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Notizie 16-30 ottobre 2017


Netanyahu: i palestinesi non ci mettano alla prova

I palestinesi "non mettano alla prova la determinazione dello Stato d'Israele e del suo esercito". E' quanto ha dichiarato il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che in una nota ha promesso "una dura risposta in caso di attacco a Israele". "Abbiamo definito una politica chiara", si legge nella nota.
"Stiamo cercando di raggiungere la pace con tutti i nostri vicini, ma non accetteremo nessun attacco aereo, marittimo, terrestre contro la nostra sovranità, il nostro popolo e la nostra terra. Noi - ha proseguito Netanyahu - attaccheremo chi ci attacca". "A coloro che pensano di far questo, consiglio di non mettere alla prova la determinazione di Israele e del suo esercito", ha concluso Netanyahu.
Ieri otto palestinesi sono morti e altri 12 sono rimasti feriti in un attacco israeliano contro un tunnel sotto il confine tra Striscia di Gaza e Israele. Oggi migliaia di palestinesi hanno celebrato le esequie delle vittime marciando per le strade di Gaza.

(10Notizie, 31 ottobre 2017)


Tutte le polemiche in Gran Bretagna a cento anni dalla Dichiarazione Balfour

di Lorenza Formicola

"Sotto lo stesso soffitto dorato, il 2 novembre 1917 c'era Lord Balfour, il mio predecessore. Nello stesso ufficio del Segretario di Stato da cui scrivo oggi, scriveva una lettera a Lord Rothschild: una frase di sessantasette parole che costituì la "dichiarazione Balfour". Parole accuratamente calibrate che furono le fondamenta dello Stato d'Israele".
   E' Boris Johnson che scrive, l'attuale Segretario di Stato per gli Affari esteri del governo May, pubblicato in prima pagina dal Telegraph.
   Con "la mia visione per la pace in Medio Oriente tra Israele e un nuovo stato palestinese" Johnson ha voluto, non solo manifestare l'orgoglio "del ruolo che ha giocato la Gran Bretagna nella creazione dello Stato di Israele", ma annunciare che l'Inghilterra celebrerà eccome i cento anni dalla dichiarazione che cadranno il 2 novembre. Un evento esclusivo a Londra, voluto dalla May, e a cui prenderà parte lo stesso premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Ha declinato l'invito, invece, Jeremy Corbyn. E c'era da aspettarselo dato l'entusiasmo pro Israele. Così come c'erano da aspettarsi le tante iniziative dense di acrimonia che, da mesi, i palestinesi organizzano, cercando di boicottare le celebrazioni e aizzare un clima, in un certo senso, - ahi noi! - antisemita.
   Lo scorso settembre Mahmoud Abbas - Presidente dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dell'Autorità Nazionale Palestinese e dello Stato di Palestina - in un suo discorso alle Nazioni Unite aveva chiesto le scuse pubbliche da parte dei funzionari britannici per la dichiarazione, e che, quindi, non venisse celebrato alcun centenario. Ad aprile i movimenti palestinesi avevano lanciato una petizione indirizzata al governo inglese perché, - ancora! -, chiedesse pubblicamente scusa ai palestinesi. Petizione fallita miseramente: tredicimila firme raccolte a fronte della soglia delle centomila previste per trasferire il dibattito in Parlamento.
   A luglio il Queen Elizabeth II Center ha addirittura ospitato la più grande fiera palestinese d'Europa: il Palestine Expo. "A cento anni dalla Dichiarazione Balfour, a cinquanta dall'occupazione di Israele e a dieci dell'assedio di Gaza", recitavano le locandine. Tra bandiere di Hezbollah, antisemitismo da spogliatoio e l'imam Ebrahim Bham, il capo del Consiglio dei teologi musulmani del Sud Africa, ospite d'onore - che dal pulpito non ha avuto paura di dire, "un giorno Goebbels (ministro della propaganda nazista, ndr) ha dichiarato che 'la gente mi dice che gli ebrei sono esseri umani. Sì, so che sono esseri umani. Proprio come le zecche sono animali'" -, la manifestazione ha fatto venire i brividi persino a Sadiq Khan. Il sindaco di Londra, infatti, si è dovuto ridurre, nell'occasione, a chiedere al governo di impedire future manifestazioni di Hezbollah.
   E' così che dopo mesi di tensioni, esattamente alla vigilia del centenario, il clima è più teso che mai. I siti palestinesi sono in subbuglio, la stampa inglese è divisa, Johnson si è fatto ospitare in prima pagina da un giornale nazionale e gli studenti delle scuole della Cisgiordania e della striscia di Gaza sono stati invitati a scrivere delle lettere al governo inglese su cosa pensano della dichiarazione e come questa abbia influenzato - negativamente - le loro vite. Centomila dovrebbero essere le lettere da consegnare il 2 novembre al console britannico a Gerusalemme.
   Insomma, per i politicamente corretti, la May dovrebbe avere un po' di buon gusto, un certo pudore e spessore morale e ritirare i festeggiamenti del momento in cui, con una lettera indirizzata a Lord Rothschild, l'allora ministro degli esteri Balfour, affermava di guardare con favore alla creazione di un "focolare ebraico" in Palestina. D'altronde Israele, che per tanti intellettuali rappresenta una frontiera d'Europa, è solo uno Stato che merita la distruzione - come il movimento palestinese ricorda -, e non di certo la celebrazione di un atto che ha contribuito alla sua fondazione.

(formiche.net, 31 ottobre 2017)


I diritti legali del popolo ebraico sulla Palestina

Contrariamente alle semplificazioni giornalistiche che abbondano in questi giorni, non è stata la Dichiarazione Balfour a far nascere lo Stato d'Israele, ma il Consiglio Supremo delle Principali Potenze Alleate vincitrici della Prima Guerra Mondiale, le stesse Potenze che hanno fatto nascere gli Stati di Siria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita. Il diritto internazionale sta dalla parte di Israele, l'abbiamo detto e ripetuto. Proviamo a ripeterlo ancora una volta ripresentando in altra veste tipografica un articolo che abbiamo pubblicato sette anni fa, pur sapendo che ai nemici di Israele il riferimento al diritto internazionale interessa soltanto per poter imbrogliare le carte e ripetere incessantemente il loro mantra preferito: "territori occupati, territori occupati, territori occupati". NsI

di Howard Grief

 
Il Mandato Britannico sulla Palestina
L'obiettivo di questo articolo è di esporre in modo succinto, ma chiaro e preciso, i diritti legali e il titolo di sovranità del popolo ebraico sulla terra di Israele e Palestina sotto il diritto internazionale. Questi diritti hanno origine nel globale accordo politico e legale concepito durante la prima Guerra Mondiale e posto in essere negli anni del dopoguerra tra il 1919 e il 1923. Per quanto riguarda l'Impero Turco-Ottomano, l'accordo prendeva in considerazione le aspirazioni dell'organizzazione sionista, il movimento nazionale arabo, i curdi, gli assiri e gli armeni.
    Come parte dell'accordo, nel quale gli arabi ricevevano la maggior parte dei paesi che erano stati sotto la sovranità turca in Medio Oriente, l'intera Palestina, su entrambe le rive del Giordano, era riservata esclusivamente al popolo ebraico come sua sede nazionale e futuro stato indipendente.
    Nei termini dell'accordo fatto tra le principali Potenze Alleate, costituite da Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone, non ci fu nessuna annessione dei territori turchi conquistati da parte di una qualsiasi delle Potenze, come invece era stato progettato nell'accordo segreto Sykes-Picot del 9 e 16 maggio 1916. Al contrario, questi territori, compresi i popoli ai quali erano stati assegnati, sarebbero stati posti sotto il Sistema dei Mandati e amministrati da una nazione progredita fino al momento in cui sarebbero stati pronti ad amministrarsi da soli. Il Sistema dei Mandati era stabilito e governato dall'Articolo 22 del Patto della Lega delle Nazioni contenuto nel Trattato di Versailles e in tutti gli altri trattati di pace fatti con Potenze Centrali: Germania, Austria-Ungheria, Bulgaria e Turchia. [...]
La creazione ufficiale del paese ebbe luogo nella Conferenza di Pace di Sanremo, dove la Dichiarazione Balfour fu adottata dal Consiglio Supremo delle principali Potenze Alleate come base per la futura amministrazione della Palestina, che da quel momento sarebbe stata riconosciuta come la Nazione Ebraica (Jewish National Home).
   Il momento della nascita dei diritti legali ebraici e del titolo di sovranità avvenne dunque nello stesso momento in cui fu creata la Palestina mandataria, perché l'unico motivo per cui essa fu creata era di ricostituire l'antico stato ebraico di Giudea in adempimento della Dichiarazione Balfour e delle disposizioni generali dell'Articolo 22 del Patto della Lega. Questo significa che teoricamente fin dall'inizio la Palestina fu legalmente uno stato ebraico che doveva essere guidato verso l'indipendenza da un Mandatario o Fiduciario, che agiva come Tutor e aveva il compito di prendere le necessarie misure politiche, amministrative ed economiche per costituire la Nazione Ebraica (Jewish National Home). Il modo principale per realizzare questo doveva essere quello di incoraggiare l'immigrazione ebraica su larga scala in Palestina, la qual cosa alla fine avrebbe dovuto fare della Palestina uno stato ebraico indipendente, non solo legalmente, ma anche in senso demografico e culturale.
    I particolari per il progettato stato indipendente ebraico sono inseriti in tre basilari documenti che possono essere denominati come i documenti fondamentali del Mandato per la Palestina, e del moderno Stato ebraico d'Israele che ne è scaturito. Essi sono la Risoluzione di Sanremo del 25 aprile 1920, con cui le principali Potenze Alleate conferiscono alla Gran Bretagna il Mandato per la Palestina che è stato poi confermato dalla Lega delle Nazioni il 24 luglio 1922, e l'Accordo franco-britannico sulle frontiere del 23 dicembre 1920. Questi documenti fondamentali sono stati integrati dall'Accordo anglo-americano del 3 dicembre 1924, in cui si rispettava il Mandato per la Palestina. E' di estrema importanza ricordare sempre che questi documenti sono l'origine o la sorgente dei diritti legali ebraici e del titolo di sovranità su Palestina e Terra d'Israele secondo il diritto internazionale, perché è completamente falsa la quasi universale convinzione che sia stata la Risoluzione di Partizione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 a far nascere lo Stato d'Israele. In realtà, quella risoluzione Onu fu un'illegale abrogazione di diritti legali ebraici e del titolo di sovranità sull'intera Palestina e Terra d'Israele, piuttosto che un'affermazione o una genesi di tali diritti.
    La Risoluzione di Sanremo ha trasformato la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 da una semplice dichiarazione di simpatia britannica per l'obiettivo del movimento sionista di creare uno stato ebraico in un vincolante atto di diritto internazionale che richiedeva un preciso adempimento di tale obiettivo in attiva cooperazione con il popolo ebraico. Con la Dichiarazione Balfour, come emessa originariamente, il governo britannico promette soltanto di fare ogni sforzo per facilitare lo stabilimento in Palestina di una nazione ebraica. Ma nella Risoluzione di Sanremo del 24-25 aprile 1920, le principali Potenze Alleate come gruppo coeso hanno posto sul governo britannico la responsabilità di assicurare che la Nazione Ebraica fosse debitamente costituita. [...]
   Il termine "Jewish National Home" usato dal governo britannico nella seduta di gabinetto che approvò la Dichiarazione Balfour il 31 ottobre 1917 significava uno stato. Era questo il significato dato in origine a questa espressione da Theodor Herzl, il fondatore dell'Organizzazione Sionista, e dal comitato che abbozzò il Programma di Basilea nel primo Congresso Sionista dell'agosto 1897. La parola "home" usata nella Dichiarazione Balfour e successivamente nella Risoluzione di Sanremo era semplicemente un eufemismo per indicare uno stato. Era stato in origine adottato dall'Organizzazione Sionista quando il territorio di Palestina era soggetto all'Impero Ottomano per non provocare una dura opposizione del Sultano e del suo governo contro l'obiettivo sionista, che implicava una potenziale perdita di territorio da parte dell'Impero. Non c'era alcun dubbio nella mente degli autori del Programma di Basilea e della Dichiarazione Balfour sul vero significato di questa parola; significato rinforzato dall'aggiunta dell'aggettivo "national" al termine "home". Comunque, il non usare direttamente la parola "stato" e di proclamarne apertamente il significato, o addirittura il tentare di nascondere il suo vero significato quando il termine fu usato all'inizio per indicare l'obiettivo sionista, ha avuto come risultato di procurare munizioni a coloro che hanno cercato di impedire la nascita dello Stato ebraico o a quelli che considerano la Home soltanto in termini culturali.
    La frase "in Palestina, un'altra espressione trovata nella Dichiarazione Balfour che ha sollevato molte controversie, si riferiva all'intero paese, incluse la Cisgiordania e la Transgiordania. E' assurdo immaginare che questa frase potesse essere usata per indicare che soltanto una parte della Palestina era riservata alla futura Nazione ebraica, perché entrambe sono state create simultaneamente e usate scambievolmente, dove il termine "Palestina" indicava il luogo geografico del futuro stato indipendente ebraico. Se "Palestina" avesse significato un paese suddiviso in certe aree da assegnare agli ebrei ed altre agli arabi, questa intenzione sarebbe stata espressa esplicitamente quando fu abbozzata la Dichiarazione Balfour e approvata in seguito dalle principali Potenze Alleate. Nessuna allusione è stata mai fatta a tutto questo nelle prolungate discussioni che ebbero luogo per divulgare la Dichiarazione e assicurarne l'approvazione internazionale.
    Non esiste quindi nessuna base giuridica o fattuale per asserire che la frase "in Palestina" limiti il luogo di fondazione della Nazione ebraica a una sola parte del paese. Al contrario, Palestina e Nazione ebraica erano termini sinonimi, come evidenziato nell'uso della stessa frase nella seconda parte della Dichiarazione Balfour che si riferisce alle esistenti comunità non-ebraiche "in Palestina", il che indica chiaramente l'intero paese. La stessa evidenza esiste nel preambolo e nei termini della Carta del Mandato. [...]
   La Dichiarazione Balfour in sostanza stabiliva il principio o l'obiettivo di uno Stato ebraico. La Risoluzione di Sanremo le ha dato il sigillo di diritto internazionale. Il Mandato ha fornito tutti i dettagli e i significati per la realizzazione dello Stato ebraico. Come già osservato, l'obbligo fondamentale della Gran Bretagna come Potenza Mandataria, Fiduciaria e Tutor era la creazione di appropriate condizioni politiche, amministrative ed economiche per assicurare lo Stato ebraico. Tutti i 28 articoli del Mandato erano finalizzati a questo obiettivo, inclusi quegli articoli che non facevano menzione esplicita della Nazione ebraica. Il Mandato ha creato il diritto al ritorno in Palestina per il popolo ebraico e il diritto a stabilire insediamenti sulla terra in tutto il paese al fine di creare il progettato Stato ebraico. [...]»

(NATIV Online, vol. 2 - 2004 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


«L'antisemitismo in Ungheria è sempre esistito»

La propaganda e il veleno, un passato che non passa. Parla la filosofa ungherese Agnes Heller

di Ilaria Myr

«L'antisemitismo in Ungheria è sempre esistito, come ovunque in Europa. Anche dopo l'emancipazione (1867), con cui gli ebrei hanno ottenuto uguali opportunità, l'antisemitismo nel popolo rimase comunque forte. Quello odierno di destra non dipende da un partito: dopo il crollo dell'Urss il MIEP già pronunciava discorsi antisemiti, poi è stata la volta dello Jobbik, e ora il partito al governo, Fidesz, lavora con una propaganda dal forte retrogusto antisemita. Tutti dichiarano di non essere antisemiti, ma i casi sono due: o lo sono, oppure lo usano come ideologia utile per guadagnare voti». Non usa mezzi termini la filosofa ungherese Agnes Heller, massimo esponente della "Scuola di Budapest", corrente filosofica del marxismo facente parte del cosiddetto "dissenso dei paesi dell'est europeo", allieva di György Lukàcs, tra le pensatrici più feconde del dopoguerra nell'ambito della filosofia politica e morale, nonché una delle voci più critiche contro l'attuale governo di Orban e la sua politica antilibertaria e anti-immigrati. «Pochi ebrei oggi lasciano il Paese, neanche per Israele - spiega -. La vecchia generazione dei sopravvissuti alla Shoah vive in uno stato costante di paura. Allo stesso tempo, i più giovani organizzano eventi culturali ebraici e religiosi, sempre più numerosi a Budapest e in alcuni centri in campagna e molto seguiti dai non ebrei. Eppure, l'antisemitismo continua a esistere e a minacciare. Bisogna rimanere vigili». Alla Heller è stato dedicato recentemente un bel docufilm firmato da Raphael Tobia Vogel.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2017)


Delicious Israel: un tour gastronomico speciale a Tel Aviv

di Annalisa

Mi sono innamorata di Israele fin dal primo giorno in cui ho messo piede nel Paese, specialmente per le grandi spiagge dorate di Tel Aviv, le persone estremamente amichevoli e gentili, l'atmosfera animata e frizzante e, naturalmente, il cibo gustoso.
   Prima della mia partenza, ho fatto alcune ricerche su ciò che avrei potuto visitare e fare nel Paese, e più navigavo sul web, più aumentavano le mie aspettative.
   Per quanto riguarda il cibo, pare che Israele, e in particolare Tel Aviv, sia il paradiso per tutti i vegani e vegetariani, infatti il 10% della popolazione ha fatto questa scelta etica. Mi sono sentita incredibilmente fortunata, specialmente perché sono diventata vegetariana cinque anni fa e la vita non è sempre facile quando si viaggia.
   Non c'è bisogno di dire che uno dei modi migliori per conoscere una cultura è proprio quello di assaggiare il suo cibo e così ho fatto, cercando di diversificare le portate. Ho partecipato alla tipica cena del venerdì a casa di un amico, ho frequentato diversi bar e ristoranti e ho imparato qualcosa in più scegliendo di seguire un tour gastronomico a Tel Aviv.
   Ho scoperto Delicious Israel durante le mie ricerche online. Li ho contattati e abbiamo deciso quale poteva essere il miglior tour per me in base ai i miei interessi e mi hanno consigliato di partecipare all'itinerario chiamato Eat Tel Aviv. Offrono diversi tour alimentari sia a Tel Aviv che a Gerusalemme, compresi quelli privati. Eat Tel Aviv propone un perfetto equilibrio tra cibo, storia della città oltre a tour a piedi attraverso i quartieri più affascinanti di Tel Aviv.
   Fare un'attività diversa dal solito mi ha entusiasmato molto e il tour è risultato fantastico! Per questo motivo, voglio condividere con voi questa esperienza, nel caso pensiate di fare una golosa passeggiata a Tel Aviv. Un consiglio: non fate colazione prima del tour, mangerete moltissimo durante la visita!
Ho incontrato Ilana, la nostra guida, nel pittoresco antico quartiere chiamato Jaffa. Il nostro gruppo era multiculturale e abbastanza piccolo ristretto per poter apprezzare ogni singola spiegazione, per conoscersi e per trascorrere del piacevole tempo insieme.
   Ilana si è presentata raccontandoci la propria storia familiare: come nella la maggior parte delle famiglie ebraiche, i paesi di origine all'interno dello stesso nucleo familiare possono essere molti. La parte materna e paterna non riuscivano a comunicare, tranne quando erano "tra le mura della cucina" all'interno delle quali riuscivano a superare ogni barriera linguistica.
   Ilana ha condiviso con noi molti altri aneddoti interessanti: il mio preferito è la storia di un tipo di dattero chiamato medjool. L'uomo che ha deciso di importarlo in Israele non conosceva il nome specifico, quindi ha chiesto ad un Beduino come si chiamasse questo frutto e il Beduino rispose "Medjool". L'uomo pensò di aver finalmente trovato il nome corretto, tuttavia, quello che il Beduino disse letteralmente significava "non lo so". I datteri medjool sono ancora oggi chiamati così…
   Ilana ci ha spiegato molte cose, fornendo dettagli storici e gastronomici difficili da trovare su guide e libri.
   Quale cibo locale immaginate quando pensate ad Israele? Sono sicura che i primi piatti che vi vengono in mente sono hummus e falafel, ma c'è molto di più da gustare e ho scoperto altro anche grazie a questo tour che ha stimolato i miei cinque sensi.
   Il tour ha seguito la storia e il percorso dei primi abitanti di Tel Aviv in seguito all'espansione demografica, i quali, inizialmente, si stabilirono a Jaffa, il più antico porto d'Israele e la zona più antica di Tel Aviv.
   Davanti al porto, ci sono mappe incastonate nell'asfalto che mostrano le distanze e le città d'origine delle comunità che sono arrivate e si sono stabilite a Jaffa.
   L'esportazione di arance shamuti diventò il principale commercio grazie alla buona qualità degli agrumi coltivati con metodi agricoli tradizionalmente impiegati dagli arabi fino al XIX secolo; anche limoni e mandarini sono stati coltivati ed esportati, sebbene in quantità inferiore.
   Una volta che la comunità di Jaffa crebbe, la popolazione si trasferì in diverse zone, come Neve Tzedek e, infine, il Mercato del Carmel, che coincide anche con la destinazione finale del nostro itinerario.
   Il tour è iniziato con la degustazione del piatto più famoso di Israele: hummus. Questa crema di ceci è così popolare da diventare uno degli stereotipi del paese ed è ampiamente apprezzata anche dai turisti. Considerando il suo status, il hummus è l'unico alimento in cui viene usato un verbo specifico: לנגב (lenagev) che significa "pulire" (noi possiamo intenderlo pure come "spazzolare". Non si mangia hummus, si spazzola l'hummus!
   Abbiamo fatto una sosta nel più antico panificio Abulafia per assaggiare un pane particolare arricchito con erbe e, successivamente, un dessert chiamato malabi in un piccolo bar nel mercato di Jaffa. Ho provato sia la versione vegan che quella standard e sono entrambe molto gustose. Malabi è una sorta di budino leggero di latte (animale o vegetale), sciroppo, granola e cocco grattugiato. Si scioglie in bocca. Sublime.
   Il tour si è diretto verso Neve Tzedek, il primo quartiere ebraico di Tel Aviv costruito al di fuori del vecchio porto di Jaffa dove ebrei Mizrahi e Yemeniti si stabilirono. Ora Neve Tzedek è una delle zone più affascinanti e modaiole della città con un'evidente influenza europea negli stili e nell'architettura. Avete mai pensato di unire l'impasto dei croissant francesi con l'halva, i dolci israeliani di sesamo? Da provare!
   Ultima tappa del tour: il mio quartiere preferito, il Mercato del Carmel. Ho trascorso un'intera settimana a Tel Aviv e sono ancora convinta che questo sia il posto migliore per cercare una sistemazione per godere appieno di un soggiorno ne "la città che non si ferma mai". Si trova a pochi passi dalle spiagge e dalle strade principali di Tel Aviv.
   Originariamente fondato dalla comunità yemenita (che possiede ancora la maggior parte delle case che vengono ereditate di generazione in generazione), il Mercato del Carmel è ora un paradiso hipster con bar eccentrici, un vivace mercato e un'atmosfera estremamente amichevole. Per queste ragioni, è diventata una zona popolare ricca di case costose, alberghi e Airbnb.
Abbiamo avuto la possibilità di provare cibi più tipici come falafel, birre artigianali israeliane, biscotti, gelato e un particolare pane yemenita fatto da una signora speciale in un ristorante speciale.
   Ho apprezzato ogni singolo cibo che ho assaggiato trovando incredibilmente interessanti tutti i dettagli curiosi che la nostra guida ci ha fornito. Ovviamente ho condiviso con voi solo una piccola parte di tutte le informazioni che ho acquisito: non voglio rovinarvi la sorpresa, anche se credo che le parole non sarebbero mai sufficienti. Il cibo non può essere spiegato, il cibo deve essere assaporato.
   Israele è un paese speciale, sacro alle tre religioni monoteiste e casa di diverse nazionalità e culture. Questo è probabilmente uno dei motivi per cui anche il suo cibo è così straordinario.
Suggerisco volentieri questo tour con Delicious Israel: ho imparato, ho camminato tra i quartieri più antichi e affascinanti di Tel Aviv e ho provato specialità locali che probabilmente non avrei mai provato o conosciuto semplicemente viaggiando da sola.
   Quello che ho particolarmente apprezzato è il fatto che la guida ci ha portato in piccoli locali ben lontani da essere trappole turistiche. Ho scoperto ristorantini a conduzione familiare, mi sono seduta in bar dove siedono soprattutto i residenti e sento di aver sperimentato qualcosa di speciale: i miei soldi sono stati ben spesi e ne rimane anche un bellissimo ricordo.

(Viaggiovadando, 30 ottobre 2017)


L'Iran è sempre più minaccioso e l'Europa sempre più indifferente

di Loredana Biffo

L'accordo nucleare con il regime degli Ayatollah, è servito prevalentemente a superare alcuni punti critici per la massimizzazione delle relazioni economiche tra l'Europa e l'Iran. Questa settimana è previsto l'incontro a Ginevra tra i banchieri europei e le banche iraniane, con lo scopo di massimizzare la cooperazione finanziaria tra Europa e Repubblica Islamica; in particolare che le banche iraniane rispettino i canoni finanziari europei. Questa riunione non è che un ulteriore prova di quanto l'Europa sia indifferente non solo alle gravi violazioni dei diritti umani in Iran - dove le impiccagioni proseguono indisturbate e che ricordiamolo, è secondo solo alla Cina per il numero di esecuzioni capitali - ma anche alla minaccia nucleare rivolta in primis a Israele e poi all'America.
   Il sostegno degli Ayatollah ai diversi gruppi terroristici quali Hezbollah (che ha dichiarato apertamente di essere un'organizzazione terroristica), jihad islamica, Hamas e altri, passa attraverso il controllo totale dei Pasdaran, detti anche Guardiani della Rivoluzione Islamica. Per tale motivo è grave che vi sia un sistema produttivo commerciale che ha rapporti con la Banca Centrale Europea in numerose collaborazioni tra questa e le banche iraniane.
   Sono numerosi gli investitori intenzionati a fare investimenti in Iran, per esempio la Oberbank austriaca e la danese Danske Bank. E' evidente che il business viene prima del codice etico, mentre le minacce degli Ayatollah che non sono meno importanti di quelle della Corea del Nord, passano in secondo piano. Tutto questo è stato favorito dalla corsa degli investitori extra UE ad aprire linee di credito in Iran. La export-Import Bank of Korea ha aperto all'Iran una linea di credito ammontante a otto miliardi di euro, i Cinesi hanno stipulato contratti finanziari di 35 miliardi di dollari e anche le piccole banche europee hanno aperto linee di credito. Tutti hanno intenzione di fare affari con il regime iraniano, sono stati fino ad ora ostacolati dalle sanzioni che Trump potrebbe rimettere all'Iran, ma la maggior parte degli investitori pensa di investire indipendentemente da quello che decidono gli Stati Uniti.
   Maryam Rajavi la leader del Consiglio della Resistenza Iraniana sollecita il presidente americano a sostenere il rovesciamento del regime da parte della Resistenza dissidente che ha da anni fondato quello che considera il "governo legittimo all'estero" con sede a Parigi. Da parte sua Rouhani nel discorso al parlamento iraniano del 29 ottobre ha esternato la sua rabbia e il timore nei confronti del PMOI (movimento dei resistenti in Iran) ribadendo di volere proseguire con l'accumulo di missili balistici e la produzione di uranio, ha dichiarato: "noi produciamo, stiamo producendo e produrremo, non esiteremo a produrre e ad accumulare qualunque arma di cui possiamo aver bisogno a ad utilizzarla al momento opportuno per difenderci". Ha inoltre affermato che gli Stati Uniti stavano minacciando la sicurezza della Siria, la sicurezza del Libano, la sicurezza dell'Iraq e la stabilità dell'Afghanistan e volevano dividere l'Iraq, ma che i mullah hanno aiutato il popolo della Siria e dell'Iraq e non hanno permesso che venisse minacciata l'integrità territoriale.
   Tali dichiarazioni di Rouhani giungono in un momento in cui ogni giorno vengono rivelati dettagli sulle relazioni del regime iraniano con al-Quaeda, l'Isis e i talebani, nonché il supporto finanziario e logistico che questo fornisce loro. Questo atteggiamento dimostra quanto siano ingannevoli le pretese di moderazione del regime del velayat-e faqih (identificazione totale tra religione e politica) e quando sia pericolosa la politica di accondiscendenza da parte europea. La Resistenza Iraniana ha più volte dichiarato che tutti gli esponenti del regime, di qualunque fazione, sono direttamente responsabili delle esecuzioni, delle torture e dei massacri dei prigionieri politici, delle uccisioni e della guerra in Iran e nella regione mediorientale, che devono essere inclusi nella lista dei terroristi e sottoposti a sanzioni internazionali.

(Caratteri Liberi, 31 ottobre 2017)


"Presidenti", il volume di Adam Smulevich

Alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato domenica 5 alle 16

Domenica 5 novembre, alle ore 16 la Comunità Ebraica di Casale Monferrato presenta "Presidenti", il volume in cui Adam Smulevich ripercorre la vita e il destino di tre presidenti di squadre di calcio italiane: Raffaele Jaffe fondatore del Casale Calcio, Giorgio Ascarelli imprenditore Napoletano e Renato Sacerdoti, con cui la Roma conquistò anche il suo primo scudetto. Vita parallele di 3 italiani del primo novecento uniti, oltre che dalla passione verso il nascente gioco nazionale, anche dall'essere ebrei e per questo ovviamente osteggiati dal fascismo in vita o postumi. Nel caso del casalese Jaffe la tragedia si concluse ad Auschwitz nel 1944.
   Il libro di Smulevich, uscito a metà settembre (ed Giuntina, € 12), ha ottenuto fin da subito recensioni estremamente positive su tutte le più importati testate nazionali. A dimostrazione che il tema di razzismo connesso al mondo del calcio è di cocente attualità è poi scoppiato il caso dei tifosi laziali che hanno scelto il termine "ebreo" e uno dei simboli della Shoà come Anna Frank per "insultare" i romanisti, con uno strascico di conseguenze che ancora non accenna a placarsi. Così "Presidenti" si è caricato di un significato ancora più contemporaneo ed è finito anche sulle colonne del New York Times. Proprio per il suo valore di educazione allo sport la Comunità Ebraica di Casale rivolge in questi giorni un invito speciale per partecipare all'incontro agli istituti scolastici e naturalmente a tutti gli appassionati di Calcio.
   Il libro di Smulevich offre una visione per certi versi inedita dell'uomo che fondò la squadra monferrina, aggiungendo anche particolari importanti alle ricostruzioni precedenti fatte da Pansa, Ramezzana, Cassani, Aimo, Lilliana Picciotto (quest'ultima storico tra i più importanti per ricostruire la vita delle famiglie ebree italiane tra le due guerre) che costituiscono la principale bibliografia dell'autore o gli scritti di Gianni Turino che tutti i lettori Monferrini conoscono bene.
   Domenica in vicolo Salomone Olper, Smulevich parlerà di Jaffe insieme a due esperti di storia del Casale Calcio: Giancarlo e Max Ramezzana che hanno fornito per il libro numerosi documenti tra cui diverse immagini del Casale del primo novecento che sono stati incorporati nel volume.

(Il Monferrato, 31 ottobre 2017)



Prosegue la visita del presidente della Camera del Brasile in Israele

BRASILIA - Secondo giorno di vista del presidente della Camera del Brasile Rodrigo Maia in Israele. Lo speaker della camera bassa, che viaggia su invito del suo omologo israeliano Yuli Edelstein, aveva ieri in agenda un incontro con il primo ministro Benyamin Netanyahu e si reca oggi in visita a Gerusalemme est e a Betlemme. Domani Maia avrà un colloquio con il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas, mentre giovedì sarà a Pisa. Il tour internazionale si chiude con li passaggio in Portogallo, dove oltre a un pranzo offerto dall'ambasciata brasiliana a Lisbona, il presidente della Camera parteciperà a un seminario.

(Agenzia Nova, 31 ottobre 2017)


Perché gli israeliani danno da mangiare ai pellicani durante l’annuale migrazione

Nella riserva israeliana di Mishmar HaSharon, a nord di Tel Aviv, ogni anno migliaia di pellicani vengono nutriti con interi camion carichi di pesce. L’iniziativa serve a tutelare campi e allevamenti di pesci dalla rumorosa invasione di volatili, legata alle migrazioni verso l’Africa.

di Andrea Centini

Migliaia di pellicani nutriti con tonnellate di pesce in Israele: vengono sfamati per evitare danni
Ogni anno in Israele durante questo periodo migliaia di pellicani bianchi (Pelecanus onocrotalus) vengono nutriti con tonnellate di pesce nella riserva Mishmar HaSharon. Si tratta di una soluzione ideata per evitare che i grandi uccelli possano danneggiare gli allevamenti di pesce e i campi agricoli della zona. Questi magnifici volatili, che possono raggiungere i 170 centimetri di altezza per 3,5 metri di apertura alare, sono infatti estremamente voraci, e quando fanno tappa nel territorio israeliano - nell'annuale migrazione dall'Europa e dall'Asia verso l'Africa - sono così affamati che possono causare notevolissimi danni agli agricoltori e a chi si occupa di acquacoltura.
   Non a caso è proprio il Ministero dell'Agricoltura del Paese a finanziare le operazioni nell'affascinante valle di Emek Hefer, a nord di Tel Aviv, dove giungono carovane di camion a scaricare il pesce azzurro direttamente nel bacino idrico dove i pellicani riposano. Quando i cassoni dei mezzi vengono svuotati, migliaia di uccelli impazziti si riversano su veri e propri fiumi di pesce, uno spettacolo incredibile che attrae appassionati di bird-watching da tutto il mondo e intere famiglie israeliane. Sono state installate vere e proprie tribune per assistervi. Sono gli stessi pescatori e agricoltori dell'area a portare il cibo ai volatili. Del resto è nel loro interesse che i pellicani non si spostino di lì. Quando il governo annunciò che non intendeva più finanziare il progetto, un proposito poi ritirato, ci furono diverse proteste accese, sostenute anche dalle associazioni ambientaliste.
   Naturalmente nella riserva Mishmar HaSharon non sono presenti i soli pellicani, ma anche moltissime altre specie. Israele si trova infatti nel corridoio privilegiato che porta gli uccelli migratori a svernare in Africa, e dunque sostano nei suoi territori per recuperare le energie prima di completare il viaggio. I pellicani, specie che non desta preoccupazioni sotto il profilo della conservazione (nella Lista Rossa dell'IUCN è classificata con codice LC, rischio minimo), volano dai territori eurasiatici verso Etiopia, Ciad, Tanzania, Nigeria e altri paesi africani, dove incontrano le numerosissime colonie stanziali.

(Scienza Fanpage, 31 ottobre 2017)



Memoria. La retorica inutile

Lettera al Corriere Tridentino

Su un crescente antisemitismo negli stadi, negli ultimi giorni molto si è scritto e tanto si è detto. Condivido vari autorevoli commenti e senza presunzione alcuna vorrei qui aggiungere un'ultima nota sulla vicenda di Anna Frank.
Personalmente sono arrivato alla conclusione che il fatto non sussiste. È stata una sceneggiata. Però è proprio qui che arrivano i problemi: insistendo nell'insultare gli ebrei, il sentimento antisemita si propaga pericolosamente e con estrema naturalezza. La stessa adottata dai tifosi laziali nel considerare il paragone con Anna Frank un insulto.
Orrendi i tifosi che hanno abusato di quel dolce volto: andavano denunciati e perseguitati. Penoso un presidente, capace di dire certe frasi dopo l'omaggio floreale davanti alla sinagoga. La comunità ebraica, forse in cerca di una giusta cura, si è involontariamente prestata alla farsa. Succede,a volte si scelgono i propri nemici più che gli amici. Offesa, bene ha fatto a gettare tale omaggio nel Tevere.
Appaiono spesso inutili certe autorità politiche e dirigenze sportive, con le loro condanne, i loro minuetti di letture pedagogiche prima delle partite e le maglie con il volto della martire ebrea. Inutile certa stampa che per due giorni ha montato la retorica dell'indignazione, accreditandosi e moraleggiando.
Le cose stanno così. L'antisemitismo è una delle grandi piaghe culturali del XXI secolo e la lotta contro di esso non può trasformarsi in una macchietta ridicola,come in questo caso. Auschwitz, Birkenau e Treblinka, i campi che videro l'annientamento dei deportati dal ghetto di Roma, sono ancora lì a testimoniare che non è stata una sceneggiata.
Oggi è Israele l'erede delle milioni di Anne Frank e la sua difesa è la vera grande battaglia per chi abbia davvero a cuore verità e giustizia per il popolo ebraico e non solo, sapendo che il vero antisemitismo non si trova solo negli stadi, ma nei selciati di certe moschee, in tante aule universitarie, nei partiti, in molti parlamenti, nelle agenzie dell'Onu, in televisione, nei libri e anche in taluni giornali.
Per difendere la memoria viva servono nuovi elementi, storia e spunti in grado di avvicinare le nuove generazioni a temi che sono di tutti e come tali vanno difesi, lontani da retorica e vuote celebrazioni.
Marcello Malfer
Presidente Associazione trentina «Italia-Israele»

(Corriere Tridentino, 31 ottobre 2017)


In Israele una via per Grüninger, lo svizzero che salvò migliaia di ebrei

Il consigliere federale Johann Schneider-Ammann ha inaugurato lunedì nella città israeliana di Rishon leZion una via dedicata a Paul Grüninger (1891-1972), il comandante della polizia cantonale sangallese che salvò migliaia di profughi dalla persecuzione nazista.

Il ministro svizzero Johann Schneider-Ammann (secondo da sinistra) inaugura la via dedicata a Grüninger.
Tra il 1938 e il 1939, l'allora comandante della polizia sangallese Paul Grüninger permise a migliaia di profughi ebrei e perseguitati politici - 3.000 secondo alcune fonti - di sottrarsi alla minaccia nazista in Austria e rifugiarsi in Svizzera. Lo fece ignorando il decreto del 19 agosto 1938, con il quale il governo elvetico decise la chiusura della frontiera con l'Austria, e falsificando i documenti e le liste sui quali venivano registrati i profughi.
Sollevato dall'incarico nel maggio 1939, Grüninger fu condannato dal tribunale distrettuale per abuso «violazione dei doveri d'ufficio e falsificazione di documenti»
Morì nel 1972 in povertà e privato del diritto alla pensione.
È soltanto nel 1994, grazie anche all'emozione suscitata dal libro dello storico Stefan Keller, che Paul Grüninger fu politicamente riabilitato dal governo e l'anno successivo il tribunale del canton San Gallo riaprì il caso, annullando la sentenza di condanna. Nel 1998, il parlamento cantonale accordò un risarcimento ai famigliari. Il caso Grüninger ebbe inoltre un ruolo importante nel dibattito degli anni Novanta sul ruolo della Svizzera nella Seconda guerra mondiale.
La politica d'asilo restrittiva praticata dalla Svizzera tra il 1938 e il 1942 è «probabilmente uno dei capitoli più bui della nostra storia», ha dichiarato Johann Schneider-Ammann. In visita in Israele, il ministro svizzero ha inaugurato lunedì una targa commemorativa dedicata a Grüninger nella città israeliana di Rishon leZion, a sud di Tel Aviv.
L'ex capo della polizia sangallese continua ad essere una grande fonte d'ispirazione, ha proseguito Schneider-Ammann. «Chi, confrontato col crimine e l'ingiustizia, sceglie di disobbedire, salva delle vite».

(swissinfo.ch, 31 ottobre 2017)


Come vestirsi ad un funerale ebraico

I funerali ebraici sono leggermente diversi dai nostri ed il dress-code può cambiare a seconda che sia un rito ortodosso, conservatore ecc... Per un funerale ortodosso utilizzate abiti molto scuri e formali. Tutte le persone inoltre sono tenute a tenere le teste coperte, gli uomini con la kippah e le donne con un velo. Il rito conservatore invece, almeno per le donne, prevede un dress-code più simile al funerale cristiano. Indossate quindi un abito o dei vestiti scuri sobri e modesti. Per gli uomini, invece, anche in questo caso è d'obbligo la kippah che può essere facilmente reperita all'entrata della sinagoga. In altri tipi di rito non è nemmeno necessaria la kippah per gli uomini e si osserva, come nei funerali cristiani, la semplice regola della sobrietà. Una differenza rispetto al funerale cristiano è che ad un rito ebraico non si portano i fiori, ma il cibo, quello kosher. Prima di presentarvi ad un funerale ebraico, per evitare errori, informatevi quindi sulle usanze e sui costumi dei familiari del defunto.

(Pianeta Donna, ottobre 2017)


Ricercatori israeliani cercano di uccidere le cellule tumorali con la cannabis

di Stefano Armanasco

 
Sempre più la scienza sta studiando e ricercando sulla cannabis, ed infatti nuove ricerche in Israele sostengono l'idea che la cannabis possa essere usata per combattere e uccidere le cellule tumorali.
David Meiri è un biologo dell'Israel Institute of Technology (Technion) ed è il ricercatore che sta conducendo la ricerca con diverse combinazioni di cannabinoidi della cannabis che potrebbero essere molto efficaci per distruggere le cellule tumorali specifiche.
Circa nove milioni di persone in tutto il mondo muoiono di questa malattia nel 2015 secondo l'OMS.
Secondo il ricercatore israeliano, la cannabis può offrire una grave alternativa alla chemioterapia, ma senza gli effetti collaterali dannosi che tutti sappiamo.
L'idea che la cannabis ed i suoi composti possano essere una soluzione per combattere questa grave malattia non è nuova. Anche se la maggior parte delle prove è aneddotica e la ricerca fino ad oggi non ha ancora identificato esattamente quali composti della cannabis uccidono queste cellule tumorali.
"Abbiamo capito che c'è un vuoto", ha detto il biologo Meiri aggiungendo che "Le persone non conoscono o comprendono abbastanza le varietà delle piante".
Il team di ricercatori sotto la direzione di David Meiri, nel Laboratorio di Biologia del Cancro e Cannabinoid Research, è composto da trenta ricercatori e cerca di identificare la composizione chimica esatta delle varie varietà di cannabis. I ricercatori hanno testato e osservato i risultati e gli effetti sulle cellule tumorali di una grande moltitudine di questi ceppi e quindi potrebbero determinare quali ceppi sono stati più efficaci per ucciderli.

(BeLeaf Magazine, 30 ottobre 2017)


Netanyahu a Londra con May per la dchiarazione Balfour

Ma Corbyn non c'è

di Massimo Lomonaco

Benyamin Netanyahu troverà Theresa May ma non il leader del labour Jeremy Corbyn quando il 2 novembre celebrerà a Londra il Centenario della Dichiarazione Balfour che nel 1917 promise al movimento sionista "un focolare nazionale ebraico" in Palestina. Corbyn, secondo la stampa inglese, ha fatto sapere che invierà alla cerimonia il ministro degli Esteri ombra Emily Thornberry. Se in Israele la mossa del leader laburista - di cui è nota la posizione sul conflitto israelo/palestinese - per ora non ha destato particolare interesse, a reagire è stato invece l'ambasciatore dello stato ebraico a Londra Mark Regev. "Chi chiede le scuse per la Dichiarazione Balfour - ha scritto su twitter - nega il diritto del nostro popolo alla sovranità e si palesa come estremista".
   Il richiamo è con tutta probabilità ai palestinesi che da tempo hanno chiesto alla Gran Bretagna le "scuse" per l'atto ma senza essere accontentati. Theresa May, in un recente intervento, ha rivendicato invece l'atto politico dell'allora ministro degli Esteri Arthur Balfour e ha lasciato cadere la richiesta di Ramallah. Una posizione che ha fatto infuriare ancora di più i palestinesi: il ministro degli Esteri Ryad al Malki, pochi giorni fa, ha preannunciato la minaccia di portare l'Inghilterra nei Tribunali internazionali. Del resto lo stesso presidente palestinese Abu Mazen nel suo intervento all'Assemblea generale dell'Onu, lo scorso settembre, ha bollato la Dichiarazione come "una storica ingiustizia" chiedendo alla Gran Bretagna compensazioni e correzioni. "Se è vero che Israele non sarebbe nato senza gli insediamenti, il sacrificio e la volontà di battersi per esso, la spinta internazionale - ha sottolineato oggi Netanyahu annunciando la sua partenza per Londra giovedì prossimo - fu senza dubbio la Dichiarazione Balfour". E non è un caso che prima di partire, il premier vedrà domani il suo omologo australiano Malcolm Turnbull e il governatore generale della Nuova Zelanda per commemorare insieme la Battaglia di Beer Sheva, nel sud di Israele, con la quale il 31 ottobre del 1917 i soldati alleati sconfissero i turchi in uno scontro decisivo che permise al generale Edmund Allenby di conquistare Gerusalemme.
   Due giorni dopo Balfour rendeva nota la sua Dichiarazione al movimento sionista: impegno che - come riportano gli storici - fu fatto proprio dall'Italia, insieme alla Francia, agli Usa e altre nazioni, il 3 maggio 1918 con una lettera dell'allora ambasciatore italiano a Londra Guglielmo Imperiali al dirigente sionista Nahum Sokolov.

(ANSA, 30 ottobre 2017)


Incontro ad Acireale sul ritrovamento e la decifrazione dei rotoli di Qumran

di Camillo De Martino

Uno dei Rotoli del Mar Morto scoperti a Qumran
Vari e specifici accenni storici, archeologici, culturali e religiosi su "Il ritrovamento e la decifrazione dei rotoli di Qumran" hanno reso interessante e coinvolgente l'incontro organizzato dall'Archeoclub d'Italia Sede di Acireale, Circolo culturale "ing. Peppino Tomarchio".
   L'incontro si è svolto presso l'I.C. "Galileo Galilei" con una relazione del presidente della Sede di Acireale dell'Archeoclub, geometra Alfredo Rizza. I partecipanti hanno subito appreso l'ubicazione del sito di Qumran nel mondo: la Giudea e il suo deserto (Palestina), in vicinanza del mar Morto (sponda nord-occidentale) e precisamente l'area che contiene le rovine di Qumran situate a circa 12 km a sud di Gerico ed a circa un chilometro e mezzo dal mare.
   Le rovine mostrano oggi, a seguito di scavi, un luogo originariamente sede di una fortezza (VIII-VII sec. a.C), successivamente abitato nel periodo dal 135 a. C. al 68 circa d. C. (possesso e distruzione da parte dei romani). L'area conserva tracce dei resti di edifici e abitazioni di una comunità: cucine, dispense, magazzini, "scriptorium", laboratori per la lavorazione artigianale del vasellame, cimitero.
   "Per gli studiosi - ha sottolineato Rizza - questo luogo è stato abitato dagli Esseni comunità collegata al ramo degli Asidei, cioè al ramo dei pii (hasidim). E nelle grotte di Qumran (foto a destra) sono stati trovati frammenti e/o testi completi di tutti i libri della Bibbia relativi all'A.T., con la scoperta più sensazionale costituita da due rotoli del profeta Isaia nella grotta N. 1, catalogati con la sigla 1QI/a e 1QI/b (prima grotta di Qumran, libro di Isaia, primo manoscritto e secondo manoscritto)".
   Per Rizza il manoscritto più importante di Isaia è il primo formato da ben 17 pelli cucite insieme formanti una pergamena alta venti centimetri e lunga sette metri. Ciascuna delle 54 colonne contiene all'incirca un capitolo scritto su 29 linee. La datazione è stata eseguita con il metodo del carbonio radioattivo e il confronto con monete del periodo degli anni che vanno dal 170 a.C. al 70 d.C. I manoscritti ci riportano pertanto alla Bibbia come Gesù Cristo la sentiva leggere nelle sinagoghe e nel Tempio e che, oggi, dopo duemila anni si legge nelle chiese durante le celebrazioni eucaristiche, anche se nella versione "Ravasi".
   Manoscritti conservati nelle grotte di Qumran, ma come? "Nella primavera del 1947 - conclude Rizza - il giovane pastore beduino, Muhàmmad ed-Dhib (Maometto il Lupo) pascolando le sue capre nella zona delle grotte lanciò dei sassi per attirare l'attenzione di una capra, e uno di questi entrò in una grotta provocando un rumore strano, come se avesse rotto un vaso in terracotta. Dopo qualche giorno Muhàmmad ed Dhib, incuriosito, si introdusse nella grotta e vi trovò ben 10 anfore (foto a sinistra), di cui solo una contenente dei rotoli (tre), due dei quali erano avvolti con stoffa di lino".
   I rotoli furono portati ad un mercante d'antichità e così incominciò una storia complessa di vendita ed acquisti dei rotoli che ha portato ad un approfondimento delle conoscenze nell'ambito della filologia biblica e della storia dell'ebraismo antico. Con la scoperta in questa grotta e delle altre dieci successive è iniziata, anche, il problema della datazione dei Vangeli. Le anfore che contenevano i manoscritti sono conservate nel Museo del Libro di Gerusalemme.

(Gazzettinonline, 30 ottobre 2017)


Gaza: Israele distrugge un tunnel

L'esercito israeliano ha fatto esplodere un tunnel di Hamas la cui uscita è stata localizzata in territorio israeliano nella parte sud della zona a ridosso della Striscia di Gaza, all'altezza, dall'altra parte del confine, di Khan Younis. Lo ha detto il portavoce militare secondo cui si tratta di un tunnel in fase di costruzione. Agli agricoltori israeliani al lavoro nei pressi è stato ordinato dall'esercito di lasciare i campi e le batterie antimissili Iron Dome della zona sono state messe in allerta.

(ANSA, 30 ottobre 2017)


I primi cento anni di Israele, l'anniversario della lettera che fece nascere lo Stato

Era il 1917: il ministro degli Esteri inglese lord Balfour aprì alla nascita della nazione

di Fiamma Nlrenstein

 
GERUSALEMME - Giovedì sarà una magnifica occasione di orgoglio per l'Inghilterra: il 2 di novembre del 1917 lord Arthur Balfour, ministro degli Esteri della Gran Bretagna, lanciò nell'universo della geopolitica mondiale un razzo che scintilla dopo cento anni. Scrisse infatti una lettera a lord Walter Rotschild, il capo della comunità ebraica inglese, che annunciava di fatto la fine di 1.800 anni di esilio del popolo ebraico e il suo ritorno prossimo venturo a casa, alla sua patria. Una patria mai dimenticata anche nel corso degli anni più spaventevoli e difficili, quelli dei pogrom, delle persecuzioni, delle torture razziali e religiose: mai infatti gli ebrei avevano smesso di pregare volti a Gerusalemme, di gridare al cielo «se ti dimentico Gerusalemme così mi dimentichi la mia mano destra», come si fa rompendo nel giorno del proprio matrimonio un bicchiere, simbolo della distruzione del Tempio nell'anno 70.
   Balfour scriveva: «Il governo di Sua Maestà vede con favore l'istituzione (establishment) in Palestina di un focolare nazionale (a national home) per il popolo ebraico, e userà i suoi migliori sforzi per facilitare l'ottenimento di questo obiettivo». Immediatamente, nonostante alcuni leader lungimiranti intravedessero l'opportunità che questo avrebbe rappresentato per alcuni popoli arabi (la dinastia ashemita si distinse in questo), sulla scorta del rifiuto religioso che escludeva ogni presenza non musulmana sulla Ummah islamica e della leadership palestinese, iniziò una sanguinosa campagna terroristica che dura fino a oggi.
   È opportuno ricordare che non esisteva nessuno stato palestinese, che ancora la zona era dominata dai turchi, che la decisione era supportata da una decisione sia orale che scritta da parte americana, francese, italiana e del Vaticano. Quindi non fu un'azione isolata, come sostiene oggi con una campagna improntata al peggior desiderio di distruzione di Israele Abu Mazen, che chiede che l'Inghilterra cancelli la lettera di allora: fu oltre al rispetto per la storia e per la volontà che il movimento sionista fondato da Theodor Herzl e anche per un consenso internazionale generalizzato. Fu questo che nel 1922 portò a inserire la creazione dello Stato Ebraico nel preambolo della Lega delle nazioni alla creazione del Mandato Britannico per la Palestina.
   Dalla dichiarazione Balfour in avanti, centinaia di migliaia ebrei intrapresero la loro strada verso la terra dei padri, quindi con il senno di poi possiamo dire che essa li salvò dai forni crematori.
   Trovarono Israele arida, abbandonata come la descrive Mark Twain, ma la dissodarono col loro sudore, la difesero con il loro sangue, la fecero fiorire e la trasformarono nel miracolo di democrazia e di tecnologia che il piccolissimo Paese rappresenta a tutt'oggi.
   Tuttavia l'Inghilterra non fu coerente nel suo messaggio di giustizia, anzi, si trasformò ben presto, impaurita dal rifiuto arabo, nel poliziotto che chiuse il mare agli ebrei proprio quando ne avevano maggiormente bisogno per scampare alle persecuzioni e alla Shoah. Gli inglesi sin dall'inizio del mandato dettero ad arabi, e non a ebrei, posizioni governative. Produssero bollettini ufficiali e documenti in inglese e arabo, non in ebraico, la lingua che andava prodigiosamente ricostruendosi dalla Bibbia e dalle preghiere trasformandosi nel colloquio della vita quotidiana.
   Più avanti, tragicamente, gli inglesi limitarono e bloccarono l'immigrazione ebraica con l'inizio della seconda guerra mondiale. Nel 1939 la «White Paper» bloccava sia l'immigrazione che l'acquisto di terra da parte degli ebrei.
   Ma il miracolo era già compiuto, gli ebrei avevano ormai intrapreso la marcia del ritorno a casa con la forza della gioia e della disperazione, pronti a soffrire per ricostruire la loro terra. Ha ragione Theresa May quando risponde oggi alle rauche minacce palestinesi: «Siamo fieri del ruolo che abbiamo giocato nella creazione dello Stato d'Israele e certamente celebriamo con orgoglio questo centenario».
   Anche se oggi il leader dell'opposizione Jeremy Corbyn annuncia che non parteciperà alle celebrazioni dopo aver più volte ripetuto la sua amicizia, ovvero gli Hezbollah e Hamas, e anche se l'ondata di antisemitismo inglese è assai alta anche a causa dell'immigrazione, l'Inghilterra può vantare la creazione di un documento che ha restituito agli ebrei di tutto il mondo il senso della legittimità della loro vita in questo mondo, fra le nazioni, e che certamente gli ha consentito di sopravvivere moralmente anche durante la Shoah. Balfour ha fatto intravedere la vita oltre la muraglia della morte nei campi di sterminio.
   Mio padre Aron Alberto Nirenstein dall'Ishuv ebraico dove era andato col suo gruppo sionista-socialista nel 1936, ebbe l'idea di venire a visitare la sua famiglia a Baranov, Polonia, proprio mentre le truppe tedesche marciavano verso l'invasione e la deportazione di quasi tutta la sua famiglia. Di fronte all'avanzare della marea nera poté avviarsi ancora, nella tragedia, con i più avventurosi mezzi verso un paese e un popolo che erano suoi, per sempre, da sempre. Theodor Herzl e la dichiarazione Balfour avevano indicato la strada.

(il Giornale, 30 ottobre 2017)


Prima, molto prima di Jeremy Corbyn e Mahmoud Abbas, altre due importanti persone espressero il loro rammarico in occasione della ricorrenza della Dichiarazione Balfour: il gerarca nazista Heinrich Himmler e il Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini. Ecco il testo del telegramma che nel 1943 l'antisemita tedesco scrisse all'antisemita palestinese:
    Al Gran Mufti Amin El Husseini
    Berlino
    Il movimento nazionalsocialista della grande Germania ha scritto fin dal suo inizio sulla sua bandiera la lotta contro l'ebraismo mondiale. Quindi ha sempre seguito con particolare simpatia la lotta degli amanti della libertà arabi, soprattutto in Palestina, contro gli intrusi ebrei. L'individuazione di questo nemico e la comune lotta contro di lui costituiscono il solido fondamento del naturale legame tra la grande Germania nazionalsocialista e gli amanti della liberta' maomettani di tutto il mondo. In questo spirito le trasmetto, nell'anniversario dell'infausta Dichiarazione Balfour, i miei più cordiali saluti e auguri per la felice prosecuzione della sua lotta fino alla sicura vittoria finale.
    Firmato: Heinrich Himmler
Le bandiere su cui è scritta “la lotta contro l’ebraismo mondiale” continuano a sventolare. In Palestina e altrove. M.C.


II vero antisemitismo è all'Onu e all'Unesco

Lettera al Giornale

Nel suo articolo «Indignatevi per l'Onu non per tre cretini», Fiamma Nirenstein ha centrato il vero problema dell'antisemitismo. Che è quello sbandierato dalle cosiddette istituzioni internazionali, Onu e Unesco in primis. Con le risoluzioni pro islam e contro Israele. Le nostre istituzioni si indignano per episodici atteggiamenti demenziali antisemiti di casa nostra. Ma in quelle Istituzioni internazionali, spesso e volentieri si girano, per così dire, dall'altra parte, astenendosi nelle votazioni contro Israele. Al contrario della Germania e degli Usa di Trump.
Alessio Magistro (Siracusa)
(il Giornale, 30 ottobre 2017)


Il ministro israeliano Kahlon in visita a Ramallah

Economia, ponte per avvicinare la pace

di Daniel Reichel

Il ministro delle Finanze israeliano Moshe Kahlon ha incontrato nelle scorse ore il primo ministro palestinese Rami Hamdallah in Cisgiordania per discutere soprattutto di cooperazione economica. Si tratta della seconda visita di Kahlon a Ramallah e il ministro è l'unico rappresentante di alto livello ad essersi recato nella città palestinese in via ufficiale negli ultimi anni. Secondo i media locali (Arutz 2 e Walla!, tra gli altri), l'incontro - a cui hanno partecipato due dirigenti palestinesi, Majd Faraj e Hussein a-Sheikh, ed il coordinatore delle attività militari israeliane nei Territori, il generale Yoav Mordechai - è nato dalle pressioni dell'amministrazione americana che vuole vedere progressi nei rapporti diplomatici tra Israele e palestinesi entro la fine dell'anno. Il governo di Gerusalemme nelle scorse settimane, alla luce del nuovo tentativo di pacificazione tra Fatah (movimento cardine dell'Autorità nazionale palestinese) e il movimento terroristico di Hamas, ha annunciato che fino a che Hamas non rinuncerà alla violenza e non riconoscerà Israele, non tornerà al tavolo dei colloqui di pace. Per questo la visita di Kahlon rappresenta un passo inaspettato.
   L'inviato speciale degli Stati Uniti per il processo di pace Jason Greenblatt ha scritto in un tweet che con l'incontro tra il ministro delle Finanze israeliano e il premier Hamdallah "sono stati fatti importanti progressi" e "sono stati compiuti passi significativi" in merito alle questioni economiche - gettito fiscale, imposte doganali e investimenti - che sostengono la ricerca della pace.
   Secondo l'agenzia di stampa palestinese Wafa, tra gli argomenti discussi da Kahlon con i vertici palestinesi, oltre al tema della cooperazione economica, c'era la questione degli insediamenti israeliani e la richiesta da parte dell'Autorità nazionale palestinese di togliere il blocco sulla Striscia di Gaza. I palestinesi, riferisce il Jerusalem Post, hanno chiesto che vengano promossi progetti nell'Area C, ovvero nell'area della West Bank sotto il controllo israeliano, e che vengano realizzate le due zone industriali di Jalamah e Tarqumiyah frutto di un accordo precedente tra le due parti.
   Fonti israeliane citate da Haaretz sostengono che Greenblatt vorrebbe presentare dei risultati al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ma a causa della difficoltà sul fronte diplomatico, spingerebbe perché si seguisse il percorso della collaborazione economica. In ogni caso, un alto funzionario della Casa Bianca ha spiegato domenica che, nonostante i colloqui, Trump ha ripetutamente sottolineato che la pace tra Israele e i palestinesi potrà essere raggiunta solo attraverso negoziati diretti e che gli Stati Uniti continueranno a cooperare strettamente con le due parti per raggiungere tale obiettivo. "Nessun accordo sarà imposto a israeliani e palestinesi. Siamo impegnati ad andare avanti con questo accordo (quello economico) perché migliorerà le condizioni per entrambe le parti", ha detto il funzionario della Casa Bianca citato da Yedioth Ahronoth. Intanto alla Casa Bianca è tornato, dopo la visita ufficiale in Arabia Saudita, Jared Kushner, genero del presidente e incaricato da Trump per il rilancio del processo di pace tra israeliani e palestinesi. Secondo Politico - affidabile sito di informazione americano - l'amministrazione Trump sta seguendo l'annunciata strategia di cercare di attirare alcuni leader arabi affinché svolgano un ruolo nella pace in Medio Oriente. "Jared è sempre stato spinto a cercare di risolvere la controversia israelo-palestinese - ha detto a Politico l'investitore immobiliare Tom Barrack, amico di lunga data di Trump e suo confidente - La chiave per risolvere la controversia è l'Egitto. E la chiave per l'Egitto sono Abu Dhabi e Arabia Saudita". Da qui la visita di Kushner, accompagnato tra gli altri da Greenblatt.
   Domenica sera, invece, il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, parlando con un gruppo di ex parlamentari israeliani nella sua sede centrale di Ramallah, ha affermato che: "Gli americani gli hanno assicurato che annunceranno presto il loro sostegno per una soluzione a due Stati" (Haaretz). Secondo quanto riferito, Abbas avrebbe detto agli ex membri della Knesset che se il suo partito - Fatah - dovesse formare un governo di unità con Hamas, non nominerà funzionari di Hamas che non riconoscono pubblicamente Israele. In merito non ci sono state conferme ufficiali da parte di Ramallah che attende di vedere cosa accadrà il Primo dicembre: è questa la data fissata nell'accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah in cui il governo dell'Autorità palestinese dovrebbe riprendere il controllo civile di Gaza.

(moked, 30 ottobre 2017)


Trasformare l'aria in acqua potabile, non è un miracolo

È il risultato della ricerca e della tecnologia israeliane

di Fabiana Magrì

 
Trasformare l'aria in acqua potabile. Al WATEC 2017 (conferenza internazionale per il settore hi tech che ruota intorno all'acqua che si è svolta a Tel Aviv dal 12 al 14 settembre) succedono anche i miracoli. La tecnologia brevettata GENius, dell'azienda Water-Gen, produce acqua potabile e pulita dall'umidità dell'aria, estraendola direttamente dall'ambiente circostante. Se sistemata in casa, in cucina ad esempio, una macchina delle dimensioni di un erogatore da ufficio e con la funzione anche di deumidificatore, può produrre fino a 30 litri di acqua potabile al giorno.
   Dopo anni di ricerca all'avanguardia in accademie e università, l'ecosistema è ormai fertile per passare dalla tecnologia al mercato. Le parole chiave di questo Watec sono state riciclo, desalinizzazione, risparmio energetico, efficienza e sicurezza delle infrastrutture. Israele investe proporzionalmente più risorse economiche di qualunque altro Paese al mondo nella tecnologia della purificazione delle acque reflue e, con una percentuale dell'85%, è al primo posto per l'utilizzo di acqua riciclata in agricoltura. La Spagna, al secondo posto, ne ricicla appena il 19%.
   Eppure, con un aumento della popolazione al ritmo del 2% l'anno, in un Paese dove l'acqua è una conquista, anche il riciclo e la purificazione delle acque reflue rischia di non essere più sufficiente per soddisfare le esigenze degli israeliani. Per questo già cinque impianti di desalinizzazione - il primo risale al 2005 - sono in attività per produrre la bellezza di 585 milioni di metri cubi d'acqua ogni anno, sufficienti a coprire i due terzi del fabbisogno nazionale. Ashkelon, Ashdod, Soreq, Palmachim e Hadera, sono i cinque stabilimenti lungo la costa centromeridionale del Paese. Un sesto impianto è quasi pronto all'altezza della Galilea occidentale e altri quattro entreranno in funzione entro il 2025, così da far aumentare la produzione fino a raggiungere un volume di 1,2 miliardi di metri cubi di acqua desalinizzata ogni anno.
   Grazie alla smart technology, Israele trova sempre nuove soluzioni per il risparmio energetico e la tutela dell'ambiente. Aziende come Takadu e Kando, fornitori di software di soluzioni integrate per l'industria dell'acqua, possono, da remoto, rilevare, analizzare e gestire eventi e incidenti - come perdite, esplosioni, guasti operativi, inquinamento e altro - e convertire i dati in azioni.
   L'acqua è sempre più uno degli obiettivi delle recenti cyber-minacce. Gli impianti risalgono ad anni in cui la sicurezza aveva a che fare con più che altro con la manutenzione e i lucchetti erano l'unica protezione da tenere in considerazione. Oggi queste infrastrutture, che non sono dotate nemmeno di username e password, sono connesse con nuovi dispositivi high tech, per migliorarne le prestazioni. C'è però un lato oscuro della medaglia, ed è la vulnerabilità rispetto a possibili attacchi informatici, spesso perpetrati per mettere sotto scacco governi e aziende a fini di riscatto, se non peggio. L'argomento è stato al centro della tavola rotonda "Assicurare il nostro futuro: l'industria dell'acqua abbraccia le tecnologie Cyber" con la partecipazione, fra gli altri di Yair Cohen, ex comandante dell'Unità 8200, il corpo d'élite dell'esercito israeliano specializzato in intelligence.
   Nell'anno della decima edizione, Watec ha riunito a Tel Aviv dozzine di professionisti e opinion leader da oltre quindici Paesi nei settori lambiti dal tema dell'acqua. Alcuni di loro - dal Canada, dall'India, dalla Spagna e dall'Inghilterra - si sono riuniti al tavolo con gli israeliani per capire in quale direzione soffi il vento del cambiamento per le multinazionali del settore.

(Shalom, ottobre 2017)


Seconda guerra mondiale: il salvataggio degli ebrei in Jugoslavia e Dalmazia

Erano circa 78 mila gli ebrei che vivevano nei territori dell'allora Regno di Jugoslavia quando il 12 aprile 1941 i nazisti entrarono a Belgrado. La maggior parte fu vittima dell'Olocausto, ma alcune migliaia si salvarono grazie all'esercito italiano. Un libro ricostruisce la vicenda
   Durante la Seconda guerra mondiale, nelle zone della ex Jugoslavia occupate da italiani e tedeschi, gli alleati croati ustascia di Ante Pavelic non furono certo inferiori per ferocia ai nazisti nei confronti degli ebrei (e dei serbi e dei rom). Anzi, in taluni casi - escluso l'uso, dei forni crematori - furono peggiori.
   I massacri erano tali che allo scopo di indicare il disagio che questi procuravano alle forze di occupazione, obbligate a non intervenire per porre termine ad essi "era stato deciso di non issare più le bandiere italiana e germanica davanti al comando ustascia". Di più, ci furono operazioni da parte dell'esercito italiano che, in barba alle leggi razziali, furono decisamente mirate in Dalmazia a salvare gli ebrei dalla persecuzione sia dai massacri degli ustascia che dall'avvio ai campi di sterminio da parte dei nazisti.
   Una ricerca su questa pagina di storia poco conosciuta, al contrario di quella che giustamente riconosce la feroce repressione italiana delle popolazioni slovena e croata in obbedienza agli ordini impartiti dal generale Mario Roatta, è stata compiuta dallo zaratino Gino Bambara, storico, ma che ha anche partecipato agli eventi del Secondo conflitto mondiale in Grecia e Jugoslavia come ufficiale della divisione di fanteria Murge.

(OverDoor, 30 ottobre 2017)


'Il vento e il melograno': luci e volti di Israele

di Lara Crinò

Si intitola 'Il vento e il melograno. Fotografia Contemporanea Israeliana' (Postcart Edizioni, 2017) il volume curato da Maurizio G. De Bonis e Orith Youdovich che viene presentato mercoledì 8 novembre presso il museo MAXXI di Roma. Un approfondimento critico sui progetti e il lavoro dei maggiori fotografi israeliani attivi negli ultimi trent'anni, che diventa un'occasione per riflettere sulle molte anime del paese mediorientale, sulla varietà degli stili e delle poetiche, sulla molteplicità di esperienze umane, background culturali, memorie che si sono stratificati nelle città e nei villaggi israeliani dalla fondazione dello stato nel 1948. Basato su una lunga ricerca sul campo, con colloqui e visite agli studi dei fotografi, il volume include tra gli altri immagini di Oded Balilty, Elinor Carucci, Michal Chelbin, Pesi Girsch, Simcha Shirman, Tal Shochat, Yanai Toister, Orit Siman-Tov, Pavel Wolberg, Sharon Ya'ari, Anna Yam, Lee Yanor.

(L'Espresso, 30 ottobre 2017)


«La Ue dichiari Hezbollah organizzazione terroristica»

di Ted Deutch e Yairlapid*

La scorsa settimana il Congresso americano ha approvato la Risoluzione 359 che invita l'Unione europea a riconoscere il fatto che Hezbollah, tutto Hezbollah, è un'organizzazione terroristica. Uno di noi ha proposto questa risoluzione e l'altro concorda pienamente, ma entrambi siamo rimasti sbalorditi che fosse addirittura necessaria. Come si fa, in Europa, a mettere in dubbio che Hezbollah sia un'organizzazione terroristica quando lo stesso Hezbollah lo dichiara apertamente e ripetutamente? E non solo a parole, ma anche nei fatti: omicidi, attentati con ordigni esplosivi, attacchi missilistici. Negli ultimi sei anni Hezbollah ha rappresentato la principale forza militare schierata al fianco del presidente siriano Assad nell'assalto sferrato contro il suo stesso popolo e il suo Paese. Hezbollah non fa mistero del suo prossimo bersaglio: Israele. Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato apertamente che il suo obiettivo non è l'indipendenza della Palestina, né la creazione di due Stati, bensì la distruzione totale di Israele. Come sempre accade, coloro che odiano Israele odiano gli Stati Uniti ( e anche l'opposto è vero). «Il nostro motto è semplice - ha dichiarato Nasrallah - e non abbiamo paura di ripeterlo: Morte all'America!».
   Ma le attività di Hezbollah non si limitano all'ambito americano e israeliano. Hezbollah si è dotato di un'ala dedicata al terrorismo internazionale che si è resa responsabile di attentati in Argentina, a Cipro e in Bulgaria. Persino la Lega Araba ha dichiarato che Hezbollah, in ogni sua parte, corrisponde a un'entità terroristica. Grazie alla legittimazione ottenuta con il sotterfugio e l'inganno, Hezbollah rastrella fondi e recluta volontari in tutta Europa, e lo fa apertamente. Alcuni capi di Stato europei credono - erroneamente - che tenendo aperti i canali di comunicazione con i terroristi riusciranno a evitare stragi. Ma questa strategia non ha mai funzionato e non funzionerà mai. Noi chiediamo all'Unione Europea di seguire l'esempio di Francia e Olanda: condannare inequivocabilmente Hezbollah - tutti i rami di Hezbollah - come un'organizzazione terroristica. Il terrorismo non si combatte a parole, ma con le azioni.

* Ted Deutch è deputato democratico Usa, Yair Lapid leader del partito israeliano Yesh Atid

(Corriere della Sera, 30 ottobre 2017 - trad. Rita Baldassarre)



Gaza, scoperto tunnel sotterraneo sotto una scuola. Onu: «Inaccettabile»

I tunnel usati per portare attacchi dalla Striscia di Gaza in Israele. «Violazione del luogo e la mancanza di rispetto per la neutralità delle proprietà dell'Onu», denuncia l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.

L'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, ha denunciato come «inaccettabile» la scoperta di un tunnel sotterraneo in una delle sue scuole a Gaza. Lo ha detto il portavoce Christopher Gunness secondo cui l'organizzazione «è intervenuta in modo deciso con le parti pertinenti per protestare contro la violazione del luogo e la mancanza di rispetto per la neutralità delle proprietà dell'Onu», aggiungendo che «queste attività devono cessare».

 «Inaccettabile»
  «La presenza di un tunnel sotto una scuola dell'Unrwa, che gode della inviolabilità in base alla legge internazionale, è - ha aggiunto Gunness - inaccettabile e mette gli alunni e lo staff dell'Agenzia a rischio». Il portavoce ha quindi sottolineato che «deve cessare ogni attività o condotta che mette a rischio beneficiari e staff e che mina la capacità dell'Unrwa di assistere i rifugiati palestinesi». I tunnel vengono utilizzati per portare attacchi dalla Striscia in territorio israeliano.

(Corriere della Sera, 29 ottobre 2017)


L'amore difficile di un partigiano ebreo

il libro di Alfonso e Sommariva presentato oggi alla sinagoga di Alessandria

C'è un cippo al Ponte di Perletto, tra Liguria e Piemonte, che ricorda i diciotto partigiani di Giustizia e Libertà uccisi dai nazifascisti in un'imboscata nel febbraio del 1945. Uno di questi era l'ebreo alessandrino Ermanno Vitale. La storia di Manno - come lo chiamavano tutti - è sopravvissuta nelle foto e nelle lettere che inviava alla sua fidanzata, la bella Maria "la Mora", e rivive oggi nel libro che la figlia di lei, Nerella Sommariva, ha scritto a quattro mani con la giornalista di Repubblica Donatella Alfonso, autrice di diversi libri sulla Resistenza. sarà presentato dalle autrici oggi, per la prima volta, alle 17.30 nella Sinagoga di Alessandria
   "La ragazza nella foto - Un amore partigiano" è la storia dell'amore impossibile tra Maria Berchio, bellissima e fiera figlia di contadini, e Ermanno Vitale, rampollo di una ricca famiglia ebrea di Alessandria. Un amore breve, sbocciato nella primavera del '44 e interrotto bruscamente sulle rive del Bormida dai proiettili dei Repubblichini nell'inverno del '45, ma cosi intenso che anche dopo la guerra, nella sua seconda vita di moglie e di madre, Maria ha continuato a custodire gelosamente le lettere appassionate del suo Manno e a raccontarne la storia ai propri figli, Nerella e Pierluigi.
   Ma è anche la storia della Resistenza, delle lotte partigiane tra Alessandria e le Langhe, degli "Azzurri" guidati da Enrico Martini "Mauri" a cui si unì anche il partigiano Johnny di Fenoglio. Una lotta, quella al nazifascismo, a cui parteciparono anche gli ebrei come Manno, che nella guerra partigiana «rischiava il doppio degli altri».

(la Repubblica, 29 ottobre 2017)


Aiutò ebrei durante la Shoah, medaglia ad Aznavour

l cantante franco-armeno Charles Aznavour (93 anni) ha trascorso giornate particolarmente commoventi in Israele nel corso di un breve soggiorno in cui ha ricevuto riconoscimenti dal capo dello Stato, Reuven Rivlin, e da un villaggio israelo-palestinese di pacifisti per aver aiutato ebrei ricercati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Ieri Aznavour è stato inoltre acclamato a lungo da una folla di ammiratori in un concerto a Tel Aviv.

(ANSAmed, 29 ottobre 2017)



Vegliate!

Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare. Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo. Or il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, dopo che avrete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà egli stesso, vi renderà saldi, vi fortificherà. A lui sia la potenza, nei secoli dei secoli. Amen.

Dalla prima lettera dell'Apostolo Pietro, cap. 5

 


Convegno antisemita nella capitale della cultura

di Giulia Righetti

PISTOIA - Mentre sui social impazzano rabbia e sconcerto e la polemica ha raggiunto persino il Parlamento grazie ad un'interrogazione dell'onorevole Capezzone (Gruppo Misto), ieri alla biblioteca San Giorgio di Pistoia si è svolto il convegno dal titolo 'Il colonialismo italiano in Libia e quello israeliano in Palestina. Analogie e differenze'. Questo incontro è stato organizzato dall'Associazione Centro di Documentazione di Pistoia e dall'Associazione Centro Studi per la scuola pubblica e la partecipazione era gratuita e aperta a tutti.
Le critiche hanno preso piede per l'accostamento del colonialismo italiano alla storia dello stato d'Israele, ma sono state alimentate anche dal fatto che l'evento abbia esposto sulla propria locandina il simbolo di Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017 e che gli insegnanti avessero diritto a crediti formativi per la partecipazione al convegno. Le accuse di antisemitismo, in un momento in cui il problema è purtroppo tornato d'attualità a causa degli incresciosi fatti di cronaca legati al caso Anna Frank, sono state trasversali e mosse dal consigliere regionale del Pd Massimo Baldi così come dal gruppo locale di Forza Italia, che ha preso le distanze dall'evento e si è detto 'sconcertato' dal fatto che il MIUR non l'abbia fermato. Valentino Baldacci, presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze, ha scritto in una nota che «è inutile indignarsi tanto per l'episodio della maglia con l'immagine di Anna Frank se poi l'antisemitismo viene coltivato e diffuso con l'aiuto e la collaborazione di enti pubblici come il Miur, la Regione, il Comune di Pistoia».
La polemica non si è trasformata in manifestazioni di protesta al convegno, che si è svolto regolarmente davanti ad una quarantina di persone, nonostante i suoi organizzatori abbiano manifestato la tensione e la delusione per le critiche che sono loro piovute addosso. Gli organizzatori dell'evento, Lucia Innocenti, Federica Collorafi, Celso Braglia e Vincenzo Lo Buglio, hanno chiarito la loro posizione: 'Noi abbiamo organizzato un'esperienza didattica alternativa e completamente gratuita, al solo scopo di incentivare lo studio e la ricerca della verità sul tema del colonialismo ieri e oggi. Vogliamo formare gli insegnanti e i cittadini fornendo materiale didattico, fare politica non ci interessa. Inoltre, abbiamo parlato di analogie e differenze tra il colonialismo italiano e quello israeliano, non abbiamo fatto generalizzazioni e abbiamo lasciato emergere posizioni disparate'.
Anche una delle relatrici, la professoressa universitaria Diana Carminati, si è difesa dalle accuse: 'Io non sono antisemita, parlo semplicemente della nascita del sionismo'.
Per quanto riguarda le polemiche sull'utilizzo del logo della Capitale della Cultura e dei crediti formativi per gli insegnanti, gli organizzatori rispondono: 'Gli insegnanti che si assentano da scuola devono poter certificare che lo hanno fatto a scopo formativo, ecco la funzione dei crediti, ma comunque quelli presenti avevano quasi tutti il giorno libero. Per quanto riguarda il logo, non abbiamo avuto bisogno di richiederlo a Caript (che infatti non ha ricevuto domande né lo ha concesso, ndr) perché le iniziative nel calendario della biblioteca San Giorgio lo utilizzano tutte'.
Spiegazione confermata dalle dichiarazioni di Maria Stella Rasetti, direttrice della biblioteca: 'Questo evento, pur non essendo parte del calendario di Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017, compare in quello della biblioteca San Giorgio e pertanto si fregia dell'uso del logo ufficiale. E' quindi giusto sottolineare che il Comune di Pistoia non ha in nessun modo preso parte all'evento, non l'ha approvato o finanziato'.
E chi ha partecipato, cosa ne pensa della bufera sull'opportunità e le accuse di antisemitismo? Barbara Gagliardi ha sottolineato: 'E' stata una lezione storica molto interessante e assolutamente non politicizzata, se fossi stata un'insegnante sarei stata felice di riportare la documentazione in classe'.

(Italia Per Me, 28 ottobre 2017)


La precisazione è penosa proprio sul piano culturale. Accostare nel titolo due fatti ben diversi come l’esperienza coloniale italiana e il sionismo, se non è un’allusione volutamente antisemita è segno di un’ignoranza inaccettabile in un contesto universitario. L’uso ignorante del termine è stato probabilmente agevolato dalla naturalezza con cui nei media si parla di “coloni” per indicare gli abitanti degli insediamenti israeliani. Se davvero non c’è stata malizia, questo genere di “candore” può essere ancora più pernicioso. M.C.


Vela - Concluso a Salou il mondiale Techno293

Impressionante il dominio israeliano

Naomi Cohen (Israele) e Anastasiya Valkevich al mondiale Techno293 2017
338 partecipanti, 30 nazioni e 44 italiani sulla linea di partenza, questi i numeri del Campionato Mondiale della classe Techno293 appena concluso a Salou, poco distante da Tarragona in Spagna. Impressionante il dominio israeliano che portano a casa tutte e quattro le medaglie d'oro a disposizione per questo evento, ovvero Junior (Under 15) maschile e femminile e Youth (Under 17) maschile e femminile.
Medaglia d'oro nella categoria Junior femminile per Ella Benbenisti (ISR) seguita da Sharon Kantor sempre per Israele e bronzo per Mak Cheuk-Wing da Hong Kong.
Bene le ragazze italiane con Sofia Renna (Circolo Surf Torbole), Sara Galati (CN Loano) e Sofia Ada Ciaravolo (CV Windsurfing Club Cagliari) rispettivamente in settima, ottava e nona posizione su 48 partecipanti.
Sempre per le ragazze ma nella categoria Youth (Under17) la medaglia d'oro va a Linoy Geva (ISR), argento per Maya Ashkenazi (ISR) e bronzo per la francese Enora Tanne. Prima delle azzurre è Marta Monge (CN Loano) in 14esima posizione seguita da Erika Nieddu (CV Windsurfing Club Cagliari) in 15esima e da Marta Bonetti (Windsurfing Marina Julia) al 18esimo posto su 61 partecipanti.
Nei ragazzi Under 15 dominio per l'israeliano Daniel Basik-Tashtash, argento e bronzo per i francesi Jules Chantrel e Gaspard Carfantan. Tra i 96 iscritti troviamo 3 italiani nei primi 10, Davide Antognoli (Nauticlub Castelfusano) in quinta posizione, Alessandro Melis (CV Windsurfing Club Cagliari) in settima e Alessandro Jose Tomasi (LNI Riva del Garda) in ottava posizione. Per la categoria Youth (Under 17) maschile podio tutto israeliano con Roi Hillel medaglia d'oro, Amit Gan argento e Eyal Zror bronzo. Per gli italiani Nicolò Renna (Circolo Surf Torbole) chiude il Mondiale in ottava posizione, Giorgio Stancampiano (CC Roggero Lauria) in 16esima e Edoardo Tanas (FV Malcesine) in 25esima su 130 partecipanti.

(Federazione Italiana Vela, 28 ottobre 2017)


Egitto: arrestati tre terroristi nel Sinai centrale

IL CAIRO - Le forze armate e la polizia egiziana hanno intensificato i controlli nella penisola del Sinai dopo l'attacco del 7 luglio scorso che ha provocato la morte di 25 soldati nei pressi di Rafah, non lontano dal confine con la Striscia di Gaza. Quest'ultimo è stato uno dei più sanguinosi attacchi condotti negli ultimi due anni nell'area, diventata fortemente instabile dopo il crollo del regime di Hosni Mubarak e, successivamente, dopo la caduta del presidente islamista Mohamed Morsi. L'attacco, rivendicato dallo Stato islamico, è stato condannato anche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha invitato tutti i paesi membri dell'Onu a mettere da parte le divergenze per collaborare nel contrasto globale al terrorismo. Nel paese delle piramidi è in vigore lo stato di emergenza dallo scorso aprile, in seguito agli attacchi terroristici della Domenica delle Palme contro i luoghi di culto cristiani di Tanta e Alessandria, costati la vita rispettivamente ad almeno 29 e 17 persone.

(Agenzia Nova, 28 ottobre 2017)


Caltabellotta: 50 ebrei europei in visita alla ricerca della sinagoga e delle scuole ebraiche

di Enzo Minio

 
 
Una nutrita delegazione di ebrei di mezza Europa ha visitato ieri mattina il centro urbano alla ricerca della sinagoga, delle scuole ebraiche e di strutture abitate nei secoli scorsi da tante famiglie che nel comprensorio tra Caltabellotta e Sciacca raggiungevano il numero di mille unità. La delegazione, una cinquantina di ebrei provenienti da Londra e con origini e residenza in Gran Bretagna, Francia, Israele, Norvegia e perfino nel lontano Venezuela, è arrivata in paese, guidata dal rabbino capo europeo Chaim Weiner e dal prof. Angelo Leone, che, docente universitario a Palermo, originario di Palma di Montechiaro, ha fatto da interprete alle spiegazioni e notizie storiche fornite da Enzo Mulè, docente, ricercatore e storico locale, il quale ha accompagnato la comitiva per i luoghi dove abitavano nel XV secolo gli ebrei che a Caltabellotta erano ricchi, artigiani, buoni lavoratori della terra, commercianti e studiosi come è il caso di Abul Farag detto anche Flavio Mitridate o Guglielmo Raimondo Moncada.
   A fare gli onori di casa c'era pure il sindaco Paolo Segreto che è stato invitato dagli studiosi a fare un censimento della presenza degli immobili in paese, del cimitero ebraico, della sinagoga posta in via IV novembre, delle scuole e del macello ebraico situato quasi di fronte al palazzo comunale. Presenti all'incontro il proprietario dell'edificio delle scuole e di una parte della sinagoga, Paolo Pumilia, caltabellottese, che ha annunciato la donazione dell'immobile alla comunità ebraica europea e londinese per fare un centro di studi, all'insegna della pace tra i popoli. Il rabbino Chaim Weiner ha apposto sul portone della scuola una targhetta di legno che contiene la preghiera ebraica più importante,la "Shemà Israel". Era presente durante l'escursione urbana pure il presidente della locale Pro Loco Leonardo Nicolosi e Paolo Vetrano dell'associazione "Kratas Tour". Le notizie storiche sono il frutto di studi e ricerche della storica Angela Scandaliato, assente, ma rappresenta dal marito Giuseppe Mulè.
   Per i fatti calcistici di Roma, con il coinvolgimento dell'immagine di Anna Frank, il rabbino Chaim ci ha detto: "E' un fatto sconvolgente che offende la coscienza del mondo. Gli autori devono essere puniti severamente, ad esempio". Gli fa eco il prof. Angelo Leone: "Un gesto di bassissimo livello che mostra l'ignoranza e la "cultura" di un gruppo. Forse sarebbe stato meglio ignorarlo e non dare tanta pubblicità emulativa".

(Rispost, 28 ottobre 2017)


Energia e cooperazione al centro del convegno sulla "regione dei destini incrociati"

ROMA - Le dipendenze create dalla domanda di energia e le possibilità offerte dalle nuove tecnologie creano sinergie e dinamiche cooperative dalle quali si può ripartire per affrontare una situazione frammentata, incerta e conflittuale come quella del Mediterraneo e del Medio Oriente. E' il messaggio emerso dal convegno "Medio Oriente: la regione dei destini incrociati", organizzato ieri (26 ottobre) a Roma dal Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo). Nel suo intervento di apertura, il sottosegretario agli Affari esteri, Vincenzo Amendola, ha sottolineato come in un contesto mutevole e frammentato di "ridefinizione di sovranità", emerga "un'agenda positiva, più evidente di quanto sembri", legata alle risorse naturali dell'area mediterranea e mediorientale.
  "Nel Mediterraneo occidentale e orientale la gara del gas sta producendo una dinamica politica che non conoscevamo", ha affermato Amendola, spiegando che le recenti scoperte di giacimenti da parte di Israele e di Cipro possono rappresentare un elemento di interconnessione con l'Europa e uno strumento per aprire negoziati su conflitti decennali. Amendola ha detto inoltre che l'Europa ha il dovere di costruire nel Mediterraneo non solo cooperazione allo sviluppo ma una sicurezza comune con i paesi della sponda sud. Occorre, ha continuato, una "nuova dottrina di sicurezza comune. Destini incrociati significa incrociare necessità e bisogno comune di sicurezza - ha affermato -. Occorre ricostruire un metodo per la risoluzione dei conflitti che sia basato sul dialogo, la comprensione e il rispetto".
  Amendola ha quindi fatto riferimento alla Conferenza mediterranea dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che si è conclusa mercoledì a Palermo, come "punto di partenza" e "straordinario esperimento" per un nuovo approccio all'agenda mediterranea e mediorientale. "Il dibattito che si è sviluppato a Palermo - ha detto il sottosegretario - dimostra che l'agenda mediterranea e mediorientale e lo sguardo verso l'area Mena sono diventati nuovamente una priorità per l'Ue". Secondo Amendola, occorre avere un'idea di sviluppo comune insieme ai paesi della sponda sud del Mediterraneo su grandi temi come energia, risorse naturali, gestione delle acque, produzione agroalimentare. "La cooperazione e la voglia dell'Europa di lavorare in questo senso che negli ultimi anni è mancata oggi è diventata una priorità", ha aggiunto il sottosegretario.
  "Le rivolte arabe - ha continuato - hanno messo in discussione il tema della sovranità dei confini e dei popoli, determinando una mappa in cui ora gli attori regionali stanno tentando di ricostruire un quadro complessivo". Ed è in tale contesto che le risorse naturali e le reti di interconnessione energetica assumono centralità. Lo ha ricordato anche Dario Speranza, vicepresidente di Eni per Analisi e scenari politico istituzionali. "Mix energetico, gas e rinnovabili richiedono un maggiore sforzo di integrazione regionale", ha detto Speranza, sottolineando come i paesi dell'area abbiano interagito poco, soprattutto su un fattore determinante come il capitale umano.
  "Abbiamo largamente sottovalutato il Mediterraneo", ha affermato Pierferdinando Casini, già presidente della commissione Esteri del Senato (ora presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul sistema bancario e finanziario). "L'Italia ha una grande responsabilità nella regione", ha aggiunto Casini. Secondo Carlo Crea, direttore International Affairs di Terna, "anche le banche dell'area possono dare solidità agli investimenti per la cooperazione". Bisogna quindi, ha detto Nicola Pedde, direttore dell'Istituto di Global studies (Igs), "ragionare in un'ottica di lungo periodo, con prospettive solide e concrete", puntando sulla cooperazione, i cui principi "sono stati trascurati per troppo tempo in Medio Oriente".
  Come scrive il Cipmo nella presentazione dell'evento, una conferma "eclatante" di come le interdipendenze economiche possano favorire stabilità e dialogo viene dalla notizia delle firma di un accordo tra Israele e Autorità nazionale palestinese per il rilancio del Joint water committee (comitato comune per l'acqua), accordo firmato nel gennaio scorso che ha ridato vita ad un organismo inattivo da sei anni. In tale contesto, però, è il campo energetico che appare più dinamico e in particolare il progetto del gasdotto EastMed.
  Lo scorso 3 aprile il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, il ministro dell'Energia e delle risorse idriche israeliano, Yuval Steinitz, gli omologhi di Grecia, George Stathakis, e Cipro, Georgios Lakkotrypis, e il commissario europeo per l'Azione sul clima, Miguel Arias Canete, hanno firmato a Gerusalemme la dichiarazione congiunta per il lancio del gasdotto che consentirà di trasferire il gas dei giacimenti israeliani e ciprioti all'Europa tramite Grecia e Italia. Sul versante egiziano, invece, è di estrema importanza la scoperta di Eni del giacimento offshore di Zohr che, con riserve stimate in 850 miliardi di metri cubi di gas, dovrebbe entrare in produzione a partire da dicembre.

(Agenzia Nova, 27 ottobre 2017)


Non suonano l'inno ad Abu Dhabi, atleta israeliano se lo canta da solo

Judoka vince l'oro al torneo, ma la cerimonia lo boicotta

di Giordano Stabile

Il campione di judo israeliano Tal Flicker si è imposto al Grand Slam di Abu Dhabi nella categoria fino a 66 chilogrammi ma poi ha dovuto cantarsi l'inno da solo alla cerimonia di premiazione. Anche se l'Emirato è in buoni rapporti con Israele non ha ancora relazioni diplomatiche. Gli organizzatori hanno così applicato il divieto di alzare la bandiera dello Stato ebraico e suonare l'inno. Ma il judoka, da solo sul podio, lo ha intonato per conto suo in una prova di patriottismo.
Le autorità di Abu Dhabi hanno detto che il divieto di mostrare simboli israeliani era volto a garantire "la sicurezza della delegazione" dello Stato ebraico. Le stesse regole erano state applicate a un evento simile due anni fa, ma allora nessun atleta israeliano era salito sul gradino più alto del podio.
   Flicker ha vinto la finale nel modo più spettacolare, un ippon, l'equivalente del KO nell'arte marziale giapponese, a 25 secondi dalla fine del match, e ha sconfitto l'azero Nijat Shikhalizada, medaglia di bronzo ai mondiali. Il judo è stata la prima arte marziale moderna a essere ammessa alle Olimpiadi.
   «Sono molto contento di essere qui, con o senza la bandiera - ha commentato l'allenatore Oren Smadja s-: per noi è importante arrivare a questi livelli e dimostrare a tutti che è impossibile fermare lo Stato di Israele». Flicker aveva già vinto una medaglia di bronzo ai campionati mondiali di Budapest lo scorso agosto.

(La Stampa, 28 ottobre 2017)


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Vietato suonare l'inno di Israele. Flicker canta sul podio

Negli Emirati Arabi ha dovuto gareggiare senza bandiera.

di Enzo De Denaro

Al Grand Slam di Abu Dhabi vittoria senza inno per l'israeliano Tal Flicker, primo nei 66 kg, che ha potuto gareggiare con il dorsale dell'Intemational Judo Federation al posto di quello ufficiale di Israele, non riconosciuto dagli Emirati Arabi Uniti. Un problema che non è nuovo e nasce dall'assenza di rapporti diplomatici fra i due Paesi. Cosi i 12 atleti israeliani hanno gareggiato senza nomi, simboli, bandiere e inno. Anche senza dorsale né bandierina sul petto, Tal Flicker ha vinto. Ha ascoltato l'inno dell'IJF, ma il video l'ha mostrato intento a cantare a mezza bocca l'inno di Israele, l'Hatikvah, mentre gli altoparlanti diffondevano quello della federazione. Un bel caso diplomatico anche perché, dopo due giorni di gare, l'Israele compare regolarmente al 4o posto nel medagliere ufficiale della manifestazione: sarà una svista, Ma c'è scritto proprio Israele.

 Ostiiità
  Il Ministro israeliano dello sport Miri Regev ha detto che «le vittorie israeliane sono un pugno nell'occhio degli organizzatori che hanno cercato di tenerli nascosti nell'ombra. Un atteggiamento contrario allo spirito olimpico». D'altra parte il judo è considerato lo sport leader in Israele, che ha vinto sul tatami uno dei due bronzi olimpici, Or Sasson, il cui avversario egiziano Islam El Shehaby si era rifiutato di stringergli la mano fra i fischi. La partecipazione degli israeliani è osteggiata dai Paesi arabi e musulmani.

(La Gazzetta dello Sport, 28 ottobre 2017)


Messaggio di Tal Flicker al mondo


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L'orgoglio di Tal

di Niram Ferretti

 
Tal Flicker
Ad Abu Dhabi nel Grand Slam di Judo, Israele si porta a casa la medaglia d'oro con Tal Flicker e quella di bronzo con Gili Cohen. Gli atleti salgono sul podio per la premiazione e parte l'inno della Federazione Internazionale di Judo. Mentre l'inno parte, Tal Flicker canta l'inno israeliano, la Hatikvah, coperto dalla musica di quello che gli organizzatori impongono al posto dell'inno di Israele. Tra le nazioni partecipanti all'evento solo gli atleti israeliani sono stati costretti a negare la loro appartenenza, solo gli atleti israeliani non hanno potuto esibire simboli e bandiere che potevano collegarli allo Stato ebraico.
La bandiera con la stella di Davide non si deve vedere così come deve sparire dalla percezione l'esistenza di Israele esattamente nello stesso modo in cui esso scompare dalle mappe dell'Autorità Palestinese, esattamente come dovrebbe sparire fisicamente secondo l'Iran e i suoi scherani di Hezbollah insieme a quelli di Hamas tornati recentemente a essere favoriti dagli ayatollah sciiti con finanziamenti generosi grazie al sollevamento delle sanzioni voluto da Barack Obama, "l'amico americano".
Come dovrebbe sparire per fare nascere un nuovo stato islamico per i tanti utili idioti occidentali anti-occidentali i quali tifano per regimi sanguinari, teocrazie, satrapie e dittature islamiche a nome delle "vittime" palestinesi.
La lettera inviata dal presidente della Federazione Internazionale di Judo alla Federazione di Judo degli Emirati Arabi Uniti in cui veniva chiesto che "tutte le delegazioni, inclusa quella israeliana, dovranno essere trattate assolutamente nello stesso modo sotto tutti gli aspetti, senza eccezione alcuna" e in cui veniva sottolineato il principio aureo di ogni disciplina sportiva secondo il quale, "ogni individuo deve avere la possibilità di praticare lo sport senza soffrire alcun tipo di discriminazione", ha avuto la risposta che si è vista.
E mentre in Italia allo stadio un gruppo di trogloditi laziali ha fatto uso dell'immagine di Anna Frank per dileggiarne la memoria (prassi in voga da molto tempo a questa parte e per cui ci si indigna solo a intermittenza, quando accade), ad Abu Dhabi, due giovani atleti israeliani vengono discriminati in quanto israeliani.
Che sia arabo, musulmano o occidentale, il dileggio contro gli ebrei o la discriminazione e la negazione di Israele, della sua legittimità, della sua esistenza, si tratta di un unico fenomeno dai vari aspetti radicato nell'ignoranza, nell'odio e nel rifiuto, il cui obbiettivo è sempre lo stesso, la delegittimazione e la criminalizzazione.
"Sono il più orgoglioso del mondo nell'essere israeliano" ha detto il giovane Tal, "Tutto il mondo sa che veniamo da Israele, sa chi rappresentiamo. Il fatto che abbiano nascosto la nostra bandiera è solo una chiazza su di essa".
L'orgoglio di Tal è quello di chi sa di appartenere all'unica democrazia del Medioriente, è quello di chi sa che in Israele e solo in Israele sono garantiti pienamente quei diritti e quella legittimità per ogni tipo di diversità, confessione religiosa e appartenenza etnica, che tutt'intorno ad esso sono violati sistematicamente.
La chiazza sulla bandiera israeliana di cui parla è infatti quella della barbarie e dell'oscurantismo contro cui Israele si oppone fin dalla sua nascita.

(L'informale, 27 ottobre 2017)


Diamo a Tal e a Israele l'onore che meritano!


Gli israeliani sono discriminati dall'Onu

Lettera a "La Verità"

Temo che la maggioranza degli italiani. e non solo gli ultrà della Lazio e purtroppo anche di altre squadre. non sappia chi sia veramente e cosa rappresenti Anna Frank, mentre, contemporaneamente la stessa maggioranza assorbe di sicuro i sentimenti del clima di anti ebraismo che si propaga continuamente da tutti i media (e purtroppo, anche da alcune cattedre): c'è chi sostiene che gli israeliani sono i nazisti del XX (o XXI) secolo, sono gli oppressori dei palestinesi, praticano il terrorismo di Stato, sono gli artefici di massacri di innocenti, meritano il boicottaggio economico e culturale da parte dei Paesi occidentali, è giusto che siano discriminati e insultati dall'Onu e dai suoi vari organismi. Sono ipocriti che non hanno imparato la lezione della storia che essi sì ben conoscono, ma che fingono di ignorare per restare nel gregge o per meschini interessi ideologici.
Enrico Venturoli Roma

(La Verità, 28 ottobre 2017)


Israele-Palestina: Forza Italia attacca il convegno del Miur

PISTOIA - Dura la reazione dei Consiglieri Comunali di Forza Italia, dei vertici provinciali e comunali del partito, nei confronti del convegno promosso da alcune organizzazioni che accostano la questione israeliano-palestinese, al fenomeno del colonialismo.
Non è proprio accettabile vedere il logo di "Pistoia Capitale della Cultura", abbinato alla celebrazione di un convegno che dovrebbe consentire, come di fatto recita il manifesto, ai partecipanti di acquisire "crediti formativi", ex L107/15.
La cultura - sostengono gli esponenti pistoiesi di Forza Italia - da sempre ha un ruolo strategico e fondamentale per abbattere i pregiudizi e favorire il dialogo, ma in questa occasione, alcuni soggetti che teorizzano il concetto "Boicottare Israele", sotto l'egida del MIUR, non fanno cultura. Piuttosto, appare sicuramente ed evidente la strumentalizzazione di un logo, per dare una parvenza scientifica a pregiudizi che sposano una posizione in totale distonia con la ricerca del dialogo e della Pace fra Popoli martoriati dalla violenza.
Israele e la Palestina sono due realtà che non hanno niente a che fare con le guerre coloniali, ci domandiamo a che scopo questo momento di formazione, e quali contenuti potranno insegnare alle nuove generazioni dei docenti, senza che abbiano la possibilità di conoscere le opinioni degli esponenti della Comunità Ebraica? Venire "formati" partendo da presupposti e paragoni che non hanno alcun fondamento, davvero è parte dei processi formativi di un docente?
La giusta indignazione che ha riguardato l'uso, diciamolo, fuori luogo e "sciagurato" delle immagini di Anna Frank, da parte degli ultras di una squadra di calcio, non è proprio paragonabile allo sconcerto che provoca questo accostamento, evidentemente avallato dal MIUR, che con l'uso del logo di Pistoia Capitale della Cultura, traccia un ambiguo corso al quale è persino riconosciuta la valenza di formare docenti.
Forza Italia Pistoia e Provincia, prende le distanze da tutto ciò, con il sentimento che accomuna ed evidenzia da sempre il nostro percorso politico, quello del rispetto per le comunità ebraiche, garantendone quantomeno la rappresentanza per un contraddittorio.

(Stamp Toscana, 28 ottobre 2017)


L’uso del termine “coloni”



Deserti d'Occidente

Intervista allo scrittore algerino Boualem Sansal: "Arrivano le moschee e scompaiono i simboli ebraici e cristiani. L'islamizzazione dell'Europa è rapida e agisce in profondità".

di Giulio Meotti

Il primo matrimonio devastato dagli islamisti, le lettere di minacce, il licenziamento e l'inizio di una carriera letteraria fulminante "Gli islamisti vedono che i politicamente corretti prosciugano il dibattito, lasciando loro libertà di intimidire e attaccare"
"Ora che l'Isis è in crisi, daremo le caramelle all'islam come si fa con i bambini per calmarli. L'Europa non sarà più europea" "Nella globalizzazione che uniforma tutto e tutti, solo l'islam offre un progetto globale di potere e paradiso"

Boualem Sansal aveva previsto la fine fisica dello Stato islamico in un'intervista al Point del novembre 2015: "Vedremo la fine di Daesh, ma non sarà la fine dell'islamismo. L'islamismo è molto intelligente, molto attivo. Quando il Gia (Gruppo islamico algerino, ndr) è stato sradicato, quello che lo ha sostituito è stato peggiore di ogni altra cosa. Questo islam ci porta a un collasso morale". Due anni dopo, lo Stato islamico sta effettivamente crollando, con la perdita prima di Mosul, in Iraq, e pochi giorni fa di Raqqa, in Siria.
   Di Sansal esce in questi giorni in Francia un nuovo libro, un saggio, "L'Impossible Paix en Méditerranée", costruito su un dialogo con lo psichiatra Boris Cyrulnik. Gran Premio dell'Accademia di Francia per il romanzo-evento del 2015, "2084" (Gallimard, in italiano per Neri Pozza), Sansal vi immagina l'Abistan, una dittatura religiosa panislamica che ha risucchiato il vecchio mondo (la lingua, i libri, la storia, i musei, le posate, i vestiti, il cibo) e organizzato quello nuovo intorno alla fede, alla preghiera, ai pellegrinaggi. Nell'Abistan si omaggia un dio crudele chiamato Yolah. Un territorio chiuso nato da una "Grande guerra santa" dove i "commissari della fede" sovrintendono alla popolazione. Un funzionario, Ati, scopre un "ghetto" sotterraneo popolato da persone che non credono a Yolah. Il riferimento a "1984" di George Orwell non è casuale. Sansal collega l'islamismo alla grande famiglia del totalitarismo. Il mondo islamista è giovane, brulicante, aggressivo, mentre l'altro è amorfo e invecchiato. Una parodia del Califfato: la lingua araba sovraccarica di pietà, un "canto siderale e incantatore" che non lascia altra scelta che la sottomissione, la falsificazione della storia, il martirio onnipresente, un potere religioso che ha trasformato paesi interi in enclave di moribondi, dove nulla può accadere perché tutto è stato già vietato.
   Sansal da allora ha compiuto una clamorosa ascesa al vertice delle lettere parigine e continua a scuotere la cultura europea dalla sua casa a Boumerdes, una cinquantina di chilometri da Algeri. Quando si parla di lui sui giornali, Sansal riceve tre o quattro minacce al giorno, per un mese, giusto il tempo che la stampa algerina si occupi di lui. "Ti faremo la pelle", "torna dai francesi", "sporchi la terra dei martiri", "non meriti di vivere". E naturalmente "sporco ebreo." Nelle buste basta scrivere "Boualem Sansal, Boumerdes". L'ufficio postale sa dove recapitarle.
   Sansal si trasferì a Boumerdes nel 1972, quando era un giovane ingegnere che si era laureato al Politecnico di Algeri. Era una città universitaria, dedicata alla conoscenza e alla scienza, che aveva quindici istituti di ricerca che operavano in collaborazione con le università francesi, americane, canadesi e russe. L'Algeria aveva finanziato quel sistema costoso e all'avanguardia grazie ai ricavi petroliferi. Quando il prezzo del barile è crollato nel 1986, il paese ha rotto le relazioni con l'occidente e Boumerdès si è svuotata. Per sostituire gli insegnanti, il regime ha portato gente da Libano, Iraq, Siria. Questi paesi hanno avuto l'opportunità di sbarazzarsi dei loro islamisti. Il livello scientifico e culturale a Boumerdes allora è crollato.
   Nel giugno del 1972, Sansal trascorse quindici giorni a Praga, durante un programma di scambi accademici. Lì conobbe Anicka, studentessa ceca in Antropologia. Nel 1974 si sposarono a Boumerdes. Due anni dopo nacque Nanny. Un giorno Sansal va a prenderla a scuola, e non la trova. La ragazzina era finita in un programma di islamizzazione istituito per i figli nati da coppie miste e che andavano "riportate ad Allah". Sansal manda la famiglia a Praga. Ma il suo matrimonio non sopravvive. Scriverà così in uno dei suoi romanzi: "La mia vita personale e quella della mia famiglia sono state devastate dagli islamisti". All'inizio degli anni Ottanta c'era solo una moschea a Boumerdes, un vecchio edificio ottomano in grado di ospitare mille persone. Oggi ce ne sono quindici. Sono gigantesche, attrezzate, mentre la città si sta disintegrando. Negli anni Novanta, Sansal entra al ministero del Commercio, poi al ministero dell'Industria, come direttore generale dell'Industria e della Ristrutturazione. Nel frattempo, la guerra tra l'esercito e gli islamisti insanguina il paese. Le ragazze vengono rapite, i bambini tagliati a pezzi, migliaia i morti. Nel 1996, Algeri era come Kobane. Gli islamisti erano a pochi chilometri a sud della capitale. Intellettuali, artisti, giornalisti vengono uccisi a centinaia, come lo scrittore Tahar Djaout, che era solito dire: "Se parli, muori; se non parli, morirai. Quindi parla e muori".
   Nel dicembre del 1998, Sansal spedisce "Il giuramento dei barbari" a Gallimard, l'unico editore di cui conosce l'indirizzo. Il successo letterario lo spinge a parlare. Attacca tutti, indiscriminatamente: Bouteflika, gli imam, gli intellettuali. Nel 2003, su ordine di Bouteflika, Sansal viene licenziato. Nel 2012 lo scandalo, quando Sansal viene invitato alla Fiera del libro di Gerusalemme. Al rientro, la stampa si scatena contro il "traditore" venduto alla "lobby sionista". Lui risponde così: "Sono andato a Gerusalemme ... e sono tornato felice". La sua seconda moglie Naziha, che insegna matematica, viene accusata dai genitori degli alunni di "contaminare" i bambini con il suo "ebraismo". E' costretta a dimettersi.
   In una intervista al Figaro la scorsa settimana, Sansal ha detto che gli islamisti sono molto soddisfatti, nonostante la caduta di Raqqa: "E' il loro discorso, sono molto ottimisti, le cose stanno andando esattamente come progettate o pianificate" racconta adesso Sansal al Foglio. "Vedono che sempre più europei di confessione musulmana si riconoscono prima come musulmani che come europei. Scoprono che sono sempre più disposti a mostrare i segni dell'islam (vestiti, comportamenti), scoprono che le moschee sono piene, che i giovani musulmani sono molto motivati, che le conversioni si moltiplicano. Finalmente vedono che i cristiani e gli ebrei hanno paura, che sono sempre più concilianti, che i politicamente corretti finiscono per asciugare il dibattito, lasciando sempre più libertà di parola solo agli islamisti che non esitano a criticare, minacciare, insultare. Sanno anche che gli attacchi si moltiplicheranno e che paralizzeranno l'Europa che sarà pronta a fare tutte le concessioni".
   Uno studio dalla Fondazione per l'innovazione politica, pubblicato nel mese di settembre, ha quantificato la violenza antisemita in Francia. Ci sono stati 4.092 attacchi nel periodo 2005-2015, con il sessanta per cento degli ebrei che oggi afferma di essere "preoccupato di essere attaccato fisicamente in strada in quanto ebrei".
   Ma per accelerare questo processo, gli islamisti secondo Boualem Sansal hanno bisogno di destabilizzare l'Europa con l'immigrazione di massa. "L'Europa è stata dichiarata 'terra di jihad' come nel XII secolo, quando Papa Urbano II lanciò la 'chiamata alla crociata' dichiarando così la Palestina, 'terra delle crociate'", continua Sansal al Foglio. "In tutte le comunità musulmane nel mondo, ci sono molti giovani che sognano di venire a fare il jihad in Europa, secondo l'appello lanciato da al Qaeda, Isis, Fratelli musulmani e le grandi autorità religiose di al Azhar, il Qatar, ecc. Il movimento sta accelerando perché l'Isis è finito e i giovani non possono andare là. Sognano di vendicarsi di Daesh e costringere gli europei a non sostenere più i regimi arabi che combattono Daesh (Siria, Iraq ...), per loro si impone di combattere per l'islam".
   Ma qui sorge un paradosso. "Quando l'Isis sarà finito, gli europei saranno così sollevati che si faranno 'belli' con l'islam e l'islamismo, credendo che incoraggeranno i giovani islamisti a diventare 'saggi'" prosegue Sansa! al Foglio. "Noi daremo loro dei vantaggi, così come diamo le caramelle ai bambini per calmarli. Lo vidi in Algeria: quando il governo ha battuto i terroristi del Gia, ha dato tutto ai moderati musulmani, che hanno sfruttato al meglio, hanno costruito migliaia di moschee, creato migliaia di associazioni per islamizzare la società, fatto affari, occupato il campo. Il risultato è che il numero di islamisti radicali sta aumentando piuttosto che diminuire".
   Alla Fiera di Francoforte, un anno fa, lei ha detto che c'è un'evangelizzazione islamica in Europa. "Sì, l'islamizzazione dell'Europa avanza molto fortemente. A questo ritmo, in pochi anni, l'Europa perderà il suo carattere tipicamente europeo e assomiglierà a qualsiasi altro paese musulmano. Va notato che nei paesi musulmani attorno al Mediterraneo, l'islamizzazione continua a progredire molto rapidamente, influenzando l'Europa in direzione dell'islamizzazione e della radicalizzazione dei giovani".
   Quali sono i segni visibili di questa evangelizzazione? "Si tratta dell'abbigliamento islamico, delle moschee che si moltiplicano, della scomparsa dei simboli cristiani ed ebraici (croce, kippa), della chiusura di negozi nei quartieri controllati dagli islamisti (bar, sexy shop, sale da ballo, cinema ... ). La minaccia degli attacchi diventerà così forte e convincente che le persone adotteranno naturalmente gli atteggiamenti sottomessi, faranno quello che gli islamisti gli ordineranno di fare. Oltre alla donna, che è un obiettivo privilegiato dell'islamizzazione, oggi i bambini sono sempre presi di mira attraverso scuole, club sportivi, siti web per i giovani".
   Lei ritiene che il destino dell'Europa sia legato al Mediterraneo? "Il Mediterraneo meridionale peserà enormemente nell'evoluzione dell'Europa, l'islamismo, gli attacchi, l'emigrazione illegale, la formazione di reti che indeboliranno le società e i governi. E' molto importante rafforzare la cooperazione tra le due rive per liberare il Mediterraneo dalle reti islamiche, dai trafficanti e dai contrabbandieri".
   Questa islamizzazione è favorita dal vuoto culturale occidentale? "Il deserto culturale è un problema globale, colpisce tutti i paesi. La globalizzazione ha distrutto la base culturale che ha fatto le nazioni e ha stabilito uno standard universale in cui tutti mangiamo lo stesso cibo, tutti assumiamo gli stessi medicinali e tutti consumiamo gli stessi prodotti culturali, in Europa, in America, in Cina o in Africa. Oggi solo l'islam offre un progetto globale, politico, religioso, culturale, che promette il potere e il paradiso. Seduce non solo musulmani, ma tutti coloro che si sentono esclusi".
   Ha paura per la sua Francia, la sua seconda patria? "La Francia sembra essere il paese europeo più colpito da questo crollo. Le idee ultra-liberal di Macron e la sua totale mancanza di interesse per la questione culturale la aggravano certamente e conducono questo paese a maggiori fratture, di cui beneficeranno gli islamisti e l'estrema destra. Le aspirazioni all'autonomia (in Italia), all'indipendenza (Catalogna, Fiandre ...) dimostrano che le persone aspirano ad un rinnovamento nazionale".
   L'occidente appare stanco, annoiato. "L'occidente, e soprattutto l'Europa, è bloccato in un mondo sempre più sterile e ha solo i piaceri del consumo da offrire ai popoli. Le conseguenze sono già catastrofiche a tutti i livelli: una sorta di mummificazione affiorerà nella società se non ritrova rapidamente la capacità di sognare, di innovare, di rivoltarsi, di combattere".

(Il Foglio, 28 ottobre 2017)


Israele, le prime immagini della torre solare più alta al mondo

 
Immagini della centrale solare nel Negev
L'impianto, secondo il progetto iniziale, entrerà in funzione nel 2018 e darà elettricità a 130mila abitazioni
È ormai a buon punto in Israele la costruzione della centrale solare a concentrazione con la torre solare più alta al mondo. L'impianto, secondo il progetto iniziale, entrerà in funzione nel 2018 e darà elettricità a 130mila abitazioni.
La centrale solare è situata nel deserto del Negev, ad Ashalim e sarà alimentata da 50.600 pannelli solari, disposti su una superficie di 3 chilometri quadrati intorno a una torre alta 250 metri, la più alta mai costruita nel mondo fino a oggi.
Si tratta in realtà di una tecnologia più costosa rispetto al fotovoltaico ma che garantisce un flusso continuo di elettricità, anche quando non c'è il sole. Questa in Israele non è l'unica nel suo genere: infatti sono già in funzione impianti che usano la tecnologia del solare a concentrazione, ma nessuno ha una torre così elevata e questo è dovuto al fatto che l'area su cui sono installati gli eliostati è relativamente ridotta. E proprio per questo motivo è stato necessario alzare l'altezza della torre.
Oltre al solare termico a concentrazione, è prevista in questa centrale un'area che fungerà da stoccaggio dell'energia solare prodotta per renderla disponibile nel momento in cui il sole non ci sarà. Una terza zona sarà invece completata con pannelli solari fotovoltaici tradizionali.
L'Agenzia elettrica di Israele ritiene che, quando la centrale entrerà in funzione, produrrà 310 megawatt pari all'1,6 per cento della domanda energetica del Paese, abbastanza per dare energia al 5 per cento dei cittadini.

(L’Indro, 27 ottobre 2017)


Ministro israeliano: pronti ad usare la forza per impedire all'Iran di acquisire il nucleare

GERUSALEMME - Il ministro dell'Intelligence israeliano Yisrael Katz ha dichiarato che lo Stato ebraico è disposto ad usare la forza militare per impedire all'Iran di sviluppare armi nucleari. L'esponente del partito Likud, parlando da Tokyo, ha dichiarato che Israele ha sperato che la decisione del presidente statunitense Donald Trump del 13 ottobre scorso di non ri-certificare la conformità dell'Iran al piano comune di azione globale (Jcpoa) del 2015 avrebbe portato alla rinegoziazione dell'accordo. "Se gli sforzi internazionali portati avanti in questi giorni dal presidente Usa Trump non aiuteranno a fermare l'Iran dal conseguire capacità nucleari, Israele agirà da solo per via militare", ha detto Katz. "Ci sono cambiamenti che possono essere fatti (all'accordo) per garantire che non avranno mai la possibilità di avere un'arma nucleare", ha aggiunto il ministro. Katz ha inoltre discusso gli sforzi di Israele per aiutare il presidente Trump a rinegoziare il Jcpoa, inclusi i suoi recenti colloqui con il governo giapponese, durante i quali ha invitato l'esecutivo di Tokyo a prendere una posizione stabile contro il programma nucleare iraniano. "Ho chiesto al governo giapponese di sostenere i passi condotti dal presidente Trump per cambiare l'accordo sul nucleare. La questione se le aziende giapponesi inizieranno a lavorare in Iran o meno è una questione molto importante", ha concluso Katz.

(Agenzia Nova, 27 ottobre 2017)


Israele: un piccolo paese ma con grandi relazioni diplomatiche

Lo Stato ebraico sta tessendo una fitta rete di relazioni e di accordi commerciali. Dall'Africa all'Asia tutti vogliono la tecnologia 'Made in lsrael'.

di Mario Del Monte

C'era una volta Israele, il paese più odiato da tutto il mondo. Causa di tutti i mali, patria di guerrafondai e incapace di intessere relazioni amichevoli con nazioni diverse dagli Stati Uniti. C'era: perché i fatti dimostrano che questa percezione dello Stato Ebraico sta via via scomparendo.
   Nonostante le batoste subite all'ONU e, in particolar modo, all'UNESCO, Israele nel biennio 2015-2017 ha registrato un successo dopo l'altro in campo diplomatico migliorando la sua reputazione sulla scena internazionale. Lo scoglio maggiore resta l'Unione Europea con cui i rapporti si sono incrinati in maniera quasi irreversibile. Israele ha preferito coltivare buoni rapporti con i singoli Stati bypassando l'Alto rappresentante dell'Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini. E' il caso, ad esempio della Repubblica Ceca e della Germania che hanno presentato nei rispettivi Parlamenti risoluzioni condannanti la negazione del legame fra Israele, Gerusalemme ed il popolo ebraico e l'odiosa campagna antisemita del movimento BDS. Persino la Danimarca e la Norvegia, due dei paesi europei che più hanno appoggiato la causa palestinese, hanno interrotto i loro finanziamenti alle ONG palestinesi e all'Autorità Nazionale Palestinese dopo aver scoperto che questi fondi venivano usati per glorificare il terrorismo e promuovere messaggi antisemiti. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l'azione di ONG israeliane come Palestinian Media Watch e NGO Monitor che dopo anni di sforzi sono riuscite a mettere con le spalle al muro governi che tendevano a chiudere un occhio di fronte a questi casi.
   Per quanto riguarda l'Italia l'ex Premier Renzi e un notevole numero di Ministri tra cui gli onorevoli Pinotti, Alfano e Giannini hanno rilasciato più volte dichiarazioni di condanna al movimento BDS e alla delegittimazione del legame fra ebraismo e Gerusalemme. Guardando oltre i confini europei la situazione è ancora più florida. I colossi Cina e India aumentano sempre di più il volume degli scambi commerciali con Israele, specialmente sotto il profilo degli apparati di sicurezza. La comparsa dell'ISIS con i suoi attentati terroristici ha fatto salire vorticosamente la richiesta di tecnologia israeliana per la sicurezza delle città, per quella informatica e per i dispositivi di sorveglianza più sofisticati. Una rara ammissione di incoerenza per molti Stati, anche europei, che hanno lasciato cadere improvvisamente le loro richieste in nome di una pace con i palestinesi per occuparsi di faccende più urgenti.
   Dove però Israele sta macinando sempre più successi diplomatici è l'Africa. Molti paesi del continente africano hanno un disperato bisogno delle avanzate tecniche di desalinizzazione ed irrigamento che Israele può offrire ed alcuni hanno addirittura supportato la richiesta dello Stato Ebraico di diventare Stato Osservatore all'interno dell'Assemblea dell'Unione Africana. Un vero e proprio paradosso si è verificato a giugno 2017 quando i membri dell'ECOWAS, il forum economico dei maggiori paesi dell'Africa Occidentale, hanno preferito Netanyahu al Re del Marocco che aveva minacciato di non presenziare se il Primo Ministro israeliano fosse stato invitato. Per non parlare poi della decisione di tagliare i rapporti diplomatici con Nuova Zelanda e Senegal per il loro voto alla Risoluzione ONU 2334 del 2016 riguardante gli insediamenti israeliani in West Bank: entrambi i paesi hanno in seguito richiesto di riprendere urgentemente i rapporti diplomatici in cambio di voti favorevoli alle Nazioni Unite in futuro.
   C'era una volta Israele, un paese che avrebbe fatto di tutto per instaurare nuovi e proficui rapporti con gli altri Stati. Oggi Israele non solo non deve più chiedere, può anche contare sul fatto che sono le altre nazioni a voler beneficiare di ottime relazioni.

(Shalom, ottobre 2017)


Sanità, l'Italia guarda a Israele

 
MILANO - L'intreccio tra la sanità italiana e israeliana, le buone pratiche, le opportunità di studio e di lavoro, le collaborazioni nella ricerca e nell'innovazione tra i due paesi. Sono alcuni dei temi toccati dai diversi relatori dell'incontro "Sanità in Israele, ricerca, innovazione e solidarietà" andato in scena martedì scorso a Palazzo Reale, a Milano, e organizzato dalla locale Associazione Italia-Israele con la collaborazione dell'Associazione Medica Ebraica e degli Amici dell'Università di Gerusalemme. Molte le persone che hanno partecipato all'incontro, moderato dal vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giorgio Mortara, aperto dalla presentazione della professoressa Francesca Levi Schaffer, dal titolo "Tutto quello che volevate sapere sulle allergie ma non avete avuto il coraggio di chiedere". Tanti i relatori di primo piano intervenuti - presentati da Davide Fargion, presidente dell'Ame Milano, e da Baroukh Maurice Assael, direttore del Centro Fibrosi Cistica di Verona-, tra cui Joel Zlotogora, genetista dell'Hadassah Hospital, Itzhak Avital, direttore del centro tumori del Soroka Medical Center (Beer Sheva), Isaiah Wexler, direttore del centro malattie croniche, metaboliche e disordini alimentari nell'infanzia dell'Hadassah Hospital, Simone Botti, CEO Metabomed, e Maurizio Fornari, responsabile dell'Unità Operativa Neurochirurgia. A dare il saluto di benvenuto, il presidente dell'Associazione Italia Israele di Milano, Pier Francesco Fumagalli.
"Questa serata - ha spiegato Mortara - ha lo scopo di far conoscere ad un pubblico italiano un aspetto della realtà israeliana che spesso i media non diffondono. La sanità, l'aiuto a chi ha bisogno sono stati i mezzi con i quali si è riusciti a superare la barriere e le incomprensione politiche". Mortara ha anche ricordato "i progetti di collaborazione tra autorità palestinese istituzioni italiane e israeliane che hanno permesso la cura ed il trapianto di bimbi leucemici a Pesaro o gli interventi al cuore di cardiopatici in Veneto, poi seguiti da ospedali israeliani come pure le triangolazioni tra Hadassa, Gaza e organizzazioni internazionali per la cura di bimbi affetti da mucoviscidosi o l'assistenza offerta dagli ospedali israeliani ai feriti della spaventosa tragedia siriana".

(moked, 27 ottobre 2017)


Duecento rabbini in Sinagoga

Una visita tenuta segreta

I duecento rabbini nella Sinagoga di Casal Monferrato
Visita ad altissimo livello (quanto segreta per motivi di sicurezza) ieri giovedì, dalle 21 alle 23, in Sinagoga a Casale. Sono arrivati nel complesso israelitico di vicolo Olper duecento rabbini che stanno seguendo un congresso a Stresa. Gli studiosi provengono da Israele e da tutto il mondo.
Super scortati da piazza Castello si sono portati in vicolo Olper dove hanno visitato il tempio e alcuni (accompagnati da guide locali) il Museo Ebraico. E' seguito un momento di ricordo e preghiera con particolare interesse alla diaspora di origine europea.
Dice Elio Carmi, vice presidente della Comunità israelitica casalese: "Abbiamo tenuto la notizia riservata per motivi di sicurezza. Ora possiamo dire che l'arrivo degli studiosi non è che l'ultimo atto di una serie di richieste di visita a tutti i livelli, moltissime dall'estero, che ci rendono da una parte orgogliosi e dall'altra ci mettono un po in crisi; colgo l'occasione per lanciare un appello a partecipare al nostro corso di guide".

(Il Monferrato, 27 ottobre 2017)


Convegno di "studi" a Pistoia

Comunicato stampa

Il prossimo 27 ottobre si tiene a Pistoia un convegno (programma allegato) nel quale si pretende di trovare analogie tra il colonialismo fascista in Libia e gli insediamenti ebraici nella Palestina prima turca e poi sotto mandato inglese, insediamenti che trovavano la loro prima ragione di essere nei pogrom scatenati nell'Europa orientale. Quale sia il livello culturale degli organizzatori del convegno lo si può constatare anche dall'affermazione che il "colonialismo" israeliano inizierebbe nel 1895!
Ognuno è libero di coltivare la propria ideologia e la propria ignoranza come crede e non avremmo segnalato l'episodio se non fosse per il contesto in cui è inserito. Il convegno fa parte del programma ufficiale di "Pistoia capitale europea della cultura", come si può leggere nel sito internet della Regione Toscana; è ospitato in una biblioteca comunale; è promosso da un ente (Cesp) emanazione dei Cobas; e, soprattutto, ai partecipanti il Ministero dell'Istruzione rilascia l'attestato di frequenza e per il personale ispettivo, dirigente e docente è previsto l'esonero dal servizio. Davvero un bel contributo per la preparazione culturale dei docenti!
E' inutile e anche beffardo indignarsi tanto per l'episodio della maglia con l'immagine di Anna Frank se poi l'antisemitismo viene coltivato e diffuso con l'aiuto e la collaborazione di enti pubblici come il Ministero dell'Istruzione, la Regione Toscana, il Comune di Pistoia.
Valentino Baldacci
Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze

Invito

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 26 ottobre 2017)


«Israele come i coloni fascisti» È bufera sul convegno di Pistoia

L'incontro che dà crediti formativi ai docenti ha anche il logo di «capitale della cultura»

di Giorgio Bernardini

PISTOIA - Il logo di Pistoia capitale, i crediti formativi e la delicata questione israelo-palestinese. Un'interrogazione parlamentare e una fitta serie di incomprensioni fanno da sfondo all'iniziativa che questa mattina si tiene alla biblioteca San Giorgio: un dibattito che confronta «il colonialismo italiano» del periodo fascista con «quello israeliano in Palestina». Argomento forte nei giorni in cui l'antisemitismo è tornato al centro della cronaca, dopo che gli ultras laziali hanno usato l'immagine di Anna Frank come insulto scatenando una bufera. L'incontro, dunque, è chiaramente finito nell'occhio del ciclone, per il suo orientamento politico-culturale e per il significato istituzionale con cui è stato presentato.
   Nel volantino compare infatti il logo di «Pistoia capitale della cultura», crediti formativi vengono assegnati ai professori che parteciperanno alla lezione. Particolari che hanno fatto scattare l'indignazione del Foglio - che ieri ha anticipato la notizia - e quella del parlamentare di Forza Italia, Daniele Capezzone. Il deputato ha presentato un'interrogazione al ministero dell'Istruzione per sapere «come il Governo giustifichi un avallo ministeriale a una operazione culturale a giudizio dell'interrogante faziosa, di parte, a dir poco discutibile, certamente ostile allo Stato di Israele», oltre che «quali finanziamenti pubblici siano stati messi a disposizione dell'iniziativa».
   La questione del logo di «Pistoia capitale» si risolverebbe, sembra, in un circolo di incomprensioni. «L'iniziativa - spiega la direttrice della biblioteca, Maria Stella Rasetti - non rientra nel programma ufficiale di Pistoia capitale italiana della cultura, e difatti non è presente nel calendario pubblicato sul sito ufficiale. Ciò non toglie - aggiunge - che esso compaia nel calendario della biblioteca, che invece si fregia dell'uso del logo ufficiale». Il logo dunque è stato concesso per estensione. Ad usufruirne è stato il Centro documentale che organizza l'incontro, un'organizzazione che agisce nell'ambito di una convenzione con il Comune, che di questo incontro non sapeva nulla, al pari del Comitato organizzatore di Pistoia Capitale.
   «Il Comune - spiega lo stesso organizzatore dell'incontro, Carlo Dami - non c'entra. E non c'entra nemmeno Pistoia Capitale, di cui avremmo anche fatto a meno nell'intestazione del manifesto: il fatto è che tutti gli eventi della biblioteca in questo periodo lo riportano». Dami, peraltro, è anche il responsabile provinciale del Centro studi per la scuola pubblica, quello che decide se un incontro è meritevole d'assegnare crediti: «Siamo un ente riconosciuto dal ministero per la formazione dei docenti - spiega - ed io ritengo che la questione non sia affatto faziosa: rivendico la scelta, si parla di coloni in Cisgiordania appositamente, al di là di come può pensarla Capezzone».
   Il Miur replica dal suo ufficio stampa «che il rapporto con il centro studi è in corso di verifica», mentre il Comune non ha ancora incontrato il Centro documentale per verificare se la convenzione in scadenza a dicembre sarà rinnovata. All'incontro - che si terrà regolarmente stamani nell'auditorium intitolato a Terzani - si sono registrati circa 20 docenti.

(Corriere Fiorentino, 27 ottobre 2017)


Israele invita il Papa a dare il via del Giro. E l'arrivo sarà a Roma

Messaggio al Pontefice da Netanyahu in vista della corsa rosa che partirà da Gerusalemme

di Paolo Marabini

Papa Francesco benedice la maglia rosa
Quella di venerdì 4 maggio 2018 sarà una giornata memorabile per lo sport: il Giro d'Italia scatterà da Gerusalemme e, per la prima volta, lo Stato di Israele accoglierà la partenza di una grande corsa a tappe. Adesso lo storico evento si arricchisce di un ulteriore passo di grandissimo significato. Papa Francesco è stato infatti invitato a dare il via dell'edizione numero 101 della corsa Gazzetta. La notizia è stata rilanciata dal portale dell'ebraismo italiano www.moked.it e ha trovato conferma anche da parte di Paolo Bellino, direttore generale di Rcs Sport, e di Mauro Vegni, direttore del Giro, avvisati ieri dell'invito formalizzato ufficialmente al Pontefice da Sylvan Adams, presidente onorario del comitato Grande Partenza Israele.

 Simbolismo
  «Un messaggio del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu - si legge su Moked - è stato consegnato a Papa Francesco da Sylvan Adams, che ha invitato ufficialmente il Papa a dare il via alla prossima edizione della corsa rosa». «Il fatto che il Giro cominci a Gerusalemme e termini a Roma - scrive Netanyahu nella lettera al Papa (lasciandosi involontariamente scappare un'anticipazione, cioè la conclusione del Giro 2018 nella capitale) - assume uno speciale simbolismo riflesso nello storico documento "Tra Gerusalemme e Roma", una cui copia è stata presentata a Sua Santità il 31 agosto. Quest'evento, che è sostenuto dal Governo italiano sarà uno dei punti chiave dei festeggiamenti per il 70esimo anniversario della nascita dello Stato d'Israele ed è parte dei nostri sforzi congiunti di approfondire il dialogo interreligioso e di promuovere la pace». Nella lettera del premier Netanyahu consegnata da Adams a Francesco si chiede «la benedizione pubblica del Pontefice alla corsa».

 Benedizione
  Il Giro d'Italia e Papa Francesco si sono già «incontrati». Accadde quattro anni fa, su idea di Vittorio Adorni, quando in Vaticano il Pontefice benedisse la maglia rosa. Ma ci sono altri precedenti, ancor più vicini alla corsa rosa. Il 26 giugno 1946, Pio XII concesse alla carovana, guidata da Fausto Coppi e Gino Bartali, la prima udienza in Vaticano: «Andate, o prodi corridori della corsa terrena e della corsa eterna» augurò loro il Papa. Nel 1950, anno del Giubileo, il Giro scelse Roma come città d'arrivo. E lo stesso Pio XII, il 14 giugno, si complimentò personalmente con i protagonisti: con lo svizzero Hugo Koblet, calvinista, primo straniero a vincere il Giro, e con il pio Gino Bartali, fervente cattolico, secondo classificato. Il Giro si è anche listato a lutto: successe il 4 giugno 1963, all'indomani della morte di Giovanni XXIII. E, l'anno dopo, il suo successore, Paolo VI, prima della partenza della 15esima tappa rivolse ai "girini" toccanti parole di incoraggiamento: «Lo sport è un simbolo di una realtà spirituale, che costituisce la trama nascosta, ma essenziale, della nostra vita». Dieci anni dopo lo stesso Paolo VI volle di nuovo dare la benedizione alla grande famiglia del Giro. E il 12 maggio 2000, alla vigilia della partenza dell'83' edizione, toccò a Karol Wojtyla accogliere in udienza speciale in Vaticano i più grandi campioni del pedale (e non solo): da Fiorenzo Magni ad Ercole Baldini, da Charly Gaul a Vittorio Adorni, da Felice Gimondi a Eddy Merckx, da Mario Cipollini a Marco Pantani.
Chissà se Francesco raccoglierà ora l'invito israeliano. Sarebbe un'altra pagina speciale nella storia del Giro.

(La Gazzetta dello Sport, 27 ottobre 2017)


E il giro d'Italia andrà a farsi benedire?


La vera storia degli ebrei che sconfissero Hitler

Figli di scampati all'Olocausto e arruolati da Roosevelt, divennero agenti segreti furbi e spietati. I «Richie Boys», tedescofoni e imbattibili nei travestimenti, erano il corpo speciale che umiliò l'Asse.

di Beppe Braga

Troppo fuori mano per essere riciclato in qualche funzione militare, oggi Fort Ritchie, un campo di addestramento costruito nel 1926 ai piedi delle pittoresche montagne del Maryland e dismesso definitivamente vent'anni fa, ha trecento abitanti e aiuole fiorite, 98 baracche ristrutturate in appartamenti in affitto, e si mantiene ospitando feste di matrimonio e altri eventi insignificanti. Negli ultimi settant'anni nessuno si è interessato della sua storia, e se non fosse stato per il giornalista e scrittore californiano Bruce Henderson, non sapremmo niente di una delle più straordinarie vicende umane della Seconda guerra mondiale.
   Fort Ritchie, racconta Henderson nel docu-romanzo Fratelli e Soldati (Newton Compton, 383 pagine, 10 euro) è stato la culla, dal 1942 a fine conflitto, di uno dei più determinati, fantasiosi e efficaci gruppi di soldati americani destinati a combattere in Europa: poco meno di duemila ebrei tedeschi, fuggiti oltreoceano dalla Germania nazista da metà anni Trenta, spesso in maniera rocambolesca, per lo più lasciando le famiglie in patria, e già arruolati nell'esercito Usa, che per otto settimane (31 corsi in tre anni) furono addestrati come corpo speciale agli ordini dell'intelligence. Vennero sparpagliati nei battaglioni destinati alla prima linea, mischiati agli altri soldati nelle operazioni più sanguinose e decisive della guerra di liberazione, paracadutati sulla Francia durante lo sbarco in Normandia, nel mezzo della battaglia delle Ardenne e su tutti i fronti di sfondamento, fino a un traumatico ingresso nei lager tedeschi (nel libro è descritta la drammatica scoperta del "campo di collegamento" di Wobbelin ). La loro storia fa pensare subito alla trama del film Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Il compito di questo gruppo era di raccogliere informazioni tattiche sulle forze tedesche, sui movimenti delle truppe, sulle postazioni difensive e sul morale del nemico, correndo ogni volta rischi mortali: anche se molti di essi ricevettero documenti che omettevano la loro origine ebraica (alcuni, per orgoglio, si rifiutarono), se fossero caduti in mano nemica certamente sarebbero stati passati per le armi.
   Ma, soprattutto, erano dei veri specialisti nello spremere i prigionieri. I Ritchie boys, così vennero chiamati, erano di madrelingua tedesca, motivati come nessun altro americano avrebbe potuto essere, animati da patriottismo e desiderio di vendetta, e più intelligenti che sanguinari.
   Ma non fu un'operazione semplice, a partire dagli umori nella loro patria adottiva: in un clima di caccia alle streghe, che aveva colpito anche più aspramente i giapponesi, nel dicembre 1941 i tedeschi residenti negli Usa erano stati dichiarati «stranieri nemici», non importava che fossero giovani gagliardi ormai integrati negli Stati Uniti, guidati dall'educazione ricevuta nel Vecchio mondo all'orgoglio e all'etica del lavoro. Guardati con sospetto anche quando il Congresso consentì loro di prestare servizio militare, ci volle quasi un anno perché Roosevelt e il Pentagono capissero quale formidabile risorsa fossero. Così, poco dopo il loro arrivo al forte, nel Maryland si diffuse la voce che i nazisti avevano invaso l' America, quando due operai si intrufolarono ai confini del campo top secret e videro un plotone marciare obbedendo a comandi impartiti in tedesco: «Licht, zwei, drei!» ...
   Secondo un rapporto rimasto riservato fino a pochi anni fa, il 60 per cento delle informazioni attendibili sul nemico furono ottenute dai Ritchie boys. I quali, per raggiungere lo scopo, non ebbero scrupolo di utilizzare ogni sorta di trucco. Ecco due episodi.
   Guy Stern era a capo di una squadra di boys. Aveva capito che i tedeschi temevano di più di finire nelle mani dei russi - e di essere spediti in un gulag, di cui si dicevano terribili cose - che in quelle degli americani. Così, per interrogare alcuni ufficiali nazisti particolarmente reticenti, Stern fece allestire una tenda "alla russa", prendendo a prestito le divise di alcuni soldati sovietici appena sfuggiti alla Wehrmacht e spille, insegne, gradi e altri trofei di guerra con falce e martello recuperati via via dalle tasche dei tedeschi imprigionati. I boys inventarono quindi il personaggio del Commissario Krukov Ufficiale di Collegamento, ispirandosi al "russo matto" di uno show radiofonico americano, che Guy ascoltava ogni sera a casa dei suoi zii a St. Louis, e inscenarono violentissimi siparietti in cui il russo matto perdeva sistematicamente il controllo. Minacciati di essere mandati al cospetto di Krukov, i prigionieri, terrorizzati, dissero tutto.
   In un'altra occasione, il Ritchie boy Stephan Levy aveva a che fare con un ufficiale delle SS che rifiutava di dire altro tranne il suo nome e il suo grado. Esausto, Lewy prese una pala e ordinò al prigioniero di seguirlo all'esterno della tenda. Gettò la pala al suolo, gli puntò in faccia la sua colt 45 e gli ordinò: «Ein Loch graben», fai una buca. Poi la volle più larga e profonda, infine ordinò al tedesco di sdraiarvisi dentro per controllarne le misure. Infine Lewy lo fece uscire, lasciò che si ripulisse, gli porse due asticelle di legno e gli disse di scrivere il suo nome e il suo grado su una delle due, per la croce da mettere sulla sua tomba. Il tedesco crollò. In seguito, Stephan confessò di essersi pentito: maltrattare un prigioniero era un reato da corte marziale, ma soprattutto perché aveva consentito alla sua rabbia di prendere il sopravvento.
   La fantasia con cui i Ritchie boys costruirono il loro successo bellico rischiò anche di combinare pasticci: un giorno, in calce al suo rapporto quotidiano, il Ritchie boy Fred Howard si inventò di aver catturato tale caporale Joachimstatler, attendente responsabile della latrina di Hitler, il quale aveva confessato di aver avuto modo di osservare che «il Führer ha lo scroto avvizzito». Tutti sapevano che si trattava di una burla, e perfino da vari quartier generali arrivarono divertite chiamate di approvazione. Ma la faccenda arrivò a Washington, e lì non capirono: così, gli alti ufficiali del comando europeo dovettero faticare per evitare che un «esperto di Hitler» venisse prontamente inviato loro dagli Stati Uniti.
   In quanto membri dell'intelligence militare, i Ritchie boys mantennero il riserbo sulle loro imprese anche dopo la fine del conflitto, e furono sempre poco inclini anche a riunirsi fra loro. Il silenzio e il pregiudizio, quindi, li ha accompagnati comunque, almeno fino alla pubblicazione di questo libro. È una storia bellissima e importante che tutti faremmo bene a leggere, inclusi i numeri uno dell'Unesco, benemeriti devoti alla tutela dei valori umani che però hanno in grande antipatia Israele: di recente hanno promulgato una risoluzione in cui si nega perfino il legame storico e religioso dei discendenti di re Salomone con Gerusalemme.

(Libero, 27 ottobre 2017)


Abu Dhabi Judo Grand Slam: medaglia d'oro per Israele

Nella categoria uomini -66 kg, a sbaragliare la concorrenza è l'israeliano Tal Flicker, nuovo numero 1 al mondo, bravo a superare le resistenze dell'azero Shikhalizada, argento.
Terza piazza per il russo Abdulzhalilov ed il georgiano Margvelashvili.

(euronews, 27 ottobre 2017)


La giusta celebrazione di Balfour

Se c'è qualcosa che ci ha insegnato la storia del XX secolo è che il vero crimine non fu promulgare la Dichiarazione Balfour, ma ritardarne troppo l'attuazione.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si recherà a Londra ai primi di novembre per partecipare alle cerimonie che commemorano il centenario della Dichiarazione Balfour. Ci si augura che gli eventi riflettano la cruciale importanza della Dichiarazione Balfour come primo significativo successo diplomatico del movimento sionista nella sua campagna per assicurarsi il riconoscimento internazionale del diritto del popolo ebraico a costituire uno stato nella sua patria storica.
Purtroppo molti (alcuni anche in Israele) screditano la Dichiarazione di Balfour dipingendola come un documento per nulla fondamentale nella storia della creazione di Israele, mentre altri lo considerano addirittura una manifestazione della perfidia del colonialismo britannico nonché causa di un'ingiustizia permanente nei confronti dei palestinesi, per la quale gli inglesi non dovrebbero celebrare bensì scusarsi ufficialmente....

(israele.net, 27 ottobre 2017)


Il Prorettore dell'Università di Palermo riceve l'Ambasciatore di Israele in Italia

 
Il Prorettore Vicario Fabio Mazzola e l'Ambasciatore di Israele in Italia Ofer Sachs
Cordiale incontro istituzionale allo Steri, tra il Prorettore Vicario Fabio Mazzola e l'Ambasciatore di Israele in Italia Ofer Sachs. L'incontro fa seguito al precedente workshop organizzato con l'Ambasciata d'Israele lo scorso 16 ottobre sul tema "Innovation, Ecosystem and Tech -Entrepreneurship in Israel. All'incontro aperto dai saluti istituzionali del Prorettore Vicario Fabio Mazzola, e del Presidente della Scuola Politecnica, Maurizio Carta, erano intervenuti Rafi Erdreich, Ministro Consigliere e responsabile per gli Affari Pubblici dell'Ambasciata di Israele in Italia, Anya Eldan, Vicepresidente della Autorità per l'innovazione di Israele, Rafi Nave, Direttore del Centro Bronica per l'imprenditorialità del Technion di Haifa, e i professori Umberto La Commare, presidente di Arca e, Marcantonio Ruisi, delegato per gli spin-off e le startup innovative. Nell'incontro con l'Ambasciatore si è discusso delle iniziative di cooperazione tra Unipa e l'ecosistema innovativo israeliano, con particolare riferimento alla partecipazione a call per finanziamenti di progetti di ricerca a valere sul fondo per l'accordo bilaterale di cooperazione scientifica, tecnologica ed industriale. In tal senso le linee di collaborazione tracciate nell'incontro del 16 ottobre potranno essere sviluppate, nei mesi a seguire, attraverso tavoli tecnici dedicati.

(Università degli Studi di Palermo, 27 ottobre 2017)


Perché l'Unesco sbaglia su Gerusalemme

È stato un errore definire soltanto in termini arabi i luoghi sacri per ebrei e cristiani. La complessità della Terra santa deve essere rispettata persino negli equilibri verbali.

di Alberto Melloni

Con una iniziativa senza precedenti la scorsa settimana quindici cattedre Unesco hanno promosso un incontro sul tema del nome dei luoghi santi di Gerusalemme nella città santa. E hanno garbatamente rimproverato all' agenzia dell'educazione scienza e cultura di aver agito senza ascoltare educazione, scienza e cultura quando, fra il 2006 e il 2016 ha preso decisioni di una sbalorditiva superficialità sulla città santa delle fedi abramitiche. In quel lasso di tempo, con una escalation non casuale, quei siti sono stati definiti in termini unicamente arabo-islamici, evocandone la denominazione, "l'autenticità", "la santità" e la funzione di sede di "adorazione". Così da far passare la presenza dei cristiani come decorativa e quella israeliana come sacrilega. La querelle è stata lunga e ha suscitato reazioni molteplici. L'America di Trump ha prima protestato, poi annunciato il suo ritiro dall'Unesco, ripetendo un errore di Reagan che si fonda, al di là dei pretesti e delle implicazioni economiche, nella logica conflittuale e anti-multilaterale che gli rimproverano sia Bush che Obama. Israele ha improvvisamente cambiato linea: mentre a maggio Netanyahu intestava al suo Paese il merito di aver assottigliato il numero dei paesi favorevoli a quei gesti incendiari, adesso ha anch'esso disposto l'uscita di Israele; in ragione di sentimento antiebraico e anti-israeliano, che all'Unesco c'è ed è corposo - ma che non ha impedito l'elezione a direttore generale di Audrey Azoulay, statista francese e figlia di André Azoulay, consigliere ebreo del re del Marocco - che dovrebbe essere confermata da un voto della Conferenza generale del 10 novembre. Nel contempo, in una ritirata palesemente tattica, i paesi che avevano accumulato espressioni sempre più violente e odiose su Gerusalemme hanno ripiegato - solo per questo 2017 - su formulazioni più ordinarie e depoliticizzate: così senza nulla dire dei bulldozer arabi che hanno scavato la pregiatissima zona del monte dove sorgeva il tempio di Salomone e dove sorgono ora le sante moschee, si muovono rimproveri e richieste ad Israele tornate nel registro a bassa conflittualità usato per anni dalla Giordania.
   La provocazione in sede Unesco, prima esasperata e poi messa in pausa, ha avuto ragioni politiche evidenti: Unesco è una delle due agenzie in cui la Palestina siede come Stato ed è comprensibile che sia stato scelto questo come teatro per una manovra di terrorismo verbale, che voleva suscitare allarme e confusione. Ma è stupefacente che proprio l'agenzia dell'educazione, della scienza e della cultura si sia mossa non da oggi su un terreno così delicato senza alcuna coscienza degli spessori storici e teologici che ogni parola spesa su Gerusalemme (così come su Hebron, dove riposa Abramo da mille e mille anni in attesa che i suoi figli smettano di odiarsi) sono immensi e non possono essere trattati con superficialità. Superficialità risalente, in vero, al 1980: quando si decretò, nella indifferenza generale, che Gerusalemme e le sue mura portavano i segni della presenza ebraica "da David all'assedio di Tito del 70 d.C.", come se dopo l'ebraismo fosse svanito; e poi si diceva, della "coesistenza (sic!) fra arabi e cristiani dal 699 al 1099" e poi del dominio ottomano. Rimasta inerte per decenni, questa ferita al senso storico e al buon senso ha cominciato a infettarsi, con processi che hanno portato già nel 2006 a parlare di "accesso all'Haram al Sharif', il monte del tempio in cui predicò Gesù, senza evocarne la sacralità per tutti i credenti delle fedi che hanno Abramo per padre, e poi dal 2013 a qualificare l'area con un crescendo di manipolazioni. Che non sono scaramucce diplomatiche o propagandistiche.
   Siamo infatti davanti a una questione di enormi proporzioni: nel riscaldamento religioso globale - non meno pericoloso di quello climatico - la complessità, la stratificazione, la polisemia, il groviglio di significati di Gerusalemme è il codice della complessità del mondo: o si vede la complessità come la soluzione e allora ci sarà la scassatissima pace del negoziato, o la si vede come il problema e come problema da risolvere a qualunque prezzo, allora la manomissione degli equilibri - anche solo degli equilibri verbali - richiederà sangue. E lo avrà.

(la Repubblica, 27 ottobre 2017)


Lazio e Shoah, le mie due anime inconciliabili

Per favore, liberateci dal grottesco!

di Alessandro Piperno

Alessandro Piperno
C'è una sola cosa seria nella mia vita: il ricordo della Shoah, una spina che mi affligge sin da quand'ero ragazzo che di norma non amo ostentare.
Del resto, la sola passione ludica capace di colmarmi fino in fondo il cuore è il tifo per la Lazio. L'idea che da anni queste cose così diverse, così inconciliabili, così spaventosamente distanti l'una dall'altra finiscano così spesso per incontrarsi, confondersi, provocandomi imbarazzi e crisi di coscienza la dice lunga sull'insensatezza della vita. Chi mi conosce sa che non amo intervenire in questioni di attualità, anche perché non credo di poter fornire alcun contributo interessante. Se stavolta lo faccio è solo per dare sfogo al mio stupore, di più: al costernato, insanabile sconcerto di fronte a tutto quello che sta avvenendo intorno alla Shoah e intorno alla Lazio (non è assurdo scriverli nella stessa pagina?). È come se il grottesco reclamasse il grottesco, neanche fosse un film di Buñuel.
  1. Sono grotteschi gli atti compiuti in Curva Sud da teppisti che condividono con me solo la fede sportiva. Si tratta di turpe pornografia che spero venga punita con severità esemplare e senza precedenti.
  2. Trovo grottesco invocare la responsabilità oggettiva delle società di calcio, che da sempre mi sembra una delle tante ipocrisie inique della giurisprudenza sportiva. Perché io, tifoso della Lazio da quarant'anni che da trenta frequento lo stadio, dovrei essere punito per colpa di individui spregevoli che insultano la memoria di una parte cospicua della mia famiglia? Sono anni che in Curva Nord gira un orrendo motivetto rivolto contro il «romanista ebreo». È così difficile individuare chi lo canta a squarciagola e espellerlo dallo stadio per sempre?
  3. È grottesco che alcuni tifosi perbene della Lazio, invece di ingiuriare quei maledetti teppisti, sciorinino teorie complottiste o denuncino atti simili commessi da avverse tifoserie e non altrettanto pubblicizzati.
  4. Del resto, è grottesco pretendere da quei medesimi tifosi perbene che allo stadio si sostituiscano alle forze dell'ordine, neanche fossimo vigilantes.
  5. E grottesco che qualcuno per insultare la maglia di un avversario la corredi con l'effige di Anna Frank, ma non è meno grottesco che la povera Anna Frank si ritrovi a ornare con il suo sorriso incantevole le pagine Facebook di quelli che fino a qualche mese fa erano parigini, nizzardi, londinesi...
  6. È grottesco dire «Siamo tutti Anna Frank». Perché, Dio santo, è evidente che non lo siamo. Lei era decisamente più spiritosa di noi, meno grottesca, e ha dovuto sostenere una sorte tragica.
  7. E grottesco che per il solo fatto di tifare Lazio e di condividere il cognome (Piperno) con un famoso eroe di un bellissimo film di Monicelli (anch'egli insultato dai teppisti), da un paio di giorni riceva telefonate dalle redazioni di giornali, radio e tv affinché parli non ho ancora capito se a nome di Anna Frank o a nome dei teppisti.
  8. È grottesco vedere giocatori argentini o brasiliani o albanesi che firmano le copie di Se questo è un uomo di Primo Levi o del Diario di Anna Frank, come se li avessero scritti loro.
  9. È grottesco che stralci di quei capolavori che appartengono all'intimità di ciascuno di noi vengano recitati in stadi semivuoti nella diffusa, legittima indifferenza.
  10. È grottesco che la Lega Calcio inserisca in un evento sportivo un minuto di riflessione sull'antisemitismo.
  11. È grottesco che alcune tifoserie ci comunichino che durante quel minuto non hanno nessuna intenzione di riflettere.
  12. È grottesco che i gruppi ultrà si percepiscano come soggetto politico, ma è ancora più grottesco chi li ritiene tali.
  13. È grottesco che un presidente di una squadra di calcio porti corone alla Sinagoga, ma lo è altrettanto che i maggiorenti della comunità ebraica romana rispediscano al mittente tali goffe floreali profferte di redenzione, e che io mi trovi qui a commentarle.
  14. Ma soprattutto è grottesco che una questione di ordine pubblico diventi un pretesto per proclami, striscioni, slogan, momenti di riflessione, indagini sociologiche.
Potrei continuare con il punto 15 e 16, ma direi che può bastare. Non so se esista una qualche ricetta magica contro l'antisemitismo. A giudicare dall'ultimo paio di millenni, direi francamente di no. E tuttavia si può dire che esistono circostanze e situazioni specifiche che costituiscono un ottimo habitat per l'odio contro gli ebrei, o nei confronti di qualsiasi altra minoranza. Tali circostanze e situazioni hanno di certo a che fare con la retorica, con le buone intenzioni, con i gesti dimostrativi, con il sentimentalismo mieloso, in poche parole, con il grottesco.
Liberateci dal grottesco, vi prego, e ripulite gli stadi da questa orrenda teppa. Il loro crimine non è di aver diffuso l'antisemitismo (non hanno tutto questo potere grazie al cielo), ma di aver trasformato la nostra vita per qualche giorno in una cosa grottesca.

(Corriere della Sera, 26 ottobre 2017)


Un grazie di cuore al laziale Piperno da un romanista d'antica data. Dopo di che, l'autore stesso potrebbe proporre un minuto, anzi un'intera giornata di silenzio stampa, in umile riflessione sul rischio di drammatiche cadute nel grottesco a cui è sempre esposta l'umanità. M.C.


Penuria di acqua in Israele, cresce sforzo desalinizzazione

Mentre secondo le previsioni Israele si accinge ad avere il terzo inverno consecutivo di siccità il ministero delle finanze cerca fin d'ora di incrementare le quantità di desalinizzazione di acqua marina.
Ad aggravare la penuria, scrive il quotidiano Marker, si è aggiunto il malfunzionamento della centrale di desalinizzazione di Ashdod (a sud di Tel Aviv) che dovrebbe fornire 100 milioni di metri cubici all'anno, ma che riesce a fornirne solo la metà.
Il giornale precisa che attualmente quattro altre centrali di desalinizzazione (Ashqelon, Palmahim, Shorek e Hadera) forniscono 484 milioni di metri cubici di acqua all'anno che si aggiungono a un miliardo di metri cubici di origine piovana. Ora il ministero delle finanze chiede a queste centrali di compiere uno sforzo ulteriore, a prezzi superiori di quelli pattuiti in origine. L'aumento dei prezzi, secondo Marker, ricadrà almeno in parte sui consumatori. Gli agricoltori restano intanto nell'incertezza perché le quote destinate loro potrebbero essere ridotte in maniera significativa.

(swissinfo.ch, 26 ottobre 2017)


Fino a che punto credere alla svolta moderata del principe saudita?

di Daniele Raineri.

Roma. Due giorni fa il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, ha annunciato un ritorno del regno "all'islam moderato e tollerante, aperto al mondo e a tutte le religioni. Ritorneremo a come eravamo prima, non passeremo i prossimi trent'anni a combattere contro idee distruttive". E' una notizia che suona epocale per un paese che oggi di fatto è il motore immobile dell'espansione nel mondo dell'interpretazione più oppressiva e pericolosa dell'islam. Ma è vera? Fino a che punto dobbiamo credere a Bin Salman? Cerchiamo di capire cosa sta succedendo con Cinzia Bianco, analista di Gulf State Analytics (è un'azienda specializzata in consulenze sui paesi del Golfo per investitori, politici e businessman con base a Washington e Londra).
   "E' una questione che parte dal 1979, dalla rivoluzione che portò al potere gli ayatollah in Iran e stabilì nel mondo sciita il principio del primato dei religiosi sui politici. La cosa provocò alcuni problemi anche in Arabia Saudita, dove il potere tra religiosi e regnanti è sempre stato in equilibrio dinamico. Per evitare che il modello sciita iraniano del velayat e faqih, quindi del potere religioso sopra quello politico, sembrasse troppo appetibile anche ai sunniti in Arabia Saudita (con le debite differenze tra sciiti e sunniti) i regnanti cominciarono a fare concessioni ai religiosi. Ci fu una stretta ulteriore. Per esempio prima del 1979 - che è anche l'anno del grande assalto alla Mecca da parte di un gruppo estremista che era l'antesignano dello Stato islamico di oggi, finito nel sangue - nel regno saudita la segregazione dei sessi non era così forte in tutti i luoghi, e anche il divieto sulla musica non era così rigido, c'è ancora chi ha nostalgia di quando poteva ascoltare la famosissima cantante egiziana Umm Khultum". Ecco - dice Bianco al Foglio - il principe ereditario Bin Salman ha deciso di rompere a suo vantaggio questo equilibrio dinamico. E' questo che intende quando dice che è necessario far tornare il paese a prima del 1979. Primato della politica sui predicatori. Non c'è una ragione sola per cui ha deciso di compiere questa mossa. Una, molto importante, è che in questo sistema a due, figure politiche e figure religiose, se diminuisce il potere dei religiosi si rafforza la sua posizione. Un'altra è che è giovane e irruente e quindi sente di avere la forza per affrontare il backlash, la possibile reazione del mondo religioso e dei fedeli. Se poi l'abbia davvero è un problema aperto. Uno dei suoi predecessori, il re Abdallah morto nel 2015, ebbe una quantità di problemi quando volle procedere a qualche riforma e per esempio decise di allargare l'accesso a tutti i livelli di istruzione anche alle donne. Inoltre c'è un elemento che va considerato, c'è una differenza rispetto al passato, la religione musulmana è stata sempre un fattore legittimizzante per il potere dei Saud, non va dimenticato che il re è il custode dei due luoghi più sacri dell'islam, ma la religione può diventare anche un problema: al Qaida e lo Stato islamico sono due pericoli mortali per la monarchia saudita e molti predicatori continuano a strizzare l'occhio ai due gruppi terroristici.
   E' possibile che ci sia anche una ragione economica per questa svolta moderata, che si deve ancora concretizzare? "E' possibile. Molti investitori conoscono alla perfezione il paese da molto tempo, altri invece potrebbero investire ma sono tenuti lontani dalla reputazione del regno".
   Quante chance ci sono che ci sia una svolta moderatrice reale? Il principe è aiutato da due fattori - dice Bianco - uno è la giovane età dei sauditi e l'altro è che l'opinione pubblica nazionale è facilmente manipolabile. Il settanta per cento dei sauditi ha meno di trent'anni, Mohamed bin Salman ne ha trentadue, conta sul fatto che quest'esercito di giovani sostenga convintamente il processo di riforme. Inoltre l'Arabia Saudita ha un sistema di media nazionali martellante, quando decidono di inculcare una nuova visione sanno come agire all'unisono e applicare pressione persuasiva. Per esempio in questi mesi è vietato parlare male degli sciiti, si pone più l'accento sul fattore arabo che su quello religioso sunnita, si vedano per esempio gli incontri con il premier iracheno sciita Haider al Abadi e con il religioso iracheno sciita Moqtada al Sadr, molto potente.
   "Infine, si tratta di una riforma top-down, dall'alto verso il basso, fatta d'autorità: prima di procedere alla grande riforma delle donne al volante per esempio il principe ha fatto arrestare i predicatori islamisti che prevedeva più ostili, in modo che non ci fossero problemi. Questo è il suo modo di procedere".

(Il Foglio, 26 ottobre 2017)


Le leggi razziali, il re e i voltagabbana

Lettera al Giornale

In questi giorni si ricordano le infami leggi razziali fasciste. A tal proposito, è sempre bene ricordare che il re Vittorio Emanuele III le firmò molto di malavoglia, e che la Camera ed il Senato le approvarono a scrutinio segreto con un'enorme maggioranza. Al Senato sedevano, nominati dal re, almeno un centinaio di afascisti ed antifascisti. Ed otto senatori di religione ebraica! Pochi lo ricordano. Nel Diario di Ciano (28/11/1938) ci sono dichiarazioni filoebraiche che il re fece a Mussolini. Il duce si sfogò col genero. E Ciano riportò sul suo Diario questi violenti sfoghi. Che sono una prova di enorme importanza, a favore del Sovrano. Ma anche di questo aspetto, pochi lo ricordano! Così come pochi ricordano i nomi dei tantissimi che esaltarono il Duce e quelle infami leggi. Uno come Amintore Fanfani (padre di questa repubblica e di questa Costituzione), il giornalista Giorgio Bocca, padre Agostino Gemelli ( a cui hanno intitolato il grande policlinico di Roma, in epoca repubblicana). Il libro di Mirella Serri sugli intellettuali voltagabbana da fascisti ad anti, propone numerosi altri esempi. Con nomi e cognomi. Quindi, chi critica il Re per quelle leggi si documenti molto e bene prima di parlare. Scoprirà cose che gli faranno cambiare idea velocemente.
Marco Razzoli (Cagliari)


Un Re non si giudica dalle confidenze che fa in privato a qualcuno, ma dagli atti pubblici che compie nella sua posizione giuridica. Se ha firmato le leggi razziste in opposizione alla sua coscienza, questo non alleggerisce ma aggrava la sua responsabilità. La figura di questo nostro ultimo Re è vergognosa. Ma è stato il Re della nostra nazione, quindi è stato una vergogna storica nazionale. In essa dovremmo umilmente riconoscerci, invece di assolvere il Re per quello che ha fatto nel passato o noi stessi per quello che facciamo adesso trattando quel passato come se non fosse stata anche una nostra responsabilità storica, senza vergognarci come italiani, ma vantandoci come se ci fossimo autoredenti con la resistenza. I voltagabbana della memoria repubblicana sono la prosecuzione in altra forma della vergogna monarchica. M.C.


Il vicepresidente Usa in Egitto e in Israele a dicembre

Per parlare di Palestina, Iran e persecuzione delle minoranze religiose

WASHINGTON - Il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, si rechera' in Israele e in Egitto a fine dicembre su richiesta del presidente Donald Trump. Lo ha annunciato lo stesso Pence. Pence visiterà Israele durante la festività ebraica di Hanukkah. Discutera' le prospettive per gli accordi di pace in incontri distinti, con il premier israeliano Benyamin Netanyahu e con il presidente dell'autorita' palestinese Abu Mazen. Ci si aspetta inoltre che nei colloqui Pence affronti il tema Iran.
In Egitto il vicepresidente Usa incontrerà il presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi e intende vedere rappresentanti del governo e leader religiosi per discutere di come contrastare la persecuzione delle minoranze religiose nella regione, compresi i cristiani.

(ANSAmed, 26 ottobre 2017)


Indignatevi per l'Onu, non per tre cretini

di Fiamma Nirenstein

 
Fiamma Nirenstein
È difficile, per un'ebrea, scrivere di nuovo di antisemitismo. Nonostante sia universalmente noto che gli attacchi si sono moltiplicati in tutto il mondo, è un po' come se si parlasse di uragani. Che ci si può fare? Io so che i lettori per la gran parte non capiranno, o meglio, non vogliono sapere di che cosa stiamo parlando, anche se è doveroso dire che le misure annunciate, viaggi ad Auschwitz, letture di pagine di Anna Frank, sono già un primo passo. Ci voleva Shakespeare per far dire al Mercante di Venezia che se si taglia la carne di un ebreo, essa sanguina come quella di qualsiasi altro. Poi, nei secoli, la cosa è stata di nuovo dimenticata. Il maggiore studioso del tema, Robert Wistrich, spiega che il tema non è mai stato separato dallo stigma legato al genocidio nazista, ma che in realtà è un mostro dalle molte teste, e che è in crescita sia per la crescita delle destre, come anche, e per lo più, a causa della crescita delle minoranze musulmane, o semplicemente per la banalizzazione dell'atteggiamento antisraeliano della maggior parte delle istituzioni internazionali.
  Ma un ebreo oggi non ha più voglia di piangere, non ha voglia di chiedere aiuto o protezioni. Sinceramente, a me, pur apprezzando l'iniziativa, che i tifosi della Lazio vadano in pellegrinaggio ad Auschwitz non indica nessuna garanzia per il futuro. L'educazione alla memoria non corrisponde al senso di verità sul presente, e i pregiudizi si esercitano sempre nell'oblio, nell'ignoranza. Ai laziali importerebbe magari di essere cacciati dagli stadi, ma allora potrebbero, per esempio, accusare la lobby ebraica della loro sciagura, e in breve tempo troverebbero il modo di ritornarci. In ogni caso, uno per uno, farebbero qualcos'altro che esprima di nuovo ciò che essi sono: antisemiti. Possono scegliere di andare a una manifestazione antisraeliana in cui si grida «morte a Israele», come a Berlino qualche settimana fa, possono scrivere un post contro di me o contro la comunità ebraica sui social; possono dire volgarità o scrivere sui muri; possono far finta di non sentire quando Khamenei o Hamas chiamano alla distruzione di Israele. L'antisemitismo si aggiusta alla sensibilità della società di cui fa parte: la signora Linda Sarsour, palestinese che predica negli Usa la distruzione dello Stato d'Israele e si presenta sul palco con una terrorista che ha compiuto due attacchi su civili, ha raccolto fondi per la ricostruzione di un cimitero vandalizzato. È per questo meno antisemita? No di certo, ma piace lo stesso. Fra i sostenitori della Lazio ci sono anche dei signori raffinati, non solo dei proletari idioti: troveranno dunque il modo di accusare la «lobby ebraica», rideranno forse di qualche donna ebrea con gli occhi bistrati di azzurro, alla Carlo Emilio Gadda... chissà. C'è un'intera letteratura sulla donna ebrea, biblioteche sui perfidi soldati israeliani, files dell'Unesco su Gerusalemme, tutta islamica come ognuno sa; una summa teologica su Gesù Cristo che non era ebreo, ma palestinese. E dire che Israele è un «paesucolo» come disse nientemeno che Mikis Teodorakis oppure disegnare Sharon come un mostro alla Goya, mentre sgranocchia teste di bambini palestinesi il cui sangue gli gocciola sul petto nudo.
  È solo una virgola in una serie che include anche la sottoscritta, quando Vauro mi disegnò con il fascio e la stella di David sul petto, mi chiamò «Frankenstein» facendomi il naso adunco e non solo i giudici gli dettero ragione, ma i giornali di sinistra si preoccuparono soprattutto di insistere: non era antisemitismo, ma critica politica.
  Perché definire l'antisemitismo al tempo nostro è cosa difficile, sfuggente, e i giornali, gli intellettuali, il senso comune fa sempre un salto indietro quando si accorge che non c'è soltanto quello di destra, come in questo caso, ma anche quello musulmano, ormai dilagante, e quello di sinistra, molto vecchio, consolidato, che ha fatto centinaia di migliaia di morti, ma che si preferisce sempre ignorare.
  Oggi quando un ebreo è costretto a guardare la piccola Anna Frank conciata in quel modo, pensa a troppe altre situazioni, e sente che si trova la voglia di affrontarle solo se servono una causa politica particolare: per esempio, il sospetto caduto su Trump che sia colpa sua la crescita in America degli episodi di antisemitismo è pesante, come la preoccupazione sempre espressa che la crescita dei partiti di destra, dall'Austria alla Germania all'Olanda, stia portando a una risorgenza di antisemitismo. È giusto preoccuparsi, anche se la maggioranza dei partiti della nuova destra europea seguita a negare vigorosamente. Ma almeno, negano: perché invece l'Onu, l'Unesco, i gruppi che promuovono il boicottaggio in palese collegamento con gruppi terroristici che vogliono la distruzione dell'ebreo collettivo più importante, Israele, le organizzazioni musulmane sul territorio.
  Non ho mai assistito a una richiesta insistente di combattere l'odio per gli ebrei, alla promessa di andare ad Auschwitz in pellegrinaggio. Dopo l'assassinio di Ilan Halimi, l'eccidio al Museo ebraico di Bruxelles, il massacro della scuola ebraica di Tolosa, dopo le dichiarazioni genocide di Hamas, di Erdogan, dopo le promesse di sterminio totale dell'Iran, dov'è il movimento che si deve contrapporre all'antisemitismo fino alla morte? Il presidente della Repubblica? I capi dei partiti? I giornali che dichiarano che sono loro Anna Frank? Mi dispiace, Anna Frank sono io, solo che oggi oltre all'istinto di fare dichiarazioni ho anche quello di tirare quattro schiaffi.

(il Giornale, 25 ottobre 2017)


L'Aeroporto di Bergamo potenzia il network con le nuove rotte Tel Aviv e Eilat in Israele

 
L'aeroporto di Bergamo
Al via nuove rotte dall'Aeroporto di Milano Bergamo a Tel Aviv e Eilat in Israele. Sono queste solo alcune delle novità introdotte con l'entrata in vigore dell'orario invernale, presentate oggi in conferenza stampa dall'Ente del Turismo Israeliano e da SACBO, la società che gestisce l'aeroporto bergamasco.
   Alla presentazione dei voli per Israele dall'Aeroporto di Milano Bergamo sono intervenuti Avital Kotzer Adari, consigliere affari turistici dell'Ambasciata di Israele, e Giacomo Cattaneo, direttore aviation di SACBO.
   Le due nuove rotte Bergamo-Tel Aviv e Bergamo-Eilat saranno operate a partire dal 29 ottobre da Ryanair. In particolare, il collegamento con Tel Aviv prevede quattro voli settimanali (lunedi, mercoledì, venerdì e domenica), consentendo di programmare e combinare il viaggio per raggiungere comodamente anche Gerusalemme, mentre i voli per Eilat, destinazione sul Mar Rosso e a sud del maestoso deserto del Negev, sono bisettimanali (giovedì e domenica).
   La rotta tra Milano Bergamo e Tel Aviv è stata operata nel periodo estivo dalla compagnia aerea Arkia fino a tre frequenze settimanali. La nuova programmazione invernale potenzia l'offerta e rende ancora più attrattive le destinazioni in Israele.
   I due nuovi collegamenti con Israele si inseriscono nel network invernale dell'Aeroporto di Milano Bergamo che conta 102 destinazioni. Tra le altre novità figurano Plovdiv in Bulgaria, con voli operati nei giorni di mercoledì e Domenica, Kiev Zuljany raggiunta dal 9 dicembre con i voli di Ernest Airlines il lunedì e sabato e che si aggiunge a L'Viv attivo dal 20 ottobre ogni venerdì e Domenica. Da registrare anche gli incrementi di frequenze dei voli Pobeda con Mosca e Pegasus Airlines con Istanbul, da 7 a 9 settimanali (doppio volo nelle giornate di venerdì e domenica ). Inoltre, confermati nella stagione invernale i voli per Liverpool (4 frequenze settimanali) e Iasi (bisettimanale).

(Qui Finanza, 25 ottobre 2017)


Il nuovo ambasciatore Gianluigi Benedetti presenta le sue credenziali al presidente israeliano

La cerimonia a Gerusalemme

Il nuovo ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti, con il presidente della Repubblica israeliana, Reuven Rivlin
GERUSALEMME - Il nuovo ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti, ha presentato il 23 ottobre scorso le sue credenziali al presidente della Repubblica israeliana, Reuven Rivlin, nel corso di una cerimonia ufficiale al Beit Hanassi, la residenza ufficiale dei presidenti della Repubblica a Gerusalemme.
Durante l'incontro l'ambasciatore Benedetti ha ricordato le straordinarie relazioni tra Italia e Israele, relazioni che affondano le radici nella storia antica. Anche il presidente Rivlin ha ricordato le buone relazioni tra i due Paesi, evidenziando tra l'altro l'impegno dell'Italia a sovvenzionare la traduzione in lingua italiana del Talmud e anche il sostegno a Israele presso l'Unesco.
Cosi com'è consuetudine da oltre 60 anni, il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha organizzato dopo la cerimonia ufficiale un brindisi in onore del nuovo ambasciatore Benedetti, all'hotel King David.
Al brindisi hanno partecipato i consoli onorari d'Italia a Eilat, Beer Sheva e Haifa, i rappresentanti delle principali organizzazioni italiane operanti nel Paese, i funzionari dell'Ambasciata d'Italia, l'addetto culturale e quello militare, il direttore dell'IIC di Tel Aviv e alcuni ambasciatori d'Israele che hanno prestato servizio in Italia.

(aise, 25 ottobre 2017)


L'Italia che non rimase indifferente

Come ha reagito l'ebraismo italiano di fronte alla Shoah? Come ha reagito la società circostante? Sono alcuni degli interrogativi alla base del progetto Memoria della Salvezza del Centro di Documentazione Ebraica di Milano - finanziato dalla Viterbi Family Foundation - da cui è nato il libro di Liliana Picciotto Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah 1943-1945, edito da Einaudi. A spiegare la genesi del lavoro, la stessa Picciotto nel corso della presentazione del volume al Memoriale della Shoah di Milano. Di fronte a un folto pubblico, la storica ha sottolineato come il libro costituisca "un omaggio ai generosi soccorritori di ebrei, ma è anche un tributo a quei capifamiglia di allora che seppero usare preveggenza, coraggio e capacità di affrontare uno stato di allarme permanente".
   La presentazione di Salvarsi ha aperto ufficialmente l'anno delle iniziative del Memoriale della Shoah, ha spiegato in apertura il vicepresidente della Fondazione del Memoriale Roberto Jarach, ricordando come il luogo da dove furono deportate centinaia di persone è sempre più al centro della didattica milanese. Il numero di studenti e scolaresche che visita il Memoriale infatti continua a crescere. "La Memoria è un anticorpo indispensabile contro le falsificazioni del passato, purtroppo ancora in atto - ha ricordato il presidente del Memoriale Ferruccio de Bortoli, nel corso dell'incontro aperto dai saluti del direttore del Cdec Gadi Luzzatto Voghera - E leggere libri come Salvarsi ci salva dal pericolo dell'oblio". E ci ricorda che anche di fronte alla dittatura ci fu chi scelse di opporsi, di dimostrare solidarietà umana agli ebrei perseguitati dai nazifascisti.
   Il progetto guidato da Liliana Picciotto, ha spiegato poi il presidente del Cdec Giorgio Sacerdoti, racconta di come furono difficili le strade per garantire la salvezza a chi cercava di fuggire dalla deportazione. Rifugi di fortuna nei casolari, nelle cantine, nei fienili, espedienti per procurarsi cibo o documenti falsi. Il poderoso lavoro di Picciotto racconta di un'Italia sommersa che lotta per sopravvivere e salvarsi mentre la politica alla luce del sole è quella delle leggi razziste del 1938, è quella della persecuzione. Il libro, come sottolineato dall'applaudita analisi di Walter Barberis, presidente della Giulio Einaudi editore, non è un'opera autoassolutoria per l'Italia, anzi racconta il volto di quegli italiani - comunque una minoranza - che scelsero di non rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza altrui. "Quale era il rischio per un normale cittadino che desse soccorso agli ebrei? Può questo soccorso definirsi come resistenza civile? C'era differenza tra il soccorso agli ebrei e quello ad altre parti sociali ugualmente bisognose di passare nella clandestinità: renitenti alla leva, soldati dell'esercito alleato evasi, antifascisti? Come il fatto di essere perseguitati per famiglie intere ha influito sulla scelta delle modalità di ricerca della salvezza?", sono alcuni degli interrogativi sollevati e a cui Salvarsi riesce a dare una risposta. d.r.

(moked, 25 ottobre 2017)


Ora son tutti Anna Frank

Si indignano se finisce sulla maglia della Roma, ma non se la usano gli antisemiti in armi.

di Giulio Meotti

ROMA - Sono anni che Anna Frank è irrisa. Nei murales ("Anne non l'ha fatta Frank") e ora da parte dei tifosi della Lazio. Un caso nazionale, com'è giusto che sia. Ma qualcuno avvisi gli indignados: la ragazza icona dell'Olocausto è stata banalizzata, trivializzata e arruolata da gente ben peggiore di quella curva dello stadio. Alvin H. Rosenfeld, pioniere degli studi sull'antisemitismo, nel libro "The end of the Holocaust" scrive che Anna Frank è stata trasformata in una icona della "bontà umana" e usata in cause antisemite, che vanno dalle t-shirt filopalestinesi con il volto della martire di Bergen-Belsen alle vignette premiate a Teheran dal regime iraniano.
Gli iraniani hanno messo Anna Frank a letto con Hitler, che le dice: "Scrivi di questo nel tuo diario". Quegli iraniani che sognano di far fare a Israele la fine di Anna Frank, con l'atomica al posto dei crematori. Ma quelle t-shirt e vignette non offendono quanto le maglie della Roma. Come non offende il volto di Anna Frank negli account twitter del Bds, il boicottaggio di Israele. O il film palestinese "Anna Frank: then and now", proiettato durante la guerra a Gaza del 2014. Ora sono tutti Anna Frank, da Massimo Gramellini che sul Corriere della Sera ha detto di volersi mettere la maglia della Roma con il volto della ragazzina di Amsterdam, al direttore di Repubblica, Mario Calabresi, che ha firmato un appello per farne un monito. Ma c'è una differenza fra una maglia da calcio, i gadget filopalestinesi e la vignetta iraniana: quindici tifosi della Lazio non vogliono incenerire il popolo ebraico, i secondi sì.
Se Anna Frank fosse viva, non potrebbe oggi girare con una stella di Davide al collo per le vie di Amsterdam e di molte altre città europee, quella stella che ora si vuole far indossare negli stadi di calcio. E l'Italia ha stretto un accordo politico-nucleare con un paese, l'Iran degli ayatollah, che minaccia di spazzare via Israele dalla mappa geografica. Anche e soprattutto di questo dovrebbero parlare i nostri editoriali e occupare la nostra indignazione.

(Il Foglio, 25 ottobre 2017)


La sinistra difende gli ebrei solo contro gli ultras laziali

Tutti indignati (giustamente} per gli adesivi di Anna Frank con la maglia della Roma. Ma se qualcuno brucia la bandiera di Israele restano zitti.

di Gianluca Veneziani

Non si può essere schierati decisamente contro l'antisemitismo e tolleranti nei confronti dell'antisionismo; non si possono difendere gli ebrei di ieri e lasciare che vengano insultati o picchiati gli ebrei di oggi; né si può permettere che Israele venga rispettato come popolo martire ma non come Stato, e che gli ebrei buoni siano quelli perseguitati ma non quelli che rivendicano il diritto a esistere in una propria terra. Allo stesso modo non si possono condannare gesti e cori antisemiti solo quando a compierli è una curva di estrema destra e fare spallucce quando ne sono artefici un centro sociale o un covo rosso di filopalestinesi.
   C'è uno strabismo di comportamenti nell'opinione pubblica e, nella fattispecie, nella politica e intellighenzia sinistrorse che dovrebbe essere messo in risalto, ora che giustamente si deplorano gli ultras della Lazio per gli adesivi di Anna Frank con la maglia della Roma. L'episodio, inutile ribadirlo, è riprovevole, anche perché manca del benché minimo spirito di intelligenza e senso dell'ironia, si fa beffe della morte e di una martire, trascinandone l'immagine da un campo di concentramento a un campo di calcio, senza indurre alcun riso, neppure amaro. Si tratta ben più insomma di un semplice atto di «scherno e sfottò», come lo hanno definito gli Irriducibili della Lazio, sostenendo che «non è reato apostrofare un tifoso avversario, accusandolo di appartenere ad altra religione», e non dissociandosi dall' accaduto, pur aggiungendo di non essere stati loro a compiere il gesto.
   Al contempo però appare una risposta quasi eccessiva, una misura spot per compiacere le anime belle, la decisione del presidente Latito di far giocare oggi la squadra con una maglia di Anna Frank così come la visita riparatrice in sinagoga o l'idea di portarsi ogni anno 200 tifosi in pellegrinaggio ad Auschwitz. Gesti inutili ai fini pedagogici: Anna Frank dovrebbe essere studiata, letta, capita, e perciò amata, non stampata come un'icona pop sulle magliette quasi fosse un Che Guevara qualunque; allo stesso modo la conoscenza della tragedia dei lager passa da una formazione insieme cognitiva e morale che forse spetterebbe alle agenzie educative fornire, non tanto a una società di calcio. Ma lo spirito delle iniziative si comprende: sono mosse funzionali, quasi preventive, per evitare la riprovazione dell'Intellettuale Collettivo. Onde mettere a tacere chi potrebbe accusare Latito di inerzia e omertà, o addirittura connivenza e complicità con i tifosi, al presidente non è bastato condannare in modo netto l'episodio, gli è toccato pure compiere alcuni gesti rituali, atti di penitenza, caricandosi del compito di emendare le colpe dei suoi tifosi e così addossandosi in fin dei conti responsabilità non sue.
   Ma quello che più colpisce è che quanti oggi levano alta la voce, firmano editoriali, lanciano moniti dai pulpiti istituzionali e chiedono condanne esemplari sono gli stessi che tacciono allorché a infangare la memoria degli ebrei e il loro presente di Stato-nazione sono i "compagnucci" di sinistra. Facile enumerare i casi in cui bandiere di Israele sono state bruciate ai cortei del 1o maggio o a manifestazioni no-global e anti-Occidente da parte di centri sociali e antagonisti; o episodi in cui esponenti delle Brigate Ebraiche sono stati insultati e aggrediti fisicamente da fazioni filopalestinesi, ufficialmente anti-fasciste. Allora dov'erano gli Indignati di professione del giorno dopo? La loro coscienza civile, critica verso ogni forma di antisemitismo, era stata messa a tacere? O forse ci sono vittime e vittime, e colpevoli e colpevoli: sempre da difendere le vittime dell'Olocausto e sempre da condannare gli estremisti di destra; viceversa, sempre da difendere i filopalestinesi antisionisti e sempre da condannare gli israeliani ... Il ruolo di martire e carnefice si inverte a seconda delle circostanze. Il doppiopesismo nella riprovazione dell'antisemitismo.
   D'altronde, l'esagerato risalto dato a un episodio deprecabile, ma comunque marginale, come quello di 15 ultras imbecilli - peraltro ieri identificati e ora a rischio di Daspo per 8 anni - rischia di sortire l'effetto contrario. Cioè dare loro eccessiva visibilità e convincerli di essere vittime del sistema, indurli così nuovamente a trasgredire e magari portare qualche altro scemo a emularli ...
   La migliore risposta piuttosto, molto più delle visite riparatrici, delle stampe su t-shirt o degli album di Anna Frank con le magliette delle squadre di serie A, sarebbe compiere un gesto semplice, ma fortemente simbolico: esporre insieme, alla prossima partita all'Olimpico, due bandiere simili nei colori, che qualcuno a torto vorrebbe contrapporre: la bandiera biancoblu di Israele accanto alla bandiera biancoceleste della Lazio. Sarebbe l'omaggio più bello ad Anna Frank ma anche lo schiaffo più sonoro agli ipocriti dell'indignazione a giorni alterni.

(Libero, 25 ottobre 2017)


Effettivamente, questa enfatica, teatrale manifestazione di sdegno per la profanazione della memoria di un’ebrea perseguitata e uccisa dà l’impressione di voler far dimenticare il disinteresse, quanto meno, per le sorti di quegli ebrei che hanno deciso di non voler più essere perseguitati e uccisi, e a questo scopo si sono costituiti in uno Stato nazionale. Gli ebrei morti del passato si ricordano e si onorano, lo Stato ebraico vivo del presente si oltraggia e si disprezza. “Visto, noi non siamo antisemiti, guardate come difendiamo la memoria degli ebrei morti!” sembrano dire. Se poi appoggiano quelli che oggi vogliono distruggere il vivente Stato ebraico, questa è un’altra cosa. Loro non sono antisemiti. Loro no. Lo dicono e lo ripetono. E cercano in tutti modi di farlo sapere agli ebrei, disposti perfino a gesti di deferente umiliazione, pur di riuscire a convincerli. M.C.


Graffiti contro Rivlin

A Bnei Brak, sobborgo ortodosso di Tel Aviv

Graffiti di insulto nei confronti del presidente israeliano Reuven Rivlin sono stati scoperti questa mattina sui muri di una scuola religiosa nel sobborgo ortodosso di Bnei Brak, nei pressi di Tel Aviv.
Tra le scritte, quella di 'nazista apostata' e di "Rivlin è un abominio in un luogo sacro". La polizia ha aperto un'inchiesta per far luce sul fatto. Immediata la solidarietà a Rivlin da parte di esponenti sia della maggioranza di governo sia dell'opposizione. Nei giorni scorsi a Gerusalemme e in altre località israeliane, tra cui Bnei Brak, ci sono state manifestazioni tumultuose contro la legge per la leva degli ortodossi.

(ANSAmed, 25 ottobre 2017)


Primo raid israeliano contro milizie del Califfato in Siria

"Combattenti" del gruppo Jaish Khaled Bin Walid
Finora Israele si era limitato a colpire in territorio siriano depositi di armi delle forze governative dirette alle milizie Hezbollah, evitando di farsi coinvolgere nel conflitto in atto ai suoi confini ma senza nascondere l'ostilità nei confronti del regime di Bashar Assad alleato dell'Iran.
Il 23 ottobre, per la prima volta, i cacciabombardieri con la Stella di David hanno attaccato una milizia siriana ribelle legata allo Stato Islamico.
Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus), Ong con sede a Londra, vicina ai ribelli moderati e che conta su una vasta rete di attivisti in tutto il Paese, i raid hanno colpito la città di Sahm al-Jolan, nell'ovest della provincia meridionale di Daraa.
La stessa Ong attribuisce l'incursione ai velivoli israeliani, ha riferito dell'uccisione di 10 combattenti del gruppo Jaish Khaled Bin Walid, insieme a due donne ritenute mogli dei combattenti uccisi.
Il gruppo colpito nel maggio 2016 aveva giurato fedeltà al Califfo Abu Bakr al Baghdadi senza mai essere formalmente incorporato nell'organizzazione terroristica conterebbe su una milizia stimata in circa 1.200 combattenti attivi nella provincia di Daraa, lungo il confine con il Golan, che combattono sia le truppe di Damasco sia le altre formazioni ribelli legate all'Esercito Siriano Libero sostenute dagli Occidentali direttamente dal confine giordano.

(Analisi Difesa, 25 ottobre 2017)


Intelligence israeliana: l'Iran non invierà missili ad Hamas, li produrrà direttamente a Gaza

Concreto allarme lanciato dalla intelligence israeliana sul pericolo che l'Iran voglia assemblare missili di precisione direttamente nella Striscia di Gaza invece che cercare di farli arrivare già assemblati.

L'Iran non invierà missili ad Hamas, troppo complesso, li produrrà direttamente a Gaza. E' questo, secondo l'intelligence israeliana, l'accordo di collaborazione militare tra Teheran e Hamas raggiunto pochi giorni fa tra la delegazione di Hamas volata in Iran e il regime degli Ayatollah....

(Right Reporters, 25 ottobre 2017)


Il Qatar finanzierà la sede dell'Autorità palestinese a Gaza

DOHA - Il Qatar ha annunciato oggi che finanzierà una nuova sede dell'Autorità nazionale palestinese a Gaza alla luce del recente accordo di riconciliazione tra i partiti rivali Hamas e Fatah. "Il Qatar ha accettato di costruire la sede della presidenza e quella del governo palestinese a Gaza dopo che il governo avrà assunto pienamente le proprie funzioni", ha annunciato l'inviato del Qatar a Gaza, Mohammed al Amadi. Il diplomatico ha dichiarato il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas aveva chiesto allo Stato del Golfo di finanziare la costruzione dell'edificio. La sede dell'Autorità nazionale palestinese nella Striscia di Gaza è stata colpita dai bombardamenti dell'aviazione israeliana rispettivamente nel 2008, nel 2009 e nel 2012.

(Agenzia Nova, 24 ottobre 2017)


Ora si apre la partita per il Medio Oriente post-Isis

di Annalisa Perteghella

 
Annalisa Perteghella
La lotta comune allo Stato islamico avviata nel 2014 aveva momentaneamente congelato i molteplici conflitti che correvano lungo le numerose linee di faglia mediorientali. In alcuni casi, questi conflitti sono continuati sotto traccia - come ad esempio le numerose operazioni mirate israeliane contro Hezbollah - in altri casi si sono verificate convergenze che in tempi diversi non sarebbero state possibili - un esempio su tutti la collaborazione de facto tra Iran e Stati Uniti in Iraq. Ora, con lo Stato islamico (IS) in evidente ritiro territoriale, la regione si prepara ad assistere a un "rimettersi in moto della Storia": da una parte si riaccendono le antiche conflittualità, dall'altra il ridefinirsi delle alleanze e la corsa per il controllo dei territori riconquistati allo Stato islamico rischiano di aprirne delle nuove.
  In questo quadro complesso, possiamo cominciare a tratteggiare alcune tendenze. Il fronte formato da Russia, Iran e Turchia emerge come il vincitore sul terreno di questi anni di caos: i tre attori sono i meglio posizionati per raccogliere i frutti del rimescolamento degli equilibri e dei confini.
  Mosca si prepara a riscuotere i dividendi della sua azione diplomatica e militare in Medio Oriente. Putin sembra aver raggiunto l'obiettivo della restaurazione della reputazione della Russia come grande potenza che agisce sul palcoscenico globale, espandendo al contempo la presenza russa sui mercati della regione (in primis su quelli degli armamenti e delle fonti energetiche) e attirando investimenti (soprattutto dai paesi del Golfo).
  La Turchia, il cui ruolo nella regione è profondamente evoluto dal 2011 a oggi, ha recentemente accresciuto il proprio ruolo tanto nel conflitto siriano quanto in quello iracheno. Sullo scenario siriano, Ankara rimane fedele ai propri obiettivi più urgenti - la lotta ai curdi del Pkk e dunque dei suoi affiliati siriani del Pyd, oltre alla prevenzione dello spillover del conflitto siriano all'interno dei propri confini - aggiungendone però due, collegati, di più lungo periodo: la ricerca di un ruolo nella ricostruzione siriana allo scopo di continuare ad avere voce in capitolo nella Siria del futuro. Emblematico di questa evoluzione è il raggiungimento di un'intesa con Russia e Iran in base alla quale Ankara offrirebbe la propria mediazione su Idlib in cambio di mano libera nel cantone di Afrin (attualmente compreso nella regione autonoma curda del Rojava). In Iraq, la Turchia - insieme all'Iran - ha recentemente riaffermato con fermezza il proprio ruolo tramite la condanna del referendum per l'indipendenza del Kurdistan iracheno voluto da Massoud Barzani. Ankara e Teheran hanno fatto fronte comune nella reazione al risultato del referendum, puntando ad aumentare la pressione su Barzani al fine di evitare che quest'ultimo cerchi nel prossimo futuro di trasformare il risultato positivo del referendum in vera e propria secessione.
  L'Iran ha saputo approfittare in questi anni - per la verità, già dal 2003 - dei numerosi vuoti di potere che si sono aperti nella regione per incrementare il proprio ruolo ed espandere la propria presenza. Natura abhorret a vacuo: sul collasso delle istituzioni dello stato iracheno che ha fatto seguito all'intervento statunitense del 2003 Teheran ha cominciato la propria "messa in sicurezza" dei confini, penetrando le istituzioni del nuovo Iraq, per la prima volta non più nemico ma vicino indispensabile per garantire la propria profondità strategica. Oggi Teheran mantiene sull'Iraq un'influenza straordinaria, principalmente in termini di scambi economici e "assicurazione politico-militare" tramite il controllo delle milizie che afferiscono nelle Unità di mobilitazione popolare (Pmu). Non è un caso che il primo ministro iracheno Abadi abbia cercato negli ultimi mesi di ricondurre queste ultime sotto il controllo dello stato centrale: la battaglia per il monopolio dell'uso legittimo della forza sarà una delle più urgenti che si apriranno nell'Iraq liberato. Teheran si prepara poi a raccogliere i dividendi del massiccio intervento sullo scenario siriano, ufficialmente a coronamento della strategia della "resistenza" in base alla quale la Siria rappresenta il fronte più avanzato della lotta al terrorismo e ai "falsi musulmani" di Daesh. La sistemazione futura della Siria è in questo momento il principale oggetto del contendere tra Teheran e Mosca, con i primi in favore del mantenimento di una struttura statuale centralizzata, con Assad al vertice, e i secondi in favore di una soluzione in senso federale in grado di accontentare i diversi attori intervenuti nel conflitto e arrivare così a una sua conclusione. La presenza però sul territorio siriano di milizie e gruppi para-statuali filo-iraniani, offre a Teheran un "piano B" al quale ricorrere in caso di affermazione della soluzione russa. L'obiettivo, in ogni caso, rimane la protezione del corridoio di rifornimenti verso il Libano, dove Hezbollah continua ad agire come avamposto della "resistenza" contro Israele.
  In questo contesto, spicca il persistente - e crescente - vuoto della leadership americana nella regione. Un ritiro, quello americano, che paradossalmente affonda le proprie origini nell'interventismo del 2003. A partire dal 2009, la decisione di Obama di ritirare le forze Usa dalla regione e riorientare la politica estera americana verso le nuove priorità dell'Asia-Pacifico (pivot to Asia) si è manifestata in un sostanziale immobilismo statunitense di fronte ai sommovimenti delle primavere arabe, e in misura ancora maggiore di fronte al caos dei precoci inverni che hanno fatto seguito. La decisione di tenere gli Usa fuori dal conflitto siriano - anche nei momenti drammatici seguiti all'attacco chimico di Ghouta nell'agosto 2013 - da una parte ha lasciato spazio per altri attori, dall'altra ha indispettito gli alleati storici, Arabia Saudita in primis, preoccupati anche dalla contemporanea apertura all'Iran. Ora Trump sembra voler in parte correggere il tiro, non tanto con un "ritorno" degli Usa nell'area (su questo la politica di Trump è in assoluta continuità con quella di Obama) quanto piuttosto con una più forte dimostrazione di vicinanza agli alleati Israele e Arabia Saudita: questo si manifesta e si continuerà a manifestare nei prossimi mesi in una politica più ostile verso Teheran.
  In conclusione, alla progressiva scomparsa territoriale dello Stato islamico fa da contraltare il graduale ritorno alle divisioni politiche preesistenti l'affermazione del movimento di al-Baghdadi. Con due aggravanti che rischiano di complicare il quadro: il veleno del settarismo che in questi anni ha impregnato il discorso politico e religioso, e la possibile ridefinizione degli equilibri di potere che la fine di ogni conflitto porta con sé. È dunque un bene gioire per la riconquista dei luoghi-simbolo dello Stato islamico, ma non bisogna commettere l'errore di pensare che il quadro si ricomporrà in maniera armonica: al contrario, ciò che è lecito aspettarsi nel prossimo futuro è la riapertura di vecchie (e nuove) linee di faglia.

(ISPIonline, 24 ottobre 2017)


Il ministro israeliano Katz offre a Tokyo la partecipazione a un progetto di portata strategica

Il ministro dei Trasporti e dell'Intelligence Israeliano, Israel Katz
TOKYO - Il ministro dei Trasporti e dell'Intelligence Israeliano, Israel Katz, è partito oggi alla volta del Giappone per una visita ufficiale di tre giorni, portando con sé una proposta che potrebbe mutare in maniera radicale il panorama geopolitico del Medio Oriente. Il ministro inviterà il Giappone a partecipare a una serie di progetti multimiliardari di espansione e ammodernamento delle infrastrutture mediorientali. L'obiettivo di Tel Aviv, ha dichiarato Katz in una intervista concessa in esclusiva al quotidiano "Nikkei", è di elevare Israele a "principale porta di accesso tra l'Europa, il Mediterraneo e i paesi del Golfo per il trasporto di merci da est ad ovest, e ponte tra tre continenti". Consapevole delle solide relazioni diplomatiche tra il Giappone e il mondo sunnita, Israele intende proporre a Tokyo il ruolo di intermediario per l'avvio di una cooperazione economica senza precedenti tra lo Stato ebraico e il Mondo arabo: un obiettivo che Tel Aviv intende agevolare anche attraverso un ambizioso piano per il sostegno allo sviluppo infrastrutturale ed economico dei territori palestinesi di Gaza e la Cisgiordania.
  I piani per i territori palestinesi, ha spiegato il ministro Katz al "Nikkei", si articola in due parti: un ponte terrestre e un'isola artificiale al largo di Gaza. Al Giappone Tel Aviv offrirebbe un ruolo di primo piano nel progetto, con un contratto di leasing di 25 anni del porto di Haifa. Non è la prima volta, ricorda il "Nikkei", che Israele si rivolge a un paese asiatico per promuovere la cooperazione e lo sviluppo nella Regione mediorientale: nel 2015 il cinese Shanghai International Port Group è stato l'unico partecipante a una gara d'appalto per la gestione di un secondo porto marittimo israeliano da un miliardo di dollari, che dovrebbe aprire i battenti nel 2021.
  Dal porto mediterraneo di Haifa parte una linea ferroviaria costruita oltre un secolo fa dall'Impero turco ottomano e chiusa dal Regno Unito nel 1946. Nota oggi come la "Old/New Valley Line", il tratto di ferrovia lungo 60 chilometri è tornato operativo lo scorso anno: la strada ferrata attraversa il territorio israeliano a nord di Beit Shean e termina sul ponte Sheikh Hussein, al confine con la Giordania. Israele è decisa a realizzare una linea ferroviaria di 200 chilometri che connetta quel tratto di ferrovia a un'altra linea già esistente nell'area di Al Hadithah, in Arabia Saudita. La Giordania ha approntato a sua volta dei piani, che prevedono la realizzazione di un hub ferroviario ad est dell'asse Irbid-Mafraq: ciò consentirebbe di collegare le linee ferroviarie succitate alla rete ferroviaria irachena.
  Ad oggi il porto di Haifa è anche la destinazione di migliaia di autotreni che giungono sul territorio israeliano via traghetto dalla Turchia, con carichi destinati ai paesi arabi attraverso la rete stradale giordana. La realizzazione delle nuove vie ferroviarie consentirebbe di caricare direttamente le merci su convogli ferroviari ad Haifa, e da lì inviarli direttamente verso l'Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo. "Questa iniziativa creerà una rotta commerciale est-ovest alternativa, che sarà più breve, rapida, sicura e meno costosa alla luce delle minacce iraniane alle rotte marittime nel Golfo persico, nello Stretto di Hormuz e nel Mar Rosso", ha spiegato il ministro dei Trasporti israeliano al quotidiano "Nikkei".
  Il principale ostacolo al grandioso progetto concepito da Israele è di natura soprattutto diplomatica: pochi paesi arabi, infatti, hanno in essere relazioni ufficiali con Tel Aviv; la Giordania, che ha firmato un trattato di pace con Israele nel 1994, è uno di quei paesi, e Tel Aviv - ha sottolineato il ministro Katz - riconosce nel suo vicino orientale un asset di rilievo strategico. Negli ultimi anni, inoltre, il comune interesse di Israele e delle monarchie del Golfo a contenere le politiche di potenza iraniane hanno incentivato il dialogo informale tra Tel Aviv e alcuni paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo.
  Proprio per rafforzare questi canali di comunicazione e dialogo con il mondo sunnita, Tel Aviv intende giocare la carta dello sviluppo dell'economia palestinese. Più o meno a metà della "Old/New Valley Line", ha spiegato spiega Katz nel corso dell'intervista, "si diramerebbe una linea diretta a sud verso la città di Jenin, nella Cisgiordania, se palestinesi e israeliani concordassero di cooperare sul fronte economico". Ciò potrebbe avvenire "anche in assenza di un accordo di pace per la normalizzazione delle relazioni", ha puntualizzato il ministro, aggiungendo che il Giappone potrebbe agevolare il raggiungimento di un accordo, dato il suo impegno umanitario nei territori amministrati dall'Autorità nazionale palestinese (Anp). Per quanto riguarda invece il progetto di un'isola artificiale al largo di Gaza - già circolato nei mesi scorsi - si tratterebbe di fornire all'enclave palestinese una porta per l'accesso alla regione e al resto del mondo.
  "Le persone hanno bisogno di maggiori opportunità economiche", ha riconosciuto il ministro riferendosi agli arabi palestinesi. "Questo progetto unirebbe le dimensioni umanitaria, infrastrutturale e logistica e dei trasporti". Nel corso della sua visita in Giappone, Katz illustrerà il progetto israeliano della "Gaza Island Initiative"; l'isola artificiale sorgerebbe a cinque chilometri dalla costa di Gaza, e Tel Aviv è fiduciosa che Tokyo accetterà di prendere parte a un progetto che migliorerà le condizioni di vita dei 2 milioni di abitanti della Striscia, contribuendo al contempo a ridurre la tensione e i rischi di un nuovo conflitto tra Israele e i palestinesi, grazie anche alla recente riconciliazione tra l'Anp e Hamas, che amministra Gaza dal 2007.
  La visita di Katz al Giappone, sottolinea il quotidiano "Nikkei" al termine dell'intervista, sarà importante anche alla luce del doppio ruolo del ministro israeliano quale titolare del dicastero dell'Intelligence; gli incontri di Katz con i funzionari del governo di Tokyo si concentreranno sugli "interessi comuni" e i timori dei due paesi per le rispettive "minacce" regionali: l'Iran e la Corea del Nord. Per il governo giapponese, stringere calorosi rapporti con il ministro israeliano sarà particolarmente importante, dal momento che Katz ha recentemente annunciato l'intenzione di candidarsi alla guida del partito Likud, quando l'attuale premier israeliano Benjamin Netanyahu farà un passo indietro.

(Agenzia Nova, 24 ottobre 2017)


Il ministro Lieberman ritiene Hezbollah responsabile del lancio di razzi da territorio siriano

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha accusato ieri il movimento sciita Hezbollah e il suo leader Hassan Nasrallah di aver lanciato razzi dalla Siria verso Israele lo scorso 20 ottobre. Parlando ad una conferenza del suo partito Yisrael Beiteinu, Lieberman ha dichiarato che il lancio di razzi non è stato un errore, ma un tentativo deliberato di colpire Israele su iniziativa di Hezbollah. "Il fuoco transfrontaliero è stato ordinato da Nasrallah", ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano, il quale ha tuttavia affermato che Israele ritiene ancora responsabile il regime del presidente siriano Bashar al Assad dell'attacco. Lieberman ha invitato il presidente siriano e le forze russe attive nel paese arabo a fermare le attività di Hezbollah. Lo scorso 21 ottobre Israele ha colpito tre postazioni di artiglieria siriana in risposta al lancio di almeno cinque razzi caduti oltre le alture del Golan in territorio israeliano.
Questa è la seconda volta in una settimana che Israele colpisce obiettivi in Siria. Lo scorso 16 ottobre l'aviazione israeliana ha colpito una batteria missilistica anti-aerea nei pressi di Damasco, in risposta ad un tentato attacco dell'aviazione siriana contro caccia israeliani impegnati in una missione di routine che interessava anche lo spazio aereo libanese. Un missile del tipo SA5 era stato lanciato contro aerei da ricognizione israeliani che non sono stati colpiti.

(Agenzia Nova, 24 ottobre 2017)


Arabia Saudita. Il principe ereditario promette: «Torneremo a un islam moderato»

di Camille Eid

Mohammed bin Salman: «Il 70% dei sauditi è sotto i 30 anni. Non perderemo tempo a confrontarci con idee estremiste»

Mohammed bin Salman
L'Arabia Saudita tornerà a quello che era prima del 1979», ossia a prima della proliferazione delle idee del cosiddetto «risveglio islamico». Lo ha detto l'erede al trono, Mohammed bin Salman, nel corso di un dibattito al Future Investment Initiative, l'importante forum economico che durerà fino a giovedì nella capitale Riad. «Il 70% del popolo saudita è al di sotto dei 30 anni - ha proseguito il nuovo uomo forte del Regno - e non perderemo altri 30 anni a confrontarci con idee estremiste. Le distruggeremo oggi perché vorremmo condurre una vita normale in sintonia con i principi tolleranti della nostra religione e delle nostre tradizioni».
   Il principe ereditario - nelle cui mani si concentrano ormai i poteri politici militari ed economici - intende evidentemente cancellare l'idea che il suo Paese sia il principale finanziatore di radicalismo islamico al mondo, attraverso la diffusione dell'ideologia wahhabita e la costruzione di moschee.
   Mohammed aveva imposto l'anno scorso forti restrizioni agli uomini dell'Ente per la promozione della virtù e la proibizione del vizio, ossia la temuta polizia religiosa. Un mese fa, ha "addomesticato" la potente istituzione wahhabita (rappresentata dal Gran mufti e il Consiglio degli ulema) con la storica decisione di permettere alle donne di guidare un'automobile. Ma è un riformismo che procede anche con la repressione: si parla, infatti, della censura imposta a circa mille ulema, che non possono esprimersi in pubblico o sui social, e di una decina di noti predicatori finiti in carcere. Si teme, in particolare, che «l'islam moderato» del giovane erede al trono sia semplicemente contrapposto a un ipotetico «islam radicale» di Paesi e movimenti invisi al Regno. Tra questi l'Iran: non a caso, infatti, quel riferimento iniziale del principe al 1979, anno della salita al potere di Khomeini, come "spartiacque".

(Avvenire, 24 ottobre 2017)


Anne Frank

di Claudio Vercelli

Ciò che dovrebbe fare riflettere, nella squallida vicenda dell'uso del volto di Anne Frank per dileggiare i tifosi di una squadra avversaria, non è solamente il ripetersi maniacale dei medesimi stili antisemitici. Non è una novità, quest'ultima, anche se il suo rinnovarsi, come fetida tradizione nera, quella del pregiudizio, non rassicura. Semmai angoscia. Tuttavia c'è dell'altro, ed è una sorta di sovrappiù che si aggiunge a tutto quanto ci si potrebbe ancora dire sul nesso tra estremismo, tifoseria ultras, stadi e razzismo antiebraico. Quel di più sta nel fatto che Anne Frank, oggi improvvidamente qualificata dal più importante quotidiano del nostro Paese come «scrittrice tedesca», è stata collocata da tempo, oramai, nel Pantheon dell'immaginario pop. Ci riferiamo non alla Anne Frank in carne ed ossa, vittima della Shoah, bensì alla sua immagine traslata, riprodotta in maniera del tutto decontestualizzata, eretta a simbolo di un qualcosa purchessia, a prescindere da ciò che era e rappresenta con la sua umana vicenda. Lo sanno molto bene, sia pure a modo loro, quanti l'hanno rivestita della maglietta della squadra avversaria per antonomasia. Se per noi il ricordo di Anne è quello di una giovane vita spezzata, - simbolo della «catastrofe» senza consolazione di un'intera generazione, così come di un Continente, un fatto al quale invece lei stessa cercava, a modo suo, di dare ancora dei significati umani per combattere contro la barbarie - per chi ne fa strame rimane un oggetto intercambiabile, da abusare piuttosto che usare (con grande cautela e massimo rispetto). La vera offesa antisemitica, oggi, sta in ciò: lo specchio del passato si riproduce nel presente, laddove gli «ebrei» di ieri erano ridotti a «pezzi» da sottoporre a «trattamento speciale», mentre oggi sono raffigurati come materiali di offesa, volti senza lineamenti se non quelli dell'oltraggio da infliggere ai propri "nemici". Rimane un fatto, ossia che a chi è nato ilota, cresciuto servo e infine fattosi schiavo, e ciò malgrado la possibilità di liberarsi dalle sue catene, va ricordato che il pesante clangore degli anelli è tanto più forte quanto minore è la sua capacità di emanciparsi dal bisogno che sente di continuare a vivere nelle fogne dell'umanità. Ed è schiavo non chi vive nell'impedimento ma chi non sa d'essere impedito. Né vuole saperlo.

(moked, 24 ottobre 2017)


Israele, storica svolta nei kibbutz: «I robot raccoglieranno la frutta»

Sì all'agricoltura hi-tech. «Ai giovani non piace lavorare nei campi». Quattro braccia bioniche dotate di telecamere per stabilire anche il grado di maturazione.

di Lorenzo Bianchi

 
Gli ultraortodossi continuano come sempre
Nei kibbutz il lavoro e la vita collettiva erano un pilastro dell'etica comune che bandiva la proprietà privata. L'altro architrave, all'occorrenza, era la difesa armata. Erano le cellule del futuro stato di Israele che ora tradiscono tutti i segni del tempo trascorso al punto che il kibbutz Merom Ha-Golan, sta sperimentando un robot capace di raccogliere 10 mila frutti all'ora, mele o arance, dieci volte il 'bottino' di una squadra di persone. Dovrebbe costare 235mila euro.
   Un tempo essere un membro delle fattorie collettive, concepite nelle società ebraiche di tendenza socialista dell'Europa Orientale, era un nastrino sul petto. «Oggi i giovani non vogliono più lavorare nei campi», ha confidato un membro della comunità di Merom Ha-Golan al quotidiano economico Mammon. Triste parabola delle fattorie collettive nelle quali è passata tutta l'élite della società israeliana, primo fra tutti il premio Nobel per la pace e già presidente Shimon Peres scomparso alla fine dell'anno scorso. Da giovane aveva vissuto a lungo nel kibbutz Geva e aveva fondato la comunità di Alumot. Subito dopo fu chiamato alla guida dei giovani laburisti e poi fu arruolato nelle unità speciali paramilitari dell'Haganah.
   Nei kibbutz delle origini era abolito il denaro. Ognuno veniva pagato con i frutti del lavoro nei campi a seconda delle necessità. I bambini erano sempre nelle scuole. Nei tempi eroici non dormivano con i genitori e vivevano con loro solo durante le vacanze. Tutte le decisioni importanti venivano prese dall'assemblea dei membri, i kibbutzim. Il primo insediamento fu Degania, fondata nel 1909 sul lago di Tiberiade. Nei decenni tutto è cambiato. Il declino è cominciato con la nascita dello stato ebraico. La crisi di vocazioni e la concorrenza dei privati ha costretto le 'fattorie' a ricorrere a manodopera salariata (prima palestinese poi asiatica) e ad occuparsi perfino della lavorazione di materie plastiche e di elettronica. Nel 2010 i kibbutz hanno coperto il 9 per cento della produzione industriale e il 40 per cento di quella agricola.
   In questo contesto la startup FFRobotics di Avi Kahani ha messo a punto il robot che raccoglie i frutti sugli alberi. E' un trattore molto simile a un polipo dal quale partono quattro braccia bioniche dotate di telecamere che stabiliscono, grazie a un algoritmo, se il frutto è maturo e se deve essere colto. Una macchina analoga è stato sperimentata anche negli Stati Uniti per tre anni dalla Abundant Robotics e dovrebbe entrare in produzione nell'autunno del 2018. Avi Kahani sta già guidando la sua creatura fra i filari di Merom Ha-Golan ed è convinto che permetterà anche di ridurre al minimo gli scarti di frutti. L'epopea delle origini è svanita.

(Nazione-Carlino-Giorno, 24 ottobre 2017)


1938, le vite spezzate degli ebrei italiani mostrano il vero volto del fascismo

di Amedeo Osti Guerrazzi

Che nel 1938 Mussolini abbia deciso di perseguitare gli ebrei con delle leggi che li escludevano dalle scuole, da quasi tutti i lavori e, in generale, dalla società, è cosa nota. Gli effetti sulle persone di queste leggi razziste e infami è meno noto. Ancora oggi si sente spesso dire che Mussolini non era un sanguinario come Hitler, e quella fascista era stata una dittatura all'acqua di rose. Questa leggenda storica ( oggi si direbbe «fake news», tempo addietro si diceva baggianate), viene ripetuta non soltanto a livello popolare, ma anche da libri (alcuni anche recentissimi) che vorrebbero essere scientifici.
   La storia è nota, ma è forse opportuno ricordarla, ancora una volta, attraverso le vicende di una famiglia, per capire cosa ha voluto dire, per dei cittadini italiani di religione ebraica, essere improvvisamente spogliati del loro lavoro, del loro diritto all'istruzione, del loro posto nella società.
   Giulia Spizzichino era una ragazzina ebrea romana, nata nel 1926 e cresciuta nel quartiere di Testaccio da una famiglia di piccoli commercianti di tessuti. Aveva quattro fra fratelli e sorelle e la vita, per un nucleo così numeroso, era difficile. Soltanto nei tardi Anni Trenta, grazie al duro lavoro dei genitori, gli Spizzichino raggiunsero una modesta agiatezza. Come tanti, anche Giulia indossava le divise delle organizzazioni giovanili del Partito fascista, andava alle parate, partecipava alle cerimonie. Era una famiglia normale, quella degli Spizzichino, perfettamente integrata nella società dell'epoca. Non erano neanche particolarmente religiosi. Rispettavano le feste ebraiche, almeno quelle più importanti, ma si scambiavano regali all'Epifania e festeggiavano il capodanno cristiano.
   Eppure anche per Giulia l'apertura dell'anno scolastico
   1938/1939 fu un trauma. «L'elemento personale che associo alle leggi razziali - ha scritto nel suo libro La Farfalla impazzita - sono le lacrime di mia madre, il brutto giorno in cui io venni allontanata dalla scuola. Lì per lì mi colpirono molto, non l'avevo mai vista piangere».
   Fu un trauma che tutti i testimoni dell'epoca ricordano con particolare amarezza. Il punto di svolta nelle loro vite. Ma quello che i ragazzi ebrei ancora non sapevano, ma impareranno molto presto, è che si trattò solo del primo passo. A novembre, dopo la cacciata dalle scuole e dalle università, arrivarono le leggi antiebraiche vere e proprie. Migliaia di persone furono costrette a lasciare il lavoro, l'esercito, il Partito. Molti emigrarono, altri tentarono la difficile strada della «discriminazione». Alcuni, non pochi, si toglieranno la vita.
   Ma ciò che fece più male, negli anni successivi, fu il progressivo isolamento dalla società. Vicini di casa, colleghi, amici o presunti tali, levavano il saluto agli ebrei, ormai considerati degli appestati, cambiavano marciapiede quando gli incontravano per strada, fingevano di non vederli. Altri, i peggiori, approfittarono delle leggi per prenderne i posti nel lavoro.
   Nonostante le leggi, gli Spizzichino continuarono ad avere una vita quasi normale. Cesare, il padre, riuscì a mantenere in piedi il suo negozio fino a quando, nel 1941, a causa di un atto di generosità verso dei correligionari in difficoltà, fu inviato al confino. «Ho visto mio padre allontanarsi in mezzo a due fascisti, una scena che nel mio cuore è come se fosse accaduta ieri».
   Fu una vita difficile, difficilissima quella degli Spizzichi-
   no durante la guerra. Ma il peggio arrivò con l'occupazione tedesca. Privati delle tessere per il cibo, il padre fu costretto a vendere ciò che restava della merce del suo negozio clandestinamente. Poi, in autunno, la famiglia decise di fuggire fuori Roma. Ma dopo poco anche in provincia la situazione si fece troppo pericolosa. Gli Spizzichino dovettero tornare a Roma, nascondendosi in via Madonna dei Monti dove, per colpa di un collaboratore italiano dei nazisti, furono scoperti. Giulia, assieme al padre, riuscì a sfuggire alla retata, ma buona parte della famiglia venne catturata. I maschi furono portati nel carcere di Regina Coeli e dopo tre giorni uccisi nella strage delle Fosse Ardeatine.
   Giulia scampò alla razzia, ma tutto il resto della sua vita è stato segnato da questo lutto terribile. Alla fine del secolo scorso, ha avuto un ruolo fondamentale nel processo ad Erich Priebke, uno dei carnefici delle Ardeatine.
   Le leggi antiebraiche sono state un vulnus a secoli di civiltà giuridica italiana, hanno causato enormi sofferenze a migliaia di cittadini italiani colpevoli soltanto di andare il sabato in sinagoga invece che la domenica a messa, ma soprattutto hanno creato quel clima orribile di ostilità e diffidenza nei confronti di una minoranza che ha facilitato enormemente la persecuzione delle vite tra il settembre 1943 e l'aprile del 1945. Hanno avvelenato un popolo, il nostro, segnando una macchia indelebile di vergogna per il nostro Paese.

(La Stampa, 24 ottobre 2017)


Soggiorni in Israele in palio con 'Two Cities One Break' e Mondadori

 
La campagna 'Two Cities One Break', lanciata dall'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo e che invita a scoprire in un unico citiesbreak le città di Tel Aviv e Gerusalemsme, prosegue in Italia e fa tappa per la prima volta nei Mondadori Store. Fino al 16 novembre, infatti, i clienti online e quelli di più di 30 punti vendita Mondadori Store selezionati avranno la possibilità di vincere un viaggio per 2 persone in Israele alla scoperta di Tel Aviv e Gerusalemme: per partecipare sarà sufficiente effettuare un acquisto e registrarsi sul sito www.2cities1breakmondadoristore.it.
"È un onore per noi collaborare con un grande brand come Mondadori. Tel Aviv e Gerusalemme sono sinonimo di cultura, di scoperta e di incontro, così come lo sono i Mondadori Store: non c'è luogo più adatto per promuovere le due città e invitare il pubblico a scoprirle in un unico citiesbreak. Con 72 voli diretti dall'Italia, Israele è ancora più vicina questo inverno", dice Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
"Siamo certi che il pubblico premierà con la propria attenzione la ricchezza dei contenuti proposti con questo progetto. Sempre di più le aziende vogliono che la propria comunicazione sia esperienziale e Two Cities One Break vuole fare questo, offrire l'opportunità di un'esperienza", commenta Davide Mondo, ad di Mediamond.
L'iniziativa sarà promossa online, sui social e all'interno dei punti vendita Mondadori Store su schermi e totem dove sarà trasmesso il video della campagna 'Two Cities One Break'. I clienti dei negozi riceveranno inoltre in omaggio speciali segnalibri dedicati a Israele.
Le proposte di viaggio per un citiesbreak a Tel Aviv e Gerusalemme sono disponibili sul sito http://it.citiesbreak.com/

(Travelnostop, 24 ottobre 2017)


Corbyn non cena per Balfour

Il leader laburista vorrebbe che Israele non fosse proprio mai nato

Il rifiuto di Jeremy Corbyn, leader del laburismo inglese, a partecipare alla cena di Londra per il centenario della dichiarazione Balfour è la conferma di ciò che molti hanno sempre sospettato e intuito (per l'occasione il premier israeliano Benjamin Netanyahu sarà nella capitale britannica per ringraziare l'Inghilterra di quel dono fatto nel 1917 al popolo ebraico). L'antipatia verso Israele di Corbyn e altri pezzi importanti della sinistra occidentale va ben oltre l'ostilità verso gli "insediamenti" israeliani, come ripetono i dirigenti della sinistra laburista. Corbyn e compagni vorrebbero che Israele non fosse mai nato. Il leader di Momentum viene spesso indicato sulla questione israeliana come il teppista, il piromane. Ma il rifiuto di Corbyn di sostenere pubblicamente il diritto di Israele a esistere è in verità abbracciato da una parte consistente dell'élite britannica. Si tratta di funzionari governativi, parlamentari, registi, giornalisti, intellettuali, accademici, capi delle organizzazioni non governative, leader delle chiese. L'Inghilterra svetta in Europa per il boicottaggio accademico di Israele. I suoi attori sono spesso in prima fila nel firmare petizioni contro "il sionismo". I suoi giornali ospitano le vignette più violente contro i dirigenti israeliani.
Sarebbe bello se il rifiuto di Corbyn fosse il parto della mente di folle guevarista fuori tempo massimo. In realtà, il corbinismo intellettuale è dentro al mainstream britannico, è l'espressione delle "chattering classes", le classi scriventi e parlanti del Regno Unito.

(Il Foglio, 24 ottobre 2017)


Dureghello a Lotito: adesso denunci i colpevoli

«Lotito non si nasconda, denunci tutti». La presidente della comunità ebraica, Dureghello: le foto della vergogna le ho pubblicate io.

di Claudia Voltattorni

Reazione

La presidente della comunità ebraica di Roma invoca«una reazione unanime di tutti, perché l'antisemitismo non è una questione solo della comunità ebraica ma riguarda tutti: usare quelle immagini in quel modo deve indignare chiunque le guardi. Queste azioni danneggiano lo sport».

«Quello che successo è gravissimo, non va sottovalutato e credo che ci sia bisogno di una reazione molto forte e unita di tutte le forze in campo, dalle società di calcio, al Coni, alla politica: servono atti e gesti corali». La presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello quasi non credeva ai suoi occhi quando ha visto quegli adesivi con Anna Frank con indosso la maglietta della Roma. Alcuni tifosi della Lazio li hanno attaccati sui vetri in Curva Sud domenica durante la partita contro il Cagliari. La Curva Nord dei laziali era chiusa per la prima delle due giornate di squalifica dopo i buu razzisti contro il Sassuolo. La Lazio ha condannato il gesto pur sottolineando che si è trattato di «un numero minutissimo di sconsiderati». Ma per Ruth Dureghello questo non è sufficiente: «Non può bastare, né a me né a nessuno e anche se sono pochi e isolati fanno comunque molto danno».
Un gesto di pochissimi e sconsiderati, dice la Lazio? Ma non ci si può nascondere dietro a questi "pochissimi", anche perché doveva essere la società a denunciarli subito, invece l'ho fatto io, mentre questi tifosi - dice Dureghello - spavaldi mostravano le loro gesta: mi fa indignare questa cosa».
Come reagire? La presidente della comunità non chiede una punizione, «non è il mio ruolo», ma invoca piuttosto «una reazione unanime di tutti, perché l'antisemitismo non è una questione solo della comunità ebraica ma riguarda tutti: usare quelle immagini in quel modo deve indignare chiunque le guardi». E necessario, sottolinea ancora «che tutti prendano coscienza che quelle azioni danneggiano prima di tutto lo sport: perché quello che accade negli stadi non ha nulla a che fare con lo sport, si chiama antisemitismo ma anche razzismo, violenza, omofobia: tutto questo va condannato ed estirpato.
Il Pd chiede l'intervento del ministro dell'Interno Marco Minniti, parlando di «repressione severa». La presidente della Camera Laura Boldrini invoca «durezza» per «non darla vinta ai razzisti». Il ministro dello Sport Luca Lotti parla di «fatto gravissimo» e il presidente della Figc Carlo Tavecchio di «fatto inqualificabile». La sindaca Virginia Raggi fa sue le parole di Dureghello, «non è sport questo», mentre il presidente della Regione Nicola Zingaretti proprio da Treblinka, in un Viaggio della Memoria con decine di studenti, si dice ancora più indignato «perché siamo qui per contrastare ogni forma di ignoranza e revisionismo».
E Ruth Dureghello ricorda che «ancora una volta un gesto di pochi e isolati si traduce in un disastro, una volgarità assoluta che tra l'altro è anche un reato: ma ora basta, è ora di far capire una volta per tutte cosa è lecito e cosa no e che azioni di questo genere hanno delle conseguenze gravi». Chiudere gli stadi? «Non sono io a dirlo - continua-, però potrebbe servire farlo per 2-3 settimane, magari anche le società finalmente capirebbero che è ora di smetterla con l'antisemitismo sugli spalti».

(Corriere della Sera - Roma, 24 ottobre 2017)


Attacco terroristico al villaggio di Shavey Zion: Israele simula assalto di Hezbollah

L'esercitazione è durata 11 giorni e ha coinvolto decine di migliaia di truppe dell'IDF

di Maria Grazia Labellarte

Un'aggressione armata da parte di Hezbollah contro lo Stato di Israele. Lo scorso mese si è svolta un'esercitazione militare che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di truppe provenienti da tutte le componenti delle IDF, le forze di difesa israeliane. Durata undici giorni, è stata denominata "La luce del Dagan", in onore e ricordo dell'ex direttore del Mossad, il servizio di intelligence israeliano, Meir Dagan.
Tenutasi nella parte meridionale della Galilea, l'esercitazione ha simulato un attacco terroristico al villaggio di Shavey Zion, a quindici chilometri dal confine libanese, portato avanti da centinaia di combattenti Hezbollah delle unità di Radwan che hanno invaso il nord del Paese, catturando civili e occupando la sinagoga locale. Obiettivo finale piantare la bandiera di Hezbollah sul suolo israeliano.
In risposta, nella simulazione le unità dell'IDF hanno condotto un'operazione su larga scala nella zona del Libano meridionale, condotta in 3 fasi: una di prevenzione, una difensiva e l'altra di assalto, allontanando i civili e utilizzando unità supplementari, con conseguente "assalto nel Libano meridionale". Già precedentemente all'esercitazione, il vicedirettore dello staff generale dell'IDF aveva espresso la sua forte preoccupazione nei confronti dell'Iran (ritenuta roccaforte del partito politico libanese), in quanto possiede un forte settore terziario, buoni scienziati, molti giovani talenti e soprattutto importanti infrastrutture accademiche.

 Perché dunque tale esercitazione?
  Nei mesi precedenti, proprio sulla questione dell'occupazione sempre più imponente di Hezbollah nelle zone del Sud del Libano, l'inviata speciale americana, Nikki Haley, parlando alle Nazioni Unite ha insistito affinché il mandato della missione internazionale di pace Unifil, in quel momento in fase di rinnovo, nella nuova formula concedesse ai caschi blu l'uso della forza contro Hezbollah, considerato dagli Stati Uniti come anche da Israele anziché partito politico vera e propria organizzazione terroristica.
Molti Hezbollah, esperti combattenti, sono stati uccisi durante i combattimenti in Siria. Pertanto, la leadership di Israele ritiene che adesso sia il momento di infliggere un colpo decisivo al gruppo, così come anticipato dal colonnello Shaul Shay, direttore di ricerca dell'Istituto per le politiche e strategie al Centro interdisciplinare di Herzliya in Israele (Idc), durante un'intervista esclusiva concessa a Ofcs Report.
Tuttavia, secondo alcuni analisti americani, in questa esercitazione le forze armate israeliane, in un certo qual senso, hanno sottovalutano l'avversario. In realtà, sempre secondo questo studio, le unità di Hezbollah non attraverseranno la frontiera in quanto risulterebbe più facile operare contro i soldati israeliani sulla Striscia di Gaza, piuttosto che a Sud del Paese, proprio per le condizioni del terreno che qui si presenta montuoso.

 La composizione dell'IDF
  Sono circa 170 mila i membri dell'IDF, di cui 130 mila sono nell'esercito, più di 33 mila nella forza aerea, 9,5 mila nella marina. Inoltre, sono presenti 465 mila soldati di riserva. La polizia di frontiera (Magav) fornirebbe 8000 soldati per assistere le forze armate. L'IDF risulta avere una combinazione unica tra un arsenale di attrezzature prodotte negli anni '60 e armi moderne, al pari delle più forti potenze militari del mondo. Particolare attenzione ultimamente è stata prestata alle forze terrestri. Secondo il piano Gideon, infatti, il nuovo esercito sarà fornito di attrezzature più moderne e quindi sarà in grado di resistere alle nuove minacce, diventando così sempre più specializzato.

(OFCSreport, 23 ottobre 2017)


… derive

Riportiamo un articolo apparso qualche giorno fa sul portale dell'ebraismo italiano. NsI

di Davide Assael

La cosa più vicina e più difficile a vedersi, diceva un famoso filosofo dello scorso secolo. Così, mentre in Europa eravamo impegnati ad elaborare strampalate teorie, paventando l'avvicinarsi di una fantomatica Eurabia, sulla scia di libri che avevano il solo obiettivo di far la fortuna di chi li editava, il dato evidente era un altro. La vecchia storia si stava ripetendo: in ogni periodo di crisi, il Vecchio Continente vira a destra. Prima l'Ungheria, poi la Polonia, poi l'intero gruppo di Visegrad, senza contare l'incredibile ascesa dei partiti lepenisti nei Paesi occidentali. Le elezioni austriache sono solo l'ultimo atto di questo percorso. Purtroppo, a questo declino culturale ha anche partecipato parte dell'ebraismo europeo; forse per sentirsi più ebrei, molti hanno immaginato di combattere qui da noi lo stesso conflitto che si combatte in Israele. Senza contare che la lotta fra Cristianesimo e Islam è assai antica e solitamente a rimetterci sono proprio gli ebrei. Dice niente la cacciata dalla Spagna nel 1492? Ciò che bisognava scongiurare era proprio questa deriva integralista. Si è, invece, contribuito ad alimentarla.

(moked, 18 ottobre 2017)

L’accenno alla “fantomatica Eurabia” è un riferimento esplicito a chi ha coniato questo termine: Bat Ye’or. Parlare poi, in questo contesto, di “libri che avevano il solo obiettivo di far la fortuna di chi li editava”, è un giudizio gratuito e infamante che ha come unico risultato di squalificare chi l’ha fatto. Riportiamo la breve risposta di Bat Ye’or, apparsa oggi sullo stesso portale. M.C.


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Le sfide di questo secolo

di Bat Ye'or - Gisèle Orebi Littman

In un'epoca nella quale dobbiamo confrontarci col terrorismo jihadista mondiale, alcune persone fanno riferimento ai concetti politici obsoleti del secolo scorso: lo scontro tra la sinistra e la destra. Ciechi di fronte alle realtà di oggi, costoro parlano di una "fantomatica Eurabia" perché ignorano la collusione nata nel 1973 tra la Comunità Europea e la Lega Araba contro lo Stato di Israele e le democrazie territoriali. Eurabia è il nome di questa politica.
Speriamo che gli ebrei saranno fedeli al messaggio di Mosè l'Ebreo che, per primo, parlò della libertà contro la schiavitù, della dignità dell'uomo e della sacralità di ciascuna vita umana. Spero che sapranno battersi coi loro fratelli cristiani e musulmani contro il terrore jihadista e la disumanizzazione della dhimmitudine. Sono le sfide di questo secolo.

(moked, 23 ottobre 2017)


Da Israele all'Italia per reinventare il ruolo della tecnologia

di Gea Schirò

 
Gea Schirò, deputata Pd e componente della Commissione Ue
La rivoluzione digitale sta cambiando il mondo, condiziona pesantemente l'agenda globale e nei prossimi anni sarà sempre di più uno strumento di crescita.
  Israele "nazione startup" è una casehistory visto che in relativamente pochi anni è riuscita a ottenere dei risultati straordinari e ormai è acquisita la formula Silicon Wadi concorrente della più famosa Silicon Valley. Se guardiamo la mappa Mapme, una startup creata nel 2013 dal diciannovenne Ben Lang, si vede la straordinaria concentrazione di aziende: circa 5000, nel triangolo Tel Aviv, Haifa, Cesarea, 31 Incubatori più di 20 Acceleratori.
  Ne abbiamo parlato nel convegno organizzato dall'Università di Palermo, Innovation Ecosystem and Tech-Entrepreneurship in Israel, che ci ha dato la possibilità di fare una riflessione sulle politiche per l'imprenditoria in Italia e nel Meridione.
  Gli ospiti dell'Università di Palermo e del suo incubatore Arca sono figure interessanti per entrare nel mondo della new economy: Rafi Nave è il direttore del Bronica Center dell'Università Technion di Haifa, nato con il supporto di Dina e Yehuda Bronicki per arricchire la cultura imprenditoriale. Teniamo conto che già dalla sua fondazione, nel 1958, la vocazione di questa università è stata quella di sviluppare conoscenza scientifica e capacità gestionale.
  Negli anni ha migliorato le sue performance in campi diversi, anche umanistici e di marketing, supportati sempre da una robusta educazione scientifica con la volontà di essere pionieri nella ricerca e nell'educazione attraverso il migliore insegnamento possibile. E, soprattutto, l'educazione alla scienza e all'impresa che si fa anche attraverso la preparazione ai fallimenti.
  Insomma la buona idea, le competenze per realizzarla e fiducia in se stessi sono la base dei valori condivisi con l'Università e con lo Stato, non è casuale che il motto del Technion sia "Dream it, Do it": sognalo e realizzalo. Bell'incoraggiamento da una Università scientifica.
  In Israele ogni anno nascono 1400 aziende e nello stesso lasso di tempo circa 800 chiudono i battenti. Vi è però la presenza dello Stato a garanzia degli investimenti, ciò fa sì che il fallimento di ogni singola startup abbia una ricaduta positiva sull'intero sistema: se una giovane azienda innovativa chiude, la sua forza lavoro continua la propria attività in altre startup, portando competenze e generando nuovo valore per tutti.
  Di questo ha parlato Anya Eldan, vice presidente della Israel Innovation Authority, fino a poco tempo fa Office of Chief Scientist. Questo è stato l'organismo del Ministero dell'Economia israeliano che per 45 anni ha reso possibile la trasformazione del Paese nella "nazione startup", un ecosistema dell'innovazione.
  Il punto interessante, e che ci riguarda, è che l'Autorità indipendente è sostenuta dal governo ma opera come fosse un'azienda privata con un Ad e un CdA che gestisce i fondi del Ministero dell'Economia per investire in ricerca e sviluppo. Al momento questo pesante investimento ha prodotto con l'high tech, a fronte dell'impiego dell'8% della forza lavoro industriale, il 13% del Pil nazionale.
  Il confronto virtuoso con la realtà più innovativa prodotta dall'Università di Palermo, l'incubatore Arca, con i giovani imprenditori palermitani e con gli studenti ha sicuramente un grande valore motivazionale per tutti e, vista la qualità dei brevetti della nostra Università, è stato anche motivo di orgoglio. Però non può bastare la buona volontà dei singoli soggetti per generare il cambio di passo necessario.
  Sicuramente la volontà di costruire un ecosistema regionale è forte, competente e usa gli strumenti di internazionalizzazione a disposizione però ci scontriamo con una diffusa disaffezione all'imprenditorialità, una rete territoriale non strutturata e, soprattutto, pochi capitali pubblici e privati che investano con fantasia e lungimiranza.
  Questo nonostante la Sicilia sia, per esempio, una miniera culturale e turistica, settore che ha bisogno di un supporto tecnologico avanzato, di sicurezza e di diffusione. Non dimentichiamo il grande vantaggio che la tecnologia offre in questo settore e a un territorio che tradizionalmente lamenta un certo isolamento: la possibilità di offrire dei prodotti, quelli turistici, alla pari ai blocchi di partenza con qualsiasi altro luogo. Dove prima non potevamo arrivare, non eravamo visibili, adesso abbiamo la possibilità di gareggiare alla pari con chiunque, certo poi bisogna avere infrastrutture che non tradiscano le aspettative.
  Il mondo sta cambiando, velocemente e drammaticamente. Un'infinità di nuovi data, di nuove tecnologie, si affastellano confusamente sia in uscita sia, e questo è il problema, in entrata. Quotidianamente ci confrontiamo con questo fenomeno perché nella storia della tecnologia non abbiamo mai avuto una tale qualità, quantità e porosità di materiale da dominare e studiare. Questo passaggio fondamentale, che è la prossima frontiera della ricerca informatica ci pone di fronte alla imperiosa emergenza di capire come affrontare la raccolta di dati dal mondo reale, di controllarli e setacciarli scientificamente.
  Preciso subito che la prima obiezione che si può porre a questa asserzione è che siamo già dominati dall'invadenza di localizzazioni, pubblicità e quant'altro frutto dell'uso improprio dei dati messi in circolazione. In realtà questo è solo il grado zero dell'uso dei Big data.
  Basti pensare che miglioramento amministrativo ci sarebbe se le Istituzioni, come già in alcuni Paesi fanno, dirottassero le informazioni per migliorare la qualità delle politiche pubbliche. Un esempio classico in Italia è quello promosso da molti anni dalla Provincia di Trento sul monitoraggio dei contatori delle persone anziane o sole, quando i consumi diminuiscono drasticamente la rete incrociata dei dati lancia un allarme, sorge il timore di una malattia, di una depressione e i servizi sociali sono allertati per fare una verifica.
  Possiamo immaginare la vastità degli interventi possibili per rinnovare un patto condiviso tra Stato e cittadini, ad esempio la cartella clinica con esami, variazioni, totalità degli esami e codice genetico che ci segua tutta la vita in ogni parte del mondo.
  Ma le Istituzioni sanno porre le domande giuste alla scienza? Poniamo i problemi e abbiamo la visione di comunità che ci permetta di fare delle adeguate domande alla tecnologia?
  Viviamo nel paradosso della massima disponibilità di dati e abbiamo l'opportunità di partecipare alla reinvenzione del ruolo della tecnologia, sarebbe un peccato perdere questo treno.

(L'Huffington Post, 23 ottobre 2017)


Quelle vecchie accuse che non muoiono mai ... Se in Italia l'antisemitismo non è più tabù

Rapporto CDEC 2016. Dal complottismo all'antisionismo, dalla negazione della Shoah fino al puro e semplice odio antigiudaico. Un linguaggio pericolosamente sdoganato, sempre più deteriorato, che usa materiali antisemiti che girano incontrollati sul WEB: dai social network ai blog fino all'editoria e al discorso pubblico .

di Ilaria Ester Ramazzotti

 
Stereotipi antisemiti sul web e graffiti contro gli ebrei
Una tabella dal Rapporto annuale sull'antisemitismo della Fondazione Cdec

Sono ben 23 le case editrici che pubblicano materiali antisemiti in Italia e oltre 300 i siti web che propalano pregiudizi, odio e fake news sul sedicente "controllo" ebraico del mondo. È quanto emerge da quella dettagliata fotografia dell'antisemitismo in Italia che è il Rapporto annuale 2016 del CDEC di Milano, che evidenzia caratteristiche e numeri del pregiudizio antiebraico, colto fra rinnovati stereotipi e nuove banalizzazioni. L'antisemitismo, secondo il Rapporto, è purtroppo ancora vivo e lancia segnali inquietanti. Seppur veicolato da vari e differenti media, è un cancro sempre attuale. Il Rapporto, frutto del monitoraggio sull'editoria e sui social media e di segnalazioni provenienti dal territorio, è stato presentato il 14 giugno scorso nel capoluogo lombardo, a Palazzo Marino, dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano (Cdec), con la collaborazione del Comune di Milano. Sono tanti gli aspetti e gli esempi concreti raccolti e raccontati. In primis, a far da sfondo alla situazione fotografata dall'Osservatorio del Cdec, c'è il deterioramento del linguaggio comune e della dialettica pubblica, colta su giornali, tv e media, spesso incagliata fra stereotipi, violenza e strumentalizzazioni.
  La banalizzazione dalla Shoah, in particolare, per non dire il Negazionismo, va di pari passo con un cedimento della "cultura del rispetto della memoria ebraica" e con il pregiudizio ideologico o politico verso gli ebrei o più di frequente verso lo Stato di Israele. È in corso, in questa direzione, un profondo cambiamento della dialettica di attive e prolifiche minoranze politiche, che ripropongono antichi luoghi comuni e un rinnovato "cospirativismo" che dipinge il mondo ebraico come responsabile di manovre "dietro le quinte" nei teatri economici e politici mondiali. Un complottismo che disegna un panorama preoccupante, spesso acceso da un uso poco controllato e controllabile dei social network.
  Ma c'è di più. Innanzitutto lo "sdoganamento" dell'antisemitismo, la caduta di un tabù di stile e sostanza, espresso da dichiarazioni "complottiste" che citano senza remore né dubbi il presunto potere di lobby ebraiche. E ancora, il ritorno di vecchi stereotipi sugli ebrei, che caratterizza discorsi e dialoghi privati, pubblici e politici. Anche sulla stampa e sui media tradizionali.
  È accaduto per esempio che una radio privata abbia trasmesso, nel 2016 (l'anno preso in esame dal Rapporto appena pubblicato), un programma a puntate per propagandare le tesi dei Protocolli dei Savi di Sion. Nel giugno 2016 un quotidiano ha invece distribuito in allegato il Mein Kampf di Adolf Hitler, spacciandolo per una operazione storiografica.
  «Si registra in particolare un progressivo deterioramento del discorso pubblico su ebrei, ebraismo, Shoah e Stato d'Israele, che coinvolge non solo estremisti e ignoranti, ma intellettuali, docenti universitari, giornalisti, rappresentanti politici», ha evidenziato Betti Guetta, responsabile dell'Osservatorio Antisemitismo del Cdec, nel corso della presentazione del Rapporto. «Le espressioni di antisemitismo su Internet sono in crescita, come dimostra il linguaggio offensivo, brutale e violento riscontrato su siti, forum e Facebook, dove aumentano i profili e i gruppi antisemiti. Il radicalismo di destra e i gruppi di estrema sinistra si dimostrano in questo senso i più attivi. Materiale antisemita continua a essere pubblicato o messo in rete con poche o nessuna conseguenza, poiché è difficile monitorare le piattaforme dei social media e sono i pochi mezzi legali per affrontare insulti e stereotipi che liberamente corrono nel web - ha sottolineato - . Così negazione e minimizzazione della Shoah sono sempre più frequenti e manifesti"»
  Non è poi da sottovalutare che c'è un «hate speach sulla rete che è in correlazione con la vita reale, poiché web e vita reale sono mondi che comunicano e l'antisemitismo non è avulso dalla realtà. Data l'abbondanza del materiale antiebraico che circola online, occorre allora scandagliare la rete per svolgere una analisi dei contenuti di particolari siti web e dei contatti personali di certi profili sui social network».
  « Un altro argomento molto importante riguarda l'antisionismo, inteso come discorso che utilizza stereotipi antisemiti nella polemica contro lo Stato di Israele e il sionismo, e che costituisce con il "cospirativismo" la forma più diffusa e trasversale di giudeofobia - si legge ancora nel Rapporto -. Ma mentre l'antisemitismo dichiarato resta appannaggio della galassia neonazista ed è ancora oggetto di discredito sociale, l'antisionismo, che si presenta come movimento antirazzista, pacifista e sostenitore dei diritti umani, gode di più ampi sostegni anche in ambiti democratici».

 Antisemitismo in Italia: i numeri
  «In Italia si verificano pochi atti di violenza fisica, ma abbiamo registrato 130 episodi antisemiti fra offese, insulti e vandalismo, che aumentano in concomitanza di ricorrenze come il Giorno della Memoria o la Giornata della cultura ebraica», ha aggiunto Guetta. Tendenze antisemite, sviluppatesi nel contesto sociale di oggi, così tanto legato a preoccupazione, paura e sfiducia, si svelano anche attraverso i numeri: nel 2016, con contenuto antisemita, sono stati pubblicati 44 libri e contati 300 siti web, oltre a 160 profili di singoli e 50 gruppi su Facebook. Sono invece 5 i periodici che pubblicano regolarmente articoli con contenuti antisemiti. In particolare, dei 44 libri sopra segnalati, 21 costituiscono delle novità, 23 sono dei classici; 43 sono opere di saggistica e uno è di narrativa.
  Ma qual è il contesto culturale e ideologico in cui nascono queste pubblicazioni? L'antisemitismo di estrema destra connota 30 libri su 44, quello di stampo religioso e tradizionalista nove ( di cui otto cattolici e uno musulmano), l'antisionismo ne marca tre e il negazionismo due. I 300 siti web sono stati classificati e suddivisi dall'Osservatorio in quattro aree ideologiche: 120 neonazisti e/o tradizionalisti cattolici, 90 cospirativisti, 70 antisionisti e 20 negazionisti. In generale, sono 23 gli editori italiani che pubblicano testi antisemiti: 19 sono riconducibili alla destra radicale, tre alla corrente di pensiero New Age e una all'estrema sinistra. Per quanto riguarda invece le segnalazioni provenienti da persone e dal territorio, nel 2016 l'Antenna dell'Osservatorio Antisemitismo del Cdec ha raccolto 343 denunce, delle quali 60 telefoniche e 283 via email. Nel 2015 erano state 202: 27 telefoniche e 175 via mail. Ma la crescita del numero di queste denunce non è da correlare in modo automatico a una crescita di antisemitismo.
  Infine, gli interventi del Bds (il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni contro Israele) sono stai più numerosi rispetto al 2015, sia su Internet sia nella propaganda universitaria e mediatica in generale. Va sottolineato, in conclusione, che grazie all'aumento della sorveglianza, sono diminuiti gli atti di violenza contro istituzioni e luoghi ebraici; le azioni aggressive e violente sono poche, mentre sono numerose le espressioni di ostilità, antipatia e pregiudizio verso gli ebrei e Israele.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2017)



Ricercatori israeliani identificano la causa di un raro e grave disturbo neurologico

Un team di ricercatori israeliani e americani ha individuato la mutazione di un gene che provoca un raro disordine neurologico nei bambini.
Il disordine provoca la degenerazione neurologica e la regressione dello sviluppo nei bambini apparentemente sani, iniziando tra i 3 ei 6 anni. Questi pazienti perdono gradualmente le funzioni motorie, cognitive e linguistiche, diventando pienamente dipendenti tra i 15 ei 20 anni.
Lo studio, condotto dai ricercatori della Facoltà di Medicina dell'Università Ebraica di Gerusalemme, dall'Hadassah Medical Center e dal Pennsylvania State University's College of Medicine e un team multinazionale di ricercatori, è stato pubblicato nel Journal of American Human Genetics.
Nello studio, la radice di questo disturbo neurologico ancora senza nome è stata trovata in una singola mutazione genetica spontanea (non ereditaria), dimostrata come causata da corpi ribosomiali di RNA che inondano i pazienti. Il gene interessato, chiamato UTBF, è responsabile della formazione di RNA.
I ribosomi sono fatti di proteine ribosomiali e RNA, e sono responsabili della produzione delle proteine cellulari. Il Dott. George-Lucian Moldovan Pennsylvania State University's College of Medicine ha confermato i risultati secondo cui i bambini affetti da un eccesso di RNA ribosomiale hanno il cervello "avvelenato".
Sette bambini provenienti da Canada, Francia, Israele, Russia e Stati Uniti sono ora identificati come affetti da questo disordine. Tutti questi bambini hanno lo stesso errore genetico che è assente nei singoli individui, consentendo agli scienziati di determinare che l'errore, in effetti, causa la degenerazione neurologica.
Nessuna cura è ancora stata trovata, ma questa identificazione può consentire lo sviluppo di terapie preventive e di trattamenti efficaci.
Queste le parole della Prof.ssa Orly Elpeleg:
La scienza potrebbe non essere in grado di riparare il gene, ma ora che i nostri risultati sono stati pubblicati, potrebbe essere possibile identificare in anticipo la malattia e in futuro trovare dei modi per prevenire un tale grave deterioramento grave.
Dal 2010, l'Hadassah Medical Center ha assemblato il più grande database di mappatura genetica in Israele, di circa 2400 pazienti.

(SiliconWadi, 23 ottobre 2017)


Tre giorni nel deserto con la musica più cool d'Israele

Da dieci anni il festival InDNegev presenta il meglio della scena indie nazionale. E richiama la meglio gioventù israeliana a soli 25 km dal checkpoint con Gaza ed Egitto. Oggi la piccola tendopoli sulla sabbia smonta

di Fabiana Magrì

GVULOT - Il sole sta tramontando sull'edizione 2017 di InDNegev, il festival musicale che da dieci anni offre l'opportunità a un centinaio di band israeliane di esibirsi in una maratona musicale di tre giorni su quattro palcoscenici allestiti accanto al kibbutz Gvulot, alle porte del deserto del Negev, 100 km a sud di Tel Aviv, 25 km appena da Kerem Shalom, il check point tra Israele, Gaza e l'Egitto.
   È il pomeriggio del secondo giorno quando arrivo al parcheggio del festival. Centinaia di auto sono allineate tra la sabbia, altrettante tende sono stipate una accanto all'altra. Bambini coperti di polvere da capo a piedi giocano e scorrazzano in libertà, gli adulti si stanno risvegliando dalla siesta, i ragazzi bevono birra ciondolando da un palco all'altro.
   L'atmosfera è decisamente groove e chill out, perfetta colonna sonora per aspettare il tramonto nel deserto. Sul palco principale si sta esibendo Yehu Yaron (36 anni di Gerusalemme), uno dei musicisti più attivi e influenti della nuova scena musicale israeliana. Per festeggiare l'uscita del suo nuovo album "Se non balliamo non capiremo nulla" (settembre 2017) ha invitato Eran Zur (52 anni di Kiryat Bialik), autore, cantautore e bassista rock che ha iniziato la carriera alla fine degli anni '80.
   Da un altro palcoscenico arriva la musica Or Edry, cantante e bassista nata e cresciuta ad Arad, poi trasferita a Tel Aviv, da qualche anno protagonista della scena indie israeliana. Nel 2016 è uscito il suo album di esordio "Reo".
   Anche il giovanissimo cantautore Ulai Danon, di Tel Aviv, ha debuttato un anno fa con "Il silenzio della terra", undici brani in cui racconta con onestà l'esperienza dell'adolescenza, e si sta esibendo dalla parte opposta del campo.


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   Calata la sera, tra un hamburger, una pita drusa e un piatto vegano, l'attesa è tutta per Ester Rada, bellissima cantante e attrice israeliana di origine etiope. Nel 2012 esordì proprio a InDNegev e quest'anno è lei la star internazionale del festival.
   La storia, è certo, si ripeterà per le A-WA, tre sorelle israeliane di origine yemenita che cantano in arabo. Cresciute nel villaggio di Shaharut a 30 km da Eilat, appena due anni fa calpestavano la sabbia di Gvulot e quest'anno hanno trascorso l'estate in tour tra gli tra Stati Uniti e l'Europa. Il loro successo è nella forza del mix di canzoni tradizionali con la musica elettronica, hip hop e reggae.
   Dal loro stesso piccolissimo villaggio, 130 abitanti circa, viene anche il gruppo Anna RF formato da Or Raveh (dj, basso e chitarra elettrica), Roy Smila (musicista di strumenti tradizionali persiani, come il violino kamancha, e turchi, tra cui lavta e baglama) e Ofir J. Rock (voce, chitarra, fiati e didgeridoo). La loro esibizione è stata una delle più attese di questa mattina.
   Eppure a InDNegev la musica è, tutto sommato, un sottofondo, una scusa, l'occasione per scappare dalla città o, al contrario, l'evento che spezza la monotonia di una vita nella periferia di Israele. Tutto ruota intorno al campeggio, alla condivisione, all'esperienza da vivere in famiglia.
   Ecco allora il punto di raccolta per i bambini smarriti, la tenda che ospita la mostra di una coppia di artisti, lui israeliano e lei brasiliana di origini giapponesi, e lo spazio InDTox, una sorta di area di decompressione dove, la sera di venerdì, i religiosi che non hanno voluto rinunciare al festival hanno potuto pregare e condividere la cena di shabbat.

(eastwest.eu, 22 ottobre 2017)


Egitto - Al Sisi ordina di inseguire gli autori degli attacchi di Wahat al Bahariya

IL CAIRO - Quasi 45 ore dopo l'attacco terroristico di al Wahat al Bahariya, il presidente egiziano Abdul Fatah al Sisi ha tenuto un incontro con il ministro della Difesa, Sedqi Sobbhi, il ministro dell'Interno, Magdi Abdel Ghaffar e il capo della generale dei servizi segreti Khaled Fawzi. Il portavoce presidenziale Alaa Yousef lo ha annunciato sulla sua pagina ufficiale su "Facebook". Estendendo le proprie condoglianze alle famiglie delle vittime, il presidente al Sisi ha ordinato di inseguire gli autori dell'attacco che hanno lasciato 16 poliziotti uccisi a metà strada tra Wahat al Bahariya e la città di 6 Ottobre. Al Sisi ha anche ordinato di intensificare gli sforzi di sicurezza e militari per rafforzare il controllo delle frontiere, in particolare le frontiere occidentali con la Libia, dove le forze armate hanno sospeso diversi tentativi di entrare in armi, jihadisti e contrabbandieri. "L'Egitto continuerà a combattere il terrorismo e chiunque lo sostiene, chi lo finanzia e sta dietro di loro in modo efficace", ha sottolineato al Sisi.

(Agenzia Nova, 22 ottobre 2017)


L'Onu condanna le dichiarazioni di Hamas

L'inviato dell'Onu per il processo di pace in Medio Oriente Nicolay Mladenov ha condannato «le recenti dichiarazioni attribuite ad alcuni esponenti di Hamas sulla distruzione dello stato di Israele».
«Non servono - ha sottolineato - agli interessi della pace e all'obiettivo di raggiungere una Soluzione negoziata a due Stati». «Sotto gli auspici dell'Egitto, i leader palestinesi - ha aggiunto - hanno intrapreso una strada per risolvere la grave crisi umanitaria a Gaza e permettere al governo di assumere le sue responsabilità nella Striscia. Li esorto a non distrarsi da questo obiettivo».

(tio.ch, 22 ottobre 2017)


I haredim, l'esercito e la frattura da ricomporre

di Daniel Reichel

Due video girati a Gerusalemme sono circolati molto in questa settimana. Entrambi legati alle proteste del mondo haredi (i cosiddetti ultraortodossi) contro l'obbligo di leva per gli studenti delle yeshivot (scuole religiose). Un tema sempre caldo in Israele, tornato attuale in agosto dopo che la Corte Suprema ha dichiarato l'incostituzionalità dell'accordo governativo che consente l'esenzione dall'esercito per la maggior parte dei haredim. Due di loro sono stati arrestati in settimana per non aver risposto alla cartolina di richiamo dell'esercito. E così migliaia di ultraortodossi sono scesi in piazza in loro sostegno e per protestare nuovamente contro la coscrizione obbligatoria. La tensione è salita e i due video citati ne danno una parziale rappresentazione: in uno, si vede un poliziotto israeliano estrarre la pistole e puntarla contro i dimostranti, dopo essersi trovato nel cuore di una delle manifestazioni. La polizia israeliana, a riguardo, ha dichiarato che un'indagine preliminare ha indicato che "l'ufficiale si è trovato all'interno di un gruppo di manifestanti violenti che lo hanno circondato e hanno lanciato pietre e oggetti contro la sua auto di pattuglia, bloccando il suo percorso, mentre continuavano ad avvicinarsi in modo minaccioso, insultandolo e scuotendo l'auto di pattuglia. Ad un certo punto, l'ufficiale si è sentito minacciato e ha cercato di farli allontanare. In ogni caso l'ufficiale è stato convocato per chiarimenti". Nell'altro video, girato anche sui social network italiani, si vede invece una soldatessa israeliana fuori servizio affrontare da sola una folla di manifestanti haredi: Nomi Golan, la soldatessa, stava tentando di far passare un'auto attraverso il gruppo di dimostranti che stavano bloccando la strada per protesta. Il video mostra Golan respingere, usando tecniche di arti marziali, il gruppo di uomini intorno a lei che la insultano e minacciano.
   I due video, molto discussi, raccontano di un problema insoluto della società israeliana: quello dell'integrazione dei haredim e in particolare della loro partecipazione alla difesa dello Stato. "La storia di questa controversia sociale riflette la storia dello Stato d'Israele", ha scritto la presidente della Corte Miriam Naor nelle 148 pagine della citata sentenza sulla leva obbligatoria. Si tratta infatti di un dibattito che da decenni divide l'opinione pubblica israeliana: il primo a garantire l'esonero dall'esercito al mondo haredi fu il Primo ministro David Ben Gurion nel 1949. Allora a usufruirne furono in 400, oggi parliamo di 62mila persone che "non servono il Paese mentre i nostri figli muoiono per difenderli", come recita una delle affermazioni più diffuse tra chi contesta l'esenzione. Nel settore ultra-ortodosso, una delle risposte a questa contestazione è che "anche lo studio della Torah aiuta a difendere lo Stato d'Israele". "È impossibile mettere in discussione lo studio della Torah - il commento di Elyakim Rubinstein, giudice della Corte Suprema ed ebreo osservante - e la sua voce, che rappresenta una protezione, una salvezza e la continuità per la nostra esistenza come nazione, continuerà ad essere ascoltata come un valore dello Stato. Quello che è stato detto qui (in tribunale) non è un attacco ma un tentativo di costruire. Il giorno in cui l'intera società ebraica - le parole di Rubinstein - avrà la sensazione che la sicurezza fisica dello Stato sarà garantita dai haredim, sarà un giorno di festa". Il giudice, vicepresidente della Corte che presto lascerà il suo ruolo per andare in pensione, ha anche detto che "fino a che continuerà l'attuale saga (i contrasti sulla leva obbligatoria), le leggi continueranno ad andare e venire, mentre rimarrà l'amara la sensazione di diseguaglianza".
   Secondo la radio dell'esercito israeliano, nel 2016 il 72 per cento delle persone che inizialmente erano nella lista di leva ha poi effettivamente servito nell'esercito (dal 2015, 32 mesi per gli uomini, due anni per le donne). Il restante 28 per cento è rappresentato per la maggior parte da giovani haredim (la statistica comprende anche persone esentate per motivi medici e una piccola minoranza di obiettori di coscienza), su cui si concentra la sentenza della Corte. Una disposizione per costringerli a vestire l'uniforme era stata già approvata nel recente passato: un provvedimento voluto in particolare da Yair Lapid e passato nel 2014, quando questi faceva parte con il suo Yesh Atid del governo del Primo ministro Benjamin Netanyahu. Un anno dopo però, nuove elezioni, nuovo governo Netanyahu e niente più legge sulla coscrizione obbligatoria dei haredim: Netanyahu infatti in questa ultima legislatura conta sull'appoggio dei partiti ultraortodossi che, tra le prime cose, hanno chiesto in cambio del sostegno la cancellazione della norma voluta da Lapid.
   In questa battaglia normativa a far riflettere sono però i dati di cui scrive il giornalista israeliano Danny Zaken, che aprono una prospettiva diversa. Secondo una fonte del giornalista all'ufficio del personale di Tsahal, negli ultimi tre anni le reclute haredi sono aumentate del 12/13 per cento. Nel 2016 erano 2800, mentre le stime per tutto il 2017 parlano di 3200 persone. In 10 anni, continua Zaken, c'è stato un aumento della partecipazione dei haredim dovuto a un maggiore dialogo tra questo settore, le istituzioni civili e militari. Nel decennio 1997-2007 si erano arruolati 1500 uomini ultraortodossi, nel decennio successivo, 16.500. Un numero 11 volte superiore. Secondo Zaken ma anche secondo Gilad Malach dell'Israel democracy institute, la sentenza della Corte Suprema, per quanto giusta, rischia di essere d'ostacolo a questo trend, mettendo sulla difensiva tutto il mondo haredi e dando un appoggio a chi, al suo interno, ostracizza chiunque scelga di servire nell'esercito invece che studiare in una yeshiva. "I numeri - scrive Zaken - dimostrano che il dialogo e la cooperazione con la leadership ultra-ortodossa sul tema della coscrizione obbligatoria conducono ad un aumento del numero di studenti di yeshiva che servono nell'esercito".

(moked, 22 ottobre 2017)


Arrestati quindici ebrei di estrema destra

La polizia israeliana ha arrestato la scorsa notte 15 membri del gruppo ebraico di estrema destra 'Lehava'. I sospettati di aver attaccato palestinesi che avevano allacciato rapporti con giovani ebree. Lo rende noto la polizia secondo cui gli arresti sono avvenuti a Gerusalemme e in località della Cisgiordania.
Una portavoce della polizia ha spiegato che negli ultimi tempi è stata notata una progressiva radicalizzazione di 'Lehava' ed è stato avvertito il rischio che fosse in procinto di estendere le attività anti-palestinesi.
Con gli arresti della scorsa notte - che hanno incluso il leader del gruppo, Benzi Gopstein - «si è cercato dunque di bloccare sul nascere il fenomeno e di impedire la radicalizzazione dei membri del gruppo, compreso il rischio di attacchi a sfondo nazionalista razzista».
Polemico il commento del sito di estrema destra 'Ha-Kol ha-Yehudi' secondo cui con gli arresti di Gopstein e compagni: «La polizia si è arresa alle pressioni dell'ultra-sinistra israeliana».

(tio.ch, 22 ottobre 2017)


I palestinesi faranno causa a Londra se non ritira la Dichiarazione Balfour

A 100 anni dal documento per il 'focolare' ebraico in Palestina

Se la Gran Bretagna non corregge "l'errore storico" della Dichiarazione Balfour, l'Autorità nazionale palestinese andrà avanti per "vie legali". Lo ha detto il ministro degli affari esteri Ryad al Malki in vista delle celebrazioni di Londra per i 100 anni della Dichiarazione del 2 novembre 1917 sulla creazione di "un focolare nazionale ebraico" in Palestina, allora provincia ottomana. "Andremo avanti con le procedure legali, se la Gran Bretagna - ha detto in un'intervista - insiste nella sua posizione".

(ANSAmed, 22 ottobre 2017)


Divertenti, questi palestinesi. Dato che ci sono, potrebbero mirare ancora più in alto ed esigere, sotto minaccia di adire a vie legali, che sia ritirata una dichiarazione ben più grave di quella Balfour: "Così parla il Signore, l'Eterno: Io vi raccoglierò di fra i popoli, vi radunerò dai paesi dove siete stati dispersi, e vi darò la terra d'Israele" (Ezechiele 11:17). M.C.


In Sinagoga la magia di Luzzati così la tradizione diventò arte

Un artista laico ma affascinato dalla memoria tramandata da generazioni. Con uno sguardo inimitabile

di Michela Bompani

 
Emanuele Luzzati - Eden, 1994
GENOVA - Sono ebreo perché sono nato ebreo, così come sono nato a Genova. Non è una cosa che si spiega, è così e basta», diceva il grande artista, scenografo, illustratore, scultore, e qualche volta anche attore, Lele Luzzati. Sono dieci anni che se n'é andato, nella casa appollaiata sopra via Caffaro, e sotto la Spianata di Castelletto, dove era nato nel 1921. E il Museo Ebraico di Genova gli dedica una mostra, che è una nuova occasione per scoprire le fibre del lavoro di Luzzatì, con opere meno note, e molto pregiate, come le illustrazioni di libri dove il tratto grafico trova la potente profondità di un bassorilievo e racconta il Dna di Lele, il teatro, la scenografia, la familiarità di escogitare nello spazio.
   "Viaggio nel mondo ebraico di Emanuele Luzzati" si aprirà oggi, alle 17.30, presso il Museo Ebraico, all'ultimo piano della Sinagoga di via Bertora, a Genova e rimarrà aperta fino al 20 dicembre. Ideata e curata dal Centro culturale Primo Levi, con il Museo biblioteca dell'attore il museo Luzzati, la galleria Il Vicolo, l'Archivio Aldo Trionfo presso Lunaria Teatro e Franca Valeri, la mostra, con l'allestimento di Danièle Sulewic, squaderna in cinque sale e settanta opere il dialogo che Luzzati non interruppe mai, pur attraversando il Secolo Breve e diverse forme poetiche del Novecento, con la cultura e la tradizione ebraica. E il percorso espositivo comincia proprio dalla sinagoga, dove Luzzati realizzo prima le vetrate, negli anni Cinquanta, e più tardi le ceramiche, intorno all'ammud.
   Sulewic ha volutamente giocato con la passione di Lele, il teatro, sfruttando la scansione delle sale del museo come un gioco di quinte prospettiche. E l'avvio della mostra non potrebbe che essere un sipario: «Il mezzero con l'albero della vita, disegnato e stampato da Luzzati, é diventato la traccia per ricostruire il suo albero genealogico - spiega Sulewic - Lele non ebbe figli e sotto di lui, infatti, ci sono tutti i suoi personaggi». Intorno, si sgranano le fotografie della sua famiglia, quel volto sempre ironico di Lele, ad ogni età gli occhi piantati nell'obiettivo, dall'esilio in Svizzera, fuggito dalle leggi razziali, ai giochi con la nipotina, nel kibbutz in Israele. La mostra si sviluppa come un palcoscenico, lo stesso dal quale Lele scendeva svelto quando il suo lavoro era finito e si accendevano le luci di scena. Si alternano sulle pareti, nelle sale, la storia grafica della costruzione delle scenografie, che poi raccontano l'amicizia con Aldo Trionfo e Alessandro Fersen, la nascita del "teatro Ebraico" a Milano, nel 1947:le maschere originali contrappuntano una sala. Lo stesso tourbillon di figurette veloci e occhi grandi, vesti di piume e rotoli di Torah dal palco si sposta nei film d'animazione, qui appena sfiorati ("Jerusalem") fino alle pagine dei libri che Luzzati illustra, da Isaac Singer a Giacometta Limentani, che oggi sarà all'inaugurazione dell'esposizione. E fino ai bigliettini che Lele amava inviare, per matrimoni e nascite, dove la matita veloce e il colore regalavano un frammento del suo mondo.

(la Repubblica, 22 ottobre 2017)


"Israele", Volume I

È uscito pochi mesi fa, in formato e-book, il primo volume di un'opera che si presenta colossale: un Enciclopedia di Israele in 7 volumi. Ne abbiamo ricevuto in dono una copia, ma non avendo avuto il tempo di esaminarla, riportiamo alcune righe da una presentazione che ne viene fatta, insieme alle prime pagine del libro. Ringraziamo l'autore della sua fatica e dell'attenzione che ci ha riservata. NsI

Prime pagine
"L'opera, vuole solo portare il lettore, non particolarmente attrezzato, su una specie di colle ideale dal quale gettare uno sguardo panoramico sul mondo del "Popolo del Libro" fino all'Israele di oggi, indicandone i nodi nevralgici, il disegno essenziale, l'orizzonte più vasto che l'abbraccia. Partendo da Abramo, ripercorre tutta la storia dalla conquista della Palestina fino all'esilio babilonese, proseguendo ancora, tracciando un'attenta linea storica dall'impero romano e bizantino fino all'espulsione degli ebrei dalla Spagna, operata da Ferdinando D'Aragona e Isabella di Castiglia. L'autore non tralascia le questioni dell'antisemitismo e del sionismo, trattati e discussi in una prospettiva politica-religiosa. A tutto questo non manca la storia degli ebrei d'Europa e America, presentando non soltanto la storia e la cultura ma la filosofia che si sviluppò nell'arco dei secoli."

Il testo è ordinabile a questo indirizzo

(Notizie su Israele, 22 ottobre 2017)



Se Dio è per noi chi sarà contro di noi?

"Che diremo dunque riguardo a queste cose? Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Colui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti, non ci donerà forse anche tutte le cose con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio è colui che li giustifica. Chi li condannerà? Cristo Gesù è colui che è morto e, ancor più, è risuscitato, è alla destra di Dio e anche intercede per noi. Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Com'è scritto: «Per amor di te siamo messi a morte tutto il giorno; siamo stati considerati come pecore da macello». Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati. Infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura potranno separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore."
Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 8

 


Palestinesi, la leggenda dell'Unesco

di Paolo Guzzanti

A Gerusalemme vivevano ancora molte migliaia di ebrei che non avevano mai abbandonato la loro città che avevano difeso insieme ai musulmani dagli attacchi dei crociati cristiani. I palestinesi come popolo non esistevano. Quelli che arrivarono in seguito vennero da Egitto (Arafat era un ingegnere egiziano) Irak, Siria come braccianti agricoli per lavorare nei kibbutz socialisti ebraici su terreni acquistati da alcuni sceicchi e trasformati in fertili campi.
   La leggenda di un antico popolo palestinese è falsa e Mark Twain ed Edmondo De Amicis lo testimoniarono quando a nessuno sarebbe passato per la mente di sostenere che Gerusalemme fosse una città nata con l'Islam. Ma è ciò che ha sostenuto quell'associazione per delinquere nella Storia che è l'Unesco e dalla quale l'America di Donald Trump e Israele di Benjamin Netanyahu se ne sono andati sbattendo la porta dopo decenni di sopraffazioni, menzogne e ridicoli «premi Nobel per la pace» e grottesche proclamazioni di «patrimoni dell'umanità».

(il Giornale, 21 ottobre 2017)


Presentato a New York il MEIS, Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano

Il 13 dicembre prima apertura con la mostra "Ebrei, una storia italiana: i primi mille anni"

 
Il Presidente della Fondazione MEIS, Dario Disegni, ha illustrato nel dettaglio il progetto
NEW YORK - Il Ministro dei beni culturali, Dario Franceschini, ha presentato oggi a New York il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara (MEIS). L'incontro, tenutosi al Teatro dell'Italian Accademy alla Columbia University, ha permesso di illustrare a una vasta platea di accademici e rappresentanti della comunità americana e italiana newyorchese i prossimi passi verso il completamento della struttura architettonica del museo e le attività di questa istituzione culturale che il prossimo 13 dicembre conoscerà la prima apertura con la mostra "Ebrei, una storia italiana: i primi mille anni".
   All'incontro ha partecipato il Presidente della Fondazione MEIS, Dario Disegni, che ha illustrato nel dettaglio il progetto e presentato il quadro delle prossime iniziative. Il Ministro Franceschini ha poi incontrato, a margine della presentazione, il Presidente del congresso ebraico mondiale, Ronald Lauder.
   Oggetto della narrazione del MEIS sono 2.200 anni di vitale e ininterrotta presenza degli ebrei in Italia, per valorizzarne le tradizioni e i fondamentali contributi alla storia e alla cultura del Paese. Pur essendo una minoranza, il ruolo degli ebrei è stato, infatti, di primo piano già a partire dall'epoca romana e successivamente nel Rinascimento, per continuare in epoca moderna, nello sviluppo economico di Nord e Centro Italia, e poi nel processo di unificazione nazionale e risorgimentale, fino all'apporto alla produzione letteraria e scientifica del XX secolo.
   Il MEIS si propone di contribuire alla divulgazione di questa conoscenza e dei valori che la sottendono, legati al dialogo, all'incontro e all'interazione tra culture diverse.
   Il MEIS si rivolge a un pubblico nazionale e internazionale allargato, che include scuole, studenti universitari, esperti della materia e semplici turisti, membri delle comunità ebraiche e visitatori che non hanno mai avuto un approccio con l'ebraismo. Le sue lingue sono l'italiano, l'inglese e l'ebraico.
   Il progetto architettonico del MEIS è stato avviato nel 2011, sotto la direzione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, che ha promosso un bando pubblico vinto dal raggruppamento temporaneo formato da Studio Arco (Bologna) e Scape (Roma).
   La Palazzina di via Piangipane 81 ospita gli uffici della Fondazione e 200 mq di aree espositive, ed è aperta al pubblico dal dicembre 2011. Il secondo edificio restaurato, ex carcere di Ferrara, apre il 13 dicembre 2017 con la mostra "Ebrei, una storia italiana: i primi mille anni"; consta di tre piani, per un totale di 1.269 metri quadri netti, da suddividere tra spazi espositivi e spazi dedicati alla biblioteca e al centro di documentazione. La costruzione dei restanti cinque edifici moderni, che richiamano i cinque libri della Torà, è prevista per il 2020, con 2.733 mq da suddividere tra spazi espositivi, ristorante, auditorium, accoglienza al pubblico, bookshop, laboratori didattici, biblioteca, archivio e centro di catalogazione.

(Corriere Nazionale, 21 ottobre 2017)


Le menzogne filopalestinesi in un testo scolastico italiano per bambini di terza media

di Riccardo Ghezzi

Testo scolastico per i ragazzi di terza media
Un libro destinato ai ragazzini di terza media, 13-14 anni, riporta una versione completamente distorta della realtà di Gaza e dei territori contesi amministrati dall'Autorità Nazionale Palestinese. Menzogne gravi, trattandosi di un testo scolastico, totalmente sbilanciate a favore della propaganda araba e anti-israeliana.
"Fare geografia insieme" di Enzo De Marchi, Francesca Ferrara e Giulia Dottori, edito da Il Capitello, è un testo non solo da ritirare dalla scuole, ma anche dal commercio in senso lato.
Grave la malafede nel descrivere la situazione di Gaza, dove secondo gli autori del libro gli ebrei vivrebbero liberamente. Peccato non ci sia un solo ebreo a Gaza. Di più, gli ebrei sono definiti con il termine infamante di "coloni", a sottolineare chi stia dalla parte del torto e chi siano i "colonizzatori", "gli occupanti", secondo uno dei più gettonati feticci della vulgata palestinista.
Dunque a Gaza vivono "rifugiati palestinesi" fuggiti dalle guerre contro Israele ma anche molti "coloni ebrei". Peccato che dal 2005 non esistano più insediamenti ebraici nella striscia di Gaza e ovviamente gli ebrei ("coloni" o no) non siano per nulla tollerati da Hamas. Gaza, inoltre, non ha nulla a che fare con l'ANP, come erroneamente asserisce il testo, così come gli organi legislativi dell'Anp (e non l'amministrazione dello "stato palestinese", che non esiste) hanno sede a Ramallah e non a Gerico. Ma sono dettagli.
Insegnamenti completamente distorti, menzogne inculcate a bambini di terza media.
Di più: la situazione economica dei palestinesi sarebbe precaria "a causa della tensione con Israele" e i palestinesi che lavorano in Israele fanno fatica a recarsi sul posto di lavoro per colpa della "chiusura dei confini". E non poteva mancare il famoso "muro", la barriera di protezione che secondo il libro ha peggiorato ulteriormente la situazione a partire dal 2002.
Poveri palestinesi, che tollerano i coloni ebrei a Gaza ma non possono entrare liberamente in Israele per lavorare.
Infine, la ciliegina: Gerusalemme considerata capitale dall'Anp (tutta Gerusalemme) ma rivendicata anche da Israele.
Una deformazione totale della realtà che probabilmente non si legge neppure sui testi scolastici diffusi nelle scuole di Ramallah. Un'aberrazione che offende il decoro stesso e la credibilità dell'Istruzione italiana. Un problema che nasce nelle scuole Medie inferiori e si protrae fino agli ambienti accademici.
Quando si dice: (dis)educarli fin da piccoli.

(L'informale, 21 ottobre 2017)


Egitto, terroristi islamici fanno strage di poliziotti

Almeno 55 morti nel distretto di Giza a Sud del Cairo

di Giordano Stabile

Almeno 55 poliziotti egiziani, compreso un alto ufficiale, sono stati uccisi da terroristi islamici nel distretto di Giza, a 130 chilometri a Sud del Cairo. L'attacco a sorpresa è avvenuto in una località di difficile accesso, Al-Wahat al-Bahriya. Una compagnia di agenti ha lanciato l'attacco contro una rete di nascondigli su una collina ma è stata sorpresa da una bomba trappola piazzata dai terroristi.
L'operazione era diretta contro militanti del gruppo Hasm, un'ala militare dei Fratelli musulmani passata alla guerriglia dopo la deposizione dell'ex presidente Mohammed Morsi nell'estate del 2013. Il gruppo Hasm ha condotto una serie di attacchi contro poliziotti e giudici al Cairo e nei dintorni. I Fratelli musulmani però negano che Hasm sia legato alla loro organizzazione, per altro messa fuorilegge dal presidente Abdel Fatah Al-Sisi.
All'arrivo dei poliziotti i terroristi si sono prima ritirati, poi hanno risposto al fuoco e fatto esplodere la bomba trappola. Quattro degli otto islamisti sarebbero stati uccisi nello scontro ma il bilancio pesantissimo per le forze di sicurezza mette in dubbio la strategia adottata per contrastarli.
L'Egitto deve anche fronteggiare la guerriglia dell'Isis nella Penisola del Sinai e quattro giorni fa una base dell'esercito era stata assaltata vicino al capoluogo del Nord del Siria, Al-Arish.

(La Stampa, 21 ottobre 2017)


Teatro romano rinvenuto sotto il Muro del Pianto, a Gerusalemme

di Daniele Mancini

 
Il teatro romano scoperto sotto il tunnel del Muro Occidentale
Un team di archeologi della Israel Antiquities Authority (IAA) ha scoperto i resti di un antico teatro romano sotto il tunnel del Muro Occidentale, detto anche Muro del Pianto, a Gerusalemme. Ma numerosi indizi suggeriscono agli studiosi dello IAA che l'antico monumento non è stato mai usato!
   Gli archeologi hanno scoperto la struttura del teatro durante un recente scavo al di sotto del cosiddetto Arco di Wilson, nelle gallerie del Muro occidentale. La squadra ha sperato di trovare manufatti che avrebbero contribuito a datare l'Arco di Wilson, una struttura realizzata da enormi conci di pietra che sorregge un acquedotto e oggi serve da passaggio per le persone che accedono al Monte del Tempio: inaspettatamente, invece, gli archeologi hanno trovato i resti di un teatro sepolto.
   Il Muro Occidentale è un muro di cinta risalente all'epoca del Secondo Tempio, realizzato da Erode il Grande, luogo sacro per gli ebrei e distrutto dai Romani nel 70 d.C. Chiunque abbia pensato di erigere il teatro sotto di esso, sapeva che ci sarebbe stato molto lavoro da svolgere: diverse sculture, circa 200 posti a sedere, ingenti lavori di costruzione. Le fonti storiche menzionano di un teatro posto vicino al Monte del Tempio e secondo gli studiosi dell'IAA è possibile che l'edificio citato si riferisca al teatro scoperto.
   Secondo Giuseppe Flavio, lo storico ebraico romano del I secolo d.C. un teatro è stato eretto nei pressi del sito del Secondo Tempio già dal 530 a.C., ma indica anche di altri teatri eretti in seguito alla distruzione del Secondo Tempio, quando Gerusalemme è diventata la colonia romana di Aelia Capitolina. Questi nuovi monumenti, presenti in ogni città romana, sono sempre stati presenti e parte della vita, del divertimento e del tempo libero dei cittadini dell'impero.
   Il teatro scoperto sotto l'arco non è enorme: in realtà è una struttura relativamente piccola rispetto ai teatri romani noti, come quelli di Cesarea, Beit She'an (capitale della Decapoli della Samaria) e Beit Guvrin (l'antica Eleuteropoli) e la sua piccola dimensione e la sua posizione sotto l'arco, farebbero riferire il monumento a un odeon, una piccola struttura utilizzata per gli esercizi di canto, le rappresentazioni musicali, i concorsi di poesia e di musica.
   In alternativa, questa struttura potrebbe riferirsi a un bouleuterion/synedrion, l'edificio in cui si riuniva il consiglio cittadino, in questo caso il consiglio della colonia romana di Aelia Capitolina o Gerusalemme romana.
   Dai primi studi risulta molto improbabile che i committenti o i politici del tempo abbiano mai usato il teatro. Vari indizi, come una scala non tagliata e sculture incompiute, suggeriscono che è stato abbandonato prima della sua inaugurazione. Non è chiaro perché il teatro non sia stato completato, ma è possibile che la rivolta di Simon Bar Kokheba, quando gli ebrei si sono ribellati contro i romani, avesse a che fare con le circostanze incompiute del teatro. Forse la costruzione è iniziata prima della rivolta, ma è stata abbandonata una volta che la rivolta abbia avuto inizio.
   Altri edifici non finiti di questo periodo sono stati rinvenuti nella piazza antistante il Muro Occidentale ma, secondo gli archeologi, questa scoperta è uno dei risultati più importanti degli scavi archeologici realizzati nel sito. Secondo Mordechai "Suli" Eliav, direttore della Western Wall Heritage Foundation, questa scoperta unisce i vari tasselli del mosaico storico rinvenuti presso il Muro Occidentale a Gerusalemme.
   Altri rinvenimenti sotto l'arco di Wilson includono monete, vasi in ceramica ma anche diversi filari di conci litici sommersi da oltre otto metri di sedimenti di scarichi umani.

(Daniele Mancini Archeologia, 20 ottobre 2017)


Una soldatessa israeliana si difende da un gruppo di ebrei ultraortodossi

Una soldatessa israeliana fuori servizio ha affrontato da sola una folla di manifestanti ebrei ultraortodossi che la stavano accerchiando e insultando, tenendoli lontani con calci e altre mosse di kung-fu. Lunedì 16 ottobre a Gerusalemme Nomi Golan, la soldatessa, stava tentando di far passare un'auto attraverso un gruppo di manifestanti che stavano bloccando la strada per protestare contro l'arresto di due studenti. Un video mostra Golan respingere il gruppo di uomini minacciosi intorno a lei che la chiamano "troia" e "shiksa". "Shiksa" è una parola yiddish usata in modo dispregiativo e derivante dal termine ebraico che significa "abominio": indica lo stereotipo della donna bionda con gli occhi azzurri (non-ebrea o ebrea che non segue l'ortodossia religiosa) e che può essere una tentazione per gli uomini.
In Israele, i fenomeni discriminatori degli ultraortodossi nei confronti delle donne sono piuttosto comuni, soprattutto nelle città e nei quartieri più integralisti. Gli haredim - che appartengono all'ala più intransigente dell'ortodossia religiosa ebraica, i cosiddetti "ebrei ultraortodossi" - spesso vietano alle donne di salire su alcuni autobus che viaggiano nei loro quartieri o riservano loro i posti sul retro; si scagliano, poi, contro i messaggi pubblicitari che ritraggono donne, e i soldati più integralisti abbandonano le cerimonie pubbliche dell'esercito se cantano anche le soldatesse.

(il Post, 20 ottobre 2017)


Hamas: Qatar contrariato per il nostro avvicinamento all'Egitto

IL CAIRO - Il capo di Hamas a Gaza, Yahya al Sanuar, ha rivelato che il Qatar "è contrariato con noi per il nostro avvicinamento all'Egitto", nell'ambito degli sforzi per la riconciliazione nazionale inter-palestinese. Parlando con un gruppo di giovani di Gaza, il dirigente del gruppo islamico , rispondendo alla domanda se fosse possibile chiedere a Doha i soldi necessari per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici della città in attesa che la commissione legale creata con gli accordi del Cairo prenda in mano la questione, al Sanuar ha risposto: "non è possibile perché il Qatar non è contento di Hamas per le sue ultime posizioni". Il 12 ottobre scorso Hamas e Fatah hanno firmato al Cairo un accordo per la riconciliazione nazionale.

(Agenzia Nova, 21 ottobre 2017)


Dall'Unicef alla Fao le allegre caste dell'Onu

Il budget lievita e gran parte dei fondi va in stipendi al personale. E' l'aristocrazia umanitaria con vista sulla Senna, le Alpi e il Danubio. L'unica malattia che l'Oms non può curare è la burocrazia delle agenzie del Palazzo di vetro.

di Giulio Meotti

 
A Ginevra, dove hanno sede molte agenzie dell'Onu, cinquemila dipendenti delle Nazioni Unite sono entrati in sciopero per il taglio del sette per cento dello stipendio
 
Stati Uniti e Israele sono appena usciti dall'Unesco, l'agenzia dell'Onu per la scienza e la cultura con sede a Parigi
 
Il Vienna International Centre, sede dell'Onu nella capitale austriaca
All'Onu circola una battuta: "L'unico malato che l'Organizzazione mondiale della sanità non riesce a curare è la burocrazia". A maggio, di fronte al Palazzo delle Nazioni di Ginevra, dove ha sede il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, cinquemila persone si sono ritrovate per manifestare. Non erano venezuelani la cui sofferenza sotto il regime di Chàvez e Maduro è stata ignorata e perfino giustificata da quello stesso consiglio dominato da tiranni e corrotti. Non erano siriani che volevano denunciare la presenza del regime baathista in seno al Consiglio. Non erano neppure israeliani vittime del terrorismo, presi di mira sistematicamente dalle risoluzioni del Consiglio. No, erano cinquemila dipendenti dell'agenzia dell 'Onu, arrabbiati per il taglio del loro misero stipendio. "Il taglio dello stipendio si tradurrà in una significativa riduzione della retribuzione per una parte dei 5.700 dipendenti delle Nazioni Unite attualmente in servizio a Ginevra".
   Un impiegato con dieci anni di esperienza e tre figli a Ginevra può arrivare a guadagnare fino a 147 mila dollari all'anno. Il taglio dello stipendio del sette per cento equivale a 10-12 mila dollari. Niente male per un carrozzone non soltanto inutile, ma anche dannoso. Questa settimana, al Consiglio dei diritti umani di Ginevra sono stati eletti i nuovi membri: Qatar, Pakistan, Congo, Nigeria, Angola e Afghanistan, ovvero alcuni dei più grandi massacratori di diritti umani del pianeta.
Un dipendente con dieci anni di esperienza e tre figli a Ginevra può arrivare a guadagnare 147 mila dollari all'anno
Da anni, l'opinione pubblica occidentale è stata aizzata dalla stampa contro la "casta", i membri del Parlamento, i rappresentanti del privilegio, le cui esistenze dorate e fuori dal mercato sono legate al peccato originale della politica. Ma c'è una casta di veri intoccabili, perché ammantata di buoni sentimenti, azioni corsare e tentativi di salvare "l'umanità".
   "Un sistema occupazionale gonfio", come lo ha definito Jean-Pierre Lehmann, professore di Economia politica internazionale a Losanna. E' vero, con ventisette edifici e più di un milione di metri quadrati suddivisi tra Bruxelles, Strasburgo e il Lussemburgo, anche il Parlamento europeo non scherza, dando lavoro a 39.715 persone. E tuttavia soltanto l'elefante onusiano non attira mai odio, ma solo ossequio, sentimenti di virtù e orgoglio nel nobile lavoro che vi viene svolto.
   Tutto è permesso a questa nuova aristocrazia della compassione. Anche stanziare cinquanta milioni di dollari a una inutile Commissione economica dell'Onu per l'Europa, con sede a Ginevra, dove l'Onu spende un miliardo di dollari all'anno. La settimana scorsa Stati Uniti e Israele hanno annunciato l'abbandono dell'Unesco, l'agenzia Onu per la cultura e la scienza, il cui sessanta per cento del budget finisce in stipendi, e in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto persino l'ottanta per cento.
A differenza della politica, contro cui si aizza il popolo, la casta dell' Onu è intoccabile perché ammantata di buoni sentimenti
Il "problema" dell'Unesco è che la sede si trova a Parigi, per cui i dipendenti appena possono vi si fanno trasferire. Così i tre quarti del personale ingrossano le file di una macchina superiore anche alla Fao a Roma, che il presidente del Senegal, Abdoulaye Wade, ha definito un "pozzo di denaro senza fondo", auspicandone la chiusura. Anche la metà delle spese della Fao se n'è andata a lungo in gestione della struttura. Lo ha rivelato il rapporto di un comitato di valutazione esterna commissionato dalle Nazioni Unite e guidato da Leif E. Christoffersen: "In molti uffici i costi amministrativi sono superiori ai costi del programma",
   Si tratta dello sguardo più completo sulla babele incredibile di questa agenzia. Quarantuno milioni e mezzo di euro sono per l'«ufficio del direttore generale», accanto all'«ufficio di coordinamento e decentralizzazione» (7,1 milioni di euro), l'"ufficio legale" (5,3 milioni di euro), l'"ufficio del programma e della gestione del budget" (altri 11 milioni), mentre le tre voci "food" raccolgono 90 milioni di euro, circa il 15 per cento del bilancio generale. La sede Fao più costosa è quella di Bangkok (18 milioni di euro). Sette milioni di euro se ne vanno in "meeting e protocollo", 17,6 milioni per la comunicazione, 20,2 milioni per "il coordinamento e il decentramento dei servizi".
   Più sono belle le sedi delle agenzie dell'Onu, più sono gonfie di personale, perché tutti vorrebbero lavorare lì. Non c'è solo la sede della Fao, che si affaccia sull'Aventino e il Circo Massimo a Roma. Ci sono l'Unesco, che ha sede in un magnifico edificio costruito da Pierluigi Nervi e Le Courbusier con vista sulla Torre Eiffel, e il Palazzo delle Nazioni di Ginevra, da cui si vedono il lago e le Alpi (l'edificio sarà presto rinnovato al costo di 846 milioni di euro). E a questi va aggiunto il Palazzo Wilson sul lago di Ginevra, dove ha sede l'Ufficio del commissario Onu per i diritti umani, che gode di uno staff di altre mille persone (per restaurarlo la Svizzera ha speso cinquanta milioni di dollari).
Il sessanta per cento del budget dell'Unesco deve coprire i costi di gestione. Il rapporto di Leif Chriswffersen denuda la Fao
Brett Shaefer della Heritage Foundation ha calcolato che in un anno il 45 per cento del budget dell'Unesco (circa 400 milioni all'anno) va di solito in spese del personale, viaggi e costi operativi. Denaro che non lascia mai la sede di Parigi.
Il bilancio del fondo speciale Unesco dedicato alla salvaguardia dei luoghi più preziosi dell'umanità (come Palmira, per intenderci) rappresenta meno del cinque per cento del budget mastodontico dell'organizzazione. Il budget originario dell'Unesco, voluto da Julian Huxley, fu di sei milioni di dollari. Dal 1946 al 1976 è passato a 186 milioni. Dieci anni dopo, nel 1986, era già a 400 milioni, E da seicento dipendenti alle origini si è arrivati ai quattromila. Il direttore generale dell'Unesco ha due vice e undici assistenti.
   All'Unesco restano negli annali le spese folli del direttore negli anni Ottanta, Amadou Mahtar M'Bow, il senegalese che fece compilare dai suoi assistenti un report contro gli attacchi della stampa occidentale all'agenzia dell'Onu da lui diretta. Costo dell'operazione? 24.999 dollari. Uno di più e il direttore con passaporto senegalese avrebbe dovuto richiedere il nulla osta dei membri dell'Unesco. Epocale anche il caso dell'Alto commissario per i rifugiati, Jean Pierre Hocke, che ordinò che un numero intero della rivista mensile della sua agenzia fosse distrutto, al costo di 50 mila dollari. Perché l'edizione in questione era stata critica delle procedure di asilo della Germania sui rifugiati e delle condizioni in tre centri di accoglienza. Visto che la Germania forniva il dieci per cento del budget dell'Unhcr non era il caso di provocarli.
   Anche gli ambasciatori stranieri di stanza a Parigi si abituano in fretta ai lussi di queste agenzie. C'è stato il caso dell'ambasciatore inglese all'Unesco Peter Landymore, che aveva un appartamento sulla Senna con vista sulla Torre Eiffel del valore annuo di 70 mila sterline, cui andava aggiunta una Bm'A' con autista e un'ulteriore spesa di 25 mila sterline per l'iscrizione a scuola del figlio.
La spesa prevista per rinnovare il Palazzo delle nazioni di Ginevra, sede del Consiglio dei diritti umani, è di 846 milioni di dollari
Dopo lo scandalo, la missione inglese di Parigi ha visto ridurre il suo budget nell'ultimo anno da circa 500 mila a 286 mila sterline, con il personale tagliato da cinque a due. La missione inglese a Roma, presso la sede della Fao, comporta un'ulteriore spesa di mezzo milione di sterline. Prima dell'uscita degli Stati Uniti e dell'Inghilterra dall'Unesco nel 1984, la segreteria a Parigi aveva uno staff di quattromila persone (oggi sono circa duemila).
   Il personale delle Nazioni Unite è letteralmente raddoppiato dal 2000 a oggi. Diciassette anni fa, l'Onu dava lavoro a 33.049 persone. Nel dicembre 2016, l'ultima cifra utile, erano diventate 76.234. Una cifra che non comprende chi è impiegato nelle operazioni di peacekeeping, Gran parte di questi lavorano per il segretario generale, la burocrazia vera e propria, triplicato dal 2000 a oggi, passando da 13.164 a 39.651 dipendenti.
   Scrive la Bbc che il numero di impiegati all'Unhcr, l'agenzia Onu dei rifugiati, è passato da 4.142 a 10.763. Un aumento del 160 per cento. Anche la Corte internazionale di Giustizia è quadruplicata dal 2000, purtroppo con scarsissimi risultati, spesso comici. I dipendenti dell'Onu a New York guadagnano in media 29,5 volte di più di un equivalente americano nell'amministrazione pubblica a Washington.
   Secondo la missione americana, diventata molto critica dell'Onu sotto l'Amministrazione Trump, i costi del personale coprono il 74 per cento del budget delle Nazioni Unite. Lo U. S. Government Accountability Office ha detto che il trenta per cento del personale che lavora per la segreteria dell'Onu rientra fra i dipendenti dirigenti o quadri.
   Sebbene l'Assemblea generale non abbia inizio fino al 18 settembre, ristoranti e hotel a New York si preparano per "il periodo più redditizio dell'anno" già ai primi di settembre, Le suite degli hotel più belli di New York sono pronte per l'arrivo di funzionari governativi, diplomatici ed entourage che a New York partecipano alla sessione di apertura dell'Assemblea generale. Alastair Smith, un professore di politica internazionale dell'Università di New York, ha detto che lo scintillio e lo shopping stanno uccidendo lo spirito dell'Onu. E ha suggerito che le Nazioni Unite, per salvarsi, dovrebbero andarsene da New York.
Dal 2000 a oggi, il personale dell'Onu è raddoppiato, passando da 33mila a 76mila. Senza contare le operazioni di peacekeeping
Il finanziamento per la salute globale è cresciuto enormemente nel corso degli ultimi dieci anni, passando da 5,7 miliardi nel 1990 a 26,9 miliardi vent'anni dopo, ma questi soldi hanno in gran parte evitato di finire all'Organizzazione mondiale della sanità dell'Onu, a causa della cronica mancanza di fiducia dei donatori nell'agenzia.
A Ginevra, questa agenzia impiega 2.400 persone. Un po' troppe considerato la sua difficoltà ormai palese nell'affrontare le epidemie internazionali, come Ebola. Intanto, però, come raccontava a giugno il Washington Post, aumentavano i costi di viaggio in prima classe per i dipendenti dell'Organizzazione mondiale della sanità, che ha speso più per i viaggi del personale che per affrontare la malaria, la tubercolosi o l'Aids, indulgendo in voli di prima classe e alberghi a cinque stelle, contribuendo a una fattura annuale di 153 milioni di dollari. Ne è stato un esempio il soggiorno nella suite presidenziale dell'albergo a cinque stelle Palm Camayenne a Conakry, in Guinea. La suite normalmente costa 800 sterline a notte. A confronto, appena 55 milioni di dollari sono stati spesi per combattere l' Aids e l'epatite. Sulla malaria, l'Oms ha speso 47 milioni e per combattere la tubercolosi altri 45 milioni.
   Il Daily Mail, giornale che fa sempre le pulci alla burocrazia dell'Onu, ha scritto che quei 153 milioni equivalgono allo stipendio di 6.600 infermieri inglesi e a 27.200 sostituzioni dell'anca. Ginevra la chiamano la città con le camere d'albergo più costose del mondo. "Ed è molto costosa a causa di tutte le organizzazioni internazionali delle Nazioni Unite e dell'Organizzazione mondiale della sanità in città" ha dichiarato a Bloomberg Jan Freitag, vicepresidente senior della società di ricerca statunitense Str Inc. "Queste persone tendono a non pagare e questo significa che possono stare in proprietà di lusso". Con un budget di un miliardo di dollari e 30 mila impiegati, la Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i palestinesi, in pratica è diventata una sussidiaria di Hamas.
Scrive !a Bbc che il numero di dipendenti dell' Unhcr, l'agenzia dei rifugiati, è aumentato del 160 per cento in pochi anni
Nel 1996, gli Stati Uniti con Bill Clinton suggerirono all'Onu di chiudere una delle sue agenzie più melliflue e assurde, l'Organizzazione per lo sviluppo industriale, che aveva il compito di promuovere l'industrializzazione dei paesi in via di sviluppo, con l'obiettivo di aiutare a eliminare la povertà. Con sede a Vienna (dove lavorano altri cinquemila dipendenti dell'Onu) e diretta dal cinese Li Yong, questa agenzia era stata abbandonata dal Canada e da altri sette paesi (Australia, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Lituania, Portogallo e Nuova Zelanda). Ma al gennaio 2017 l'agenzia aveva ancora 670 dipendenti e un budget di 460 milioni di dollari. Il direttore della relazione di riforma dell'Onu, Adnan Amin, un economista keniota, ha ben spiegato la situazione: "Ci sono circa 1.200 uffici nazionali dell'Onu in tutto il mondo. Metà del denaro va per le spese operative d'ufficio lasciando una minuscola somma di denaro per la programmazione o le attività chiave".
   L'Onu è diventata una mangiatoia. Con la doppia morale. Il funzionario delle Nazioni Unite che ha condannato la politica dell'edilizia britannica ha scelto uno degli hotel più belli e costosi di Londra. Si tratta di Raquel Rolnik, che ha soggiornato al Rubens, dove la carnera più economica sta sulle 300 sterline. Il Rappresentante speciale dell'Onu sull'abitazione voleva pernottare all'ombra di Buckingham Palace, anziché vicino agli uffici dell'Onu, dove avrebbe avuto ottime camere ma per meno della metà del prezzo.
   La Heritage Foundation ha calcolato che il budget dell'Onu cresce al ritmo del 17 per cento all'anno. Senza contare che nove paesi (oltre a Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia,
Il budget del Palazzo di vetro è ormai fuori controllo: nel 2000 era di 2,5 miliardi di dollari, oggi di 5,4. Con tutte le spese si arriva a 13
Canada, Spagna e Cina) contribuiscono per 1'80 per cento del budget totale dell'Onu, anche se il Palazzo di vetro è dominato da dittature, oligarchie e satrapie. Gli scrocconi che violano ogni diritto umano e che se la spassano a New York, Ginevra, Vienna e Parigi.
Per evitare di tagliare i propri stipendi, l'Onu ricorre ormai sistematicamente a una nuova figura: il giovane laureato non pagato. Il loro numero, scrive l'Economist, è passato da 131 nel 1996 a 4.018 nel 2014. Un esercito di giovani laureati disposti a lavorare, che se dovessero essere pagati costerebbero all'Onu fino a 13 milioni di euro l'anno. E' il precariato della casta dei buoni.
   Il budget dell'Onu intanto è diventato elefantiaco. Nel 2000-2001 (il budget è biennale), questo era di 2,5 miliardi di dollari. Nel 2016-2017 era passato a 5,4 miliardi. Un aumento del 119 per cento. Ma se si va a guardare più nel dettaglio, quei 5,4 miliardi sono soltanto una piccola parte delle spese annuali delle Nazioni Unite. Nel 2010-2011, l'Onu ha pianificato 13,9 miliardi di spesa fra budget "ordinario" e "straordinario". Un aumento di 968 milioni rispetto al biennio precedente. "E' più facile districarsi nel budget americano, che è molto più grande, rispetto a quello dell 'Onu", ha scritto Brett Shaefer, esperto di Nazioni Unite, cui ha dedicato il libro "Conundrum".
   L'Undp, il fondo Onu per lo sviluppo, spende in media sei miliardi, così come il World Food Program ne spende 6,3 e l'Organizzazione mondiale della sanità 4,2. I circa 7,8 miliardi di dollari per le operazioni di peacekeeping, spesso un fallimento plateale, sono conteggiate a parte dall'Assemblea generale.
Capita spesso che i dirigenti arrivino ubriachi alle riunioni, così l'inviato americano Torsella ha chiesto "stanze alcol-free"
La Heritage Foundation ha calcolato che il budget dell'Onu cresce al ritmo del 17 per cento all'anno. Senza contare che nove paesi (oltre a Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Spagna e Cina) contribuiscono per 1'80 per cento del budget totale dell'Onu, anche se il Palazzo di vetro è dominato da dittature, oligarchie e satrapie. Gli scrocconi che violano ogni diritto umano e che se la spassano a N ew York, Ginevra, Vienna e Parigi.
   Senza dover rendere conto a nessuno, aggirandosi in una selva burocratica in cui l'Onu stessa fatica a muoversi, capita spesso che i dirigenti di questo baraccone etico arrivino ubriachi ai meeting. Così Joseph Torsella, vice ambasciatore statunitense presso le Nazioni Unite per la gestione e la riforma, si è presentato al comitato per il bilancio dell'Onu con una modesta proposta: "Le stanze per i negoziati dovrebbero essere in futuro 'alcol-free'. Risparmiamo lo champagne per brindare al successo". Un successo che nel caso dell'Onu, molto modestamente, consiste nel riuscire a scrivere il bilancio.
Uno degli uffici più ambiti resta quello dell'Agenzia atomica dell'Onu. Sta al ventottesimo piano con una vista strepitosa sulla città vecchia di Vienna e sul Danubio. L'unica pecca, dicono i dipendenti, è che il fiume non è più blu come ai tempi di Richard Strauss.

(Il Foglio, 21 ottobre 2017)


Aprirà a Gerusalemme presso un vecchio planetario un museo dedicato ad Albert Einstein

di Desirée Maida

Aprirà a Gerusalemme, presso un planetario abbandonato, un museo che ospiterà l'archivio appartenuto al grande scienziato. La scelta su un edificio di "seconda mano" ricade dopo aver rinunciato alla costruzione di una struttura ex novo, a causa degli elevati costi di realizzazione dei progetti delle archistar Frank O. Gehry e Daniel Libeskind.
  Sembra che stia diventando ricorrente la tendenza, da parte di volti noti del mondo dell'arte e persino di rilevanti istituzioni, a rinunciare alla costruzione di istituti culturali o musei a causa degli elevati "cachet" richiesti dagli architetti - chiamiamoli pure "archistar" - a cui vengono affidati i progetti di realizzazione. Se risale a pochi giorni fa la notizia della rinuncia di Marina Abramović a costruire una sede del MAI - Marina Abramović Institute per via degli oltre 30 milioni di dollari richiesti da Rem Koolhaas per la ristrutturazione dell'edificio che avrebbe dovuto ospitare l'istituto - per non contare i 600mila dollari che l'archistar ha già incassato per aver realizzato il progetto preliminare -, adesso è la volta dell'Università Ebraica di Gerusalemme. L'istituzione israeliana infatti ha appena annunciato l'apertura di un museo dedicato al fisico e scienziato Albert Einstein presso un antico planetario abbandonato di proprietà dell'università, avendo dovuto rinunciare alla costruzione ex novo di un museo a causa dei vincoli di bilancio e dei costi onerosi di realizzazione, ovvero 20 milioni di dollari. Anche in questo caso, l'università si era affidata a due nomi celebri del mondo delle archistar, ovvero Frank O. Gehry e Daniel Libeskind.

 Un planetario abbandonato riconvertito in museo
  Risale al 2012 la volontà, da parte dell'Università Ebraica e dello stato israeliano allora guidato dal presidente Shimon Peres, di realizzare un museo che potesse conservare e mostrare al pubblico l'archivio di Albert Einstein, attualmente custodito dall'università. Ma come già accennato, cause di forza maggiore di natura squisitamente economica hanno costretto l'amministratore delegato dell'università Billy Shaphira a prendere la salomonica decisione di "riutilizzare gli avanzi". L'archivio e gli oggetti personali appartenuti al Premio Nobel tedesco di origini ebraiche infatti saranno collocati all'interno di un planetario dell'università attualmente abbandonato, opzione, questa, più conveniente dal punto di vista economico dato che i costi di ristrutturazione dell'edificio si aggirano intorno ai 5 milioni di dollari. Per non parlare poi della posizione strategica in cui è collocato il planetario, a pochi passi dall'appena inaugurato Palestinian Museum.

 Il progetto
  La ristrutturazione e il design del museo saranno realizzati dall'architetto Salma Milson Arad, il cui progetto consiste nello scavare sotto il planetario per ricavare 500 metri quadrati di spazio in più per ospitare i nuovi spazi. "Abbiamo deciso di non costruire sopra o accanto all'edificio", ha dichiarato Milson Arad, "ma piuttosto di scavare sotto. Sarà aperta una finestra nella facciata orientale dell'edificio, che offrirà una vista sulla Città Vecchia e la Knesset, per esprimere la connessione tra Einstein e Gerusalemme". Una volta completato, l'edificio ristrutturato ospiterà un centro visitatori situato nella cupola del planetario, l'archivio di Einstein, spazi dedicati all'accoglienza del pubblico e per i ricercatori, uffici amministrativi e un negozio di souvenir.

(Artribune, 21 ottobre 2017)


Delegazione di Hamas in Iran: ecco i primi risultati della riconciliazione palestinese

Una delegazione di altissimo livello di Hamas è arrivata ieri sera a Teheran, in Iran, per tenere colloqui con il regime degli Ayatollah a seguito all'accordo di riconciliazione palestinese.
La delegazione è guidata dal numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, che oltre ad essere il vice comandante dei terroristi è anche il responsabile delle operazioni militari dei terroristi palestinesi il che fa supporre che la visita non sia legata solamente a riferire agli sponsor iraniani gli sviluppi dell'accordo tra fazioni palestinesi ma anche a ricevere direttive prettamente militari....

(Right Reporters, 21 ottobre 2017)


Come Israele sostiene l'innovazione. Il ruolo dell'Israel Innovation Authority

 
Israele da sempre sostiene materialmente e moralmente i suoi scienziati e ricercatori. Lo Stato ha messo a punto e attuato politiche nazionali che l'hanno reso leader mondiale nel settore dell'high-tech e dell'innovazione.
Nell'ambito di un nuovo programma, l'Israel Innovation Authority, (l'Autorità che si occupa di innovazione) per incoraggiare l'innovazione, ha scelto cinque società che opereranno in laboratori ad hoc per aiutare gli imprenditori tecnologici ad emergere con i loro lavori.
I laboratori saranno finanziati dall'autorità per un periodo di tre anni e sosterranno progetti innovativi in materia di Internet Of Things, infrastrutture intelligenti, mobilità urbana intelligente, materiali avanzati per dispositivi elettronici di nuova generazione e sviluppo di materie prime per il l'industria alimentare e delle bevande.
Secondo Globes durante un periodo che durerà circa 3 anni, l'Autorità contribuirà a finanziare l'istituzione dell'infrastruttura tecnologica dei laboratori a vantaggio degli imprenditori e delle loro startup, con un budget di 4 milioni di NIS (circa 1 milione di dollari). Le startup accettate nei laboratori riceveranno fino all'85% del finanziamento.
Il programma è rivolto a imprenditori e startup con idee innovative che sono interessati ad ottenere una proof of concept (traducibile in italiano con "prova del concetto", ovvero una sorta di bozza di un progetto con lo scopo di dimostrarne la fattibilità) e sviluppare così il proprio prodotto.
Le aziende scelte per operare nei laboratori durante il triennio pilota sono:
  • Il gruppo Ham-Let: il suo laboratorio sarà stabilito nell'area industriale Ziporit nel nord del Israele e si concentrerà sulle tecnologie innovative nell'industria dell'Internet Of Things;
  • Shikun & Binui Holdings Ltd: Solel Boneh e la società italiana di energia ENEL opereranno in un laboratorio nella zona di Haifa, concentrandosi su infrastrutture intelligenti in costruzione, trasporto e energia;
  • ASI (Automotive Service Israel): L'Alleanza Renault-Nissan opererà nel complesso imprenditoriale del business center di Kiryat Atidim di Tel Aviv, concentrandosi sulla mobilità urbana intelligente;
  • PMatX: Merck Performance Materials e Flex collaboreranno congiuntamente in un laboratorio nella città di Yavne, concentrandosi su materiali avanzati e su processi di produzione innovativi per dispositivi elettronici di nuova generazione;
  • Frutarom Industries Ltd: creerà; un laboratorio a Haifa volto a sviluppare materie prime uniche e funzionali per le industrie alimentari e delle bevande.
In una intervista su Globes, l'Amministratore delegato Israel Innovation Authority, Aharon Aharon, ha dichiarato:
    L'Autorità per l'innovazione dona una grande importanza all'introduzione dell'innovazione nell'industria manifatturiera. Abbiamo ricevuto 16 proposte eccezionali, che indicano una vera necessità che il programma affronta. Il programma di laboratorio servirà come una piattaforma per collegare l'industria manifatturiera con la cultura dell'imprenditorialità e dell'innovazione per cui Israele è ormai famosa, e contribuirà a dare alle imprese israeliane un vantaggio competitivo a livello mondiale.
(Faro di Roma, 20 ottobre 2017)


Israele: scontri anti-naja, frattura fra ebrei ortodossi

Rabbino centenario sconfessa rabbino oltranzista

Una profonda lacerazione si e' creata fra gli ebrei ortodossi in Israele in seguito alle manifestazioni indette dal rabbino oltranzista Shmuel Auerbach contro la coscrizione nell'esercito dei seminaristi dei collegi rabbinici. Ieri, nel corso di estesi incidenti, il traffico automobilistico e' stato paralizzato in alcune citta' e la polizia ha compiuto oltre 120 fermi. Ma oggi quelle dimostrazioni sono condannate dall'influente rabbino ortodosso Haim Kanievsky. In una lettera al suo giornale Yeted Neeman il religioso, centenario, accusa i dimostranti di essere ''vuoti e ribaldi, come un gregge senza pastore''. I seminaristi infatti ottengono automaticamente la esenzione dal servizio militare e dunque le proteste, secondo Yeted Neeman, sono fuori luogo. I seguaci di Auerbach si rifiutano pero' di ritirare di persona l'esonero per non avere contatti con ''lo Stato sionista'' e rischiano cosi' di essere considerati disertori. Il giornale di Auerbach, ha-Peles, torna intanto alla carica affermando che quelle di ieri sono state ''proteste senza precedenti, in seguito alla persecuzione della religione da parte dei nemici giurati della Torah''. E nella localita' ortodossa di Beit Shemesh sono comparsi oggi manifesti che propongono agli ortodossi che si sentono ''perseguitati'' di fuggire in massa in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Una apposita organizzazione provvedera' subito a fornire loro visti e finanziamenti, per agevolare la fuga all'estero.

(ANSAmed, 20 ottobre 2017)


A colloquio con i ragazzi delle terze medie

Inge Auerbacher, sopravvissuta all'Olocausto: la speranza oltre l'orrore

di Maria Cristina Rocchetti

 
Inge Auerbacher
MESSINA - Un brivido scorre lungo la schiena di chi la ascolta, ma lei ritiene doveroso raccontare l'orrore dei campi di concentramento. Inge Auerbacher, classe 1934, era solo una bambina quando la vita l'ha costretta a conoscere la cattiveria umana, ed ai bambini ha voluto parlare facendo visita agli alunni dell'Istituto Comprensivo Paradiso. Aveva sette anni quando, nel 1942, fu deportata nel campo di concentramento di Terezin, in Cecoslovacchia, con i suoi genitori e, con la sua famiglia, è una delle poche sopravvissute allo sterminio dell'Olocausto. Una vicenda terribile, divenuta trent'anni orsono un libro dal titolo "I am a star", attraverso il quale ha raccontato la dura esperienza vissuta nel campo di concentramento con parole, immagini, disegni che ben rappresentano le emozioni di una donna cui è stata negata la spensieratezza della prima giovinezza. Un incontro toccante ed appassionante allo stesso tempo, quello con i ragazzi della terze classi, che hanno voluto rendere omaggio alla sua storia con un ascolto attento ma anche con la forza dell'esuberanza. E la Auerbacher simpaticamente non si è sottratta alle loro richieste di foto ed autografi quasi a voler sottolineare che passato e futuro sono legati da un filo sottile ma importantissimo. Ospite della professoressa Teresa Lazzaro, Inge Auerbacher ha parlato della prigionia, dei dolori atroci causati dalla scarsa nutrizione, della sporcizia in cui i prigionieri furono costretti a vivere, della tubercolosi che sterminò chi ancora non era rimasto vittima della ferocia nazista, ma anche dell'amicizia vera, intima che la legò ad altri bambini, dei giochi fatti nonostante tutto e tutti, della sua mamma, che con dedizione si improvvisò infermiera per i sofferenti, e dell'amore dei genitori che riuscivano, dividendo un unico tozzo di pane per i loro bambini, ad evitare per giorni che i crampi della fame rendessero troppo difficile affrontare le giornate. Il pane, infatti, veniva portato al campo una volta a settimana utilizzando quegli stessi carretti che, nel resto del tempo, erano utilizzati per portare via i corpi di chi, purtroppo, non ce l'ha fatta. Un'immagine cruda che, tra le tante, ha colpito i ragazzi in maniera profonda, ma che non ha scalfito il messaggio positivo che la Auerbacher ha voluto dare loro raccontando anche di come, una volta liberata dall'armata russa e trasferitasi in America (dove purtroppo ha dovuto a sua volta fare i conti con la TBC), abbia ricostruito con tenacia la sua vita riprendendo gli studi a quindici anni per poi laurearsi e dedicarsi alla ricerca medica. Ed ecco che, laddove si cerca di negarla, l'umanità prende il sopravvento. Con tutta la sua bellezza!

(il Cittadino, 20 ottobre 2017)


Memorandum d'intesa tra Israele e Germania per tre sottomarini Dolphin

GERUSALEMME - La Germania avrebbe "segretamente" approvato un memorandum d'intesa con Israele per la costruzione di tre sottomarini Dolphin. Lo riferisce oggi la stampa israeliana. Le tre nuove unità navali arricchirebbero la flotta israeliana che già dispone di sei sottomarini. L'intesa giunge in un momento in cui è in corso un presunto caso di corruzione proprio in merito all'acquisto di sottomarini tedeschi da parte dello Stato ebraico. Secondo quanto riferito da funzionari israeliani, nelle ultime settimane il testo del Mou è stato modificato per includere un paragrafo che precisa che non si passerà alla fase successiva finché l'inchiesta sul caso di corruzione sarà in corso. Inoltre, il Mou consente alla Germania il diritto di ritirarsi dall'accordo se dovesse verificarsi qualsiasi attività illegale, ha riferito il quotidiano israeliano "Yediot Ahronot". Nel corso della sua recente visita a Berlino, il presidente israeliano Reuven Rivlin, ha definito i sottomarini come una necessità esistenziale per Israele. I tre sottomarini supplementari hanno un costo di circa 2 miliardi di euro. Tutte le modifiche del Mou sarebbero state fatte a Berlino, secondo quanto riferisce l'emittente "Channel 2".

(Agenzia Nova, 20 ottobre 2017)


Nardella al rabbino: "Sulla moschea siamo in sintonia"

Le parole del rabbino di Firenze Spagnoletto rianimano il dibattito. Il sindaco: "Ha usato parole coraggiose in una fase politica in cui prevale la paura". L'imam: "Non era scontato ne parlasse, è il benvenuto".

 
               Il sindaco Dario Nardella                         Il rabbino Amedeo Spagnoletto
FIRENZE - «Una nuova moschea arricchirebbe l'anima della città, è proprio aiutando le culture religiose ad essere sè stesse che si fermano gli estremismi», si presenta il neo rabbino capo della Comunità ebraica fiorentina Amedeo Spagnoletto. Parole, quelle pronunciate dal Rav nella sua prima intervista a Repubblica, che d'improvviso riaccendono il dibattito sul tema moschea, lacerante e da mesi archiviato: «Siamo in sintonia», lo accoglie il sindaco Dario Nardella. «Prendo atto con piacere della sintonia che c'è tra la posizione del rabbino e la posizione che la mia amministrazione, come quella dei miei predecessori Matteo Renzi e Leonardo Domenici, hanno avuto sul diritto a pregare di ogni comunità religiosa presente nella nostra città» commenta il sindaco. E a chi in questi mesi possa aver pensato che per Palazzo Vecchio l'idea di una nuova moschea sia ormai tramontato Nardella risponde così: «Parlare di dialogo interreligioso, formazione culturale e realizzazione di nuovi luoghi di preghiera di tutte le religioni, inclusa quella musulmana, significa ribadire la vocazione di Firenze, che Giorgio La Pira con grande lucidità comprese e rilanciò».
   Più di una ipotesi si è fatta negli ultimi 18 mesi sulla location di una nuova moschea per i 35 mila fedeli musulmani dell'area fiorentina: prima il terreno di viale Europa "strappato" all'asta alla comunità islamica da un ricco imprenditore, poi l'ex caserma Gonzaga dove decisivo è stato il "niet" dell'ex sindaco-premier Matteo Renzi, segretario nazionale del Pd. Da mesi l'imam Elzir Izzeddin si è rimesso alla ricerca in beata solitudine coi suoi consulenti e i suoi tecnici. Stanno vedendo terreni, aree dismesse, palazzi, anche in centro. Un'attività sotterranea, che non sta coinvolgendo per ora formalmente il Comune.
   Le parole di Spagnoletto riaccendono l'attualità di una sfida culturale prima che urbanistica: «Diamo il benvenuto al nuovo rabbino. Non era scontato che parlasse di una moschea, ma è la conferma che Firenze e i fiorentini sono pronti a vedere una bella moschea, non ai margini della città» dice Izzeddin, che è anche capo Ucooi. Anche Nardella dà un «caloroso» benvenuto a Spagnoletto: «Spero di proseguire con lui il lavoro già impostato con il suo predecessore Joseph Levi. La sua intervista a Repubblica rappresenta uno straordinario punto di partenza per la collaborazione col Comune. Il rabbino ha usato parole chiare e coraggiose in una fase della politica italiana ed europea nella quale prevalgono paure, estremismi, odio, intolleranza. Non vedo l'ora di incontrarlo per andare avanti su progetti come la Scuola internazionale di formazione per il dialogo interreligioso, progetto innovativo di cui peraltro ho già parlato con la presidente Ucei Noemi Di Segni».

(la Repubblica - Firenze, 20 ottobre 2017)


Impossibile trattare con un governo Fatah-Hamas, se Hamas non disarma

La posizione ribadita da Israele trova riscontro in quella dell'amministrazione americana. Immediato il no di Hamas

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha convocato martedì il gabinetto di sicurezza per discutere le conseguenze dell'accordo di riconciliazione sottoscritto al Cairo la scorsa settimana dalle fazioni palestinesi Fatah e Hamas. In una dichiarazione diffusa al termine della riunione, il governo israeliano ha ribadito la richiesta che Hamas riconosca Israele e disarmi completamente....

(israele.net, 20 ottobre 2017)


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Hamas: non riporremo le armi e non riconosceremo Israele

GERUSALEMME - Il leader del movimento islamista palestinese Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar, ha affermato che "nessuno può disarmare il movimento o spingerlo a riconoscere Israele". Parlando ieri nel corso di un incontro con dei giovani di Gaza, secondo quanto riferiscono i siti vicini al gruppo islamista, il capo locale di Hamas ha affermato che "nessuno ha il potere di imporre il riconoscimento Israele", commentando le richieste avanzate dallo Stato ebraico agli Stati Uniti in vista della formazione del governo di riconciliazione palestinese. "Noi combattiamo per la libertà del nostro popolo e contro l'occupazione", ha concluso Sinwar.

(Agenzia Nova, 20 ottobre 2017)


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Perché l'accordo di riconciliazione palestinese è un inganno ai danni di Israele

Monta l'ottimismo dei fautori della pace ad ogni costo tra israeliani e palestinesi a seguito dell'accordo di riconciliazione palestinese raggiunto al Cairo con la mediazione del Presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi.
Secondo molti intellettuali ed editorialisti della sinistra israeliana, tra i quali Ami Ayalon, Gilead Sher e Orni Petruschka che ne scrivono oggi su Yedioth Ahronoth, questo accordo non è solo una opportunità per i palestinesi ma lo è soprattutto per Israele. Secondo il pensiero ottimista che circonda l'accordo di riconciliazione palestinese, questa evoluzione potrà portare finalmente alla tanto agognata soluzione dei due stati a condizione però che Israele accetti di sedersi al tavolo delle trattative e accetti le condizioni palestinesi e le garanzie per la sicurezza che tale accordo implicherebbe....

(Right Reporters, 20 ottobre 2017)


Prestiti tra privati fintech, l'israeliana BLenders sbarca in Italia

La piattaforma web di prestiti tra privati israeliana BLender Global sbarca in Italia e prende sede a Milano al Fintech District. L'annuncio è stato dato ieri dal country manager italiano Alessandro Floris, a capo di BLender Italia srl (scarica qui il comunicato stampa).
BLender Italia opera in qualità di agente-outsourcer italiano di funzioni operative dell'Istituto di Moneta Elettronica di diritto lituano UAB BLender Lithuania, divisione di BLender Global, con quartier generale a Tel Aviv e operativo anche in Lituania, con un piano di espansione che prevede via via la crescita in Europa e in America Latina.
   Guidata dal ceo Gal Aviv e dal presidente Doron Aviv, BLender è controllata da Aviv Technology Development Ltd. del Gruppo Aviv, la società di costruzioni più grande e antica d'Israele. Fra gli azionisti di minoranza dell'azienda ci sono anche venture capital Usa Blumberg Capital (che ha investito 5 milioni di dollari nel luglio 2015), la società di asset management israeliana Psagot, a sua volta controllata dal private equity paneuropeo Apax Partners (che ha comprato il 20% del capitale nel giugno 2016) e investitori privati con elevata esperienza a livello internazionale nel mondo finanziario. BLender partecipa al programma Elite del London Stock Exchange.
   BLender si basa sul motore DirectMatchTM, un sistema basato su algoritmi matematici sofisticati ed esclusivi che consente la massima corrispondenza tra la possibilità di restituzione dei finanziamenti da parte dei richiedenti e le aspettative di coloro che concedono il prestito. Il sistema suddivide la somma disponibile di ciascun prestatore tra un ampio numero di prestiti, in modo tale che ciascun richiedente riceva i soldi da un elevato numero di prestatori. In questo modo, il sistema ottimizza la diversificazione delle somme prestate e riduce il rischio connesso al rimborso del finanziamento.
   BLender ha inoltre sviluppato un innovativo algoritmo proprietario per il credit rating, in grado di valutare la solvibilità dei privati attraverso il monitoraggio incrociato di variabili diverse. La profilazione di ogni utente richiedente un prestito viene effettuata incrociando i dati delle fonti pubbliche e delle altre fonti tradizionali con le informazioni pubbliche derivanti dalla sua presenza on line.
   La piattaforma ha anche costituito un fondo di garanzia a favore dei prestatori, che verrà utilizzato nel caso in cui uno dei richiedenti abbia difficoltà a restituire il finanziamento ricevuto. Il fondo viene alimentato con versamenti pari ad una determinata percentuale dell'ammontare complessivo di ciascun prestito, per garantire la massima sicurezza ai prestatori.
   Infine, da segnalare il fatto che la piattaforma offre una funzionalità che consente di cedere e acquistare prestiti in essere, un vero e proprio mercato secondario chiamato ReBlendTM. Ogni prestatore può decidere di vendere i suoi prestiti ad altri prestatori che intendano acquistarli. Chi lo desidera può in ogni momento recuperare la somma che ha messo a disposizione mediante la concessione di un finanziamento, semplicemente mettendo in vendita il prestito e un altro prestatore potrà procedere ad acquistarlo.

(BeBeez, 19 ottobre 2017)


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In Italia la piattaforma israeliana per i prestiti

SI chiama Blender. Chi presta riceverà circa il 4% lordo. Sulle rate una trattenuta per alimentare un fondo di garanzia.

di Elena Dal Maso

E arrivata a Milano dalla tech-valley di Tel Aviv la società BLender Global, piattaforma online e su app specializzata in prestiti peer-to-peer, ovvero da privato a privato. La casa madre, in Israele, vede nel capitale, col 20% delle quote, Psagot, la maggiore società di investimenti del Paese, parte del gruppo Apax. I due investitori principali sono invece i fondi venture Blumberg Capitai e Aviv group. Il gruppo è presente anche in Lituania e detiene la licenza e-Money (Emi) attraverso la quale può operare all'interno dell'Unione europea. In Italia è soggetto al monitoraggio di Bankitalia e di Consob. Blender, guidato dal country manager Alessandro Floris, mette in contatto chi vuole prestare denaro e ricevere una remunerazione e chi invece ha bisogno di un prestito. Ma come funziona e quanto costa e rende? «Al momento abbiamo una soglia di ingresso di mille euro, che intendiamo abbassare a 500», spiega Floris. «I soldi raccolti vengono distribuiti fra diversi soggetti che hanno richiesto il prestito in modo da limitare il rischio. Ogni prestito non può pesare oltre il 15% del totale. La redditività annuale dipende dalla media dei tassi applicati ai singoli casi che compongono il basket personale del prestatore», aggiunge il manager. A livello di mercato, al credito al consumo si applica il 10% sulla rata, BLender trattiene il 4,5% da chi viene finanziato e l'1,5% da chi presta i soldi.
   Partendo allora dal 10% si arriva al 6% per sostenere le pratiche di analisi del rischio del singolo e l'individuazione del migliore mix tasso-rata da offrire. Quindi alla fine chi presta riceverà circa il 4% lordo annuo. Su ogni rata poi si effettua una trattenuta che andrà ad alimentare il fondo di garanzia. Quest'ultimo scatta nel momento in cui un soggetto non riesce più a pagare (da quattro rate in su). «Prima, però, attiviamo le risorse interne per fare recupero crediti e se non siamo in grado di affrontare adeguatamente il problema, lo facciamo fare all'esterno da professionisti», aggiunge Floris. Si possono chiedere fino a 10mila euro di prestito.
   Il gruppo si è strutturato per creare fin da subito un mercato secondario dove rivendere i prestiti, se si vuole uscire prima della conclusione della vita del basket. Si chiama ReBlend, «che in Israele è stato in grado di assorbire 22mila transazioni andate a buon fine entro 24 ore. Noi in Italia vorremmo arrivare a questo livello, poter liquidare in un giorno», conclude Floris.
   BLender Global ha oltre 30 mila richieste di finanziamento al mese e richieste di prestito per un valore totale di oltre 133 milioni di euro a livello globale, con una crescita media a livello mensile pari al 10%. Blender Italia srl è fra i partner di Fintech District, la comrnunity di società tech nata su iniziativa di SellaLab, la piattaforma di innovazione del gruppo Banca Sella e di Copernico, piattaforma di smart working.

(MF, 20 ottobre 2017)


Purtroppo qualcuno ricomincerà a parlare di ebrei come usurai. M.C.


Saliti a 120 gli ortodossi arrestati a Gerusalemme

Protestano per la legge sul servizio militare

Sono saliti a 120 gli ortodossi arrestati nelle manifestazioni ancora in corso a Gerusalemme. Lo dice il portavoce della polizia segnalando che al momento le forze dell'ordine sono riuscite a riaprire le strade bloccate in precedenza dagli Haredim (pii) Continuano le proteste degli ebrei Haredim contro la legge che prevede il loro arruolamento nell'esercito. Le proteste sono cominciate pochi giorni fa quando due Haredim sono stati arrestati per non aver risposto alla cartolina di richiamo dell'esercito. Esponenti della comunità ortodossa - citati dai media - hanno fatto sapere che risponderanno di conseguenza "all'aumento significativo nella severità delle misure nei loro confronti".

(ANSAmed, 19 ottobre 2017)


La banca congolese e i bonifici sospetti a Hezbollah

Il gruppo BGFI-Bank torna nell'occhio del ciclone per un rapporto investigativo che accusa il controverso istituto di credito legato al presidente Joseph Kabila, di aver finanziato il braccio armato di Hezbollah, in violazione del regime di sanzioni imposto dagli Stati Uniti al movimento libanese.

di Marco Simoncelli

 
"Le stesse banche utilizzate dai governi cleptocrati per sottrarre fondi pubblici, possono anche essere usate per finanziare le reti terroristiche. Questo è ciò che è avvenuto in una grande banca della Repubblica democratica del Congo (RdC)". Inizia così la presentazione del rapporto "The Terrorists' Treasury" pubblicato lunedì scorso da The Sentry, il gruppo di investigatori dell'Ong americana Enough Project finanziato dall'attore George Clooney assieme all'attivista per i diritti umani John Prendergast.
   Secondo l'indagine, la BGFI-Bank RDC - uno dei primi gruppi finanziari dell'Africa Centrale -avrebbe autorizzato dei trasferimenti di denaro verso imprese e individui della rete che finanzia il braccio armato di Hezbollah in Libano, considerato un'organizzazione terroristica da Stati Uniti e alleati. La banca, che avrebbe così aiutato il gruppo a violare il regime di sanzioni Usa contro il gruppo libanese, non è un istituto di credito qualunque, perché il suo direttore è Francis Selemani Mtwale, fratello adottivo del controverso presidente congolese Joseph Kabila e cresciuto con lui durante gli anni di esilio in Tanzania.
   Gli investigatori americani dicono di aver scoperto cinque trasferimenti di denaro sospetti, avvenuti nel 2001 e diretti a imprese legate a Kassim Tajideen, un uomo d'affari libanese-belga iscritto nella lista delle persone sottoposte alle sanzioni statunitensi nel 2009, per il suo sostegno agli Hezbollah. Tajideen è stato arrestato il 12 marzo scorso ed estradato negli Usa dove è accusato di "cospirazione, frode e riciclaggio".
   The Sentry ritiene ancor più grave il fatto che le transazioni da migliaia di dollari siano proseguite, nonostante alcuni dipendenti della banca avessero avvertito i loro superiori della problematicità di queste operazioni bancarie. Queste avevano come destinatari alcune imprese affiliate a Congo Futur, un gruppo basato a Kinshasa, anch'esso sotto regime sanzionatorio statunitense dal 2010 e diretto da uno dei fratelli di Tajideen. Per gli investigatori questi ammonimenti sarebbero arrivati anche al direttore dell'istituto, Mtwale, ma anche in questo caso non avrebbero sortito alcun effetto. La Congo Futur ha continuato a svilupparsi e le sue affiliate nel 2016 avevano ancora dei conti aperti nella BGFI-Bank RDC. Perfino il governo di Kinshasa avrebbe dei legami finanziari con il gruppo, con cui avrebbe firmato degli appalti pubblici.
   Il gruppo investigativo ha chiesto a Stati Uniti e Unione Europea di emettere nuove sanzioni contro i dirigenti della BGFI-Bank RDC, che dal canto suo ha già smentito la veridicità delle accuse. Il portavoce del governo congolese, Lambert Mende, ha affermato sprezzante: "Ogni giorno escono rapporti come questi, la cosa ci stanca un po'".
   Non è la prima volta che uno scandalo colpisce la BGFI-Bank RDC. Già nel novembre del 2016 le rivelazioni dell'ex-dirigente della banca, Jean-Jacques Lumumba (pronipote di Patrice Lumumba, eroe dell'indipendenza congolese), rilasciate al quotidiano belga Le Soir hanno dato il via allo scandalo dei cosiddetti "Lumumba papers".
   La BGFI sarebbe stata usata dal governo per operazioni sospette concernenti la società mineraria Gécamines e avrebbe ospitato un conto appartenente alla Commissione elettorale indipendente del Congo (Ceni), nel quale sarebbero stati fatti versamenti dal governo per 8 milioni di dollari, tra maggio e dicembre 2016. La Ceni è un organo che da anni lamenta la mancanza di fondi per organizzare le elezioni che si sarebbero dovute svolgere proprio nel 2016, prima della scadenza (il 20 dicembre) del secondo e ultimo mandato di Kabila. Pochi giorni fa proprio la Ceni ha annunciato che il voto slitterà di nuovo - stavolta al 2019 - per problemi logistici ed economici, facendo sprofondare ancor di più il paese nell'instabilità.

(Nigrizia, 19 ottobre 2017)


Usa: il governo della Palestina deve riconoscere Israele e disarmare Hamas

Greenblatt: condizione per la partecipazione di Hamas all'esecutivo

GERUSALEMME - Un importante consigliere del presidente Usa Donald Trump ha detto che il nascente governo di unità palestinese, reso possibile dalla firma di un accordo di riconciliazione la scorsa settimana, deve riconoscere Israele e disarmare Hamas. "Qualunque governo palestinese deve impegnarsi senza ambiguità ed esplicitamente alla non violenza, riconoscere lo stato d'Israele, accettare i precedenti accordi e obblighi tra le parti, compreso il disarmo dei terroristi, ed essere disponibile a un negoziato pacifico" ha affermato in una nota Jason Greenblatt, rappresentante speciale di Trump per i negoziati internazionali. "Se Hamas vuole avere un ruolo nel governo palestinese deve accettare queste condizioni di base".

(askanews, 19 ottobre 2017)


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Hamas replica a Greenblat: "Non riconosciamo Israele"

L'inviato di Trump aveva invitato i governi palestinesi a "rispettare le condizioni imposte dal Quartetto".

"Il tempo in cui Hamas ha discusso di riconoscere Israele è finito, ora discuteremo quando Israele sarà cancellata". Così il leader dell'ala militare di Hamas, Yahya Sinwar, ha replicato alle richieste di Jason Greenblat, inviato Usa per la pace in Medio Oriente. La parole del diplomatico Usa, ha detto Bassem Naim, altro membro influente di Hamas, sono "un'interferenza lampante" negli affari interni palestinesi.
   Parlando a proposito della recente riconciliazione con Fatah, Greenblat aveva spiegato che ogni governo palestinese deve, "senza ambiguità ed esplicitamente", rispettare le condizioni poste dal Quartetto sul conflitto con le parti e se Hamas "avrà un ruolo in questo esecutivo deve accettare queste condizioni". Queste - ha ricordato l'inviato di Donald Trump, citato dai media - riguardano "l'astensione dalla violenza, il riconoscimento di Israele, l'accettazione dei precedenti accordi, incluso il disarmo dei terroristi e l'impegno alla pace". Greenblat ha poi sottolineato che è essenziale che l'Autorità nazionale palestinese (Anp) assuma "un pieno, vero e senza impedimenti" controllo civile e di sicurezza a Gaza. Così come è "essenziale lavorare insieme per accrescere la sicurezza umanitaria per i palestinesi" della Striscia.
   Le parole dell'inviato per il processo di pace sono state, invece, accolte con favore da Benjamin Netanyahu. A margine di una cerimonia a Zichron Yaacov, il premier israeliano ha rimarcato che Greenblat ha detto "molto chiaramente che Hamas deve essere disarmata, Israele riconosciuta e i precedenti accordi onorati e per questo lo ringrazio". Secondo Netanyahu le parole del diplomatico americano hanno chiarito "che ogni governo palestinese deve essere impegnato in questi principi". "Vogliamo la pace - ha aggiunto - ma una pace genuina e per questo non condurremo negoziati con un'organizzazione terroristica in maschera diplomatica".

(In Terris, 20 ottobre 2017)


Turkish Airlines EuroLeague - Il Maccabi vince e convince, Baskonia battuto a Tel Aviv

Gli uomini di Spahija si prendono la seconda vittoria in due partite in Europa. Beaubois e compagni, dopo una buona partenza, inseguono per l'intero match senza mai riuscire a rientrare.

di Alessandro Sparacino

Maccabi Tel Aviv - Baskonia 74-68
Il Maccabi di Tel Aviv si aggiudica la seconda gara della regular season di Turkish Airlines Euroleague 2017/18 battendo il Baskonia e portandosi così a punteggio pieno dopo due giornate. Prestazione monstre dell'americano ex NBA Cole, autore in totale di ventiquattro punti, tre rimbalzi catturati e cinque assist. I ragazzi di Prigioni, nonostante l'ottima prova di Beaubois, non riescono a completare i diversi rientri nel punteggio con un sorpasso e cedono il passo nel finale agli avversari. Tra le file degli israeliani degna di nota anche la buona prestazione di Alex Tyus, con valutazione complessiva di quindici.
(VAVEL Italia, 19 ottobre 2017)


Cybersecurity: Yarix rafforza la sinergia con Israele

Per la protezione di imprese e istituzioni dai cyber attack

Da poco concluso a Roma, Cybertech Europe - evento di riferimento per la comunità globale degli esperti di cibernetica - è stata per Var Group e per Yarix, sua Cyber Division, l'occasione di mettere in rete la propria expertise di eccellenza con le best practice internazionali, attivando nuove sinergie e intercettando tecnologie innovative da poter introdurre sul mercato italiano. Yarix in particolare è stata inserita dal Ministero dell'Interno nel novero delle aziende di interesse strategico nazionale per la cybersecurity e rappresenta uno centri di competenza più avanzati a livello nazionale.

 Israele: una partnership strategica per il sistema italiano della sicurezza
  Presente per la prima volta all'evento, la Cyber Division di Var Group Yarix si conferma nel ruolo di testa di ponte nella relazione strategica tra l'Italia e Israele, il paese che in misura maggiore ha saputo sviluppare tecnologie innovative di protezione dal crimine informatico: in nessun altro luogo al mondo esiste, oggi, una simile concentrazione di competenze, know how e innovazione in ambito cybersecurity.
    "Il nostro debutto a Cybertech ci ha consentito di mappare ed entrare in contatto con un interessante rosa di start up israeliane, consolidando così la nostra rete di collaborazione con Tel Aviv, con cui già intratteniamo una partnership di lungo corso per il tramite dell'ambasciata israeliana" - sottolinea Mirko Gatto, CEO di Yarix, Var Group Company - "Su questo fronte, operiamo dunque nell'ottica del potenziamento di un network che si configura come una piattaforma di protezione nazionale dalle cyber-offences. Minacce capaci di mettere a rischio la sicurezza dei cittadini, delle imprese, delle istituzioni e in ultima analisi dell'intero sistema paese".
    "La nuova edizione di Cybertech Europe ha confermato la grande attenzione del mercato italiano nei confronti delle tecnologie israeliane, che continuano a consolidare il proprio posizionamento di eccellenza in Italia e in Europa" - rileva Natalie Gutman-Chen, Head of the Economic and Trade Mission - Milano - Embassy of Israel - "Crediamo che il settore della cybersecurity imponga un approccio non solo tecnologico ma anche normativo e culturale: è fondamentale che aziende, università e governi funzionino come un ecosistema transnazionale, orientato a trasformare la vulnerabilità informatica in opportunità di creare sinergie. Solo in questi termini, può essere possibile arginare la cyber criminalità".
 Una istituzione fondante della Repubblica Italiana protetta, grazie a collaborazione Yarix/Isralele
  Che la partnership con Tel Aviv e le start up israeliane sia una leva di grande efficacia rispetto alla prevenzione e gestione da hacker e cracker trova conferma in un caso emblematico, che coinvolge una delle istituzioni più rappresentative della nostra nazione.
  Per garantire la sicurezza di questo ente istituzionale, Yarix ha sviluppato un sistema di protezione basato su una tecnologia israeliana capace di segnalare eventuali azioni di dirottamento del traffico internet, volte a rubare informazioni sensibili. Tramite questo avanzatissimo sistema di monitoraggio e alert, Yarix è stata in grado di rilevare e arginare ben 2 tentativi di attacco manifestatisi nel breve volgere di un mese e mezzo.
  Il canale privilegiato di interlocuzione e accesso di cui la Cyber Division di Var Group dispone nei confronti dei partner israeliani e delle soluzioni tecnologiche di cui sono portatori si è, così, rivelato decisivo. Nella misura in cui è stato possibile disinnescare due episodi concreti di intrusione al sistema informativo di una istituzione strategica, che sarebbe altrimenti stato difficile proteggere con altrettanta tempestività ed efficacia.

(il Corriere della Sicurezza, 19 ottobre 2017)


Infrastrutture, impariamo da Israele!

di Antonio Gabriele Fucilone

 
L'impianto di desalinizzazione di Sorek in Israele
Ho preso codesta foto dalla pagina Facebook "Silicon Wadi" che mostra un impianto di desalinizzazione dell'acqua in Israele.
Questo è il commento ad essa allegato:
    "A pochi chilometri da Tel Aviv l'impianto di Sorek, il più grande e innovativo al mondo, è la risposta del Paese alla ormai nota siccità. Vasche grandi come campi da calcio, vengono riempite da acqua che arriva dal Mediterraneo. Le vasche sono dotate di un letto di sabbia dove l'acqua subisce una filtrazione prima di finire all'interno di grandi capannoni. La società israeliana che ha costruito gli impianti nel proprio Paese sta ricevendo numerose richieste da varie parti del mondo".
Se qui in Italia ci fosse stato un impianto del genere, questa estate non ci sarebbe stato il problema della siccità.
Quella delle infrastrutture in genere (che siano impianti di dissalazione dell'acqua di mare, strade o altro) è una spesa necessaria, per potere fare impresa ed andare avanti.
Purtroppo, qui in Italia non si vuole capire ciò.
Si spende più in burocrazia ed assistenzialismo (che sono due capitoli di spesa inutili, poiché la burocrazia e l'assistenzialismo non portano ricchezza) mentre le infrastrutture non si fanno.
In più, ci sono certi "ambientalisti" che fanno casino senza fare delle proposte.
Così, il danno è fatto.

(The Candelabra of Italy, 19 ottobre 2017)


Le donne di Israele

Tra spiritualità e pragmatismo. Da Gerusalemme a Tel Aviv alla scoperta del lato femminile del Paese attraverso racconti e testimonianze di vita vissuta.

di Letizia Cini

A lezione di cucina in Israele
A Jualis, in Galilea incontriamo Nahida, etnia drusa: con altre 14 donne sparse nella regione apre le porte di casa a chiunque voglia imparare a preparare i piatti tradizionali drusi, con contaminazioni israeliane: la lezione dura circa tre ore, dopodiché non ha prezzo gustare insieme Ie foglie di vite e zucchine ripiene di riso, zucca caramellasa, kat'aif (pasta ripiena di formaggio e noci), torta di sesamo e curcuma.
A Ein, Karem Shoshana è una radiosa madre di famiglia araba marocchina di fede ebraica che insegna, con altre donne, a fare un cuscus speciale, condito da storie imperdibili.

Va cercata negli incontri, fra i banchi dei bazar pieni di gente (tantissimi i ragazzi e le ragazze in mitraglia, anfibi e divisa), lungo le ordinate vie pedonali, nelle strade trafficate, faccia a faccia con le contraddizioni dei quartieri più ortodossi, la vera essenza di Israele. Un Paese giovane - il 14 maggio del prossimo anno festeggerà il 70esimo anniversario della sua nascita - meta di visitatori ansiosi di calcare la Terra Santa. Un aspetto imprescindibile questo, ma non certo l'unico. Là dove finisce il pellegrinaggio religioso, inizia una nuova avventura. Il viaggio può partire da Gerusalemme, capitale universale delle tre religioni monoteiste, città intrisa di un fascino spirituale, rimandi a Fede e preghiera, ma anche degli effetti tangibili del conflitto israelo-palestinese, che mina la serenità dell'intero territorio, nonostante l'espansione degli insediamenti israeliani nella città e attorno a essa abbia determinato una crescita imponente della popolazione giudea. Imperdibile, adeguatamente vestiti ( come avvertono i cartelli all'ingresso del quartiere), un'immersione totalizzante a Meah Shearim, un'altra galassia. Qui l'interpretazione della parola di Dio condiziona ogni abitudine; come le parrucche che servono a "nascondere" i capelli delle donne. Contraddizioni della fede. Niente internet, quotidiani (se non quelli loro) né messaggini, cellulari solo vecchio modello; un susseguirsi di negozi dedicati a un'infinita gamma di oggetti per la preghiera, come l'inchiostro speciale per scrivere le pergamene racchiuse nel tefllin, astuccio quadrato che ogni uomo che abbia compiuto i 13 anni di età deve portare sulla fronte o legato al braccio sinistro una volta al giorno: gentile e prodigo di spiegazioni il titolare di Hechal (72 Meah Sherim st, Meah Shearum). Eternamente conteso, il Monte del Tempio/Spianata delle Moschee resta il luogo più suggestivo per osservare la &città Santa, ma è possibile salire su cime più pacifiche. Come quella occidentale del Monte Herzl, tagliato in due dal Memoriale dell'Olocausto e degli eroi: lo Yad Vashem, progettato dall'archistar Moshe Safdie. Oppure la collina di Givat Ram, sede del Museo d'Israele, che spazia dall'archeologia all'arte moderna
  Frizzante e cosmopolita Tel Aviv, affacciata sulla costa del mar Mediterraneo, è invece la città del design e della vita notturna: mentre Gerusalemme brilla dell'oro di uno dei suoi simboli più celebri, la Cupola della Roccia, Tel Aviv risplende dell'acciaio dei suoi grattacieli, Tornando agli incontri "fuori circuito", merita di essere vissuta l'esperienza in kibbutz, dov'è possibile incontrare donne come Rocka, 81 anni, nata e vissuta nello storico kibbutz di Shefayim, a Tel Aviv. O Cristiano, giovane italiano perfettamente integrato nella vita di kibbutz, luogo che nonostante i cambiamenti degli ultimi 50 anni, conserva ancora un'aura mitica. Israele offre inoltre mete di benessere come il Mar Morto e località balneari come Eilat, sul Mar Rosso. Il leggendario deserto del Negev, i percorsi in montagna, le molteplici occasioni di festival culturali rendono il Paese una meta perfetta anche per l'ecoturismo. Per riposarsi dalle fatiche dei tour, niente di meglio che una sosta super lusso fra i tesori, anche termali, del Mar Morto, 417 metri sotto al livello del mare: tanti e per tutte le tasche gli hotel con Spa e fanghi. Obbligatorio una sosta a Masada, antica fortezza a sud-est di Gerusalemme, simbolo, per gli ebrei, dell'ultima eroica resistenza contro i Romani nel I secolo a.C.

(Nazione-Carlino-Giorno, 19 ottobre 2017)


Il Mossad recluta, doti richieste: ottimismo e humour

Il servizio segreto israeliano introduce nuove qualità indispensabili per gli agenti e apre i suoi vertici alle donne

di Alberto Stabile

BEIRUT - Non basta possedere freddezza e autocontrollo, saper dominare lo stress, essere disponibili al lavoro di gruppo, parlare le lingue e conoscere alla perfezione le nuove tecnologie militari e della comunicazione. Alle nuove reclute del Mossad, i dirigenti dell'Istituto addetti alla gestione delle risorse umane richiedono adesso «ottimismo, senso dell'umorismo e spontaneità», qualità che finora è stato facile riscontrare nelle trasposizioni cinematografiche della figura dell'agente segreto, a partire dal più famoso e piacione di tutti, James Bond, ma meno nei rari squarci di realtà che di tanto in tanto sono offerti alla pubblica opinione. A rivelare questo ulteriore e per certi versi singolare ampliamento dei requisiti indicati dal Mossad per la formazione del perfetto 007 del terzo Millennio è stato Yedioth Aaronoth, il giornale israeliano di più ampia circolazione che è andato a spulciare nei bandi di concorso di cui, al pari della Cia e dei servizi occidentali, si serve anche il servizio di controspionaggio israeliano per infoltire i ranghi.
   Ma certo non si può dire che «ottimismo, senso dell'umorismo e spontaneità», qualità che potremmo osare di riassumere in una sola parola, simpatia, siano le caratteristiche umane che ci vengon subito in mente le rare volte in cui le vicende del Mossad hanno raggiunto le prime pagine dei giornali. Efficienza, ardimento, spietatezza, semmai, hanno contribuito a creare il mito che tuttora circonda l'Istituto per l'Intelligence e le Operazioni Speciali, questo la dizione completa e corretta del servizio creato da David Ben Gurion, nel 1949, cui è stata affidata la sicurezza d'Israele.
   Dalla sistematica eliminazione dei terroristi palestinesi che compirono la strage di Monaco alle Olimpiadi del 1972 (incluso il tragico scambio di persona che l'anno dopo costò la vita a un innocente cameriere marocchino a Lillehammer, in Norvegia) ai continui tentativi di sabotaggio del programma nucleare iraniano (inclusa l'uccisione di alcuni scienziati); dalla raccolta di informazioni segrete sul reattore nucleare iracheno di Osirak, poi distrutto da un raid dell'Aviazione israeliana, alla eliminazione del dirigente di Hamas, Mahmud al Mohbuh, ucciso con iniezione letale nella sua stanza d'albergo a Dubaì, operazione alla cui preparazione hanno partecipato nei mesi precedenti decine di agenti, la storia del Mossad parla attraverso le sue più eclatanti missioni destinate non soltanto a centrare l'obbiettivo assegnato ma anche a suscitare stupore e timore. Ma forse proprio per rendere la sorpresa ancora più efficace non basta che i nuovi agenti sappiano usare la pistola, o il veleno, ma devono saper strappare il sorriso, essere di battuta facile, comunicare ottimismo. Qualità che è impossibile rintracciare negli identikit di alcuni "operativi" recentemente arrestati in Libano, personaggi libanesi pagati a cottimo per raccogliere e fornire notizie sulle strutture militari del Partito di Dio, Hezbollah.
   Difficile dire quale sarà l'esito di questa innovazione introdotta nei criteri di selezione. Di sicuro il Mossad è un'organizzazione capace di rinnovarsi. Ali' inizio del mese di Ottobre, ben due donne, Y. e S., sono state promosse capo divisione e ammesse a far parte della cosiddetta Rasha, il forum dei Capi Divisione, in poche parole l'alto comando del servizio di controspionaggio. Cosa che non era mai successa prima.

(la Repubblica, 19 ottobre 2017)


Il rabbino Avraham ci dà il benvenuto nella «Casa 770»: l'edificio che ha 16 repliche nel mondo

La storia e i misteri dell'«olandese», la palazzina ebraica replicata in via Poerio. È una delle 16 case costruite nello stesso modo in tutto il mondo, l'unica europea. Tutto iniziò nel 1940, da un piccolo fabbricato in stile gotico a Brooklyn.

 
Il rabbino Avraham Hazan davanti alla facciata in mattoni rossi della casa 770 al civico 35 di via Poerio
Altre «case 770» nel mondo  
MILANO - «Kansù, bevakashà» («entrate, prego»). È così che il rabbino Avraham Hazan apre la porta e invita a entrare in uno dei luoghi più misteriosi di Milano: la palazzina al civico 35 di via Carlo Poerio. La chiamano «l'olandese» (perché ricorda le abitazioni dei Paesi Bassi) ma, in realtà, è una delle 16 «case 770» riprodotte nello stesso modo, in tutto il mondo, da una comunità ebraica. E quella milanese è l'unica in Europa. In stile neogotico nel quartiere più liberty della città, spicca per i mattoncini rossi, le strette e lunghe vetrate e i tre tetti appunti dalle «guglie». «La sua storia è legata al "Rebbe" Menachem Mendel Schneerson (nato nel 1902 a Mykolaìv, in Ucraina), carismatico direttore del movimento ortodosso Chabad-Lubavitch», racconta Davide Romano, assessore alla Cultura della comunità ebraica.
  Le case 770 sono presenti negli Stati Uniti, a New York, nel New Jersey, a Cleveland e a Los Angeles. In Canada a Montréal, in Israele a Ramat Shlomo (non lontano da Gerusalemme), a Kfar Chabad, a Kfar Tapuach (vicino Tel Aviv), a Kiryat Ata e a Zikhron Ya'aqov (nei dintorni di Haifa). A San Paolo, Buenos Aires, Melbourne, Santiago del Cile e in Ucraina.
  Tutto ha inizio nel 1940, quando un gruppo della grande dinastia dei Lubavitcher acquista un piccolo fabbricato in stile gotico al 770 di Eastern Parkway a Crown Heights, Brooklyn, per il Rav Yoseph Yitzchak Schneerson, emigrato negli Usa per sfuggire alle persecuzioni naziste. Dopo la sua scomparsa la casa è stata ereditata dal genero, Menachem Mendel Schneerson, figura diventata famosa all'estero per la sua cultura e l'impegno per la diffusione della chassidut (insegnamenti, interpretazioni e direttive dell'ebraismo), nonché fondatore dei centri Chabad, tra i luoghi di incontro più frequentati dalle comunità ebraiche internazionali. «La grande devozione e l'arte oratoria del Rebbe — continua l'assessore — hanno reso la casa 770 di Brooklyn un posto di culto e di adorazione, tanto da essere replicata in diversi Paesi, in epoche differenti. È stato anche un modo, per i seguaci di Schneerson, di farsi riconoscere».
  La struttura meneghina è stata ristrutturata negli anni 90. Risalta subito agli occhi: tre piani con all'interno un giardino bellissimo. «È un punto di riferimento culturale per la città — rivela Romano —. Si organizzano eventi particolari, dall'arte al food (rigorosamente kosher) sempre nello spirito illuminato e divulgativo del leggendario rabbino, scomparso nel 1994 a New York». La palazzina fa parte del Merkos, centro per l'educazione ebraica e il direttore è Rav Avraham Hazan: «Nel 1958 il rabbino Garelik è stato mandato qui dal Rebbe e con sua moglie ha creato un'associazione e ha aperto una scuola. Dopo qualche anno ha deciso di replicare la «770» originaria. L'edificio in via Poerio apparteneva già a una famiglia ebraica ma era fatiscente. Rav Garelik ha avuto il permesso di rifarlo da capo e poter rappresentare, così, il legame con il luogo d'origine. Oggi all'interno c'è una libreria, un centro studi, uffici e una sala conferenza».
  I Chabad-Lubavitch si distinguono dall'abbigliamento: cappello nero, barba e basette lunghe. Qual è la loro caratteristica? «Essere aperti — spiega Romano —. Provano piacere nel coinvolgere le persone nelle loro iniziative a prescindere dalla fede religiosa. E hanno un grande spirito divulgativo. Per esempio, hanno introdotto a Milano alcune festività: al Castello Sforzesco quella di Sukkot e nel periodo di Natale celebrano, in piazza Duomo o in San Babila, quella delle luci di Chanukkà, ricordata per i candelabri giganti».

(Corriere della Sera - Milano, 18 ottobre 2017)


Francesco Lotoro e le note composte nei campi di sterminio

di Francesca Rotondo

«Sono partito da una curiosità personale, poi è diventato altro, la necessità di colmare un gap di 70 anni per far rivivere un pezzo importante di musica del Novecento rimasta nascosta, che oggi pretende di essere riascoltata»

Cinquantatrè anni, pianista, musicologo, compositore, insegnante al Conservatorio di Foggia: Francesco Lotoro è questo, e molto di più. Egli è soprattutto un ricercatore infaticabile di Barletta, un vero e proprio "cacciatore". Non di fantasmi o creature paranormali come vorrebbero le migliori storie fantasy, bensì di musica. Una musica nata in "cattività" dietro il filo spinato dei lager, lontanissima sia da quella dell'orchestra di Auschwitz - suonata per il piacere sadico degli aguzzini mentre i deportati andavano a morte - sia dai concerti di Terezín, concessi per trasmettere una visione edulcorata del campo.
   Da trent'anni Lotoro lavora al recupero degli spartiti che i prigionieri composero nei campi di sterminio dal 1933 (data di apertura del primo campo a Dachau) al 1953 (l'amnistia per gli ultimi prigionieri tedeschi nei Gulag). Questa musica rappresentava per loro un vero e proprio spazio di libertà, la riconquista di un'umanità soffocata, una via di fuga dall'orrore della Shoah. Frugando negli archivi e intervistando i sopravvissuti, il musicologo pugliese ha raccolto un' ingente quantità di materiale: circa ottomila partiture, centinaia di interviste e 12 mila documenti appartenenti ad ebrei, cristiani, zingari, sufi, comunisti, prigionieri civili e militari detenuti in tutti gli angoli del mondo, dall'Europa al Giappone, dalle Filippine al Suriname.
   Tra i molteplici esempi rinvenuti, si può citare Rudolf Karel, allievo di Dvoràk, tenuto come prigioniero in un carcere di Praga dopo l'occupazione tedesca. Egli approfittò delle soste in infermeria per comporre con carbone vegetale e carta igienica quella che sarebbe divenuta un'opera in cinque atti, salvata grazie alla complicità di un secondino. Nel lager olandese di Westerbork, invece, il musicista Hans Van Collem usava i campi di patate come un pentagramma, chiedendo poi ai compagni di memorizzare le note incise nella terra per poi trascriverle su carta igienica. Fu composto in tal maniera il Salmo 100, cantato di nascosto nelle latrine. Il tenente Giuseppe Capostagno, imprigionato dagli inglesi a Yol (India), scrisse in quel luogo di morte la sua Himalayana Suite per orchestra; mentre in Algeria, nel campo di Saìda, il compositore e ufficiale italiano Berto Boccosi scrisse l'opera in tre atti La Lettera Scarlatta.
   In onore di tale e altro materiale di altissimo valore artistico e storico, strappato irrimediabilmente all'oblio, sono state messe in campo una serie di iniziative brillanti. Innanzitutto la storia di Lotaro sta per essere pubblicata in Thesaurus Musicae Concentrationariae, un' enciclopedia in 12 volumi che dovrebbe essere terminata nel 2022. La ricerca del pianista pugliese sarà affrontata anche in un docufilm - The Maestro - del regista franco-argentino Alexandre Valenti, che uscirà in Italia il 23 gennaio. Il progetto più imponente rimane, tuttavia, la costruzione di un complesso polifunzionale e multimediale nell'area e nelle strutture della ex Distilleria di Barletta: la Cittadella della Musica Concetrazionaria. Non si tratta solo di un modo per ridare enfasi e valore alla musica nata nei campi di sterminio, ma anche di uno splendido lavoro di recupero architettonico e industriale realizzato da Nicolangelo DIbitonto. La struttura, imbastita su un'area di circa novemila metri quadri, sarà divisa in cinque sezioni: la Bibliomediateca musicale, il Campus delle scienze musicali, il Museo dell'arte rigenerata, il Teatro Nuovi Cantieri e la Libreria internazionale del Novecento. In questi luoghi sarà presentata la raccolta di Lotaro - quaderni musicali, spartiti, materiale fotografico, fonografico e audiovisivo - «affinché la musica creata da tanti artisti prigionieri e privati dei diritti fondamentali, possa tornare a nuova vita, farsi materia pulsante d'arte e di studio e, soprattutto, monito per le nuove generazioni».

(Il messaggero italiano, 18 ottobre 2017)


“Amare Israele”

Giovedì 9 novembre 2017 alle 19.30 presentazione del libro "Amare Israele" di Fulvio Canetti, presso la sede della Hevrat Yehudé Italia in Rechov Hillel 25 a Gerusalemme. Dialogherà con l'autore Rav Pinchas Punturello.

Locandina

(Ricevuto dall’autore, 19 ottobre 2017)


Il nodo dell'Unesco

di Francesco Lucrezi

Le recenti notizie, rapidamente susseguitesi l'una all'altra, relative all'elezione del nuovo Presidente dell'UNESCO, sollecitano diverse considerazioni. Ricordiamo soltanto, rapidamente, che era candidato, in "pole position", per la copertura del prestigioso incarico, un tale Hamad ben Abdulaziz Kawari, ex ministro degli Esteri del Qatar, un signore distintosi per avere personalmente promosso e curato molteplici edizioni del "Mein Kampf", dei Protocolli dei Savi di Sion e di analoghi libri spazzatura, allegramente distribuiti, con "imprimatur" statale, nel suo felice Paese; che gli Stati Uniti hanno ufficialmente dichiarato di ritirarsi dall'organizzazione (a cui, fra l'altro, già da tempo non contribuivano più economicamente), per il conclamato pregiudizio anti-israeliano, restando nel puro ruolo di osservatori, in ciò subito seguiti dal governo di Gerusalemme; che le votazioni hanno visto, a sorpresa, prevalere, con uno strettissimo margine di soli due voti di maggioranza (grazie anche al voto italiano), la Signora Azoulay, cittadina francese di origini marocchine e di religione ebraica, sulle cui posizioni relativamente allo spinoso fascicolo mediorientale (la "titolarità" dei luoghi santi, l'ebraicità del Muro occidentale e di Hebron ecc.) c'è, comprensibilmente, molta attesa e curiosità.
   Diciamo, brevemente, quel che riteniamo si possa affermare a proposito della complessiva questione. Innanzitutto, la candidatura del sinistro e ripugnante Kawari non appariva come qualcosa di scandaloso e inaudito, ma era assolutamente in linea, del tutto coerente con la politica seguita dall'organizzazione negli ultimi anni, consistente, anziché in una protezione e valorizzazione del patrimonio culturale dell'umanità, in una disgustosa strumentalizzazione della cultura ai fini di una propaganda politica subdola e velenosa, costantemente indirizzata verso la negazione di ogni legame storico del popolo ebraico con la propria terra, attraverso una martellante (come è stato detto) "intifada diplomatica", perfettamente parallela e sintonizzata con la strategia del terrore e con i proclami di distruzione dello Stato ebraico, ai cui obiettivi le scelte dell'UNESCO appaiono direttamente funzionali (chi volesse distruggere Israele, non farebbe niente di male, dato che uno Stato ebraico non ha alcuna legittimazione, e non ha quindi alcun diritto di esistere).
   In un bellissimo articolo pubblicato sul Corriere della sera lo scorso venerdì 13, Paolo Mieli - uno dei pochi giornalisti italiani che, nella pratica del suo mestiere, rivela di essere guidato da una morale, parola ormai completamente passata di moda - spiega, con argomentazioni inoppugnabili, come l'Italia, unitamente ad altri Paesi occidentali, sia stata reiteratamente indotta a un atteggiamento benevolo verso il Qatar in forza dei sonanti petrodollari che l'emirato fa generalmente scivolare nelle nostre tasche - acquistando grattacieli, hotel di lusso e siti turistici, senza mai " tirare sul prezzo" -, e che ben giustificano qualche piccola distrazione di coscienza. "Pecunia non olet", come si dice, così va il mondo, perché andare tanto per il sottile? E poi, diciamo la verità, il Qatar o un altro, a noi che ce ne frega? E poi e poi, sempre con questi ebrei, che barba… Mieli è bravissimo, e dice delle verità incontestabili, ma io sono ancora più pessimista di lui, perché non sono affatto sicuro che, se quelli del Qatar fossero poveri o tirchi, e non ci scucissero neanche un centesimo, avremmo un atteggiamento diverso. L'Italia si è sempre accodata tranquillamente alle mandrie di antisemiti terzomondisti, si trova a suo agio nella comitiva. I soldi magari aiutano, ma chi si lascia corrompere in genere è già corrotto da prima, mentre, per chi ha una coscienza, nessuna cifra sarebbe mai sufficiente. Emiro, hai buttato i tuoi soldi, sarebbe bastato qualche sorriso, un caffè al bar, qualcuna delle solite battute sul Paese del sole. Com'è bello piacere a tutti, essere amici di tutti. La decisione dell'America di ritirarsi è sacrosanta, la prima bella notizia da tanto tempo, e speriamo che non ci siano ripensamenti. Anche se non sarà risolutiva, almeno costringe la gente a fare un po' i conti con la realtà, a non fare finta di nulla. Trump è uno degli uomini più odiati del pianeta - e io stesso, per quel che conta, l'ho spesso criticato su queste colonne -, ma stavolta può solo essere elogiato e ringraziato, senza alcuna riserva. Sarebbe molto ingenuo illudersi che ora, con l'arrivo della Azoulay, l'UNESCO abbia finalmente cambiato rotta, come se una sola persona, al vertice di un'organizzazione, potesse decidere tutto.
   Auguri alla Signora, riguardo alla quale ho trovato ingenerose alcune accuse di andare a fare la foglia di fico o di svolgere il ruolo di "ebreo di corte". Ma, personalmente, continuo a pensare che sarebbe un bene che dall'UNESCO uscissero quanti più Paesi possibile, e che ci restassero solo Iran, Qatar, Libano, Gaza, Malesia, Corea del Nord e cose del genere.

(moked, 18 ottobre 2017)


Il Congo e le sue fosse comuni eletti al Consiglio dei diritti umani dell'Onu

Non c'è limite alla vergogna delle Nazioni Unite

di Giulio Meotti

ROMA - Lo hanno definito "il posto peggiore in cui essere una donna o un bambino". Uno degli otto posti più pericolosi del mondo. E' la Repubblica democratica del Congo, governata dal 2001 da Joseph Kabila, da anni teatro di sfollamenti e uccisioni di massa, civili ammazzati a colpi di machete, guerra civile, stupri di gruppo e sfruttamento di risorse naturali da parte dei dittatori. E' un genocidio che ha causato oltre trecentomila vittime. Nel paese è oggi in corso una grave emergenza umanitaria, con almeno 400 mila bambini a rischio di morte per fame e altri 60 mila (di cui oltre il 35 per cento bambine) costretti ad arruolarsi come soldati. Tra maggio e giugno, in Congo sono state scoperte 42 fosse comuni per oltre 400 morti. Tra di essi, anche due funzionari dell'Onu inviati nel paese e scomparsi il 12 marzo.
   E cosa poteva fare di meglio il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite per onorare i morti congolesi e i propri? Ma eleggere il Congo nel proprio comitato, ovviamente. E' quello che è successo lunedì. Sono quindici i nuovi membri del Consiglio dei diritti umani.
Nikki Haley, ambasciatore degli Stati Uniti all'ONU
L'ambasciatore statunitense Nikki Haley ha definito l'elezione del Congo "un altro esempio del perché il Consiglio dei diritti umani manchi di credibilità e debba essere riformato per essere salvato". Haley precedentemente aveva lasciato intendere la possibilità che gli Stati Uniti potessero uscire dal Consiglio durante una visita alla sede di Ginevra a giugno, quando lo ha definito "un forum per la politica, l'ipocrisia e l'evasione" che consente a coloro che abusano dei diritti umani di sbianchettare le rispettive immagini e criticare ingiustamente Israele, depositario di gran parte delle risoluzioni del Consiglio. Haley ha definito il Congo "un paese famigerato per la soppressione politica, la violenza contro le donne e i bambini, l'arresto e la detenzione arbitraria e gli omicidi e le sparizioni illegali".
L'elezione del Congo al primo organismo mondiale dedito alla protezione dei diritti umani è forse il punto più basso della storia delle agenzie dell'Onu, ovviamente dopo l'elezione lo scorso aprile dell'Arabia Saudìta alla commissione sulle donne delle Nazioni Unite. Louis Charbonneeu, inviato di Human Rights Watch all'Onu, ha definito l'elezione del Congo "uno schiaffo alle vittime dei gravi abusi del governo congolese in tutto il paese" ,
   Hillel Neuer direttore esecutivo di UN Watch, un gruppo che monitora l'Onu a Ginevra, ha detto che aver eletto il Congo "a giudice mondiale sui diritti umani è come scegliere un piromane a capo dei vigili del fuoco in città". La vergogna dell'Onu non si ferma qui. Anche il Qatar è stato eletto al Consiglio di Ginevra, nonostante il suo sostegno alle organizzazioni terroristiche, l'impossibilità dei suoi cittadini di scegliere il proprio governo in elezioni libere e imparziali, le sue restrizioni alla libertà di espressione, stampa e associazione, il suo divieto dei partiti di opposizione, la sua negazione della libertà religiosa, la sua discriminazione contro le donne e i lavoratori stranieri, E non potevano mancare a Ginevra neanche l'Afghanistan e il Pakistan, altri due nuovi membri, nonostante la loro violenza settaria, la tortura e altre meraviglie umanitarie per le quali fanno notizia.
   Il matematico francese Laurent Lafforgue ha commentato che consentire a queste dittature e satrapie di dominare l'organo di controllo dei diritti umani dell'Onu "sarebbe come fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per i diritti umani". Forse, dopo l'Unesco, è il caso che qualche democrazia se ne vada anche dal Consiglio dei diritti umani dell'Onu, ricordandogli il motivo per cui è stato fondato.

(Il Foglio, 18 ottobre 2017)


Mai scrivere "citolisi'. L'algoritmo segna in blu tutte le parole proibite

Un software israeliano aiuta scienziati e divulgatori a migliorare gli articoli e a renderli comprensibili.

di Fabiana Magrì

Scienziati e divulgatori hanno a disposizione un nuovo strumento per incontrarsi a metà strada tra linguaggio specialistico e linguaggio di tutti i giorni. Si chiama De-Jargonizer ed è il risultato della collaborazione tra professori e ricercatori israeliani del Technion e dell'Holon Institute of Technology con lo scopo di segnalare agli autori di testi di argomento scientifico il livello di accessibilità per un pubblico di non addetti ai lavori.
  La premessa - documentata proprio sul sito del De-Jargonizer con tanto di bibliografia e ricerche - è che un testo risulta comprensibile a non scienziati soltanto se il 95-98% delle singole parole suona familiare. Per scoprire la percentuale di chiarezza del proprio lavoro è quindi sufficiente caricare nella homepage del sito http://scienceandpublic.com il file dell'articolo oppure del saggio da analizzare o, ancora, copiare e incollare manualmente il testo e cliccare «Start», Da lì in poi ci pensa l'algoritmo sviluppato da Tzipora Rakedzon, Elad Segev, Noam Chapnik, Roy Yosef e Ayelet Baram-Tsabari.
  Lo scritto sarà restituito a colori: le parole comuni restano in nero, quelle poco frequenti diventano arancioni, il rosso, invece, segnala i termini in gergo. «Gli scienziati - spiegano i creatori di De-Jargonìzer - sono tenuti a comunicare la ricerca non solo ad altri specialisti del loro stesso settore, ma anche a colleghi di altri campi, nonché alla classe politica e al pubblico generalista. Il primo passo è quindi evitare il gergo professionale che esclude e impedisce la comprensione». A volte, vivendo immersi in un linguaggio fortemente specializzato, per gli scienziati è difficile perfino individuare quali sono i termini che possono risultare poco chiari a un orecchio inesperto. «De-Jargonizer - si legge ancora sul sito - mette in evidenza il gergo problematico, permettendo all'autore o al divulgatore di prendere in considerazione le parole potenzialmente oscure e sostituirle con altre più familiari o di aggiungere spiegazioni per chiarire il concetto».
  Vocaboli esotici come «morphofunctional», «peptidoglycan» e «cytolysis» - per restare nell'ambito della definizione di una cellula - sono quindi stigmatizzati da De-Jargonizer, che le segnala come esempi clamorosi di termini non adatti a un pubblico generalista. E questo strumento risulta utile anche quando viene utilizzato in senso opposto. Docenti e professori possono infatti utilizzarlo per valutare i progressi dei propri studenti, valutandone la capacità di ricorrere a un vocabolario via via più appropriato.
  Disponibile per analizzare testi in lingua inglese ed ebraica, l'algoritmo di De-Jargonizer si basa sull'analisi di 90 milioni di parole ricorrenti, tra il 2012 e il 2015, in 250 mila articoli pubblicati sui siti Bbc, inclusi i canali tematici scientifici, ma escludendo annunci pubblicitari, commenti dei lettori e indirizzi web e email. Il nuovo strumento è «in progress» e come ogni algoritmo si affinerà procedendo nelle sue elaborazioni. «II linguaggio è dinamico - ha spiegato Elad Segev, docente all'Hit, a DigitalTrends - e quindi parole che in passato appartenevano al gergo domani potrebbero entrare a fare parte dell'uso quotidiano. È successo per termini come "cancro" e "Dna».

(La Stampa, 18 ottobre 2017)


Netanyahu avverte la Russia: via le truppe iraniane dalla Siria

Gli equilibri in Medio Oriente

Benjamin Netanyahu l'ha detto a Vladimir Putin, a Donald Trump, e l'ha ripetuto ieri al ministro della Difesa russo Sergei Shoigu in visita nello Stato ebraico. Israele «non accetterà mai una presenza militare permanente dell'Iran in Siria». E' una linea rossa tracciata con il fuoco. Lunedì i caccia con la stella di David hanno distrutto una batteria anti-aerea siriana S-200 che aveva lanciato un missile mentre sorvolavano lo spazio aereo libanese, non senza aver prima avvertito i russi. L'aviazione israeliana osserva le mosse dell'esercito di Bashar al-Assad, degli Hezbollah, dei «consiglieri» iraniani sul Golan, dove si apprestano a schiacciare l'ultima sacca di ribelli e a riprendere la città di Quneitra. Le forze israeliane e siriane si troveranno presto quasi a contatto, per la prima volta dal 1967, perché il cuscinetto dei Caschi Blu dell'Onu, cacciati dai jihadisti nel 2014, non c'è più. Il Mossad è convinto che Teheran sta costruendo una base aerea a proprio uso vicino a Damasco e si appresta a realizzare un attracco navale accanto a quello russo a Tartus. Una presenza «permanente» e ben radicata. L'Iran «deve capire che Israele non lo consentirà», ha ribadito il premier israeliano a Shoigu. E per questo appoggia la decisione di Trump di «decertificare» l'accordo sul nucleare firmato da Obama: «Teheran avrà comunque l'atomica fra otto, dieci anni», è la previsione di Netanyahu. Shoigu ha ascoltato le preoccupazioni, detto di lavorare per «una migliore comprensione reciproca in Medio Oriente», ma soprattutto annunciato la «prossima fine» delle operazioni in Siria. L'Isis è in ginocchio, Assad sta per vincere, Mosca sorveglia. Ma le rassicurazioni russe non bastano a Israele.

(La Stampa, 18 ottobre 2017)


ISIS nel Sinai. La nuova strategia secondo l'intelligence israeliana

Un rapporto della intelligence israeliana preoccupa i vertici del IDF e la diplomazia di Gerusalemme. Nell'obiettivo di ISIS ci sarebbero devastanti attentati contro Israele in modo da spingere gli israeliani a intervenire direttamente nel Sinai e compromettere così le buone relazioni con il Cairo

C'è un rapporto di intelligence sulle attività di ISIS nel Sinai che non lascia troppo tranquilli i vertici militari israeliani. Da mesi ormai lo Stato Islamico subisce una sconfitta dietro l'altra, ieri è caduta anche Raqqa, ultimo simbolo del potere del Califfato nero. Il Sinai diventa quindi la via di fuga e luogo di ricovero per i terroristi in fuga dalla Siria e dall'Iraq....

(Right Reporters, 18 ottobre 2017)


Alla scoperta dell'antico cimitero ebraico di Firenze

Speciale visita guidata a un luogo simbolico carico di arte e storia. Appuntamento domenica 22 ottobre (ore 11) in Viale Ariosto 16.

Cimitero ebraico di Firenze
È uno dei cimiteri ebraici più antichi d'Italia, si trova appena fuori porta San Frediano in un angolo poco conosciuto perfino ai fiorentini: il Cimitero monumentale ebraico è un luogo da scoprire, ricco di cappelle e monumenti funebri altamente suggestivi e rappresentativi del mondo ebraico. Domenica 22 ottobre (ore 11) sarà eccezionalmente possibile entrare in questo spazio segreto grazie alla speciale visita guidata a cura di CoopCulture.
Aperto nel 1777 in viale Ariosto, il cimitero rimase in attività per circa un secolo fino a quando fu inaugurato il nuovo sito in zona Rifredi. Un alto muro di cinta custodisce con gelosa riservatezza un importante tesoro culturale costituito da cappelle funerarie in stile neoegizio e neorinascimentale, fra tutte quella della famiglia Franchetti, antiche lapidi con interessanti iscrizioni, sarcofagi lineari o riccamente elaborati in stile orientaleggiante. Pur prive di figurazioni alcune tombe sono vere e proprie sculture di valore artistico.

(Met - Città Metropolitana di Firenze, 18 ottobre 2017)


Dopo Eichmann solo fallimenti

Un rapporto dei servizi segreti israeliani spiega il perché dei molti buchi nell'acqua. Josef Mengele sfuggì per un soffio e poi morì annegato.

di Simonetta Scarane

Incensati per la cattura di Adolf Eichmann, trasferito in gran segretezza a Gerusalemme, i servizi segreti israeliani pensavano di poter rinnovare l'impresa con 1'«Angelo della morte», Josef Mengele, e altri criminali nazisti ancora in libertà. Il rapporto, desegretato in primavera dal Mossad e riportato da Le Figaro, ha messo in luce i loro ripetuti fallimenti in questa guerra nell'ombra durata tre decenni sulle strade di Grecia, Italia, Baviera, Austria prima di concentrarsi sull'America del Sud. «Nuvole e vento, ma nessuna pioggia». Ispirato al libro dei Proverbi (25:14), il titolo del voluminoso rapporto suona come un cuore spezzato. Scritto da un veterano del servizio rivela le notevoli risorse che furono impiegate a partire dal 1960 per cercare di arrestare o eliminare alcuni dei più famosi criminali nazisti ancora liberi.
  Leggendo la relazione, sembra che questa guerra abbia dato risultati mediocri. Su una dozzina di obiettivi prioritari solo Alois Brunner, rifugiato a Damasco è oggetto di due tentativi di assassinio con pacchi bomba, nel 1961 e il 1980, che, però, l'hanno soltanto leggermente ferito. Quanto al dottor Josef Mengele, i cui esperimenti condotti dal 1943 sugli ebrei deportati e internati ad Auschwitz sl'hanno fatto diventare l'obiettivo numero uno del Mossad, fu inseguito a lungo e sfuggì per un soffio morendo annegato al largo di una spiaggia brasiliana.
  A San Paolo, in Brasile, misero sotto sorveglianza una comunità di ex nazisti. Nel 1962, vi fu spedito Zvi Aharoni già coinvolto due anni prima nell'identificazione e cattura di Eichmann. Il 23 luglio credette di aver raggiunto l'obiettivo quando, al confine di una fattoria, aveva avvistato una persona che per allure, altezza, età e abbigliamento assomigliava a Mengele, aveva scritto il capo dell'antenna sudamericana del Mossad. Ma i suoi superiori, improvvisamente molto preoccupati per lo sviluppo delle capacità balistiche dell'Egitto di Nasser, decisero per la sospensione dell'esecuzione con lo scopo di ridistribuire le proprie forze.
  Una mancanza crudele di perseveranza. Yossi Chen, l'autore del rapporto su questa caccia era chiaramente costernato da una tale mancanza di continuità di idee. «Si sarebbe potuto dare seguito a quanto perseguito con forza, ma non è successo», dice il sopravvissuto all'Olocausto che ha militato nelle fila dell'intelligence militare prima di entrare nel Mossad. Il suo lavoro dimostra che i capi successivi del Mossad, come i primi ministri, si sono regolarmente interrogati sull'opportunità di perseguire i criminali di guerra nazisti in tutto il mondo.
  Meir Amit, alla guida del Mossad nel 1963, comunicò ai suoi uomini che si doveva «smettere di inseguire fantasmi del passato per concentrare, uomini e mezzi, sulle minacce contro la sicurezza dello Stato». Nel 1969, la campagna, anche se mai cessata del tutto, fu accantonata per ordine del primo ministro Levi Eshkol. Nel 1977, fu Menahem Begin, vincitore delle elezioni, a ridare al Mossad questa priorità, ordinandogli di riportare in Israele i criminali nazisti per processarli o, nell'impossibilità, di ucciderli. Agli occhi del leader della destra nazionalista regolare i conti con i principali responsabili dello sterminio degli ebrei d'Europa era il modo migliore per far comprendere ai nemici arabi di Israele che non sarebbero mai stai sicuri da nessuna parte. E il Mossad, si mise sulle orme di Josef Mengele, come priorità.
  All'inizio degli anni '80 decisero di mettere sotto controllo suo figlio Rolf, la sua casa tedesca, l'ufficio e il telefono e una seducente spia fu incaricata di avvicinarlo. Ma questi sforzi si rivelarono inutili. Nel 1985, poco dopo aver pubblicato un annuncio che prometteva un milione di dollari a chiunque avesse contribuito a individuare quello che le sue vittime definirono l'«Angelo della morte», il Mossad apprese che Mengele era morto annegato sei anni prima in un lago in Brasile. Il suo corpo fu esumato, ma si dovette aspettare fino al 1992 affinché le analisi genetiche effettuate sul suo scheletro permisero di identificarlo formalmente, «Nonostante gli straordinari sforzi fatti per localizzarlo, Israele non è riuscito a punire Mengele», ha detto, desolato, a posteriori, Yossi Chen in un estratto della sua relazione citata dal quotidiano Haaretz.
  Un rovescio che non fu l'unico. Il Mossad, rinomato per l'audacia e l'efficienza delle sue operazioni, collezionò, paradossalmente, delle sventure durante tutta la sua guerra segreta contro gli ex quadri del regime di Hitler. Nel novembre 1967, due dei suoi uomini furono sorpresi dai vicini e denunciati alla polizia tedesca mentre stavano penetrando nella casa della moglie dell'ex capo delle SS, Heinrich Müller. Colti in flagrante furono arrestati e condannati a tre mesi di carcere. Inutilmente. Uno storico tedesco, più tardi, affermò che Muller era effettivamente morto alla fine della guerra.
  Grandi sforzi furono fatti non solo in Germania, ma anche in Congo o a Aden, per cercare di trovare Martin Bormann. Più tardi, si apprese che l'ex cancelliere del partito nazista trovò la morte il 2 maggio 1945 mentre cercava di fuggire dal bunker di Adolf Hitler. Quanto al dottor Horst Schumann, che partecipò a esperimenti di sterilizzazione e castrazione a Auschwitz, fu localizzato in uno sperduto villaggio del Ghana. Ma la direzione del Mossad, temendo che i suoi agenti sul campo non potessero scappare rapidamente dopo aver compiuto la missione, rinunciò a ordinare la sua liquidazione. L'uomo fu estradato in Germania. Condannato, nel 1972, scontò 7 mesi di reclusione prima di essere liberato per motivi di salute.
  Di questa serie di operazioni fallite, la più sofisticata fu l'assassinio programmato di Klaus Barbie e Walter Rauff, un ingegnere che aveva progettato le camere a gas mobili per l'Einsatzgruppen. Il primo aveva trovato rifugio in Bolivia, il secondo in Cile. Dopo un anno di indagini e diverse settimane di avvistamenti furono simultaneamente schierate due squadre a La Paz e a Santiago, mentre il direttore del Mossad e il capo del dipartimento delle operazioni speciali sbarcavano in America del Sud.
  Diverse decine di agenti parteciparono ai preparativi logistici. Il quartier generale fu installato a Panama e la data della duplice uccisione fissata per il 17 marzo 1980. Meno di dodici ore dovevano separare le due esecuzioni. Quando gli uomini si presentarono davanti alla casa di Walter Rauff, una donna cilena si insospettì e si mise in testa di cacciarli. il cane allarmato per la confusione cominciò ad abbaiare e la missione si annullò in una catastrofe. Solo nel 1983 Klaus Barbie fu arrestato ed estradato in Francia dove fu condannato alla prigionia a vita per crimini contro l'umanità.
  È sorprendente che il Mossad, abbia ritenuto di autorizzare la pubblicazione del rapporto anche se poco lusinghiero, ma questo gesto non deve far dimenticare che i dirigenti del paese, commisero, all'epoca, un grave errore morale rinunciando a fare della caccia ai criminali nazisti una priorità. Ma è anche arrivata l'ora di assolvere il Mossad e i politici che hanno preso la decisione di mettere questa caccia fra parentesi. «La cattura e il processo di Eichmann, oltre che la sua esecuzione, hanno chiaramente inviato il messaggio che il sangue ebraico non può essere versato impunemente. Partendo da questo, il Mossad era giustificato a lasciare il passato dietro di sé. I nazisti non erano più un pericolo.

(ItaliaOggi, 18 ottobre 2017)


Israele non riconosce la riconciliazione Fatah-Hamas

Il governo israeliano non riconosce la riconciliazione tra Hamas e Fatah e non "intraprenderà negoziati con un governo palestinese che si appoggi su Hamas, una organizzazione terroristica che invoca la distruzione di Israele".
Lo ha ribadito l'esecutivo del premier Benyamin Netanyahu che oggi si è riunito a Gerusalemme per esaminare il recente accordo tra le due fazioni palestinesi.
Il giudizio negativo di oggi potrà essere modificato solo se si "realizzeranno" alcune condizioni che Israele ritiene indispensabili. Al primo posto è che "Hamas deve riconoscere Israele e cessare il terrorismo, secondo le condizioni poste dal Quartetto".
Inoltre, Hamas deve cedere le armi e restituire "i corpi dei militari caduti a Gaza, nonché i civili lì trattenuti". L'Autorità nazionale palestinese (Anp), per Israele, deve poi avere "un controllo completo di sicurezza a Gaza, inclusi i valichi, e impedire il contrabbando".
Altra condizione posta da Israele è che l'Anp continui "a neutralizzare le infrastrutture terroristiche di Hamas in Cisgiordania" e che Hamas sia "separato dall'Iran". Infine, "il flusso di fondi e di materiale umanitario verso Gaza" dovrà passare "solo attraverso l'Anp e i suoi apparati". Nella riunione di governo, secondo i media, Netanyahu ha detto ai suoi ministri che pur non riconoscendo la riconciliazione tra Fatah (che è il partito di Abu Mazen, presidente dell'Anp) e Hamas, non romperà tuttavia le relazioni con l'Autorità palestinese.

(swissinfo.ch, 17 ottobre 2017)


Netanyahu incontra il ministro russo di difesa Sergei Shoigu

GERUSALEMME - Il primo ministro Benjamin Netanyahu, a Gerusalemme, ha incontrato il ministro russo di difesa Sergei Shoigu; Il ministro della Difesa Avigdor Liberman ha partecipato alla riunione.
L'incontro riguarda principalmente il tentativo dell'Iran di stabilirsi militarmente in Siria. Il primo ministro Netanyahu ha detto al ministro russo della difesa Shoigu: "L'Iran deve capire che Israele non lo permetterà".
È stata sollevata anche la questione dell'accordo nucleare iraniano. Il premier Netanyahu ha affermato che l'Iran avrà un arsenale di armi nucleari entro 8-10 anni se l'accordo non è cambiato.

(Agenparl, 17 ottobre 2017)


Non solo nucleare, ecco la nuova strategia Usa sull'Iran

di Federico Punzi

Trump vs Rohani
State sereni, possiamo dire ai numerosi orfani del presidente Obama affetti da "trump-fobia" nel mondo mediatico e politico. Il presidente Trump non ha (ancora) ucciso l'accordo sul programma nucleare iraniano voluto dall'ex presidente Usa e premio Nobel per la pace (e forse non lo farà mai). "Fix it or nix it", modificarlo o affossarlo, è il messaggio lanciato nell'ambito di una più complessa revisione della strategia americana nei confronti dell'Iran illustrata dal presidente venerdì scorso. Un certo allarme è comunque giustificato tra chi in Europa si era cominciato a leccare i baffi pensando all'Iran come a una sorta di nuovo Eldorado per gli affari.
  A prescindere dalla fine che farà l'accordo sul nucleare, come più volte avevamo anticipato su Formiche.net si tratta di una svolta a 180 gradi della politica americana verso Teheran e il Medio Oriente: dall'appeasement di Obama al contenimento e al confronto laddove necessario. Mentre sul programma nucleare la de-certificazione rappresenta solo il primo passo di uno sforzo di medio-lungo termine verso la rinegoziazione dell'accordo, il cambio di strategia implica misure immediate e di breve-medio termine in grado comunque di complicare i piani commerciali europei con Teheran. Un solo esempio: le sanzioni imposte da Washington al programma missilistico iraniano e ai Guardiani della Rivoluzione, il corpo sotto il diretto controllo della Guida Suprema. Il problema è che in Iran non c'è alcuna trasparenza finanziaria e i pasdaran hanno le mani in pasta nell'economia e nel settore finanziario del Paese tramite entità terze. Insomma, i proventi di accordi commerciali possono finire nelle loro tasche ed essere usati per finanziare il programma missilistico e attività di sostegno al terrorismo. A quel punto, banche e compagnie europee finirebbero sotto la scure delle sanzioni americane. E questo senza nemmeno sfiorare l'accordo sul nucleare. E' un gioco che vale la candela? Gli europei dovranno fare molta attenzione a chi sono i loro partner d'affari in Iran, chi i reali beneficiari delle compagnie con cui firmano contratti.
  Ecco perché sorprende la miope dichiarazione della Mogherini (molto più cauta quella congiunta Merkel-Macron-May) secondo cui un solo paese non ha il potere di "terminare" l'accordo. Certo, se Teheran e i 4+1 vogliono andare avanti senza gli Stati Uniti, nessuno lo impedisce. Ma le implicazioni del cambio di strategia Usa sugli scambi commerciali Ue-Iran, sommate alla concreta possibilità che uscendo gli Stati Uniti dall'accordo, anche Teheran si ritiri, potrebbero dimostrarsi argomenti sufficienti a convincere gli alleati europei della necessità, proprio per salvare accordo e affari, di sollecitare anche loro gli iraniani a tornare al tavolo del negoziato per "riparare" falle che tutti riconoscono esserci nell'intesa. Alcuni funzionari europei hanno ammesso che "il clima è già cambiato", ci si sta già chiedendo come affrontare le carenze dell'accordo in modo che non salti, mentre la pressione su Teheran può ulteriormente aumentare con sanzioni non relative al nucleare, che quindi non violano l'accordo (come quelle annunciate sui Guardiani della Rivoluzione). "E' un test per gli europei, per capire se possono svolgere un ruolo autonomo sulla scena politica mondiale, indipendente dagli Stati Uniti", è stato il commento provocatorio, ma pieno di significati del ministro degli esteri iraniano Zarif, che ha anche precisato: "Ciò che è importante per noi, è che gli Usa siano tenuti a rinnovare la sospensione delle sanzioni".
  Dunque, quello nucleare è forse il nodo più vistoso, ma non è né l'unico, né il più intricato, né sarà il primo ad essere affrontato da Washington nel dar seguito alla nuova politica, che guarda alla "totalità delle minacce derivanti dalle attività maligne del governo iraniano". L'obiettivo strategico è quello di neutralizzare l'influenza destabilizzante iraniana in Medio Oriente, i suoi tentativi di sovvertire l'attuale ordine regionale per diventarne potenza egemone. Il programma nucleare e quello missilistico sono pilastri importanti di questa politica, ma più urgente è contrastare la crescente influenza e presenza anche militare - delle milizie filo iraniane e direttamente dei pasdaran - in Iraq e in Siria, fino ai confini con Israele. Nella nuova strategia Usa vengono citati i tentativi del regime iraniano di alimentare il suo "network del terrore" con armi sempre più distruttive e di stabilire un collegamento diretto, via terra, un corridoio strategico tra l'Iran e il Libano (dove risiedono gli Hezbollah). E' ragionevole ritenere che sarà questo, man mano che si avvicinerà la definitiva sconfitta dell'Isis, il primo fronte della nuova strategia di contenimento dell'espansionismo iraniano.
  Tornando all'accordo sul nucleare, Trump ha annunciato che non lo "certificherà" più al Congresso (dopo averlo fatto contro voglia per due volte da quando è alla Casa Bianca). Ma questo, va precisato, non significa che gli Stati Uniti si ritireranno unilateralmente dall'intesa, né li rende in alcun modo inadempienti. E nemmeno è scontato che Trump chiederà al Congresso di ripristinare le sanzioni che erano in vigore prima della conclusione dell'accordo. La de-certificazione passa la palla al Congresso, che avrà 60 giorni per decidere sulle sanzioni o su altre misure. Significa che Trump sta chiedendo al Congresso di aiutarlo a elaborare i termini per migliorare l'accordo, magari vincolando la conferma della sospensione delle sanzioni sul nucleare all'inclusione di tali termini in una nuova intesa, e agli alleati europei di unirsi agli sforzi per convincere Teheran a rinegoziarlo.
  La de-certificazione è dunque il primo passo di un tentativo, certamente difficile ma doveroso, di correggere le falle dell'accordo che, anche secondo il segretario di Stato Tillerson, pongono l'Iran sulla strada della Corea del Nord per quanto riguarda il programma nucleare e quello missilistico. Alla scadenza di questo accordo, potremmo trovarci una nuova Corea del Nord, ma nel mezzo della polveriera mediorentale, dove anche Israele dispone di testate nucleari e altri regimi, avversari di Teheran, come Egitto e Arabia Saudita, vorranno a quel punto possederne. L'accordo voluto da Obama, come ha osservato il prof. Emanuele Ottolenghi in una intervista di questa estate [LINK], "non fa altro che ritardare di qualche anno il momento della crisi, permettendo però a Teheran di arrivarci in una situazione tecnologica, industriale, economica e politica molto più favorevole di quella di oggi".
  A questo punto qualche precisazione va fatta sulla legge che prescrive alla Casa Bianca di "certificare" ogni tre mesi al Congresso l'accordo sul nucleare. Si tratta di una legge bipartisan approvata dal Congresso per riprendersi un minimo di controllo su un accordo che l'ex presidente Obama ha negoziato non come trattato - che avrebbe richiesto una ratifica da parte del Senato che difficilmente sarebbe mai arrivata. Uno dei molti casi in cui Obama ha in modo molto spregiudicato e controverso scavalcato le prerogative del Congresso. Questa legge richiede alla Casa Bianca di certificare più cose. Non solo la piena adempienza dell'accordo da parte di Teheran, ma anche che la sospensione delle sanzioni in ragione di quell'accordo è ancora negli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nonostante abbia dichiarato che l'Iran non rispetta l'accordo "nello spirito" - basti pensare al programma di missili balistici che prosegue a pieno ritmo, alle attività di destabilizzazione del Medio Oriente e al sostegno del terrorismo - Trump non lo de-certificherà per il mancato rispetto della sua lettera, ma proprio perché trattandosi di un cattivo accordo, per le sue falle strutturali, non lo ritiene negli interessi della sicurezza nazionale. Dunque, dal punto di vista politico, l'adempienza o meno da parte di Teheran non è decisiva.
  Nel suo discorso di venerdì il presidente Usa ha spiegato di aver ordinato alla sua amministrazione di "lavorare a stretto contatto con il Congresso e i nostri alleati per affrontare i molti gravi difetti dell'intesa". Tra questi difetti, Trump ha citato innanzitutto l'insufficiente adempimento e la scadenza dell'accordo, il fatto che sia solo temporaneo lo stop al programma nucleare iraniano, mentre dovrebbe essere reso permanente. Ma anche la totale assenza nell'accordo del programma di missili balistici che Teheran sta portando avanti - proprio il tipo di missili che serve a trasportare testate nucleari. A nessuno intellettualmente onesto può sfuggire l'importanza di questi elementi.
  "Vogliamo iniziare un processo per eliminare questi difetti" lavorando "insieme ai partner", ha spiegato il segretario di Stato Rex Tillerson parlando alla Cnn. "Dobbiamo realmente gestire un numero molto più vasto di minacce" da parte dell'Iran e "diverse violazioni tecniche" dell'accordo. Per questo dobbiamo "lavorare con gli altri partner e chiedere di essere più intransigenti sul rispetto dell'accordo, chiedere più ispezioni e più trasparenza". "Penso che in questo momento rimarremo nell'intesa", ha detto la Haley a Meet The Press della Nbc. "Per vedere come possiamo migliorarla. Questo è l'obiettivo. Non è uscire dall'accordo".
  Solo in caso di insuccesso la Casa Bianca valuterà se abbandonarlo o meno. Trump in realtà ha avvertito che in quel caso sarà "terminato", ovviamente per massimizzare con una minaccia credibile la pressione sugli altri firmatari. Ma l'uscita unilaterale degli Usa dall'accordo avrebbe in ogni caso i suoi costi, quindi non è affatto scontata.

(formiche.net, 17 ottobre 2017)


Vi spiego cosa non fa l'Unesco per la cultura e la pace. Parla Di Segni (Ucei)

di Emanuele Rossi

 
Noemi Di Segni
"Questo è un momento in cui c'è estremo bisogno di strutture valide e forti, e la serietà delle organizzazioni internazionale va salvaguardata" dice a Formiche.net Noemi Di Segni, eletta dal luglio del 2016 presidente dell'Unione delle comunità ebraiche. Si parla dell'Unesco e della decisione del presidente Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall'organizzazione che si occupa di Cultura per le Nazioni Unite. "Sotto quest'ottica è comprensibile la decisione di Trump", aggiunge Di Segni. (La Washington trumpiana non ama questo genere di strutture multilaterali, ne chiede un riallineamento più operativo, le considera, pensiero velato dal minimo di forma diplomatica che anche Trump si dà nelle esternazioni, carrozzoni succhia-soldi).
  Tra le motivazioni che hanno portato Trump alla rottura c'è, diciamo così, la china anti-israeliana presa dall'agenzia. "La mossa di Trump è un'occasione per ribadire ciò che si sostiene da tempo - continua Di Segni - perché è un questione di contenuti e contenitore. Quanto al contenitore, l'Unesco non realizza la propria missione principale perché è fortemente strumentalizzato, e dunque la domanda è: quanto fermamente riesce ad assolvere il proprio ruolo internazionale?" e si torna sul tema della serietà. E sul contenuto? "È difficilmente accettabile quello che è stato fatto dall'Unesco quest'anno: potremmo dire che è anche soltanto una questione di stile. È stato consentito di mettere a votazione la negazione assoluta della storia. Insomma, possiamo discutere di tutto, dei negoziati dei territori, ma qui stiamo facendo un discorso di verità". Di Segni si riferisce al documento con cui l'agenzia ha praticamente smaterializzato il rapporto storico tra il popolo ebraico e il complesso religioso della Città santa: è stato approvato all'inizio di maggio, l'Italia fu uno dei paesi che votò contro. "Ed è qui che il problema raddoppia - continua la presidente - perché si torna ai compiti, che dovrebbe essere l'aiutare a educare proprio perché si è in un contesto come la cultura. L'obiettivo, sì, dovrebbe essere quello di riuscire ad educare enti, soggetti e stati ad usare strumenti della diplomazia matura".
  Il giorno dopo dell'annuncio della decisione americana, l'Unesco ha votato la sua nuova presidente, la francese, ex ministra della Cultura del governo Hollande (pare sia stato proprio l'ex presidente, a fine mandato, a spingerla a candidarsi), Audrey Azoulay Hamad bin Abdulaziz al-Kawari (30 voti contro 28 dell'assemblea esecutiva, uno di quelli decisivi arrivato proprio dall'Italia che su di lei ha tenuto da sempre il punto). Kawari da ministro ha fatto nominare dall'Unesco Doha a capitale della cultura araba: era il 2010, in quello stesso anno ci fu molta polemica perché alla fiera internazionale del libro della capitale qatarina furono esposti dozzine di titoli antisemiti (tra cui nove edizioni dei "Protocolli dei Savi di Sion" e quattro del "Mein Kampf"). Sempre Karawi è stato accusato di aver curato con toni complottisti e antisemiti la prefazione di "Jerusalem in the Eyes of the Poets", un libro che denuncia il controllo degli ebrei sui media e dà responsabilità a Israele di essere la ragione di molti dei conflitti attuali, dal Golfo all'Iraq, dall'Afghanistan al Sudan.
  Quando la francese presentò formalmente la volontà di candidarsi, si sollevò un coro di protesta guidato da una cinquantina di intellettuali arabi che la definirono una "scandalosa provocazione", perché a quel punto, dopo decenni di guida europea, l'Unesco - dicevano loro - doveva passare sotto qualcuno appartenente al mondo arabo. Non è chiaro quanto la mossa di Trump abbia influenzato la votazione finale, ma come fa notare Di Segni è da registrare il timing con cui è avvenuta - il Qatar è molto criticato sul tema dei diritti umani (vedere le vicende collegate alla preparazione dei Mondiali del 2022) e da qualche mese è sotto l'occhio del ciclone perché accusato apertamente dagli altri stati del Golfo di finanziare gruppi terroristici e in generale l'islamismo più spinto (un altro voto decisivo per la vittoria di Azoulay è arrivato dall'Egitto, uno dei paesi che fa parte del blocco che ha isolato diplomaticamente Doha).

(formiche.net, 17 ottobre 2017)


Scoperto un piccolo teatro romano a Gerusalemme

Il dr. Joe Uziel all'interno della struttura teatrale ritrovata
I resti di un piccolo teatro di epoca romana sono stati scoperti da una équipe di archeologi israeliani impegnata in scavi nella zona dell'Arco di Wilson a breve distanza dal Muro del Pianto, nella Città vecchia di Gerusalemme. Lo hanno annunciato ieri gli stessi archeologi - Joe Uziel, Tehillah Lieberman e Avi Solomon - in una conferenza stampa in cui hanno precisato di essersi trovati casualmente al cospetto dei resti del teatro mentre erano impegnati a riportare alla luce nella stessa zona otto grandi pietre alla base del Muro del Pianto. «È stata una scoperta sensazionale», hanno affermato. Il teatro poteva ospitare duecento spettatori e la sua ubicazione concorda con testi storici dell'epoca di Giuseppe Flavio e con descrizioni posteriori di quando Gerusalemme veniva chiamata dai romani Aelia Capitolina.

(Avvenire, 17 ottobre 2017)


Eppure si muove qualcosa, persino all'Unesco

Ma ci vorrà tempo perché l'agenzia Onu per la cultura riguadagni la credibilità compromessa dalle campagne di menzogne anti-israeliane a cui è stata piegata.

Una donna ebrea a capo dell'Unesco appare come una nemesi totale, per un'organizzazione che da quasi cinque decenni si è fatta conoscere per i suoi pregiudizi anti-israeliani e spesso anti-ebraici, e che si apprestava a eleggere l'antisemita Hamad bin Abdulaziz Kawari, candidato del Qatar: quello che nel 2010 alla fiera internazionale del libro di Doha fece esporre 35 titoli antisemiti tra cui nove edizioni dei Protocolli dei Savi di Sion e che ha firmato la prefazione di un libro in cui si dà voce al negazionista Roger Garaudy per denunciare il "controllo degli ebrei" su mass-media e case editrici....

(israele.net, 17 ottobre 2017)


Il giorno in cui saremo sorpassati per sempre

Nel futuro avveniristico e desolante preconizzato dallo storico israeliano Harari, il flusso onnipotente dei dati libererà la terra da tutti i mali e i difetti del presente. Compresa la morte. E l'uomo stesso.

di Rodolfo Casadei

Yuval Noah Harari
In un momento imprecisato del XXII secolo l'uomo sconfiggerà la morte, ma la vita potenzialmente eterna (cioè fatali incidenti piccoli o grandi permettendo) su questa terra sarà piuttosto schifosa: dovremo rinunciare definitivamente alla presunzione di essere dotati di libero arbitrio, di avere un sé unitario, di essere qualcosa di più di un fascio di reazioni biochimiche; e dovremo affidarci completamente ad algoritmi che ci conosceranno meglio di noi stessi e prenderanno le decisioni al posto nostro. Infine, saremo minacciati da una nuova religione: il datismo, che sostiene che l'universo consiste di flussi di dati, e che il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all'elaborazione dei dati. Quel che allora resterà dell'uomo, cioè la sua coscienza, rischierà di perdersi per sempre in un mondo di algoritmi inorganici, considerato che quelli organici come lui appariranno del tutto obsoleti e sacrificabili.
  Questo è quel scrive Yuval Noah Harari, storico israeliano ateissimo e visionario, che nei titoli dei suoi libri ficca sempre la divinità: si è rivelato alle masse nel 2014 con Sapiens. Da animali a dèi, che ha venduto cinque milioni di copie nel mondo, e nel 2016 ha bissato il successo con Homo Deus. Breve storia del futuro. Harari non ha dubbi: il connubio fra biotecnologie e intelligenza artificiale consentirà in futuro di trasformare l'Homo Sapiens in Homo Deus. A-mortalità, felicità e divinità saranno alla sua portata. Non sarà però una passeggiata, perché anzitutto queste prerogative saranno sicuramente all'inizio fatte proprie da una classe ristretta di persone facoltose, che potrebbero anche decidere di trattare tutti gli altri come sottouomini. Il nazismo si ripresenterebbe in una forma dolce: la superiorità della razza eletta sarebbe reale, non mitica come quella hitleriana, e non ci sarebbe nessun bisogno di sterminare le razze inferiori, che non rappresenterebbero più una minaccia.
  Poi c'è il problema che questo sconvolgerebbe le successioni generazionali, il mercato del lavoro e il sistema pensionistico: le persone non potranno più ritirarsi a 65 anni e lasciare il posto ai più giovani, ma soprattutto diventerà problematica la vita familiare. «Provate a immaginare una persona con un'aspettativa di vita di 150 anni», scrive Harari. «Sposandosi intorno alla quarantina, costui o costei avrà ancora 110 anni davanti a sé. È realistico aspettarsi che il matrimonio duri 110 anni? Dopo aver cresciuto due bambini quando aveva intorno ai 40 anni, questa persona, quando ne avrà raggiunti 120, avrà soltanto lontani ricordi degli anni spesi per la loro educazione - un episodio tutto sommato minore della sua lunga vita. È difficile fare previsioni su quali tipi di nuove relazioni genitore-figlio potrebbero svilupparsi in un contesto del genere».
  Un altro problema sarà l'ansia degli uomini divenuti non immortali, ma a-mortali: la morte resterà comunque in agguato. «A differenza di Dio, i futuri superuomini potranno ancora morire in qualche guerra o incidente, e niente li riporterà indietro dagli inferi. Ad ogni modo, a differenza di noi mortali, la loro vita non avrà una data di scadenza. A meno che una bomba non li riduca a brandelli o un tir passi sopra i loro corpi, essi potranno vivere indefinitamente. Circostanza che, con ogni probabilità, li renderà le persone più ansiose della storia. Noi mortali ogni giorno tentiamo la sorte con le nostre vite, poiché sappiamo che esse termineranno un giorno in una maniera o nell'altra. Ecco perché intraprendiamo scalate sull'Himalaya, nuotiamo in mare e facciamo molte altre cose pericolose. Ma se credi di poter vivere per sempre, sarebbe da pazzi assumersi rischi come questi all'infinito».
  Certo, molti problemi legati ai sentimenti e alle emozioni umane potranno essere risolti riprogrammando i circuiti neuronali umani, intervenendo direttamente sul cervello. Si potranno eliminare le malattie neurodegenerative, la depressione, l'aggressività, l'ansia, rendere permanenti gli stati di coscienza (euforia, tranquillità, estasi, eccetera) che oggi si raggiungono in modo pericoloso e temporaneo con le droghe. Ma c'è un problema. La scienza, scrive Harari, ha dimostrato che non esistono né il libero arbitrio, né il sé: l'uomo è dominato da desideri e pensieri che non sceglie liberamente, ma che gli sono imposti dal suo sostrato biologico, che si agita secondo gli imperativi del processo evolutivo da cui proviene. Il sé è solo un io narrante che cerca di dare un senso a quello che l'io esperienziale vive (da qui l'origine delle religioni, delle ideologie, eccetera). Il tecnoumanesimo, che promette di donare agli uomini una vita fantastica grazie al connubio fra ingegneria genetica, nanotecnologia e le interfacce cervello-computer, parte dal presupposto che il soggetto abbia una sua volontà. Ma proprio questo è ciò che la scienza e il progresso tecnologico stanno annientando: «Se imparassimo a plasmare e riplasmare la nostra volontà, non potremmo più percepirla come la sorgente ultima di ogni significato e dell'autorità. Non importerebbe più quel che ci dice: potremmo sempre farle dire qualcos'altro. Immaginate che Romeo e Giulietta si apra con Romeo che deve decidere di chi innamorarsi. E immaginate che, anche dopo aver preso questa decisione, Romeo possa comunque ritrattarla e fare un'altra scelta. Che tipo di dramma ne risulterebbe? Pensate a quanto dolore si sarebbe potuto evitare se Romeo e Giulietta, invece di bere il veleno, avessero potuto semplicemente prendere una pillola o indossare un casco in grado di reindirizzare il loro sventurato amore verso altre persone».

 E l'ingegnere diventerà un chip
  E non è tutto. È prevedibile, scrive Harari, che nel mondo futuro sorgeranno nuove religioni. Dopo che le religioni umaniste (liberali, comuniste, evoluzioniste) hanno preso il posto di quelle teiste (anche se, aggiungiamo noi, a qualche miliardo di persone pare non sia arrivata la notizia che Dio è morto), con l'offuscamento dei concetti di sé, volontà, coscienza è probabile l'avvento di una nuova religione che caccerà l'uomo dalla sua posizione centrale dopo che l'uomo ha cacciato Dio. E metterà il flusso dei dati al centro dell'universo: «Per ottenere l'immortalità, la beatitudine eterna e i divini poteri della creazione, abbiamo bisogno di elaborare immensi quantitativi di dati, di gran lunga superiori alle capacità del cervello umano. Quindi gli algoritmi lo faranno al posto nostro. Tuttavia quando l'autorità sarà trasferita dagli umani agli algoritmi, i progetti umanisti diventeranno irrilevanti. Perché darsi tanta pena per macchine (umane, ndr) che elaborano dati ormai obsoleti, quando modelli assai più avanzati sono già disponibili? Stiamo lottando per ingegnerizzare "Internet-di-tutte-le-cose" nella speranza che faccia godere a tutti buona salute, una gioia sempiterna e un potere illimitato. Tuttavia quando "Internet-di-tutte-le-cose" sarà in funzione e governerà il mondo, gli umani potrebbero passare dalla condizione di ingegneri a quella di chip, e poi a quella di dati, e alla fine potrebbero dissolversi in un fiume di dati come una zolla di terra dentro un corso d'acqua impetuoso». Vogliamo chiamarla la vendetta di Dio?

(Tempi, 17 ottobre 2017)


Anche questo arriva da Israele! "Internet-di-tutte-le-cose", potrebbe essere il nome con cui un giorno sarà chiamato l’Anticristo. M.C.


Critiche israeliane all'accordo Fatah-Hamas

L'accordo tra le fazioni palestinesi ha suscitato molte critiche in Israele. "Israele deve immediatamente tagliare ogni sua relazione con Abbas dopo l'intesa sulla riconciliazione siglata al Cairo la settimana scorsa", ha detto il ministro dell'educazione Naftali Bennett che oggi porrà la questione in seno alla riunione di governo.
Secondo il quotidiano israeliano «Maariv», nell'ambito dell'intesa Hamas si sarebbe impegnata a non attaccare gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Da parte sua Al Fatah avrebbe accettato di non arrestare dirigenti di Hamas in Cisgiordania. L'accordo prevede inoltre che il controllo dei valichi di frontiera della Striscia di Gaza con Israele (Erez e Kerem Shalom) sarà trasferito ad Al Fatah il 1 novembre, mentre quello con l'Egitto di Rafah sarà affidato alla Guardia presidenziale.

(Fonte: L'Osservatore Romano, 17 ottobre 2017)


Sistema sanitario israeliano tra i dieci migliori del mondo

 
Uno studio recente ha collocato il sistema sanitario israeliano al nono posto al mondo, come riferito da Business Insider.
La ricerca, condotta dal Legatum Institute di Londra, ha confrontato 104 variabili e elencato nove sottoindici. Lo studio ha esaminato tre componenti fondamentali della salute:
  • La disponibilità di cure preventive;
  • L'infrastruttura sanitaria;
  • La salute fisica e mentale dei cittadini.
149 sono i paesi confrontati, con Israele che si guadagna la posizione numero 9, rientrando dunque tra le 10 migliori del mondo.
Questi dieci erano, in ordine:
  1. Lussemburgo
    Una delle nazioni più ricche, il Lussemburgo ha un'aspettativa di vita di 82 anni. Il Lussemburgo si è guadagnato il primo posto per la salute e libertà personale della ricerca.
  2. Singapore
    Singapore è arrivato al primo posto per la sicurezza e secondo per la salute. I suoi 5,6 milioni di cittadini hanno un'aspettativa di vita media di 83,1 anni.
  3. Svizzera
    Con l'assicurazione sanitaria obbligatoria, la Svizzera è arrivata al terzo posto nel sottoindice della salute e prima nell'istruzione.
  4. Giappone
    Con la più alta speranza di vita media, 83,7 anni, non può essere una sorpresa che l'indice sanitario giapponese sia classificato al quarto posto.
  5. Paesi Bassi
    I Paesi Bassi sono arrivati quinti per la salute migliore.
  6. Svezia
    La Svezia è al sesto posto sull'indice sanitario dello studio e la quinta sul suo indice di governance. Con la quarta maggiore aspettativa di vita nel mondo, l'uomo medio svedese vivrà 80,7 anni.
  7. Hong Kong
    Hong Kong ha 53 ospedali (42 pubblici e 11 privati) per la sua popolazione di 7,2 milioni ed è arrivata settima.
  8. Australia
    L'Australia è il secondo posto nella libertà personale, quarto nell'istruzione, settima nel mondo degli affari e otto nella salute. Con la migliore classificazione sanitaria nell'emisfero meridionale, l'aspettativa di vita dell'Australia è di 82,8, mettendola al quarto livello mondiale.
  9. Israele
    Israele ha ricevuto il più alto punteggio sulla qualità sanitaria in Medio Oriente e i suoi cittadini hanno un'aspettativa di vita di 82,5 anni - l'ottava più alta del mondo. Il sistema del paese assicura che ogni cittadino riceva la copertura sanitaria, ma i fornitori di assicurazioni devono competere per attirare clienti e ricevere fondi.
  10. Germania
    La Germania si è classificata quinta nell'ambiente imprenditoriale, settima in sicurezza, nona nella capitale sociale e decima nella sanità. Con una speranza di vita media di 81 anni, i cittadini della Germania sono alcuni dei più sani del mondo.
Nel mese di maggio del 2016, l'aspettativa di vita media del paese è stata dichiarata la quinta più alta del mondo.

(SiliconWadi, 17 ottobre 2017)


16 ottobre. Memoria viva

Inizia all'alba, col suono dello shofar nel cuore del Portico d'Ottavia, la commemorazione romana del 16 ottobre 1943. Alle 5.15, negli stessi minuti in cui, in quelle strade oggi tra le più frequentate e amate di Roma, i nazisti effettuarono il rastrellamento che portò alla deportazione di oltre mille ebrei nei campi di sterminio.
   Gran parte delle iniziative ruotano oggi attorno al Portico d'Ottavia, dove questa mattina autorità e Comunità ebraica (a guidare la delegazione la presidente Ruth Dureghello, il rabbino capo Riccardo Di Segni e i vicepresidenti Ruben Della Rocca e Claudia Fellus) hanno deposto una corona davanti al Tempio Maggiore e dove già ieri si sono svolte due iniziative molto partecipate: la marcia silenziosa con i Testimoni della Shoah, conclusasi con un commovente epilogo assieme ai giovani in sinagoga, e il corteo per la Memoria che guarda al futuro organizzato insieme alla Comunità di Sant'Egidio. Ospite d'onore quest'anno il presidente del Senato Pietro Grasso, che ferme parole ha usato più volte negli scorsi giorni per ammonire contro i pericoli dell'odio e dell'indifferenza. Prima in relazione all'attentato palestinese al Tempio Maggiore di 35 anni fa in cui fu ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché e poi in merito al rastrellamento del 16 ottobre, uno dei simboli della persecuzione antiebraica in Italia.
   "C'è una storia prima e una storia dopo Auschwitz" ha sottolineato il presidente Grasso, dal palco allestito a Largo 16 Ottobre. Per poi aggiungere: "Troppo pochi difesero gli ebrei, troppo pochi scelsero di non voltarsi dall'altra parte. Nel piangere le vittime e stringermi alle famiglie, sento di dover ringraziare quei pochi che hanno salvato la dignità dell'umanità".
   "Continuiamo a ricordare, perché non ci si può mai dire sicuri di avere gli anticorpi", l'appello del rav Di Segni. Parla di "memoria bussola verso il futuro" il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi. "Saremo sempre con voi per costruire un mondo senza disprezzo" il messaggio di monsignor Ambrogio Spreafico. "È un'onta aver anche solo pensato che si possa tornare a celebrare il 28 ottobre o manifestazioni nefaste come la marcia su Roma" sottolinea il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. "Abbiamo il dovere di denunciare con chiarezza. Come facciamo a parlare di memoria se si dimentica la storia? La memoria è una cosa seria" afferma la presidente Dureghello.
   La sindaca Virginia Raggi ha aperto il proprio intervento con un ringraziamento, per il loro coraggio, ai Testimoni dell'orrore.

(moked, 16 ottobre 2017)


Gli ebrei romani dopo la grande retata del 16 ottobre '43: una ricerca a più voci

di Mirella Seriu

Quanti furono gli ebrei catturati il 16 ottobre 1943 dalla Gestapo nella Capitale? Quanti furono i cittadini di religione ebraica vittime di retate e quanti quelli che si mobilitarono nella resistenza armata? A rispondere a queste e a molte altre domande fino a oggi rimaste irrisolte arriva una ricerca a cura di Silvia Haia Antonucci e Claudio Procaccia, Dopo il 16 ottobre. Gli ebrei a Roma tra occupazione, resistenza, accoglienza e delazioni (1943-1944) (Viella, pp. 384, € 35).
   Il libro, che accoglie tra gli altri gli interventi di Amedeo Osti Guerrazzi e Daniele Spizzichino, nasce da un'iniziativa della Fondazione Museo della Shoah con la Comunità ebraica di Roma e il suo Archivio storico. Con dovizia di dati, Osti Guerrazzi nel saggio dedicato a «Carnefici e vittime» ci offre inedite informazioni sugli ebrei, circa 800, che finirono preda dei rastrellamenti successivi al devastante 16 ottobre. La ricerca aggiunge anche altre scoperte: preti, suore e in generale i romani non furono insensibili al grido di dolore dei concittadini e circa 1'85 per cento della popolazione ebraica dell'Urbe scampò alla morte.« Una percentuale impressionante se confrontata con quella di molte altre comunità europee», osservano i curatori. La solidarietà capitolina non ebbe confronti nel Vecchio Continente.

(La Stampa, 17 ottobre 2017)


Egitto: bloccata la riapertura del valico di Rafah per scontri nel Sinai

GERUSALEMME - Le autorità egiziane hanno annullato la riapertura del valico di Rafah con Gaza, prevista per oggi per un periodo di quattro giorni, a seguito degli scontri a fuoco avvenuti ieri nella penisola del Sinai, dove un commando terrorista ha attaccato le forze armate locali uccidendo sei militari. Il portavoce dell'amministrazione del valico, Hisham Aduani, ha annunciato che "l'annullamento della riapertura è stato deciso a causa della situazione della sicurezza nel Sinai". La riapertura del valico doveva avvenire in virtù dell'accordo firmato al Cairo la scorsa settimana tra i partiti palestinesi di Fatah e Hamas grazie alla mediazione dell'Egitto.

(Agenzia Nova, 16 ottobre 2017)


Gli ebrei di Roma e la Shoah il 16 ottobre tra foto e film

Le leggi razziali alla Casina dei Vallati, il curatore: «Immagini e documenti inediti per raccontare questa vergogna italiana»

di Francesca Nunberg

 Gli appuntamenti
 
  Ieri la marcia silenziosa, oggi il giorno delle parole e delle immagini. Perché il 16 ottobre a Roma non è mai una data come le altre: era un sabato quello del 1943 quando alle 5 si sentirono i primi spari e il pensiero andò alla donna scarmigliata che la sera prima era corsa per il ghetto urlando "scappate, scappate" ma nessuno aveva avuto la forza di crederle; dei 1.023 ebrei deportati verso Auschwitz solo 16 tornarono indietro. Ieri, tra fiaccole e cartelli coi nomi dei lager nazisti, si è svolto il "Pellegrinaggio della memoria" da Trastevere al Portico d'Ottavia organizzata da Sant'Egidio e dalla Comunità ebraica di Roma.

 Scuole al cinema
  Stamattina gli studenti dei licei romani alle 9,30 saranno all'Auditorium Parco della Musica per il primo appuntamento di Cinema&Storia; dopo l'incontro con vari politici e con Sami Modiano, 87 anni, testimone della Shoah, assisteranno alla proiezione del film Una volta nella vita di Marie-Castille Mention-Schaar (2014), ambientato in una banlieue parigina dove una professoressa riesce a ricompattare una classe divisa da mille barriere culturali e religiose grazie alla partecipazione a un concorso sulla Shoah.
  Chiama a gran voce gli studenti anche lo storico Marcello Pezzetti, che assieme a Sara Berger sta allestendo la mostra "1938 - La storia" che apre oggi alle 17 alla Casina dei Vallati in via del Portico d'Ottavia 29, la prima delle due esposizioni che la Fondazione Museo della Shoah di Roma sta organizzando in vista dell'ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali. «Il prossimo sarà un anno fondamentale - spiega Pezzetti - Vogliamo far capire cosa è stata questa grande vergogna della storia italiana e illustriamo i fatti con materiale inedito al 90 per cento. Se apriamo proprio il 16 ottobre è perché esiste un filo diretto: la deportazione degli ebrei romani del '43 è stata fatta in base agli elenchi del censimento voluto dalle leggi razziali del '38. Tanto materiale fotografico: abbiamo le foto di famiglia di molti ebrei fascisti, quella del funerale dei fratelli Rosselli ammazzati a Parigi, quelle delle scuole speciali per gli ebrei di Rodi, Fiume e della Libia che allora erano italiane».
  Per la prima volta sarà possibile vedere il filmato del discorso che Mussolini tenne a Trieste il 18 settembre '38, digitalizzato e restaurato, durante il quale vennero lette per la prima volta le leggi razziali. «A rileggerle oggi abbiamo chiamato gli studenti dei licei romani - dice Pezzetti - che si vedranno su due grandi schermi».

 Il lavoro coatto
  E ancora, le testimonianze degli ebrei al lavoro coatto: li vediamo a Roma fare i manovali sotto Castel Sant' Angelo, al Niguarda di Milano a spazzare in giacca e cravatta. In mostra anche i libri di italiano, storia, fisica, ritirati dalle scuole perché scritti da ebrei e i manifesti per la precettazione obbligatoria. «La sezione più impressionante è quella del Coni - spiega il curatore - con tutte le Federazioni sportive, dal calcio al nuoto, dalla ginnastica alla boxe che in meno di due mesi espulsero gli ebrei. A proposito di boxe abbiamo ritrovato la valigetta di Leone Efrati (che morì ad Auschwitz) coi guantoni, le scarpe e il casco».
  Tra gli appuntamenti di oggi quello all'ex Collegio militare di Palazzo Salviati con "Ricordiamo insieme la deportazione degli ebrei romani": interverranno tra gli altri Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, Ruth Dureghello, presidente degli ebrei romani, il rabbino capo Riccardo Di Segni, l'ambasciatrice tedesca Susanne Wasum-Rainer, don Cristiano Bettega, direttore dell'Ufficio nazionale per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei.

(Il Messaggero, 16 ottobre 2017)


La Shoah e la valigia ritrovata di Dora

Il presidente genovese dell'associazione deportati e la memoria della sorella

di Giovanna Rosi

Il presidente genovese dell'associazione deportati Gilberto Salmoni con Lina
Quella valigia, è chiaro, è un fatto personale ma Gilberto Salmoni presidente della sezione genovese dell'Aned, Associazione Nazionale Deportati, decide di raccontarla.
Lui è la memoria vivente: era il 17 aprile 1944, e l'intera famiglia Salmoni, perseguitata dalle leggi razziali, cerca di fuggire in Svizzera.
Li arresta la Milizia della Repubblica di Salò, sulla frontiera, al Passo della Forcola, 2770 metri.
Aveva 15 anni quando fu internato insieme alla famiglia, padre, madre, fratello, sorella, cognato, a Fossolì, dopo essere passato per le carceri di Bormio, Tirano, Como, San Vittore di Milano.
Fu deportato a Buchenwald con il fratello maggiore; mentre i genitori e l'amata sorella Dora ad Auschwitz. Tornarono sono lui ed il fratello, loro no.
Passano 73 anni e Gilberto Salmoni riceve un messaggio da un signore, Alberto Nino Zappa, che lo rintraccia con l'aiuto della casa editrice Frilli: lo informa che a Bormio c'è una signora che era vicina di cella della sorella.
Dora le consegnò una valigia con alcune sue cose e le disse "a me non serviranno più".
Gilberto parte da Genova, accompagnato dalla figlia Raffaella e dal genero Massimo per incontrare la signora Lina.
«Dora aveva 25 anni, era riuscita a coronare il suo sogno d'amore e sposare Romolo» - ricorda Gilberto Salmoni - «Al momento dell'arresto aspettava un bambino. Capì cosa stava succedendo. Aveva studiato il tedesco e frequentato un istituto a Gmunden, in Austria, dove vide le scritte "ebrei indesiderati" sulle panchine dei giardini pubblici. Mi ha stupito che fosse così lucida, tanto da dire che quella valigia non le sarebbe più servita».
Dora e Lina, che aveva solo 17 anni, erano vicine di cella, nel carcere di Bormio: «Nella mezz'ora di aria la suora che le controllava permetteva che potessero incontrarsi. Fu in uno di quei colloqui che mia sorella le affidò la sua valigia. Lina fu scarcerata pochi giorni dopo, la ripose in un baule».
Gilberto quando a Bormio ha visto la valigia «l'ho riconosciuta. La valigia l'ho aperta dopo. Prima ho ringraziato tutte le persone presenti alla consegna. All'interno di quel piccolo bagaglio, tutto il bello del corredo di una giovane sposa. Apprezzo moltissimo la signora Lina che non ha mai voluto aprire la valigia e ha tenuto vivo per tutto questo tempo il desiderio di restituirla. Un pensiero che è durato più di 70anni. Vorrei incontrarla ancora, chiederle altro».
Ricordi intimi e dolorosi, in un presente che vede un vento pericoloso, soffiare sull'Europa e anche in Italia: «Questi fatti sono ormai lontani, qualcuno li svaluta, o dice che non sono veri. Provo una grande delusione. Abbiamo una giustizia lenta e perciò ingiusta. Nei prossimi giorni si terrà un incontro in Prefettura per decidere il programma per il Giorno della Memoria. Io dirò di stare attenti, di aprire gli occhi, che ci sia un controllo, anche nella nostra città, dove sono state aperte sedi di alcuni movimenti neofascisti. Non si può accettare l'esaltazione di un passato funesto. Come ex deportati siamo rimasti in pochi. Io sono uno degli ultimi. Noi ce ne stiamo andando. Abbiamo lasciato qualcosa di scritto che forse non interessa neppure. È deludente. A giugno compirò 90 anni ma continuo ad andare nelle scuole, sto bene con i ragazzi , il messaggio arriva, ma forse non basta».

(la Repubblica - Genova, 16 ottobre 2017)


La sfida di Tillerson a Trump: «Iran, l'accordo non si tocca»

Dal ruolo di Kushner fino alla lettera di dimissioni: l'ex ceo di Exxon ore vuole riaprire il dialogo sul caso-nucleare.

Scontro al vertice negli Usa: il Segretario di stato prende le distanze dal presidente «Non mi sento frustrato. Io sono franco con Donald, che è fuori dall'ordinario»

di Flavio Pompetti

 La tensione
 
Rex Tillerson e Donald Trump
  «Ho un rapporto franco e diretto con un presidente che è fuori dall'ordinario, e che spesso si esprime con parole e concetti eccessivi». Il segretario di Stato Rex Tillerson ha fatto ieri una rara apparizione in tv per dissipare le voci che da qualche tempo lo danno su punto di rassegnare le dimissioni, e lasciare la poltrona all'ottavo piano del dipartimento di Stato che occupa dallo scorso gennaio. «Non mi sento frustrato, vedo Donald Trump e ci sentiamo tutti i giorni al telefono, e sto cercando di fare del mio meglio per assolvere un compito oneroso, il più difficile della mia carriera di lavoro» ha ammesso l'ingegnere texano, cresciuto in un'umile famiglia con il padre venditore di alimentari su un piccolo furgone.
  Tillerson ha conosciuto da giovane la fatica dei campi di cotone con la paga di un dollaro l'ora, si è pagato da solo il costo degli studi, e ha poi scalato l'azienda petrolifera Exxon Mobil, da una scrivania di primo impiego fino alla vetta della poltrona di amministratore. Stava per andare in pensione e riscuotere un bonus da 180 milioni di dollari quando è stato chiamato al governo. Ha accettato, e da allora non ha avuto vita facile.

 Le difficoltà
  Il mese dopo averlo nominato, Trump ha tagliato del 30% il bilancio del suo dicastero e al tempo stesso ha destinato una cifra pari all'intera disponibilità finanziaria del dipartimento di Stato, 54 miliardi, al Pentagono, per l'ammodernamento degli armamenti. Il messaggio non avrebbe potuto essere più chiaro: Trump preferisce la deterrenza delle armi all'arte della diplomazia.
  Lo stesso Tillerson da Ceo della Exxon era più abituato a preoccuparsi della certezza delle procedure da impartire ai suoi subordinati che alla pazienza necessaria per sedersi ad un tavolo di negoziato.
  Il settimanale The New Yorker ha appena riferito che a New York un mese fa, durante una riunione dei sette partner che hanno firmato l'accordo sul nucleare iraniano, Trump avrebbe piegato la testa di fronte alle ripetute obiezioni del ministro degli Esteri di Teheran Javad Zarif, e avrebbe detto: «Forse siamo troppo vecchi e troppo legati alle ferite del passato per trovare un accordo. Forse faremmo meglio a lasciare questo compito alla prossima generazione. Io non sono un diplomatico».

 La diplomazia
  La sua frustrazione è evidente, anche se da bravo uomo d'azienda non lo ammetterà mai, fino alla eventuale rottura. Da quando è plenipotenziario degli Esteri è stato costretto a dividere la scacchiera internazionale con il genero di Trump, Jared Kushner, virtuale primo diplomatico per Gerusalemme e per il Medio Oriente. Tillerson ha lavorato in maniera accorta con cinesi e russi per aprire canali di comunicazione con la Corea del Nord. Trump ha liquidato i suoi sforzi con un paio di tweet. «Stai perdendo il tuo tempo - ha scritto il presidente - Risparmia le tue energie».
  Due giorni fa Trump ha irritato la Cina, la Russia e l'Europa quando ha minacciato di cancellare unilateralmente il patto con l'Iran. Ora tocca a Tillerson spiegare che gli Usa non si defileranno, ma che chiedono agli alleati appena schiaffeggiati di riaprire il dibattito sui termini dell'accordo.

 Gli scout
  Il limite della sopportazione era stato già raggiunto una prima volta a luglio, quando Trump si è presentato al raduno annuale dei boy scout, dei quali Tillerson è stato prima membro, e poi caloroso sostenitore, per pronunciare un comizio politico autocelebrativo. La lettera di dimissioni era sul tavolo, allora, e solo l'intervento dei generali Kelly e Mattis ha impedito che partisse.
«Il senatore repubblicano Bob Corker ha detto che Trump la sta castrando in pubblico» gli ha ricordato ieri il giornalista che lo intervistava alla Cnn. «Ho dato una controllata, sono tutto intero» ha risposto il cowboy texano. Ma alle sue spalle si torna già a fare i nomi dell'astro nascente Nikki Haley e del guerrafondaio John Bolton come possibili successori.

(Il Messaggero, 16 ottobre 2017)


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Gli Usa fanno marcia indietro: "L'accordo con l'Iran rimane"

Due giorni fa, Donald Trump aveva detto di voler rinegoziare l'accordo sul nucleare con l'Iran, altrimenti, ha detto il presidente americano "lo cancellerò". Le parole del tycoon hanno scatenato reazioni in tutto il mondo, ottenendo il plauso di Israele e Arabia Saudita, nemici storici di Teheran, e la riprovazione di Unione europea e Russia.
   Adesso però gli Stati Uniti sembrano far marcia indietro. Nikki Haley, la mente dietro il discorso del presidente americano, ha infatti fatto sapere: "Penso che adesso ci vedrete restare nell'accordo. Perché la nostra speranza è che possiamo migliorare la situazione. E questo è il nostro obiettivo. Quello che stiamo dicendo adesso con l'Iran è di non lasciare che diventi la prossima Corea del Nord".
   Questa posizione è stata subito rilanciata dal segretario di Stato Rex Tillerson, il quale ha affermato che gli Stati Uniti non devono ritirarsi dall'accordo sul nucleare siglato tra Teheran e la comunità internazionale, ma "lavorare con gli altri firmatari per correggerne i difetti". Tillerson ha poi proseguito dicendo: "Vogliamo prendere in considerazione l'accordo così come è, e rafforzarne l'attuazione". Il segretario di Stato si è inoltre detto d'accordo con il capo del Pentagono, James Mattis, nel sottolineare che il Congresso non dovrebbe imporre sanzioni legate all'accordo e ha sottolineato: "Credo che anche il presidente sia d'accordo".
   Un cambio di rotta significativo, se si pensa che qualche giorno fa tutti i media avevano sottolineato la decisione di Trump di voler uscire dall'accordo con l'Iran. La realtà, come ha sottolineato Piccolenote, è un po' più complessa.
   Come avevamo ipotizzato in un articolo, è probabile che il presidente americano stia alzando i torni per rinegoziare l'accordo con Teheran. La situazione è ancora, ovviamente, in divenire. Trump subisce forti pressioni dall'una e dall'altra parte. Difficile dire ciò che accadrà nei prossimi giorni. Certo è che l'amministrazione americana, ora, è tornata a giocare nel campo della diplomazia.

(Gli occhi della guerra, 15 ottobre 2017)


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