa Missilistica del Pentagono e fa parte del programma a più largo spettro US-Israel Arrow System Improvement Program, che permetterà ad Israele di "validare" le sue capacità contro bersagli di lungo raggio.
Il Mare Mediterraneo è limitato per ragioni strategiche, politiche e di sicurezza ed anche a causa della portata del test è stato deciso di tenerlo in Alaska. L'ultima volta che Israele ha testato il sistema Arrow fuori dal territorio nazionale è stato nel 2009-2011, durante un test Caravan-2 a Point Mugu, in California. Sempre a Point Mugu un test Caravan-1 era stato completato nel 2004.
L'obiettivo è quello di testare la performance del nuovo sistema contro le possibili minacce balistiche in n contesto realistico e non limitato dalle restrizioni legate alla sicurezza che inficiano i i test effettuati sul territorio israeliano.
Qualunque sia l'esito di Arrow-4, la cooperazione tra Stati Uniti e Israele ne esce rafforzata. A settembre 2016, Stati Uniti ed Israele hanno siglato un nuovo programma di assistenza militare pari a 38 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. L'attuale memorandum, fissato a 3,1 miliardi di dollari l'anno, scadrà nel 2018 e costituisce il più grande accordo di assistenza militare all'estero degli Stati Uniti.
All'indomani della firma del patto di cooperazione energetica e a pochi mesi dall'approvazione di due leggi per sviluppare programmi e prodotti congiunti legati alla cybersecurity, la cooperazione strategica Tel Aviv - Washington assume quindi una portata sempre più ampia. Specie dopo che il 18 settembre è stata inaugurata la prima base permanente statunitense in territorio israeliano, presso la Mashabim Air Base nel deserto del Negev dove sono presenti reparti della difesa aerea missilistica israeliana
Si tratta di un piccolo distaccamento militare di poche decine di uomini che operano con gli israeliani nella gestione dei sistemi di scoperta come il radar mobile AN/TPY-2, presente dal 2009 in Israele ed in grado di rilevare il lancio di missili balistici fino a oltre 5mila chilometri di distanza.
Un elemento che rende gli statunitensi protagonisti diretti della difesa aerea strategica di Israele
La base Usa, pur inserita all'interno di quella israeliana, dipende direttamente dallo Us European Command (EuCom) e di fatto rappresenta l'ufficializzazione di una presenza statunitense già consolidata, non il potenziamento delle forze di Washington in Israele.
"L'obiettivo di questa presenza non sono le esercitazioni; si tratta piuttosto di una parte dello sforzo congiunto americano e israeliano a sostenere e rafforzare le capacità di difesa", ha rimarcato John Gronski, vice comandante delle forze dell'Us Army in Europa.
(Analisi Difesa, 13 ottobre 2017)
Lo spettacolo della sinagoga di Conegliano... a Gerusalemme
Viaggio in Terra Santa
di Pietro Panzarino
Alcuni partecipanti al viaggio
CONEGLIANO - Martedì 10 ottobre, 36 trevigiani hanno potuto ammirare la Sinagoga di Conegliano, che nel 1952 venne trasportata a Gerusalemme e collocata al centro della Città, vicino alle Mura storiche.
E' stata una tappa significativa del tour culturale, organizzato dai coniugi Graziella e Dante Dal Cin di Godega di Sant'Urbano.
La comitiva è stata accolta da Raul Fresard, custode della Sinagoga, frequentata per l'80% da ebrei italiani, che utilizzano la nostra lingua per i loro riti religiosi, continuando le tradizioni ebraiche, come le altre due Comunità di Roma, anch'esse presenti a Gerusalemme.
La sinagoga, a Conegliano, era ubicata sulla collina.
Nel 1917, durante la I guerra mondiale, venne individuata da un soldato ebreo dell'esercito austriaco come luogo idoneo per la celebrazione dei loro riti sacri.
Dalla documentazione esistente, secondo quanto ha riferito Fresard, la Sinagoga di Conegliano, una delle più antiche, risalirebbe al 1625 e avrebbe subito dei restauri tra il 1701-1719.
Dopo la seconda guerra mondiale, diverse famiglie ebree in qualche modo si considerarono non ben accette dalla popolazione italiana ed espatriarono.
Poiché la sinagoga era sostanzialmente in abbandono, i proprietari la donarono a Gerusalemme, autorizzandone il trasferimento.
In Israele sono state apportate poche modifiche al manufatto, per inserirlo adeguatamente nello stabile.
Nella Sinagoga sono conservati diversi rotoli della Legge, il più prezioso dei quali risale al 1600 circa.
Alla richiesta, se fossero in atto delle relazioni ufficiali con la comunità di Conegliano, il custode ha risposto negativamente.
Ha confermato, invece, che dal 1989 il FAIB ( Fondo Anziani Italiani per Beneficenza) opera come fondo assistenziale della Comunità Ebraica Italiana in Israele per gli anziani bisognosi.
Nella Sinagoga ci sono anche altre donazioni provenienti dall'Italia, in particolare da Padova, Mantova, Ferrara, di notevole interesse artistico.
Al termine di questa esperienza Dante Dal Cin ha così commentato il viaggio:
"Siamo andati in gruppo in Terra Santa (Giordania e Israele) dal 4 al 11 ottobre: è stato veramente un grande dono di Dio. Il nostro cuore e i nostri occhi si sono aperti davanti a cose molto belle dal punto di vista paesaggistico, culturale, storico, archeologico e religioso. Molte emozioni ha suscitato la Giordania con Gerasa, Madaba (dove si trova un mosaico del VI secolo della Palestina), il monte Nebo e soprattutto Petra e la Wadi Rum. E poi Israele con i luoghi significativi della vita di Gesù (Nazareth, Cafarnao, Gerusalemme: Monte degli ulivi, Basilica del Getsemani e del S. Sepolcro, il Cenacolo, la Torre di David; Betlemme: Basilica della Natività e Campo dei Pastori)". Ma anche altri luoghi significativi che spesso non fanno parte dei pellegrinaggi tradizionali, come il percorso lungo le mura di Gerusalemme, lo spettacolo "luci e suoni" alla Torre di David, il Museo di Israele con i rotoli di Qumram, il Parco archeologico Davidson Center. Davvero tante emozioni: un viaggio che ora va rivisto con la memoria in tutta serenità".
(Oggi Treviso, 12 ottobre 2017)
I giri di valzer di Benjamin Netanyahu
Dalle visite a Mosca agli incontri con i sauditi, dal faccia a faccia con il presidente egiziano al Sisi ai rapporti indiretti con il Bahrein, il primo ministro israeliano si destreggia nel nuovo Medio Oriente rafforzando l'asse con i regimi sunniti. Il suo obiettivo? Osteggiare l'avanzata dell'Iran, che considera un pericolo mortale.
Benjamin Netanyahu ha maturato l'arte del guardarsi attorno per volgere le occasioni di crisi a favore d'Israele. E ciò senza che lo Stato si debba impegnare in conflitti tranne, probabilmente, quello a bassa intensità con Hezbollah in Libano. In Medio Oriente, la Russia prova a rinverdire i fasti della vecchia alleanza fra l'Urss e il nazionalismo panarabo del partito Baath (denunciata nel 1974 dal presidente egiziano Anwar al Sadat, quando si schierò con Washington). In Siria, invece, prima Hafez al Assad e poi il figlio Bashar al Assad si sono valsi della presenza russa per tener in piedi il regime alauita.
Nel 2015 la Russia ha dislocato nella base siriana di Khmeimim le forze d'attacco ai ribelli contrari ad Assad, in funzione anti-Isis. Netanyahu s'è subito recato a Mosca per il primo di una serie di colloqui (cinque in due anni) con Vladimir Putin, a cui ha chiesto di bloccare la concessione all'Iran di basi in Siria e l'apertura del «corridoio sciita» dall'lran al Libano. In subordine, il premier ha auspicato una fascia protettiva di 60 km dal confine, dove siano interdette le attività contro lo Stato ebraico. Nell'immediato, ha attivato con Mosca una sorta di telefono rosso con cui i rispettivi stati maggiori si coordinano per evitare incidenti sul terreno. E la lsraeli Air Force interviene in Siria contro obiettivi militari senza che scatti la reazione siriana o russa.
L'asse sciita a guida iraniana si è consolidato grazie alle intese di Astana, sponsorizzate dalla Russia. All'asse si è associata la Turchia, che guarda a Mosca con qualche interesse. Come risposta, Israele ha contrapposto la convergenza con l'asse sunnita. La politica di buon vicinato con l'Arabia Saudita si è consolidata per la comune avversione verso l'Iran. Sentimento cresciuto in misura inversamente proporzionale alla normalizzazione dei rapporti fra Washington e Teheran dopo l'accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni.
La polemica di Donald Trump verso l'Iran conforta sunniti e israeliani, che considerano l'Iran una teocrazia volta all'egemonia regionale. Tanto che a settembre il principe ereditario del Regno saudita Mohammad bin Salman (nonché ministro della Difesa) si è recato in Israele. E il principe ereditario del Bahrein Nasser bin Hamad al Khalifa ha visitato il Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles, esprimendo cordoglio per la Shoah. Il Bahrein, Paese a maggioranza sciita retto da una famiglia reale sunnita, fiancheggia Riyad nella disputa con il Qatar per la sua vicinanza all'Iran. Sempre a settembre, Netanyahu ha incontrato per la prima volta a New York il presidente egiziano Abd al Fattah al Sisi. I due hanno deciso di rispedire i rispettivi ambasciatori nelle sedi da cui li avevano richiamati mesi addietro.
Intanto, Hamas e al Fatah hanno riaperto il dialogo per restituire la Striscia al controllo dell'Autorità palestinese, il cui premier Rami Hamdallah ha convocato la riunione di gabinetto a Gaza, dove è stato accolto dai dirigenti di Hamas, per la prima volta da tre anni. Può essere il primo passo della riconciliazione che, se Gaza fosse ricondotta alla logica del compromesso, alla lunga favorirebbe Israele. Mentre incamera la decisione dell'Interpol di ammettere la Palestina come membro, Mahmud Abbas non pare escludere soluzioni diverse da quella di due popoli-due Stati, Netanyahu si inserisce nella dinamica diplomatica per ottenere risultati senza concedere granché alle controparti. Perché, in definitiva, può contare sul fatto che Donald Trump non è Barack Obama.
(Panorama, 12 ottobre 2017)
Il Qatar in testa per la guida dell'Unesco. Accuse di antisemitismo
Il rapporto del Centro Wiesenthal: "Il suo candidato ha difeso le teorie del complotto ebraico". Israele preoccupata.
di Giulio Meotti
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ROMA - Con 19 voti, l'ex ministro della Cultura del Qatar, Hamad bin Abdulaziz al Kawari, si è aggiudicato il primo turno di votazioni per diventare il prossimo capo dell'Unesco, l'agenzia dell'Onu per la cultura. Lo seguono con 13 voti l'ex ministro francese della Cultura, Audrey Azoulay, e con 11 l'egiziana Moushira Khattab. I candidati devono ottenere il 50 per cento dei voti per succedere alla bulgara Irina Bokova (in mancanza del quorum, venerdì si procede a maggioranza). C'è rabbia per la decisione della Francia di presentare un candidato, considerato il "tacito accordo" per cui il paese ospitante non può anche guidare l'agenzia (l'Unesco ha sede a Parigi). Per ora, gli occhi sono puntati sul qatariota. Shimon Samuels, direttore delle relazioni internazionali del Centro Wiesenthal, aveva scritto due volte ad al Kawari quando era ministro della Cultura sulla fiera internazionale del libro di Doha. "Quella fiera era piena di testi antisemiti, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta", ha detto Samuels. Samuels elencò almeno 35 titoli antisemiti, tra cui i "Protocolli dei Savi di Sion", il "Mein Kampf" di Hitler e "L'Ebreo Internazionale" di Henry Ford. Nei giorni scorsi il Centro Wiesenthal ha rincarato la dose, accusando al Kawari di aver curato il libro "Jerusalem in the Eyes of the Poets", firmandone la prefazione. "Gli ebrei controllano i media, i giornali e le case editrici negli Stati Uniti" recita il libro, che cita il negazionista dell'Olocausto e convertito all'islam, Roger Garaudy. Il libro spiega che "Israele è responsabile per la guerra civile in Libano, per la prima e la seconda guerra del Golfo, per l'invasione dell'Iraq e dell'Afghanistan, per il caos in Sudan ed Egitto".
Nella sua corsa per la guida dell'Unesco, l'agenzia dell'Onu per la cultura, il Qatar deve vedersela con l'opposizione degli Stati Uniti, ma gode del sostegno di molti stati africani, mentre la candidata egiziana è sostenuta dall'Arabia Saudita e dagli Emirati arabi. Dal Centro Wiesenthal, Shimon Samuels ha dichiarato che la campagna acquisti del Qatar ha fatto uso di ingenti incentivi finanziari. Doha, in pratica, starebbe comprando il sostegno di tanti paesi membri. "Hanno distribuito denaro ovunque, soprattutto in Africa", ha accusato Samuels.
Lo scorso maggio, la direttrice dell'Unesco, Irina Bokova, aveva espresso apprezzamento per il sostegno del Qatar con un finanziamento di due milioni di dollari come parte di un impegno da parte del Primo ministro, lo Sceicco Abdullah bin Nasser bin Khalifa al Thani, a donare dieci milioni di dollari all'Unesco. Preoccupati anche gli israeliani, che nell'ultimo anno all'Unesco sono stati colpiti da due risoluzioni antisemite che negavano il legame ebraico con Gerusalemme e Hebron (il Qatar ebbe un ruolo decisivo in quelle risoluzioni). Carmel Shama-Hacohen, ambasciatore d'Israele all'Unesco, ieri ha detto che l'eventuale elezione di al Kawari sarebbe "una cattiva notizia per l'organizzazione e purtroppo anche per Israele". Tuttavia, Shama-Hacohen ha anche sottolineato che "tutto può succedere". Irina Bokova ottenne solo sette voti al primo turno. C'è anche la forte preoccupazione che un paese come il Qatar, sponsor del fondamentalismo islamico, possa assumere la direzione di una agenzia i cui tesori, come Palmira, sono stati razziati e devastati dagli islamisti. Di certo, le accuse più che fondate di antisemitismo contribuirono ad affossare la candidatura nel 2011 di un altro importante esponente del mondo arabo-islamico.
Farouk Hosni, ex ministro della Cultura egiziano, a domanda di un deputato egiziano preoccupato del fatto che potessero essere introdotti libri israeliani nella gloriosa biblioteca d'Alessandria, aveva risposto: "Bruciamo questi libri; magari li brucerò io stesso davanti a voi". All'epoca, Elie Wiesel disse: "Farouk Hosni non meritava questo onore". Oggi lo direbbe anche del Qatar.
(Il Foglio, 12 ottobre 2017)
Sport e memoria al Portico d'Ottavia
ROMA - Dal porto al Portico, lo sport si sposa alla legalità e alla Memoria. Il Portico d'Ottavia e via Catalana hanno fatto da contorno al pomeriggio di festa organizzato dal Coni regionale, ospite della Comunità insieme alle Federazioni di Tiro a volo, Canoa, Pesca sportiva, Badminton, Tiro con l'arco, Scherma, Scacchi, Twirling, Giochi tradizionali e ad alcuni Enti di promozione come Csi e Endas. Tantissime persone, famiglie con bambini, giovani e anziani, turisti curiosi e abitanti del quartiere hanno "giocato" il loro sport, come recita il claim dell'iniziativa. «Una bella giornata per la Comunità - l'ha definita la sua presidente Ruth Dureghello - perché lo sport, tra i suoi valori, ha anche quello della coesione. È qualcosa che al tempo stesso diverte e fa crescere individualmente e con gli altri». La Regione, con il consigliere Eugenio Patanè, ha espresso soddisfazione: «Il nostro intento è di portare lo sport a domicilio, a casa delle persone che spesso non hanno il tempo per andare nei luoghi ad esso deputati. Perché lo sport è di tutti, senza distinzione dì età o di condizione».
(il Romanista, 12 ottobre 2017)
L'apparato discreto della sorveglianza israeliana
Stragisti dell'Isis a Raqqa, hacker russi che spiano l'intelligence americana: Israele sorveglia tutti
di Daniele Raineri
ROMA - Il New York Times scrive che i servizi di sicurezza israeliani hanno avvertito il governo americano che hacker al servizio del governo russo stavano usando un software antivirus prodotto da una casa russa molto famosa in quel ramo, Kaspersky Lab, per spiare l'intelligence americana. Questo spiega perché il governo americano il 13 settembre scorso ha intimato a tutte le sue agenzie di sbarazzarsi entro 90 giorni di quel tipo di antivirus, che oltre alle normali funzioni di protezione ne ha anche una segreta e conosciuta soltanto dai russi: fruga tra i file del computer e se trova documenti riservati li passa a chi controlla dall'esterno il programma. La spia perfetta e immateriale: installi l'antivirus sul computer per proteggerti dalle incursioni esterne e quello svolge il suo lavoro per la maggior parte del tempo, ma quando serve obbedisce ai suoi veri padroni e trasmette i tuoi file segreti. La notizia è clamorosa, considerato che quel software era usato tra gli altri dal dipartimento della Difesa e da quello di Stato, oltre che da aviazione, marina ed esercito americani. Il sessanta per cento dei clienti di Kaspersky Lab sono in Europa e in America. Ma questo caso russo-americano, che avrà conseguenze molto ramificate, conferma che Israele svolge con discrezione un compito di "apparato di sicurezza di default" nel campo della guerra elettronica, oltre che in altri settori. Ricordate il divieto di portare computer portatili a bordo degli aerei diretti verso l'America entrato in vigore a marzo e poi finito durante l'estate? Era anche quello il risultato di un'operazione di spionaggio informatico molto sofisticato fatta dai servizi di sicurezza israeliani, che erano riusciti a scovare la cellula dello Stato islamico che a Raqqa si occupava di trovare nuovi modi per fare attentati in occidente.
Gli israeliani erano riusciti a infettare i computer dei terroristi e avevano scoperto che lo Stato islamico era intento a progettare attacchi agli aerei di linea con un metodo simile a quello usato per far precipitare l'aereo charter russo nel deserto del Sinai nell'ottobre 2015. In quel caso avevano farcito di esplosivo una lattina di Schweppes che aveva passato i controlli grazie a un complice a terra, questa volta volevano infilare l'esplosivo in un computer portatile, in modo da ingannare i controlli aeroportuali.
Israele ha scoperto il pericolo dell'antivirus di Kaspersky nel 2014 perché ha hackerato la casa di produzione del software (hackerare gli hacker che volevano spiare le spie americane: questo è quello che è successo) e ha visto che il programma frugava nei computer su cui era installato. Forse lo ha scoperto grazie a un altro virus informatico derivato da un software micidiale, Stuxnet, che è il frutto di una collaborazione israelo-americana e fu usato nel 2010 per penetrare i siti di ricerca atomica in Iran e sabotare le centrifughe. Questo ruolo molto di basso profilo della guerra tecnologica di Israele spunta qua e là fra le notizie e potrebbe essere il tassello mancante in molte vicende di spionaggio che non sono mai chiarite del tutto - per proteggere il vantaggio di conoscenza. Per esempio, i leader politici israeliani sono stati i primi a dichiarare apertamente nel 2015 che il governo siriano aveva tradito il patto per l'eliminazione dell'arsenale chimico e che disponeva ancora di armi chimiche avanzate - come poi è stato chiaro a tutto il mondo dopo il bombardamento di un villaggio con un agente nervino nell'aprile 2017. Inoltre, quest'anno "due nazioni" non meglio specificate hanno intercettato due navi della Corea del nord dirette verso la Siria nel giro di sei mesi. Il rapporto delle Nazioni Unite visto da Reuters che rivelava questa notizia non dice chi è stato a rilevare le navi, ma è molto probabile che di nuovo c'entri il sistema di sorveglianza israeliano, che monitora tutti gli spostamenti e i traffici nella regione.
(Il Foglio, 12 ottobre 2017)
Nuovi insediamenti in Cisgiordania
Lettera al Direttore dellOsservatore Romano
Gentile Direttore,
Nell'articolo di redazione avente per titolo: "Nuovi insediamenti in Cisgiordania" pubblicato oggi [ieri per chi legge] leggo, tra l'altro, che il Governo di Israele viene criticato per aver "previsto la costruzione di trenta case nell'insediamento ebraico di Hebron - dove non si costruiva da tempo".
Mi permetto di segnalare, per Suo tramite, alla Redazione dell'Osservatore Romano che parlare di "insediamento ebraico" in una città come Hebron, dove gli ebrei vivono da oltre 3000 anni con la sola eccezione del periodo dal 1929 (quando, a causa del ben noto pogrom originato dalla falsa notizia, fatta circolare tra gli arabi, dell' intenzione degli ebrei di distruggere la moschea di Al Aqsa, gli ebrei sopravvissuti al massacro dovettero abbandonare la città) fino al 1967, appare un non senso.
Quanto poi alle menzionate "trenta case", faccio presente che Hebron è oggi una città di circa 200000 abitanti nella quale gli ebrei occupano meno del 3 % del territorio; pensa forse l'autore dell'articolo in questione che queste poche abitazioni possano cambiare la realtà sul terreno?
Il problema dei cosiddetti "insediamenti", tra l'altro previsti dagli accordi di Oslo, meriterebbe di essere trattato con maggiore attenzione sulle vostre colonne. Non va dimenticato che gli arabi, nel passato più o meno lontano, in tutte le terre nelle quali sono entrati, sempre come conquistatori (colonialisti?), hanno convertito o ucciso i non musulmani. Alla luce di ciò è scorretto chiamare gli ebrei "coloni", le loro case "insediamenti" e accettare la pretesa del cosiddetto "moderato" Abu Mazen di impedire loro di vivere in territori storicamente ebraici da millenni (senza considerare la cacciata quasi ultimata dei cristiani, anch'essi abitanti di quelle terre da 2000 anni).
Cordiali saluti
Emanuel Segre Amar
Presidente Gruppo Sionistico Piemontese
(Notizie su Israele, 12 ottobre 2017)
Ministro israeliano Lieberman: l'esercito libanese è parte integrante di Hezbollah
GERUSALEMME - L'esercito libanese è parte integrante della milizia del movimento sciita Hezbollah. E' quanto affermato ieri dal ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, davanti alle unità delle Forze di difesa nel quartiere generale di Tel Aviv. "L'esercito libanese ha perso la sua indipendenza ed è divenuto parte integrante della rete di Hezbollah", ha affermato Lieberman, aggiungendo, inoltre, che un eventuale prossimo conflitto armato nel nord di Israele vedrà coinvolto non soltanto il Libano ma anche la Siria. Il titolare della Difesa israeliano ha spiegato che le Forze armate devono essere pronte a "qualsiasi scenario possibile".
Alti ufficiali israeliani hanno affermato ripetutamente che la possibilità di una escalation del conflitto lungo la linea di demarcazione con il Libano è bassa. Tuttavia, secondo l'establishment della Difesa di Tel Aviv l'incidente più banale potrebbe innescare un conflitto. "Tutti i nostri sforzi sono tesi a prevenire una futura guerra, ma nel nuovo 'Medio Oriente', le valutazioni fatte in precedenza sono del tutto irrilevanti", ha dichiarato ieri Lieberman, evidenziando che "la realtà è fragile" e può cambiare da un momento all'altro. Nelle settimane scorse Tel Aviv ha messo in guardia più volte per il presunto traffico di armi dall'Iran ad Hezbollah tramite la Siria. L'ultimo conflitto armato fra Israele e Hezbollah risale al luglio del 2006, quando per 33 giorni le parti hanno affrontato la cosiddetta "seconda guerra del Libano". Il conflitto è terminato in seguito alla risoluzione 1701 approvata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu.
(Agenzia Nova, 11 ottobre 2017)
Diktat di Abu Mazen ad Hamas: sciogliete il braccio armato
In salita il negoziato tra Fatah e Hamas in corso al Cairo. "Mahmoud il moderato" detta la condizione per proseguire: "Non faremo come Hezbollah in Libano"
di Carlo Renda
"Mahmoud il moderato" alza la voce. E detta la sua condizione per proseguire il negoziato tra Fatah e Hamas in corso al Cairo. Grazie a fonti bene informate, vicine al presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), l'HuffPost ne rivela il contenuto e l'affermazione che lo sintetizza: "Non permetterò che a Gaza si riproduca ciò che Hezbollah ha fatto in Libano".
Siamo al passaggio cruciale dal quale dipenderà il futuro stesso della leadership palestinese, la costituzione di un governo di riconciliazione, nuove elezioni e, last but non least, una successione "guidata" alla presidenza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Sul controllo dei valichi di frontiera un'intesa di massima è stata raggiunta, dicono le fonti, così come sul riassorbimento di buona parte dei funzionari (diverse migliaia) che Hamas aveva inquadrato nel Comitato amministrativo (il governo islamico della Striscia). Ma tutto questo finirebbe per essere azzerato se non si raggiungesse un accordo su quello che Abu Mazen, sia nella sua veste di presidente dell'Anp che leader di Fatah, considera il vero punto di svolta: lo scioglimento delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio militare di Hamas.
Vi sono le armi delle forze di sicurezza, della polizia, e le decisioni che riguardano questo tipo di armi sono del governo e Hamas si rimetterà, anche a Gaza, a queste decisioni. Altra cosa è l'arma della resistenza: la stessa Convenzione di Ginevra contempla il diritto alla resistenza armata per un popolo sotto occupazione. E "finché durerà l'occupazione israeliana, quelle armi non verranno deposte". Così si era espresso Ismail Haniyeh, premier di Hamas e capo dell'Ufficio politico del movimento islamico, nell'intervista esclusiva concessa all'Huffpost. E ancora: "Governare insieme non vuol dire rinunciare a quello che rimane l'obiettivo strategico della resistenza: la liberazione della Palestina e la nascita di uno Stato palestinese. Possiamo discutere gli strumenti, la tattica, ma non l'obiettivo finale. Quello non è negoziabile".
Smobilitare le Brigate al-Qassam, questo è tutt'altro discorso. Un discorso che è ufficialmente sul tavolo al Cairo. "Sappiamo che all'interno di Hamas è aperto uno scontro tra l'ala politica e quella militare - dice all'Huffpost una fonte palestinese - e che dietro le due fazioni vi sono sponsor esterni". Ecco l'altra verità che fa dei colloqui interpalestinesi un elemento della partita più generale che da tempo è aperta in Medio Oriente: quella che contrappone, sia pur con diverse modalità, il fronte sunnita dal campo sciita che ha nell'Iran e in Hezbollah i capisaldi nella regione. I comandanti militari di Hamas dipendono essenzialmente da Teheran, per quanto riguarda le forniture di armi. E con Hezbollah libanese c'è un patto d'azione che continua a reggere. Ma Hamas non è solo resistenza armata. Il suo seguito nei Territori, in particolare nella Striscia di Gaza, è dovuto principalmente al "welfare" che ha saputo mettere in piede in questi anni, una rete diffusa di associazioni caritatevoli, di assistenza sanitaria, di scuole, di sostegno alle famiglie dei "martiri": gran parte dei finanziamenti provenivano dalle petromonarchie del Golfo, in primis dal Qatar e dagli Emirati Arabi Uniti (EAU).
Ai partecipanti ai negoziati del Cairo si rivolge Oxfam: "Questo movimento verso la riconciliazione è incoraggiante - afferma Chris Eijkemans, direttore di Oxfam per il Territorio Occupato Palestinese e Israele - ma il miglioramento della vita delle persone non può dipendere dal risultato dei negoziati. Ci auguriamo che questi colloqui possano portare rapidamente miglioramenti significativi nella vita quotidiana dei palestinesi compresi piani specifici per la fine del blocco illegale israeliano su Gaza. Parlare senza agire non riporterà l'energia elettrica, non offrirà acqua pulita e servizi sanitari o un'economia funzionante alla popolazione". Oltre 200 persone intervistate ad agosto e provenienti da alcune delle comunità più povere di Gaza, tutte hanno dichiarato che - da quando è iniziata la crisi elettrica - le quantità di cibo sono diminuite fortemente. Molte donne hanno raccontato di essere costrette a rinunciare a pasti normali, per riuscire a sfamare i propri familiari. Un quadro che mostra anche un aumento della violenza verso donne e bambini, conseguenza di livelli molto alti di frustrazione e disperazione da parte degli uomini, che non riescono a portare a casa cibo, essenziale per le proprie famiglie. "La situazione a Gaza diventa ogni giorno sempre più invivibile - continua Eijkemans - La gente ha bisogno che l'elettricità sia ripristinata immediatamente, che gli invii di materiale medico tra Gaza e la Cisgiordania fluiscano e che venga interrotto il prematuro e forzato pensionamento di migliaia di funzionari pubblici, indispensabili per garantire il funzionamento delle attività amministrative. Il colloquio di oggi è anche un'occasione cruciale per i leader palestinesi di ristabilire la speranza verso una popolazione ormai esausta e per dimostrare che questo processo di riconciliazione è più che una partita politica".
Una partita della quale il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi è molto più che l'arbitro. E' il "decisore", pronto a scalzare dalla posizione dominante l'Iran sciita. Per questo, al-Sisi sostiene la richiesta di Abu Mazen: si può discutere sul riassorbimento, parziale, dei miliziani di al-Qassam nelle forze di sicurezza dell'Anp, è possibile negoziare i ruoli, i gradi, ma non può esserci un contropotere armato in campo palestinese, perché finirebbe per condizionare ogni mossa del governo unico, dei Territori. "Al-Sisi, così come re Salman d'Arabia ed Erdogan possono avere opinioni diverse su varie questioni - dice all'Huffpost il professor Nabil El Fattah, già direttore del Centro di studi strategici di Al-Ahram, uno dei più autorevoli think tank arabi - ma su un punto, decisivo, convergono: impedire il rafforzamento di un'asse sciita sulla dorsale Baghdad-Damasco-Beirut. E Gaza. E in questa ottica, rientra la determinazione, comune, a indebolire il legame esistente tra l'Iran e Hamas".
L'intelligence egiziana era a conoscenza dei rifornimenti di armi destinati da Teheran a Hamas e del tentativo in atto di ricucire l'alleanza operativa tra Hamas e i fidati Hezbollah libanesi. Nasce da qui, il cambio di strategia decisa da al-Sisi. Recuperare un rapporto con Hamas in funzione di contenimento della penetrazione sciita in Palestina. Annota in proposito, su Internazionale, Bernard Guetta, profondo conoscitore della realtà politica mediorientale: "Gaza era dunque stretta nella morsa israeloegiziana, a cui si aggiungevano le pressioni finanziarie dell'Autorità palestinese, che non voleva più pagare il conto della fornitura elettrica nella Striscia né i salari dei dipendenti pubblici. Gli islamisti dovevano per forza trovare un accordo". È un prezzo molto duro che Hamas paga per uscire dallo stallo. Ma lo scioglimento del braccio militare è quel di più che può mettere a rischio il negoziato in corso.
Quanto a Israele, la linea ufficiale resta quella di considerare Hamas come una "organizzazione terroristica" ma, fuori dall'ufficialità, analisti e fonti vicine al primo ministro Benjamin Netanyahu lasciano intendere che "un allineamento di Hamas sulle posizioni egiziane può essere utile per minare il rapporto privilegiato che Hamas mantiene con Hezbollah e l'Iran". Insomma, il nemico del mio peggior nemico (l'Iran) può trasformarsi, se non in un amico, in qualcosa di utile. "Non sboccerà mai l'amore tra Fatah e Hamas - dice all'Huffpost Gideon Levy, firma di punta del quotidiano progressista israeliano Haaretz - ma oggi, sia pur per ragioni diverse, le due fazioni sanno che solo unendo le rispettive debolezze possono sperare di avere una carta giocabile sia verso l'amministrazione Trump che nei rapporti con Israele".
Una linea che ha fatto proseliti nell'Amministrazione Usa. Mentre cresce l'attesa per la decisione del presidente Trump in merito all'accordo sul nucleare con l'Iran - la data di scadenza per la certificazione dell'intesa è il 15 ottobre - gli Stati Uniti alzano il tiro su uno dei più stretti alleati di Teheran: Hezbollah. Gli Usa hanno posto taglie di diversi milioni di dollari per la cattura di due dirigenti del "Partito di Dio" sciita, considerati figure centrali dell'apparato militare del movimento sciita libanese. I media di Beirut sottolineano che le taglie, di sette milioni di dollari per Talal Hamiyah, e di cinque milioni per Fuad Shukr, rappresentano un segnale di una crescente pressione degli Usa sul movimento considerato "terrorista" da Washington, e sull'Iran, suo alleato. Secondo le informazioni dei media, Hamiyah è responsabile dell'organizzazione per la sicurezza esterna di Hezbollah, mentre Shukr è consigliere per gli affari militari del leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah. Ieri il direttore del Controterrorismo nazionale statunitense, Nicholas Rasmussen, parlando al Dipartimento di Stato ha indicato nel movimento sciita libanese una minaccia diretta e concreta per gli Stati uniti. Non solo fuori dai confini nazionali, ma anche dentro: "Se molto del nostro lavoro dopo l'11 settembre si è focalizzato su al-Qaeda e più recentemente sull'Isis, nei 20 anni dalla designazione di Hezbollah come organizzazione terroristica, non ci siamo mai focalizzati sulla minaccia che rappresenta per la nostra patria". Ovvero, ha aggiunto Rasmussen, Hezbollah starebbe lavorando per creare infrastrutture nel territorio statunitense e per compiere attacchi. Nessun dettaglio è stato fornito, se non l'arresto lo scorso giugno di due sospetti membri di Hezbollah negli Usa. Per il Controterrorismo è la prova di una "infrastruttura globale di attacco e delle aspirazioni del gruppo".
Alle mosse statunitensi si aggiungono gli avvertimenti di Israele. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ribadito che Israele non distinguerà più fra forze armate regolari libanesi e i combattenti del movimento sciita. L'accordo fra il presidente cristiano Michel Aoun e Hezbollah ha cambiato la situazione. In caso di attacco l'aviazione israeliana colpirà in profondità, su tutte le infrastrutture dello Stato, non solo nel Sud. Nel momento in cui mette di nuovo nel mirino le ben addestrate, e ancor meglio armate, milizie di Nasrallah, Israele ha tutto l'interesse a indebolire Hamas per indebolire l'Iran. E sostenere, indirettamente, il diktat di Abu Mazen "vistato" dall'Egitto.
(L'Huffington Post, 11 ottobre 2017)
L'ebreo salvato da Hitler
di Pee Gee Daniel
Eduard Bloch nel suo studio
Ottant'anni fa l'Italia fascista promulgava le famigerate leggi razziali in ottemperanza a quelle già attuate da tempo nel III Reich. Leggi fuori dalla cultura nazionale che infatti, per essere pienamente accettate, prima dovettero essere sufficientemente supportato da un apparato ideologico composto di infarinature pseudo-scientifiche e fumose argomentazioni para-mitologiche: a postularle vi si misero geni oscuri come Julius Evola e odiosi cretini come quell'Almirante futuro segretario dell'Msi, al quale qualcuno oggi gradirebbe intitolare piazze e strade.
Così, per un semplice atto di riguardo verso l'alleato germanico, il pavido Mussolini consentì soprusi, violenze e deportazioni ai danni della più antica comunità ebraica occidentale, da secoli integrata coi propri connazionali. Proprio lui, che fu "inventato", si può dire, da quell'intellettuale ebrea che gli era amante negli anni milanesi pre-sansepolcristi: Margherita Sarfatti (la quale a sua volta si sarebbe salvata da quelle leggi scappando all'estero, al contrario della sorella, per esempio, che trovò la morte ad Auschwitz).
Ma anche Adolf Hitler, forse ancor più inaspettatamente, presenta una macchiolina "filo-giudaica" nel suo peraltro integerrimo antisemitismo: si tratta del medico austriaco Eduard Bloch.
Un medico condotto che esercitava la professione a Linz, dove risiedeva la famiglia Hitler.
A Bloch toccarono in cura entrambi i genitori del futuro spietato dittatore.
Siccome gli Hitler se la passavano tutt'altro che bene, Bloch, fedele alla lettera al Giuramento di Ippocrate, nonché contrassegnato da un'innegabile buona disposizione d'animo verso il prossimo, richiedeva ai pazienti in questione un onorario irrisorio, nonostante la grande attenzione prestata nell'assolvere ai propri compiti deontologici. Uno scrupolo e una professionalità riconosciuti dallo stesso Adolf, che ebbe modo di definire il medico curante dei genitori Ein Edeljude, un nobile ebreo.
Quel mammone di Hitler si sentì in debito con Bloch in special modo per le terapie di cui beneficiò la genitrice Klara Pölzl, che lo stesso medico avrebbe poi descritto alla polizia militare americana, quando lo interrogò su dettagli estrapolati dalla giovinezza del Führer per vedere se ne potesse trarre del materiale strategicamente rilevante, come una donna mite e cortese, che non avrebbe mai sopportato di vedere ciò che il figlio sarebbe divenuto dopo la sua morte.
Nel 1907 Bloch diagnosticò a Frau Hitler un cancro al seno non curabile, che tuttavia egli lenì per diversi mesi somministrandole medicine e antidolorifici piuttosto costosi che la famigliola non si sarebbe potuta permettere e che il sanitario passava loro a titolo del tutto gratuito.
Quando infine Klara si spense il figlio Adolf apparve a Bloch - sempre secondo la testimonianza resa agli americani - come la persona più triste che avesse mai visto.
Il terribile tiranno riuscì a riservare un angolino costantemente riscaldato, all'interno di quel cuore glaciale, per Eduard Bloch, a tal punto che nel '38, mentre gli altri ebrei venivano ghettizzati, espropriati di ogni diritto, vilipesi e preparati per la Soluzione Finale, costui venne messo sotto la protezione delle SS, affinché nulla di spiacevole potesse accadere a lui e famiglia. E anni dopo, quando ormai la curatela concessa a quel medico ebreo cominciava a dare nell'occhio, gli fu agevolata una salvifica emigrazione, negli Stati Uniti per l'appunto.
Dentro questo stupefacente quadro si inserisce poi un ulteriore elemento di sorpresa: secondo gli studiosi Marks e Forrester, accortosi degli strani comportamenti di Hitler bambino, Bloch nel 1895 aveva avuto la bontà di rivolgersi, in via del tutto ufficiosa, a un altro medico ebreo viennese di sua conoscenza, che proprio in quegli anni inaugurava una nuova disciplina dedicata alla psiche umana: si chiamava Sigmund Freud.
Dopo aver brevemente studiato il caso del ragazzino, il verdetto di Freud fu quasi automatico: il soggetto andava aiutato, ricoverandolo al più presto in un centro di salute mentale per l'infanzia.
Fu il capofamiglia a rifiutare ripetutamente il permesso al ricovero. Sembra che ciò fosse dovuto al fatto che, impartendo Alois Hitler continue punizioni corporali al gracile figliolo per qualsiasi inezia, voleva evitare che, a un attento esame, le violenze da lui inflitte (tanto decisive nel formare la definitiva personalità del figlio) venissero scoperte dalle autorità.
(Tibereide, 11 ottobre 2017)
I Volterra tornano nella città etrusca
L'evento con l'ultimo ramo della storica famiglia
Dopo 600 anni la famiglia Volterra torna a Volterra! L'ultimo ramo della storica famiglia ebraica insediatasi a Volterra agli inizi del 400 il cui capostipite fu Meshullam/Bonaventura da Volterra. I Volterra hanno rappresentato molto nei commerci e nella cultura della città, possedevano una biblioteca sconfinata tra cui l'unica Bibbia in ebraico (la Bibbia di Volterra) ora ai Musei Vaticani. L'ultimo ramo della famiglia è composto tutto da donne Hava Volterra, regista di Los Angeles che ha realizzato un film documentario sulle tracce della sua famiglia e che verrà presentato Domenica. Myriam Volterra che ha avuto grande successo internazionale nel ramo dei prodotti di lusso Patrizia Volterra e il figlio Davide. Sarà il parterre di una serata storica che riunirà i discendenti diretti di Bonavventura alla sua città di adozione della quale da secoli portano il cognome, ma sarà anche un momento di grande commozione per la famiglia e per la città.
Organizzato da Giovanni Buselli e Simone Migliorini con l'Associazione Culturale Gruppo Progetto Città, Festival Internazionale del Teatro Romano, fortemente voluto dall'Amministrazione Comunale con la benevolenza della Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra l'evento è solo un incipit di un più grande progetto che prenderà le mosse proprio dal prossimo Festival internazionale. Tra gli ospiti Caterina Gramaglia attrice di origine volterrana che presenterà un suo lavoro teatrale su la Cabala, l'Albero della vita, appunto, che sarà anche il titolo del Docu-film di Hava che sarà proiettato. Volterra: non solo Città, ma identità da scoprire, passando dal Medioevo ad oggi, da Los Angeles a Gerusalemme.
La famiglia dei Volterra ha dato origine a nomi illustri, ha lasciato le sue tracce nella storia. Per questo ne parleremo insieme Domenica 15 Ottobre, in Casa Torre Toscano, a partire dalle 16:30. Il Festival Internazionale Teatro Romano Volterra, con il patrocinio del Comune, e la collaborazione di Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra ospiterà in questo evento una regista, discendente dei Volterra, che presenterà un suo Film documentario autobiografico.
Con lei, ad integrare un racconto che intreccia cultura, storia, arte e narrazione, avremo l'artista di origine volterrane Caterina Gramaglia (nipote di Giuseppe Bessi) e Rosa Morelli, nonché l'editore Guido Guastalla, in rappresentanza della Comunità ebraica di Livorno.
Storia ed attualità trovano infine un loro punto d'incontro proprio in uno dei Volterra: Meshullam/Bonavventura Volterra è infatti recentemente tornato alle cronache internazionali per il diario dei suoi viaggi in Israele, del 1481.
(gonews.it, 11 ottobre 2017)
Amedeo Spagnoletto è il nuovo rabbino di Firenze
Il consiglio della Comunità ha votato la sua nomina all'unanimità martedì sera. Ha 47 anni, vive qui e insegna a Roma
di Maria Cristina Carratù
La comunità ebraica fiorentina ha il suo nuovo rabbino: è Amedeo Spagnoletto, 47 anni, romano, sposato con una fiorentina, quattro figli, docente al Collegio rabbinico di Roma, uno dei massimi studiosi di Torah e Talmud, e unico italiano negli ultimi 150 anni ad aver trascritto a mano il Sefer Torah, il rotolo del testo sacro ebraico.
Individuato da una commissione (nominata a questo scopo) dopo una ricerca durata alcuni mesi, Spagnoletto succede a rav Joseph Levi, andato in pensione la scorsa primavera, ed è in servizio ufficialmente da ieri. Il consiglio della Comunità ha votato la sua nomina all'unanimità martedì sera (dopo l'approvazione preventiva della Consulta rabbinica, prevista dallo statuto dell'Unione delle comunità ebraiche italiane), dandone poi comunicazione ufficiale a tutti i suoi iscritti. Un segnale importante, secondo il presidente della Comunità di via Farini Dario Bedarida: "In queste settimane", spiega, "Spagnoletto ha assiduamente frequentato la nostra Comunità, partecipando al Capodanno ebraico, alla festa di Yom Kippur, e chiudendo la festa di Sukkot, dimostrando di saper stare vicino alle persone, risolvere problemi, cogliere esigenze, e facendosi apprezzare da tutti anche grazie al suo stile informale".
Il nuovo rabbino ha salutato gli iscritti con breve messaggio diffuso via mail ieri sera, in cui si è firmato semplicemente "Amedeo": "Spero" ha scritto "di lavorare tutti insieme per una comunità unita, affiatata, fiera della sua identità, che fa e rincorre il bene per se, per il proprio popolo e per il mondo intero".
Una nomina, quella di Spagnoletto, all'insegna della "continuità nella novità": "Dal punto di vista strettamente religioso non ci sarà alcun cambiamento", spiega Bedarida, "il nostro nuovo rabbino si è formato nell'ebraismo italiano e non sposterà la Comunità fiorentina né sul versante riformato né su quello lubavitch (ortodosso, ndr)". Dal punto di vista delle relazioni interne, invece, la svolta è in arrivo: "Senza nulla togliere al rapporto con la città e il dialogo interreligioso, che fa sempre parte del compito di un rabbino, ma tanto più a Firenze, dove è uno dei prerequisiti", dice il presidente, "abbiamo voluto un rabbino capace di rivitalizzare la comunità al suo interno, di riprendere i contatti con tutte le sue componenti, a cominciare dai giovani e dai giovanissimi, e di promuovere iniziative", a cominciare da quelle necessarie per l'autofinanziamento.
(la Repubblica - Firenze, 11 ottobre 2017)
Israele prepara una nuova guerra: 'Libano e Siria saranno fronte unico'
di Matteo Carnieletto
Libano e Siria saranno un unico fronte di guerra. Lo ha detto il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, il quale ha anche sottolineato che lo Stato ebraico sta valutando l'ipotesi di un attacco contemporaneo da sud, dalla Striscia di Gaza, dove dominano le milizie islamiste di Hamas.
"A nord - ha detto Lieberman - abbiamo un unico fronte composto da Libano, Siria, da Hezbollah, dal regime Bashar al Assad e da tutti coloro che lo aiutano". Secondo il ministro della Difesa israeliano, l'esercito libanese "ha perduto la propria indipendenza ed è diventato parte integrante di Hezbollah, da dove partono effettivamente gli ordini".
Per i dati in possesso all'intelligence israeliano, il Partito di Dio dispone, di oltre 100mila razzi e missili che possono colpire praticamente tutto il territorio di Israele. Secondo Lieberman esiste il rischio concreto di un confronto che "si sviluppi sui fronti nord e sud. Non credo ci potrà essere una guerra su un solo fronte. Questa è la nostra ipotesi di base ed è quella su cui il nostro esercito si prepara".
"La nuova realtà - ha affermato Lieberman - ci presenta nuove sfide. Se una volta parlavamo del fronte libanese, questo non c'è più. C'è un fronte settentrionale. In ogni sviluppo che ci sarà, avremo un fronte, Siria e Libano assieme, Hezbollah, il regime di Assad e tutti i sostenitori del regime di Assad".
Le dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano vanno di pari passo con un editoriale scritto da Eric R. Mandel e apparso sul Jerusalem Post il 5 settembre scorso in cui si annuncia una nuova guerra, che gli Usa dovranno accettare.
Teheran, di fatto, ha vinto la sua guerra in Siria, rappresentando così una minaccia per lo Stato ebraico, come ha scritto il generale Yossi Kuperwasser: "L'Iran vuole quasi certamente trasformare la Siria in una base militare iraniana. Per cui, invece di minacciare Israele da 1.300 chilometri, le forze iraniane potrebbero arrivare ai confini di Israele. Ciò comporterebbe un cambiamento drammatico nella natura della minaccia che Israele dovrà affrontare".
Secondo Mandel, l'Isis perderà in Siria, ma l'Iran prenderà il sopravvento, ed è a questo punto che Israele dovrà combattere. Sarà una guerra preventiva, che verrà condotta prima di ogni possibile attacco iraniano: "Se l'amministrazione (Trump NdR) non riesce ad agire, il Congresso dovrebbe assumere la direzione, parlando chiaramente al popolo americano su come la presenza dell'Iran in questa regione possa danneggiare la sicurezza nazionale". Per questo motivo, Israele avrebbe già mandato ufficiali e membri dell'intelligence negli Stati Uniti per parlare di una nuova possibile guerra, che potrebbe infiammare ancora di più il Medio Oriente.
(Gli occhi della guerra, 11 ottobre 2017)
Un palestinese denuncia all'ONU la corruzione del regime di Abu Mazen
Riprendiamo dal sito Il Borghesino questo articolo del 28 settembre scorso, meravigliandoci di non aver incontrato prima la notizia sui grandi giornali e nella molteplicità dei media. E una notizia che avrebbe dovuto avere il massimo risalto. Non è avvenuto, e anche questo è significativo. NsI
È stata una giornata memorabile, quella di lunedì [25 settembre] a Ginevra. Dove si è tenuta la 36esima sessione del Consiglio ONU per i Diritti Umani (OHCHR), un organismo composto da 47 nazioni, che con i diritti umani sovente non hanno alcuna confidenza: Qatar, Venezuela, Cina, Cuba, Egitto, Iraq, Arabia Saudita vi dicono qualcosa?
Un organismo autoreferenziale, corrotto e degno di fare la stessa fine della omologa Commissione ONU per i Diritti Umani, cancellata nel 2006 per manifesta incapacità di perseguire l'obiettivo originario della «promozione ed incoraggiamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali». Di fatto, questi costosi carrozzoni servono per fornire a stati canaglieschi una ribalta mediante la quale scagliarsi contro l'unico stato che in Medio Oriente garantisce da sempre democrazia, tutela delle minoranze, pluralità e libertà di pensiero, di culto e di espressione.
Anche questa sessione dell'OHCHR ha seguito il copione abituale: il tema all'ordine del giorno, manco a dirlo, era la situazione dei diritti umani in "Palestina". Erano iscritti a parlare il delegato dell'OLP: «Israele continua la sua politica coloniale e le sue violazioni»; quello siriano: «Israele persegue la giudeizzazione di Gerusalemme; il Qatar: «le violazioni razziste perpetuate da Israele...»; la Nord Corea: «Israele continua a commettere violazioni dei diritti umani in Palestina». Di analogo tenore i deliri profferiti dai delegati di Pakistan, Venezuela e Iran: solita solfa, che ormai annoia anche chi odia a morte lo stato ebraico. Non se ne può più.
Ma quando il presidente dell'assemblea concede la parola al palestinese Mosab Hassan Yousef, il palazzo trema.
Siamo davvero orgogliosi di riportare la testimonianza di questo coraggioso relatore. Integralmente:
«Grazie, signor presidente. Prendo la parola a nome dell'UN Watch. Mi chiamo Mosab Hassan Yousef. Sono cresciuto a Ramallah, e sono stato un membro di Hamas. Mi rivolgo all'Autorità palestinese, che sostiene di essere l'unica legittimata a rappresentare il popolo palestinese; e chiedo: da dove proviene la vostra legittimazione?
Il popolo palestinese non vi ha eletti, e non vi ha conferito alcuna rappresentanza. Vi siete autonominati! Non rendete conto al vostro popolo, e vi macchiate di totale violazione dei diritti umani dei palestinesi. A dirla tutta, i palestinesi e il loro sviluppo umano è l'ultimo dei vostri pensieri.
Sequestrate gli studenti dalle scuole per torturarli e condurli nelle vostre prigioni. Torturate gli oppositori politici. La sofferenza del popolo palestinese è il risultato della vostra autoreferenzialità. Siete voi, il maggior nemico del popolo palestinese!
Se Israele non esistesse, non avreste nessuno da biasimare. Assumetevi la responsabilità del vostro operato: voi alimentate il conflitto per perpetuare il vostro potere abusivo.
E usate questa platea per ingannare l'opinione pubblica internazionale, per confondere la società palestinese, inducendo a credere che sia Israele il responsabile dei problemi che voi stessi generate.
Grazie.»
Sconcerto del pubblico, smarrimento dei delegati, sgomento dei delegati palestinesi. Temiamo per la vita di questo coraggioso palestinese, che ha denunciato la corruzione del regime che opprime e sopprime il popolo palestinese. Una testimonianza scioccante, ma non per questo sorprendente, per chi conosce la realtà del conflitto israelo-palestinese.
(Il Borghesino, 28 settembre 2017)
Duri scontri presso la Tomba di Giuseppe
NABLUS - Duri scontri fra reparti dell'esercito israeliano e gruppi di dimostranti palestinesi sono avvenuti la scorsa notte nella città di Nablus durante lo svolgimento di riti ebraici nella Tomba di Giuseppe, il figlio del patriarca Giacobbe.
Fonti locali riferiscono che comitive di ebrei religiosi sono giunte sul posto a bordo di una trentina di torpedoni, accompagnati da un reparto dell'esercito. In loro direzione sono state lanciate pietre e bottiglie incendiarie.
Per mettere fine agli incidenti l'esercito ha fatto ricorso a gas lacrimogeni e a proiettili rivestiti di gomma. L'agenzia di stampa palestinese Maan scrive che tre persone sono rimaste ferite e che diverse altre sono state intossicate dalle esalazioni.
Il pellegrinaggio dei religiosi era stato coordinato con l'esercito per consentire loro di celebrare la ricorrenza ebraica del Sukkot, la Festa dei Tabernacoli. In questa occasione circa 40 mila ebrei religiosi hanno raggiunto anche la città di Hebron e hanno pregato nella Tomba dei Patriarchi, che in questi giorni è stata chiusa ai fedeli musulmani.
(tio.ch, 11 ottobre 2017)
Israele scoprì il 'segreto' degli hacker russi: usato l'antivirus Kaspersky
Secondo il Nyt, nel 2015 l'intelligence israeliana aveva scoperto tutto e avvisato l'agenzia per la sicurezza Usa
I retroscena del 'Russiagate' sono noti da tempo all'intelligence israeliana. Lo riporta il New York Times sostenendo che gli israeliani avevano scoperto che gli hacker legati al Cremilino stavano usando l'antivirus della russa Kaspersky Lab. Un software che in realtà è utilizzato da 400 milioni di utenti nel mondo incluse, fino al mese scorso, più di 20 agenzie governative americane.
La ricostruzione del quotidiano americano porta alla luce l'hackeraggio israeliano che avrebbe permesso di avvisare l'intelligence statunitense dell'intrusione da parte dei russi. Da lì, nei mesi scorsi, la decisione della Casa Bianca di fare a meno dell'antivirus eliminandolo da tutti i computer delle agenzie governative, proprio perché sospettato di funzionare come spia per conto del Cremlino. Il fondatore dell'azienda di cybersicurezza russa, Eugene Kaspersky, era stato ascoltato dal Congresso Usa il 27 settembre.
Non solo, perché stando al Washington Post, l'intelligence israeliana avrebbe anche trovato nella rete di Kaspersky, - sempre due anni fa - strumenti di hackeraggio "che potevano provenire solo dalla National Security Agency" (Nsa) statunitense. L'agenzia per la sicurezza Usa informata dei fatti, avrebbe dunque avviato un'indagine per scoprire poi che quegli strumenti erano in possesso del governo russo.
(la Repubblica, 11 ottobre 2017)
Ramos, un gesto che commuove Israele
Il capitano della nazionale di calcio spagnola dona una tutina ai familiari di un agente druso ucciso in un attentato palestinese.
Sergio Ramos
Il capitano della nazionale spagnola Sergio Ramos ha commosso Israele quando la scorsa notte, dopo la partita vinta per 1-0 con la nazionale israeliana, ha incontrato i familiari di Hail Setawi, un agente druso della guardia di frontiera ucciso in un attentato palestinese nel luglio scorso nella Spianata delle moschee di Gerusalemme. Setawi era un fan del Real Madrid, faceva parte del club locale della tifoseria e aveva impartito il nome 'Ramos' al suo primogenito, nato due settimane prima dell'attentato. Ieri il campione spagnolo ha incontrato il suo piccolo omonimo e gli ha donato una tutina con i colori della nazionale spagnola. Il suo gesto ha vivamente commosso i familiari dell'agente e ha avuto grande risalto nei media locali. ''E' una storia emozionante" ha scritto su Facebook il fratello di Setawi. "Ramos e' una persona che ti commuove, ha un cuore enorme e ha realizzato un sogno gigantesco della nostra famiglia, dopo che abbiamo perso quanto avevamo di più caro".
(ANSA, 10 ottobre 2017)
Angelika Schrobsdorff, l'ebrea che previde il pericolo di Hitler
Biografia di una scrittrice
di Vito Punzi
Estratto dalla" cassapanca del passato" un piccolo quaderno rosso con all'interno la Vita di nostra figlia Else, la biografia di sua madre scritta dai nonni, Angelika Schrobsdorff (1927-2016) venne afferrata da una nostalgia potente, quella nostalgia che pesca non solo nel passato vissuto, ma anche e soprattutto nel non vissuto, perché lo si vorrebbe proprio. Il libro che ha dato forma a quella nostalgia (Tu non sei come le altre madri, trad. di Monica Pesetti, edizioni e/o, p, 514, euro 19), corposo ma di godibilissima lettura, è troppo partecipato dall'autrice (parla di se stessa in terza persona) per essere definito una biografia. Trattasi piuttosto di romanzo, nella sua accezione più completa e nobile, cioè costellazione di persone e di comunità che s'intrecciano nel cielo della storia durante la prima metà del 900.
Else Kirschner, questo il nome della madre di Angelika, nacque nel 1893, a Berlino. Figlia di ebrei fieramente fedeli all'imperatore tedesco, frequentò una scuola femminile cristiana. Ricordando come in particolare al tempo della sua formazione Else fosse particolarmente attratta dalla vita dei cristiani, la Schrobsdorff non esita ad indagare il perché di quella preferenza, senza lesinare giudizi contraddittori della stessa madre. sul contesto ebraico: «Non sopportavo la gente della nostra cerchia», riporta Angelika da un testo della madre, «erano tutti commercianti di tessuti, cuoio o pellicce, parlavano un gergo orribile ed erano rozzi e ignoranti. Mi dicevano che dovevo sposate un buon partito. Sposarsi sì, ma per amore. Era un concetto così da ebrei, e io non tolleravo questo aspetto della mentalità ebraica».
Storia di una donna passionale, recita il sottotitolo del libro, e non fa una piega, se è vero, come ricorda la figlia, che Else, pur pagandola a caro prezzo difese ad oltranza la propria libertà di legarsi a più uomini, anche contemporaneamente, e con quella libertà anche il principio per cui è bene "fare un figlio con ogni uomo che si ama". Vuoto e apatia, da un lato, vortici d'allegria dall'altro, il matrimonio - mai avuto- come coronamento della vita. Ai diversi scenari sociali politici tedeschi ed europei della prima metà Novecento la Schrobsdorff dedica pochi cenni. Come quando ricorda le tensioni tra gli ebrei tedeschi quando Hitler, giunto al potere, rese operativa la propria politica antisemita: strenui cittadini fedeli al Reich da un lato, convinti che "dopotutto erano in Germania, un paese civile ed evoluto", e sionisti dall'altro, convinti invece che era giunto il momento di emigrare in Palestina.
(Libero, 11 ottobre 2017)
La storia di Puglia sotto una buona stella, di David
«In viaggio per sinagoghe e giudecche» con Maria Pia Scaltrito. Da Otranto a Trani, da Bari a Venosa, fonti e storie delle più antiche comunità ebraiche italiane.
di Giacomo Annibaldis
Sotto una buona stella, quella di Davide: per circa 1.500 anni la Puglia, con la vicina Basilicata, ha coltivato una cultura «alternativa», quella ebraica. Una presenza che potrebbe partire dal 70 d.C., anno in cui - come dirà il cronista del «Sefer Yosefon», nel X sec. - quasi 5.000 giudei furono deportati dall'imperatore Tito da Gerusalemme nelle nostre regioni, stanziandosi soprattutto a Otranto, Taranto, Brindisi, Oria ... ; per finire con l'espulsione di tutti gli ebrei dal Regno di Napoli nel 1541.
Nel Medioevo queste cittadine per la influente presenza giudaica vennero indicate come centri sapienziali per gli ebrei stessi; sì che un loro antico detto sosteneva che «da Bari è uscita la Legge, e la Parola di Dio da Otranto». E che non si tratti di un'esagerazione lo conferma un profluvio di documentazione epigrafica, archeologica, testuale, emerso negli ultimi decenni.
Tutto ciò è potuto avvenire grazie soprattutto all'operosità di uno studioso come Cesare Colafemmina. Opportunamente egli vien definito «il padre del Sud ebraico» da Maria Pia Scaltrito nel suo recente volume Puglia. In viaggio per sinagoghe e giudecche (Adda ed., pp. 135, euro 10,00, con foto di Nicola Amato). La Scaltrito, studiosa di cultura ebraica che ha collaborato con Colafemmina nel localizzare a Copertino il sito esatto della sinagoga, si fa erede di tanto interessante patrimonio e ci conduce a spasso per la Puglia, e per la vicina Basilicata, aiutandoci a cogliere le suggestioni ancora percepibili, gli echi di poeti e di sapienti, le testimonianze di vite e di morti, di tolleranze e di persecuzioni. Con piglio narrativo, narra «fonti, personaggi e storie delle più antiche comunità ebraiche italiane» (come recita il sottotitolo del volume).
L'itinerario parte da Otranto. Aggirandosi tra le sopravvissute epigrafi funebri e ricordando la leggendaria menorah - il candelabro dai sette bracci alto 8 metri, conservato un tempo nella cattedrale cristiana -, la Scaltrito rispolvera una storia ostentatamente obliata, pur nel fulgore della leggenda dei martiri idruntini: tanti ebrei furono trucidati dai saraceni insieme ai sacerdoti e ai fedeli cristiani, durante la presa della città nel 1480. Tuttavia per loro non ci fu gloria della memoria.
Tra le mura di Otranto sorse probabilmente uno scriptorium giudaico, dove fu forse vergata verso il 1070 una celebre copia della Mishnah (ora conservata a Parma), che presenta una particolarità: in essa appare un essenziale «vocabolarietto» di dialetto pugliese, ben 154 parole salentine (fenomeno, questo, constatato anche in un manoscritto di Donnolo Shabbetai, ebreo e celebre medico di Oria, che nel X secolo scrisse «il primo libro di medicina composto in Italia dopo la caduta dell'impero romano»).
La coesistenza con le comunità ebraiche non fu tutta rose e fiori. A Lecce, ad esempio, nel 1495 si verificarono tumulti e saccheggi ai loro danni: la sinagoga fu convertita in chiesa cristiana (destino che incomberà sulla maggior parte dei luoghi di culto giudaici); e nel vicino palazzo Loffredo-Adorno, un'elegante epigrafe in ebraico pone la domanda: «Non è questa la casa di Dìo?»: doveva essere l'insegna che indicava quella sinagoga, ma fu reimpiegata in un sottovano dell'edificio che conduce a un corso d'acqua sotterraneo (o forse a una fogna? E in questo caso lo sfregio antigiudaico sarebbe evidente).
È «un'archeologia dei sentimenti» quella di Scaltrito, alla ricerca di palpabili emozioni, di remote evocazioni, tra inni liturgici e poesie nuziali, tra ombre di sapienti che si aggirano nelle nostre contrade e labili tracce storiche. A Taranto le epigrafi funerarie databili dal IV al X secolo (alcune conservate nel museo Mar'I'a) confermano - come ad Otranto - la presenza massiccia di una comunità ebraica. L'ebreo e rabbino spagnolo Beniamino da Tudela, nel suo resoconto di viaggio Sefer Masa'ot, enumera - siamo nel XII secolo ben 500 famiglie a Otranto e 300 a Taranto (quando a Gerusalemme ne conterà solo 200!).
Naturalmente, spigolature e suggestioni affiorano parlando di Oria e di Brindisi, come anche di Andria ( dove la Scaltrito individua la sinagoga nell'attuale chiesetta della Mater Gratiae ). E se Bari - definita in una euforica iscrizione una «nuova Gerusalemme» - offre una storia ricca della presenza giudaica, con due sinagoghe attestate, nonché con numerosi documenti e leggende; è a Trani che la cultura e la fede ebraica si sono palesate in maniera più evidente: una delle antiche sinagoghe, la «Scola Grande» - trasformata nei secoli in chiesa dedicata a sant' Anna (la madre della Vergine, che più di ogni altro santo cristiano viene raffigurata con i testi talmudici in mano!)- dal 2009 è diventata un museo di civiltà ebraica. Un unicum nell'Italia meridionale. Anche qui, molto ha giovato la sapienza di Colafemmina.
Naturalmente il viaggio sulle orme dei nostri ebrei non poteva non concludersi a Venosa, «che da sola raccoglie il novanta per cento dell'epigrafia ebraica europea alto-medievale, con circa settanta stele e una cinquantina di epigrafi». Forse in questa cittadina apulo-lucana fu vergato il Sefer Yosefon, «la più remota cronaca ebraica composta in Italia».
Chi potrebbe dunque negare la centralità della cultura ebraica per la Puglia? E chi negherà ormai la centralità della Puglia per gli ebrei stessi? In questa terra essi ritrovano le radici della loro cultura e della loro fede, qui disseminate per una straordinaria diaspora etnica e intellettuale.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 11 ottobre 2017)
Il ministro russo Shoigu in visita in Israele 16 ottobre
MOSCA - Il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, effettuerà la sua prima visita ufficiale in Israele il prossimo 16 ottobre per discutere delle preoccupazioni dello Stato ebraico sulla presenza iraniana in Siria. Lo riferisce un portavoce del ministero della Difesa di Gerusalemme citato dalla stampa russa. I media israeliani avevano preannunciato la visita di Shoigu nello Stato ebraico lo scorso settembre, precisando che l'incontro con l'omologo israeliano Avigdor Lieberman servirà a discutere del rafforzamento della cooperazione militare tra i due paesi e migliorare il coordinamento delle future azioni militari in Siria. È la prima volta nell'arco di diversi anni che un ministro della Difesa russo effettua una visita ufficiale in Israele.
(Agenzia Nova, 10 ottobre 2017)
Iniziati al Cairo i colloqui tra Fatah e Hamas
IL CAIRO - Sono iniziati questa mattina i colloqui al Cairo tra i dirigenti dei partiti palestinesi di Fatah e Hamas per applicare i contenuti dell'accordo di Riconciliazione nazionale palestinese del 2011. Secondo quanto si legge in una nota diramata dall'ambasciata palestinese nella capitale egiziana, il capo della delegazione di Fatah, Azzam al Ahmed, ha spiegato che "la prima riunione con Hamas inizia oggi alle 12 ora locale sotto la supervisione delle autorità egiziane". Il punto essenziale sul quale dovranno trovare un accordo è quello di rendere effettiva l'azione del governo a Gaza e come collaborare con i ministeri e con Hamas". Ahmed prevede che nei prossimi giorni i ministeri palestinesi saranno già operativi in base alla legge e che il clima al momento è positivo. Si discuterà oggi inoltre del tema delle elezioni, della sicurezza e dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina. Ha aggiunto il dirigente di Fatah che "la gestione dei valichi di frontiera è parte integrante del lavoro del governo che dovrà controllare tutti i valichi. Le delegazioni dei due partiti palestinesi sono giunte al Cairo ieri notte in vista dell'incontro di oggi che avviene ad una settimana dall'arrivo a Gaza del premier Rami Hamdallah e dei suoi ministri che hanno tenuto la loro prima riunione a Gaza grazie all'accordo raggiunto dai due partiti a fine settembre al Cairo.
(Agenzia Nova, 10 ottobre 2017)
«Atto contro vita, libertà e convivenza»
Trentacinque anni fa l'attacco alla Sinagoga
di Simona De Santis
Virginia Raggi e Ruth Dureghello
Era il 9 ottobre del 1982 quando un commando di terroristi palestinesi colpì con granate e mitragliatrici gli ebrei che uscivano dalla Sinagoga. Nell'attentato morì il piccolo Stefano Gaj Tachè. due anni, e vennero ferite 37persone.
A trentacinque anni da quel terribile giorno, Roma ha ricordato l'attentato alla Sinagoga con una cerimonia cui hanno preso parte i rappresentanti delle istituzioni e della Comunità Ebraica insieme ai famigliari di Stefano Gaj Taché e a tanti ragazzi delle scuole. Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rivolto «un pensiero speciale alle famiglie delle vittime» per quello che fu «un atto spregevole contro la vita, contro la libertà, contro la religione, contro la convivenza». La sindaca Virginia Raggi, rivolgendosi agli studenti, ha spiegato che «la storia di Stefano è per sempre parte della storia della città, è nostro compito attualizzare la memoria per trasmetterla ai giovani». E la presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, ha ricordato che «non siamo qui per aprire una ferita ma per chiuderla»: «Ma sono ancora troppe le responsabilità non accertate. Vorremmo dopo tanti anni conoscere la verità e chiamare ciò che ci colpì con il suo vero nome, "terrorismo palestinese": è ora di finirla con i tabù».
(Corriere della Sera - Roma, 10 ottobre 2017)
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Ghetto, il ricordo del sangue e l'Anpi viene allontanata
di Gabriele Isman
Nuova puntata nella dura contrapposizione tra Comunità ebraica e Anpi. Ieri, alla commemorazione dei 35 anni dall'attentato alla Sinagoga in cui perse la vita il piccolo Stefano Gay Tachè di due anni e 37 persone furono ferite, la rappresentanza dell'Associazione partigiani è stata invitata ad allontanarsi al momento in cui la cerimonia si spostava dal lungotevere all'interno della scuola ebraica. Una contestazione isolata: i partecipanti alla cerimonia -in primis la sindaca Virginia Raggi, accolta dal rabbino capo della Capitale Riccardo ili ~ e dalle presidenti Ruth Dureghello (Comunità ebraica di Roma) e Noemi Di Segni (Unione delle Comunità ebraiche italiane) - erano già entrati nel Palazzo della cultura che ospita anche le scuole, quando alcuni esponenti della comunità hanno invitato i rappresentanti dell'Anpi a lasciare la commemorazione. «Noi ricordiamo quel giorno terribile in cui un commando palestinese, nel nostro shabat nella chiusura di Sukkot, ci attaccò e voi venite qui dopo aver invitato alla sfilata del 2 5 aprile i filo palestinesi», la motivazione dell'allontanamento.
«È stato un episodio isolato da non ingigantire», dice Fabrizio De Sanctis, presidente di Anpi Roma, che non era presente alla piccola contestazione.
Dalla comunità ebraica nessun commento ufficiale. Scelgono il silenzio Dureghello e il suo vice Ruben Della Rocca «È un episodio che rappresenta l'umore di una parte consistente di noi - dice qualcuno -perché le discussioni con I'Anpi ci sono state. Sono necessari dei chiarimenti e non c'è ancora stato quell'incontro con I'Anpi per cercare di superare le divergenze sul 25 aprile». Eppure contatti ci sono stati, con l'obiettivo di tornare alla manifestazione unitaria per il prossimo anniversario della Liberazione.
La contestazione è stata l'unica nota stonata di una mattinata di commozione: «La storia di Stefano è per sempre parte della storia della nostra città e del nostro Paese, frutto dell'odio e dell'intolleranza. Non a caso il Presidente della Repubblica ha definito quell'assassinio in maniera significativa un crimine contro l'umanità. La storia di Stefano Gaj Taché ispira momenti di profonda riflessione sul nostro essere comunità, sui valori di pace e di accoglienza in cui ci riconosciamo con convinzione», aveva detto Raggi.
(la Repubblica - Roma, 10 ottobre 2017)
Turismo: Israele vuole rafforzare la cooperazione con la Cina
PECHINO - Israele intende rafforzare la cooperazione con la Cina per attirare maggiori turisti cinesi e rappresentare "un ponte culturale tra i due paesi". Lo ha detto Amir Halevi, direttore generale del ministero del Turismo israeliano. "Il turismo proveniente dalla Cina dà un contributo significativo e crescente all'economia israeliana, specialmente l'economia turistica", ha detto Amir Halevi, direttore generale del ministero del Turismo. Nei primi sette mesi dell'anno un totale di 64.600 turisti cinesi hanno visitato Israele, in crescita del 66 per cento su base annua e del 130 per cento rispetto al 2015 e secondo le previsioni entro la fine dell'anno i turisti cinesi raggiungeranno quota centomila. Oltre al turismo sono molte e delegazioni commerciali cinesi che raggiungono Israele per apprendere l'innovazione tecnologica o per cercare collaborazioni e partenariati in molti settori.
(Agenzia Nova, 10 ottobre 2017)
Israele scomparirà fra 23 anni
È la minaccia lanciata dall'Iran che ha iniziato il conto alla rovescia con un orologio digitale a Teheran.
di Mario Del Monte
Intorno alla fine di giugno si è svolta a Teheran l'annuale marcia di solidarietà per la causa palestinese coincidente con l'Al-Quds Day, la Giornata di Gerusalemme istituita dal regime iraniano nel 1979. Oltre a cantare i soliti slogan contro Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita, quest'anno i manifestanti hanno inaugurato in Piazza Palestina un grande orologio digitale con un lunghissimo conto alla rovescia che dovrebbe concludersi con la distruzione dello Stato d'Israele. La fine del countdown coincide con l'anno 2040, lo stesso menzionato dall'Ayatollah Khamenei nel 2015 come anno in cui "non rimarrà nulla dell'entità sionista".
Per le strade della capitale della Repubblica Islamica hanno sfilato anche le Guardie Rivoluzionarie con i nuovi missili balistici Zolfaghar che secondo il regime, nonostante non ci siano conferme in nessuna fonte indipendente, avrebbero fatto strage di terroristi in Siria nella provincia di Deir el-Zor in risposta al precedente attentato al Parlamento in cui sono morte diciotto persone, e missili Ghadr che hanno una gittata di duemila chilometri e sono in grado di raggiungere sia Israele che le basi americane in Medio Oriente. Questi missili sono considerati fonte di preoccupazione per Washington e sono costati alla teocrazia di Teheran diverse sanzioni internazionali. Per i media controllati dal governo iraniano il numero di partecipanti alla manifestazione anti israeliana avrebbe superato il milione, dato record ma impossibile da verificare, fra cui il Presidente Hassan Rouhani e il portavoce del Parlamento Ali Larijani. Quest'ultimo, incitando la folla, ha rilasciato dichìarazioni come "Israele è il più maligno dei terroristi di sempre" e "Israele è la madre di tutti i terroristi". Rouhani invece si è limitato a dire che "Israele sostiene il terrorismo nella regione", una frase su cui si basa l'ostile retorica iraniana verso lo Stato Ebraico ed il suo continuo rifiuto al diritto all'esistenza di una nazione diversa dalla Palestina.
Manifestazioni simili sono state registrate in diverse città iraniane sebbene non abbiano raggiunto i livelli di ostilità mostrati a Teheran: secondo l'agenzia di stampa del regime Tasnim molti dei partecipanti hanno esplicitamente affermato che la distruzione dello Stato d'Israele è una priorità per tutti i musulmani del mondo.
Nei giorni successivi alla manifestazione anche la Guida Suprema Khamenei ha rilasciato alcune dichiarazioni in cui ha sottolineato come eventi come questo possano combattere l'arroganza delle potenze egemoni e ha ricordato che difendere la Palestina significa difendere degli ideali molto più grandi della questione palestinese stessa.
L'istituzione del Quds Day ha avuto negli anni ripercussioni anche fuori dall'Iran. Quest'anno a Londra durante la manifestazione sono comparse bandiere dell'organizzazione terroristica sciita Hezbollah e diversi partecipanti hanno accusato gli ebrei di essere dietro l'incendio della Grenfell Tower che è costato la vita a circa novanta persone. Nel 2014 invece in Nigeria nella città di Zaria la marcia è sfociata in violenti scontri con l'esercito in cui sono morte trentacinque persone.
(Shalom, ottobre 2017)
In Israele anche gli ultra ortodossi andranno sotto le armi
Per l'Alta corte di giustizia tutti i cittadini sono uguali. Finora gli haredim erano esentati dal servizio militare. Ora non lo saranno più
di Giovanni Galli
A Gerusalemme si assiste a un conflitto tutto interno gli ebrei per l'estensione del servizio militare obbligatorio anche agli ultra ortodossi, gli haredim, che finora ne erano stati esentati. L'Alta corte di giustizia ha rilanciato il dibattito sull'integrazione degli ebrei molto osservanti nell'esercito israeliano respingendo, con otto voti a favore e uno contrario, l'esenzione di cui beneficiavano nella legge in vigore, ritenendola una discriminazione verso gli altri giovani israeliani che fanno il servizio militare, secondo quanto ha riportato Le Monde.
Una legge che prevedeva la partecipazione degli haredim alla leva era stata neutralizzata da un emendamento votato nel 2015. L'Alta corte adesso ha concesso un anno di tempo al governo per fare una nuova legge.
La decisione dei massimi giudici dà un colpo alle decisioni prese dopo le elezioni del marzo 2015 in seno alla coalizione al potere. Le due formazioni, Shass e Giudaismo unito della Torah, i due principali partiti religiosi ultra ortodossi di Israele, avevano posto delle condizioni per associarsi al Likoud, il partito nazionalista liberale di destra, e al partito nazionalista religioso Focolare ebraico nella coalizione di governo. E la questione del servizio militare figurava ai primi posti.
Il loro obiettivo era di mandare all'aria gli sforzi effettuati dal partito centrista Yesh Atid, nel governo uscente, per approvare una legge, nel marzo 2014, che obbligasse gli haredim a fare il servizio militare prevedendo conseguenze penali in caso di mancato rispetto delle quote. L'iniziativa non era brutale. I giovani haredim avrebbero avuto la possibilità di proseguire i propri studi nelle yeshiva (scuole religiose) o di preferire il servizio civile. Un periodo transitorio di tre anni era stato previsto con l'obiettivo di quote di arruolamenti ogni anno. Ma da quel momento, a intervalli regolari, sono iniziate le manifestazioni da parte delle comunità ultra ortodosse e atti di violenza contro l'esercito e la polizia.
Gli haredim sono in crescita tra la popolazione, secondo uno studio dell'ufficio israeliano centrale di statistica riportato da Le Monde: saranno il 20% nel 2040. Erano 1'11 % nel 2015. Nell'esercito ce ne sono 6.600 e, di questi, 400 sono militari di carriera.
Al di là dei calcoli politici, l'integrazione degli haredim mette in gioco questioni fondamentali per il futuro di Israele: la natura dello stato, i suoi rapporti con la religione, la sottomissione degli ultra ortodossi alle leggi comuni e il loro impegno civile. L'arruolamento nell'esercito continua a essere visto, nei gruppi più conservatori, come un tradimento nei confronti di Dio e della comunità.
«Il modo di vivere degli ultra ortodossi richiede un impegno totale a favore della legge giudaica», sottolinea Ya'ir Sheleg, che dirige il programma Religione e Stato all'Israel democracy institute. «Anche impegnarsi nell'esercito, soprattutto nelle unità da combattimento, rappresenta un impegno totale».
Dal canto suo, il rabbino David Stav ritiene che i leader religiosi temano di perdere il controllo su questi giovani se questi ultimi si uniranno all'esercito, allargando di conseguenza i propri orizzonti.
Insomma, una bella gatta da pelare per il governo di Netanyahu.
(ItaliaOggi, 10 ottobre 2017)
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«La leva deve essere uguale per tutti»
Ristabilire il principio di uguaglianza in Israele. Su questa base la Corte Suprema ha dichiarato l'incostituzionalità dell'accordo governativo che consente l'esenzione per la maggior parte dei haredim (cosiddetti ebrei ultraortodossi) dalla leva obbligatoria. A metà settembre otto giudici della Corte su nove hanno condannato l'attuale sistema applicato agli studenti delle yeshivot (scuole religiose) e approvato dal governo Netanyahu nel 2015, dichiarandolo discriminatorio nei confronti degli altri cittadini: prima della sentenza, agli studenti delle scuole religiose era stata garantita l'esenzione fino al 2023, liberandoli di fatto dall'obbligo di servire nell'esercito (Tsahal). La Corte ha dato un anno di tempo a governo e Knesset per produrre un legge che regoli la questione.
"La storia di questa controversia sociale riflette la storia dello Stato d'Israele" ha scritto la presidente della Corte Miriam Naor nelle 148 pagine della sentenza. Si tratta infatti di un dibattito che da decenni divide l'opinione pubblica israeliana: il primo a garantire l'esonero dall'esercito al mondo haredi fu il Primo ministro David Ben Gurion nel 1949. Allora a usufruirne furono in 400, oggi parliamo di 621mila persone che "non servono il Paese mentre i nostri figli muoiono per difenderli", come recita una delle affermazioni più diffuse tra chi contesta l'esenzione.
Nel settore ultra-ortodosso, una delle risposte a questa contestazione è che "anche lo studio della Torah aiuta a difendere lo Stato d'Israele". "E impossibile mettere in discussione lo studio della Torah - il commento di Elyakim Rubinstein, giudice della Corte Suprema ed ebreo osservante - e la sua voce, che rappresenta una protezione, una salvezza e la continuità per la nostra esistenza come nazione, continuerà ad essere ascoltata come un valore dello Stato. Quello che è stato detto qui (in tribunale) non è un attacco ma un tentativo di costruire. Il giorno in cui l'intera società ebraica - le parole di Rubinstein - avrà la sensazione che la sicurezza fisica dello Stato sarà garantita dai haredim, sarà un giorno di festa". Il giudice, vicepresidente della Corte che presto lascerà il suo ruolo per andare in pensione, ha anche detto che "fino a che continuerà l'attuale saga (i contrasti sulla leva obbligatoria), le leggi continueranno ad andare e venire, mentre rimarrà l'amara sensazione di diseguaglianza".
Secondo la radio dell'esercito israeliano, nel 2016 il 72 per cento delle persone che inizialmente erano nella lista di leva ha poi effettivamente servito nell'esercito (dal 2015, 32 mesi per gli uomini, due anni per le donne). Il restante 28 per cento è rappresentato per la maggior parte da giovani haredim (la statistica comprende anche persone esentate per motivi medici e una piccola minoranza di obiettori di coscienza), su cui si concentra la sentenza della Corte. Una disposizione per costringerli a vestire l'uniforme era stata già approvata nel recente passato: un provvedimento voluto in particolare da Yair Lapid e passato nel 2014, quando questi faceva parte con il suo Yesh Atid del governo del Primo ministro Benjamin Netanyahu. Un anno dopo però, nuove elezioni, nuovo governo Netanyahu e niente più legge sulla coscrizione obbligatoria dei haredim: Netanyahu infatti in questa ultima legislatura conta sull'appoggio dei partiti ultraortodossi che, tra le prime cose, hanno chiesto in cambio del sostegno la cancellazione della norma voluta da Lapid.
In questa battaglia normativa a far riflettere sono però i dati di cui scrive il giornalista israeliano Danny Zaken, che aprono una prospettiva diversa. Secondo una fonte del giornalista all'ufficio del personale di Tsahal negli ultimi tre anni le reclute haredi sono aumentate del 12/13 per cento. Nel 2016 erano 2800, mentre le stime per tutto il 2017 parlano di 3200 persone. In 10 anni, continua Zaken, c'è stato un aumento della partecipazione dei haredim dovuto a un maggiore dialogo tra questo settore, le istituzioni civili e militari. Nel decennio 1997-2007 si erano arruolati 1500 uomini ultraortodossi, nel decennio successivo 16.500. Un numero 11 volte superiore. Secondo Zaken ma anche secondo Gilad Malach dell'Israel democracy institute, la sentenza della Corte Suprema, per quanto giusta, rischia di essere d'ostacolo a questo trend, mettendo sulla difensiva tutto il mondo haredi e dando un appoggio a chi, al suo interno, ostracizza chiunque scelga di servire nell'esercito invece che studiare in una yeshiva. "I numeri - scrive Zaken - dimostrano che il dialogo e la cooperazione con la leadership ultra-ortodossa sul tema della coscrizione obbligatoria conducono ad un aumento del numero di studenti di yeshiva che servono nell'esercito".
(Pagine Ebraiche, ottobre 2017)
Israele principale acquirente del petrolio del Kurdistan iracheno
GERUSALEMME - Israele è stato uno dei pochi paesi a esprimere pubblicamente il suo appoggio al referendum sull'indipendenza tenuto nel Kurdistan iracheno lo scorso 25 settembre. Lo stesso premier Benjamin Netanyahu ha detto che "sostiene i legittimi mezzi del popolo curdo per ottenere il proprio Stato". Turchia, Iran e Iraq hanno invece fortemente contestato il voto e il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha minacciato di chiudere l'oleodotto Kirkuk-Ceyhan. "Nel caso del nord dell'Iraq - ha detto Erdogan - Iran, Iraq e Turchia formeranno un meccanismo tripartito e decideranno di chiudere gli oleodotti (dalla regione autonoma del Kurdistan iracheno". Dopo il voto del 25 settembre, il premier turco, Binali Yildirim, al termine di un colloquio telefonico con il premier iracheno, Haider al Abadi, ha fatto sapere che la Turchia intende trattare soltanto con le autorità federali di Baghdad per le esportazioni petrolifere. Yildirim però non ha chiarito come la Turchia intende affrontare la questione.
(Agenzia Nova, 9 ottobre 2017)
L'Italia delle leggi razziali. «Oggi nessuno ricorda»
Approvate dal regime nel '38, per l'ottantesimo anniversario mostre con documenti inediti. «Ce n'è bisogno se si continua a parlare di italiani veri».
di Gian Guido Vecchi
Restaurato un video di Mussolini a Trieste con l'annuncio di «soluzioni al problema ebraico»
L'allestimento non ha riferimenti all'attualità, sarebbe superfluo. Facciamo vedere i danni che ha fatto
TRIESTE - 18 settembre 1938, mattina. Il cacciatorpediniere «Camicia Nera» attracca al «molo Audace» con «il Duce sulla plancia di comando». È la prima volta che si possono vedere per intero queste immagini, 34 minuti restaurati e digitalizzati dall'istituto Luce. La voce narrante informa sobria che la città è «un solo palpito di attesa e di amore» e in piazza dell'Unità ci sono 150 mila persone, camicie nere e fez, fazzoletti e applausi, gente sui davanzali. L'attesa del comizio, in effetti, è tragicamente giustificata: il discorso di Trieste è il primo e l'unico nel quale Mussolini, con toni raggelanti, annuncia in pubblico le «soluzioni necessarie» per affrontare il «problema ebraico» in quanto «problema razziale», spiega che per mantenere il «prestigio dell'impero» occorre «una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime» e infine esclama tra le ovazioni: «L'ebraismo mondiale è stato durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo».
Bisogna guardarlo bene, perché questo è «il primo atto antisemita mediatico del regime», spiega lo storico Marcello Pezzetti, il segno che le cose precipitano. Il filmato sarà al centro di una mostra che dal 16 ottobre, in vista degli ottant'anni dalle leggi razziali, verrà allestita nella Casina dei Vallati, in largo 16 ottobre 1943, il luogo della razzia nazista del ghetto di Roma. Curata da Marcello Pezzetti e Sara Berger,
Il 14 luglio del 1938 sul Giornale d'ltalia viene pubblicato il «Manifesto degli scienziati razzisti», sotto il titolo: «Il Fascismo e i problemi della razza».
Una decina di giorni dopo il documento viene ufficialmente comunicato dalla segreteria politica del Partito nazionale fascista.
Il 5 agosto 1938 viene pubblicato il testo sul primo numero della rivista La difesa della razza diretta da Telesio lnterlandi e voluta da Mussolini. Il testo delinea i tratti del nuovo razzismo fascista.
della Fondazione Museo della Shoah, si intitola «1938» ed ha uno scopo molto semplice: «La gente non sa, i ragazzi non sanno che cosa sono state le leggi razziali. Con materiale quasi del tutto inedito fotografie, immagini, documenti facciamo vedere ciò che è accaduto».
A Trieste è lo stesso Duce a smentire le tesi riduzioniste che lo vorrebbero condizionato da Hitler: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti». Il documento programmatico dell'antisemitismo biologico, «Il fascismo e i problemi della razza», era uscito il 14 luglio 1938. In agosto il regime schedò la popolazione ebraica, un censimento prezioso per le deportazioni naziste. All'inizio di settembre arrivò la cacciata di studenti e insegnanti «di razza ebraica» da tutte le scuole. Dopo Trieste, nelle sedute del 7, 9 e 10 novembre, il consiglio dei ministri approverà il «corpus» delle leggi razziali, la morte civile della popolazione ebraica, l'espulsione da ogni impiego pubblico, dalle professioni, i divieti sulla proprietà e i matrimoni «razzialmente misti».
Nella mostra fanno impressione gli schemini disegnati a mano dagli «esperti» di «Demorazza», nel ministero dell'Interno, per calcolare il grado di «razza ebraica», le immagini dei cartelli sulle vetrine («Proprietari o personale di questa libreria sono ariani») o degli ebrei in giacca e cravatta costretti al «lavoro obbligatorio» con ramazze e picconi. La perversione burocratica produce decine di circolari grottesche, pure divieti sui «saltimbanchi girovaghi» o «gli allevatori di piccioni viaggiatori». I ricercatori hanno trovato un verbale nel quale il presidente del Coni e quello della Federcalcio dispongono la cacciata degli atleti e degli sportivi ebrei: come Arpad Weisz, l'allenatore che vinse uno scudetto con l'Inter e due con il Bologna e morì ad Auschwitz.
Un'altra mostra, sempre allestita da «Cor», racconterà in aprile le vicende delle persone. «Se ne sente un gran bisogno», sospira Pezzetti: «Allora "italiano" e "ariano" divennero sinonimi. Oggi si torna a parlare di "veri italiani" e cose simili. La mostra non ha riferimenti all'attualità perché sarebbe pleonastico. Il virus razzista sta penetrando nelle coscienze. Qui noi lo facciamo vedere: guardate i danni che ha fatto».
Raggi, Di Segni e la Dureghello per i 35 anni dell'attentato alla Sinagoga
Nell'attacco al Tempio Maggiore del 9 ottobre 1982 fu ucciso Stefano Gaj Tachè, che aveva solo due anni e 37 persone rimasero ferite. Il messaggio di Mattarella.
ROMA - E' il 35esimo anniversario dell'attentato terroristico al Tempio Maggiore di Roma, in cui il piccolo Stefano Gaj Tachè, di appena due anni, fu ucciso e 37 persone della Comunità ebraica di Roma rimasero gravemente ferite. La cerimonia di commemorazione si è aperta con la deposizione di una corona d'alloro presso la sinagoga di Roma alla presenza del Rabbino Capo Riccardo Di Segni, della Presidente della Comunità Ruth Dureghello. Successivamente le autorità si sono spostate presso la scuola ebraica per incontrare gli studenti e ascoltare gli allievi del Cantorum di Santa Cecilia che hanno eseguito l'Inno di Mameli. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso in un messaggio la sua vicinanza alla Comunità e alla città di Roma, «che ne furono profondamente colpite. Fu un crimine contro l'umanità».
«Fu un crimine contro l'umanità»
A riferirlo un comunicato del Quirinale. «Un pensiero particolare - ha detto Mattarella - rivolgo alle famiglie delle vittime e a coloro che vi furono coinvolti e sono presenti a questo momento di ricordo. I terroristi scatenarono la loro furia omicida su persone inermi, che partecipavano a una festa religiosa. Fu un atto spregevole: contro la vita, contro la libertà, contro la religione, contro la convivenza. Fu un gesto vile contro la città di Roma, simbolo di tolleranza e di accoglienza, e contro l'intera Italia. Fu un crimine contro l'umanità. Il ricordo di quel sanguinoso 9 ottobre del 1982 non si attenua con il passare degli anni, ma rafforza - in un momento in cui ci troviamo a fronteggiare nuove sfide di terrorismo integralista - la nostra comune volontà di combattere e sconfiggere chi, in nome dell'intolleranza, vuole aggredire la convivenza contro ogni regola di civiltà e di umanità».
Il post di Grasso su Facebook
«Sono passati 35 anni ma non il dolore per questa immensa tragedia. Un abbraccio colmo di cordoglio alla famiglia di Stefano, ucciso a soli due anni da chi odia gli ebrei, alla comunità ebraica e ai cittadini di Roma». Lo scrive su Facebook il presidente del Senato, Pietro Grasso, ricordando l'attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982.
Il ricordo della sindaca
Anche la sindaca Raggi ha voluto ricordare il bambino assassinato: «La storia di Stefano è per sempre parte della storia della nostra città e del nostro Paese, frutto dell'odio e dell'intolleranza. Non a caso il Presidente della Repubblica ha definito quell'assassinio in maniera significativa un crimine contro l'umanità. La storia di Stefano Gaj Taché ispira momenti di profonda riflessione sul nostro essere comunità, sui valori di pace e di accoglienza in cui ci riconosciamo con convinzione. Uno dei nostri compiti - ha aggiunto la Raggi - è proprio quello di attualizzare la memoria, per trasmetterla ai nostri giovani, perché le nuove generazioni conoscano e comprendano i fatti della storia, perché ne facciano tesoro, nel ricordo di chi è rimasto vittima di azioni terroristiche. Perché il ricordo della uccisione di un bambino di due anni sia sempre da ammonimento contro le atroci conseguenze che ogni forma di odio produce». E ha aggiunto: «L'aver iniziato questo nostro incontro con l'Inno Nazionale per di più eseguito da tanti giovani, assume oggi un particolare significato: quel giorno fu ucciso un bambino italiano e rimasero feriti numerosi cittadini italiani». Raggi ha poi rivolto un «particolare pensiero ai sopravvissuti, a tutte le famiglie colpite» e un «abbraccio affettuoso a Gadiel, anch'egli ferito nell'attentato, che allora aveva solo 4 anni, fratello del piccolo Stefano, e al Rabbino Benedetto Carucci Viterbi che fu testimone dell'attentato, che hanno accettato di portare le loro testimonianze» e infine un «saluto particolarmente affettuoso e sentito, anche a nome di tutta la città di Roma, alla famiglia di Stefano Gaj Taché».
(Corriere della Sera - Roma, 9 ottobre 2017)
Sukkot e ... "merenda"
Servono un bel po' di parole ebraiche per descrivere la festa di Sukkot, certo c'è ne una che rende l'idea e va bene per tutti: "merenda". Sono le 16 di domenica 8 ottobre: uno degli 8 giorni della Festa delle capanne e alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato, Vicki Acik, medico di Valenza, riccioli rossissimi, ma soprattutto esperta di tradizioni ebraiche, spiega il significato della ricorrenza. Ormai è una presenza fissa, ma ogni volta trova n approccio diverso.
E' una bellissima giornata, per cui il pubblico trova posto nel cortile delle Api e Vicki può parlare direttamente da sotto questa capanna che viene eretta in tutte le case ebree in questo periodo. Sarebbe più giusto dire fuori dalle case ebree però: serve a ricordare il peregrinare nel deserto verso la terra promessa, le sette nuvole mandate dall'onnipotente per riparare il suo popolo, o più in generale tutti i rifugi provvisori che hanno accompagnato gli ebrei.
E' una festa complessa però, le prescrizioni per edificare, rigorosamente negli spazi aperti (cortile di casa o sul balcone), questa piccola capanna (succà) sono più complicate di un regolamento edilizio: tra i rami del tetto deve intravvedersi il cielo, ci vogliono cinque tipi di vegetali, ma Vicki ha scelto di ripercorrere la storia di Israele e spiega cosa doveva essere al tempo di Salomone la festa. I riti erano molti di più: si celebrava anche la gioia dell'acqua, c'erano spettacoli e addirittura si pregava e si facevano sacrifici per tutti gli altri popoli (gli ebrei ne conoscevano circa 70).
Tutto ciò rende questo momento una festa della felicità. Del resto viene dopo il periodo di contrizione del Kippur "Gli essere umani sbagliano - spiega Vicki - è nel loro programma, poi però bisogna saper ricominciare". Succot con il suo essere profondamente "vegetale" simboleggia proprio questo: la natura che dopo la mietitura si appresta ad ospitare una nuova semina. Tutto prima o poi rinasce, basta saper aspettare.
E questo porta l'ultima considerazione: Succot è fondamentalmente la festa della merenda, dai tempi di Salomone consumata insieme a tutti: ebrei e non ebrei, con i prodotti della stagione trasformati in manicaretti: come i Lejkah con tanto miele per rendere l'anno dolce. E anche in questa domenica non sono mancati, sotto una capanna che ogni anno si allarga a comprendere tutti gli amici.
(Il Monferrato, 9 ottobre 2017)
Maiale e crostacei vietati agli ebrei. Ecco i ci bi kasher
A Napoli c'è un solo ristorante certificato. Al top l'hummus di ceci con melanzane.
di Marco Molino
Oltre un secolo e mezzo di metodica e instancabile difesa dei valori. Da quando nel 1863 i membri della nuova comunità israelitica di Napoli tennero la prima funzione religiosa nei locali di via Cappella Vecchia, l'obiettivo prioritario è stato quello di tutelare, anche sulle sponde del golfo, una cultura millenaria che ha resistito a tanti esodi e persecuzioni. La storia travagliata di un antico popolo, lo studio del Talmud, l'arte e la letteratura, come pure la cultura gastronomica legata a regole codificate nelle sacre scritture. Pietanze elaborate che riecheggiano uno stile di vita fedele all'insegnamento degli antenati, ma al tempo stesso "contaminato" dalle abitudini partenopee.
«Dobbiamo considerare che la comunità israelita è presente in Campania da secoli e spesso è stata protagonista delle sue vicende sociali ed economiche», spiega Giancarlo Lacerenza, docente di lingua e letteratura ebraica all'Università L'Orientale di Napoli. I primi giudei vivevano soprattutto nell'area di San Marcellino e all'Anticaglia e mantenevano buoni rapporti con la popolazione cristiana.
Nel dodicesimo secolo gli angioini cominciarono però una sistematica persecuzione, costringendo gli israeliti ad esporre sugli abiti una rotella gialla che li identificava come "cittadini di seconda classe".
Nel 1510 furono poi definitivamente espulsi dalla Corona di Spagna. «Alcune famiglie ebraiche - continua Lacerenza - poterono tornare a Napoli solo duecento anni dopo, in epoca borbonica. Con l'Unità d'Italia fu possibile rifondare la comunità, ma il XX secolo riservava altri drammi, come le leggi razziali nel 1938».
In questa odissea collettiva e individuale, le tradizioni si rivelano fondamentali per ancorarsi saldamente alle proprie radici. Anche il cibo aiuta a ritrovarsi, con i suoi profumi mediorientali e le regole di una preparazione conforme ai dettami della Terra Promessa. L'alimentazione diviene un patrimonio culturale da tutelare e valorizzare, tanto che la Comunità israelitica partenopea ha promosso un "corso di cucina creativa di base per affrontare una tipica cena tradizionale ebraica", ricco di informazioni sulle più importanti norme alimentari.
Lezioni utilissime, considerato che in città c'è attualmente un solo ristorante kasher certificato, quello dell'hotel Parker's, che propone piatti da cui sono rigorosamente esclusi carne di maiale e crostacei. I cibi kosher dell'albergo di corso Vittorio Emanuele sono consumati anche da musulmani e vegetariani.
Tra i piatti preferiti dagli ebrei partenopei c'è l'hummus di ceci con melanzane in salsa tahin a base di semi di sesamo e il cous cous di semola di grano duro cotto a vapore, vero protagonista della cena durante la festa settimanale dello shabbat. Le ferree regole nutrizionali non escludono i sapori, come testimoniano i dolci fichi ripieni o le charoset (pasta di frutta secca). Cibi gustosi e semplici che hanno successo anche tra i napoletani, i quali spesso hanno dovuto vivere ( e sopravvivere) contando sull'essenziale. Pure per questo il popolo ebraico, nel suo infinito migrare, dalle nostre parti si sente un po' a casa.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 ottobre 2017)
Quello che c'è da sapere sulla presunta riconciliazione palestinese
Domani potrebbe essere la giornata decisiva per la presunta riconciliazione palestinese. Le delegazioni di Hamas e di Fatah si incontreranno infatti al Cairo sotto la supervisione del capo della intelligence egiziana, il Generale Khaled Fawzy, e sarà probabilmente la riunione decisiva.
Della delegazione di Fatah si sa tutto o quasi. Si sa che sarà composta da Jibril Rajoub, da Azzam al-Ahmad e da Rauhi Fatuh, quindi tre elementi di primissimo piano ma non così importanti da dare l'impressione di avere l'ultima parola che rimane comunque nelle mani del Presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). Di quella di Hamas invece non si sa molto. Secondo indiscrezioni i terroristi che governano la Striscia di Gaza vorrebbero inviare una delegazioni di falchi tra i quali Saleh al-Arouri, cioè il coordinatore delle attività terroristiche di Hamas in Cisgiordania. Il messaggio dei terroristi è chiaro: si può discutere di tutto ma non di smantellare l'ala militare né di interrompere le attività ostili contro Israele....
(Right Reporters, 9 ottobre 2017)
Anp e Stati arabi: niente risoluzioni nei confronti di Gerusalemme
Un gruppo di Stati arabi, guidati dalla Giordania, e l'Autorità nazionale palestinese (Anp) hanno deciso di non presentare per ora Risoluzioni critiche nei confronti di Israele su Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza, nella riunione dell'Unesco di questa settimana a Parigi.
Lo ha fatto sapere una fonte del ministero degli esteri israeliano secondo cui la decisione - la prima in questo senso dall'aprile del 2013 - è seguita a colloqui diplomatici la scorsa settimana tra il presidente del Comitato esecutivo dell'Unesco, Michael Worbs, l'ambasciatore israeliano Carmel Shama Hacohen e quello giordano Makram Queisi.
Le Risoluzioni - secondo l'intesa, citata dai media - saranno dunque dilazionate di sei mesi. Israele resta comunque contrario - ha spiegato la stessa fonte - al fatto che le Risoluzioni contro lo stato e il popolo ebraico, anche se con termini attenuati, possano essere presentate all'interno di un organismo culturale come l'Unesco.
Trump: «Speranza di pace» - Prima di spostare l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, Donald Trump vuol dare «una speranza alla pace» tra israeliani e palestinesi. Lo ha detto lo stesso presidente Usa in un'intervista tv con l'ex governatore dell'Arkansas Mike Huckabee, ripresa dai media israeliani, nella quale ha spiegato perché non abbia finora mantenuto la sua promessa elettorale di trasferire la rappresentanza diplomatica americana a Gerusalemme.
«Voglio segnare questo colpo anche prima di pensare di muovere l'ambasciata», ha spiegato Trump confermando gli sforzi in corso da parte della sua amministrazione per riavviare le trattative di pace tra israeliani e palestinesi.
Il presidente Usa ha sottolineato che la decisione sullo spostamento sarà presa «in un futuro non lontano».
(tio.ch, 8 ottobre 2017)
Alla ricerca delle radici del male, commovente documentario sulla Shoah
Nell'ambito del riuscitissimo Festival del documentario Visioni dal mondo è stato presentato il bellissimo film di Israel Cesare Moscati intitolato Alla ricerca delle radici del male, ultimo di una trilogia sulla shoah. Particolarmente toccante il fatto che nella pellicola si incontrino per la prima volta figli e nipoti di vittime e carnefici in alcuni dei luoghi simbolo dello sterminio da Auschwitz alle Fosse Ardeatine sino al binario 21 della stazione centrale di Milano dove partivano i treni piombati per i campi di concentramento.La macchina da presa ferma il primo momento di questi incontri dando un incredibile esempio di cinema verità che lascia senza fiato. Giustamente il film sarà proiettato nelle scuole italiane in modo da far comprendere e conoscere alle giovani generazioni questo indicibile orrore che ha marchiato la storia del secolo breve.
(Nella notizia, 8 ottobre 2017)
Tre protagonisti del nostro calcio, oggi quasi del tutto dimenticati
Il libro di Adam Smulevich, "Presidenti. Le storie scomode dei fondatori delle squadre di calcio di Casale, Napoli e Roma", edito dalla Giuntina, sarà presentato a Firenze, al Gabinetto G.P. Vieusseux (Palazzo Strozzi) lunedì 23 ottobre alle ore 17.30, per iniziativa del'Associazione Italia-Israele. Il libro verrà presentato dallo storico Giovanni Gozzini e dai giornalisti David Guetta, Ruben Lopes Pegna e Mario Tenerani. Gli interventi verranno coordinati da Valentino Baldacci.
I tre presidenti di cui Smulevich racconta le vicende avevano in comune l'origine ebraica: Raffaele Jaffe, l'uomo che regalò a Casale un incredibile scudetto alla vigilia della Grande Guerra; Giorgio Ascarelli, il fondatore del Napoli in una stagione contraddistinta da tante felici intuizioni; Renato Sacerdoti, il presidente che per primo fece assaporare ai tifosi della Roma il sogno tricolore. Tre protagonisti del nostro calcio, oggi quasi del tutto dimenticati. Fu il fascismo, e più precisamente furono le leggi razziali, a renderli degli indesiderati. Ascarelli era già morto da tempo quando le leggi entrarono in vigore. Ma ciò non gli evitò una feroce ritorsione postuma. Jaffe e Sacerdoti, pur convertiti al cristianesimo da tempo, furono messi ai margini della società. Il preludio a quello che sarebbe successo di lì a poco. Il fascistissimo Sacerdoti, in clandestinità, riuscì a scamparla. Jaffe invece, arrestato da militi in camicia nera, terminò la sua vita ad Auschwitz. Questo libro vuole ricostruire le loro storie, non accontentandosi di ripercorrere cronologicamente fatti e situazioni. È uno sguardo d'insieme a una stagione di scelte e responsabilità, in ogni senso. Perché l'orrenda pagina del pregiudizio e della violenza fascista riguarda un po' tutti. Rileggerla attraverso lo sport, linguaggio universale per eccellenza, può forse aiutare a fare chiarezza. E al tempo stesso contribuire ad aprire nuove strade, a rafforzare la sfida di una memoria realmente consapevole.
Invito
(Associazione Italia-Israele, 8 ottobre 2017)
Hamas, la struttura militare non si discute
Martedì a Cairo nuovo incontro di riconciliazione con Fatah
La struttura militare di Hamas Gaza non è nei temi in discussione nella riconciliazione palestinese in atto e per la quale è previsto un nuovo incontro di approfondimento con Fatah (partito del presidente Abu Mazen) martedì prossimo al Cairo. Lo ha detto, Hazem Qassem, portavoce di Hamas nella Striscia, secondo cui "le armi della resistenza sono legali". "Esse - ha aggiunto, citato dall'agenzia Maan - sono per la protezione dei palestinesi e per liberare la loro terra". Fonti locali a Gaza fanno notare che c'e' un largo atteggiamento positivo nei confronti del processo attuale di riconciliazione dopo l'arrivo la settimana scorsa a Gaza - per la prima volta da due anni - del premier Rami Hamdallah e del suo governo per assumere i poteri nella Striscia.
(ANSAmed, 8 ottobre 2017)
Trump non sposta ambasciata, ministro israeliano deluso
Prima reazione negativa, nel governo israeliano, alle dichiarazioni di Donald Trump sulla necessità di dare "una speranza alla pace" con i palestinesi prima che si decida un eventuale trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme.
"C'è da dolersi per il rinvio della realizzazione di un impegno preso da Trump durante la campagna elettorale", ha detto il ministro per l'Ambiente Zeev Elkin, un dirigente del Likud vicino al premier Benyamin Netanayhu. "Il tutto poi nell'illusione che con la presente leadership palestinese sia mai possibile portare avanti un vero processo di pace".
Elkin ha spiegato il proprio scetticismo con il pagamento da parte dell'Anp di stipendi a palestinesi macchiatisi di terrorismo e con le recenti intese di Abu Mazen "con i terroristi di Hamas". La settimana scorsa Elkin aveva anche criticato Trump "per non aver operato alcun cambiamento nell'atteggiamento negativo degli Usa sugli insediamenti in Cisgiordania". "Almeno su questo punto - aveva polemizzato - la nuova amministrazione porta avanti le politiche di Obama".
(swissinfo.ch, 8 ottobre 2017)
Acqua potabile dal mare?
In Israele quattro impianti di dissalazione garantiscono il 40% dell'approvvigionamento nazionale.
Più la sete avanza più si parla di dissalazione. Più si parla di dissalazione più aumentano i problemi ambientali. Il fatto che questo tema sia stato messo in evidenza al Festival dell'Acqua che sta per iniziare a Bari la dice lunga sulla crescita dei problemi ecologici.
A livello mondiale - affermano gli organizzatori della manifestazione - la produzione ha già superato i 100 milioni metri cubi al giorno e interessa principalmente i Paesi Arabi, l'Australia, la costa orientale degli Stati Uniti e alcuni Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. E' il caso di Israele, dove 4 impianti di dissalazione garantiscono ormai il 40% dell'approvvigionamento nazionale; oppure degli Emirati Arabi Uniti, dove nel porto di Jebel Ali vengono prodotti 600.000 metri cubi di acqua ogni giorno; ma anche di Barcellona che, grazie a un sistema ibrido fatto di 2 potabilizzatori e 2 dissalatori, riesce a garantire l'acqua a 5 milioni di abitanti e a più di 8 milioni di turisti l'anno.
In Italia abbiamo impianti in Sicilia, in Sardegna e in alcune piccole isole come il Giglio e Lampedusa. Siamo indietro, ma è veramente un male? La questione è controversa perché i problemi rilevanti sono due. Primo: se non si usano fonti rinnovabili per alimentare il processo di dissalazione, il costo energetico è pesante e si porta dietro tutti i guai legati all'uso dei combustibili fossili. Secondo: la restituzione in mare delle soluzioni saline concentrate ha comportato in alcune zone un pesante impatto ambientale desertificando tratti di costa.
Certo, è possibile ridurre entrambi i problemi usando rinnovabili e cautele nella immissione in mare degli scarti di lavorazione. Ma puntare su un'altra capriola tecnologica mentre gli acquedotti continuano a perdere quasi il 40% dell'acqua trasportata e scelte agricole superate comportano sprechi ancora maggiori è la scelta migliore? Forse più attenzione meriterebbe la comparazione tra il costo (ambientale ed economico) del trasporto dell'acqua nelle piccole isole tramite navi cisterna e quello dei dissalatori.
(Eco-Logica, 8 ottobre 2017)
La scritta ebraica e la memoria ritrovata
NAPOLI - Un tesoro della memoria ebraica. Oggi in occasione della 14ma edizione delle Giornate Nazionali dell'Archeologia ritrovata nel corso della visita al Mann, Museo Archeologico di Napoli sarà possibile ammirare un importante reperto. Si tratta dell'epigrafe greco-giudaica del IV-V secolo d. C., dedicata alla memoria dell'onorato Rebbi Abba Mari, in esposizione nella sala "Dall'Oriente" inaugurata un anno fa, allestita e curata da Valeria Sampaolo con la consulenza di Giancarlo Lacerenza per i materiali giudaici e aramaico-nabatei. L'epigrafe fu rinvenuta in un pozzo a Brusciano nei primi anni del Novecento, fu destinata a piano di appoggio per uso domestico prima di essere poi abbandonata su di un lastrico solaio. Successivamente l'iter di segnalazione e la acquisizione a patrimonio del museo. Questa è la didascalia ufficiale: «Rinvenuta a Brusciano, l'iscrizione è probabilmente da porre in relazione alla comunità giudaica della vicina Nola ed è probabilmente un po' anteriore a quelle del sepolcreto di Napoli». «Sono trascorsi circa 100 anni dal primo ignaro ritrovamento a Brusciano e 60 anni dall'acquisizione e custodia da parte del Museo Archeologico Nazionale di Napoli di questa che è una delle più antiche testimonianze del giudaismo in Campania», spiega il sociologo Antonio Castaldo. «La lastra di travertino è un raro reperto archeologico ora fruibile da tutti i visitatori del Mann a Napoli prosegue Castaldo, studioso dell'istituto europeo di Scienze umane e sociali di Brusciano - ora in mostra permanente, quale testimonianza della diffusione dell'ebraismo a Napoli e in Campania, e della cultura giudaica nel mondo».
(Il Mattino, 8 ottobre 2017)
Test della pelle per la diagnosi precoce della demenza
I cambiamenti anomali del cervello che portano alla demenza provocano anche cambiamenti nella pelle che fanno comparire ulcere da pressione, secondo i ricercatori dell'Herzog Medical Center di Gerusalemme.
Quindi, dicono, un test cutaneo può essere usato come strumento per la diagnosi precoce di demenza e potrebbe ritardare o arrestare la malattia.
Come riportato dal The Jerusalem Post, il Dott. Ephraim Jaul, direttore del complesso infermieristico dell'Ospedale ed esperto di ulcere da pressione, ha notato che molti pazienti con Alzheimer e altre demenze - in particolare in fase avanzata - hanno maggiori probabilità di sviluppare delle piaghe da pressione.
In un esame quantitativo condotto presso l'Herzog Medical Center, Jaul ha scoperto che il 67% dei pazienti geriatrici con ulcere da pressione soffrono di un qualche tipo di demenza, mentre tra coloro che non soffrono di ulcere, solo il 23% ha avuto qualche condizione simile.
A febbraio, il Dott. Jaul e il Dott. Oded Meiron, hanno pubblicato la loro teoria sul rapporto tra le due malattie apparentemente non correlate.
La loro ipotesi è che i cambiamenti cerebrali anomali che portano alla demenza si verificano anche in altri sistemi del corpo. I cambiamenti nel tessuto della pelle dei pazienti con demenza li rendono più vulnerabili allo sviluppo di ulcere da pressione.
Le implicazioni pratiche della loro teoria sono duplici:
Il trattamento dei malati con demenza lieve includerà un trattamento preventivo e più intensivo per prevenire la formazione di lesioni di pressione. Dal punto di vista della ricerca, verranno effettuati studi clinici dello strato cutaneo per meglio definire il tipo e lo stadio della demenza e utilizzare mezzi non invasivi per inibire e sopprimere la malattia.
Il test della pelle può essere un potente strumento per la diagnosi precoce e la diagnosi specifica della demenza perché non tutte le malattie richiedono lo stesso trattamento e non ogni cessazione cognitiva termina con la demenza.
(SiliconWadi, 5 ottobre 2017)
Svizzera - Islam religione ufficiale? "È fuori questione"
Marco Chiesa rigetta la proposta della futura consigliera nazionale Irène Kälin: "Non so se è ingenua o pericolosa "
Ancora non ha avuto modo di conoscerla di persona, ma le prime esternazione sulla stampa della futura consigliera nazionale Irène Kälin (Verdi/AG), che subentra al dimissionario Jonas Fricker, non sono state accolte con favore dal consigliere nazionale democentrista Marco Chiesa.
Kälin, islamologa di formazione, ha proposto di riconoscere l'Islam come religione ufficiale. Una proposta che per Chiesa è "fuori questione":
"Stiamo attraversando una fase storica nel nostro paese dove il buonismo, il politicamente corretto e la cieca tolleranza la fanno da padroni" racconta Chiesa a Ticinonews. "Chi intende difendere i valori fondanti del nostro Paese è razzista e xenofobo. Mi sembra che la prossima consigliera nazionale dei Verdi sia una degna rappresentante di questa schiera di politici e benpensanti. Non so sia più ingenua o più pericolosa ".
Chiesa si interroga se la 30enne non si sia accorta dei cambiamenti in atto, in particolare "di come l'Europa in pochi anni si sia trasformata in una polveriera a causa del radicalismo". Il consigliere nazionale ticinese cita gli esempi del Belgio, della Francia e della Gran Bretagna dove, tra l'altro, "in alcune zone e quartieri viene applicata la sharia in tribunali che amministrano la giustizia parallelamente a quella ordinaria".
Secondo Chiesa l'Islam non può godere di un riconoscimento di comunità religiosa di diritto pubblico "allorquando nelle predicazioni si incita ancor oggi all'uccisione dell'infedele, alla segregazione delle donne e alla lapidazione. Questi inaccettabili precetti non possono essere relativizzati o banalizzati attribuendoli esclusivamente a degli islamici radicalizzati".
"Questo non significa che io non creda a una pacifica convivenza tra il cristianesimo e l'islam moderato" specifica il consigliere nazionale. "Ritengo tuttavia che non debbano essere la Svizzera e i suoi cittadini a conformarsi ai valori dell'Islam ma tocca ai cittadini di fede islamica rispettare i valori e i principi della nostra Confederazione che affondano le loro radici nel cristianesimo".
Riconoscere la religione non potrebbe essere un modo per esercitare controllo? "Questa è un'ingenuità. Il moto di modernizzazione deve scatenarsi all'interno dell'Islam stesso, non può essere avviato o imposto da qualcun altro. Finché non ci sarà un Islam che condivide pienamente i valori civili che abbiamo adottato nella nostra Confederazione, senza ambire a prevaricare il nostro ordine costituito" ribadisce Chiesa, "non ritengo ci siano le condizioni per riconoscere le comunità musulmane di diritto pubblico".
(ticinonews.ch, 8 ottobre 2017)
Yiddish in Padania
Pia Settimi, L'ultimo traduttore. Hacob Alpron tra yiddish e italiano, Il prato, Saonara (PD), pagg. 158, € 18
di Giulio Busi
La letteratura e le arti figurative del Novecento ci hanno abituato a considerare l'yiddish una lingua della distanza, parlata da spiritati maestri chasidici, in sperduti villaggi dell'Europa orientale. Suoni frammisti di tedesco ed ebraico, esotici, remoti e imprendibili come i rabbi che volano a mezz'aria nei dipinti di Chagall. Ma in ogni storia di diaspora che si rispetti, vicino e lontano, spaesamento e quotidianità si sovrappongono e s'accavallano, e così anche l'yiddish - colloquiale, letterario, stampato - è capace di arrivare sin davanti alla porta di casa nostra. Tra Quattro e Cinquecento, questo dialetto proteiforme, adattabile, per lo più povero e solo raramente opulento, attecchisce tra le comunità ebraiche dell'Italia settentrionale. Crepitano, le voci giudeo-tedesche come legni d'un fuoco furtivo, brillano e si spengono nel giro di qualche generazione. Il XVI secolo è l'epoca d'oro della tipografia ebraica nella Penisola, e sotto i torchi s'infilano, oltre alle austere e venerate opere nella lingua santa, anche più modeste e bonarie operette yiddish. È una produzione minore e popolareggiante, rivolta innanzitutto alle donne, che non sono in grado, per mancanza d'istruzione, di affrontare i grandi tomi rabbinici. Venezia, Padova, Mantova, Cremona, la geografia dell'yiddish si concentra nel vasto bacino padano, tra gli immigrati scesi dalle terre tedesche in cerca di un po' di quiete e umanità e di migliori occasioni economiche. Pia Settimi approfondisce la figura di uno dei protagonisti di questa epopea minore dell'yiddish "nostrano". Jacob Alpron, nato a metà Cinquecento a Cremona, da una famiglia ashkenazita giunta probabilmente da Praga, è stato, per tutta la vita, uomo di libri. Correttore, pedagogo, tipografo e, soprattutto, traduttore in yiddish e in volgare, Alpron ha speso molti anni alla ricerca di benefattori e di protezione. Un simile girovagare di comunità in comunità era il destino di parecchi intellettuali ebrei dei secoli passati, che sbarcavano per lo più il lunario come precettori in case facoltose. A sponsorizzare Alpron furono spesso matrone ebree, donne energiche e di discreta cultura, cui spettava un ruolo da protagoniste nella gestione della vita domestica. A una di queste "donne valenti", Bona, f iglia di Emanuele Cuzzeri, A1pron dedica l'editio princeps, apparsa nel 1616, della propria versione, dall'yiddish in italiano, dei Precetti per le donne hebree, un manuale scritto da rabbi Binyamin Slonik per guidare le lettrici nei loro compiti familiari e nella vita di coppia. Nella seconda metà del Cinquecento, Alpron aveva spesso tradotto dall'ebraico in yiddish. Ai primi del Seicento, il nostro erudito girovago passa invece dall'yiddish al volgare, in risposta alle mutate condizioni linguistiche. La breve fioritura del giudeo-tedesco nell'Italia settentrionale si è ormai spenta. I discendenti dei nuclei ebraici venuti d'Oltralpe si sono assimilati e hanno abbandonato il loro dialetto d'origine. Così, anche le istruzioni religiose per le ragazze e le madri vengono orari formulate in un italiano, per la verità, piuttosto faticoso. Alpron è un personaggio abituato a restare sullo sfondo, senza clamori e, proprio per questo, ci pare testimone di prima mano del mondo appartato ma non inerte degli ebrei d'origine tedesca, sparsi per tutta la pianura padana. «Non sappiamo noi quante donne eccelse e sublimi per virtù si sono trovate in ogni tempo?» È la domanda retorica, con cui Alpron inaugura la propria versione dei Precetti. Il numero non lo conosciamo con precisione, ma possiamo immaginare che siano state molte, queste donne fuori dal comune. E a loro rende omaggio l'yiddish al femminile, che trascolora nell'italiano.
(Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2017)
Cooperativa albese gestirà l'immondizia nei campi profughi della Striscia di Gaza
La ditta "Erica" si è aggiudicata l'appalto internazionale nell'area più densamente abitata al mondo
di Isotta Carosso
ALBA - «Per entrare a Gaza si passano cinque controlli ufficiali, più un paio volanti. Scendiamo dall'auto blindata e decine di studenti in uscita da scuola si fermano per capire di cosa stiamo parlando attorno ai cassonetti dei rifiuti. Il ragazzo con il carretto per la pulizia delle strade è orgoglioso di farci vedere il suo lavoro. Il raccoglitore con il suo mulo aspetta che ci allontaniamo per recuperare qualche bottiglia». Roberto Cavallo ed Emanuela Rosio, rispettivamente ad e direttore della cooperativa ambientale «Erica», raccontano così il primo impatto con la Striscia di Gaza: la realtà albese si è aggiudicata l'appalto internazionale per la gestione dei rifiuti nei suoi otto campi profughi, l'area più densamente abitata al mondo, siglando poche settimane fa il contratto con l'Associazione italiana per la Cooperazione allo sviluppo di Gerusalemme.
Primo sopralluogo
Oggi faranno rientro dal primo sopralluogo. «La situazione - spiegano - è critica sotto molti punti di vista, incluso quello ambientale, per il sovraffollamento e la difficoltà ad approvvigionarsi di materie prime e beni essenziali come l'acqua e l'energia elettrica, fornita solo alcune ore al giorno. Il servizio di raccolta è indifferrenziato e saltuario, con mezzi spesso non motorizzati. Le discariche non sono controllate, con rischi per la salute pubblica».
«Erica», partendo da un primo campo, prevede il coinvolgimento attivo della popolazione e degli studenti, l'introduzione della differenziata con il recupero di materiali e la riduzione delle discariche, la trasformazione in composti della frazione organica, strategica in un'area desertica. «Lavorare a Gaza, dove torneremo tra poche settimane, è un grande privilegio. Speriamo che la nostra esperienza in Europa e in realtà come la Tunisia possa servire a costruire un progetto replicabile, in grado di migliorare le condizioni di vita e occasione di sviluppo di nuove competenze e professionalità per i giovani della Striscia».
(La Stampa - Cuneo, 7 ottobre 2017)
Putin nuovo pivot della geopolitica mediorientale
di Alberto Negri
La guerra di Siria, sul versante della geopolitica, forgia nuove alleanze. Chi ha perso la partita contro Bashar Assad, la Turchia e l'Arabia Saudita, sta già guardando oltre: questo è il senso della visita del monarca saudita Salman da Putin e di quella di Erdogan a Teheran da Hassan Rohani. In gioco tra Russia e Arabia Saudita ci sono gas e petrolio (la stabilizzazione dei prezzi con l'accordo tra Riad e Mosca), la cooperazione economica, in vista anche della mega privatizzazione dell'Aramco nel 2018, ma anche il tentativo da parte di Riad di trovare nuovi partner oltre agli americani.
La prova è che re Salman a Mosca si è rivolto esplicitamente a Putin per frenare "le interferenze" dell'Iran, il vero vincitore della guerra al Califfato insieme a Putin, che ha mantenuto e rafforzato l'asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah, esteso dal cuore della Mesopotamia al Mediterraneo.
Lo stesso discorso dei sauditi vale per Erdogan che ha visto infrangersi i suoi ambiziosi piani di diventare il leader del mondo sunnita. Non solo non è riuscito ad abbattere Assad ma si è trovato in rotta di collisione con Mosca e Teheran, il pericolo del terrorismo jihadista in casa, insieme a milioni di profughi, mentre i curdi iracheni di Massud Barzani proclamavano l'indipendenza con un referendum.
Putin e gli ayatollah da avversari sul fronte siriano sono così diventati il puntello della sua fallimentare politica estera che ha messo a rischio le stesse frontiere turche. Tanto è vero che Erdogan ha chiesto a Iran e Iraq di unirsi alla Turchia per chiudere i rubinetti delle esportazioni petrolifere dei curdi di Erbil.
Erdogan, con la pessima collaborazione di alcune potenze occidentali e arabe, in questi anni è riuscito nel capolavoro strategico di portare la Turchia fuori dall'Europa e di farla rientrare in Medio Oriente dove l'aveva tirata fuori Ataturk.
Il vero problema mediorientale oggi non è più Assad ma Erdogan - del quale per altro russi e iraniani si fidano assai poco visti i precedenti - che è perennemente in frizione con gli alleati storici della Nato e gli europei oscillando come un pendolo tra Oriente e Occidente. L'altro nodo è la tenuta della monarchia saudita, impantanata nella guerra in Yemen, in rotta di collisione con una parte del mondo sunnita (Qatar e Turchia), con l'Iran sciita e alle prese con un primato nel Golfo che appare sempre più opaco. I sauditi devono rifarsi un'immagine internazionale compromessa dal sostegno di Riad ai movimenti radicali che hanno destabilizzato il Medio Oriente. È un'operazione complicata perché si incrocia con i progetti di riforma del regno mal digeriti dal clero wahabita, pilastro della legittimità religiosa dei custodi di Mecca e Medina.
Putin è diventato così un interlocutore ineludibile, una sorta di pivot del Medio Oriente, ascoltato da tutti, da Israele agli alleati iraniani, dagli ex nemici turchi ai sauditi. E questo accade mentre il presidente americano Donald Trump, seguendo i suoi impulsi irrazionali, vorrebbe stracciare l'accordo sul nucleare tra Iran e 5+1 del luglio 2015. Il ministro della Difesa, il generale James Mattis, sostenuto dal segretario Stato Rex Tillerson, frena e si oppone: Trump ha tempo fino al 15 ottobre per decidere se fare o meno un altro regalo ai suoi concorrenti.
(Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2017)
Israele regala all'Unesco un documento per non dimenticare la storia
Paradossalmente quello che era un simbolo di sconfitta e umiliazione serve oggi da conferma dei legami storici fra ebrei e Monte del Tempio di Gerusalemme.
Israele ha donato all'Unesco (l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'istruzione, la scienza e la cultura) la replica di una sezione particolarmente significativa dei rilievi dell'Arco di Tito, che ricorda la distruzione del Secondo Tempio ebraico nel I sec. e.v. a Gerusalemme.
La replica, creata dalla Israel Antiquities Authority in accordo con le competenti autorità italiane, è una copia esatta di una parte dei rilievi del pannello sul lato sud del fornice dell'Arco che sorge nel Foro Romano, sulle pendici settentrionali del Colle Palatino. Sulla parete interna dell'Arco è infatti rappresenta la processione trionfale dei soldati romani di ritorno dalla Giudea dopo aver represso la rivolta ebraica scoppiata nel 66 e.v. e aver distrutto il Secondo Tempio ebraico di Gerusalemme nell'anno 70. Esiliato il popolo ebraico, i romani portarono a Roma in trionfo la Menorà, il candelabro a sette braccia depredato dal Tempio, insieme ad altri preziosi oggetti rituali. Ed è appunto il candelabro del Tempio quello che compare nella riproduzione dell'Arco di Tito...
(israele.net, 7 ottobre 2017)
Dalla Polonia alla Spagna, trionfa la "nostalgia" degli ebrei
Un beffardo mood collettivo per guarire dalla cattiva coscienza
di Paolo Salom
"Sentiamo la vostra mancanza, ebrei",. Questa la scritta apparsa in Polonia sulle facciate di alcuni palazzi. Liberi di crederci o no, i muri polacchi sono oggi sempre più utilizzati per raccontare una verità che - in un Occidente attraversato dalla Shoah - appare paradossale, se non addirittura un insulto. L'episodio dei graffiti apparsi qua e là a Varsavia potrebbe facilmente essere archiviato come un gesto casuale, uno scherzo di cattivo gusto. Ma non è proprio così. La verità è che la nostalgia per un passato che non c'è più - e che nemmeno potrà tornare - è sempre più forte e diffusa, non soltanto in Polonia: anche in Ungheria, in Ucraina (a Est), in Spagna e Portogallo (a Ovest) i "festival ebraici" sono sempre più frequenti e affollati. E non importa se nessuno, né tra gli organizzatori né tra i visitatori, sia ebreo: come spiega Jonny Daniels al Jerusalem Post in un recente articolo, "questi eventi sono una sorta di terapia collettiva". Strani tempi stiamo vivendo. Jonny Daniels, britannico, è il fondatore di "From the depths", un'associazione che promuove momenti in ricordo dell'Olocausto in Polonia. Manifestazioni che non hanno nulla a che vedere con il kitsch o il cattivo gusto: per lui si tratta di raccontare ciò che è avvenuto, nel Paese che più è stato teatro dell'annichilimento di un popolo pacifico e operoso. Che certo non si faceva notare per assalti o attentati terroristici. E, forse, la "nostalgia degli ebrei" fa parte di una strategia per affrontare un mondo sempre più difficile da comprendere. Dove la violenza colpisce all'improvviso e non risparmia inermi civili impegnati nella vita quotidiana: l'estate appena trascorsa ne è un tragico esempio. Non azzardiamo oltre. Ma ci chiediamo: perché mai i residenti di Radzanow, cittadina a poco più di cento chilometri da Varsavia, dove fino al 1939 vivevano non più di 500 ebrei, dovrebbero imbarcarsi nell'organizzazione di un "finto-vero matrimonio hassidico" con tanto di uomini in tallet katan e donne con la parrucca, una chuppà ricostruita fin nei minimi particolari, così come la ketubbah firmata al suono di melodie yiddish di fronte a un (finto) rabbino? Oggi a Radzanow non vive più nemmeno un ebreo. Quelli portati via dai nazisti non sono mai più tornati. Dunque, è sempre il Jerusalem Post a raccontarlo, per ricostruire fedelmente la cerimonia, gli abitanti si sono rivolti a Teresa Wronska, un'attrice del Teatro Ebraico della capitale polacca, e addirittura al Polin Museum: un video li mostra all'opera con tanto di barbe finte e kippoth. Terapia di gruppo? Una messinscena catartica che lava e candeggia una memoria insudiciata? «Volevamo ricordare tutti quegli ebrei di prima della guerra che vivevano una vita pacifica scandita da feste e ricorrenze», ha spiegato al quotidiano in lingua inglese di Gerusalemme Agnieszka Rychcik-Nowakowska, responsabile dell'evento. In questo inizio d'anno 5778, ci sono Paesi occidentali che, come la Polonia, riescono a sorprenderci. Vorrei così mettere le mani avanti, e prevenire l'eventuale nostalgia araba o iraniana per un Israele che "nei prossimi 25 anni" potrebbe dissolversi - come ha promesso il comandante dell'esercito iraniano -. Spiace dirlo, gli ebrei e gli israeliani, di certe nostalgie non sanno che cosa farsene.
(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2017)
Hamas vuole un accordo con Israele prima di smobilitare l'ala armata. Farsa o realtà?
Hamas pone delle condizioni per smobilitare le proprie milizie armate tra le quali spicca la richiesta di un accordo politico con Israele. Ennesima farsa o realtà?
La settimana prossima le delegazioni di Hamas e della ANP (Autorità Nazionale Palestinese) si recheranno al Cairo per iniziare le trattative per un governo di Unità Nazionale sotto la mediazione dell'Egitto.
Hamas ha accettato di cedere la guida civile della Striscia di Gaza alla ANP ma non intende cedere il comando militare. In sostanza Hamas non ha alcuna intenzione di smobilitare le proprie milizie armate senza condizioni....
(Right Reporters, 6 ottobre 2017)
Diaspora reloaded. Un museo a Tel Aviv
di Anna Chiara Cimoli
Un museo di Tel Aviv, Beit Hatfutsot - il Museo del Popolo Ebraico - muta la propria pelle, con un cambio di paradigma copernicano: da narrazione univoca a plurale, da sguardo rivolto al passato a focus sul presente (e sul futuro), da narrazione storica "pura" e diacronica a costellazione di intersezioni con i linguaggi contemporanei.
Questo processo, più che mai rappresentativo della rivoluzione museologica lenta ma mondiale che sta segnando il nostro tempo, riassume in sé tante delle tensioni che vivono oggi i musei, fra discorso politico e responsabilità sociale allargata, fra debito verso un atto fondativo e necessità di parlare a una società multiculturale, fra esigenza identitaria e desiderio di sciogliere questo discorso identitario, con tutte le sue urgenze e anche le sue trappole, entro una complessità ineludibile.
Mondi compatti, culture come monoliti, storie di popoli come frecce scagliate unidirezionalmente in avanti: questo raccontavano i musei storici - molti musei storici - fino ad alcuni decenni fa.
Pochi dispositivi culturali rappresentano chiaramente quanto i musei la velocità con cui, negli ultimi trent'anni circa, si è sgretolata la compattezza dei punti di vista, la fiducia nel fatto che un racconto solido e direzionato possa avere maggiore impatto educativo di uno più ramificato, dubitativo, plurale, nel quale ci sia posto per un'affermazione ma anche per una domanda, per una lettura motivante di una storia controversa ma anche per una sua analisi critica.
Si pensi al profondo ripensamento sui propri modi discorsivi ed espositivi da parte di istituzioni quali il Rjiksmuseum di Amsterdam, il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, la Pinacoteca di Brera di Milano, il Museo Egizio di Torino, per citare solo alcuni esempi maggiori. Un discorso a parte andrebbe fatto per i musei di etnografia o world cultures, come il Grassi di Lipsia, in cui la riflessione critica sul passato coloniale e l'immersione in contesti urbani multiculturali ha dettato la necessità di una reinterpretazione radicale della collezioni, in questo caso più attraverso dispositivi di mediazione che attraverso un riallestimento museografico.
Uno dei pilastri su cui poggia la riflessione museologica contemporanea, in particolare quella che riguarda la museologia sociale e le complesse trame di assunzione di responsabilità, è il saggio di Benedict Anderson sulle "comunità immaginate" (Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism), pubblicato nel 1983, in cui si analizzava la dinamica della formazione dei nazionalismi e il ruolo connivente dei musei entro questa narrazione.
Più in generale, il pensiero sulle comunità come soggetti fluidi, dinamici, interconnessi sviluppatosi in ambito antropologico (Aime, Remotti e numerosi altri) ha contribuito a tale plurificarsi dei punti di vista - quando si parla di nazioni, popoli, culture - molto più di quanto noi museologi siamo in grado di comprendere, a tutt'oggi. Ripartire dall'antropologia aiuterà storici dell'arte, architetti, archeologi ad ampliare lo spettro dei punti di vista, a trovare cornici scientifiche per una riflessione complessa, ancora tutta da svolgere e da tradurre in forme, ancorché provvisorie, dentro i musei in cui operiamo.
Il museo in scena. L'alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi, il recente volume di Jean-Loup Amselle, rappresenta un ottimo contributo in questa direzione. Anche gli studi culturali, nella loro intersezione con gli studi sociali e le humanities, contribuiscono a disegnare nuove cornici teoriche entro cui collocare le pratiche che vanno delineandosi, per prove ed errori: penso a importanti studi sulle dinamiche della memoria e dell'identità nella diaspora, ben al di là delle cornici nazionali, sullo sfondo di un mondo globale e interconnesso che poggia su codici, fonti e pratiche di condivisione in rapidissima evoluzione (per esempio Assman e Conrad, Memory in a Global Age, 2010).
Il tema della coincidenza fra un popolo e una nazione, riferendosi allo Stato di Israele, rappresenta un nodo di complessità quasi paradigmatica. C'è un altro tropo da prendere in considerazione, ed è quello della memoria della Shoah, assurta negli ultimi decenni a momento universale, un "never again" che prescinde da nazioni, territori e appartenenze, un "moral benchmark in a new world order", come scrivono Chiara De Cesari e Ann Rigney nell'introduzione al loro Transnational Memory. Circulation, Articulation, Scales (2014).
La memoria dell'Olocausto è la boa intorno a cui gira il Novecento e il secolo presente, un memento e un patrimonio transculturale per eccellenza, come ben hanno contribuito a spiegare, fra gli altri, Micheal Rothberg (Multidirectional Memory: Remembering the Holocaust in the Age of Decolonisation, 2009), e Sharon Macdonald (Memorylands. Heritage and Identity in Europe today, 2013).
Come narrare tanta complessità in un museo, oggi? Il Jewish Museum di Berlino, con l'edificio progettato da Daniel Libeskind e inaugurato nel 2001, rappresenta un punto di riferimento di una narrazione plurale, che si vuole al servizio di tutti, ebrei e non, tedeschi e non, con un alto valore simbolico e con riferimenti alla vitalità di una tradizione in costante evoluzione. Un luogo mistico, certo, ma non un tempio. Chi ha avuto la fortuna di visitare la fabbrica di Liebeskind vuota non dimentica la potenza di quegli spazi, il vuoto che parlava più del pieno: eloquenza, purtroppo, in gran parte perduta a museo allestito.
Numerosi, nel mondo, sono i musei dedicati alla Shoah, o Olocausto, come si dice più spesso in ambito anglosassone. Esistono molti musei dedicati alla storia del popolo ebraico. Ma quello di Tel Aviv, Beit Hatfutsot, rappresenta un caso di riflessione molto speciale: per la città in cui si trova, certo, ma soprattutto perché sta accettando in pieno la sfida di una rivoluzione totale del punto di vista, con coraggio e freschezza.
Il museo è stato fondato nel 1978 da Nahum Goldmann, president del World Jewish Congress dal 1954 al 1977. Nel 2005 lo Knesset, il parlamento israeliano, ha promulgato la Beit Hatfutsot Law, che definisce l'istituzione - museo, archivio, luogo di ricerca - come "centro nazionale delle comunità ebraiche in Israele e nel mondo". Esiste anche un'associazione degli amici del museo negli USA, e statunitensi sono infatti molti dei visitatori. Il museo nasce dunque, soprattutto, per parlare agli ebrei della diaspora e ricordare loro da quale storia discendono. La sua missione, si legge sul sito, si articola in tre punti: presentare la storia del popolo ebraico nelle dimensioni del passato, del presente e del futuro; alimentare il senso di appartenenza e rafforzare l'identità ebraica; fungere da agenzia di indirizzo per quanto riguarda discourse, engagement and learning di individui, famiglie, comunità e organizzazioni ebraiche in Israele e in tutto il mondo.
Come si arriva al museo? Chiediamo alla barista. Guarda lo smartphone, gira la mappa, non lo sa: prendete un taxi, dice.
"Beit Hatfutsot", diciamo al tassista. Stessa scena: perplessità, temporeggiamenti, ci porta a Eretz Israel, il più noto museo archeologico. Ma noi vogliamo andare a Beit Hatfutsot, che si trova dentro il campus universitario: museo evidentemente meno frequentato dai turisti.
Finalmente arriviamo a destinazione. Nell'atrio, nella caffetteria, e poi nelle sale, tantissimi giovani in servizio militare, non per motivi di sicurezza ma per una visita di formazione. Mostriamo la tessera dell'International Council of Museums, e veniamo accolti come vecchi amici. Ci viene illustrato il percorso, comunicato che la collezione permanente verrà presto smantellata, e che è consigliato partire dalla nuova ala, inaugurata nel maggio 2016. Questo suggerimento viene ribadito più volte; capiremo strada facendo perché.
La sezione permanente, infatti, è cupa, la narrazione che veicola assertiva e monolitica, il tono uniforme, a ribadire più e più volte la nozione di popolo sopravvissuto a una storia millenaria di persecuzioni. Apre il percorso una citazione di Abba Kovner che recita: "Questa è la storia di un popolo disperso in tutto il mondo, che tuttavia è rimasto un'unica famiglia: una nazione che più e più volte è stata condannata alla distruzione ma che, rialzandosi dalle rovine, ha avuto nuova vita". I colori scuri e illuminazione puntuale; le scritte in spessore sulle pareti allusive dei bassorilievi antichi; le ricostruzioni di ambienti con figurine tridimensionali un po' naìf, tipiche dell'epoca in cui il percorso è stato progettato, non aiutano.
Questo display, vecchio nell'allestimento ma soprattutto nel contenuto, è compensato dall'ala nuova, scoppiettante di buone idee, che anticipa i contenuti e il taglio metodologico del futuro allestimento (la cui inaugurazione è prevista nel 2019).
Dunque, la domanda è: come si gestisce questa transizione? Quale la riflessione museologica (sociale, politica, estetica, filosofica) che regge la nuova progettazione? Quale idea di museo si vuole esprimere, e come verrà comunicata? A quanti e quali tipi di pubblico si vuole parlare? In che modo verrà aperta la narrazione tanto direzionata e ripiegata sul passato del vecchio allestimento?
Ho posto queste domande a Amitai Achiman, Head of Curatorial Team del museo, e a Jamie Rains, di Gallagher & Associates, architetto responsabile del progetto, che con generosità hanno condiviso con me riflessioni e documenti programmatici utili a capire che cosa diventerà Beit Hatfutsot.
Il nuovo museo ruoterà intorno a tre fondamenti: l'approccio pluralistico, capace di raccontare l'ebraismo come un mosaico, nella sua dimensione transnazionale e transculturale, senza dogmi e bias; l'accento sulla creatività e la capacità di rinnovamento (come dice efficacemente il direttore del museo, Orit Shaham Gover, si vogliono superare l'"oy vey" e il "gevald", esclamazioni di dolore, e guardare al futuro attraverso la promessa dell' "hallelujah"); la promozione dell'identifcazione ("questa storia riguarda anche me").
Più concretamente, la visita inizierà, al terzo piano, dalla contemporaneità, trattando i vari aspetti dell'identità ebraica attraverso la performance, la musica, la letteratura, e analizzando il contributo dell'ebraismo alla cultura in generale.
Il secondo piano sarà dedicato alla storia del popolo ebraico e alla sua diaspora dalla distruzione del secondo tempio fino alla fondazione dello stato di Israele, attribuendo uguale peso ai momenti tragici ma anche alla resilienza, alla capacità di rinnovamento, all'incontro con le altre culture, con un'attenzione particolare a una narrazione inclusiva, "senza discriminazioni per quanto riguarda origini e genere" (così il documento programmatico redatto dal direttore). Lo spazio dedicato alla Shoah sarà molto ridotto (a Gerusalemme, a pochi chilometri di distanza, c'è lo Yad Vashem) e sarà abitato da riflessioni interpretative di artisti contemporanei, in una logica di rotazione e di costante rilettura.
Il primo piano sarà dedicato a illustrare che cosa significhi di fondo essere ebrei, dunque agli elementi fondanti e universali dell'ebraismo.
Ma - domando - che posizione assume il museo rispetto all'intrico di questioni complesse che riguardano le politiche economiche contemporanee, la frizione con la cultura palestinese, i temi della sicurezza, del trauma, della paura? Beit Hatfutsot ha chiara la propria identità di museo storico, vocato a raccontare lo snodarsi della diaspora nei secoli, fino a oggi.
Non è un manifesto politico, non è un parlamento, non è una piazza. Jamie Rains mi spiega che per lui "partecipazione" non significa un meccanico agire-nel-museo, ma un ampliamento delle possibilità di incontro (con culture, modalità espressive, riti, storie). Il theatre o ambiente interattivo dedicato alla danza, al terzo piano, permette, per esempio, di osservare ma anche di sperimentare in prima persona (come un karaoke, dice: se non è freschezza questa). Insomma, qui la forza dell'azione sta nella chiarezza del compito che ci si è prefissati, e anche dei suoi intrinseci confini.
Alla luce di queste informazioni su come sarà il futuro museo, è più chiaro lo spirito con cui sono state progettate le mostre della nuova ala: che sono, in confronto al vecchio allestimento, davvero incantevoli. Quella dedicata a Chim, il fotografo fondatore dell'agenzia Magnum, vale da sola la visita. Halleluiah!, sulle forme e i significati storici delle sinagoghe, allinea dentro un allestimento di grande eleganza meravigliose maquettes antiche e una storia di migrazione di modelli attraverso i continenti e i secoli, con un forte accento sulle trasformazioni contemporanee e dunque sull'adattività del prototipo (comunicativi i video sulla preghiera nel mondo, più in stile Coachella che in sintonia con l'immagine tradizionale della vulgata, per superficiale che sia; magnetico il display "progetta la tua sinagoga", da cui non ci si vorrebbe più staccare). Tutto suggerisce un'immagine dinamica, in evoluzione; l'accento è sulla preghiera di lode (Hallelujah, appunto) e sul sunny side dell'ebraismo a contatto con i mille mondi in cui vive e con cui si confronta.
La mostra sui 75 anni di Bob Dylan - Forever Young. Bob Dylan at 75, inaugurata prima del conferimento del Nobel, come il museo giustamente sottolinea - è intensa, originale, non santificante ma calda, e parla anche a chi non avesse mai sentito una nota uscita da quella chitarra benedetta. Per i bambini e le famiglie c'è Heroes. Trailblazers of the Jewish People, che racconta soprattutto attraverso exhibits interattivi chi sono dei possibili supereroi contemporanei, da atleti a scienziati, da attori a scrittori.
Ma la mostra che mi ha colpito di più, e che pare davvero un'anticipazione della filosofia con cui il museo si sta proiettando in avanti, è Operation Moses. 30 years after. Fra il 1984 e il 1991, ottomila falascià, ebrei etiopi, sono stati accolti in Israele tramite un ponte aereo. Doron Bacher, all'epoca fotografo di Beit Hafutsot, ha documentato estesivamente questo esodo attraverso migliaia di scatti, conservati nell'archivio. In occasione del trentennale dall'operazione il museo ha affidato alla regista Orly Malessa, che da bambina era stata una di quegli ottomila profughi, la curatela di una mostra fotografica partecipativa.
Tramite una call sui social media si sono cercate le persone che comparivano nelle fotografie d'epoca, e si è scelto di farle parlare, attraverso fotografie, testi e video, mettendo in evidenza i nodi tematici più forti della loro vicenda biografica, senza apologia né censura. Ne emerge un quadro complesso, di luci e ombre, in cui successi e fallimenti, occasioni e rinunce, incontri e disincontri stanno fianco a fianco.
Non è una storia a lieto fine tout-court, ci dice la mostra (densa perché entra, senza retorica, nelle pieghe di ciò che più conta: la relazione con i padri, le aspettative, il fare i conti con se stessi e con le proprie capacità in un contesto nuovo, la traiettoria personale da codificare per poterla tramandare ai figli). Ma qui la storia è raccontata dai protagonisti di quell'esodo, con scelta coraggiosa e chiara presa di posizione.
Se questo è, verosimilmente, un assaggio del discorso che il museo promette, sarà interessante seguirlo e tenere traccia della sua influenza sul mondo museale contemporaneo, sia nel territorio israeliano che nelle più ampie ricadute internazionali.
(Che Fare, 6 ottobre 2017)
Il ghetto ebraico a Jesi, una storia nella storia
Incontro del club "Nova Aesis" sulla centenaria presenza israelita in città. Ospiti Maria Cristina Zannotti e Giancarlo Goffi
di Pino Nardella
L'interno della ex sinagoga di Jesi, con le volte quattrocentesches
JESI - Il ghetto ebraico di via e vicolo Fiorenzuola, a Jesi, è stato al centro dell'incontro mensile, al Circolo Cittadino, del club Nova Aesis, che proprio in questo mese di ottobre ha ripreso l'attività - organizzata dal presidente Fabio Bertarelli e dal vice, Giancarlo Catani - con i suoi interessanti incontri.
Ospiti Maria Cristina Zannotti, ricercatrice-scrittrice, e Giancarlo Goffi, autore del saggio - insieme a Fabio Galeazzi - "Brevi cenni riguardo agli israeliti nella città di Jesi", i quali hanno tracciato uno spaccato di storia che attraversa la nostra città in un arco di tempo di 450 anni.
Il ghetto, già al centro di varie iniziative che lo stanno riscoprendo per riportarlo alla memoria, rappresenta la testimonianza di una presenza che data - ha spiegato Goffi - sin dal XIII secolo, esattamente dal 1294, come si può rilevare da un documento relativo al processo contro la Città di Jesi che aveva assalito l'abbazia di san Benedetto de' Frondigliosi - presso Castelplanio -. In quelle nove pergamene si fa riferimento ai "dominus" Benedetto e Angelo, ebrei che avevano raggiunto anche uno status sociale di rilievo.
Nel 1370 arrivarono gli ashkenaziti - ha ricordato nella sua relazione Maria Cristina Zannotti - provenienti dalla valle del Reno, mentre dal 1492 fu la volta dei sefarditi, dalla Spagna, dopo la caduta della musulmana Granada.
«Jesi - ha ricordato la studiosa - rappresenta una delle poche comunità lontane dal mare, da quella via dei commerci che gli ebrei praticavano con successo, insieme ai prestiti - proibiti ufficialmente a cristiani anche se da loro praticati a usura sottobanco, come nel caso di Floriano Santoni che fu, poi, decapitato -, all'artigianato, alle scienze, mediche in particolare».
E in città si stabiliscono definitivamente perché cercati, in quanto in grado di far "girare moneta" in prestito anche per i bisogni di chi amministrava la cosa pubblica. Tanto è vero che, quando osteggiati dalla popolazione per le loro capacità e ricchezze, furono costretti ad abbandonare definitivamente Jesi, nella prima metà del XVII secolo, trasferendosi ad Ancona, Senigallia, Pesaro, nel Montefeltro, non ritornarono più. Anche se, ancora una volta, invitati a "ripensarci" - ma invano - dal Comune.
Ente che ritornò alla carica nel 1792 quando si rivolse a due ebrei di Ancona, Moisè e Salomone Levi, affinché venissero in città ad aprire alcuni negozi.
E se oggi usiamo andare al mercato il mercoledì - oltre che il sabato - lo dobbiamo proprio alla presenza degli ebrei che nel 1588 "imposero" quel giorno in quanto il sabato per loro era giornata di assoluto riposo.
Nel ghetto - ha illustrato Zannotti - si entrava dalle porte per via e vicolo Fiorenzuola - dal nome dall'antico governatore romano Fiorenzo, che in quel luogo abitò e che fu responsabile della decapitazione di San Settimio - in corrispondenza delle piazze del Comune, Ghislieri e Colocci.
Uno spazio ben delimitato, da piazza del Comune a piazza Ghislieri, per questo le case si sviluppavano il più possibile in altezza e i vicoli erano stretti.
La sinagoga - in stile sefardita - fu "concessa" ai fratelli Moisè e Emanuele Vivanti nel 1535 e ancora oggi è visibile il portale, mentre all'interno ci sono volte quattrocentesche e, nel sotterraneo, un lungo tunnel - ora impraticabile - che arrivava sino a via Mercatini, fuori dalle mura.
Stando alle documentazioni, anche in quel luogo sacro si «arrivò alle mani» per motivi di attrito tra i frequentatori.
«Una zona del centro storico da rivalutare - ha affermato il consigliere comunale Giancarlo Catani, delegato al turismo - che va inserita a pieno titolo nel percorso storico - culturale della nostra città».
(Centro Pagina, 6 ottobre 2017)
"Minimizzazione" della Shoah, l'intervento al Senato di Quagliariello sul negazionismo
Signor Presidente, anche alla luce dell'intervento precedente, chiedo che sull'articolo 5 del provvedimento al nostro esame si proceda alla votazione per parti separate e si voti il primo comma separatamente dal secondo, affinché si possano considerare autonomamente le ragioni insite nella dizione «minimizzazione in modo grave» che ci lascia molto, molto perplessi.
Signor Presidente, entro nel merito di questa proposta, in modo tale da non prendere più la parola. Vorrei dire innanzi tutto che mi considero da sempre un amico di Israele. Ritengo che in quell'area Israele sia la democrazia di riferimento e credo anche che nessun altro Paese del Medioriente abbia sviluppato forme democratiche mature come Israele. Questo, però, non mi esime dal lanciare un grido di allarme nell'Aula del Parlamento: stiamo riempiendo la nostra legislazione di reati di opinione. Una volta la lotta ai reati di opinione era una caratteristica dell'antifascismo. Oggi Alfredo Rocco, dall'altro mondo, sorriderebbe sornione perché in confronto ai reati che sono presenti nel suo codice, quelli che abbiamo inserito noi e che riguardano l'opinione sono molto più ampi e molto più pesanti.
Io mi appello ai liberali presenti in quest'Aula. È mai possibile che non aleggi un minimo di spirito voltairiano che ci porti a considerare le ragioni dei nostri avversari importanti e da difendere - in quanto opinioni - quanto le nostre?
Vi è poi una considerazione particolare, signor Presidente, e io la faccio alla luce del mio mestiere, che è la storia. Personalmente ho sostenuto l'unicità dell'Olocausto dal punto di vista storico perché ritengo che nella relazione amico - nemico, l'Olocausto abbia una sua particolarità: il nemico era considerato tale a prescindere da parametri di tempo e di spazio. Insomma, un ebreo poteva essere perseguito anche se era al Polo Nord, cosa che non accadeva ad esempio a un kulako. Nell'ambito della riflessione storica, però, ci sono tanti colleghi che la pensano diversamente, ci sono storici di sinistra che hanno ritenuto i crimini del comunismo molto più gravi da un punto di vista numerico. Cosa dovremmo pensare? Dovremmo ritenere che debba esserci un giudice che ci dica che quella è minimizzazione dell'Olocausto o minimizzazione grave?
Io credo che tutto ciò debba essere evitato. Segnalo anche che queste argomentazioni di buonsenso oltre che di liberalismo essenziale sono state riprese nel parere della Commissione giustizia, e credo che quest'Aula farebbe bene a dare un segno di resipiscenza e di comprensione anche delle ragioni che i colleghi della Commissione giustizia hanno così ben considerato. È per questo, signor Presidente, che chiedendole il voto per parti separate sul quale si dovrà pronunziare l'Assemblea, chiedo anche ai colleghi di dare un segno e di rendere questa legge votabile e non una legge che porti in casa nostra un altro reato di opinione, introducendo nel codice penale idiosincrasie tipiche del politicamente corretto. Se tutto ciò finisce con l'alimentare il politicamente corretto pazienza, ma se si giunge a modificare il codice penale evidentemente cambia il discorso e cambia anche l'attenzione che dobbiamo prestare a questo tema.
(l'Occidentale, 7 ottobre 2017)
Diventerà un reato anche la minimizzazione della Shoah? Sarebbe un bel risultato per chi vuol far diventare sempre più antipatici gli ebrei. M.C.
Premio stampa Israele ad "Avvenire"
Il Premio Stampa Israele 2016 promosso dall'Ufficio nazionale israeliano del turismo, è stato consegnato mercoledì a Milano dalla direttrice Avital Kotzer Adari.
ll primo premio per la sezione quotidiani è andato a Aurelio Magistà di Repubblica e il secondo ad Angela Calvini, inviata di Avvenire, per il reportage Israele, un ponte di note sulla musica barocca per il dialogo, pubblicato sulle pagine di Agorà .
Per la tv vince Rita di Francesco di Alle falde del Kilimangiaro di Raitre, per la radio Fausta Speranza di Radio Vaticana per i servizi sugli 800 anni della presenza francescana in Terra Santa.
I premi hanno avuto il sostegno di El Al, Ryanair (che apre dal 29 ottobre voli diretti da Bergamo e Roma su Israele) e Savini.
(Avvenire, 6 ottobre 2017)
Alla radici di una stortura: come e perché l'aggettivo sionista è diventato un insulto
E dove si annida il vero nodo antiebraico dell'inaccettabilità storica di Israele
di Claudio Vercelli
Ci si interroga spesso su quanto di antisemitismo vi sia nel viscerale antisionismo che si manifesta un
po' ovunque. Ci si domanda se quest'ultimo non costituisca altro che il rivestimento del vecchio pregiudizio, ora riportato a nuova esistenza. Dove sta il bandolo logico della matassa? Procediamo con ordine. Si dice che il criticare le scelte politiche di un governo non costituisca di per sé un atto di pregiudizio. Come non essere d'accordo, al riguardo? D'altro canto, la politica è un atto di fede oppure va
L'antisionismo non è la critica di una qualche linea politica, bensì il rifiuto del fatto storico che esista lo Stato d'Israele in quanto comunità politica degli ebrei.
invece intesa nella sua natura di risultato di scelte razionali e, quindi, come tali accettabili o meno? Poiché se si è del secondo avviso, allora la critica è non solo legittima, ma necessaria. Fin qui tutto bene, dunque.
Tuttavia, interviene da subito una piegatura del discorso che gli dà un significato diverso. L'antisionismo, infatti, non è la critica di una qualche linea politica, bensì il rifiuto del fatto storico che esista lo Stato d'Israele in quanto comunità politica degli ebrei. Nei suoi meccanismi di funzionamento il pensare in termini antisionisti si basa su una serie di false correlazioni logiche. La cornice del pregiudizio è data dal tenace convincimento che gli ebrei non abbiano pari dignità rispetto al resto della società. In genere non lo si dice apertamente, poiché si sa di incorrere in una sanzione morale. L'antisionismo permette di aggirare questo divieto in maniera socialmente accettabile, non sporcandosi troppo le mani. L'immediata equazione che viene operata è quindi tra linea politica di un governo ed esistenza dello Stato. Le due cose vengono fatte coincidere. Se è criticabile la prima, perché bisognerebbe accettare il secondo? Se la linea politica esprime l"'essenza identitaria" di una società, perché non attaccare anche quest'ultima? In fondo, argomenta l'antisionista, tutto ciò non fa una piega. Poiché il problema della politica d'Israele è Israele medesimo: la sua inaccettabilità storica, l'essere il prodotto di un artificio coloniale, la sua "innaturalità" rispetto alle società mediorientali, derivano dall'imposizione di volontà estranee agli interessi dei popoli di quella regione. Bisogna agire contro ciò, eliminando il vero «cancro», per l'appunto lo Stato ebraico.
Poiché l'antisionismo dice questo e non altro. Non è quindi un caso se ci siano di mezzo degli ebrei. Storicamente, nelle odiose ricorrenze del pregiudizio, questi sono stati descritti sia come "predatori", abituati a sottrarre con calcolo e
Gli ebrei sono sempre stati descritti come "predatori", abituati a sottrarre con calcolo e astuzia i beni altrui: nel passato era la terra dei non ebrei, mentre oggi è lo spazio degli oppressi per eccellenza, i palestinesi.
astuzia i beni altrui (usura, invidia sociale ... ), sia in quanto abusivi, ossia soggetti che occupano una terra che non gli appartiene: nel passato era la terra dei non ebrei, dalla quale dovevano essere scacciati, mentre oggi è lo spazio degli oppressi per eccellenza, i palestinesi. A depredare questi ultimi sono per l'appunto i «sionisti». L'inflazione del ricorso a quest'ultima parola, che ha sostituito l'offensiva espressione «giudeo», serve a renderla fruibile in ogni genere e tipo di polemica, affinché se ne abbia l'orecchio e la confidenza sufficiente per non fare più caso al suo reale contenuto storico,accettandone invece qualsiasi declinazione ideologica in negativo. L'equivalenza tra sionismo e nazismo è, d'altro canto, parte integrante della leggenda nera affibbiata ad Israele. Una sorta di effetto di traslazione, per il quale diventa ovvia la sovrapposizione e la commistione tra vittima e carnefice, in un rapporto di complementarietà che si trasforma in traslazione e sostituzione dei ruoli. Dalla «tragedia dell'essere vittime delle vittime» all'essere «vittime di false vittime», il meccanismo che è all'opera è quello di attestare la contiguità, se non il rispecchiamento, tra le disgrazie del passato e i problemi del presente, affermando che questi ultimi sono la ripetizione delle prime, ma con attori capovolti. È questo il senso attribuito all'«occupazione di tutta la Palestina». In quanto prodotto dell'«imperialismo», Israele prosegue le politiche di radice coloniale, dove l'assassinio degli schiavizzati è un naturale corollario del dominio dell'uomo bianco. Da ciò il «nazisionismo». Come ogni pregiudizio, anche nel caso dell'antisionismo si è in presenza di un discorso che si convalida da solo, ossia che trova in sé le sue premesse e, pertanto, le sue coerenti conseguenze. Spostando il coinvolgimento dalla sfera dei giudizi sui fatti a quella delle valutazioni di ordine morale. Implacabili, queste ultime. Attribuire agli israeliani la volontà di commettere un genocidio implica annullare quello che resta della politica. Si tratta non solo di una deliberata falsità, ma anche del convincimento che la soluzione di una storica contrapposizione d'interessi riposi nell'istituzione del "governo delle virtù", dove non c'è alcuna forma di conflitto negoziabile, ma solo disintegrazione di ciò che non è omologabile, nel nome di valori superiori, insindacabili, assoluti. Qualcosa di cui i movimenti fondamentalisti sono una concreta manifestazione. Per questo la leggenda nera, piaccia o meno a chi la alimenta, va a parare da quelle parti.
(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2017)
Viaggio in Israele di EDIPI per Hanukkà
In ricordo di Ettore Castiglioni
Hanukkà, la Festa delle Luci: Evangelici d'Italia per Israele in collaborazione con Keren Hayesod organizza un viaggio in Israele per far finalmente luce sulla vicenda di Ettore Castiglioni.
Un eroe dimenticato che perse la vita nel salvare ebrei e italiani (tra cui Luigi Einaudi, il 1o presidente della Repubblica Italiana) dalla barbarie nazifascista.
Locandina
(EDIPI, 6 ottobre 2017)
Ankara accoglie con favore riunione di governo palestinese a Gaza
ANKARA - La Turchia accoglie con favore la prima riunione del governo di unità nazionale palestinese a Gaza. "La Turchia continuerà a sostenere gli sforzi per concludere quanto prima il processo di riconciliazione palestinese, che riteniamo essenziale per la soluzione dei due Stati e indispensabile per una pace e una stabilità durature in Medio Oriente", riferisce il ministero degli Esteri di Ankara. La prima riunione del governo di riconciliazione nazionale palestinese a Gaza, presieduta dal premier Rami Hamdallah, si è tenuta martedì scorso, 3 ottobre. Secondo quanto riferisce l'emittente televisiva "al Jazeera", tuttavia, le fazioni palestinesi hanno osservato come l'incontro non abbia "prodotto risultati tangibili". Nel corso della riunione il premier ha chiesto alla Comunità internazionale di esercitare pressioni su Israele per porre fine all'embargo su Gaza e ai paesi donatori di fare quanto promesso per la ricostruzione della città. Il premier ha poi assicurato che "le questioni ancora in sospeso saranno risolte in base agli accordi del Cairo". Le fazioni palestinesi hanno chiesto però la rimozione di tutte le limitazioni imposte in passato dall'Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza, provvedimento non adottato dalla riunione del governo.
(Agenzia Nova, 5 ottobre 2017)
L'accordo tra al Fatah e Hamas legittima il peggiore oltranzismo armato palestinese
Illusorio pensare che sia un passo verso la pace. Non c'è infatti l'impegno a riconoscere lo Stato ebraico. E le Brigate Ezzedin non confluiranno sotto il comando politico militare del nuovo governo palestinese.
di Carlo Panella
Si illude chi pensa e scrive che l'accordo tra Hamas e al Fatah segni un passo verso la pace tra Israele e Palestina. Al contrario, questa tardiva pacificazione ha tutti gli aspetti di un pessimo accordo che cronicizza all'infinito la storica ambiguità delle leadership palestinesi, da Arafat a oggi.
Pessimismo ben fondato
Le ragioni del disincanto e del solido pessimismo sono semplici e drammatiche: innanzitutto, Hamas non si è minimamente impegnata a riconoscere (come ha invece fatto al Fatah dal 1993) il diritto all'esistenza dello Stato ebraico. Di conseguenza, per bocca del suo leader Ismail Hanyeh, ha seccamente rigettato qualsiasi prospettiva di fare confluire le sue Brigate Ezzedin al Ghassem sotto il comando politico militare del nuovo governo palestinese.
Forza di 25 mila armati
Questo significa che una poderosa forza militare di 25 mila armati, dotati di un poderoso arsenale non solo di razzi, ma anche di modernissimi missili forniti dall'Iran, sfuggirà radicalmente a qualsiasi controllo della Anp e del governo di Palestina e potrà continuare indisturbata - come ha fatto dal 2006 in poi - a determinare la tensione con Israele attraverso il lancio di razzi e operazioni come il rapimento del caporale Gilad Shalit su suolo israeliano.
Dunque, abbiamo di fronte solo la forma di un governo palestinese responsabile affidato a una coalizione apparentemente capeggiata da Abu Mazen, ma la sostanza di un governo che dà piena copertura politica al peggiore oltranzismo armato palestinese.
Assurda enfasi dei media
Un quadro sconfortante, incredibilmente salutato con enfasi dai media in preda alle ubbie del politically correct, che spiega la reazione assolutamente negativa di Israele. Bibi Netanyahu ha immediatamente posto due condizioni per ribaltare la valutazione assolutamente negativa dell'accordo Fatah-Hamas: riconoscimento dello Stato ebraico e scioglimento dentro le Forze di sicurezza palestinesi delle Brigate di Hamas.
È stata soltanto una mossa obbligata per una Hamas strozzata economicamente da Abu Mazen e dall'Egitto di al Sisi
Naturalmente, nonostante la pur forte mediazione egiziana, queste condizioni non verranno soddisfatte e l'accordo apparirà quello che è: una mossa obbligata per una Hamas strozzata economicamente da Abu Mazen (che ha cessato la fornitura di gasolio per le centrali elettriche di Gaza, costrette a erogare elettricità per sole 4 ore al giorno) e dall'Egitto di al Sisi che ha chiuso l'80% dei tunnel frontalieri che garantivano l'economia sommersa della Striscia.
Neanche un minimo passo
Allo stremo e alle soglie di una rivolta popolare, la leadership di Hamas ha deciso di buttare a mare la propria rappresentanza governativa. Ma nulla di più. Continua a essere decisa a non effettuare neanche un microscopico passo verso una seria trattativa con il "nemico sionista".
(Lettera43, 5 ottobre 2017)
Egitto - Terza fase della realizzazione della zona cuscinetto al confine con Gaza
IL CAIRO - Il governatore del nord del Sinai egiziano, Abdel Fatah Harhur, ha annunciato l'avvio della terza fase dell'operazione dell'esercito egiziano per la realizzazione di una zona cuscinetto al confine con Gaza. I militari egiziani stanno infatti smantellando tutte le costruzioni presenti lungo una fascia di 500 metri al confine con l'enclave palestinese. In questa fase sono 40 le case che destinate all'abbattimento, così saranno spianati ettari di terreno coltivati per liberare l'area che sarà di pertinenza dell'esercito per motivi di sicurezza. A riferirlo è statoil quotidiano egiziano "Al Masry al Youm".
(Agenzia Nova, 5 ottobre 2017)
Putin si riprende il Medio Oriente
Alleanza ampia su equilibri mediorientali, petrolio e armi con il leader dell'Islam sunnita, che si affianca alla solida intesa con l'Iran sciita
di Giulia Belardelli
Da mesi Vladimir Putin corteggiava Riad per realizzare una delle sue più grandi ambizioni: riprendersi il Medio Oriente, al di là delle divisioni tra sciiti e sunniti. Oggi, con la prima visita di un monarca saudita a Mosca, il leader del Cremlino vede quel piano avvicinarsi alla realtà. La nuova alleanza con l'Arabia Saudita - che va dal petrolio alle armi, per arrivare alla Siria - consente infatti alla Russia di aggiungere alla lista dei paesi 'amici' la roccaforte sunnita, che si affianca così alla solida intesa con l'Iran sciita.
I punti di vista di Russia e Arabia Saudita "coincidono" su molti problemi "regionali e internazionali". Fino a poco tempo fa, queste parole, pronunciate oggi dal re saudita Salman a Mosca subito dopo l'incontro con il presidente russo, sarebbero appartenute al regno della fantageopolitica. Dopo essersi contrastati a vicenda per decenni su tutti i principali conflitti regionali, dall'Afghanistan al ruolo dei Fratelli musulmani, tra Riad e Mosca è ufficialmente sbocciato l'amore. Un amore che è stato disegnato a tavolino dal leader del Cremlino, che giustamente ha definito "storica" la visita di quattro giorni di Salman in Russia: si tratta infatti della prima volta del leader dell'islam sunnita a Mosca, un evento destinato ad avere forti impatti sui futuri equilibri geopolitici. Per Putin, la messa a segno di un percorso di posizionamento che lo vede alleato di entrambe le correnti dell'islam, che intanto continuano a farsi la guerra.
Rimanendo fedele al suo stile di freddo calcolatore, Putin ha portato avanti una linea diametralmente opposta rispetto a quella del presidente americano Donald Trump. Se quest'ultimo, durante la sua visita a Riad nel maggio scorso, includeva i sunniti - e solo i sunniti - tra le "forze del Bene che si oppongono al Male", facendosi filmare mentre danzava l'ardah (la tradizionale danza delle spade), la sua controparte russa è riuscita a diventare amica dei sunniti tenendosi stretti gli sciiti, senza cedere nulla e senza prestarsi a siparietti come quelli di The Donald.
La nuova alleanza tra Mosca e Riad ruota attorno a due fulcri: da un lato il petrolio, dall'altro i conflitti mediorientali. Per la Russia, l'asse con l'Arabia Saudita si inserisce in un progetto politico più ampio, che consiste nel rafforzamento della propria immagine di grande forza indipendente nel Medio Oriente, capace di dettare legge sul prezzo del petrolio così come sull'esito di conflitti regionali come quelli in Siria e in Libia.
"Abbiamo approcci simili, vi sono grandi opportunità per ampliare la nostra cooperazione su diversi temi, come la stabilizzazione dei prezzi del petrolio, che aiuterà le nostre economie e quelle di tutto il mondo", ha detto Salman al termine dell'incontro. Il presidente russo, citato dall'agenzia Tass, ha parlato di "una conversazione significativa, sostanziale e confidenziale": "un colloquio dettagliato a porte chiuse sulle relazioni bilaterali e la situazione nella regione".
La cooperazione per la stabilità dei mercati petroliferi è il punto più semplice su cui essere d'accordo. Putin ne ha parlato già ieri con il presidente venezuelano Nicolas Maduro, definendo "possibile" il prolungamento dell'accordo con l'Opec fino alla fine del 2018, e forse anche oltre. L'accordo è stato firmato lo scorso dicembre dai 14 paesi Opec e da altri dieci paesi al di fuori del cartello, e aveva lo scopo di ridurre la produzione complessiva di 1,8 milioni di barili al giorno per stabilizzare i prezzi. Nonostante sia stato esteso fino al marzo 2018, l'accordo - secondo i dati dell'Agenzia internazionale per l'energia - non è rispettato del tutto da alcuni produttori, tra cui Iraq, Kazakistan, Emirati Arabi Uniti e Malesia.
Oltre al petrolio, in ballo ci sono le armi. Riad ha firmato un accordo preliminare con Mosca che prevede l'acquisto di sistemi russi per la difesa antiaerea (S-400), ma anche di missili anti-carro Kornet-Em, lanciagranate Tos-1A e Ags-30 e fucili d'assalto kalashinkov Ak-103, come è stato descritto in un comunicato stampa delle industrie militari dell'Arabia Saudita. Gli accordi, per un valore complessivo di oltre tre miliardi di dollari, aprono anche la strada alla produzione di armi nel ricco regno petrolifero, tradizionale alleato degli Stati Uniti.
Il rapporto con gli Usa, del resto, resta ambiguo. Sono passati pochi mesi dalla visita di Trump a Riad, quando fu annunciato l'impegno a raggiungere la cifra record di 350 miliardi in cooperazione per la difesa nell'arco dei prossimi dieci anni. Una cifra enorme, che dovrebbe bastare a blindare l'alleanza Washington-Riad per i prossimi decenni. Eppure i sauditi - e su questo sono in buona compagnia nel mondo - non nutrono una gran fiducia nell'ex tycoon, come pure sono sempre più frustrati per la sua mancanza di una politica sulla Siria, al di là della sconfitta dello Stato islamico.
Ed è proprio la Siria, ancora una volta, la chiave di volta di questa insolita alleanza. È necessario "arrivare a una soluzione della crisi siriana in base alle decisioni di Ginevra1 e la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu 2254", ha detto re Salman al termine dei colloqui con Putin. "Bisogna trovare una soluzione politica che garantisca la sicurezza e la stabilità, nonché la conservazione dell'integrità territoriale e dell'unità della Siria".
I sauditi, su questo, sembrano essersi arresi all'evidenza. L'avanzata anti-Isis del regime di Assad, orchestrata da Mosca, ha ridimensionato il ruolo delle opposizioni sostenute da Riad. Il pragmatismo ha dunque portato i sauditi a sostenere il processo di de-escalation della guerra siriana sponsorizzato da Russia, Turchia e Iran. Messo da parte l'obiettivo di deporre Assad, l'imperativo di Riad, ora, è contenere l'influenza di Teheran nella regione. Sia Israele che i sauditi, infatti, temono che l'Iran, con il consenso dei russi, stia costruendo un corridoio per il controllo del territorio attraverso l'Iran e la Siria per il suo potente alleato Hezbollah.
"L'Iran deve fermare le sue ingerenze negli affari interni della regione" mediorientale, ha messo in chiaro Salman. "La sicurezza e la stabilità nell'area del Golfo e in Medio Oriente è una necessità impellente per realizzare la stabilità nello Yemen", dove il suo Paese, da due anni, è a capo di una coalizione araba che conduce una campagna area contro gli Houthi, i ribelli sciiti sostenuti da Teheran. Invece di essere un limite, per Mosca il fatto di avere una solida alleanza con l'Iran si sta trasformando in un vantaggio: anche i paesi più ostili alla Repubblica islamica, infatti, sono costretti a passare da Mosca per far sì che le loro istanze e preoccupazioni vengano ascoltate.
(L'Huffington Post, 5 ottobre 2017)
Viaggio in Israele in occasione dei 70 anni dello Stato di Israele.
di Emanuel Segre Amar
Molti amici mi hanno chiesto di poter andare in Israele ad assistere ai festeggiamenti previsti in aprile 2018.
Il Gruppo Sionistico Piemontese ha organizzato il viaggio qui sotto illustrato al costo di circa € 1950. Coloro che sono interessati potranno contattarmi in privato per ricevere tutte le informazioni.
Il prezzo comprende:
3 notti all'Hotel IBIS, Gerusalemme, o simili, mezza pensione
1 notte all'Hotel RIMONIM, Eilat, o simili, mezza pensione
1 notte all'Hotel LEONARDO NEGEV, Beersheva, o simili, mezza pensione
2 notti all'Hotel METOPOLITAN, Tel Aviv o simili, mezza pensione
Servizio di accoglienza e assistenza all'aeroporto all'arrivo e alla partenza
8 giorni di tour con pullman deluxe privato e climatizzato con guida premium autorizzata parlante italiano
Tutti gli ingressi ai siti menzionati nell'itinerario
Wi-fi gratuito sul pullman
Cuffiette radio guida
Tasse locali
24/7 assistenza in italiano
ll prezzo non comprende:
Bevande, pranzi e qualsiasi pasto non indìcato nell'elenco di cui sopra
Mance alla guida, all'autista e al personale alberghiero
Early check in / Late check out
(Gruppo Sionistico Piemontese, ottobre 2017)
Da Israele un aiuto per frenare i cambiamenti climatici
Le ricerche di Aaron Fait a soccorso della nostra agricoltura
Il dr. Aaron Fait
"Tutto quello che sentiamo sono metaboliti che interagiscono con la nostra saliva. Stiamo tentando di migliorare la frutta rispetto a quella che è sul mercato; fino ad oggi si cercava di "pompare" il prodotto per averne una maggior quantità, oggi si tenta di riportare il gusto all'interno della frutta". Così dice il dottor Aaron Fait, nato e cresciuto a Bolzano, ricercatore presso l'istituto per l 'agricoltura e la biotecnologia Blaustein per le Ricerche del Deserto di Sde Boker, uno dei campus dell'Università di Ben Gurion in Israele. "Sul pomodoro abbiamo in corso uno studio con l'università di Gerusalemme - ci dice - per incrociare il pomodoro nostrano con un suo parente lontano del Sud America che ha tutte le caratteristiche per resistere a varie forme di stress. Studiamo come le inserzioni all'interno del genoma influiscano sulle qualità della pianta".
Le ricerche del Dr. Fait si allargano anche alla vite e ai cambiamenti climatici, focalizzando il deserto come modello di ulteriori cambiamenti climatici. "Seimila anni fa sono arrivate nel deserto israeliano del Negev - riferisce Fait - le tecniche di fermentazione dell'uva. La vite veniva coltivata sulle terrazze dei canyon che non sono cambiate negli anni. I Nabatei sapevano come far rimanere la vite produttiva senza le moderne tecnologie". Tale era l'importanza dei viticoltori già nel 200 a. C. che venivano esentati dal servizio militare. L'agricoltura è nata diecimila anni fa in Iraq, sulle rive dell'Eufrate e da li è stata esportata. I viticoltori avevano conoscenze simili a quelle moderne. "Quello che oggi è difficile far comprendere ai viticoltori - continua il Dr. Fait - è che non devono avere più una vite che cresce, per così dire "tranquilla", ma adeguarsi alle nuove tecniche di coltivazione, come ad esempio aprire la vite". L'idea di tutti coloro che fanno ricerche analoghe è quella di utilizzare analisi sempre più vaste e riuscire ad integrarle in modelli per predire il futuro. "I dati in nostro possesso sono moltissimi - dice Fait - abbiamo difficoltà a dare un senso a questa integrazione rispetto al passaggio del frutto alla sua maturazione e poi a predirne la qualità del vino. Questo è lo scopo a lungo termine, nel frattempo lavoriamo con i viticoltori per capire meglio l'interazione fra il grappolo e l'ambiente utilizzando analisi biochimiche e stazioni micro-meteorologiche per comprendere meglio i processi metabolici all'interno del frutto". Tutto questo è esportabile e può aiutare anche l'agricoltura italiana a contrastare i cambiamenti climatici causati dalla situazione attuale della siccità a seguito di temperature che non erano presenti in passato.
Secondo le ricerche dell'istituto per l 'agricoltura e la biotecnologia Blaustein, basta una settimana senza pioggia per avere un calo di prodotto o, addirittura, il collasso della pianta. Il sistema vinicolo europeo non è ancora adattato ai cambiamenti climatici. Gli esperimenti in serra del Dr. Fait hanno dimostrato che una pianta di vite reagisce in modo diverso in presenza di siccità. Alcune riescano a sopravvivere altre no e muoiono. Studi sull'irradiazione solare hanno portato alla creazione di reti particolari per avere un grappolo più omogeneo con quantità di zucchero adeguate. L'irrigazione a goccia, dice il ricercatore, risolve vari problemi. Per esempio in Friuli non hanno bacini di soccorso e in caso di siccità devono utilizzare autobotti con cisterne. La regione ha iniziato da poco la progettazione di tali bacini. I viticoltori non possono sperare più che venga a piovere. Con l'irrigazione a goccia si immettono anche sostanze chimiche per farle arrivare dove servono, senza spargerle inutilmente sul terreno. "Abbiamo dimostrato - continua Fait - che l'uso del letame lasciato sul campo ha un impatto maggiore e più negativo sulle falde acquifere rispetto ad un fertilizzate sintetico o al letame sciolto che può essere immesso più accortamente all'interno del sistema di irrigazione".
Nel salutare il nostro interlocutore, trasferito da oltre dieci anni in Israele, gli chiediamo un consiglio per i tanti nostri giovani valorosi che escono fiduciosi dalle Università se restare o meno nel nostro paese : "Andare senz'altro all'estero per acquisire esperienze, se l'Italia si sveglia e comincia ad investire sui nuovi ricercatori bene, altrimenti non c'è niente da fare è inutile tenere bloccati in un paese dei cervelli che potrebbero fare molto meglio all'estero".
(Affaritaliani.it, 5 ottobre 2017)
Morto Giorgio Pressburger, anima ebraica della Mitteleuropa
Lo scrittore e drammaturgo di origine ungherese si è spento a 80 anni. Era arrivato in Italia nel 1956 in fuga da Budapest
Giorgio Pressburger
TRIESTE - Si è spento all'età di 80 anni Giorgio Pressburger, scrittore, regista e drammaturgo di origine ungherese, anima ebraica della narrativa triestina. Pressburger, come il gemello Nicola, era nato a Budapest nel 1937, da genitori ebrei. Un'origine che ha poi condizionato la sua vita, passata attraverso eventi storici che hanno definitivamente segnato l'identità sua, come quella dei suoi correligionari.
A differenza di altre, la sua famiglia riuscì a salvarsi dai campi di sterminio nazisti, ma visse il terribile assedio di Budapest del 1944 con i tedeschi asserragliati dalle armate sovietiche nella città dove viveva. Ovviamente, insieme al fratello e alla sorella, Giorgio dovette però rifugiarsi nei sotterranei della sinagoga, insieme a un rabbino e ad altri cinquanta bambini ebrei che infine vennero liberati dai russi. Denutriti, malati e impauriti, furono curati, mentre la vita, dopo la liberazione, riprendeva infine i suoi ritmi normali.
Ma solo per poco, perché nel 1956, con l'arrivo dei carri armati sovietici, l'intera famiglia dovette lasciare l'Ungheria, riuscendo, fortunosamente, ad arrivare in Italia, a Roma. Sono esperienze importanti da ricordare, perché hanno lasciato un segno profondo nei racconti e romanzi di Pressburgher, che in effetti sarebbe difficile collocare fuori dal contesto culturale ebraico.
A Budapest è poi tornato, come Direttore dell'Istituto italiano di cultura, uno dei tanti incarichi culturali che ha ricoperto nel corso della sua vita. Quando gli fu affidata la direzione del Mittelfest che ogni anno si svolge a Cividale del Friuli, come prima nazione ospite d'onore portò l'Ungheria, e la Medea Magiara di Árpàd Göncz. Ma finalmente la sua Heimat era diventata l'Europa.
(Il Piccolo, 5 ottobre 2017)
l 60% degli arabi israeliani esprime parere positivo sullo stato
Da un recente sondaggio emerge una maggiore identificazione con Israele che con un eventuale stato palestinese
Un sondaggio condotto fra i cittadini arabi d'Israele ha rilevato atteggiamenti più positivi verso lo stato e le sue istituzioni rispetto a quanto ci si attendeva. Il 60% degli intervistati ha dichiarato di avere una visione favorevole dello stato, contro il 37% che ha detto d'avere un'opinione sfavorevole.
Il sondaggio, i cui risultati sono stati pubblicati settimana scorsa, è stato condotto dall'ufficio in Israele del Konrad Adenauer Stiftung, dal programma Konrad Adenauer per la cooperazione arabo-ebraica presso il Dayan Center dell'Università di Tel Aviv e da Keevoon, una società di ricerca, strategia e comunicazione (margine di errore dichiarato: 2.25%)....
(israele.net, 5 ottobre 2017)
Le lapidi allo stadio
di Angelica Edna Calò Livne
La fila di lapidi di marmo
Veria è una cittadina di circa 100.000 abitanti. Sorge nella regione storica della Macedonia meridionale. È situata alle falde del Monte Vermion e si trova a 65 km a sud-ovest di Tessalonica a circa 40 km dal Mare Egeo. Siamo di nuovo in viaggio con il Kibbutz. Questa volta la nostra guida è Yaron Enosh, uno dei più popolari conduttori radiofonici israeliani, appassionato di tutto ciò che concerne la storia, la cultura, l'arte e la realtà greca. Con lui trascorriamo cinque giorni a Salonicco- Tessalonica tra le vie affollate, sulla passeggiata in riva al mare e nei luoghi dove vi fu una delle comunità ebraiche più fiorenti: oltre sessantamila persone di cui sono rimaste solo 1000. Shoah . Oggi ci siamo allontanati dalla città per raggiungere Veria. Da lontano il paesaggio non è di grande effetto: tante case e un lungo vialone pieno di negozi. Yaron ci conduce sapientemente, risvegliando la nostra curiosità. Ci fermiamo con il pullman davanti a una mulattiera che scende verso il fiume a serpentina. Quando arriviamo in una piazzetta lastricata ci chiede di guardare in alto, verso l'ultimo piano di una palazzina bianca e tutto il corpo viene percosso da un brivido: tra due finestre leggiamo la scritta in ebraico Lezecher a hurban shel 5642 In ricordo della tragedia del 5642. Ci arrampichiamo su per la salita, in mezzo agli alberi, sulle facciate delle altre case compaiono altre scritte e sulla soglia di un edificio ci accoglie un simpatico signore che parla perfettamente in ebraico. Entriamo ed è come varcare le soglie del cielo. Ci troviamo in una sinagoga completamente azzurra, con un Aron HaKodesh dai colori sgargianti. Ezra Bakola è un ebreo di Salonicco che dal 2008 si cura di questo Tempio: "I nazisti avevano distrutto tutto, era crollata ed era rimasta in piedi solo la parete dell'Aron HaKodesh dove erano racchiusi Sifrei Torah antichissimi che sono stati consegnati a qualcuno per conservarli e di cui non si sa più nulla. Quei due piccoli banchi, li in fondo, sui quali vedete dei libri in ebraico per i bambini, appartenevano alla nostra scuola e le due valige a qualcuno che non ha fatto in tempo a prenderle prima di salire sui camion dei tedeschi. Nella città c'erano 950 ebrei ne sono tornati da Aushwitz solo 111. Ora non c'è più nessuno. Io vengo da Salonicco per curarmi di questo luogo e raccontare, a chi me lo chiede, la sua storia." Fra poco uscirà una raccolta di canti ebraici della famosa cantante greca Natassa Teodoridus e tutte le entrate delle vendite verranno devolute al mantenimento della sinagoga di Veria. Quando le hanno chiesto il perché di questa scelta ha risposto: "Quando avevo 8 anni tutti i bambini ebrei sparirono dalla mia scuola e dalla mia città. Molto, molto più tardi ho capito quale era stato il loro destino!"
Prima di lasciare Veria ci portano al campo di calcio di uno dei licei della città. Un filare di alberi alti lo separa dal vecchio cimitero ebraico che ora non c'è più. Yaron ci fa scendere sugli spalti. È un tipo un po' comico, pensiamo che voglia farci uno scherzo. Sul dorso della collina che circonda gli spalti scorgiamo una fila di lapidi di marmo, scritte completamente in ebraico o in ladino translitterato in ebraico. "Erano momenti difficili, serviva qualcosa per fortificare il terreno e queste lapidi di marmo furono vendute. Qualche anno fa ho scorto tra l'erba alta qualcosa. Siamo venuti con un gruppo di ragazzi da Israele e abbiamo ripulito tutto. " Sulla strada del ritorno ce ne stiamo in silenzio, mentre li librano nell'aria le canzoni di Yehuda Poliker, originario di Salonicco che ha saputo attraverso le sue poesie cantate, raccontare la profonda tragedia degli ebrei di Grecia e la loro rinascita.
(moked, 4 ottobre 2017)
Erdogan in Iran da Rohani, un riavvicinamento sulla pelle dei curdi iracheni
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato ricevuto con gli onori militari a Teheran dal presidente iraniano Hassan Rohani. Oggi i due antichi rivali hanno un interesse in comune: che i curdi iracheni non ottengano l'indipendenza.
Sottotitolo
TEHERAN - Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato ricevuto con gli onori militari a Teheran dal presidente iraniano Hassan Rohani. Nelle immagini rese disponibili dalla tv di Stato iraniana Irib si vedono i due presidenti mentre si stringono la mano, ascoltano i rispettivi inni nazionali e in seguito posano per i fotografi e i cameramen. L'ultima visita di Erdogan in Iran risale al 2015: quella odierna rappresenta un segnale di rasserenamento diplomatico tra Turchia e Iran, entrambi contrari al recente referendum di indipendenza del Kurdistan iracheno.
Il programma
Il programma ufficiale prevede infatti incontri con il presidente iraniano Hassan Rohani e la guida suprema l'ayatollah Ali Khamenei. Erdogan e Rohani presiederanno inoltre il Consiglio di cooperazione di alto livello turco-iraniano, che si riunisce per la quarta volta. In agenda c'è anche la crisi in Siria, dove i due Paesi - pur su posizioni opposte nei confronti del presidente Bashar al Assad - collaborano nell'ambito dei colloqui di Astana. La visita di Erdogan era stata preceduta lunedì da un incontro a Teheran tra i capi di stato maggiore dei due eserciti.
Il referendum che terrorizza Erdogan
Le antiche incomprensioni tra Turchia e Iran, che affondano le proprie radici nella rivalità tra l'interpretazione rispettivamente sunnita e sciita dell'Islam, sembrano dunque potersi superare per questioni di realpolitik: perché la prospettiva di un referendum dei curdi iracheni è naturalmente spaventosa per Ankara, che teme un effetto domino che potrebbe estendersi anche in Siria e in Turchia, ma non è apprezzata neppure da Teheran. Certamente, è soprattutto Erdogan ad avere molto da perdere da quello scenario: ecco perché il sultano è disposto a scaldare le relazioni fino ad oggi tiepide con il vicino iraniano, che anche sulla crisi siriana è sul fronte opposto ad Erdogan, pur di evitare l'indipendenza dei curdi iracheni. Approfittando del fatto che lo stesso Rohani ritiene l'eventuale modifica dei confini a seguito del referendum un pericolo per la sicurezza della regione.
(Diario del Web, 4 ottobre 2017)
Migliaia di musulmani hanno manifestato a Londra contro l'Isis
Il 2 ottobre migliaia di musulmani hanno manifestato contro l'Isis a Londra. La manifestazione si è svolta in concomitanza con il giorno di Ashura nonché decimo giorno del primo mese del calendario islamico.
Il giorno di Ashura è estremamente importante per i musulmani. I musulmani sunniti il giorno di Ashura commemorano il trionfo del profeta Mosè per aver liberato il popolo degli ebrei da faraone.
I musulmani sciiti invece commemorano la morte di Hussain, nipote di Maometto, ed è un giorno di lutto e dolore.
Come ha riportato The Indipendent la marcia composta da crica 10mila musulmani contro l'Isis è partita da Hyde Park fino a Trafalgar Square.
La marcia era composta prevalentemente da musulmani sciiti e durante la manifestazione tenevano numerosi cartelli con scritto Hussain stood againts the terrorism in his time e Hussain stood for freedom.
"Migliaia di musulmani hanno marciato oggi per le strade di Londra il giorno di Ashura per ricordare il messaggio di pace di Hussain e combattere insieme la paura e l'odio" ha rilasciato a The indipendent l'Imam sciita del centro islamico Al-Khoei.
"Hussain ci ha insegnato a costruire alleanze sociali e abbracciare tutta l'umanità. Questo è sicuramente il modo migliore per abbattere l'ideologia dell'odio" ha poi continuato l'Imam.
Presente alla manifestazione anche il fratello di David Cawthorne Haines, l'operatore umanitario britannico decapitato dai militanti dell'Isis nel 2014 in Siria.
"Piango ogni giorno la morte di mio fratello ma bisogna reagire in modo positivo all'odio." ha dichiarato Mike Haines, fratello di David Haines, a The Indipendent.
(Tpinews, 4 ottobre 2017)
Più volte i musulmani sono stati invitati a manifestare pubblicamente il loro dissenso dal terrorismo islamico, è giusto registrare quando alcuni di loro lo fanno. M.C.
Chi tradì Anna Frank? Unindagine riapre il 'cold case'
Ex agente Fbi guida un team di esperti per arrivare alla verità
Chi tradì Anna Frank e la sua famiglia? Chi indirizzò la Gestapo al 263 di Prinsengracht ad Amsterdam per catturare la ragazzina ebrea di origini tedesche il cui 'Diario' è uno dei maggiori documenti sulla Shoah? Un 'Cold case' da riaprire per l'ex agente dell'Fbi Vincent Pankoke che si è messo alla guida di un team di 20 esperti per fare finalmente luce su una tragedia che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e che ha eluso già varie inchieste sia della polizia sia dell'Istituto per i crimini di guerra olandesi. Su 'Anna Frank. A Cold Case Diary', il sito web creato per documentare l'inchiesta in corso e i suoi continui aggiornamenti, è tracciato il filo rosso dell'indagine: "Cosa condusse all'arresto rimane fino ad oggi non chiaro. Il tradimento sembra essere l'unica conclusione logica, ma da parte di chi e perché?". "Fino ad adesso - ha continuato il sito - la maggior parte delle ricerche sono state compiute da scrittori, giornalisti o storici, ma mai da un gruppo di investigatori forensi in grado di usare le tecniche dei 'casi freddi' e supportati dall'intelligenza artificiale". Per questo Pankoke ha riunito criminologi, storici, detective e psicologi, scienziati forensi, analisti dei dati, esperti di software e poliziotti. Il gruppo multidisciplinare conta di usare particolari software per organizzare e analizzare la gran massa di dati disponibili sulla vicenda in modo da trovare connessioni fino ad ora non visibili.
In un'intervista con il quotidiano inglese 'The Guardian' - ripreso dai media israeliani - Pankoke ha detto che il gruppo ha già trovato nuovi sviluppi sul caso grazie a documenti del tempo di guerra declassificati di recente negli Usa e che includono liste di ebrei arrestati dopo essere stati traditi da informatori o agenti della Gestapo ad Amsterdam. "Le precedenti ricerche della polizia olandese - ha spiegato Pankoke al giornale - non erano delle vere e proprie indagini. Ho lavorato sulle carte e ho trovato molte questioni ancora senza risposta".
L'inchiesta in corso rischia di toccare anche un tema sensibile: la corresponsabilità con i nazisti nella caccia agli ebrei da parte di poliziotti e delatori olandesi, di cui ad esempio Bernardus Riphagen fu uno dei più noti. Sono molte, allo stato attuale, le teorie ma nessuna - si dice sul sito web - è suffragata da prove certe, compresa l'ultima ricerca del 2016 che indica in una causalità il motivo dell'arresto della ragazza. L'indagine di Pankoke - realizzata insieme al Museo di Anna Frank che sorge nella casa nascondiglio della ragazza - andrà avanti fin al 4 agosto 2019, ricorrenza dei 75 anni della deportazione della famiglia Frank.
(ANSA, 4 ottobre 2017)
Mossad e start-up: nasce una nuova alleanza strategica
Il servizio di intelligence israeliano ha lanciato 'Libertad', un fondo di investimento per giovani aziende nel settore delle tecnologie innovative
di Luca D'Ammando
Alla fine del 2015 aveva fatto un certo scalpore un video del Mossad con cui veniva aperto il reclutamento di nuovi agenti, indirizzato non solo ad Israele ma a tutto il mondo. Ora invece i servizi segreti israeliani si aprono al mondo delle start-up. Il Mossad ha infatti lanciato Libertad, un fondo di investimento per giovani aziende che intendano sviluppare tecnologie innovative utilizzabili dall'agenzia d'intelligence israeliana. Il progetto punta su start-up attive in campi come la robotica, la produzione energetica, la crittografia, la miniaturizzazione, il protìling e l'analisi testuale. Sul sito web di Libertad è spiegato che il fondo offrirà, per ogni progetto, fino a 568mila dollari di «capitale equity-free per scopi di ricerca e sviluppo», in cambio dell'utilizzo non esclusivo della tecnologia sviluppata, senza imporre restrizioni o pagamento di royalties.
«Storicamente, il Mossad ha esternalizzato le sue tecnoloqie», ha spiegato Eli Groner, direttore generale dell'ufficio del Primo ministro Benjamin Netanyahu. «Ciò che oggi sta cambiando è non solo consentire al Mossad di acquistare prodotti standard, ma coinvolgerlo nella fase di sviluppo iniziale della tecnologia».
In questa fase Israele ha deciso di dare assoluta priorità allo sviluppo della cyber security. Risale agli inizi del 2015 la creazione della Cyber defense authority fortemente voluta da Netanyahu con l'obiettivo, da aprile 2016 fino ad ora, di sviluppare una risposta efficiente agli attacchi attraverso la rete. Le Forze di Difesa israeliane hanno operato insieme alla Cyber defense authority, rimanendo responsabili degli aspetti militari e di quelli concernenti la difesa. Oggi si contano oltre 300 aziende che operano in ambito di sicurezza cibernetica e che nel solo 2016 hanno creato un giro d'affari di quasi 3,5 miliardi di dollari (circa il 5% della domanda globale).
E, per dare un piccolo assaggio delle sofisticate capacità tecnologiche su cui il Mossad sta lavorando, è stato messo in rete un breve filmato in cui una donna elegante seduta in un caffè riceve aggiornamenti con un minuscolo auricolare e, mentre sorseggia il suo Margarita, porta avanti in realtà un complesso pedinamento. Nella borsetta ha un apparecchio fotografico collegato a una lente a contatto che le consente di verificare se il profilo di chi le passa davanti corrisponde a quello di un ricercato. Identificato l'obiettivo informa l'Agenzia con una mail inoltrata strizzando un occhio.
Parallelamente all'iniziativa Libertad, Israele ha avviato un progetto insieme agli Stati Uniti che porterà alla creazione di un gruppo di lavoro focalizzato sulla cyber security. Come ha spiegato anche Thomas Bossert, assistente del Presidente Donald Trump per la Sicurezza nazionale e l'antiterrorismo, la squadra opererà per difendere le infrastrutture critiche dagli attacchi e per individuare gli aggressori e sarà guidata da Rob Joyce, coordinatore della cyber sicurezza della Casa Bianca e da Eviatar Matania, direttore generale del National Cyber Directorate. L'organismo includerà rappresentanti israeliani e statunitensi di diversi ministeri e organizzazioni di difesa e sicurezza, compresi gli affari esteri, la giustizia e l'intelligence. Le agenzie saranno «focalizzate sulla ricerca e sull'arresto degli avversari cibernetici prima che questi possano infiltrarsi nelle reti e raggiungere le infrastrutture critiche, individuando anche modi precisi per rendere responsabili di fronte alla legge gli aggressori», ha dichiarato Bossert, aggiungendo: «Crediamo che l'agilità che Israele ha nello sviluppare soluzioni porterà alla creazione di difese informatiche innovative che possiamo testare ed adottare in America».
(Shalom, settembre 2017)
L'Anp governa a Gaza Israele studia sanzioni
Il premier Hamdallah si è insediato Hamas già parla di armi e resistenza
di Federica Zoja
Ieri a Gaza, per la prima volta dal 2014, si è riunito il governo del premier Rami Hamdallah. Il Consiglio dei ministri ha segnato il ritorno dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) nell'enclave amministrata dal movimento islamico Hamas dopo il golpe dell'estate 2007. Ma gli ostacoli sulla strada della riconciliazione con i rivali di al-Fatah sono ancora numerosi. Hamdallah, rientrato nella Striscia lunedì, ha cominciato a preparare il terreno a un trasferimento delle responsabilità da Hamas all'Anp, in primis finanziarie ed amministrative. Quanto a quelle militari e di gestione della pubblica sicurezza, non è ancora chiaro se e quando saranno cedute agli uomini di Abu Mazen. Hamdallah ha garantito che il governo è determinato ad assumersi tutti i suoi compiti nella Striscia «senza eccezioni» e sottolineato che «la riconciliazione spingerà i Paesi donatori a mantenere i propri impegni», facendo poi appello a Israele a «togliere l'assedio imposto alla Striscia». Così anche il presidente Abu Mazen ha ricordato che «senza unità non può esistere uno Stato palestinese». Tuttavia Abu Mazen ha lanciato un monito all'ala militare di Hamas: «Se qualcuno di al-Fatah ha un'arma illegittima in Cisgiordania, lo arresto. Lo stesso a Gaza».
La risposta di Ismail Haniyeh, numero uno di Hamas, non si è fatta attendere. Intervistato dall'egiziana On Tv, Haniyeh ha rivendicato il diritto dei palestinesi ad armarsi contro Israele: «Ci sono due tipi di armi: quelle del governo, della polizia e delle forze di sicurezza, e le decisioni su questo tipo di armi sono di responsabilità del governo». Il secondo tipo «è l'arma della resistenza: e finché esiste un' occupazione sionista sulla terra palestinese, il nostro popolo palestinese ha il diritto di possedere le armi e di resistere», ha chiarito il politico. Parole che avvalorano i timori della destra conservatrice israeliana e del governo di Gerusalemme. Il premier Benjamin Netanyahu, a margine di una seduta del Likud tenutasi a Maale Adumin, ha dichiarato: «Chi vuole fare riconciliazioni deve riconoscere Israele, smantellare l'ala armata di Hamas, spezzare i legami con l'Iran». Mentre, Naftali Bennett, leader del partito nazionalista Focolare ebraico, ha invitato l'esecutivo a congelare i fondi all'Anp perché «Israele non può accettare di fungere da Bancomat per il terrorismo». Finora, determinante è stato il ruolo della diplomazia egiziana, che ha saputo ammorbidire la dirigenza di Hamas nei confronti dei "fratelli" di al-Fatah. Adesso, secondo indiscrezioni, sono in corso contatti con alti funzionari israeliani. Ottimismo è stato espresso dal presidente egiziano al-Sisi: «Sono sicuro che le maggiori potenze mondiali, quando vedranno che i partiti palestinesi sono pienamente consapevoli dell'importanza del dialogo per raggiungere l'obiettivo della pace, contribuiranno a realizzarla».
(Avvenire, 4 ottobre 2017)
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Gaza, Hamas cede il potere ma non le armi
di Giordano Stabile
Il governo palestinese ritorna a Gaza dopo dieci anni di regno di Hamas ma il movimento islamista sembra disposto a cedere soltanto i ministeri, e non le armi. La «riconciliazione» fra le due anime palestinesi è arrivata dopo mesi di lavoro diplomatico, e ai fianchi, di Egitto e Arabia Saudita. Il presidente egiziano Al-Sisi ha imposto una stretta durissima sulla Striscia, in tandem con il raiss palestinese Abu Mazen, che ha bloccato per mesi i pagamenti del gasolio per l'unica centrale elettrica di Gaza e ha messo con le spalle al muro la leadership di Hamas. Senza luce 21 ore su 24, con il sistema fognario al collasso, gli ospedali al lumicino, il malcontento popolare che cresceva ogni giorno, i dirigenti del movimento legato ai Fratelli musulmani hanno dovuto cedere alle richieste di Abu Mazen e del suo partito, Al-Fatah, spalleggiati dagli alleati arabi e, discretamente, da Israele. Il mai decollato governo di unità nazionale, formato nel 2014, ha così potuto prendere finalmente i poteri anche a Gaza. L'altro ieri il premier Rami Hamdallah è arrivato nella Striscia, accolto da migliaia di persone festanti, che sventolavano anche bandiere egiziane e ritratti di Al-Sisi. Ieri si è tenuta la prima riunione ministeriale ma è anche ripartito il braccio di ferro fra le due «anime». Abu Mazen, intervistato da una tv egiziana, ha chiarito subito quale dovrà essere il prossimo passo, il disarmo del braccio militare di Hamas, le temibili Brigate Ezzeldim Kassam che contano su 25 mila uomini e un arsenale missilistico di tutto rispetto. «Non voglio un modello Hezbollah in Palestina», ha detto il vecchio presidente, pur dicendosi disposto a lasciare il posto a un concorrente di Hamas, «se il popolo lo voterà». Il modello Hezbollah significa una milizia che non risponde a nessuno se non ai leader di partito, uno Stato nello Stato. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha però replicato che «finché ci sarà un'occupazione sionista della Palestina» il popolo ha diritto a resistere in tutti i modi: «Ci sono le armi di esercito e polizia e ci sono le armi della resistenza». Il difficile arriva ora e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito tutti: non accetterà una «riconciliazione» che metta «a rischio l'esistenza di Israele». Cioè che lasci Hamas libero di agire e non tagli i legami con l'Iran.
(La Stampa, 4 ottobre 2017)
La morale hamassiana è semplice: l«occupazione» israeliana giustifica tutto. Fino a che Israele non accetterà la resa incondizionata (fine totale dell«occupazione» di sacro suolo islamico), contro di lui tutto è permesso, tutto è giustificato, tutto è encomiabile. E logica di guerra. Israele ne prende atto e si comporta di conseguenza: agisce come si fa sempre in caso di guerra. M.C.
Ancelotti, pausa sabbatica: "Riposerò 10 mesi"
Il tecnico, invitato a Gerusalemme per una iniziativa in favore di bimbi ebrei, cristiani e musulmani, sull'esonero dal Bayern: «Meglio tacere».
L'ex allenatore del Bayern a Gerusalemme per una iniziativa in favore di bimbi ebrei, cristiani e musulmani
Dalle stilettate di Monaco ai sorrisi dei bambini di Gerusalemme. Carlo Ancelotti, a pochi giorni dal benservito ricevuto dal Bayern cambia aria e ambiente per passare qualche ora a Gerusalemme sul campetto di calcio allestito nel Patriarcato armeno nella Città Vecchia su iniziativa dell'Ong `Assist for peace' osservando le evoluzioni calcistiche di bimbi ebrei, cristiani e musulmani: «La data l'avevamo fissata da tempo. Era una specie di sosta e mi faceva piacere esserci. E ora sono davvero felice di essere in questo campetto messo a disposizione di bambini israeliani e palestinesi», ha detto raggiante, dimenticando le recenti delusioni professionali e annunciando che per i prossimi dieci mesi vuole «riposare e divertirsi, quindi niente altre squadre».
Ogni settimana su questo campo erboso miracolosamente sorto a ridosso delle antiche mura si allena un centinaio di bambini. Parlano ebraico, arabo, ed armeno. Fra di loro ci sono stati nei mesi scorsi anche figli di migranti africani. «Questo è il potere del calcio»` esclama Ancelotti, ammirato dalla visione dei bambini che si lanciano con foga sulla palla per fare bella impressione sull'ospite. «Lo sport è sempre importante per relazionarsi, per andare oltre i propri limiti, e per rispettare gli altri. Sono lezioni che vanno apprezzate in particolare qui dove la gente la pensa in maniere diverse. Ci sono bambini che si esprimono in lingue differenti e che magari non si capiscono. Ma se si gioca non serve parlare molto».
Ancelotti è stato uno dei primi ad aderire oltre un anno fa alla iniziativa di 'Assist for peace' - un progetto promosso dal manager italiano Luca Scolari - che è stata peraltro sostenuta da più parti, fra cui anche il Consolato italiano di Gerusalemme. I padroni di casa hanno lodato il suo impegno per la pace e un esponente del patriarcato armeno, il reverendo Norayr Kazazian, gli ha voluto regalare una Bibbia. «Noi armeni siamo un popolo sparso per il mondo, in conseguenza della nostra storia particolare. Per questa ragione - ha spiegato - per via appunto delle nostre sofferenze, ovunque ci troviamo al mondo ci sforziamo di aiutare il prossimo e dunque abbiamo sostenuto con entusiasmo questa iniziativa».
Incontrando poi i giornalisti, Ancelotti ha parlato ben poco del suo esonero: «Si è detto di tradimenti, di tattiche sbagliate, di congiure, di una preparazione errata. Per me è giunto il momento di riflettere. Tacere è una virtù. Meglio dunque tacere. Deluso? C'è di peggio nella vita. Io sono abbastanza filosofico».
In risposta ad una domanda se il suo futuro comprenda il Paris Saint Germain, Ancelotti ha replicato che per il momento intende «riposarsi e divertirsi». Prevede una pausa di una decina di mesi, dopo «si potrà riparlare». E cosa pensa della crisi catalana e delle ripercussioni per il Barcellona? «Io penso - ha risposto - che calcio e politica devono restare ben separati. Il calcio è una cosa, la politica è un'altra. Quando si mettono insieme non è una bella cosa. Lo sportivo faccia lo sportivo, il politico faccia politica. Quando un giocatore vuol fare l'allenatore e viceversa, si fa solo confusione».
(La Stampa, 4 ottobre 2017)
Solo 1 israeliano su 100 conosce una tra le più belle e storiche sinagoghe del Mediterraneo
In Israele pochissimi cittadini sanno che in Calabria, a 40 minuti da Reggio Calabria, esiste una tra le più belle e storiche sinagoghe del Mediterraneo, quella di Bova Marina, risalente al IV secolo, uno dei rari esempi riconducibili al periodo romano i cui resti siano stati rinvenuti in Italia
di Ilaria Calabrò
Resti della Sinagoga di Bova Marina
Sarà perché è sovrastata da un'orrenda sopraelevata, sarà perché non c'è mai stata una politica di valorizzazione dei beni culturali ebraici e in generale scarsa pianificazione del turismo, ma in Israele pochissimi cittadini sanno che in Calabria, a 40 minuti da Reggio Calabria, esiste una tra le più belle e storiche sinagoghe del mediterraneo, risalente al IV secolo, uno dei rari esempi riconducibili al periodo romano i cui resti siano stati rinvenuti in Italia.
Lo rivela un sondaggio dell'agenzia di comunicazione Klaus Davi & Co. svolto tra 857 turisti israeliani che hanno visitato il nostro Paese quest'estate. Ogni anno il turismo israeliano movimenta in Italia circa 200mila visitatori, ma solo uno su cento, secondo l'indagine, dice di aver sentito parlare della sinagoga di Bova Marina. Un 70% si dichiara dispiaciuto di non poter visitare quel monumento. Quasi il 90% è invece certo che nessuna guida turistica abbia mai segnalato questa meta a differenza di quanto accade in altre regioni.
Scontate le destinazioni più amate dai turisti israeliani: il ghetto di Venezia, il più antico del mondo; il tempio ebraico di Casale Monferrato, fulgido esempio di architettura barocca; il ghetto di Roma, tra i più storici e importanti in assoluto; la sinagoga e il museo ebraico di Firenze, punto tra i più caratteristici del capoluogo toscano; si rimane in Toscana con il luogo di culto di Pisa, punto di riferimento per le comunità ebraiche vicine di Lucca e Viareggio.
Spostandosi a Sud, fra le mete più ammirate vi sono la sinagoga di Napoli, completamente integra e situata nel quartiere Chiaia, istituita nel 1864 grazie all'impegno di Adolph Carl von Rotschild, erede della famosa dinastia dei bancari ebrei tedeschi; la Scola Nova di Trani, diventata chiesa ma poi riconvertita a sede di preghiera per gli ebrei nel 2005; sempre a Trani c'era anche la Sinagoga Grande, risalente al XIII secolo e che oggi ospita la sezione ebraica del Museo diocesano dell'Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie; infine Siracusa, città simbolo della storia millenaria della comunità ebraica siciliana, il cui edificio consacrato è ancora aperto al pubblico.
Messi alla prova gli israeliani rivelano la loro (totalmente incolpevole) ignoranza rispetto all'ebraismo calabrese. Non conoscono Bova ma neanche l'origine ebraica di Reggio Calabria (fondata, secondo la tradizione, da Aschenez, personaggio biblico pronipote del mitico Noè, ricordato anche da una delle vie principali della città). Ma ignorano anche la presenza di giudecche come quella di Nicotera, tornata da poco al suo antico splendore grazie a un ottimo lavoro di ristrutturazione, e dei tantissimi riferimenti alla cultura ebraica diffusi in Calabria, come la dizione di "Cafarnone", per indicare un quartiere del centro storico, il cui nome deriva da Cafarnao, a Cosenza; Monte Giudeo e Casale Giudeo nei dintorni di Carpanzano, nel cosentino; le contrade Judio Soprano o Sottano ed Acqua Judia tra Scigliano, Rogliano e Carpanzano, sempre in provincia di Cosenza; o ancora Timpa dei Giudei nel crotonese, la contrada Giudecca a Tiriolo nel Catanzarese, la Giudea a Isola Capo Rizzuto, la contrada Iudica a Caulonia (RC) o il Fosso Scannagiudei a Caccuri, in provincia di Crotone.
Klaus Davi non si dice sorpreso: "Il convegno 'Il cuore calabro dell'ebraismo', tenutosi lo scorso 3 settembre, è stato un primo passo. Ora spero di incontrare a breve il Presidente della Regione Calabria, Mario Oliverio, per dare vita al progetto a Santa Maria del Cedro per permettere alla prima Bibbia Ebraica stampata al mondo, che ora si trova a Parma, di fare ritorno nella città che le diede i natali, cioè a Reggio Calabria. Auspico che il MiBACT si attivi un po' anche per il nostro Sud".
(Strettweb, 4 ottobre 2017)
Il nuovo rabbino, che ricopia la Torah
Nuovo rabbino a Firenze. Dopo Joseph Levi c'è Spagnoletto. In Italia è l'unico copista della Torah in centocinquanta anni di storia.
di Edoardo Lusena
Sofer è il termine ebraico con cui si indica il copista che trascrive il SeferTorah.
Il Sefer Torah è la pergamena su cui è trascritto il Pentateuco.
Amedeo Spagnoletto è l'unico Sofer italiano ad aver trascritto il Sefer Torah negli ultimi 150 anni
Firenze ha il suo nuovo rabbino. L'ufficialità arriverà solo fra alcuni giorni ma quello di Amedeo Spagnoletto è più di un nome sulla carta: nelle ultime settimane, infatti, ha già frequentato in maniera attiva la sinagoga di via Farini concelebrando le funzioni di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico che il 20 settembre ha sancito l'inizio dell'anno 5778, e di Kippur - la ricorrenza dell'espiazione - che si è conclusa sabato sera. Un ingresso soft durante le festività più importanti dell'anno che ha fatto tirare un sospiro di sollievo a chi temeva che i lavori della commissione, appositamente insediata dal presidente Dario Bedarida per cercare l'uomo giusto, si sarebbero protratti ancora qualche mese. E invece la pratica è stata archiviata rapidamente nonostante l'estate. Se qualcuno avesse avuto qualche dubbio sulla nomina imminente a fugarlo sono bastate le parole della vicepresìdente della comunità ebraica fiorentina, Daniela Misul, che agli ultimi presenti in sinagoga al termine della funzione di sabato, ha chiesto di «ringraziare il nostro rabbino» accennando un applauso, raccolto subito con entusiasmo.
Spagnoletto, 48 anni, va a coprire l'incarico che negli ultimi ventuno anni era stato affidato a Joseph Levi, andato in pensione, non senza strappi, braccio di ferro silenzioso: quello avvenuto fra Levi e i vertici della comunità che dal 2011 sostenevano che dovesse lasciare il ruolo di rabbino per «raggiunti limiti di età» e che, fra carte bollate e incontri, si è protratto - appunto - per sei anni. Il suo successore è romano (e romanista) ma con la nostra città ha più di un legame. Intanto perché la moglie di Spagnoletto è fiorentina, ma non solo: il rabbino, infatti, è stato tra i curatori della mostra E le acque si calmarono, allestita un anno fa alla Biblioteca Nazionale di Firenze e che raccontava, a 50 anni dall'Alluvione dell'Arno, il restauro dei libri ebraici della Nazionale e dell'antica biblioteca ebraica fiorentina.
Il contributo di Spagnoletto all'allestimento non fu casuale: il prossimo rabbino di Firenze è tra i più autorevoli studiosi della Torah e del Talmud, i testi sacri ebraici. Non a caso suo è stato il restauro del Sefer Torah di Biella. Questa pergamena del Pentateuco utilizzata nelle funzioni religiose ebraiche risale al 1250, il che ne fa il più antico esemplare al mondo, tra quelli provenienti dall'Europa, in possesso di una Comunità ebraica e ancora in uso. Non basta: Spagnoletto, tra i suoi titoli, annovera anche quello di Sofer. È cioè l'unico copista che, negli ultimi 150 anni, abbia trascritto a mano in Italia il Sefer Torah.
Un profilo accademico di primissimo piano che solo in apparenza contrasta con lo stile informale di Spagnoletto che al momento lo fa guardare con simpatia dai più nella piccola comunità fiorentina, anche se è decisamente presto per parlare di indici di gradimento. Così come è presto per capire se la sua guida spirituale sarà nel segno di quella di Levi anche oltre le mura di via Farini, improntata cioè a un forte dialogo ìnterrelìgioso che aveva visto l'ex rabbino di Firenze interlocutore diretto e costante dell'arcivescovo, il cardinale Giuseppe Betori, e dell'imam Izzedin EIzir. Ciò che è certo è che attualmente' insegna al collegio rabbinico di Roma. Un incarico che potrebbe anche non lasciare facendone così un rabbino in Frecciarossa, vista la rapidità dei collegamenti fra Firenze e la capitale.
(Corriere Fiorentino, 3 ottobre 2017)
Diritti e doveri del matrimonio, la parola alle Ketubbot romane
La prima forma di tutela della donna nell'ebraismo, che all'unione tra marito e moglie attribuisce una funzione centrale ("Non è bene per l'uomo essere solo" dice la Genesi). Ma anche un modo diverso, una prospettiva più originale per guardare alla storia degli ebrei italiani nelle loro complesse vicende spazio-temporali. Sono le ketubbot, i contratti matrimoniali stipulati in occasione dello sposalizio, ad animare la mostra "Concordia maritale" inaugurata al Museo ebraico di Roma....
(moked, 3 ottobre 2017)
Torino: due diversi dibattiti sulla disinformazione
La sede del Circolo della Stampa del capoluogo piemontese ha ospitato due conferenze nel giro di pochi giorni.
di Emanuel Segre Amar
Lunedì 25 settembre era in calendario un convegno organizzato dall'Ordine dei Giornalisti in collaborazione col Gruppo Sionistico Piemontese. Purtroppo una circolare partita, pare, dalla sede romana dell'Ordine indicava un luogo diverso da quello prestigioso nel centro di Torino, in corso Stati Uniti e la maggior parte dei giornalisti che si erano iscritti hanno preferito, una volta arrivati nella sede sbagliata, tornare alle loro occupazioni.
Ugo Volli, da par suo, ha fatto una dotta introduzione al dibattito prima di entrare nel vivo della discussione. Ha spiegato, appoggiandosi anche a numerosi grafici, come sta cambiando il mondo dell'informazione, con la crisi sempre più profonda dei giornali cartacei, e la parallela crescita dell'informazione trasmessa via web o via cellulare, con forti differenze per le differenze fasce di età, il che mostra una netta differenza di abitudini tra i giovani e le persone più anziane.
È davvero corretto affermare che l'informazione venga dai giornali e la disinformazione da altrove? Molti pensano, al contrario, che ricorrere alla rete permetta di aggirare il limite che regime e stampa impongono ai lettori. E la cosa interessante è che hanno ragione entrambe le teorie. Poi Volli cita, tra gli altri esempi ai quali bisogna porre attenzione, la nota affermazione del New York Times di abbandonare la neutralità per il "pericolo Trump".
Successivamente Marco Reis ha parlato della disinformazione per immagini, iniziando la sua spiegazione mostrando un proclama di Mussolini che già nel 1937, inaugurando Cinecittà, fece esporre un grande manifesto nel quale stava scritto: la cinematografia è l'arma più forte; e Churchill, pochi anni dopo, affermava che "in ogni guerra la prima vittima è sempre la verità": queste parole sono tuttora valide. Sono successivamente nate delle polemiche tra Reis ed alcuni giornalisti a proposito di un video messo in rete (e diffuso con grande evidenza) come documento, tra l'altro finanziato dal governo svedese, che mostrava un bambino che sembrava trovarsi in mezzo ad una battaglia ma che, contestato da chi ne colse la falsità, venne poi derubricato dagli autori a semplice finzione cinematografica per illustrare la situazione dei bambini nel conflitto in corso; tali polemiche hanno finito per impedire al prof. Volli di entrare nel merito specifico della disinformazione nei confronti di Israele, come egli si era ripromesso di fare nell'ultima parte del dibattito, per mancanza di tempo. Ha così chiuso affermando che i giornalisti pensano spesso più ad educare e ad edificare il pubblico che a informarlo, spiegando alle persone come devono pensare, convinti di aver fallito se non ci riescono.
In modo ben diverso si è svolto il convegno del successivo giovedì 28 settembre avente, per titolo, "Islam e giornalismo: immagini, racconti e manipolazioni sui media italiani".
Con la moderazione di Beppe Gandolfo, giornalista Mediaset, si è discusso di "quanto i mass media, dall'attacco alle torri gemelle alla comparsa dell'Organizzazione dello Stato Islamico, hanno contribuito ad alimentare una propaganda islamofobica nel mondo occidentale". Si è parlato, insomma, "dell'impegno deontologico del giornalista, dei doveri rispetto a realtà falsificate ed allarmismo".
L'argomento prometteva di essere interessante, ma
Ha iniziato Laura Silvia Battaglia, "giornalista professionista, corrispondente dallo Yemen" che affronta l'argomento parlando degli elementi pregiudizievoli che sono alla base dell'informazione; "quali sono i pregiudizi appropriati?", "bisogna essere onesti, ma i pregiudizi fanno parte del nostro percorso", "noi siamo un mercato che risponde a certe esigenze", "noi esprimiamo il nostro punto di vista, mentre scriviamo", "i media occidentali considerano l'Islam come un capro espiatorio, e per la destra rappresenta la barbarie". La professionista ha poi spiegato che "esiste un Islam moderato ed uno radicale", e che "l'Islam estremista, che è da alcuni considerato essere un Islam ignorante, si contrappone a tutti gli altri Islam che sembrerebbero soccombenti". "Al contrario l'Islam politico, che ha preso in mano molti stati, fa enormi danni alla parola Islam". "E poi, il terrorismo è solo islamico? In realtà ve ne sono molti altri di terrorismi."
"Fondamentalismo" è un'altra parola pregiudizievole, verità della Battaglia tuttavia non meglio spiegata. "E non bisogna identificare qualsiasi gruppo con Al Qaeda, così come è stato un grave errore, nel 2013, identificare tutti come Fratelli Musulmani, o sostenere che tutto nasce dal settarismo tra sunniti e sciiti" (già, non dimentichiamo che l'oratrice ha vissuto 3 anni nello Yemen). Ha concluso spiegando che "la parola jihad sta a significare semplicemente lo sforzo più importante che una persona deve fare, nel suo quotidiano".
Seconda oratrice del convegno, Tiziana Ciavardini del Fatto Quotidiano e "portavoce dell'Università Islamica" ha contestato che l'Islam sia "per sua natura votato al conflitto e che il mondo islamico sia una minaccia per il mondo occidentale", cercando di "correggere queste idee". Avendo ella, per sua stessa affermazione, "vissuto per 25 anni in paesi a maggioranza musulmana (molti in Iran), siccome "in Italia non abbiamo conoscenza della religione musulmana", ha voluto "portare la sua esperienza di donna" (sottolineo la sua lunga permanenza in Iran, paese del quale non ha colto alcun aspetto negativo). "Quanta malafede c'è nel parlare di Islam!", "gli editori vogliono farci credere ciò che non è", "vivo dal 2003 in Iran dove posso vedere i TG italiani che sono diversi da ciò che vivo", ed allora ha lasciato l'insegnamento universitario preferendo scrivere; "i media ci fanno spesso un lavaggio del cervello". Alla Ciavardini "preme arrivare al popolo", unica strada "per far comprendere Islam e immigrazione".
Anche per la Ciavardini i "media hanno un'enorme influenza sull'uomo", e "potere e responsabilità sono nelle mani degli operatori, di coloro che scrivono sui media e di quelli che si esprimono sui social". I "giornalisti non sono tenuti a sapere di tutto, non sono esperti di Islam (non siamo imam!) e, di conseguenza l'Ordine dei Giornalisti dovrebbe titolare giornalisti e anche il lettore". Per fortuna che "almeno il giornalista Facci, che scrisse un articolo parlando male di Islam, anche con frasi razziste, è stato sospeso per due mesi". "Pretende che, se si scrive qualcosa, sia vero e non manipolato"; la disinformazione ha "lo scopo di influenzare le scelte di alcuni, di occultare verità scomode e di cercare di persuadere" (che profondità di analisi! ndr). La giornalista illustra una fotografia manipolata nella quale si fanno vedere delle studentesse sedute per terra ma si nascondono delle donne comodamente sedute per far passare la "falsa idea della sottomissione della donna". Anche la ben nota fotografia delle tante "spose bambine per mano ai loro mariti" è una bufala essendo, nella realtà, delle semplici damigelle di nozze (anche se, ammette, è vero che ci sono spose bambine). "L'Ordine dovrebbe lavorare su questa disinformazione!" Dopo un attacco a Souad Sbai che scrive su Libero, protesta perché non ci sono "conseguenze per i giornalisti che mentono", ragione per la quale "la disinformazione miete le sue vittime ovunque", mentre "l'informazione ci deve garantire la correttezza".
Stefania Miretti, già collaboratrice de La Stampa e poi vice-direttrice di Gioia, autrice di: "Non aspettarmi vivo - La banalità dell'orrore nelle voci dei ragazzi jihadisti", specializzata nel parlare con le famiglie dei giovani che hanno raggiunto l'ISIS partendo dalla Tunisia, spiega che vuole che "siano le comunità musulmane a parlare". Racconta così la storia di "un giovane sedicenne che non è mai giunta sui giornali e che è morto nello stesso giorno del Bataclan": "oggi il vero problema non sono le fake news, ma le no news", e spesso "i media vanno dietro ai fake considerati dai giornalisti come fonti". Ci spiega anche che "non è del tutto vero che i terroristi ce l'hanno coi nostri stili di vita, ma che anzi un sacco di giovani diventati terroristi avevano il nostro stile di vita" (peccato che non vada oltre in questa analisi). "Il fondamentalismo, dobbiamo capire tutti, così come abbiamo fatto noi incontrando le famiglie dei tunisini, non è solo caratteristico dell'Islam; in tutto il mondo delle persone passano all'identitarismo, si vogliono definire abitanti di una piccola patria propositiva e positiva" (sic). "L'Islam radicale deve essere visto come una forma di populismo; sono due linguaggi speculari." Infine denuncia che "il giornalismo ha rinunciato ad indagare su certi imam che vengono portati in TV".
Andreja Restek, "fotoreporter che segue e monitora il fenomeno dei gruppi terroristici nel mondo" (deve aver un coraggio da leone, lei, per di più donna ndr), fatta venire appositamente dalla Turchia per questo convegno, spiega che "i giornalisti ed i fotoreporters sono educatori del popolo". "In Europa c'è un 2% di musulmani, ma qui si crede che siano 30-40%". "L'Ordine dei Giornalisti dovrebbe richiamare alla correttezza", "dobbiamo togliere la paura perché non c'entra l'Islam, e questi sono solo un gruppo di delinquenti". "Vi è poi una grande confusione sul termine al Qaeda, e si dovrebbe fare un corso su come usare certe terminologie".
Per ultimo ha parlato Sherif El Sebaie, opinionista di Panorama, "esperto di diplomazia culturale, di rapporti euro-mediterranei e di politiche sociali d'integrazione"; anche per lui "i giornalisti sono educatori del popolo", e critica il fatto che "il lettore, quando apre il giornale, può farsi solo un'opinione negativa dell'Islam". "Il fondamentalismo non è necessariamente violento". Gli egiziani che "erano emigrati e si erano dovuti sottomettere in Arabia Saudita alle leggi locali, si erano fatta l'idea che ciò che la religione dice è la visione giusta", ed hanno riportato quelle idee in un Egitto che, negli anni '20 accoglieva le femministe senza veli. "Nell'Islam non c'è gerarchia e quindi tutti possono sostenere tutto; ma ciò vale anche tra gli ebrei ortodossi e nelle sette cristiane dov'è non c'è nulla di diverso".
"Islam e terrorismo non c'entrano (i terroristi prendono un pezzo qua ed un pezzo là), si mescolano varie visioni dell'Islam che, in realtà, si può contestualizzare, ma noi in Europa non vediamo nulla".
"Non è giusto affermare che i musulmani non manifestano, ma le loro comunità egiziane, tunisine ecc. lo fanno se succede qualcosa che le tocca da vicino." "Non esiste una Comunità islamica, se non nel concetto di Islam politico; e la parola -islamista-, che, dal francese, significa "studioso di Islam", è colui che aderisce all'Islam politico e che, nel mondo arabo, piega la religione facendone una specie di manifesto elettorale" (e in Iran, paese non arabo, è diverso? ndr)"Non si può inoltre parlare di comunità islamica, perché sono tanti gruppi diversi, anche per la fede". "Purtroppo in televisione si tende a rafforzare l'Islam politico e ciò non va bene e contribuisce a diffondere l'islamofobia".
Mi è parso impossibile, a conclusione di questo convegno, contestare tante affermazioni di tutti gli oratori, ed ho preferito chiedere come mai, a differenza della sospensione decretata contro il giornalista Facci, lo stesso non sia avvenuto per Riccardo Cristiano, del quale ho ricordato ai presenti le malefatte, o per i direttori dei giornali che pubblicano scientemente fotografie contraffatte, tutte contro Israele, delle quali ne ho illustrata una. Mi ha risposto il moderatore Gandolfo, nella sua vece di consigliere nazionale dell'Ordine dei Giornalisti, sostenendo che è "facoltà di tutti noi di fare esposti all'Ordine assicurando che poi il Consiglio Nazionale risponde"; "il miglioramento passa attraverso la correzione".
Ho anche ricordato, a proposito della predica fatta dall'Imam di Al Azhar di fronte all'allora presidente Morsi, le parole di virulento attacco contro gli ebrei, chiamati scimmie e maiali, e che devono essere annientati, predica ascoltata senza reazione alcuna da Morsi, e, come risposta, mi è stato detto che appunto 30 milioni di egiziani scesero in piazza contro i Fratelli Musulmani, il cui pensiero sugli ebrei è esattamente quello che avevo ricordato. Nella risposta El Sebaie aggiunse che nella stessa occasione quell'imam parlò male anche degli sciiti causando l'uccisione di una famiglia sciita.
Ultima perla del pomeriggio: "I numeri che entrano in Italia ed i tassi di fertilità sono elevati ma i giovani che qui nascono vengono educati secondo la cultura del paese. Tocca poi ai governi stabilire i parametri per la convivenza. Altrove ci sono quartieri dove lo stato non esiste e alcuni si sono così imposti sui loro connazionali nei ghetti dove sono concentrati (la parola ghetto per me dovrebbe avere un diverso significato: di gente obbligata a vivere lì dentro prigioniera, non di persone che preferiscono vivere vicino ai propri amici); purtroppo la colpa sta nello stato centrale che ha lasciato fare".
(Progetto Dreyfus, 3 ottobre 2017)
Ariston Thermo cresce in Israele
Per la multinazionale marchigiana terza acquisizione in 12 mesi.
di Luca Orlando
Prima Canada, poi Stati Uniti, ora Israele. Con la terza acquisizione realizzata in appena 12 mesi Ariston Thermo prosegue il proprio percorso strategico, che vede nell'ampliamento del profilo internazionale e nel rafforzamento tecnologico i due perni principali.
L'ultimo target è Atmor, sede a Tel Aviv e produzione in Cina, azienda da dieci milioni di dollari di ricavi in possesso di una tecnologia specifica negli scaldacqua elettrici istantanei. «In Israele non avevamo una presenza diretta - spiega il presidente del gruppo Paolo Merloni - ma a differenza delle due precedenti acquisizioni qui la motivazione è soprattutto tecnologica, non tanto di mercato. Atmor è un leader di innovazione nel proprio settore e ora potremo aggiungere questo prodotto al nostro portafoglio, vendendolo in tutto il mondo». Sono in effetti già ISO i paesi "coperti" dal gruppo marchigiano, tra i leader mondiali nel settore del riscaldamento dell'acqua e degli ambienti, reduce da un percorso di crescita costante che ha spinto i ricavi a 143 miliardi di euro, facendo quasi triplicare l'Ebitda dal 2009. Dei 22 stabilimenti sparsi nel globo i principali sono in Italia, sette impianti ad alto tasso di esportazione (l'Italia vale poco più del 10% dei ricavi) ma responsabili del 40% dell'output complessivo. «Agli investimenti di prodotto- spiega Merloni - negli anni abbiamo affiancato interventi radicali sui processi, sviluppando ad esempio fin dal 2010 le metodologie World Class Manufacturing per mantenere i massimi livelli di competitività: in Italia dal 30 al 50% dei nuovi investimenti saranno legati alle tecnologie 4.0.
Interventi che avremmo fatto comunque anche in assenza dell'iperammortamento, ma che ora spingiamo con maggior vigore e convinzione». Gli investimenti annui del gruppo sono nell' ordine dei 70 milioni, con un' enfasi crescente su ricerca e sviluppo: entro ìl 2020 il target è realizzare 1'80% dei ricavi grazie a prodotti ad alta efficienza energetica. «L'innovazione è cruciale - aggiunge Merloni - perché stiamo vivendo una fase di trasformazione epocale. Ecco perché investiamo in tre anni 20 milioni per sviluppare un nuovo centro di ricerca ad Agrate Brianza, che a regime darà lavoro ad un centinaio di persone: sarà il nostro centro di competenza globale sulle tecnologie avanzate». Polo di innovazione che si innesta su una rete di 19 centri di sviluppo locali, affiancati alle diverse produzioni sparse nel mondo. «Attività che continuano a complicarsi - spiega Merloni -perché oggi ad esempio è possibile connettere gli oggetti, sia per poter pilotare a distanza il comfort della propria abitazione, sia per attivare la nostra rete di assistenza, segnalando in tempo reale l'eventuale anomalia in modo da poter intervenire rapidamente, magari anche per via remota».
L'operazione in Israele, con l'acquisizione della maggioranza di Atmor, segue l'acquisto della quota di controllo della canadese Nti (riscaldamento idronico a condensazione) nel settembre 2016 e della statunitense Htp lo scorso agosto, due operazioni che hanno permesso ad Ariston Thermo di entrare direttamente per la prima volta nel mercato nordamericano.
(Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2017)
Gaza, il governo Anp visita la Striscia. Riconciliazione con Hamas, Israele tace
Il premier palestinese non entrava nella zona da oltre due anni. Hamdallah ha citato il ruolo di mediatore giocato dall'Egitto
di Simona Verrazzo
ROMA - La visita del premier dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza segna ufficialmente il via libera alla riconciliazione tra le parti per dieci anni divise: da un lato Al Fatah, il partito del presidente dell'Anp Abu Mazen, dall'altro Hamas, il movimento islamista al potere nella Striscia dal 2007. Ieri il primo ministro Rami Hamdallah è entrato nel Territorio palestinese, in quella che è stata definita dai media una visita «storica», avvenuta dopo oltre due anni di interruzione di ogni rapporto tra le due parti, frutto della mediazione dell'Egitto.
Unità irrinunciabile
Al valico di Erez (Beit Hanun) erano con lui diversi ministri e responsabili della sicurezza dell'Anp. Al suo arrivo diverse migliaia di persone lo hanno accolto con entusiasmo. In un discorso alla folla Hamdallah, ringraziando il Cairo per il ruolo svolto, ha ribadito che l'unità geografica fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza è una condizione necessaria per la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, sottolineando l'importanza dell'«unione» tra i due Territori. Quindi ha assicurato che i suoi ministri inizieranno subito a lavorare e ad assumersi le proprie responsabilità, soprattutto per quanto riguarda il controllo dei valichi, il mantenimento della sicurezza e altri aspetti della vita quotidiana. Presenti all'evento anche una rappresentanza egiziana e il coordinatore speciale dell'Onu per il processo di pace in medio oriente, Nikolay Mladenov, mentre numerosi erano gli striscioni in sostegno di Abu Mazen e del presidente egiziano, Abdel Fatah Al Sisi. A favore del riavvicinamento tra le due fazioni anche l'università-moschea di Al Azhar, che si trova al Cairo, massima istituzione al mondo dell'islam sunnita, Per arrivare dalla Cisgiordania alla Striscia di Gaza, la delegazione dell'Anp si è spostata in auto, attraversando Israele, così come confermato dal Cogat, l'Ente israeliano di coordinamento delle attività di governo nei Territori palestinesi. Lo Stato ebraico, per il momento, non ha espresso giudizi in merito alla riconciliazione fra Al Fatah e Hamas, arrivata lo scorso mese, il cui obiettivo è organizzare elezioni generali tenute contemporaneamente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La visita è arrivata nel giorno in cui Israele ha annunciato la chiusura, da domani e fino al 14 ottobre, dei valichi di transito con la Cisgiordania in occasione della ricorrenza ebraica di Sukkot (la festa dei Tabernacoli). Ma la vera sfida è il rilancio dell'economia. Per questo uno dei primi luoghi visitati ieri da Hamdallah è stato il rione di Sajaya, dove ha visionato i lavori di ricostruzione di una palazzina. E' seguito un incontro con i vertici di Hamas, prima con il leader, Ismail Haniyeh (alla guida del movimento da maggio), e poi con il capo dell'ufficio politico, Yahya Sinouar. Per oggi è invece previsto un importante atto simbolico: lo svolgimento di un consiglio dei ministri dell'Anp, il primo da anni, a Gaza. A settembre Hamas ha annunciato lo scioglimento della cosiddetta "commissione amministrativa", creata dopo che Abu Mazen aveva cercato di aumentare la pressione sul movimento islamista, riducendo i finanziamenti per l'elettricità a Gaza. La crisi tra le parti ha portato la popolazione di Gaza a vivere con sole due-tre ore al giorno di elettricità, fornita dall'Egitto. Il mese scorso, la svolta del movimento che controlla la Striscia, che ha deciso di riavvicinarsi all'Anp.
(Il Messaggero, 3 ottobre 2017)
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L'Anp torna a Gaza, ma è scontro sui militari
GERUSALEMME - I cancelli della villa sono sigillati da dieci anni. Da quando i miliziani di Hamas erano entrati con le armi nelle stanze che non avevano mai potuto visitare. Il presidente Abu Mazen non è mai tornato a Gaza, in quella residenza nascosta dal giardino, quartiere residenziale di Rimal, le vie che scendono verso il mare e si allontanano dalla miseria. Da Ramallah, dal palazzo ufficiale, ha pianificato questo giorno, ha spremuto economicamente i fondamentalisti perché restituissero il dominio sulla Striscia strappato con un golpe dieci anni fa. Non ci sarebbe riuscito senza le pressioni dell'Egitto, i cui servizi segreti diventano i garanti dell'intesa di riconciliazione tra le fazioni palestinesi. Che ancora devono mettersi d'accordo su tutti i punti. Ieri il primo passo ufficiale: il premier Rami Hamdallah ha caricato il governo su un convoglio di trenta auto, è arrivato dalla Cisgiordania e ha trasformato la villa di Abu Mazen nel quartier generale dell'unità. I fondamentalisti lascerebbero all'Autorità il controllo degli uomini in blu, la polizia dispiegata per le strade, quelli che indossano la mimetica continuerebbero a rispondere ai boss dell'organizzazione.
Gli israeliani per ora stanno a guardare. Dal Cairo il presidente Abdel Fattah al Sissi promette anche di aprire il valico di Rafah, di permettere agli abitanti la libertà di movimento limitata dall'embargo imposto da Israele. D.F.
(Corriere della Sera, 3 ottobre 2017)
Roma - «Ingresso giudei» e una stella di David
La scritta choc davanti al liceo Seneca
di Lorenzo De Cieco
Il caso
«Ingresso giudei». E sotto una stella di David disegnata con l'inchiostro nero. La scritta la trovano sull'asfalto sgretolato di via Fulvio Maroi gli studenti del liceo Seneca. È un colpo allo stomaco, che fa venire subito alla mente gli anni bui delle leggi razziali e delle campagne più becere del fascismo degli anni Trenta e Quaranta. Il rigurgito antisemita riaffiora davanti al cancello di una scuola di Roma Nord, in una stradina in salita tra via Baldo degli Ubaldi e via Boccea.
Il quartiere
Questo condensato di razzismo formato spray è già lì alle otto del mattino, prima che suoni la campanella, quando i primi gruppetti di studenti già cominciano ad accalcarsi davanti all'ingresso di una delle tre sedi del liceo Lucio Anneo Seneca, quella dove si insegnano il Greco e il Latino, con circa 150 iscritti. «Ma non è stato uno di noi», sono sicuri i ragazzi, quando quelle parole cariche d'intolleranza sono già sulla bocca di tutti. «È stato un esterno, ne siamo certi», ripetono tutti. «Questa è una scuola dove il razzismo non ha mai avuto cittadinanza», dicono anche gli insegnanti, spaventati dall'idea che certi concetti possano circolare tra i ragazzi a cui ogni giorno cercano di trasmettere tutt'altri valori.
Denuncia contro ignoti
Ovviamente è già scattata la denuncia alle forze dell'ordine, probabile che la scritta sia stata realizzata tra sabato e domenica notte, quando l'istituto è rimasto chiuso e senza lezioni. Un blitz di un gruppo organizzato di neo-fascisti o la smargiassata di una banda di spacconi, magari inconsapevoli di quello che la frase riesce ad evocare? Le indagini sono in corso. Ieri qualcuno ha provato a ripulire l'asfalto con l'acido, ma non è bastato. «Ci abbiamo messo sopra qualche ago di pino, per evitare che si leggesse ancora», raccontano alcuni alunni, quelli che lì accanto, intanto, hanno appeso un cartello di segno opposto. C'è scritto: «Contro ogni forma di razzismo».
Racconta Ludovica Bianchi, 19 anni tra una manciata di giorni, uno dei promotori della reazione: «Quando questa mattina abbiamo trovato la scritta davanti alla scuola siamo rimasti tutti basiti per la viltà di queste persone. Abbiamo sentito il bisogno di fare qualcosa. Un cartellone contro il razzismo è importante, ma sappiamo che il gesto non basta. Ma non possiamo restare indifferenti davanti all'odio».
(Il Messaggero, 3 ottobre 2017)
Un eroe di nome Merah
"Dopo Tolosa hanno lasciato soli noi ebrei". Parla Alexandre Mandel
di Giulio Meotti
ROMA - Domenica, alla stazione Saint Charles di Marsiglia, un islamista ha ucciso a coltellate due ragazze al grido di "Allahu Akbar", Il giorno dopo, a Parigi, si apriva il processo ad Abdelkader Merah, il fratello dell'attentatore che a Tolosa nel marzo 2012 ha ucciso quattro ebrei (di cui tre bambini) e tre soldati. Da allora, il terrorismo islamico in Francia ha causato 250 morti. Per sette anni, dopo l'attentato di Londra del7luglio 2005, non c'erano stati omicidi islamisti su larga scala sul suolo europeo. Mohammed e Abdelkader "Bin Laden" Merah hanno cambiato le cose e anche il volto della Francia. "Siamo entrati in una nuova era dal 2012, Merah è stato un punto di svolta nella storia francese", ha detto ieri Mathieu Guidere, professore di studi islamici a Parigi. "Uccidendo contemporaneamente soldati ed ebrei, Merah ha infranto due tabù e ha aperto psicologicamente la strada a coloro che sono venuti dopo".
I soldati impiegati nella "Operazione Sentinelle" lamentano una media di cinque aggressioni fisiche e verbali al giorno.
Jacques Bérès, il medico cofondatore di Médecins Sans Frontières, di ritorno dalla Siria dove aveva curato le vittime della guerra civile, rivelò ai giornali francesi che parlando con alcuni guerriglieri accorsi nel paese per combattere il regime di Bashar el Assad molti si definivano "ammiratori di Merah'', "Se vai a Tolosa puoi vedere queste scritte sui muri, poi cancellate: 'Viva Merah'", dice al Foglio Alexandre Mandel, giornalista investigativo e autore di un nuovo libro che esce la prossima settimana, "Partition'', Sottotitolo: "Cronaca della secessione islamista in Francia". "Per molti musulmani francesi, Mohammed Merah è un eroe. E' stato lui ad aver creato il terrorismo low cost in Francia, quello con scarsi mezzi, scarsa preparazione militare, ma che conduce attacchi continui. Merah ha spinto molti ebrei ad andarsene dalla Francia e ha ucciso soldati sul territorio francese per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale. Era successo soltanto in Libano prima. Prima di Merah, gli ebrei pensavano che il pericolo venisse dall'estrema destra antisemita. Oggi sanno che il pericolo più grande è incarnato dall'islam radicale. Merah ha aperto anche la strada a questa guerriglia islamista a bassa intensità che c'è oggi nelle strade francesi, come è successo domenica a Marsiglia. E questo potrebbe essere lo scenario più probabile in futuro". Dal 2008 al 2011, meno di duemila ebrei francesi avevano lasciato il paese per Israele. Mohammed Merah con la strage alla scuola ebraica di Tolosa ha messo in moto la più grande emigrazione dai tempi della fondazione dello stato ebraico nel 1948. Nel suo studio "L'anno prossimo a Gerusalemme", il capo dei sondaggisti dell'Ifop, Jéròme Fourquet, spiega che dal 2012 a oggi 20 mila ebrei hanno lasciato la Francia.
Trecento famiglie ebraiche hanno lasciato Tolosa alla volta di Israele dopo quella strage (secondo un sondaggio Ifop, il 40 per cento dei 500 mila ebrei francesi ha considerato l'idea di emigrare in Israele). Durante l'ultimo anno scolastico, soltanto 140 studenti si sono iscritti alla scuola ebraica di Tolosa colpita dall'attentato, un terzo di quelli del 2012. Intanto, gli ebrei hanno abbandonato le scuole pubbliche di Parigi, scegliendo quelle private, dove è più facile sfuggire all'antisemitismo quotidiano. E la kippah, il copricapo rituale ebraico, è scomparsa dalle strade di Marsiglia. Oggi sono 800 le sinagoghe, le scuole e i centri comunitari ebraici sotto protezione. Di "nuovo malessere degli ebrei francesi" parla il settimanale Express nel suo ultimo numero.
"Penso che la terribile scossa del 19 marzo 2012 sia tutti i giorni nella nostra testa ogni volta che portiamo e aspettiamo i figli a scuola", ha detto ieri alla France Presse il rabbino capo di Francia, Haìm Korsia. "C'è stata una sorta di indifferenza e alle manifestazioni e alle cerimonie ci siamo trovati molto soli". Solo diecimila persone hanno partecipato alla marcia per la scuola Ozar Hatorah, dove Merah assassinò a sangue freddo i tre bambini ebrei.
"Non capisco come mai l'uccisione da parte di Mohammed Merah di tre bambini nel cortile di una scuola ebraica non si imprima nella memoria", ha scritto la filosofa e femminista Elisabeth Badinter nell'ultimo numero dell'Express. "Non capisco perché questo atto di natura nazista, dove una bambina di sette anni è stata presa per i capelli per essere colpita con una pallottola in testa, non sia entrato nella memoria collettiva". Peggio. Stando a un sondaggio Ipsos uscito a febbraio, il sessanta per cento dei francesi intervistati si è detto "indifferente" all'autoesilio dei connazionali ebrei, il sette per cento si è detto "contento" e soltanto il trenta per cento si è dichiarato contrariato. Uccidendo quei tre bambini a ToIosa, Mohammed Merah ha forse resuscitato un antico male che attraversa la storia francese.
(Il Foglio, 3 ottobre 2017)
Al posto di «Dopo Cristo» mettere «Era Comune»? Una miope provocazione
di Pierluigi Battista
Negli Stati Uniti la Corte Suprema sta per deliberare su complesse questioni che riguardano la parità delle religioni e l'incidenza sulla sfera pubblica di comportamenti e costumi che derivano da credenze religiose plurali e talvolta confliggenti tra loro. In Gran Bretagna si rischia di procedere con molta più brutalità, onorando un codice del politicamente corretto che fa della battaglia sulle sigle, sulle parole, sui modi di dire, sui calendari, sulle festività, sui programmi scolastici altrettanti campi di esercitazione di una guerra infinita e soprattutto senza limiti.
Ora per esempio le autorità scolastiche del Sussex stanno decidendo di cassare la sigla BC che tradizionalmente organizza il calendario a partire dalla nascita di Gesù Cristo per sostituirla con un più neutro, incolore, indeterminato BCE. E cioè nei libri di scuola non dovrebbe più apparire «prima di Cristo» che appunto viene indicata con la sigla BC, ma Prima dell'Era Comune (e direttamente Era Comune per designare il Dopo Cristo). E tutto questo per non «offendere» gli scolari che appartengono ad altre religioni, anzi in particolare a una: alla religione musulmana, perché le organizzazioni inglesi della comunità ebraica non intendono scatenare la guerra santa sulla suddivisione tradizionale del tempo del calendario.
Ovviamente la proposta scatenerà polemiche, discussioni, voglia di rappresaglie lessicali. Ancora più aspre delle polemiche sui presepi da allestire nelle scuole, sulla presenza dei crocefissi in classe, sulla celebrazione pubblica delle festività religiose e così via. Un copione già scritto. Una distorsione mentale già collaudata. In definitiva una provocazione che con il rispetto di tutte le religioni ha poco in comune, ma che invece esaspera gli animi, produce reazioni difensive smisurate. Una provocazione decisamente ridicola. Ma è già successo che dal ridicolo scaturiscano guerre e tragedie. Prima e dopo Cristo.
(Corriere della Sera, 3 ottobre 2017)
Cimitero Ebraico, Verona. Celebrato lo Yom Kippùr 2017-5778
I morti vanno sempre ricordati, siano stati essi personaggi importanti o meno. A Verona, ha reso omaggio ai propri Defunti, presso l'antico Cimitero Ebraico, creato nel 1856, la Comunità ebraica veronese, la mattina del 29 settembre 2017-5778.
di Pierantonio Braggio
Cimitero ebraico di Verona
Tale data non è frutto del caso, ma, parte della data di celebrazione della maggiore festa religiosa ebraica, festeggiata dagli Ebrei di tutto il mondo, fra la sera del 29 settembre e il tramonto del 30 dello stesso mese e dedicata allo Yom Kippùr, ossia, al giorno della richiesta a Dio del perdono dei propri peccati o giorno della riconciliazione o, ancora, del timore. Un giorno, poi, che impone il digiuno e l'astensione dal lavoro, fra l'altro. Dopo la recita di alcune preghiere, nel tempietto centrale, sono state visitate numerose tombe - davanti a ciascuna delle quali il rabbino Josef Labi ha pure letto una preghiera, ponendo sulla tomba stessa, un piccolo sasso, così come hanno fatto altri presenti, quale segno di avvenuto ricordo. Corone del Comune di Verona sono state poste, a cura di Vigili urbani in alta uniforme e con il Gonfalone di Verona, davanti alla tomba di Achille Forti (1878-1937), grande benefattore di Verona, e sull'avello di Rita Rosani (1920-1944), la quale, appartenente ad un gruppo partigiano, attivo nel Veronese, durante la seconda guerra mondiale, fatta prigioniera sul Monte Comùn, ferita e, quindi, uccisa da un militare fascista, è, oggi, Medaglia d'oro al Valore Militare. L'occasione del religioso incontro ha permesso di meglio conoscere particolari del mondo ebraico e d'intessere amichevoli relazioni. Oltre al rabbino Lavi, erano presenti l'assessore Edi Maria Neri, in rappresentanza del sindaco di Verona, Federico Sboarina, e il presidente della Comunità ebraica veronese, Bruno Carmi. Il Cimitero ebraico, che senz'altro merita una visita, quale grande parte della storia veronese, si trova in via Antonio Badile 89, 37131 Verona. Nota: il 5778 è l'anno ebraico, calcolato dai giorni della Creazione del globo, da parte di Dio.
(VeronaEconomia.it, 2 ottobre 2017)
Legge brani della Bibbia in treno e la gente fugge: è un terrorista
La paura di attentati è altissima nel Regno Unito. Il panico collettivo ha provocato forti ritardi sulla linea
Ormai è psicosi. È bastato un uomo che declamava versi della Bibbia su un treno per diffondere il panico fra i passeggeri che hanno azionato l'apertura d'emergenza delle porte e sono scesi sui binari. Come si legge sul sito della Bbc, il fatto è successo oggi alla stazione di Wimbledon nel sud-ovest di Londra.
I pendolari hanno temuto di trovarsi davanti a un fanatico o un potenziale terrorista quando l'uomo ha iniziato a leggere a voce alta una serie di passi piuttosto inquietanti, come ad esempio «la morte non è la fine». È poi intervenuta la polizia che ha riportato la calma ma non ha compiuto nessun arresto. Non ci sono stati feriti ma il fatto ha causato forti ritardi sulla linea ferroviaria nel sud di Londra.
(globalist, 3 ottobre 2017)
Croazia e Israele rafforzano cooperazione nell'industria del settore
ZAGABRIA - La Camera di commercio della Croazia ha organizzato un incontro tra le imprese israeliane dell'industria della difesa e quelle croate, per favorire lo sviluppo tecnologico grazie all'elevato livello di esperienza raggiunto da Israele nel settore. Secondo quanto ha riferito ieri il portale d'informazione "Poslovni.hr", all'incontro hanno preso parte 15 aziende israeliane e 53 imprenditori croati. All'incontro a Zagabria hanno partecipato anche i ministri della Difesa dei due paesi, Damir Krsticevic e Avigdor Lieberman, i quali hanno evidenziato le importanti relazioni politiche ed economiche esistenti tra Croazia e Israele a partire dagli anni Novanta. In particolare, il ministro della Difesa ha ringraziato l'omologo israeliano per il sostegno delle Forze di sicurezza israeliane nell'emergenza incendi di quest'estate nella costa dalmata. La stampa croata sottolinea inoltre che, anche se ancora non è ufficiale, gli aerei F-16 israeliani sono probabilmente i mezzi individuati da Zagabria per rinnovare la sua flotta aerea nei prossimi mesi.
(Agenzia Nova, 3 ottobre 2017)
Zuckerberg chiede scusa per come è stato usato Facebook
Un messaggio scritto sul suo profilo Facebook durante la festa ebraica dello Yom Kippur: "Chiedo scusa se il mio lavoro è stato usato per dividere le persone"
A molti il dettaglio non è sfuggito. Ma il messaggio di Mark Zuckerberg scritto su Facebook durante lo Yom Kippur, la festa più importante della tradizione ebraica, è sembrato un messaggio diretto al mondo. Un messaggio di scuse per l'uso che è stato fatto di Facebook da persone che hanno diviso i popoli, sobillato gli animi, sparso odio attraverso il suo Facebook. Zuckerberg, che è ebreo, ha scritto nel giorno in cui si chiede scusa alle persone a cui un ebreo pensa di aver recato danno, ha chiesto il perdono "Per quelli che ho ferito quest'anno, chiedo perdono e tenterò di essere migliore", ha scritto sul suo profilo personale, aggiungendo:
"Chiedo scuso per i modi in cui il mio lavoro è stato usato per dividere le persone invece che unirle, chiedo scusa e farò meglio il mio lavoro".
Molti hanno visto un'indicazione chiara alla galassia di odio e notizie false che hanno invaso Facebook negli ultimi anni. In tutto il mondo, influenzando diverse campagne elettorali. Quella che più gli preme è quella americana, dove non è riuscito a fermare l'acquisto di post a pagamento pro Trump da parte della propaganda filo russa. Zuckerberg, che da tempo è in odore di essere il prossimo sfidante di Trump, secondo una serie di fatti e suggestioni.
(AGI, 3 ottobre 2017)
L'ultimo paradosso. Anche i palestinesi adesso nell'Interpol
di Fiamma Nirenstein
Ha detto bene, tutto contento, uno dei maggiori leader arabo-israeliani deputati alla Knesset, Ahmad Tibi: «È un vero e proprio tsunami politico». Si, lo è, perché è un vero disastro naturale, è uno spappolamento del corpo che dovrebbe essere destinato a difendere il mondo dal terrorismo e anche dell'ormai misero significato della cooperazione fra Stati: il 76% dell'Interpol, l'unione fra polizie che deve cooperare per difendere i cittadini del mondo dall'illegalità e dal terrorismo ha votato per l'ingresso fra i suoi membri dello «Stato Palestinese». Oltretutto, uno Stato che non esiste: l'Anp è a oggi il frutto di complesse trattative sulla strada eventuale di una soluzione definitiva. Chiamarla «Stato» mostra che la decisione è politica.
Dentro l'Interpol abbiamo la polizia palestinese, ha dell'incredibile. Fatah, la parte di Abu Mazen, capo dell'Anp, promuove il terrorismo con stipendi ai terroristi che affollano le celle israeliane e o alle famiglie di chi è stato ucciso «in azione». Mercoledì dopo che un terrorista aveva ucciso tre israeliani innocenti a Har Adar sul Twitter ufficiale dell' Anp c'era scritto: «Condividiamo il dolore della famiglia del martire» e non si manca mai di esaltare ogni azione terroristica. Hamas poi, inneggia al terrorismo e allo spargimento di sangue israeliano con toni antisemiti e integralisti islamici. Hamas e Fatah hanno stretto un nuovo accordo che rinforza la loro fratellanza, non c'è nessuna possibilità di immaginare che il gruppo di Abu Mazen sia «moderato».
Che cosa ci fanno nell'Interpol mentre tutto il mondo è invaso da attentati condotti con i mezzi che loro stessi hanno inventato, auto lanciate sulla folla, spari, esplosioni, accoltellamenti? I palestinesi ne sono gli orgogliosi genitori. Sono 72 contro 24 gli Stati che hanno votato a favore della presenza palestinese. Qui potranno avere informazioni sensibili sulla lotta antiterrorista, suggerire mosse, spingere azioni contro cittadini israeliani o di ogni Paese che ritengano nemico.
L'avvocato Nitzan Darshan Leiner ha chiesto di accelerare le pratiche per arrestare il terrorista palestinese Saleh al Aro uri, che nel 2014 pianificò il rapimento e l'uccisione per strada dei tre ragazzi israeliani Naftali Frenkel, Eyal Ifrah e Gilad Shaar. Sarà possibile adesso? Darshan Leiner dice che l'Interpol dovrà ricominciare il procedimento. Così sarà in molti casi. La loro abitudine a colpire nel mondo dall'eccidio di Monaco al sequestro dell'Achille Lauro a Entebbe avrebbe dovuto distogliere dal pensiero pretestuoso e inutile che i palestinesi siano terroristi diversi dagli altri, data la loro ambizione territoriale. Ma non è così: la Reuters ha chiamato l'assassino di mercoledì «gunman» o «l'uomo». Per molti i terroristi sono «combattenti per la libertà»: la paura, la negazione ne ha sempre resa la definizione vera difficoltosa o imbarazzante. Ma arrivare a mettere il lupo a guardare le pecorelle, siamo a uno stadio che dovrebbe spaventare chiunque. Ne va della lotta contro il terrorismo stesso.
(il Giornale, 2 ottobre 2017)
Dalla spiaggia di Tel Aviv alla Città Vecchia in meno di mezz'ora
Partirà a breve l'alta velocità in Israele, porterà 10 milioni di persone
Linea ad alta velocità Tel Aviv-Gerusalemme
Da Tel Aviv a Gerusalemme in 28 minuti a una velocità di 160 km orari: sarà presto una realtà, grazie al nuovo treno ad alta velocità che collegherà le due città israeliane da marzo 2018. Dopo i test di fine agosto, che hanno visto sfrecciare sui binari un treno dal peso di 1200 tonnellate, per testarne la resistenza, il progetto è ormai alle battute finali. Dal costo di 2 miliardi di dollari, la ferrovia - che prevede gallerie avveniristiche e ponti sospesi su valli profonde - promette così di polverizzare, come tempo, un percorso, 60 chilometri di strada, per il quale oggi si possono impiegare anche due ore. L'attuale situazione del collegamento ferroviario tra le due città è piuttosto datata: la linea risale ai tempi dell'Impero Ottomano (ammodernata successivamente dai francesi e dagli inglesi) e richiede circa 1 ora e 40 minuti. Il nuovo percorso si stende invece su una strada più diretta e passa attraverso le ripide colline che dal Mediterraneo salgono a Gerusalemme, alta circa 800 metri sul livello del mare. Ai lavori, che prevedono 10 ponti e 5 tunnel, partecipano 10 aziende straniere. Treni a due piani trasporteranno circa 1700 passeggeri a 160 chilometri orari. Piuttosto serrata anche la programmazione giornaliera dei treni: secondo Boaz Zafrir, capo progetto delle Ferrovie israeliane, ci saranno quattro partenze all'ora, 50.000 pendolari al giorno e 10 milioni in un anno faranno la spola tra le due città. È prevista anche una fermata alla Città Vecchia. Il progetto, iniziato ben 15 anni fa, avrebbe dovuto essere concluso nel 2008, ma ha subito una battuta di arresto per le proteste degli attivisti ambientalisti.
(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2017)
Hamas: aperture senza precedenti
di Alessandro Orsini
Ismail Haniyeh, il leader di Hamas, si è recato recentemente al Cairo insieme con una delegazione di rappresentanti del governo della striscia di Gaza, per favorire un dialogo di pacificazione con Fatah, l'anima più moderata del movimento palestinese, e per valutare la possibilità di formare un governo di unità nazionale palestinese. Hamas si impegna a dissolvere il comitato amministrativo di Gaza che esaspera le divisioni con Fatah. Inoltre, Haniyeh è aperto a nuove elezioni generali, una posizione che rappresenta un'apertura senza precedenti negli ultimi anni.
Questo mutato atteggiamento da parte di Hamas non investe soltanto i rapporti con Fatah, ma anche con l'Egitto. Hamas è un movimento islamista che proviene dalla Fratellanza Musulmana, di cui l'attuale presidente dell'Egitto è nemico. Il leader della Fratellanza Musulmana in Egitto, Morsi, è stato rovesciato da al Sisi nel 2013 ed è oggi in carcere. Tuttavia, Hamas ha bisogno di uscire dall'isolamento politico in cui si trova e sta cercando un mediatore nell'Egitto di al Sisi che però assume un atteggiamento cauto, dal momento che ha introdotto misure drastiche contro Hamas.
Nel marzo 2014, una sentenza della magistratura ha bandito tutte le attività di Hamas in Egitto e ha ordinato la chiusura di tutte le sue sedi. Nel gennaio 2015, il braccio armato di Hamas, Ezz al-Din al-Qassam Brigades, è stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche dalle autorità egiziane. A giugno dello stesso anno, la sentenza che definisce Hamas un'organizzazione terroristica è stata abrogata, ma non la prima sentenza che ha bandito le sue attività e chiuso le sue sedi. Il governo egiziano non si è arreso ed è stato istituito un nuovo processo per ottenere l'inserimento di Hamas nella lista dei gruppi terroristici, che però non si è ancora concluso. Le sentenze finora passate in giudicato condannano Hamas per avere venduto armi ai militant islamisti che operano nella penisola del Sinai, dove sono morti numerosi soldati egiziani nel tentativo di sedare l'insurrezione. Hamas è anche accusato di avere avuto un ruolo nell'addestramento di coloro che hanno assassinato il procuratore generale dell'Egitto, Hisham Bakarat, ucciso con un'autobomba, il 29 giugno 2015.
In sintesi, anche se Hamas non può essere considerata legalmente un'organizzazione terroristica, è tale nella valutazione politica della classe governante egiziana. Hamas è, infatti, legata alla Fratellanza Musulmana che, in Egitto, è considerata un'organizzazione terroristica.
Al Sisi vorrebbe svolgere il ruolo di mediatore nel conflitto in seno al movimento palestinese, perché questo gli conferirebbe prestigio sul piano internazionale e, soprattutto, all'interno del mondo arabo, ma è in una posizione molto delicata perché, per assumere un ruolo così rilevante, dovrebbe rivedere la sua politica contro Hamas.
(Sicurezza Internazionale, 2 ottobre 2017)
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Hamas: «Determinati a procedere verso la riconciliazione»
GAZA - Alla vigilia dell'arrivo a Gaza del primo ministro dell'Anp Rami Hamdallah - dopo una assenza di due anni - il capo dell'ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh ha assicurato oggi che il suo movimento «è determinato a procedere nella strada della riconciliazione».
In un messaggio alla popolazione di Gaza Haniyeh ha ribadito che è giunto il momento di mettere fine alle divisioni. Hamas, ha precisato, è pronto a dar prova di «saggezza, generosità e larghezza di vedute nel supremo interesse dalla Nazione palestinese».
L'accordo di riconciliazione fra Hamas e al-Fatah, che dovrebbe mettere fine a anni di contrasti, è stato ottenuto con la mediazione dell'Egitto dopo che negli ultimi mesi il presidente dell'Anp Abu Mazen aveva adottato una serie di sanzioni nei confronti della Striscia di Gaza e di un esecutivo di Hamas che adesso e' stato disciolto.
Domani, con l'arrivo della delegazione del premier Hamdallah e di alcuni suoi ministri, giungerà nella Striscia anche una delegazione egiziana guidata dal ministro dell'intelligence Khaled Fawzi o da un'altra personalità diplomatica.
In base al programma Haniyeh accoglierà nella propria residenza i ministri arrivati da Ramallah i quali poi terranno una prima seduta di lavoro nella residenza personale di Abu Mazen a Gaza City. In parallelo da Ramallah giungerà anche una delegazione di responsabili alla sicurezza che si accingono ad assumere il controllo dei valichi di Rafah, verso l'Egitto, e di Erez, verso Israele.
(TiOggi, 2 ottobre 2017)
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Ritorno dell'Anp a Gaza: la folla si assiepa al valico di Erez
Fonti locali riferiscono di un'atmosfera di entusiasmo popolare per l'attesa ricostruzione della Striscia dopo l'intesa con Hamas.
GAZA - Una folla di palestinesi si sta assiepando nei pressi del valico di Erez nell'imminenza del ritorno - dopo due anni di assenza - del premier dell'Anp, Rami Hamdallah, e dei suoi ministri, nel contesto di un accordo di riconciliazione con Hamas mediato dall'Egitto.
Fonti locali riferiscono di un'atmosfera di entusiasmo popolare, nella sensazione che con le nuove intese fra l'Anp e Hamas possa iniziare adesso una attesa fase di ricostruzione della Striscia.
Oggi ai bordi delle strade sono apparsi cartelloni di saluto ad Abu Mazen. Ieri l'uomo d'affari palestinese Munib al-Masri ha anticipato di aver messo a punto un ambizioso piano di rilancio dell'economia di Gaza, con l'aiuto di diversi Paesi fra cui la Cina. Al suo arrivo a Gaza, nella tarda mattinata, Hamdallah terrà una conferenza stampa e al valico di Erez - dove si nota una forte presenza della polizia - numerose troupe televisive sono in attesa, pronte a rilanciare le sue parole.
(tio.ch, 2 ottobre 2017)
L'evoluzione dell'Isis: da organizzazione centralizzata a rete terroristica clandestina
La transizione dell' Isis si concluderà con la fine del corso materiale in Siria ed Iraq. I terroristi sfruttano il modello israeliano.
di Franco Iacch
L'Isis non si è mai posto l'obiettivo di istituire un'amministrazione duratura. Per essere ancora più chiari. Se la finalità fosse stata la cittadinanza, la strategia adottata sarebbe stata diversa. Certamente opposta alla scia di terrore che ha terrorizzato il Medio Oriente ed il Nord Africa e che ha provocato, inevitabilmente, l'intervento della comunità internazionale. La realizzazione delle aspirazioni ideologiche sono molto più importanti della gestione permanente di qualsiasi pezzo di terra. Gli atti ritenuti controintutivi dall'Isis sono ingranaggi di una strategia guidata che privilegia la longevità concettuale alla presenza fisica. L'Isis non mirava all'instaurazione di un governo jihadista, ma alla sperimentazione di un nuovo modello insurrezionale applicabile, polarizzando l'ideologia jihadista. Il ricordo di Mosul continuerà ad infervorare negli anni i cuori dei veri credenti, esempio dell'utopia jihadista. Il vero obiettivo dell'Isis era quello di testare un prototipo di guerra generazionale, un modello insurrezionale applicabile dinamico.
Da organizzazione ribelle a rete terroristica clandestina
Le organizzazioni insorgenti detengono e colpiscono un territorio, possono esercitare la sovranità su una popolazione, operano come forze armate strutturate sulla mobilitazione di massa. I terroristi non possiedono nessuna di queste caratteristiche (sebbene sia prevista l'illusione di una profondità). La transizione da organizzazione ribelle con sede fissa a rete terroristica clandestina dispersa in tutto il globo si concluderà con la fine del corso materiale dell'organismo ciclico in Siria ed Iraq. Il risultato saranno azioni meno frequenti e più disperse. L'evoluzione della minaccia terroristica in Occidente è strettamente legata ai cambiamenti strategici dell'Isis in Medio Oriente e nel Nord Africa. La narrativa Isis ha già ben delineato il ruolo dell'attuale generazione, destinata a non poter assistere al compimento delle profezie. L'Isis non ricostituirà le forze per riconquistare i territori perduti in Siria e Iraq (non è questo l'obiettivo di una forza irregolare), mentre assisteremo ad azioni ispirate al Dominio Rapido. Tuttavia il vero ruolo dell'attuale generazione jihadista fedele all'Isis sarà quello di colpire sistematicamente l'Occidente con l'evoluzione dei lupi solitari in forza terroristica clandestina con un'entità meno centralizzata.
La transizione ad organizzazione terroristica porterà l'Isis a concentrare le risorse sia per rafforzare le roccaforti esistenti in Libia, nella penisola del Sinai in Egitto, in Afghanistan e Yemen sia per tentare nuove ramificazioni nei territori (governati e non) propensi al Jihadismo salafita, dal Caucaso settentrionale all'Asia sudorientale.
L'Isis sfrutta il modello israeliano
In Israele la copertura dei media per un attentato è strutturata in ogni sua forma per ignorare la storia dei terroristi ed è concepita per raccontare la sofferenza delle vittime o il coraggio dei soldati, ponendo più enfasi alla risposta israeliana che all'attentato stesso. I media in Israele non amplificano o legittimano la narrazione dei terroristi. Se non provocano vittime, gli attentati non sono mai riportati ed in ogni caso la copertura è brevissima. Vi sono dei prerequisiti essenziali come ad esempio il numero dei civili uccisi (si racconta il dramma delle vittime) o i soldati morti sul campo (si loda il coraggio). In ogni caso, anche in presenza di vittime, la copertura mediatica si concentra solo sull'evento specifico e non supera mai le 48 ore. Nella stragrande maggioranza dei casi, largo spazio è dato alla sicurezza tattica. Tutti gli attentati sono inquadrati come azioni solitarie non collegate. E' una strategia specifica che mira a screditare qualsiasi sospetto di terrorismo globale organizzato. I media affrontano il problema a livello tattico e si relazionano con gli attacchi definendoli come incidenti. In particolari contesti di crisi, si approfondisce l'aspetto politico e sociale del fenomeno. In ogni caso, la risposta militare è sempre considerata legittima agli occhi della sua società israeliana. Quest'ultima, essenzialmente, ritiene possibile un fenomeno imprevedibile. La consapevolezza conferisce determinazione nel combattere e resistere che in Israele si traduce in voglia di vivere. L'utilizzo prudente della comunicazione e la comprensione costante della situazione, formano il nucleo della risposta psicologica israeliana al terrorismo.
Le lezioni di Israele nell'evoluzione della propaganda dell'Isis
Trasformare ogni tipo di fallimento in successo. Fino a pochi mesi fa, la propaganda dell'Isis era concentrata sulla rivendicazione strutturata per dare l'illusione di una portata globale (tattica che ha fatto molto presa in Europa). Tuttavia nel fallito attentato avvenuto lo scorso 15 settembre all'altezza della stazione di Parsons Green, nella zona residenziale di Fulham, l'Isis ha adattato la sua propaganda. L'episodio non è stato ignorato, ma lodato. La mancata deflagrazione dell'IED è stata accantonata, privilegiando le capacità del gruppo di colpire il Regno Unito per la quarta volta in sei mesi. E' un'evoluzione che l'Occidente tarda a capire. I governi occidentali devono dedicare notevolmente più risorse alle comunicazioni strategiche ed alle operazioni di informazione volte a scardinare il nuovo impianto della strategia di narrazione dell'Isis. Se l'Occidente non riesce a prendere atto della transizione da organizzazione insurrezionale a rete terroristica, non sarà in grado di elaborare una efficace ed adeguata strategia. La propaganda è essenziale per la sopravvivenza dell'Isis sia come gruppo che come idea per coltivare quella profondità strategica digitale. È un meccanismo prezioso con il quale far valere l'acquiescenza nel suo proto-Stato ed un'arma penetrante con cui affermare la propria egemonia terroristica all'estero. Negli anni a venire, servirà come bandiera attorno alla quale i veri credenti del califfato si raduneranno, una volta perduti i territori.
L'insurrezione ed il terrorismo non sono la stessa cosa
Diversi nella strategia, simili nelle tattiche. Potremmo semplificare affermando che a differenza del terrorismo, la guerriglia cerca di stabilire un controllo fisico su un territorio. La necessità di dominare un territorio è elemento fondamentale della strategia insurrezionale poiché garantisce il serbatoio umano per il reclutamento e le strutture logistiche dell'esercito strutturato. Il terrorismo non mira ad un controllo tangibile del territorio ed opera con piccole unità difficilmente rintracciabili con equipaggiamento improvvisato. Il terrorismo non si basa sulle zone liberate per consolidare la sua esistenza ed accrescere la sua forza. La sfera di influenza della strategia del terrorismo è nel campo psicologico. E' una differenza sostanziale e come tale pretende diverse contromisure. A differenza dei guerriglieri, i terroristi non hanno alcuna base territoriale e non indossano divise, ma si confondono con la popolazione civile.
Possiamo quindi affermare che l'attentato terroristico in se è un'azione razionale sorprendente che bilancia immediatamente le forze con il nemico (lo Stato) in un arco temporale strettamente limitato. La guerriglia, nonostante la sua componente psicologica, è principalmenste una strategia basata sullo scontro fisico tra due forze (la dottrina insurrezionale punta alla campagna contro le milizie governative).
Il terrorismo è un fenomeno lucidamente razionale, all'interno di una più ampia strategia di comunicazione politica coercitiva, dove la violenza viene usata nella deliberata creazione di un senso di paura per influenzare un comportamento e un determinato gruppo di destinatari. L'illusione di una tattica indiscriminata è essenziale per colpire psicologicamente coloro che sono sfuggite alle conseguenze fisiche di un attacco terroristico. Queste risposte comportamentali per massimizzare l'utilità negli ambienti strategici dinamici, sono riconducibili ad una logica strumentale alla base dei piani di azione. La razionalità procedurale spiega come il terrorismo è il prodotto di un'analisi logica del costo-beneficio, dell'utilità prevista e delle strategie coercitive all'interno di una serie limitata di opzioni disponibili per i gruppi politici non statali.
(il Giornale, 2 ottobre 2017)
Due donne nella stanza di comando del Mossad
Due donne entrano nella stanza di comando del Mossad, su istruzione del suo capo Yossi Cohen che è un convinto fautore del coinvolgimento delle agenti nei vertici della organizzazione. Lo riferisce Yediot Ahronot secondo cui il Mossad è sempre stato in prima linea in Israele nella utilizzazione di personale femminile non solo negli uffici ma anche in ruoli attivi sul terreno. Ciò sia perchè spesso la presenza femminile desta meno sospetti sia perchè, a parità di età con i colleghi di sesso maschile, le agenti sembrano essere più mature ed affidabili.
La biografia delle due nuove dirigenti ai vertici del Mossad Yediot Ahronot non rivela molti dettagli e indica solo le loro iniziali: Y. e Sh. La prima ha avuto un ruolo importante nelle gestione del manpower dell'organizzazione. La seconda è ritenuta una «esperta di terrorismo» ed è forse più nota negli ambienti internazionali dei servizi segreti avendo operato, fra l'altro, nel dipartimento Tevel che si occupa appunto delle relazioni estere del Mossad.
(Il Messaggero, 1 ottobre 2017)
Leader di Hamas: riconciliazione con Fatah per porre fine all'assedio di Gaza
GERUSALEMME - I colloqui per porre fine allo scontro fra il movimento palestinese Hamas e quello del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) di Fatah mirano a porre fine all'assedio israeliano su Gaza e l'inglobamento della Cisgiordania. Lo ha dichiarato il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, attraverso un comunicato diffuso alla vigilia della visita del premier palestinese Rami Hamdallah a Gaza, dove è atteso domani. "La riconciliazione è una volontà ed una decisione per prevenire l'inglobamento della Cisgiordania da parte di Israele e di continuare l'assedio nella Striscia di Gaza", ha affermato Haniyeh. Negli ultimi giorni diversi funzionari di Ramallah sono giunti a Gaza per discutere di una serie di questione relative alla sicurezza e ad altri temi. Haniyeh ha spiegato che il processo di riconciliazione intra-palestinese potrebbe durare a lungo ed ha ricordato che proseguirà il dialogo con il Cairo per attuare gli accordi, creare un governo unitario e svolgere le elezioni. La frattura tra Hamas e Fatah risale al 2007, quando il movimento di Haniyeh prese il controllo di Gaza. Il mese scorso Haniyeh ha annunciato la dissoluzione del consiglio amministrativo di Gaza.
(Agenzia Nova, 1 ottobre 2017)
Roma - Al Museo Ebraico le Ketubbot pergamene nuziali dipinte
La mostra
Una Ketubbà con la scritta in ebraico su pergamena di pecora
Strano destino quello delle Ketubbot, nate nell'antichità come contratti per sancire l'entità della dote della sposa, gli obblighi del marito, le restituzioni in caso di divorzio, e divenute vere e proprie opere d'arte a coronamento del matrimonio ebraico. Tanto che il Museo Ebraico di Roma da martedì prossimo le mette in mostra: venti pregiate pergamene di pecora, scritte a mano e decorate all'acquarello, del XVIII e XIX secolo, tutte di produzione romana, più un pezzo unico del 1627, prestato dal Museo Israel di Gerusalemme, che torna a casa dopo quattro secoli.
La Ketubbà ha sempre avuto un ruolo importante nel matrimonio ebraico: durante la celebrazione viene letta ad alta voce e firmata dagli sposi e dai testimoni davanti al rabbino, e se in origine erano semplicemente scritte, dal primo Medioevo divenne consuetudine in molte Comunità arricchirle con raffinate illustrazioni. E questa tendenza si rafforza dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna del 1492.
Le decorazioni
«Sono decorate con scene bibliche, personaggi mitologici, figure simboliche che esaltavano le virtù muliebri e l'unità coniugale - spiega Olga Melasecchi, curatrice della mostra -. A volte venivano aggiunti gli stemmi delle due famiglie, una Menorah, piccole vedute di Gerusalemme, fiori e paesaggi. Spesso vi è raffigurato un arco sorretto da colonne a simboleggiare il passaggio da uno stato all'altro. Nel periodo dei ghetti, Roma diviene il fulcro di questa produzione artistica, ed è curioso notare che, a differenza del testo scritto, le decorazioni erano certamente opera di pittori non ebrei, in quanto agli ebrei era vietato frequentare le Accademie secondo le restrizioni papaline. E questo testimonia l'osmosi esistente tra il ghetto e la città».
«Elevato il valore sociale di questi documenti - continua la curatrice - attraverso di essi le famiglie non solo manifestavano il proprio status sociale, ma celebravano anche momenti esaltanti di libertà: non a caso molte Ketubbot risalenti al periodo favorevole della dominazione napoleonica a Roma sono decorate con i colori della bandiera francese, e di verde bianco e rosso dopo l'unità d'Italia. Con l'inizio dell'emancipazione le decorazioni decadono e sulle Ketubbot restano solo disegni geometrici».
Nella mostra per illustrare il fasto delle cerimonie è stata allestita anche una "chuppah", il baldacchino nuziale, che rappresenta la coabitazione della nuova coppia, con i manti ricamati e gli altri ornamenti usati nel rito. La mostra è arricchita da immagini fotografiche di matrimoni d'epoca, documenti e libri di preghiera che testimoniano la funzione centrale che la tradizione ebraica attribuisce al matrimonio: è grazie a questo che si spezza la solitudine ("Non è bene per l'uomo essere solo" recita la Genesi) e si creano le premesse per la procreazione.
(Il Messaggero, 1 ottobre 2017)
Com'è Tel Aviv durante lo Yom Kippur
Quasi deserta: negozi e ristoranti sono chiusi e le strade sono aperte solo alle biciclette
Yom Kippur a Tel Aviv
Ieri gli ebrei hanno celebrato lo Yom Kippur, la più importante ricorrenza del calendario ebraico: è il "giorno dell'espiazione", in cui si digiuna, si prega e ci si astiene dalla stragrande maggioranza delle attività. È cominciato la sera prima, al tramonto, ed è finito questa notte. In Israele è evidente che si tratta di un giorno particolare perché le attività commerciali sono chiuse, le strade sono deserte e non c'è trasporto pubblico; anche le reti televisive e le radio non trasmettono nulla. Per chi la ritiene un'attività adeguata - come gli israeliani non religiosi - è un'ottima occasione per insegnare ai propri figli ad andare in bicicletta sulle strade normalmente molto trafficate di Tel Aviv, o per trasferire il proprio divano sul marciapiede sotto casa.
(il Post, 1 ottobre 2017)
Accademie per soli ebrei
di Giulio Busi
Accesi, Addormentati, Affidati, Animosi, Apatisti, Ardenti, Argonauti. E siamo solo alla prima lettera dell'alfabeto. A come Accademia. Almeno duemila, sparse in tutta la Penisola, motore di cultura dal Cinquecento e fino a oggi (o quasi). Amate, vilipese, impolverate, rimpiante, finanziate, sfinanziate. Le accademie sono vanto e croce d'Italia. Networking umanistico o passatempo di anime belle e annoiate? Di sicuro, un fenomeno culturale e sociale unico, in gran parte ancora da (ri)scoprire. Un progetto, promosso dalla Arts and Humanities Research Council e condotto in collaborazione tra la British Library, la Royal Holloway University of London e l'Università di Reading, ha messo in rete un primo censimento di nomi, luoghi, libri, emblemi, ritratti, tra il 1525 ed il 1770 . Se le accademie italiane si studiano in Inghilterra, ci sarà pure una ragione... accademica. Che nel nostro Paese sia difficile averne una visione d'insieme, dipende anche dalla loro natura localistica, legate come sono alle glorie e alle idiosincrasie di città e centri minori. Nate per comunicare, le accademie furono, e sono, spesso afflitte dalle divisioni proprie della storia italiana. Un modo interessante di analizzarlo, questo microcosmo mondano-intellettuale, è provare a vederlo dai margini. Per esempio, dalla prospettiva della minoranza ebraica. È quello che fanno Giuseppe Veltri e Evelien Chayes in un volume dedicato a Venezia durante l'età barocca, ma che spazia anche su altre realtà geografiche. Ne risulta una vicenda contrastata, in cui timidi tentativi di inclusione si accompagnano a più frequenti, drastiche esclusioni. Tra Cinque e Settecento, gli ebrei italiani, discriminati e costretti a vivere quasi dappertutto nei ghetti, provano ad affacciarsi alla fioritura dei consessi eruditi. I pochissimi che riescono, sono relegati in un limbo di semi-appartenenza. È il caso di Leone de' Sommi, grande autore cinquecentesco, che riesce a collaborare con l'Accademia mantovana degli Invaghiti, ma solo con l'incarico di scrivere commedie per i membri effettivi. Se vogliono godere dei benefici della vita accademica, gli ebrei sono costretti a istituire circoli propri. Così fa, nella Venezia del primo Seicento, Sara Copio Sullam. Donna ed ebrea, una doppia marginalità che non le impedisce di accogliere, nella propria casa del ghetto, nobili, letterati, ed ecclesiastici provenienti da tutta Italia e dall'estero. Sempre nel ghetto veneziano, un'altra accademia si dedica alla musica, con riunioni regolari, nelle "quale per ordinario si canta due volte per settimana di sera". Prove di normalità, lungo lo stretto crinale tra accettazione e rifiuto.