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Notizie 1-15 ottobre 2020


Giacimenti di gas nel Mediterraneo Israele e Libano trattano sui confini

Il ruolo dell'Italia la mediazione degli Stati Uniti: «incontro storico» ma Hezbollah protesta i negoziati

A un mese dalle elezioni presidenziali statunitensi e nel mezzo delle tensioni internazionali per il controllo delle risorse nel Mediterraneo orientale, Israele e Libano hanno avviato inediti colloqui mediati dagli Stati Uniti per la definizione del conteso confine marittimo.

 Le esplorazioni
  Sciogliere questo nodo significherebbe per il Libano - stretto nella morsa del default finanziario e da mesi travolto dalla peggiore crisi economica e politica degli ultimi 30 anni - poter far partire le esplorazioni di giacimenti energetici che si trovano al largo delle sue coste meridionali. Le esplorazioni sono in sospeso da più di un anno, dopo che un primo pacchetto di concessioni era stato assegnato nel 2018 a un consorzio guidato dalla Total francese e di cui fanno parte la russa Novak e l'italiana Eni. L'Italia, tramite i suoi militari schierati nell'ambito della missione Onu nel sud del Libano (Unifil) comandata dal generale italiano Stefano Del Col, ha avuto un ruolo logistico di rilievo nella preparazione e nella protezione della prima sessione di colloqui tra Israele e Libano, due paesi in guerra dalla loro nascita come stati indipendenti più di 70 anni fa. Gli attesi negoziati si sono svolti nella base Unifil 1-32A di Capo Naqura, all'interno di quella che fino agli anni '40 del secolo scorso ospitava gli uffici della dogana libanese prima dell'allora confine con la Palestina britannica. Alla vista di un panorama mozzafiato sulle bianche scogliere di Ras Naqura/Rosh Ha-Nikra, le delegazioni dei due paesi si sono ritrovate attorno alle 10 locali sedute allo stesso tavolo per la prima volta accanto ai mediatori statunitensi e rappresentanti dell'Onu in Libano.

 Le delegazioni
  La delegazione americana era guidata dal segretario di Stato aggiunto con delega per il Medio Oriente, David Schenker. Al suo fianco c'era l'ambasciatore John Desrocher, che dovrebbe guidare la delegazione Usa nel prossimo incontro, fissato al 28 ottobre. Gli incontri sono stati definiti «produttivi» dall'Onu e dagli Stati Uniti. La delegazione israeliana era composta da sei membri, tra cui il direttore generale del ministero dell'energia, un consigliere diplomatico del premier Benjamin Netanyahu e il responsabile della direzione degli affari strategici dell'esercito israeliano. Da parte libanese c'erano due militari -. tra cui il capo delegazione, il generale Bassam Yassine - e due civili, un esperto di questioni energetiche e un altro specializzato in diritto frontaliero internazionale. Proprio la presenza di questi due civili ha suscitato le proteste degli Hezbollah libanesi filo-iraniani e dei suoi alleati del partito sciita Amal, guidato dal presidente del parlamento Nabih Berri.

 I colloqui
  Berri è stato per dieci anni il principale mediatore, per conto del Libano, degli intensi negoziati preparatori dei colloqui attuali, che si sono conclusi nel giorni scorsi con un accordo quadro definito «storico» dagli Stati Uniti. Hezbollah e Amal, che hanno appoggiato l'avvio dei colloqui, chiedevano una delegazione solo militare: si dicono timorosi che gli incontri di Capo Naqura possano assumere un significato non solo tecnico ma anche politico, preludendo a qualche forma di «normalizzazione» col «nemico». E questo nel contesto di accordi di pace avvenuti di recente tra lo Stato ebraico, gli Emirati Arabi e Bahrein. G. D'Am.

(Il Messaggero, 15 ottobre 2020)

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Libano e Israele, un dialogo impossibile con il "miraggio del gas"

di Giulia Belardelli

La notizia dell'avvio di un dialogo tra Israele e Libano - due dei Paesi che più si odiano, o si sono odiati, al mondo - è storica, pur con tutti i "se" e i "ma" che accompagnano questo passaggio. Con la mediazione degli Stati Uniti, israeliani e libanesi hanno iniziato oggi i colloqui indiretti per risolvere una controversia sui confini marittimi: ciascuno di loro rivendica la propria sovranità su un tratto di circa 860 chilometri quadrati del Mar Mediterraneo potenzialmente ricco di petrolio e gas. L'incontro si è svolto a Naqura, nella base 1-32A dell'Unifil, la missione Onu schierata nel sud del Libano a ridosso della Linea Blu di demarcazione tra i due Paesi. Onu e Stati Uniti hanno definito "produttivi" i colloqui, che proseguiranno con un secondo round tra due settimane, il 28 ottobre.
  Entrambe le parti hanno voluto rimarcare che i colloqui sono puramente tecnici e non un segnale di normalizzazione delle relazioni tra loro. La svolta è arrivata all'inizio del mese, mentre il Libano si trova ad affrontare la peggiore crisi economica della sua storia moderna, aggravata dalle sanzioni Usa contro gli alleati di Teheran, Hezbollah in testa. Da almeno tre anni il Libano vorrebbe iniziare a condurre operazioni esplorative nell'area contesa, nella speranza di trovare risorse energetiche nelle proprie acque territoriali e risollevare così le sorti della propria economia. Una prospettiva che, secondo gli analisti, rischia di rivelarsi un miraggio.

 Il significato del negoziato
  "L'inizio del negoziato è un evento importante, volendo anche storico, perché è la prima volta dagli anni Novanta in cui il Libano apre a un dialogo con Israele", osserva Andrea Dessì, responsabile di ricerca del Programma Mediterraneo e Medio Oriente dell'Istituto Affari Internazionali (IAI). Nel mondo arabo il Libano, insieme alla Siria, è il Paese che tradizionalmente mantiene più saldo il punto del non riconoscimento di Israele. Ma sarebbe un errore paragonare l'avvio del dialogo tra Israele e Libano al processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain.
  "Tra questi accordi di normalizzazione e il dialogo indiretto libanese-israeliano passa un fiume in piena", sottolinea Dessì. Si tratta infatti di due discorsi molto diversi, per quanto accomunati dal ruolo degli Usa come mediatori. Gli attori libanesi - a cominciare da Hezbollah - sono stati categorici nel dire che si tratta di un dialogo strettamente tecnico, limitato soltanto a quella specifica zona della questione marittima, che non andrà a toccare aspetti politici, ideologici o di sicurezza sul confine territoriale. Qui tutt'ora rimane una situazione di forte contenzioso: parliamo di quella striscia di territorio, i cosiddetti Shebaa farms - che rimangono sotto il controllo israeliano, cosa che da anni - dall'invasione israeliana dell''82 e poi dalla guerra del 2006 - viene usata come la causa o la giustificazione per cui Hezbollah deve mantenere le sue armi e proseguire la resistenza contro Israele.

 Luci e ombre di una trattativa geopolitica
  "Il Libano è attraversato da tre crisi: la crisi domestica, quindi socio-economica, la crisi politica interna al Paese e la crisi geopolitica che lo circonda. Quest'ultima riguarda i diversi attori che cercano di fare pressione sul Libano per trasformarlo - di nuovo - in un campo di battaglia regionale per le influenze e gli allineamenti geopolitici della Regione", osserva ancora Dessì. "Per gli Stati Uniti, di Trump ma non solo, il Libano è sempre stata la zona più facile per proiettare forza e potenza e contrastare il cosiddetto asse iraniano sciita rappresentato da Hezbollah, Iran, Siria e Iraq. Da anni sono in corso azioni più o meno sovversive per fare pressione sul Libano. Un Libano che, essendo già sull'orlo del collasso, non riesce più a fronteggiare queste pressioni. Anche dopo le esplosioni al porto di Beirut, ci sono stati diversi tentativi di provocare una reazione da parte di Hezbollah che avrebbe potuto innescare un processo di screditamento del Partito di Dio dentro e fuori il Paese. Questo perché l'obiettivo è quello di indebolire Hezbollah se non eliminarlo completamente dal tessuto politico e sociale libanese. Un obiettivo praticamente impossibile, oltre che pericoloso: se si spinge troppo, c'è il rischio di una deflagrazione interna paragonabile a un'altra guerra civile, una prospettiva che avrebbe un costo enorme per tutti gli attori coinvolti".
  L'inizio di un dialogo con Israele potrebbe essere visto come un'ulteriore passaggio di questi tentativi di cercare di mettere in cattiva luce Hezbollah, spingendola a una reazione violenta o di rottura. C'è da aggiungere che è in corso una grandissima pressione, da parte di Washington, per cambiare l'approccio europeo verso Hezbollah, e quindi convincere diversi Paesi chiave europei a riconoscere tutta Hezbollah come un'organizzazione terroristica.
  In più negli ultimi mesi continuano ad aumentare le sanzioni extraterritoriali contro qualsiasi attore regionale o internazionale che abbia rapporti con Iran e Siria (il famoso Caesar Act). Si tratta di un altro tassello della politica di massima pressione fatta da Washington contro l'Iran e i propri alleati. Questo Caesar Act, in particolare, colpisce moltissimo il Libano perché era un'arteria primaria di commercio e scambi per la Siria.

 Il "miraggio del gas" e la posta in gioco per le élite libanesi
  Le élite libanesi non possono permettersi un no diretto nei confronti degli Stati Uniti né di altri attori internazionali perché sono in disperato bisogno di aiuti umanitari ed economici, inclusi quelli del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale, due istituzioni in cui gli Usa hanno grande influenza. Gli attori politici libanesi, il cui interesse comune è mantenere insieme il sistema, si sono riallineati nel ritenere questo negoziato potenzialmente portatore di benefici. Le autorità libanesi vogliono usare questa apertura per rinegoziare i territori marittimi con Israele come un modo di dimostrare al mondo esterno, e alle compagnie energetiche occidentali in primis, la loro volontà di far passare in secondo piano il conflitto con Israele rispetto alla crisi economica, sociale e politica che sta esplodendo in Libano.
  Sono anni che i partiti politici del Libano promettono ai cittadini che un'imminente scoperta del gas cancellerà tutti i problemi economici e sociali del Paese. Ma l'immagine propagandistica del Libano come potenza energetica è completamente fuori da qualsiasi realtà, come emerge da un'analisi di Benedetta Brossa, ricercatrice di Studi del Medio Oriente dell'Università Ca' Foscari di Venezia, intitolata "La crisi libanese e il miraggio del gas naturale".
  Prima di tutto, non è detto che il gas ci sia: "l'effettiva esistenza delle riserve di gas e la loro redditività commerciale devono ancora essere provate da un punto di vista geologico e tecnico", rileva Brossa. "In effetti, un primo pozzo esplorativo offshore nel Blocco 4 si è rivelato secco alla fine di aprile 2020. In secondo luogo, anche se si scoprisse il gas, le stime rilevano che nelle migliori condizioni entrate significative dallo sfruttamento del gas non sarebbero disponibili fino al 2030. Inoltre, data l'attuale abbondanza di gas a buon mercato sul mercato mondiale, gli investimenti necessari in un potenziale settore libanese saranno difficili, se non impossibili, da ottenere". Infine, c'è da dubitare sulla possibilità di trovare una compagnia internazionale disposta a investire in un Paese che, oltre a non aver mai avuto un'industria estrattiva, è profondamente colpito da corruzione e disfunzionalità, gli stessi "mali" che hanno reso possibile lo stoccaggio delle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio la cui esplosione ha devastato Beirut.

 Gli obiettivi di Israele e il gas come strumento geopolitico
  Per Israele, l'apertura del negoziato con il Libano consente di ampliare il cerchio di Paesi con cui poter avere almeno una sembianza di dialogo. "Il secondo obiettivo - commenta Dessì - è sicuramente quello di indebolire Hezbollah e l'Iran. Infine, Israele è molto interessata al gas del Mediterraneo Orientale: ne ha scoperto moltissimo e lo sta già importando in Egitto, diventando uno dei Paesi energeticamente più importanti".
  Se guardiamo indietro nel tempo, l'obiettivo originario israeliano era quello di costruire un gasdotto che andasse a nord, passando dal Libano per andare su in Turchia, che poi si sarebbe connesso agli altri grandi gasdotti tra cui il Tap che portano il gas in Europa. Questo negoziato con il Libano per accordarsi sulle zone marittime può rientrare anche in questo disegno, di cui negli ultimi cinque anni si è parlato molto poco per via della crisi ormai completa tra Ankara e Tel Aviv. Questa crisi ha portato Israele ad allinearsi con Cipro, Grecia, Egitto e tutti gli altri per avere un'alternativa per esportare il gas, vale a dire creando un gasdotto subacqueo attraverso tutto il Mediterraneo fino addirittura all'Italia (Eastmed Pipeline).
  "Anche questo progetto - commenta Dessì - è completamente fuori portata, sia economica che di investimenti. Avendo capito questa realtà, gli israeliani stanno cercando di tenere aperta la possibilità del gasdotto a nord attraverso il Libano. È un gioco ancora su due tavoli, ma per Israele riuscire a tenere aperta questa strada potrebbe essere importante. Bisogna sottolineare che per Israele non conta tanto l'aspetto economico dell'esportazione di gas, quanto la dimensione geopolitica. Da questo punto di vista, il disinteresse europeo per il gasdotto Eastmed è un aspetto preoccupante per gli israeliani. Aprire un dialogo con il Libano consente loro di giocare su più tavoli e tenere aperte diverse possibilità di influenza tramite l'esportazione di gas". Sono obiettivi di lunga durata, suscettibili al mutare degli equilibri geopolitici ed energetici. Quello iniziato a Naqura è forse l'inizio di un nuovo capitolo tra i governi dei due Paesi, ma la pace in Medio Oriente è ancora tutta da costruire. A ricordarlo ci ha pensato oggi il governo israeliano, approvando la costruzione di 2.166 nuovi alloggi in Cisgiordania.

(L'HuffPost, 15 ottobre 2020)


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A colloquio con Israele. Ma Beirut insiste: non è dialogo politico

I partiti libanesi concordano su un punto: i profughi palestinesi (in Libano ) devono tornare a casa

di Michele Giorgio

Ci ha pensato Samir Geagea, capo delle Forze libanesi, partito di destra estrema, a chiarire una volta e per tutte che dietro i colloqui con Israele sui confini marittimi e i giacimenti di gas cominciati ieri alla sede dell'Unifil a Capo Naqura, non c'è alcuna intenzione di arrivare a un trattato di pace con Israele come sperano il governo Netanyahu e l'amministrazione Trump. «Non vogliamo la normalizzazione con Israele perché chiediamo una soluzione alla questione dei palestinesi (in Libano, ndr) prima di ogni altra cosa e nessuno può aggirare questo tema», ha detto perentorio. Geagea in realtà la pace con Israele la firmerebbe anche domani. La destra libanese ha legami storici con Israele, ha collaborato con Tel Aviv durante l'invasione del Libano nel 1982.
  Ma nel paese dei cedri i partiti politici, divisi su tutto, camminano mano nella mano su di un punto, dalle Forze libanesi al movimento sciita Hezbollah: i 450mila profughi palestinesi in Libano dal 1948 dovranno tornare nella loro terra da cui scapparono o furono cacciati e Israele deve aprire le porte. E lo dicono, con poche eccezioni, non per amore del diritto internazionale, ma perché proprio non li vogliono i profughi palestinesi, così come quelli siriani. Quindi l'accordo tra Libano e Israele resta solo una vaga ipotesi. Non sorprende perciò che i colloqui nella base 1-32A dell'Unifil si siamo svolti ieri in un clima formale e freddo. E che durante la pausa per il caffè le delegazioni dei due paesi non abbiamo avuto contatti. Martedì il presidente libanese Aoun aveva ribadito che Israele e Beirut stanno solo discutendo di confini e gas. A Naqura, il governo dimissionario di Diab ha inviato una delegazione tecnica, composta da militari ed esperti di energia. E nonostante ciò non ha soddisfatto tutti i libanesi. Hezbollah e l'altro partito sciita Amal volevano solo militari. Israele e gli Stati uniti che fanno da mediatori invece provano a dare un significato anche politico all'incontro in cui dicono di intravedere segnali di apertura e la volontà, di una parte delle formazioni politiche libanesi, di seguire il percorso fatto di recente da Emirati e Bahrain.
  Ciò che conta in questo negoziato tra nemici è solo l'interesse economico comune. In 860 kmq di acque contese si trovano (pare) ricchi giacimenti di gas naturale che, se ben sfruttati, potrebbero portare nelle casse dei due paesi diversi miliardi di dollari. Per questo Hezbollah, alleato di Siria e Iran e che contro Israele ha combattuto per tutta la sua esistenza, non ha posto il veto a colloqui destinati inevitabilmente a generare speculazioni di ogni sorta. Il Libano è sommerso dai debiti e vive una crisi economica e finanziaria molto grave che ha provocato l'impoverimento di buona parte della popolazione. Quei miliardi non sono la soluzione di tutti i suoi immensi problemi ma possono dare una mano. Le due delegazioni torneranno a incontrarsi il 28 ottobre.

(il manifesto, 15 ottobre 2020)


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Samy Nader: "Con il negoziato Beirut riconosce di fatto Israele"

di Stefania Di Lelia

L'incontro è stato breve, sotto una tenda blu montata lungo il confine tra i due nemici. E per ora si è deciso solo di tornare a parlare tra due settimane, il 28 ottobre. Ma il negoziato cominciato ieri tra Israele e Libano per la definizione della frontiera marittima rappresenta una svolta. «Non è pace - dice l'analista libanese Samy Nader del "Levant Institute for Strategic Affairs" - ma è l'inizio di un percorso che comporta de facto il riconoscimento di Israele come Stato interlocutore da parte del Libano, con Hezbollah ai comandi».

- Samy Nader, si tratta solo per definire i confini marittimi?
  «La questione della frontiera in mare si trascina da anni, si tratta di negoziati importanti. Ma non solo perché Israele e il Libano parlano. Ci sono già stati colloqui su questioni di sicurezza. Rilevante è che il Libano è controllato da Hezbollah, la cui tdeologia non riconosce Israele: se ci sarà accordo sarà un riconoscimento di Israele da parte di una delegazione vicina a Hezbollah».

- Pace in vista?
  «Un trattato di pace non sarà necessariamente lo sbocco. Ma si arriverà a una forma di stabilità». In Libano la gente sarebbe pronta per una pace con Israele? «Ormai i libanesi sono meno ideologici. II primo pensiero è come uscire dalla crisi economica. E poi vogliono tirarsi fuori dai conflitti nella regione. Anche se la narrativa classica ha ancora seguito tra i supporter di Hezbollah».

- Gli Usa hanno spinto molto per arrivare a queste trattative.
  «I colloqui sono sotto supervisione americana. Hezbollah voleva guidare il Libano verso Est. Diceva che non avevamo solo l'opzione Fmi per avere aiuto, ma potevamo guardare dall'altra parte, fino alla Cina. Ma non siamo andati verso oriente: le sanzioni Usa hanno avuto un impatto».

- Gli Usa non si erano defilati dal Medio Oriente?
  «Non sono affatto convinto del ritiro americano. L'America sta dimostrando di avere grandi interessi nell'area, sta provando a costruire nuove alleanze. Da noi la Francia ha fallito con la sua iniziativa per un nuovo governo. Gli americani hanno vinto. Il bastone americano è stato più efficace della carota diplomatica macroniana».

- Quanto ha pesato l'esplosione nel porto dl Beirut ad agosto?
  «Quell'esplosione - che sia stata un incidente o un'operazione militare è stata un punto di svolta su molti fronti. Ha accecato uno sbocco dell'Iran sul Mediterraneo. E ha provocato un terremoto: è arrivata l'iniziativa francese e poi le sanzioni Usa. Qualcuno ritiene che queste siano servite a silurare le mosse di Parigi. Subito dopo l'annuncio sul negoziato per le frontiere».

- II confine marittimo va definito per sfruttare i giacimenti di gas. Una risorsa che salverà il Libano?
  «II gas è rilevante. Ma non dal punto di vista economico. Per il Libano urgono riforme. E poi per i proventi del gas ci vorranno anni.11 Libano non può resistere settimane, figuriamoci anni».

- CI vorrà tempo per i dividendi, ma il gas provoca già grandi manovre nel Mediterraneo.
  «Israele e gli Usa stanno costruendo una rete di alleanza nel Mediterraneo. Ripeto: altro che ritiro! Gli Stati Uniti provano a favorire una sorta di mini Nato del gas. E più dei pozzi contano i gasdotti per i quali la definizione dei confini marittimi è fondamentale, soprattutto se si aggirano russi e turchi. Gli Usa sanno che questa regione è strategica: i confini sud dell'Europa, petrolio, gas, le rotte delle migrazioni, l'incrocio tra Africa Medio Oriente ed Europa. Le grandi potenze sono tornate e in maniera aggressiva».

(la Repubblica, 15 ottobre 2020)


Bennett, il ministro onnipresente che insidia Netanyahu

di Davide Frattini

 
GERUSALEMME - Da nord (Haifa) a sud (Eilat). Dal Mar Mediterraneo al Mar Rosso. Solo un dolore al collo lo ha costretto al ricovero e ha fermato per qualche ora Naftali Bennett. II leader del partito Nuova Destra ha girato tutto il Paese in questi mesi di epidemia, dai piccoli negozianti che hanno tirato giù la saracinesca ai medici e agli infermieri esausti.
   Ha fatto - sostengono i sostenitori e ormai qualche (ex) critico - ciò che avrebbe dovuto fare Benjamin Netanyahu. Non è la prima volta. Bennett ha chiamato il figlio Yoni, come il fratello del primo ministro ucciso nel raid a Entebbe, Netanyahu ha chiamato i suoi Avner e Yair. È un indizio del loro rapporto complesso. Il giovane Bennett ha sbirciato le mosse di re Bibi e ora vuole conquistarne lo scettro. Come Yoni e Bibi si è arruolato nelle forze speciali, come Bibi ha passato qualche anno negli Usa tornando milionario, come Bibi ha scelto di militare nella destra.
   L'attivismo sanitario di Bennett, 48 anni, ha permesso alla sua formazione di balzare nei sondaggi: dagli attuali 3 risicati seggi in parlamento a 23, mentre il Likud scenderebbe da 36 a 26. «Ha identificato il vuoto politico nella gestione del Coronavirus - scrive la giornalista Mazal Mualem sulla rivista Al Monitor - ed è diventato una sorta di ministro della Sanità ombra». Era il ruolo che Bennett avrebbe voluto per sé, quando in primavera Netanyahu negoziava per mettere insieme la coalizione. Era disposto a lasciare la carica di ministro della Difesa, aveva già capito che il Covid-19 sarebbe diventato la prima linea. Netanyahu ha preferito mettere alla Sanità il fedelissimo Yuli Edelstein e Naftali ha scelto di andare all'opposizione.
   La sinistra resta sospettosa verso questo rappresentante dei coloni che ribadisce di voler annettere la Cisgiordania palestinese. Bennett è consapevole di dover conquistare voti al centro. Così indossa la kippah all'uncinetto, simbolo del sionisti religiosi e dei coloni oltranzisti, ma abita a Raanana, sobborgo residenziale a nord di Tel Aviv. «A quelli che dicono: "A questo punto meglio lui di Netanyahu", rispondo: non lasciatevi tentare. Chi vuole un Israele egualitario, che cerca la pace, che protegge i diritti umani - ha scritto Aluf Benn, direttore del quotidiano Haaretz - dovrebbe essere preoccupato dal salto di Naftali verso il vertice».

(Corriere della Sera, 15 ottobre 2020)


I palestinesi “negano tutto ciò che gli Emirati Arabi Uniti hanno donato alla causa palestinese”

L'Autorità Palestinese ha ordinato mercoledì ai suoi rappresentanti e portavoce ufficiali in tutto il mondo di non attaccare capi di stato e paesi arabi sulla scorta degli accordi di pace firmati tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. La direttiva è arrivata dopo che l'ambasciatore in Francia dell'Autorità Palestinese, Salman el Herfi, in un'intervista alla rivista Le Point ha lanciato un duro attacco al principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, definendolo fra l'altro un "piccolo dittatore che vuole solo farsi pubblicità".
In risposta, il ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, ha scritto su Twitter: "Non sono rimasto sorpreso dalle dichiarazioni dell'ambasciatore palestinese a Parigi e dal suo comportamento ingrato verso gli Emirati". I palestinesi, ha continuato Gargash, "negano tutto ciò che gli Emirati Arabi Uniti hanno donato alla causa palestinese, ma gli Emirati hanno il proprio messaggio, un messaggio di pace. La maschera dei trafficanti della causa palestinese è caduta".
Nei due mesi scorsi l'Autorità Palestinese ha ripetutamente accusato Emirati Arabi Uniti e Bahrein d'aver "tradito" e "pugnalato alle spalle" i palestinesi firmando gli accordi di pace con Israele.

(israele.net, 15 ottobre 2020)


Reale a Tel Aviv per l'insurtech

Firmata partnership esclusiva per Italia, Spagna e Cile, dove opera la mutua torinese. L'ad Filippone: l'anno si chiuderà in linea con il 2019. Solvency II a livelli record

di Anna Messia

La torinese Reale Mutua muove verso Tel Aviv. La compagnia assicurativa guidata dal direttore generale Luca Filippone ha chiuso un investimento di 4,5 milioni di dollari in FinTly. un fondo di venture capital insurtech e fintech leader a livello mondiale, con sede in Israele. «Siamo gli unici partner assicurativi italiani che hanno investito nel fondo dove ci sono altre assicurazioni mondiali», spiega a MF-Milano Finanza, Filippone. Reale è limited partner del fondo ed è stata siglata un partnership in base alla quale le compagnie del gruppo potranno. in via preferenziale, lavorare con le start up in cui investe FinTly. «Tra queste c'è per esempio Hippo». aggiunge Filippone, che «è una delle più importanti startup insurtech a livello mondiale, con sede negli Usa, specializzato nella distribuzione di prodotti per la casa, che ha superato il miliardo di valutazione». L'innovazione tecnologica è uno dei pilastri del piano strategico che il gruppo Reale sta aggiornando per il 2021-2023, continua Filippone, che riguardo i conti della compagnia ipotizza una chiusura del 2020 in linea con lo scorso anno, con Reale che ha mostrato resilienza al Covid, confermata da un Solvency II tomato ai livelli di fine 2019 oltre il 276% ma la «pandemia ha avuto l'effetto di accelerare vertiginosamente le trasformazioni che avevamo progettato», dice.

- Che cosa vi ha portato a investire in un fondo israeliano di venture capital?
  L' innovazione tecnologica è al centro dei piani di trasformazione del gruppo. Avevamo iniziato a valutare investimenti nella Silicon Valley ma alla fine abbiamo scelto Israele non solo perché è solo a tre ore di volo dall' Italia, con 8 mila startup e 300 fondi di venture capital attivi, ma soprattutto perché FinTly è stata creato da tre soci, Gil Arazi, Gilbert Ohana e Avishai Silvershatz e il primo arriva proprio dal settore assicurativo. Il fondo ha un focus particolare sul comparto e ha investito in società come Hippo ma anche Nent Insurance, con sede negli Usa che offre coperture per le pmi o ancora Mailo, compagnia assicurativa tedesca che Fornisce prodotti per le pmi in Germania. II nostro interesse non è solo finanziario. Guardiamo alle sinergie con le start up, e abbiamo ottenuto l'esclusiva nei mercati dove opera Reale, Italia, Spagna e dal 2016 il Cile.

- A proposito di estero, a che punto sono i vostri piani di crescita in nuovi mercati?
  La diversificazione geografica, come quella del business e dei servizi, è fra i pilastri del piano 2021-2023 che abbiamo appena rivisto alla luce dei cambiamenti indotti dalla pandemia. Sulla diversificazione del business siamo a buon punto con un terzo dei premi che arriva dall'Rc Auto, un terzo dagli altri rami danni e l'ultimo terzo dal vita. Vogliamo poi far crescere il peso dei servizi offerti. da affiancare alle semplici coperture assicurative, mettendo al centro il cliente e anche la nostra diversificazione geografica. Le difficoltà nei viaggi hanno rallentato i nostri piani a breve. che puntano però al medio-lungo termine continuando a guardare con interesse a Sud America e all' Europa Centrale.

- Che effetto ha avuto il virus sul bilancio e sul business plan?
  II nostro gruppo, grazie ad agenti e dipendenti, ha mostrato un'incredibile capacità di reattività. La raccolta Danni ha retto molto bene, anche in questi mesi, e il Vita che è in fase di riassetto, con la crescita del peso delle polizze miste rispetto alle tradizionali. Il Solvency II è tomato ai livelli record di fine 2019 e io resto fiducioso di chiudere l'anno sostanzialmente in linea con l'anno scorso (l'utile era stato di 152 milioni, ndr). Gli obiettivi finanziari del business plan restano confermati, così come la strategia che ha però subito un'improvvisa accelerazione. Basti guardare allo smart working. Eravamo tra le prime aziende italiane con il 40% dei dipendenti che lavorava da casa fino a un massimo di sette giorni al mese. Con il lockdown in pochi giorni abbiamo messo in smart working il 100% dei dipendenti nei tre Paesi del gruppo.

(MF, 15 ottobre 2020)


Studio israeliano: raddoppiate insonnia e ansia nelle mamme a causa del Covid

A causa della pandemia le mamme stanno sperimentando un aumento della gravita' dell'insonnia e dei livelli di ansia. Queste, in estrema sintesi, i risultati di uno studio condotto dai ricercatori israeliani della Ben-Gurion University (Bgu) del Neghev e The Max Stern Yezreel. "Nello studio, abbiamo affrontato, per la prima volta, le conseguenze della pandemia Covid-19 e del confinamento domestico su ansia e insonnia materna, nonche' le segnalazioni di problemi di sonno tra i bambini tra i sei e i 72 mesi di eta'", afferma Liat Tikotzky, capo del BGU Parenting, Child Development and Sleep Lab e membro del dipartimento di psicologia della BGU.
   Lo studio e' stato pubblicato sul Journal of Sleep Research. I risultati hanno indicato che l'insonnia clinica materna durante la pandemia e' piu' che raddoppiata al 23 per cento, rispetto a solo l'11 per cento prima dell'emergenza Covid-19. Attualmente circa l'80 per cento delle madri ha anche riferito livelli da lievi a elevati di ansia da Covid-19. Nello studio, alle madri e' stato chiesto di completare un questionario. I ricercatori hanno quindi calcolato un punteggio che rappresenta la percezione della madre del cambiamento nella sua qualita' del sonno. I ricercatori hanno scoperto che circa il 30 per cento delle madri ha riportato un cambiamento negativo nella qualita' del sonno del proprio bambino e una diminuzione della durata del sonno.
   Infine, i ricercatori hanno osservato che le madri che hanno riportato punteggi piu' alti di insonnia avevano anche maggiori probabilita' di riferire che i loro figli avevano una qualita' del sonno piu' scarsa e una durata del sonno piu' breve.
   
(AGI, 14 ottobre 2020)


«Netanyahu ha fallito, ora Benny Gantz voti la sfiducia». Intervista a Yair Lapid

Parla in esclusiva a Reset il leader dell'opposizione israeliana

di Umberto De Giovannangeli

 
Yair Lapid
«Neanche nei momenti peggiori del terrorismo palestinese ho visto così tanta paura e insicurezza negli occhi della gente come in questi mesi di pandemia. Il popolo d'Israele è sempre stato un popolo coraggioso, capaci di unirsi nei momenti più difficili, ed è per questo che è riuscito a far fronte e a sconfiggere i tanti che ne hanno minacciato l'esistenza stessa. Non è il coraggio che sta venendo meno. È la mancanza di una guida sicura, che goda della fiducia popolare. Tutto il mondo è alle prese con il Covid e nessuno possiede la bacchetta magica per risolvere di colpo questa drammatica crisi. Ma è altrettanto vero che nessun Paese ha alla guida un primo ministro con in testa non il bene d'Israele ma il modo per evitare di essere giudicato - non dalla storia, ma da un tribunale».
  A lanciare questo pesante j'accuse contro Benjamin Netanyahu, nell'intervista esclusiva concessa a Reset, è il leader dell'opposizione israeliana: Yair Lapid. Tra i fondatori di Kachol Lavan, l'alleanza centrista guidata da Benny Gantz, Lapid ha rotto con il suo ex alleato la scorsa primavera per la scelta compiuta di andare al governo con il Likud di Netanyahu. «I bianchi e i blu sanno che questo governo ha fallito - rimarca oggi Lapid, a capo di Yesh Atid - Questa non è una dichiarazione politica. I numeri della morbilità lo dimostrano. La disoccupazione lo dimostra. Le dimissioni di tutti i principali responsabili delle Finanze. L'opinione pubblica non ha più la minima fiducia nel governo».

- Israele fa i conti con la seconda ondata della pandemia. Il governo ha varato un secondo lockdown che non ha impedito a decine di migliaia di israeliani di scendere in piazza, in una protesta che dura da oltre 14 settimane, contro la gestione della "guerra al coronavirus" da parte del governo guidato da Netanyahu. Cosa c'è alla base di questa protesta?
  C'è la cattiva gestione politica, sciatta e isterica di questo governo e dell'uomo che lo dirige. Tutti i professionisti coinvolti si sono opposti all'imposizione dell'isolamento. Il commissario alla lotta al coronavirus Ronni Gamzu si è opposto, così come il vicedirettore generale del Ministero della Salute Itamar Grotto e il Ministero delle Finanze. Sono stati tutti messi a tacere.

- Perché?
  Perché l'interesse fondamentale di Netanyahu non è mai stato quello di tradurre in azione di governo le indicazioni degli esperti. Lui ha sempre fatto un uso politico, strumentale, di parte della pandemia. Lo ha fatto giustificando la creazione di un governo con Kachol Lavan e i suoi fedeli alleati della destra religiosa, in nome della "guerra" al coronavirus. Ha proseguito sottovalutando scelleratamente la portata del contagio, andando in televisione per dire agli israeliani che potevano uscire e divertirsi. Un atteggiamento irresponsabile. Come lo è il lockdown che ha deciso, un isolamento totale alla base del quale c'è sempre un tornaconto personale.

- E quale sarebbe questo tornaconto?
  Provare a tacitare la protesta, imponendo restrizioni che di fatto limitano fortemente la libertà di manifestare. E già questo sarebbe di per sé un fatto gravissimo. Ma lo è ancor più se si tiene conto che il decreto del governo limita le proteste ma non le preghiere, chiude le piazze ma non le yeshivot (le scuole talmudiche, ndr) per non alienarsi il sostegno dei Haredim (gli ultraortodossi, ndr) diventati i "pasdaran" di Netanyahu. Invece di decretare un lockdown pressoché totale, che rischia di assestare un colpo micidiale all'economia d'Israele, Netanyahu avrebbe dovuto imporre il rispetto del distanziamento sociale, dell'uso delle mascherine e degli altri accorgimenti sanitari nelle aree popolate in maggioranza dagli haredim, che queste misure hanno sempre disatteso perché, a loro dire, contrarie al volere di Dio! Ma un intero Paese non può soggiacere al ricatto di una minoranza fondamentalista.

- Ma quale carta ha questa minoranza per essere così convincente nei confronti del primo ministro più longevo nella storia d'Israele?
  La carta che più interessa a Netanyahu: quella giudiziaria…

- Nel senso?
  Nel senso del sostegno a ciò che più interessa al primo ministro: evitare di essere giudicato da un tribunale per i gravi reati di corruzione di cui è imputato. Piuttosto che farsi giudicare, Netanyahu è pronto ad andare a nuove elezioni e, nel frattempo, a negoziare con gli ultraortodossi le misure che riguardano la salute di tutti gli israeliani. Una cosa di una gravità inaudita che non può essere avallata dai partiti che permettono di tenere in vita questo governo.

- Mi sbaglio se dico che si riferisce al suo ex alleato Benny Gantz e a Kahol Lavan (Blu e Bianco)?
  Non si sbaglia affatto. Da subito ho giudicato la scelta operata da Gantz un cedimento ai ricatti di Netanyahu, all'uomo che in campagna elettorale avevamo accusato, tutti noi di Kachol Lavan, di minare le fondamenta stesse di uno stato di diritto con i suoi continui attacchi alla magistratura, con il suo fomentare una risposta di piazza contro "il colpo di stato" del quale i magistrati, a cominciare dal procuratore generale d'Israele, si sarebbero fatti strumento. Gantz ha giustificato la sua scelta affermando che di fronte all'emergenza sanitaria, Israele non poteva permettersi un vuoto di governo e tanto meno nuove elezioni anticipate, le quarte in un anno. Non ero d'accordo con questa motivazione ma prendiamola pure per buona. Ma ora, ora che questo governo ha dimostrato la sua incapacità ad affrontare la crisi pandemica, e questo per responsabilità diretta e primaria di Netanyahu, cos'altro attende Gantz per dichiarare finita questa fallimentare esperienza? Se non ha questo coraggio politico, è destinato a essere travolto. Altro che la staffetta a premier. Questo governo è un disastro. Anche chi ha sostenuto l'adesione di Kachol Lavan al governo del Likud pensa che sia un disastro. È finita quando Netanyahu si è alzato in tribunale, con la sua gente in "maschera" dietro di lui, e ha annunciato che non c'era più lo stato di diritto in Israele. È finita quando ha completamente fallito nel gestire l'emergenza Covid. Prima Gantz ne prenderà atto e meglio sarà per tutti, e anche per la sua carriera politica, destinata a chiudersi ingloriosamente con Bibi primo ministro.

- Della sottovalutazione della pericolosità del virus abbiamo ampiamente parlato. Cos'altro imputa al primo ministro?
  L'incapacità di mettere a punto un piano di sostegno alle imprese e per la difesa dei posti di lavoro. Netanyahu ha la faccia tosta di tacciare quanti da settimane protestano contro la sua scriteriata gestione della lotta al coronavirus, di essere dei "comunisti", degli "anarchici di sinistra" e addirittura degli "untori". Lui sa bene che non è così. Sa bene che tra i tanti che protestano vi sono persone che hanno votato Likud o Kachol Lavan, ma che oggi si trovano senza lavoro, senza protezione sociale, per responsabilità di un governo che non ha adottato le misure necessarie per affrontare le conseguenze economiche e sociali di questa drammatica situazione. Invece che ascoltare queste grida di dolore, Netanyahu ha preferito fare ciò che gli riesce meglio: la vittima. Stavolta, però, il gioco non gli è riuscito. La "sua" piazza è rimasta vuota, e a mobilitarsi sono stati gruppi di facinorosi ultras e pochi altri. La demonizzazione degli avversari non è servita a nascondere la realtà di un fallimento dovuto a una cattiva gestione di qualcuno che è al potere da troppo tempo e non è più in grado di gestire un Paese in un momento di crisi. Yesh Atid ha presentato ieri una mozione di sfiducia costruttiva verso il governo di Netanyahu. Chi non vota a favore di questa proposta è un codardo. Mi dispiace, non ho una parola più morbida da utilizzare.

Ipotizziamo che l'attuale governo cada e che il capo dello Stato, Reuven Rivlin, affidi a lei l'incarico di formarne uno nuovo. Cosa direbbe questo ipotetico governo?
  Direbbe: per i prossimi due anni, ci occuperemo di Covid e dell'economia. Taglieremo la disoccupazione, lavoreremo per far uscire Israele dal disastro economico, metteremo in stand by tutte le altre questioni, che dovremo affrontare ma in un altro momento. Questioni come il rapporto tra la religione e lo Stato, la soluzione dei due Stati o quella a uno Stato, il capitalismo contro il socialismo - tutto ciò che può aspettare, perché siamo nel bel mezzo di una crisi. Presenterei un piano di lavoro e tutti sarebbero i benvenuti ad unirsi a noi. Ecco cosa direi. Di una cosa sono certo: il prossimo governo sarà formato sulla base di "confini" politici diversi da tutto ciò che abbiamo conosciuto fino all'esplosione del Covid. La politica e i media sono molto indietro rispetto alla società israeliana. La società sta dicendo ai politici e ai media: "Lasciateci in pace, non ci interessano la destra e la sinistra, la religione e lo Stato. Quello che ci interessa in questo momento è la ricaduta economica del Covid".

Netanyahu è stato primo ministro per undici anni di fila. Direbbe che è imbattibile?
  Direi proprio di no. Una delle cose incoraggianti che prendo da quest'anno è che abbiamo battuto Netanyahu due volte. È vero, il passo politico che lo avrebbe sostituito non è stato fatto, ma in termini di idee, organizzazione, risultati sul campo, lo abbiamo battuto due volte. Due volte, il mio nome era sulla scheda che lo ha sconfitto. Possiamo batterlo. È possibile. Oggi come non mai.

Ha collaborato da Gerusalemme Cesare Pavoncello

(Reset, 14 ottobre 2020)


A Tel Aviv, dove la cultura è solidarietà

Nel cuore di Tel Aviv, un movimento di volontariato ha preso il via nel pieno della crisi sanitaria
Per i frequentatori della Tel Aviv che non dorme mai HaOman 17 è un nome famigliare. È uno dei più noti nightclub della città, luogo simbolo di divertimento e spensieratezza. La pandemia ha cambiato tutto: chiuso a causa del lockdown, HaOman è diventato il quartier generale di un movimento di volontariato che porta beni di prima necessità ai bisognosi. "Nello spazio principale del club, in ogni angolo è stato messo un tipo diverso di cibo secco. Nel bar, nell'area d'ingresso sono state ordinate frutta e verdura. Accanto alla console del dj, carrelli pieni di pane. Nell'orto di fronte al club, il cibo è pronto in scatole per essere spedito alle famiglie in tutto il paese", racconta la rivista mekomit. A occuparsi di tutto, il movimento "Cultura della solidarietà. formatosi durante il primo lockdown. I suoi membri hanno distribuito circa 15.000 cestini di cibo alle famiglie bisognose. Per gli attivisti, la distribuzione di cibo è un'azione politica. L'obiettivo non è solo quello di aiutare chi ha necessità, ma anche costruire una comunità solidale. I cestini vengono distribuiti a famiglie israeliane presenti in liste specifiche ma anche a lavoratori filippini, a famiglie sudanesi, a famiglie religiose di Beit Shemesh e a palestinesi di Gerusalemme Est. "Persone preoccupate solo per se stesse hanno improvvisamente scoperto la compassione e la cura per gli altri", dichiara uno degli attivisti, auspicando che l'impegno prosegua anche dopo la crisi.

(Pagine Ebraiche, ottobre 2020)


Via ai colloqui Libano-Israele sui confini in Mediterraneo

Al centro dei colloqui lo sfruttamento della ricerca di gas nel tratto di Mediterraneo conteso tra i due stati

Sono cominciati oggi gli attesi colloqui tra Libano e Israele. L'incontro si svolge, a Capo Naqura, nella base Onu lungo la linea blu di demarcazione tra i due paesi.
Sul tavolo, con la mediazione Usa, la demarcazione dei confini marittimi dei due paesi per lo sblocco dell'impasse sullo sfruttamento delle risorse energetiche nelle acque a largo tra i due paesi, area che però coinvolge interessi internazionali ben più ampi.
L'accordo quadro tra Libano e Israele era stato raggiunto nei giorni scorsi dopo una mediazione statunitense durata circa 10 anni. Nelle ultime ore il movimento sciita libanese Hezbollah, vicino all'Iran, e il suo alleato il partito Amal, diretto dal presidente del parlamento Nabib Berri, hanno fortemente criticato la composizione della delegazione libanese, formata anche da civili, definendola "non legittima".
Per gli Stati Uniti il mediatore per il Medio Oriente David Schenker alla guida di una delegazione americana. Presente anche l'Unifil comandata dal generale di divisione Stefano Del Col.

(RaiNews, 14 ottobre 2020)


Gas e accordi di pace. L'agenda del primo viaggio di Di Maio in Israele

La Farnesina sta preparando (coronavirus permettendo) il primo viaggio del ministro Di Maio in Israele e Palestina che dovrebbe tenersi a fine mese. In cima all'agenda gli accordi di pace e i temi energetici legati al Mediterraneo

di Gabriele Carrer

"A breve è prevista una visita del ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio in Israele". Ad annunciarlo via Facebook è stato Dror Eydar, ambasciatore d'Israele in Italia, che aggiunge: "Io lo accompagnerò, e questa sarà anche per me l'occasione di tornare nuovamente in Israele, anche se per un breve periodo. Mi auguro che la situazione relativa alla crisi del Coronavirus lo permetta".
   Dalla Farnesina non emergono ulteriori dettagli ma si vocifera di una visita a cui si lavora ormai da settimane. A quanto risulta a Formiche.net, il ministro dovrebbe essere in Israele giovedì 29 ottobre. Sarebbe per lui il primo viaggio in Terra Santa. A Gerusalemme dovrebbe incontrare l'omologo Gabi Ashkenazi. Non è esclusa la possibilità di un faccia a faccia anche con il premier Benjamin Netanyahu e una riunione con il capo dello Stato, Reuven Rivlin. In cima all'agenda dei lavori due temi: le questioni energetiche e gli ultimi sviluppi nel Mediterraneo (gas e Turchia) e gli Accordi di Abramo (che questa settimana la Knesset dovrebbe ratificare), che prevedevano il riconoscimento da parte di Bahrein ed Emirati Arabi Uniti di Israele. Intese che dimostrano che "la pace nella regione è possibile", ha spiegato alcuni giorni fa il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas.
   Il capo della Farnesina dovrebbe poi fare tappa a Ramallah per incontrare il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il ministro degli Esteri Riad Malki. Il condizionale, però, è d'obbligo: dalla Farnesina trapela prudenza vista la situazione legata al coronavirus. Si attende comunque una conferma della visita entro la prossima settimana.
   Intervistato poco più di un mese fa da Formiche.net, il ministro Di Maio aveva definito l'annuncio della normalizzazione verso Israele "un importante sviluppo" per gli equilibri del Medio Oriente: "L'Italia ha sempre mantenuto una posizione equilibrata e dialogante con il mondo arabo e con Israele, cosa che ci ha permesso di guadagnare una credibilità e una autorevolezza, che ci consentono oggi di sostenere la causa della distensione e del rilancio di relazioni positive fra i Paesi della regione", aveva dichiarato sottolineando come l'impegno assunto da Israele di sospendere le annessioni "disinnesca una possibile minaccia per il processo di pace e la soluzione dei due Stati". Auspicando una sospensione "permanente" e una ripresa dei negoziati tra le parti, Di Maio aveva promesso l'impegno dell'Italia, insieme all'Unione europea, "per facilitare un rilancio del dialogo tra palestinesi e israeliani".
   Oggi i rapporti tra Israele e Stati Uniti sono eccellenti, grazie anche al feeling tra il premier Netanyahu e il presidente statunitense Donald Trump su cui sono stati costruiti gli Accordi di Abramo. L'Italia ha sempre cercato di tenere i piedi di entrambe le scarpe nella questione israelo-palestinese e più in generale nel Medio Oriente, parlando con Iran, Hezbollah e Turchia per esempio: cosa che di volta in volta l'alleato israeliano ha apprezza di più o di meno, a seconda dei momenti storici. Per la sua prima visita (coronavirus permettendo) il ministro Di Maio potrà presentarsi con un biglietto da visita importante, una sorta di lettera di raccomandazione degli Stati Uniti che in questi mesi con lui e con la Farnesina hanno rafforzato il dialogo sulle materie di comune interesse (in particolare il Mediterraneo allargato).
   Il ministro Di Maio giungerà, infatti, a Gerusalemme a un mese dal positivo incontro con il segretario di Stato americano Mike Pompeo. E data anche la buona consuetudine dell'ambasciatore di Israele a Roma con l'omologo statunitense Lewis Eisenberg, non saranno mancate valutazioni anche sul governo italiano. Soprattutto tenendo conto che non sempre esponenti del Movimento 5 stelle hanno preso posizioni apprezzate in Israele e tanto più dal premier Netanyahu.

(Formiche.net, 14 ottobre 2020)


*


Di Maio è riuscito a diventare, con Mike Pompeo, il politico italiano di riferimento degli Usa

Adesso andrà in Israele

di Marco Antonellis

"... l'ho detto in premessa e lo ribadisco alla presenza del segretario Ross"
E pensare che fino a poco tempo fa
non sapeva neppure come si chiamava
il segretario americano
C'è una liturgia nascosta, un protocollo informale secondo cui la governabilità dell'Italia si misura in relazione allo status dei rapporti coltivati oltreoceano. Andreotti andava dicendo che in Italia nessuno, realmente, parla con gli Usa perché in Usa non c'è e non esiste un blocco politico riconducibile alla sola amministrazione. C'è la segreteria di Stato, ma c'è anche il Pentagono; c'è la Casa Bianca ma anche il Congresso; c'è la Cia e c'è, a Roma, villa Taverna. Insomma, è dai tempi della Dc e della prima repubblica che le relazioni con gli Stati Uniti sono considerate cruciali per guidare in sicurezza l'Italia. E tutto sommato questo è un governo che ha saputo mostrare una certa capacità di mediazione: la sinergia tra Trump e Giuseppe Conte, la lealtà incondizionata del ministro Guerini, quella del collega Amendola e, con un certo stupore, l'intensa amicizia che oggi unisce Luigi Di Maio al segretario di Stato Mike Pompeo.
   È proprio sul ministro degli Esteri però che si è concentrata l'attenzione di Washington negli ultimi mesi. Non è un mistero che, da tempo, gli americani dispensino giudizi positivi sul nuovo corso atlantista di Luigi Di Maio. Il sostegno riservato agli accordi di Abramo è stato molto apprezzato, così come le dure parole su Lukashenko e, naturalmente, è stata innanzitutto la franchezza con cui Di Maio a fine agosto si è rivolto all'omologo cinese Wang Yi a convincere gli americani a puntare tutte le fiches sul nuovo capo della diplomazia italiana.
   Ai vertici più alti del deep state capitolino ormai la voce corre con insistenza: Di Maio è entrato nelle grazie di Washington, anche per via del rapporto coltivato di recente con l'ambasciatore Lewis Eisenberg, e, raccontano in molti, grazie all'intraprendenza del nuovo portavoce Augusto Rubei e all'impostazione filoatlantica che il giornalista, già portavoce del ministero della Difesa e oggi uomo ombra alla Farnesina, ha voluto attribuire a Di Maio. Il forte legame tra i due è ormai noto a tutti e la formula trasferita al ministro ricalca un vecchio teorema di cui Rubei faceva tesoro, quando poco più di un anno fa, per conto dell'ex ministra Trenta, teneva le redini di Palazzo Baracchini: prima i valori, poi gli affari; perché è sui valori che si costruisce il business.
   È principalmente a Rubei che si deve la nuova immagine internazionale di Luigi Di Maio, che a fine mese peraltro sarà atteso in Israele, per la prima volta nei panni di ministro degli Esteri. Per lui (Covid permettendo) sarebbe il primo viaggio in Terra Santa, dove dovrebbe incontrare l'omologo Gabi Ashkenaz e non è esclusa la possibilità di un faccia a faccia anche con il premier Benjamin Netanyahu e una riunione con il capo dello Stato, Reuven Rivlin. Poco più di un mese fa proprio Di Maio aveva definito l'annuncio della normalizzazione verso Israele «un importante sviluppo» per gli equilibri del Medio Oriente. Parole che per gli States, ancora una volta, rappresentano una rassicurazione importante. E non è forse un caso che Luigino giungerà a Gerusalemme a un mese dal positivo incontro con il segretario di Stato Mike Pompeo. Sono tasselli di un mosaico che con ogni probabilità potrebbero segnare il nuovo corso del M5s in vista degli Stati Generali.
   
(ItaliaOggi, 14 ottobre 2020)


Le mille crisi di Erdogan, il sultano che vuole diventare imperatore

La nave Oruc Reis davanti al Dodecanneso ennesimo segnale ostile all'Europa e agli Usa

STRATEGIA
II presidente turco provoca continui punti di tensione per affermare il suo ruolo.
REAZIONE
Calpesta le regole Onu convinto di passarla liscia. E Pompeo batte un colpo

di Fiamma Nirenstein

La Oruc Reis si staglia di nuovo da ieri sulle onde del Mediterraneo Orientale vicino all'isoletta di Megisti nel Dodecanneso, Kastellorizo, Castelorosso: per il luogotenente Montini nel film di Gabriele Savatores «Mediterraneo», un luogo di «importanza strategica zero». Per Erdogan, un altro modo di affermare la risorgenza dell'impero Ottomano, l'irrilevanza della suddivisione Onu delle acque territoriali del 1982 e la sua visione della «patria blu», 46.520 chilometri quadrati di Mare Nostrum che gli consentano di dominare le ricerche energetiche, annullare i patti e le conquiste di Grecia, Cipro, Israele, Egitto, e anche Italia.
   Di nuovo, dopo che ad agosto aveva arruffato i rapporti con la Grecia, la sagoma minacciosa della grande Oruc Reis è ricomparsa «per condurre ricerche sismiche». Ma il messaggio è di nuovo quello del dominio delle risorse energetiche, e in generale, della scelta turca di un dominio antico che intende rinnovarsi, e non lo nasconde affatto. Erdogan accende incendi un po' ovunque, anche usando le armi, che sparano ormai su una diffusione geografica senza precedenti. Le mosse del leader turco sono affermative e categoriche, come quella che ricorda 46 anni fa quando, espulsi i ciprioti greci dal nord dell'isola di Cipro, la Turchia lo fece suo. Rimase però una spiaggia vuota, terra di nessuno, Varosha: ed è qui che giovedì si sono visti di nuovo uomini e bandiere Turchi presentatisi al solo scopo di intimidire e minacciare ciprioti e greci, e ricordare loro l'espulsione.
   È la tecnica di Erdogan, abituato a compiere una serie di azioni incendiarie che hanno come conseguenza espulsioni di massa, cui si accompagna, specie rispetto ai siriani, la minaccia della utilizzazione dei profughi come arma con cui viene zittita l'Europa, che teme le masse migratorie controllate dal presidente Turco.
   Dal 2016 la Turchia si scontra sistematicamente con tutti quelli in cui incappa sulla sua strada. Ha acceso incendi dall'Armenia alla Libia a Sinjar in Siria, alla Grecia, a Cipro. Sono finiti i tempi del pragmatico Ahmet Davotoglu, che per quanto ministro degli Esteri di Erdogan e poi primo ministro ci teneva all'immagine di una Turchia che voleva entrare nell'Unione Europea, e che voleva essere considerata una democrazia. L'odio di Erdogan per Israele già segnalava però dal 2010 la volontà di mettersi alla testa, con la sua organizzazione, i Fratelli Musulmani, di un grande movimento di conquista islamista del Medio Oriente: lo prova l'episodio della Mavi Marmara, una spedizione marittima diretta a Gaza e esaltata da Hamas (più volte invitata ad Ankara) anch'essa parte della Fratellanza, che finì tragicamente con l'uccisione di sei turchi. Nel 2016 sono venuti i tempi del golpe e del sospetto, della repressione violenta, della eliminazione politica del partito di opposizione, dei sindaci dell'opposizione rimossi per il 90 per cento, dei giornalisti in galera in massa e anche della guerra continua. Il 2016 è il tempo della prima invasione della Siria cui segue l'invasione di Afrin che fa fuggire 160mila curdi. Più avanti le milizie di Erdogan hanno attaccato le forze democratiche siriane sostenute dagli Usa nel ottobre del 2019 vicino a Tel Abyad.
   Poi Erdogan ha usato le sue milizie in gennaio in Libia, e adesso le usa contro gli Armeni a favore dell'Azerbajan. Erdogan minaccia Egitto, vuole schiacciare la Grecia e Cipro, se la piglia con gli Emirati e col Bahrein e annuncia che riconquisterà (come ai tempi Ottomani) Gerusalemme, che ritiene sua alla faccia degli ebrei e anche degli arabi. L'8 ottobre ha bombardato la storica chiesa armena di Shusha nel Nagorno Karabakh, e questo è parte del terrore inflitto alle chiese e ai cristiani che ha trasformato la storica magnifica cattedrale di Hagia Sofia da museo a moschea. Sulla stessa nota imperialista Erdogan promette di «liberare Al Aqsa», usa i radar S 400 russi per individuare gli F16 greci membri della medesima alleanza Nato, infastidisce le navi francesi, blocca una nave italiana, minaccia Israele, perseguita i greci. Pensa che non pagherà mai nessun prezzo, forte del suo antico ruolo di ponte col mondo musulmano, della porta girevole che fa entrare i profughi a piacimento e del suo ruolo nella Nato. Ma, e Pompeo con la recente visita in Grecia e a Cipro sembra averne finalmente dato segno, non si crede più che sia un ponte: è un sultano alla ricerca dell'impero perduto, niente di più pericoloso.

(il Giornale, 13 ottobre 2020)


Attrice israeliana per Cleopatra. E il mondo arabo protesta

Gal Gadot, già Wonder Woman, nei panni della regina d'Egitto. «È ebrea , non può».


Gal Gadot
GERUSALEMME- Il prossimo scontro con re Bibi sarà alla pari. Tra monarchi. Gal Gadot ha annunciato ai suoi 43 milioni di seguaci su Instagram di essere stata scelta per interpretare la regina Cleopatra, gli stessi ammiratori ai quali si era rivolta per criticare Benjamin Netanyahu.
Che i messaggi dell'attrice israeliana siano per la convivenza («ama il tuo vicino come te stesso. Non è una questione di destra o sinistra, ebrei o arabi, laici o religiosi. E una questione di dialogo, di pace ed eguaglianza, della nostra tolleranza gli uni verso gli altri») e contro le sparate intolleranti del primo ministro non è bastato alle sentinelle sempre sveglie della cultura woke. Hanno lanciato l'allarme e sbarrato il cancello via social: per loro è inaccettabile che un'israeliana possa rappresentare la donna che ha dominato sull'Egitto per oltre vent'anni.
   «Quale imbecille a Hollywood ha pensato fosse una bella idea scritturare la scialba Gal Gadot invece che un'avvenente diva araba. Vergognati Gal: il tuo Paese ruba la terra agli arabi e tu i loro ruoli». Quelli di Sameera Khan sono stati tra commenti più rilanciati e approvati, anche se la giornalista di origine pachistana (ed ex Miss New Jersey) in passato è incappata in qualche strafalcione digitale come difendere Stalin — «sarei morta per lui» — ed elencare le «virtù» della vita nei gulag: «Due settimane di vacanza a casa, niente uniforme da carcerati, casette per le coppie sposate, educazione, musica e teatro per i prigionieri...».
   Dai suoi tweet contro Gal Gadot la discussione è dilagata: in molti hanno difeso la scelta dell'israeliana e hanno ricordato che Cleopatra era di origine greco-macedone, il controllo della dinastia tolemaica sull'antico Egitto inizia alla morte di Alessandro Magno e si conclude con lei. Altri hanno fatto notare che neppure Liz Taylor (protagonista nel colossal del 1963) era nata in Nordafrica e sono stati subito zittiti dai guardiani della cancel culture: «Allora non c'eravamo noi a vigilare». E hanno insistito a pretendere che Gadot lasciasse la parte a un egiziana: «Come puoi celebrare le donne, se poi usurpi le culture degli altri?».
   Gadot è stata la terza attrice hollywoodiana ad aver guadagnato di più quest'anno. La pandemia di Covid-19 ha rinviato l'uscita di Wonder Woman 1984, l'ex modella israeliana è riuscita però a girare Red Notice per Netflix. Proprio la sua prima Wonder Woman è stata boicottata in Libano: non per l'uniforme indossata dalla principessa amazzone — spada e scudo sulle spalle — ma per la divisa che Gal Gadot ha portato a 18 anni, oggi ne ha 35, come tutti i ragazzi israeliani: quella dell'esercito. Il governo libanese aveva deciso di bandire il film dopo la campagna di boicottaggio sostenuta dall'organizzazione sciita Hezbollah, che con Israele ha combattuto 34 giorni di guerra nell'estate del 2006.

(Corriere della Sera, 13 ottobre 2020)


Israele e Libano, prove di dialogo

Cauto ottimismo. È quello che si respira nella delegazione israeliana che incontrerà nelle prossime ore la controparte libanese per discutere - e trovare un accordo - sulla definizione dei rispettivi confini marittimi. "Se la controparte si presenterà ai colloqui con un approccio pragmatico, spero riusciremo a risolvere la controversia in breve tempo", le parole di un alto funzionario del ministero dell'Energia israeliano ai giornalisti nel corso di un briefing sulla delicata missione. "Naturalmente, se dall'altra parte arriveranno con l'intenzione di raggiungere un'altra vittoria sul 'nemico sionista', allora possono continuare a celebrare le vittorie come hanno fatto negli ultimi 10 anni", ha aggiunto ironicamente il funzionario, parlando a condizione di anonimato.
   L'attuale disputa israelo-libanese sull'esatta delimitazione dei confini marittimi va avanti da un decennio e gli Stati Uniti hanno mediato l'incontro tra i due paesi per provare a chiudere almeno questo capitolo di una contesa ben più ampia. "Non si tratta di colloqui di pace e non è una normalizzazione dei rapporti come con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein. È un obiettivo molto, molto chiaro e specifico; è una disputa tecnica ed economica", le parole del rappresentante del ministero israeliano. Libano e Israele sono formalmente due paesi nemici, e gli ultimi colloqui ufficiali in materia civile tra le due nazioni risalgono a trent'anni fa. Per questo l'attuale round di incontri, seppur ristretto a una questione molto tecnica, è un passo avanti positivo. Inoltre, il raggiungimento dell'intesa permettere ad entrambi i paesi di utilizzare le risorse naturali - gas e petrolio - presenti nello spazio marino conteso, portando benefici alle rispettive popolazioni.
   Finora, tutti i numerosi tentativi di mediazione sono falliti, spiega Noa Landau di Haaretz. La svolta c'è stata grazie a David Schenker, sottosegretario di Stato americano per gli affari del Vicino Oriente. Schenker ha optato per circoscrivere gli incontri al solo tema del confine marittimo, lasciando fuori ad esempio il tema caldo dei confini terrestri. "Dietro le quinte, gli Stati Uniti sperano che un accordo di successo sul confine marittimo apra la porta ad ulteriori contatti futuri, sullo sfondo di una campagna USA-Israele per indebolire il potere di Hezbollah nell'arena politica", aggiunge Landau.

(moked, 13 ottobre 2020)


Anche l'Iran può riconoscere Israele

Parla Faezeh Hashemi, figlia dell'ex presidente Rafsanjani

di Dorian Gray

 
Faezeh Hashemi
Qualcosa di sorprendente è avvenuto in Iran nelle ultime ore, qualcosa che fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile e che, anche in questo caso, è forse da ricondurre agli effetti indiretti degli accordi di pace siglati fra Israele, Emirati Arabi Unti e Bahrain a Washington.
  Parlando al quotidiano riformista Arman-i Melli lo scorso giovedì, l'ex parlamentare iraniana Faezeh Hashemi - figlia del defunto presidente iraniano ayatollah Akbar Hashemi Rafsanjani - ha aperto per la prima volta alla necessità di un riconoscimento di Israele da parte della Repubblica Islamica dell'Iran.
  Nella sua intervista, pur ovviamente prendendo le parti dei palestinesi nel conflitto con Israele, Faezeh Hashemi ha affermato che "Israele è un Paese riconosciuto dalle Nazioni Unite" e "molti cambiamenti sono avvenuti nella storia attraverso la guerra e la pace". Per la figlia di Rafsanjani, "l'Iran dovrebbe essere aggiornato per quanto concerne le relazioni esterne, prendendo esempio da quanto fatto da Emirati Arabi Uniti e Bahrain". Per questo - e qui sta la frase rivoluzionaria - "anche l'Iran può riconoscere Israele", al fine di "proteggere i suoi interessi nazionali, le sue risorse e i diritti del suo popolo".
  Per giustificare la sua affermazione, che potrebbe addirittura costarle il carcere, Faezeh Hashemi ha preso come riferimento l'ayatollah Khomeini, fondatore della Repubblica Islamica. Faezeh infatti ha citato Khomeini quando ha affermato che "persino i principi dell'Islam possono essere sospesi per l'interesse dell'establishment".
  Ovviamente occorre prendere con cautela questa apertura: siamo consapevoli che Faezeh Hashemi è oggi un personaggio critico verso il regime, che ha ormai da anni preso delle posizioni scomode, che l'hanno portata anche ad essere arrestata nel 2011 e accusata di "propaganda contro lo Stato". Ma ciò nonostante, si tratta pur sempre di una ex parlamentare iraniana e soprattutto della figlia di uno degli uomini più influenti nella storia contemporanea dell'Iran.
  A dispetto delle sue critiche alla attuale leadership iraniana, infatti, la Faezeh Hashemi agisce nell'ottica della preservazione della Repubblica Islamica e non del suo superamento. Per questo, la sua posizione su Israele è estremamente interessante, se non altro per testimoniare i dirompenti effetti a catena che stanno avendo gli Accordi di Abramo sull'intera regione mediorientale.

(Atlantico, 13 ottobre 2020)


Facebook annuncia: verranno rimossi i post che negano la Shoah

di Giacomo Kahn

Il negazionismo dell'Olocausto non sarà più tollerato su Facebook che ha annunciato che rimuoverà i contenuti che, sulla sua piattaforma, negano o distorcono l'Olocausto. "Qualora una persona ricercasse l'Olocausto sulla nostra piattaforma, verrebbe ora indirizzata verso fonti autorevoli per ottenere informazioni accurate", ha detto ieri il fondatore della compagnia, Mark Zuckerberg, preoccupato dall'aumento dell'antisemitismo sul social.
   Nel 2018, il fondatore di Facebook aveva difeso il diritto dei negazionisti di pubblicare contenuti sulla piattaforma. Zuckerberg ha oggi però ammesso che la sua visione dell'argomento "si è evoluta" guardando ai "dati che mostrano un aumento della violenza antisemita".
   "Tracciare le giuste linee tra ciò che è un discorso accettabile o meno non è semplice - afferma - ma considerato lo stato attuale del mondo, credo che questo sia il giusto equilibrio". Un recente sondaggio ha rilevato che "il 63% degli adulti statunitensi tra i 18 e i 39 anni non sapeva che 6 milioni di ebrei erano stati uccisi" e il 36% credeva che fossero stati uccisi "due milioni o meno di ebrei".
   Sulla scia di questa nuova politica, la scorsa settimana Facebook ha cominciato a rimuovere qualsiasi gruppo o pagina che si identifica apertamente con QAnon, un gruppo di cospirazionisti vicini ad ideali di estrema destra che sostiene come gran parte del mondo sia gestito da una cabala di satanisti pedofili. Il gigante dei social media ha anche annunciato che oscurerà ogni forma di disinformazione sul coronavirus, oltre ai post che mirano a destabilizzare le elezioni presidenziali americane di novembre.

(Shalom, 13 ottobre 2020)


La Fratellanza Musulmana si lancia alla conquista della vecchia Europa

Dopo il trionfi elettorali delle primavere arabe e la successiva repressione il suo raggio d'azione non si limita più solo al Medio Oriente e all'Africa.

di Matteo Luca Andriola

Dire Fratellanza Musulmana è quasi un sinonimo di realtà politiche radicali come Hamas o di paesi come l'Egitto, la Libia e la Tunisia dove l' organizzazione ha preso parte a scontri politico-militari. Ma non si è limitata ad espandersi in Nord Africa o in Medio Oriente, ma ha gradualmente esteso il suo raggio d'azione in tutta Europa, specialmente in Germania, quarta potenza economica mondiale.
  «Allah è il nostro Obiettivo. Il Profeta è il nostro Leader. Il Corano è la nostra Legge. La Jihad è la nostra Via. Morire sulla via di Allah è la nostra più alta Speranza», recita il motto della Fratellanza Musulmana, movimento radicale islamico di matrice sunnita fondato in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna a Ismailiyya, poco più d'un decennio dopo il collasso dell'Impero Ottomano. Giudicato a torto la rappresentanza dell'Islam politico, e perciò "moderato", la Fratellanza Musulmana, che non ha ripudiato la jihad ma la porta avanti, specie in occidente, con metodi "soft", meno invasivi ma più subdoli.
  Per anni al bando dai regimi laici di Mubarak, Gheddafi e Ben All, il gruppo è risorto con le Primavere Arabe del 2011 per riprender piede, imponendosi in Egitto (poi bandito di nuovo dal presidente al-Sisi) Tunisia e Algeria, la Fratellanza Musulmana gode tutt'oggi la protezione e cospicui finanziamenti da parte del governo del Qatar e da quello ultraconservatore della Turchia di Erdogan, che funge anche come una sorta di "laboratorio politico", ma è considerata fuorilegge, in quanto considerata "organizzazione terroristica" in Egitto, Russia, Siria, Bahrain, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Tagikistan e Uzbekistan. Ma è l'Europa—tolti Qatar e Turchia dov'è al potere — la vera base del potere economico e politico della Fratellanza Musulmana, sfruttando l'ambigua percezione di "moderatezza" costruita nel tempo, che fa breccia anche a sinistra.
  Secondo la ricercatrice svizzera Saida Keller Messahli, «da almeno 40 anni i Fratelli costruiscono reti in Europa per moltiplicare il loro peso politico, in modo da poter parlare e decidere a nome della popolazione d'origine islamica in Europa. Tali reti si basano non solo sulle associazioni e sulle moschee dei vari Paesi del Vecchio continente, ma anche sui partiti politici di sinistra, siano essi socialisti, comunisti o green. La tradizionale sinistra terzomondista, per esempio, ha dato un massiccio e decisivo contributo al successo del cosiddetto "intellettuale" Tariq Ramadan, che ha fondato due grandi centri islamici, uno a Ginevra e l'altro a Monaco di Baviera». La ricercatrice si riferisce a due centri islamici fra i più importanti d'Europa, il secondo dei quali parte della Islamiche Gemainschaft Deustchland (Comunità islamica di Germania), creata nel 1958 da Sa'id Ramadan, e alla Muslim World League, organismo legato all'establishment saudita che diffonde un'interpretazione radicale e letteralista del Corano, due realtà alla base di un sistema di raccolta fondi, per i maggiori servizi di intelligence del mondo, per foraggiare movimenti eversivi monitorati dai servizi segreti. Tali realtà gravitano attorno alla Banca Al Tagwa, definita dai servizi segreti italiani in diversi documenti come la "Banca della Fratellanza Musulmana", attiva fin dal 1958 e fondata da Ahmed Huber, ex nazista elvetico convertito all'Islam radicale, che raccoglie i fondi dai paesi del Golfo Persico per fare investimenti e, sostiene l'intelligence, sostenere economicamente gruppi radicali, anche terroristi, nonché ONG islamiche, come la Insani Yardim Vakfi, ONG turca intervenuta in teatri come la Somalia, la Palestina, il Sudan e in supporto dell'opposizione radicale anti-Assad in Siria.
  Sin dalla nascita di questa confraternita—il fondatore, l'egiziano Hasan al-Banna, è nonno di Tariq Ramadan — persegue lo scopo di riconvertire gli islamici e i neoconvertiti all'Islam radicale, veicolando battaglie ufficiosamente inclusive ed identitarie, ma effettivamente atte a favorire l'introduzione di norme confessionali, come a favore del velo o del burquini nei luoghi pubblici, spiagge ecc., la pretesa di eliminare simboli della cristianità o introdurre il menù halal nelle mense scolastiche. Una macchina propagandistica che fa capo all'Unione mondiale degli studiosi musulmani, in Qatar, un ente fondato dallo sceicco Yusuf al-Qaradawi, ultranovantenne leader spirituale dell'organizzazione islamica che per decenni — anche dall'emittente televisiva Al Jazeera — ha sostenuto il terrorismo islamista in Medio Oriente e Nord Africa, e presidente dell'Unione internazionale degli Ulema, che si occupa di dottrina e formazione, e del Consiglio europeo della fatwa e della ricerca, che regola la vita privata dei musulmani europei, due entità con sede a Dublino, in Irlanda, o espandendo la propria influenza su alcuni atenei europei, come Oxford, presso l'Istituto europeo di scienze umane di Château-Chinon in Francia, l'ateneo di Friburgo in Svizzera, dove è stato creato il Centro Islam e società per produrre studi che legittimino le posizioni islamiste, coinvolgendo politici. Sempre secondo Saida Keller Messahli: «Nei maggiori atenei si trovano organizzazioni della Muslim students association.
  Da lì partono altre ramificazioni nel mondo accademico: sono i cenni di ricerca e studi islamici quali il Csis di Friburgo, lo Swiss islam society centre fondato da cittadini tedeschi, i centri di formazione in Francia, Inghilterra e, ancora, in Germania. Quasi tutte organizzazioni finanziate dal Qatar: come l'European council for fatwas and research o l'International union of muslim scholars, strutture che utilizzano la loro rete fatta di moschee e di imam che si recano in carcere, negli ospedali e in varie scuole pubbliche a insegnare la religione musulmana».
  Una rete che si avvale non solo di appoggi politici esterni, ma pure capace di eleggere figure politiche di un certo rilievo, come l'ex ministro svedese Mehmet Güner Keplan, di origine turca e iscritto al partito dei verdi, che ha guidato il dicastero dell'Edilizia abitativa e dello sviluppo urbano dal 2014 al 2016, dovendosi dimettere a causa dei suoi legami con l'estremismo islamico.
  Una realtà che è stata palesata al pubblico occidentale attorno al 2012 da Anas al-Tikriti, a capo della Cordoba Foundation, legata ai Fratelli Musulmani, che ha descritto la rete come ben radicata nel continente europeo fra i centri islamici, circa 300 in tutta Europa, idealmente ispirati al motto della Fratellanza Musulmana, una rete, spiegano i servizi di sicurezza della Francia, che copre l'80% dei centri islamici d'Europa, compresa l'Italia, spiega il libro Qatar papers, il libro-inchiesta dei giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, che parla di finanziamenti dal Qatar alle moschee e ai centri islamici: dei 72milioni di euro destinati all'Europa tra il 2014 e il 2017, 22 milioni erano destinati all'Italia dove i seguaci della Fratellanza musulmana sono certamente migliaia.
  L'intento della Fratellanza Musulmana, sorvolando il concetto che si tratti di "islam moderato", è fungere da lobby, capace di spingere ad esempio Angela Merkel, in Germania, a battersi per l'ingresso della Turchia, dove il partito di Erdogan è condizionato dalla Fratellanza Musulmana, nell'Unione europea, mentre in Scandinavia interi quartieri sono egemonizzati dalla Fratellanza Musulmana, dove vige la sharia, con tanto di guardia civica — la sharia police — bardata di pettorina che controlla l'osservanza della legge islamica da parte dei residenti. L'intento è introdurre norme atte a favorire l'ingresso di norme favorevoli alla sharia nei codici civili occidentali, il tutto favorito da centri islamici, centri studio, ONG che fanno capo al Golfo Persico a favore dei migranti di fede musulmana che dovrebbero favorire un'opera di lobbismo civile e politico.

(Il Dubbio, 13 ottobre 2020)


Israele e Covid. Turismo, casse vuote: i pellegrini non arrivano

di Fabio Scuto

Mai come nel 2020 i turisti, specie quelli religiosi, hanno disertato Israele. Questa è una delle rare volte negli ultimi 1.600 anni in cui la Terra Santa è stata praticamente priva di pellegrini cristiani. Questa branca del turismo in Israele, che sembrava così stabile, sta silenziosamente collassando. In effetti, questo è particolarmente evidente perché nel 2019 ci sono stati numeri record di turisti religiosi che hanno affollato Israele e i siti dell'Autorità Palestinese. Oggi la Chiesa della Natività a Betlemme è vuota. La Chiesa del Santo Sepolcro nella Città Vecchia di Gerusalemme, che in genere vede file di centinaia di turisti in attesa di entrare, è desolata. Cafarnao e altri famosi siti biblici intorno al lago di Tiberiade sono quasi abbandonati.
   L'ultima volta che il numero di pellegrini in visita in Terra Santa è diminuito in modo significativo è stato circa 150 anni fa, durante la guerra franco-prussiana, che ha scatenato uno sconvolgimento in Europa. Ora è abbastanza chiaro che i fedeli saranno fisicamente assenti dai siti e dalle attrazioni turistiche di Israele e dell'Autorità Palestinese per almeno un anno. Quella che all'inizio sembrava una situazione temporanea sta peggiorando ogni giorno mentre la pandemia continua a farsi sentire a livello locale e mondiale.
   Il mercato del turismo cristiano pellegrino è sempre stato considerato il più stabile qui. Questi turisti sono arrivati anche nei periodi più difficili e violenti, quando altri non oserebbero visitare Israele. In passato hanno ignorato guerre ed epidemie, sconvolgimenti governativi e crisi economiche. Niente ha impedito ai fedeli di venire a pregare nella terra di Gesù. Nel 2019, quando Israele ha ospitato un totale record di 4,2 milioni di turisti, di cui un milione erano pellegrini cristiani, una percentuale del 25% che era rimasta stabile nel decennio precedente. Un milione di pellegrini porta circa 1,5 miliardi di dollari allo Stato e alle imprese turistiche, in base alla valutazione che ogni visitatore spende circa 1.500 dollari durante un viaggio che dura una settimana. Ecco, quest'anno tutto questo reddito è semplicemente svanito nel nulla.

(il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2020)


A sostegno del comparto turistico e a fianco degli operatori

Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a TTG 2020

Un anno che permea la resilienza, questo 2020: e l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo dà prova di averne con le azioni instancabili di formazione, webinar su cultura, moda e design, sostegno agli operatori e presenza ad eventi trade come TTG Travel Experience. Presso lo stand di Israele, PAD A1 stand 141, non saranno presenti come da tradizione i partner dell'industria turistica israeliana, ma lo staff dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo al completo.
"TTG Travel Experience è un appuntamento imperdibile nella nostra agenda annuale e non potevamo mancare soprattutto a questa edizione 2020: importante esserci per dare segno tangibile del nostro sostegno all'industria turistica e per sottolineare l'importanza del mercato italiano per il turismo di Israele. Crediamo fortemente nel valore dell'incontro e anche in tempo di distanziamento sociale abbiamo voluto sottolineare come il turismo sia soprattutto un momento di contatto umano, di incontro e di crescita. - afferma Kalanit Goren Perry, Direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.- In questi mesi non ci siamo mai fermati: abbiamo prodotto contenuti, fornito informazioni aggiornate, ascoltiamo le esigenze dei nostri partner e progettiamo il futuro e la ripresa. Siamo pronti a ripartire quando la situazione internazionale ce lo consentirà con tutte le accortezze del caso e saremo pronti ad assecondare nuovi stili ed esigenze di viaggio".
Consapevole della difficoltà del momento che il mercato sta affrontando, l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo intensifica l'attività di promozione verso la destinazione e di supporto ai partner.
   Così a Milano e Roma la neo direttrice ha incontrato operatori turistici e media di settore appena insediata; e la presenza a TTG amplifica la possibilità di incontrare altri professionisti e palesare le attività che l'ufficio nazionale israeliano del turismo ha in atto e i progetti che ha in serbo per il futuro.
   I focus del prossimo inverno saranno sicuramente natura e deserto con i viaggi avventura e le attività outdoor, accanto a turismo religioso e spirituale. Manterremo grande attenzione al citiesbreak alla scoperta delle due città di Tel Aviv e Gerusalemme che rappresentano un connubio perfetto per un viaggio che abbina storia e modernità, divertimento e spiritualità, nightlife e attività per la famiglia.
   Nuove consapevolezze influiscono sugli stili di viaggio: una su tutte, l'importanza dell'ecologia e dello sviluppo sostenibile. Un tema su cui Israele offre un'incredibile quantità di esperienze da conoscere: dalla gestione dell'acqua allo sviluppo di energie rinnovabili, dalle invenzioni per l'agricoltura in zone aride alle pratiche green nella metropoli Tel Aviv, che recentemente ha lanciato l'electric road pilot e che da sempre ha messo in pratica circuiti virtuosi per la tutela dell'ambiente.
   Direttamente legata alla leggendaria ospitalità israeliana, poi, è la tendenza a vivere il più possibile le local experience: una cena dopo una cooking class in Galilea, la visita di un atelier d'arte o di design assieme all'artista che ci lavora, un tour per le boutique di Tel Aviv assieme a un personal shopper che svela i segreti dei fashion designer israeliani, un giro per i mercati di Gerusalemme assieme a uno chef del posto e molto altro ancora. Food, artigianato, design, arte: esperienze autentiche e contatto con i locals sono le parole d'ordine del nuovo modo di viaggiare …e ancora una volta, Israele parte avvantaggiata dato che possiede già nel suo DNA questo prezioso bagaglio.
   Da ultimo, il trend più diffuso: la mindfulness: parola d'ordine del nuovo modo di viaggiare, un viaggio consapevole e non solo spirituale, per questo più arricchente. Mindfulness è riscoprire tutto ciò che la vita ci sta offrendo nel momento in cui realmente la stiamo vivendo. Chiunque abbia visitato qualcosa di nuovo almeno una volta nella vita, sa quanto stupore e quanta cura ha messo affrontando quell'esperienza. Così con l'atteggiamento di mindfulness in viaggio si recupera lo sguardo del principiante e se ne apprezzano tutti gli aspetti con entusiasmo e consapevolezza. Facile, in Israele, meta che sa stupire e affascinare anche i viaggiatori più navigati.
   Allo stand Israele un claim creato per l'occasione: Israele nel cuore, per sognare insieme e prepararsi al viaggio!

(ESG89 Group, 12 ottobre 2020)


Israele: accordo di normalizzazione approvato dal governo

Il 20 ottobre attesa la delegazione emiratina

GERUSALEMME - Il governo israeliano ha votato oggi a favore della ratifica dell'accordo di normalizzazione delle relazioni con gli Emirati Arabi Uniti, firmato il 15 settembre scorso a Washington, alla presenza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e del ministro degli Esteri emiratino, Abdullah bin Zayed. Giovedì, 15 ottobre, l'accordo sarà votato dal parlamento, la Knesset, e successivamente il governo ratificherà formalmente l'accordo. Netanyahu ha dichiarato che Israele prevede di accogliere la delegazione degli Emirati Arabi Uniti il 20 ottobre, composta anche dai ministri delle Finanze e dell'Economia emeratini, per promuovere investimenti, accordi nel settore dell'aviazione, accordi scientifici e tecnologici e scambi di ambasciate con Israele. Prima del voto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il principe ereditario, Mohammed bin Zayed al Nahyan, hanno avuto un colloquio telefonico, durante il quale hanno discusso del rafforzamento delle relazioni bilaterali e delle prospettive di pace nella regione. Secondo quanto riferiscono i media emiratini, il principe ereditario ha detto: "Abbiamo discusso del rafforzamento dei legami bilaterali ed esaminato le prospettive di pace e la necessità di stabilità, cooperazione e sviluppo nella regione". Da parte sua, l'ufficio di Netanyahu ha fatto sapere che il primo ministro e il principe ereditario "hanno deciso di incontrarsi presto". "Questo è il primo accordo di pace che Israele ha firmato in oltre 25 anni. Allo stesso tempo, stiamo concludendo gli accordi con il Bahrein", ha affermato Netanyahu. Il primo ministro ha anche affermato: "Questo accordo differisce dai precedenti (gli accordi di pace conclusi con Egitto e Giordania) in quanto Israele non rinuncia a nessun territorio". L'accordo significherà "l'apertura dei cieli dell'Arabia Saudita agli aerei israeliani, aerei da Israele e aerei verso Israele. Ciò significa che Israele cessa di essere un vicolo cieco, ma diventa un importante crocevia", ha aggiunto Netanyahu.
  Il governo degli Emirati Arabi Uniti e dello Stato di Israele aspirano a realizzare la visione di un Medio Oriente stabile, pacifico e prospero a beneficio di tutti gli Stati e i popoli della regione, si legge nel preambolo del Trattato. Inoltre, le parti auspicano a stabilire relazioni di pace, diplomatiche e di amicizia, oltre alla piena normalizzazione degli legami tra governi e popoli, secondo questo trattato, e avviare un nuovo percorso per sbloccare il vasto potenziale dei loro paesi e della regione. Le parti ritengono che l'ulteriore sviluppo di relazioni amichevoli sia nell'interesse di una pace definitiva nel Medio Oriente e che le sfide possono essere risolte soltanto attraverso la cooperazione e non con i conflitti. Le parti sono determinate a raggiungere una pace definitiva, stabilità, sicurezza e prosperità per entrambi gli Stati e per sviluppare e rafforzare le loro dinamiche e innovative economie. I governi di Emirati ed Israele ribadiscono il loro impegno condiviso a normalizzare le relazioni e a promuovere la stabilità attraverso l'impegno diplomatico, l'incremento della cooperazione economica e il vicino coordinamento.
  Le parti riaffermano, inoltre, il loro comune pensiero che l'avvio della pace e la piena normalizzazione tra loro possa aiutare a trasformare il Medio Oriente a spingere la crescita economica, rafforzare l'innovazione tecnologica e creare relazioni più vicine tra le persone. Emirati e Israele riconoscono che il popolo arabo ed ebraico discendono da un progenitore comune, Abramo, e sono ispirati, in questo quadro, a promuovere nel Medio Oriente una realtà in cui musulmani, ebrei, cristiani e persone di tutte le fedi, credo e nazionalità vivano e si impegnino verso uno spirito di coesistenza, comprensione reciproca e mutuo rispetto. Inoltre, le parti, ricordando la presentazione del piano "Vision for Peace" del presidente statunitense Donald Trump lo scorso 28 gennaio, si impegnano a proseguire i loro sforzi per raggiungere una soluzione giusta, comprensiva, realistica e durevole del conflitto israelo-palestinese. Inoltre, ricordando i trattati di pace siglati da Israele con l'Egitto (nel 1979) e con la Giordania (1994) le parti si impegnano a lavorare insieme per realizzare una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese che incontri le necessità legittime e le aspirazioni di entrambi i popoli e per far creare una pace, stabilità e prosperità condivisa in Medio Oriente. Le parti sottolineano che la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati sia nell'interesse di entrambi i popoli e contribuisca alla causa della pace nel Medio Oriente e nel mondo. Inoltre, esprimono profondo apprezzamento verso gli Stati Uniti per il profondo contributo a questo risultato storico.

(Agenzia Nova, 12 ottobre 2020)


Casale Monferrato - Massimo Cacciari ospite della Comunità Ebraica

 
Massimo Cacciari
Il filosofo inaugura, il prossimo 25 ottobre, una nuova serie di appuntamenti culturali nei locali di vicolo Salomone Olper: una stagione che ci accompagnerà fino a Chanukkah
   Dopo una piccola pausa, dovuta a un fitto calendario di festività ebraiche, riprendono gli appuntamenti culturali alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato.
   Il prossimo evento in Sinagoga domenica 25 ottobre, alle ore 16 permetterà di incontrare uno dei più importanti intellettuali italiani contemporanei: Massimo Cacciari impegnato insieme a Giulio Disegni, vicepresidente dell'UCEI, e Michele Rosboch, professore di Diritto all'Università degli Studi di Torino a ragionare intorno a "L'idea di giustizia dal pensiero classico a ebraismo e cristianesimo". E' un tema che parte dalle radici storiche dei rapporti umani fino ad affrontare le tematiche più attuali del nostro concetto di giustizia. Una riflessione che tre relatori di questo livello sono in grado di affrontare da angolazioni diverse e coincidenti.
   Massimo Cacciari è considerato uno dei più autorevoli filosofi teoretici contemporanei. Nato a Venezia. città di cui è stato Sindaco, è stato Direttore del Dipartimento di Filosofia dell'Accademia di Architettura di Lugano e nel 2002 ha fondato la Facoltà di Filosofia presso l'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, di cui è il primo preside. Dal 2012 è professore emerito di Filosofia presso lo stesso Ateneo. E' stato co-fondatore e co-direttore di alcune delle riviste che hanno segnato la vita politica, culturale e filosofica italiana e autore di decine di pubblicazioni, La sua ricerca teoretica si concentra nel "trittico": Dell'Inizio, Milano 1990; Della cosa ultima, Milano 2004; Labirinto filosofico, Milano 2014.
   Michele Rosboch, vanta una lunga carriera universitaria e di studi, oltre che in giurisprudenza anche in storia del diritto, paleografia e diplomatica. Professore Associato oggi è titolare di Storia del diritto italiano ed europeo presso il Dipartimento di Giurisprudenza di Torino (sede di Torino) e tiene anche i corsi di Diritto comune e Storia delle dottrine politiche nella sede di Cuneo.
   Giulio Disegni Vice Presidente e Assessore al Patrimonio UCEI - Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, giurista e cassazionista, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia in tema di diritto che di storia ebraica.

(Casale News, 12 ottobre 2020)


Così Europa e Stati Uniti possono fermare la minaccia Erdogan

Sono tre le vie per contenere Ankara: sospendere la Turchia dalla Nato, chiudere il processo di adesione alla Ue e prendere le distanze dal Qatar. L'origine del malessere è l'innesto del risveglio del paradigma ottomano in un islamismo radicale nonché il leader che incarna questa unione.

di Bernard-Henry Lévy

Ai tempi di Lamartine e Chateaubriand, si diceva della Turchia che era «il malato d'Europa». Due secoli dopo, sta diventando colei che fa ammalare l'Europa e, oltre l'Europa, il Mediterraneo e il Vicino Oriente. I sintomi di questo malessere sono ben noti: la sanguinosa invasione del Kurdistan siriano; il controllo di ogni velleità democratica nella parte occidentale della Libia; lo scontro con Cipro e, attualmente, con la Grecia al largo di Kastellorizo; l'episodio della fregata francese minacciata il 12 giugno al largo di Tripoli e la guerra quasi aperta, tramite l'Azerbaijan, con la piccola Repubblica d'Armenia.
   Anche l'origine di tutto questo è abbastanza chiara e tre anni fa gli dedicai un'intera parte di L'Empìre et les cinq roi: il risveglio del paradigma ottomano e la nostalgia dei tempi in cui la Sublime Porta regnava sulla patria di Cristo e su quella di Socrate; l'innesto di questo progetto imperiale in un islamismo radicale, versione Fratelli Musulmani, di cui Ankara vuole essere la Mecca; senza contare la personalità singolare, per non dire caratteriale, dell'uomo che, fino a nuovo ordine, incarna questa combinazione esplosiva.
   La vera questione, dunque, non è più quella della diagnosi, ma dei rimedi di cui disponiamo, insieme al nostri alleati americani, per contenere la minaccia. Ne vedo, a medio e breve termine, tre.
   1. La Turchia è membro della Nato. In realtà, lo è dal 1952. E so che nel Trattato non esiste alcuna disposizione che preveda l'espulsione di un Paese membro. Ma può essere questo un motivo per accettare, come se fosse una cosa scontata, la vicinanza a un regime che sta massacrando, in Kurdistan, i nostri più fidati alleati nella lotta contro il Daesh?
   Non dovremmo almeno sollevare la questione del doppio gioco di un Paese che compra i suoi caccia F-16 dagli Stati Uniti e il sistema di difesa dello spazio aereo S-400 dalla Russia? E quanto vale l'eterna tesi secondo cui bisognerebbe evitare di gettare questo Paese nelle braccia di Putin quando vediamo che sta già moltiplicando i gesti di amicizia non solo con Putin, ma con l'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che è l'alleanza rivale della Nato?
   Bisogna sospendere la Turchia. E bisogna, come minimum minimorum, richiamarla al rispetto degli articoli 1 e 2 del trattato, che impegnano i membri a "risolvere pacificamente le controversie internazionali" in cui in cui si trovassero coinvolti.
   2. Questa stessa Turchia autoritaria e guerrafondaia ha un potente alleato che finanzia le sue provocazioni e che venne in suo aiuto, per esempio, quando, nell'estate del 2018, Erdogan prese in ostaggio il pastore Andrew Brunson e le sanzioni americane rischiarono di far saltare la sua moneta nazionale: il Qatar.
   Orbene, la stessa amministrazione americana ha appena annunciato, attraverso uno dei suoi sottosegretari di Stato, che offrirà al Qatar l'invidiabile status di "major non-Nato ally" (importante alleato fuori dalla Nato). Questo status, ricordiamolo, consente un accesso privilegiato alle attrezzature militari del Pentagono e alle relative tecnologie. Ne beneficiano, per il momento, Paesi come Israele, Australia, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Nuova Zelanda e Ucraina. L'Emirato che non bada a spese per destabilizzare l'Egitto, silurare l'accordo di pace tra Abu Dhabi e Gerusalemme o sostenere lo sforzo bellico di Hamas e di Hezbollah, in stretto collegamento con Ankara, come abbiamo visto, ha un suo posto in questo club?
   Dato che conosciamo il ruolo che non ha mai smesso di svolgere, nonostante ospiti una delle più importanti basi americane della regione, nell'aggirare le sanzioni contro l'Iran, non è forse follemente imprudente suggellare un'alleanza con questo Stato, potendo immaginare l'uso che se ne farebbe nel caso in cui le relazioni con la Turchia volgessero alpeggio? E come non sperare che le ultime menti responsabili di Washington ritardino una decisione che, presa in questo modo, in fretta e senza contropartite, non può che mettere le ali all'uomo che, insieme a Putin, è il nemico pubblico numero uno delle democrazie? Avviso al prossimo presidente degli Stati Uniti: se si vuole contenere la Turchia, ci si deve allontanare dal Qatar.
   3. E poi c'è la questione dell'adesione all'Europa. Se ne parla poco. E non sono nemmeno sicuro che i leader europei stessi ce l'abbiano troppo presente. Ma il processo di adesione, iniziato nel 2005, è ancora in corso. Sono stati aperti 16 capitoli di una trattativa che, per statuto, ne conta 32 e, ad eccezione di uno, essi sono ancora aperti. I funzionari sono all'opera. Esiste un "Consiglio di associazione" che si è riunito nel 2019. E, senza parlare dei tre miliardi di sussidi ottenuti dall'Unione al termine di un ripugnante ricatto sui migranti, centinaia di milioni di aiuti vengono versati ad Ankara ogni anno a titolo di pre-adesione.
   Si può sempre dire che nessuno in Europa ci crede veramente e che questa è una delle aberrazioni o, forse, delle inerzie del cui segreto è depositaria la burocrazia comunitaria. Può darsi. Ma non è il caso della Turchia. E per chi si prende la briga di leggere un mappamondo attraverso gli occhi degli ideologi del panturanesimo [il mito politico della riunificazione dei popoli di stirpe turca dall'Anatolia agli altopiani dell'Asia centrale, ndf], neo-ittiti o neo-bizantini che danno a questo 'progetto neo-ottomano la sua cornice immaginaria e, come ai tempi di Solimano, di Mehmed II o di Enver Pasha, vedono l'Europa come una terra di conquista, la questione ha un significato simbolico completamente diverso...
   Non vedo perché questo simbolo debba essere regalato ad Ankara. Sarebbe suicida lasciare che i suoi lupi grigi tengano un piede nella porta semiaperta dell'Unione per farla saltare meglio. Una porta deve essere aperta o chiusa, disse Churchill a Inönü nel gennaio del 1943. Tra i valori dell'Europa e il patto di non aggressione che aveva firmato con i nazisti due anni prima, egli doveva scegliere. E così che bisogna parlare con Erdogan oggi. Ed è così che lo terremo a freno.

(la Repubblica, 12 ottobre 2020)


L'ebrea colta che sdoganò il Duce

A Roma 50 opere della collezione di Margherita Sarfatti: l'amante di Mussolini lo introdusse all'arte e ai salotti. Scrittrice raffinata dette vita durante il ventennio al movimento Novecento Italiano.

di Letizia Cini

 
Sarfatti ospite al Kulturbund di Vienna, dove parla dello stile di vita del 20esimo secolo sotto Mussolini.
Tra il pubblico anche A. Mahler e F. Werfel
ROMA La Peggy Guggenheim italiana, una femminista ante litteram. Eppure il nome di Margherita Grassini Sarfatti (Venezia, 1880 - Cavallasca, 1961) è indissolubilmente legato a quello del Duce: a lei e al suo salotto borghese di corso Venezia il capo del Fascismo dovette lo "sdoganamento" che lo ha reso accettabile alla Milano "bene". I due, che si erano conosciuti nella redazione del giornale socialista Avanti!, divennero amanti nel 1913 e il loro rapporto, travolgente e burrascoso, costellato di reciproci tradimenti, proseguì anche quando Mussolini prese la guida del governo.
   La biografia Dux, che l'affascinante, colta e raffinata scrittrice pubblicò nel 1925, ne celebrò l'ascesa e venne tradotta in 19 lingue. La coppia clandestina comunicava attraverso messaggi cifrati, privi di saluti e firme. II primo incontro a Roma costrinse il capo del governo a sgattaiolare di nascosto nell'albergo di Margherita e ciò mise in allarme i servizi segreti. Ma è proprio sull'altare dell'arte che naufragò il loro rapporto: lei, promuovendo i sette pittori del suo movimento Novecento costituito a Milano nel 1922, portava avanti quell'idea di un'Arte di Stato che lui rifiutava, come sottolineò durante il suo intervento all'inaugurazione della mostra.
   Fu così che, nel 1929, Margherita Sarfatti ebbe il benservito: l'amante le scrisse, dandole del voi, una lettera sprezzante nella quale le chiedeva di smetterla sul tema dell'arte fascista. La polizia politica, che aveva cominciato ad occuparsi di lei, definì la Sarfatti «un'agente dell'internazionale ebraica contraria al partito». Le divergenze con il Duce sull'alleanza con la Germania fecero il resto. Nel 1938, dopo l'emanazione delle leggi razziali, la prima donna critico d'arte europea, poliglotta, colta ed emancipata, lasciò l'Italia e riparò in Uruguay e in Argentina.
   Arrendevole in amore, Margherita Sarfatti nella vita fu donna di potere, mecenate e grande scopritrice di talenti, protagonista della scena culturale negli Anni Venti. Due artisti l'avevano stregata: il pittore Mario Sironi, al quale fu legata anche da un lungo rapporto, e lo scultore Adolfo Wildt. Ed è ai lavori dei due maestri che dedica ampio spazio la mostra curata da Fabio Benzi, inaugurata sabato nella Galleria Russo di Roma: 50 opere, in gran parte provenienti dalla sua collezione. «Margherita Sarfatti era una collezionista compulsiva e appassionata, molto più varia e creativa di quanto si creda - spiega il curatore -. Legata al gruppo di Novecento, in casa aveva Cagli, Pirandello e altri autori romani, opere di futuristi come Boccioni e Balla, e grandi artisti stranieri».
   In mostra, fra le opere di Sironi spiccano l'Autoritratto a carboncino del 1906, gli 11 tra marmi e bronzi di Wildt, Medardo Rosso, Gino Severini, Achille Funi e un ritratto del 1927 di Giorgio De Chirico, con dedica alla Sarfatti datata 1931. Vera chicca, la Natura morta con aragosta dipinta da Gino Severini nel 1932 e appartenuta a Benito Mussolini.

(Nazione-Carlino-Giorno, 12 ottobre 2020)


Da Cuore a Cuore: un aiuto da Israele durante l'emergenza Covid 19

di David Zebuloni

«Durante le festività di Pesach mi sono ritrovato a parlare con alcuni Shlichim passati del Bnei Akiva Italia.
   Ci affliggeva ciò che stava vivendo la Comunità ebraica italiana durante l'emergenza Covid e abbiamo deciso che dovevamo assolutamente fare
   qualcosa a riguardo», spiega Uria Lazare, attuale Shaliach del Bnei Akiva Milano. «Insieme a Alon Ben Yosef, ex Shaliach a Roma e colonna portante di questo straordinario progetto, ci siamo messi all'opera».
   I due hanno contattato gli Shlichim del Bnei Akiva e dell'Hashomer Hatzair di tutte le generazioni passate, esponenti del Keren Kayemeth, Keren Hayesod e decine di altri israeliani che avevano a cuore la causa ebraica italiana. «Così è nato il nome del nostro piccolo grande progetto: da Cuore a Cuore. Perché tutto è stato fatto con il cuore».
   L'iniziativa consisteva in una campagna di raccolta fondi da devolvere alle Comunità ebraiche d'Italia. In pochi giorni la campagna è diventata virale, ricevendo così grande visibilità nei media locali. A prenderne parte infatti anche personalità di spicco quali Natan Sharansky, ex Presidente della Jewish Agency, e Yonit Levi, giornalista e conduttrice televisiva.
   «Inizialmente eravamo scettici, ci domandavamo perché mai gli israeliani avrebbero voluto prendere parte ad un'iniziativa simile. Aprire il cuore e il portafoglio a favore di persone a loro sconosciute. In poche ore ci siamo ricreduti: il popolo ebraico è davvero un corpo solo, unito sempre,nel bene e nel male».
   La cifra raggiunta è stata di 750.000 shekel, numero importante considerato il periodo di crisi economica generata dal Covid anche in Israele. Le donazioni sono state interamente devolute alle Comunità ebraiche italiane e tradotte in confezioni di alimentari che sono state distribuite alle famiglie in difficoltà. «Mi emoziona moltissimo parlare della nostra campagna. Credo che essa sia la dimostrazione che esiste un filo invisibile a unire
   Italia e Israele, nonché gli ebrei di tutto il mondo. Quando si dice Am Israel Hai ci si riferisce proprio a questo. Vorrei che ogni ebreo italiano possa vivere con la consapevolezza che la Terra d'Israele è casa sua e che gli israeliani sono suoi fratelli».

(Bet Magazine Mosaico, 12 ottobre 2020)


Dowsett riscrive la storia. "Israel Start Up Nation" alla prima vittoria

Tutto iniziò a Gerusalemme. L'inglese sarà papà a gennaio: «Impresa da narrare». Nel 2018 la corsa rosa partì proprio dallo Stato ebraico

di Stefano Cantalupi

Alex Dowsett
Alex Dowsett
A volte il Giro ti manda dei segnali, sta a te saperli cogliere. Alex Dowsett è stato il corridore che ha aperto la 103' edizione, il primo a scendere dalla pedana nella crono di Monreale. Non è andato granché bene, lui che dalle prove contro il tempo ha avuto il meglio della carriera - sei titoli britannici più un record dell'ora a 52,937 km/h di media, stabilito nel maggio 2015 e frantumato da Wiggins un mese dopo -, ma s'è rifatto alla grande vincendo a Vieste, la perla del Gargano. A distanza di sette anni dall'unico successo nella Corsa Rosa, Dowsett ha indovinato la giornata perfetta: fuga a 6 partita al km 22; gruppo propenso a rilassarsi in vista del tappone di Roccaraso; il compagno di squadra Brandie pronto a fare da stopper su Ravanelli, Holmes, Rosskopf e uno scatenato Puccio. Lui ci ha messo l'acuto decisivo, soffrendo in salita nel circuito finale per poi rintuzzare l'inseguimento degli avversari da vero cronoman. Dopo l'arrivo s'è lasciato andare, regalando al Giro le lacrime di un 32enne che a gennaio sarà papà: «Un giorno racconterò a mio figlio questa impresa».

 Nel segno di Bartali
  È il giorno di Dowsett, ma anche della Israel Start-Up Nation, team ammantato di significati che vanno molto oltre il ciclismo. È nato quest'anno dalle ceneri della Katusha, nonché dai sogni del magnate Sylvan Adams, ebreo canadese che attraverso lo sport vuole promuovere l'immagine di Israele in tutto il mondo. E che a Tel Aviv ha messo i suoi fondi a disposizione affinché venissero realizzate numerose piste ciclabili: una di queste è intitolata a Gino Bartali, «Giusto tra le nazioni» per aver contribuito a salvare quasi mille ebrei durante l'Olocausto. Il Giro 2018 partì da Israele proprio portando questo messaggio, e i corridori della Israel Cycling Academy - ribattezzata «Start-Up Nation» per dare risalto alla vitalità imprenditoriale della nazione - sono tutti ambasciatori. Come cambia la geografia del ciclismo: a poche settimane dalla prima squadra araba a vincere il Tour de France, ecco il primo team israeliano a conquistare una tappa al Giro.

 Più forte dell'emofilia
  Storico Dowsett, dunque, per usare le parole di Adams a fine tappa. Storico e resiliente. Costretto a convivere con l'emofilia per tutta la carriera, Alex ha un umorismo tutto British («quando ho visto quel cagnolino libero sul rettilineo d'arrivo, ho pensato che il 2020 non avesse ancora finito con me»). E non si sottrae a nessun giornalista, men che meno nel giorno in cui è proprio lui, l'uomo venuto dall'Essex per tirare le volate agli sprinter, a essere assediato dai microfoni. Solo alza un sopracciglio alla domanda più infelice: «L'arrivo di Froome in squadra nella prossima stagione? Fantastico, ma non so se ci sarò io. Al momento non ho un contratto...»

(La Gazzetta dello Sport, 11 ottobre 2020)


Manifestazioni contro Netanyahu in Israele

Arresti a Tel Aviv e Gerusalemme

GERUSALEMME - Migliaia di israeliani hanno protestato sabato sera contro il primo ministro, Benjamin Netanyahu, in oltre mille differenti manifestazioni che si sono svolte in tutto il paese. Malgrado le limitazioni imposte dalla serrata per limitare la diffusione del Covid-19, i manifestanti portano avanti la loro battaglia. A Tel Aviv sono stati segnalati scontri tra manifestanti e polizia mentre le autorità cercavano di fermare gli attivisti che marciavano per le strade. La polizia ha detto di aver arrestato otto manifestanti a Tel Aviv e Gerusalemme. Principalmente i manifestanti chiedono le dimissioni del primo ministro per la gestione della pandemia sanitaria e per i presunti reati di corruzione.
   Le manifestazioni di protesta contro la risposta del governo Netanyahu alla pandemia di Covid-19 si sono susseguite nel corso degli ultimi mesi. A luglio i dimostranti si sono radunati davanti alla residenza del primo ministro per contestare la gestione fallimentare da parte del governo della pandemia. Il 21 settembre scorso la polizia ha arrestato undici persone durante le manifestazioni contro il primo ministro davanti alla sua residenza ufficiale a Gerusalemme. Altre persone hanno manifestato davanti alla residenza privata di Netanyahu a Cesarea. Gli arrestati sono accusati di aver disturbato l'ordine pubblico e di violenza a pubblico ufficiale. A causa delle restrizioni previste dalla seconda serrata per contenere la diffusione del Covid, i manifestanti possono riunirsi in gruppi formati al massimo da 20 persone.

(Agenzia Nova, 11 ottobre 2020)


L'Ue all'Anp: niente fondi senza la ripresa dei rapporti con Israele

Sia pure in un’ottica dichiaratamente anti-israeliana, in certi momenti “il manifesto” è l’unico giornale a dare certe informazioni su quello che si muove in Israele. NsI

di Michele Giorgio

Costretti a tifare per Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca pur sapendo che il candidato democratico, se eletto, non annullerà il riconoscimento Usa di Gerusalemme come capitale di Israele e altre mosse di Donald Trump in Medio oriente; sotto attacco delle monarchie del Golfo per la condanna della normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati e Bahrain, i dirigenti dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) ora devono fronteggiare le pressioni dell'Unione europea.
   Stando al portale d'informazione Axios, Bruxelles avrebbe comunicato al governo del premier Mohammed Shttayeh che non prevederà aiuti aggiuntivi fintanto che i palestinesi rifiuteranno di accettare per motivi politici i fondi, in tasse e dazi doganali, raccolti da Israele per conto dell'Anp. L'indiscrezione è stata confermata al manifesto da un funzionario del governo palestinese, che ha chiesto di rimanere anonimo, con la precisazione che «la questione è in discussione dietro le quinte» della diplomazia.
   Dietro l'intimazione europea giunta, riferisce Axios, dal responsabile della politica estera dell'Ue, Josep Borrell, ci sarebbe la sospensione del piano di annessione a Israele di porzioni della Cisgiordania palestinese decisa dal premier Benyamin Netanyahu nel quadro del recente accordo di normalizzazione tra lo Stato ebraico e gli Emirati.
   Tre paesi in modo particolare, Francia, Germania e Norvegia - ai quali si è unita la Gran Bretagna quasi fuori dall'Ue - chiedono all'Anp di revocare subito il blocco dei 750 milioni di dollari fermi da mesi in Israele. Con quei fondi disposizione, spiegano, la richiesta palestinese di aiuti supplementari non ha senso. Per l'Anp invece dietro alla giustificazione europea c'è un obiettivo politico: imporre ai palestinesi di riallacciare i rapporti con Israele senza alcuna garanzia.
   A maggio, in risposta all'annuncio del piano di annessione della Cisgiordania, il presidente palestinese Abu Mazen e il premier Shttayeh comunicarono l'interruzione di ogni relazione con Israele (ma la cooperazione di sicurezza tra le due parti non si è mai interrotta).
   Avvertirono che l'Anp non accetterà altro che il versamento nelle sue casse di tutti i fondi derivanti dalla raccolta di tasse e dazi doganali, senza decurtazioni da parte di Israele. Abu Mazen avrebbe spiegato agli europei che vuole da Netanyahu un documento ufficiale di rinuncia all'annessione della Cisgiordania. Il premier israeliano da parte sua parla di stop temporaneo del suo piano.
   In ballo ci sono circa 150 milioni di dollari al mese dai quali il governo Netanyahu trattiene la percentuale corrispondente ai sussidi mensili che l'Anp versa alle famiglie dei prigionieri politici e a quelle dei «martiri», i palestinesi uccisi da israeliani in varie circostanze, inclusi autori di attacchi armati.
   Per Israele quei sussidi sono un «incentivo al terrorismo» e una minaccia alla sua sicurezza. Per l'Anp invece sono parte di programmi assistenza sociale previsti anche in altri paesi durante o dopo un conflitto.
   «L'Ue vuole imporci la ripresa delle relazioni con Israele. E ci chiede di piegarci alle imposizioni israeliane. Per noi è inaccettabile e vogliamo tutti i nostri fondi, senza tagli, come è previsto dal Protocollo di Parigi», ha spiegato la nostra fonte riferendosi alle intese economiche tra Israele e palestinesi successive agli Accordi di Oslo del 1993-94.
   Il diktat europeo mette in ginocchio l'Anp che da cinque mesi paga solo metà dello stipendio ai suoi impiegati (oltre centomila) e fa i conti con le conseguenze economiche del coronavirus in Cisgiordania.

(il manifesto, 11 ottobre 2020)


Attentato alla sinagoga di Roma, una nuova pista trentotto anni dopo

Era il 1982, autunno, morì un bambino di due anni, «un bambino italiano», come l'ha ricordato nel 2015 il presidente Sergio Mattarella. Trentotto anni dopo, sull'attentato più grave contro gli ebrei in Italia dal secondo dopoguerra, non è fatta ancora luce. Possiamo tuttavia ricostruire nuovi gradi di responsabilità e analisi grazie all'acquisizione in esclusiva per l'Espresso di alcuni documenti e alla cancellazione del segreto di Stato voluto dal governo Renzi.
  Il 9 ottobre 1982 fuori dal Tempio Maggiore di Roma, la sinagoga, c'è molta gente. È una giornata di festa per i tanti ebrei romani, è shabbat e le strade intorno sono popolate da famiglie e bambini per i tanti Bar Mitzwah, la cerimonia di ingresso dei ragazzi nella vita della comunità, e per la cerimonia dello Shemini Atzeret (la benedizione dei bambini) per la chiusura della festa di Sukkot. Il Tempio Maggiore di Roma sorge su Lungotevere de Cenci, proprio davanti l'isola Tiberina, alle spalle si snodano le vie e la vita del Ghetto di Roma, il cuore più antico della Capitale. Alle 11 e 50 cinque uomini, vestiti in modo distinto, si avvicinano al Tempio e si dividono in tre gruppi, uno per coprire la fuga si colloca alle spalle della sinagoga, su via Catalana, altri si collocano davanti all'ingresso. Un agente della sicurezza interna della Comunità Ebraica di Roma chiede ai due di identificarsi: in quel preciso istante il commando, alzando le mani con due dita a segno di "V" - gesto di vittoria tipo dei gruppi estremisti palestinesi - dà il via all'azione, con il lancio di tre bombe a mano corredate, qualche istante dopo, da varie sventagliate di mitra sulla folla. Per le ferite riportate in seguito all'esplosione morirà un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, suo fratello Gadiel di quattro anni sarà ferito in modo grave alla testa e all'addome e altri 37 ebrei romani rimarranno feriti.
  È l'attentato più grave in Italia dalla fine della guerra ai danni degli ebrei: viene digerito dal dibattito pubblico in modo quasi indolore. La classe politica poi non cambierà l'atteggiamento nei confronti dell'Olp di Yasser Arafat, la memoria della città per lungo tempo estrometterà in modo naturale quel giorno, vedendolo come una "questione ebraica". Ci vorrà tempo prima che Stefano Gaj Taché e la sua memoria escano dall'oblio, dall'essere catalogati come un episodio laterale della storia del nostro Paese. Solo nel 2007 l'allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, intitola a Stefano un largo proprio dove avvenne l'attentato. E nel 2015 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli dedica un passaggio significativo del suo discorso di insediamento alle Camere: «(L'Italia) ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell'odio e dell'intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell'ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano».
  Un cammino lungo decenni, una ferita resa difficile da rimarginare anche dalle numerose omissioni processuali. Al momento infatti conosciamo solamente il movente, una ritorsione per l'invasione del Libano da parte di Israele, e l'identità di un attentatore: Osama Abdel Al Zomar, arrestato undici giorni dopo l'attentato al confine tra Grecia e Turchia mentre portava del materiale esplosivo, poi quasi subito rilasciato e condannato in contumacia dal Tribunale di Roma, ma che per quella morte non ha mai scontato un giorno di prigione. Nonostante il tempo trascorso, la Comunità Ebraica di Roma ha non mai smesso di chiedere l'estradizione per Al Zomar e maggior chiarezza alla politica italiana, appelli caduti nel vuoto perché troppo spesso configgevano con gli interessi italiani nel mondo arabo.
  Tuttavia, un atto siglato da Matteo Renzi nell'aprile del 2014 che ha tolto il segreto di Stato su numerosi dossier, ci consente oggi, grazie all'acquisizione in esclusiva de "L'Espresso", di ricostruire nuovi gradi di responsabilità e nuovi livelli di analisi dell'attentato.
  Anzitutto, dalle carte dei servizi di sicurezza si comprende quanto sia stata sottovalutata la richiesta di incrementare e sorvegliare il Tempio di Roma, richiesta che il Rabbino Capo Elio Toaff avanza nell'inverno del 1982 e che è resa improrogabile da un attentato senza particolari conseguenze che avviene il 18 febbraio, quando una bomba a mano viene scagliata davanti al portone della sinagoga, non facendo nessuna vittima. La notizia dell'accaduto è trasmessa, si legge dalle carte, solamente il 26 febbraio, con la dicitura «ritardata segnalazione per tardiva notizia». Le segnalazioni ignorate sono una costante nei giorni che precedono l'attentato. Lo è ad esempio quella che giunge il 26 settembre 1982 alle 17 e 45 al Comando dei Vigili Urbani di Roma, che raccoglie una voce femminile che dichiara: «Questo è un comunicato contro i servizi dello Stato. Tra quindici minuti esploderà una bomba nella Sinagoga degli ebrei». Polizia e Carabinieri, come scrivono i rapporti, non troveranno nulla sul posto.
  Nel frattempo, come scrivono gli stessi servizi di sicurezza, l'Europa è attraversata da episodi similari, ad indicare come nonostante la leadership apparentemente granitica di Yasser Arafat, nei territori palestinesi e nei campi libanesi una frangia molto corposa inizi a muoversi alle sue spalle. Ma a farne le spese saranno gli ebrei europei. Infatti il 3 giugno dell'82 la Brigata "Al Siffa" composta da palestinesi, libanesi e libici compie un attentato contro l'ambasciata israeliana a Londra; il 18 settembre a Bruxelles fu compiuto un attentato - similare a quello di Roma - davanti alla sinagoga, dove rimasero feriti quattro fedeli appena usciti dal Tempio. Attentati diversi che videro l'utilizzo delle stesse armi: una mitraglietta "Massinoway W63" di fabbricazione sovietica che fu utilizzata anche per l'uccisione dell'avvocato Cotello in Spagna, nel 1980, compiuta dal palestinese Said Salman, appartenente alla fazione "Abu Nidal". Cotello fu vittima di uno scambio di persona: l'obiettivo di Salman era infatti il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche spagnole Max Mazin. Come si legge negli atti, secondo i servizi di intelligence, anche per questo motivo le azioni consecutive in Europa non sarebbero da ascrivere all'Olp ma alla cellula "Al Assifa" di Abu Nidal.
  Nei documenti redatti nelle ore successive all'attentato del 9 ottobre 1982 a Roma, oltre alla ricostruzione della dinamica, si fanno i nomi di tunisini identificati nei giorni precedenti davanti alla Sinagoga e nei giorni successivi di ipotetici appartenenti al commando che ha compiuto l'attentato. Nomi che non appariranno mai nelle carte processuali e che non saranno mai perseguiti o ricercati. Così come la provenienza sovietica delle bombe a mano e delle mitragliatrici utilizzate non sarà sufficiente per ricostruire la rete di provenienza delle armi.
  Nei cablo redatti nei giorni successivi, oltre all'omessa vigilanza sui luoghi a rischio appare chiara la sottovalutazione di quanto si muovesse nella zona grigia del terrorismo. Dopo le relazioni sull'attentato ormai avvenuto, il 15 ottobre 1982 - sei giorni dopo - viene inviata una missiva al Centro di contro spionaggio del Sismi in cui una fonte straniera avverte che la cellula "Abu Nidal" starebbe pianificando attentati contro sinagoghe, banche, aerolinee, scuole e personale di nazionalità israeliana o religione ebraica in Italia. Questa sigla, ad un certo punto, viene assimilata a quella di una nuova organizzazione nata proprio all'indomani dell'attentato nei campi palestinesi: "Libano Nero".
  Ma è forse l'ultimo documento reso pubblico ad aprire, decenni dopo, una pista poco battuta. Si legge infatti che una fonte internazionale, normalmente attendibile, dichiara che l'attentato a Roma sia stato ad opera del Fronte Internazionale della Liberazione Palestinese di emanazione filo-libica. Come scrivono gli uomini dell'intelligence, «il responsabile in Italia della suddetta organizzazione, Quader Muhammed, alcuni giorni orsono si sarebbe interessato ad obiettivi israeliani a Roma e a Milano, con riferimento alla sede e all'ubicazione dell'ambasciata e della sinagoga nella Capitale. (…) Il soggetto si è allontano da Perugia (luogo del suo domicilio, ndr) circa un mese fa e ha fatto ritorno l'11 ottobre (due giorni dopo l'attentato, ndr)». Quader secondo il rapporto avrebbe alloggiato a Roma in casa di Fathi Abed, agente dei servizi segreti libici. Negli stessi giorni a Roma c'era anche Abu Yosef, esponente del Flp, pianificatore degli attentati terroristici in Europa e confidente di Gheddafi. Proprio il leader libico offrì rifugio all'unico responsabile accertato, Osama Abdel Al Zomar, rifiutando le richieste di estradizione.
  Il fascicolo si conclude con la descrizione del funerale di Stefano Gaj Taché, seguito da settemila persone che si concluse al cimitero del Verano e proseguì con un corteo pacifico degli ebrei romani per le vie della Capitale.
  Una chiusura laconica che decenni dopo ci racconta di come memoria e giustizia vanno spesso di pari passo.

(Panic World, 11 ottobre 2020)


L'autorevole giornalista del Bahrein che non vede l'ora di lavorare con gli israeliani

Al-Sayed, presidente dell'Associazione giornalisti, critica aspramente i colleghi palestinesi che attaccano con violenza lei e il suo paese perché favorevoli alla pace con Israele

Ahdeya Ahmed Al-Sayed, presidente dell'Associazione Giornalisti del Bahrein, si aspetta che i giornalisti del suo paese svolgano un ruolo molto importante e cruciale nel promuovere la normalizzazione con Israele. Al-Sayed dice inoltre che lei e molti suoi colleghi non vedono l'ora di lavorare con i giornalisti israeliani, dopo che il Bahrain è diventato il secondo stato del Golfo a firmare un accordo di pace con Israele. Infine, critica aspramente il Sindacato dei giornalisti palestinesi che ha attaccato lei e il Bahrein per via del trattato di pace con Israele.
"Il giornalismo ha sempre guidato l'opinione pubblica - afferma Al-Sayed in un'intervista esclusiva pubblicata giovedì dal Jerusalem Post - I giornalisti esercitano un grande impatto sull'opinione pubblica. Se vivi in un paese i cui giornalisti rifiutano la normalizzazione e la condannano sistematicamente, sarà molto difficile convincere le persone che questo passo politico è qualcosa di positivo e che va visto in modo positivo"....

(israele.net, 9 ottobre 2020)



Meditando sulla croce di Cristo

di Marcello Cicchese

Che cosa si può mai dire di nuovo sulla croce di Cristo? Non è forse già stato detto tutto quello che si poteva dire? E noi che viviamo in un ambiente cristiano, non abbiamo forse già ascoltato tutti i possibili insegnamenti sulla croce di Cristo? Chi di noi non sa che la riconciliazione degli uomini con Dio è possibile solo attraverso la croce di Cristo (Efesini 2:16, Colossesi 1:20)? e che Dio ha inchiodato sulla croce la dichiarazione scritta del nostro debito con lui (Colossesi 2:14)? e che per mezzo della croce di Cristo Dio ha riportato piena vittoria sui principati e potestà (Colossesi 2:15)? e che dobbiamo predicare Cristo crocifisso e Lui soltanto (1 Corinzi 1:23; 2:2)? Queste cose certamente le sappiamo già.
   Ma chiediamoci, che cos'è la croce di Cristo per noi? Quale rapporto esiste tra noi e la croce di Cristo? Può la croce di Cristo essere soltanto un oggetto della nostra conoscenza? o soltanto una dottrina in cui credere per essere salvati? o soltanto un messaggio che dobbiamo portare agli altri perché anch'essi siano salvati?
    «E chiamata a sé la folla coi suoi discepoli, disse loro: se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a se stesso e prenda la sua croce e mi segua» (Marco 8:34).
Dunque c'è una croce da prendere: la nostra croce. Certo, la nostra croce non è la croce di Cristo, ma è la nostra partecipazione alle sofferenze di Cristo (1 Pietro 4:13). Noi sappiamo di essere membra del corpo di Cristo, ma questa non è soltanto una suggestiva metafora: se partecipiamo al corpo di Cristo, partecipiamo anche alla sua morte e alla sua vita, quindi alle sue sofferenze (Romani 6:8-9, Galati 2:20).
    «Perché a voi è stato dato, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui» (Filippesi 1:26).
Vivendo da discepoli di Gesù Cristo, la sua croce non è più soltanto un oggetto di conoscenza o un capitolo di dottrina, ma diventa un'esperienza. Questa esperienza della croce sarà diversa da caso a caso, ma i suoi caratteri non potranno che essere quelli dell'esperienza fatta da Gesù Cristo. Facciamo qualche esempio.
   L'esperienza della croce è inevitabile per chi vuole servire Cristo. Il discepolo di Gesù non può che riconoscere la sovranità di Dio su tutto il creato e quindi anche sulla sua vita. Di conseguenza egli non può che rinunciare a programmare autonomamente la sua esistenza. Rinunciando al progetto di diventare "qualcuno" nel mondo, sia esso secolare o ecclesiastico, per ricercare soltanto la volontà di Dio, la personalità del discepolo entra in un processo di morte e risurrezione in cui la morte è certa e chiaramente visibile mentre la percezione della risurrezione è spesso differita e deve essere riconosciuta con gli occhi della fede (Matteo 10:39).
   L'esperienza della croce è inevitabile per chi è chiamato ad annunciare la parola di Dio. Quando la predicazione non è propaganda a un prodotto celeste, ma annuncio del giudizio e della grazia di Dio a uomini concreti in situazioni concrete, essa provoca facilmente reazioni in coloro che da queste parole si sentono minacciati nelle loro sicurezze e nei loro illegittimi interessi (Atti 7:1-8, 3:19, 23:41). La grazia di Dio viene così rifiutata perché viene respinto il giudizio di Dio. Ma a far le spese di questo rifiuto è quasi sempre colui che porta la parola di Dio, il quale sente sulla sua pelle l'ostilità di coloro che in realtà rigettano non lui, ma il vangelo di Gesù Cristo.
   L'esperienza della croce è inevitabile per chi vuole «vivere piamente in Cristo Gesù» (2 Timoteo 3:12), e quindi si propone di attenersi in ogni occasione della sua vita nel mondo, sia esso secolare o ecclesiastico, a criteri di verità e giustizia piuttosto che a ragioni di opportunismo e tornaconto personale. Il discepolo di Gesù è una nuova creatura, quindi è chiamato a vivere rapporti nuovi con gli altri uomini, improntati a sincerità, lealtà, spirito di servizio, disinteresse personale. Ma il mondo in cui vive, sia esso secolare o ecclesiastico, giace nel maligno, e ha creato una fitta rete di interessi, prepotenze, falsità, ingiustizie, connivenze. Il discepolo di Gesù, non potendo deflettere né dalla verità né dall'amore, è armato soltanto della sua parola, della sua coerenza, del suo esempio. Si troverà quindi ad essere come un agnello in mezzo ai lupi, tormentato spesso dalla domanda di Geremia: «perché prospera la via degli empi?" (Geremia 12:1), e tuttavia fiducioso che come Dio ha riportato la vittoria sul mondo risuscitando Cristo, così Egli manifesterà la sua giustizia «nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo» (Romani 2:16).

(Credere e Comprendere, novembre 1978)



Cerimonia in onore delle vittime dell'attentato alla sinagoga di Halle

L'attentatore uccise un uomo e una donna in diretta web, vicino alla sinagoga di Halle

di Francesca Angelica Ereddia -

 
La sinagoga di Halle dove si è tenuta la cerimonia in memoria delle vittime dell'attentato
Ieri pomeriggio la presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen ha rilasciato un comunicato, in memoria delle vittime dell'attentato alla sinagoga di Halle, avvenuto esattamente un anno fa.
   Queste le parole della presidente: "Oggi, un anno dopo l'attacco ad Halle, onoriamo le vittime e restiamo accanto alle famiglie. Dobbiamo rimanere vigili e uniti nella nostra lotta contro il razzismo perché tutti hanno diritto ad una vita pacifica". Il 9 ottobre 2019, Stephan Balliet, un neonazista di 27 anni, uccise in diretta web due persone e ferì due passanti in un attentato alla sinagoga di Halle.
   Balliet, in tuta mimetica e con elmetto, quella mattina sparò prima ad una passante e successivamente ad un uomo nel negozio di kebab. Infine è andato in direzione della sinagoga. L'uomo ha registrato i suoi 35 minuti di pura follia, e li ha poi postati su un sito di videogames.
   Nel suo video, prima di aprire il fuoco, lo si sente gridare: "La radice di tutti i problemi sono gli ebrei". Ha poi lanciato degli ordigni contro la sinagoga e ha iniziato a sparare: la porta, però, è rimasta chiusa. "Dio ci ha protetti", osservarono alcuni testimoni.
   Nel pomeriggio di ieri si è dunque tenuta una commemorazione pubblica, dove è intervenuto il presidente federale Frank Walter Steinmeier. Il consiglio ebraico della Germania ha dichiarato: "Lavoreremo ancora più duramente di prima".

(QuotidianoPost.it, 10 ottobre 2020)


l petrolio non rende più: il Golfo fa pace con Israele e le sue start up

di Christian Elia

I simboli, a volte, sono importanti. Alla fine di settembre scorso, la BP (British Petroleum), che è una sorta di azienda-storia del petrolio, ha reso noto di aver investito un miliardo di euro in due impianti eolici con l'acquisto del 50% della società norvegese Equinor, specializzata nel settore delle rinnovabili. La dirigenza di Bp ha inserito nella sua strategia di moltiplicare per venti la sua capacità eolica entro il 2030, salendo da 2,5 a 50 gigawatt.
  Nel suo rapporto annuale, infatti, Spencer Dale, capo economista della BP, ha affermato che la visione dell'azienda del futuro energetico mondiale è diventata più verde a causa di una combinazione della pandemia Covid-19 e del ritmo accelerato dell'azione per il clima, che ha accelerato il "picco del petrolio", che anche nel migliore scenario possibile, il 2019 è stato un punto di svolta nel prezzo del petrolio.
  Anche le concorrenti della BP sembrano della stessa opinione. A conferma di come le grandi 'sorelle' del petrolio, Total e Royal Dutch Shell in testa, siano lanciate verso un futuro senza petrolio. E oggi, dopo l'uscita della EXXON (un'altra 'sorella del petrolio), nell'indice Daw Jones della Borsa di New York resta solo la Chevron. L'intero settore energetico, che un decennio fa valeva il 12% del mercato azionario statunitense, oggi ha un peso inferiore al 2,5%.
  Come raccontato anche in un altro articolo per Gli Stati Generali, interessa capire come i paesi del Golfo Persico ripenseranno il loro futuro. Perché il loro passato e il loro presente, che hanno portato le società dell'Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nel giro di un secolo da essere poveri borghi di pescatori e carovanieri a diventare economie top globali, è stato il petrolio. Ma il futuro è incerto.
  I futures (contratti di acquisto a data futura con un prezzo prefissato) del greggio si attestavano a "meno" 40 dollari al barile a giugno 2020. I prezzi, che avevano raggiunto un picco storico di 148 dollari al barile subito prima della recessione del 2008 (contribuendo a quella crisi), sono scesi sotto i 40 dollari malgrado la ripresa dell'attività economica in Cina. E nel rapporto di BP si scrive che i membri del cartello petrolifero dell'Opec, guidato dall'Arabia Saudita, sopporteranno il peso maggiore del calo della domanda.
  Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il fiscal break even oil price, cioè la sostenibilità fiscale degli oil producers, necessita di un prezzo al barile più elevato che può andare dai circa 40 dollari del Qatar ai 157 dollari dell'Algeria. Il valore che per la federazione degli Emirati Arabi Uniti assicurerebbe un pareggio di bilancio è di 69,1 dollari al barile, in leggera crescita rispetto ai 67 dollari al barile del 2019.
  Per comprendere lo shock sull'economia degli Emirati Arabi Uniti, qualche numero: Abu Dhabi, il principale dei sette emirati per grandezza, produce il 95% del petrolio di tutta la federazione e con le maggiori riserve di idrocarburi (stimate in 92 miliardi di barili) dalle quali dipendono il 50% del suo PIL e il 57% delle entrate fiscali, quote in media più elevate rispetto alla media degli EAU (rispettivamente 30% e 45%). Il 2020 sarà caratterizzato da una contrazione del Prodotto interno lordo di circa il 5% per poi recuperare nel 2021. L'attuale corso del petrolio e la necessità di far fronte agli effetti della pandemia con stimoli fiscali e monetari, porteranno il deficit fiscale ad ampliarsi da un sostanziale pareggio dell'ultimo biennio a un -3,5% del Pil nel 2020.
  Per l'Arabia Saudita, che per reagire al mercato ha sfiorato l'incidente diplomatico con il fido alleato Donald Trump, quando il presidente Usa aveva minacciato sanzioni il 6 marzo scorso dopo l'annuncio del paesi dell'Opec di un taglio dei prezzi per un aumento della produzione ad aprile. Alla fine è stato trovato un accordo - ribattezzato big oil deal - tra Usa, Russia e Arabia Saudita, il 12 aprile 2020, per la storica diminuzione del pompaggio di 9,7 milioni di barili al giorno, tagliando circa il 10% della produzione mondiale. L'accordo, però, ha denunciato il nervosismo di Riad che si è mosso senza sentire gli altri produttori. Cosa mai accaduta in passato.
  L'austerità, sia in Arabia Saudita che negli Emirati, è stata la prima mossa, con tagli fino al 21% della spesa pubblica, ma potrebbe non bastare. Come per ora non è bastata la storica decisione, del 2018, dei due paesi di introdurre per la prima volta nella loro storia l'IVA al 5% su beni, servizi e importazioni. In Arabia Saudita, dopo solo due anni, è arrivata al 15%.
  In questo quadro si inserisce l'accordo che Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno siglato con Israele, all'ombra della benedizione Usa. Al di là del credito elettorale e politico che hanno incassato Trump in campagna elettorale e Bibi Netanyahu travolto dagli scandali, cosa ha spinto EAU e Bahrein - con la silenziosa partecipazione dell'Arabia Saudita - a un accordo che a livello di opinioni pubbliche del mondo arabo è vissuto malissimo?
  Secondo molti osservatori, e secondo quanto emerge dal documento Vision2030, che rappresenta una sorta di roadmap saudita per l'emancipazione da un'economia dipendente dal petrolio, tra le altre cose, c'è il miraggio dell'importazione del modello della 'start up economy' israeliana.
  Una narrazione che, da sempre, accompagna Israele: piccolo e senza risorse naturali, lo stato ebraico ha puntato da tempo a essere una Silicon Valley internazionale. Ma sarà davvero così? E davvero l'economia del modello start up, in particolare nel campo high tech e sicurezza, sono un futuro possibile per le economie del Golfo?
  "Occorre ragionare sul fatto che - e non è solo un problema israeliano - in generale i sistemi di start up si creano quando c'è un intervento strutturato da parte dello Stato. In Israele, ad esempio, c'è la Israel Innovation Authroty (IIA) che si occupa di supporto di vario tipo alla start up economy, tra business e ricerca e sviluppo. Un massiccio investimento statale per un modello costoso e rischioso, in particolare nel settore High Tech", commenta a Gli Stati Generali Clara Capelli, economista, ricercatrice del Cooperation and Development Network, esperta d'area che ha lavorato e vissuto a Tunisi, Beirut e Gerusalemme. "In generale, servirà un attore istituzionale che si fa carico dei rischi e ne condivide parte con i privati. L'altra grande componente è il capitale finanziario privato che decide dove puntare in venture capital con alto rischio. Servirà anche quello per puntare su questa idea di sviluppo."
  Ecco quindi una prima, grande, criticità: se l'idea è di cambiare con un'emancipazione dal 'pubblico' un'economia dove - con i proventi del petrolio - lo stato sosteneva la popolazione in Arabia Saudita e negli EAU, puntare sulle start up potrebbe richiedere ancora più 'pubblico', in una fase dove le casse potrebbero essere vuote. E anche l'impatto sul lavoro, a livello occupazionale, non è detto che sia straordinario. "Quella delle start up non è una filiera come quella, per esempio, dell'automobile, che genera un grande indotto. La ricaduta in posti di lavoro sarebbe difficilmente significativa", aggiunge Capelli, ed è un dato rilevante in paesi che - magari con la classica 'disoccupazione nascosta', cioè le assunzioni inutili nelle aziende petrolifere di stato - hanno creato la piena occupazione per i nativi.
  Infine, l'economia delle start up, al di là della narrazione, ha poi significato un duraturo e diffuso benessere per l'economia israeliana? "Secondo uno studio del Central Bureau of Statistics israeliano del 2018, che prendeva in esame un periodo dal 2011 al 2016, sono state il 37% le start up israeliane fallite. In generale, come modello, si tratta di imprese che durano poco, spesso falliscono, creano poco lavoro e sono molto stressanti. Il rischio imprenditoriale nel settore, oltre che per i costi di ricerca, è molto alto, anche per l'investimento in capitale umano, che nei paesi del Golfo andrà valutato. Si parla troppo dello stay hungry, stay foolish come filosofia, per vendere un'idea di futuro in cui siamo tutti imprenditori di noi stessi, ma è rischioso, non tutti ce la fanno, e quello delle start up non è un tipo di mercato che permette a tutti di starci dentro e di starci bene."
  L'accordo tra EAU e Bahrein e Israele, con la benedizione Usa e la regia saudita, ha avuto una grande risonanza internazionale e ha rappresentato un grande prezzo politico da pagare per gli stati del Golfo, ma almeno rispetto all'investimento economico verso il modello dell'economia delle start up israeliano potrebbe non rendere molto bene.

(Gli Stati Generali, 9 ottobre 2020)


Ree, arriva il pianale pronto uso che cambia le auto elettriche

L'azienda israeliana ha sviluppato un nuovo "rolling chassis" che integra motori, batterie ed elettronica di controllo: così si abbassano costi di produzione e manutenzione

 
A differenza delle automobili con il motore a combustione, che al netto di sinergie e joint-venture mantengono comunque un'identità progettuale propria, le auto elettriche hanno spesso tantissime parti in comune tra modelli e marche anche molto diverse. E la tendenza, in futuro, sarà di insistere con maggior forza in questa direzione, sfruttando architetture prodotte da poche aziende specializzate e adatte a un numero di modelli sempre più ampio. Nel gergo automobilistico si chiamano "rolling chassis": si tratta di pianali che integrano in un unico schema motori, batterie e la parte elettronica di controllo.
L'ultimo spunto in materia arriva da Israele, dove Ree Automotive ha da poco presentato a Beersheba, nel sud del paese, la sua nuova gamma di pianali pronto uso. I costruttori dovranno "semplicemente" montarci sopra la loro scocca e il gioco è fatto. "Abbiamo creato Ree - spiega Ahishay Sardes, co-fondatore e CTO dell'azienda - perché la mobilità elettrica offre così tante opportunità che non ha senso basare il futuro dei veicoli elettrici su concetti ormai superati e con funzionalità ed efficienza limitate. Abbiamo preferito creare una piattaforma definitiva per tutti i veicoli elettrici futuri con una combinazione di matrici quasi illimitata che ci consente di soddisfare in maniera completa le esigenze dei nostri clienti".
Ma qual è il segreto dei pianali Ree? La carta vincente è il cosiddetto "ReeCorner", uno schema che integra tutti i componenti della trasmissione all'interno dell'arco della ruota. In questo modo ogni angolo dell'automobile è completamente indipendente e alimentato da una batteria realizzata in casa. Il motore elettrico ad alto regime è così totalmente molleggiato, mentre ogni singola ruota è dotata di tecnologia sterzante e del sistema frenante digitale Brake by Wire. La soluzione offerta da Ree consente di abbattere drasticamente i costi di manutenzione delle auto e di monitorare costantemente potenziali guasti: per sostituire l'intero ReeCorner con un nuovo componente, infatti, sono sufficienti pochi minuti.

(FormulaPassion.it, 10 ottobre 2020)


Il concetto di "National Home" e il vincolo ebraico con Israele

di David Elber

Intorno al concetto di "National Home" e al suo significato legale nel diritto internazionale, si è molto dibattuto a partire dalla Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917) fin dopo l'istituzione del Mandato per Palestina, nato con il chiaro scopo di creare una "Jewish National Home" per il popolo ebraico nella terra dei padri.
   L'introduzione nel diritto internazionale di questo nuovo termine legale è strettamente connesso all'impianto legale del sistema dei mandati internazionali - anch'esso una novità assoluta nel campo del diritto internazionale - con la sua funzione di creare le basi per l'istituzione di nuovi Stati che, al momento della loro formazione, non erano in grado di reggersi e svilupparsi in maniera autonoma ma necessitavano dell'aiuto internazionale.
   Il termine di "National Home" non fu utilizzato dalla Società delle Nazioni solo per il popolo ebraico e per il suo nascente Stato. Infatti, leggendo i verbali della seconda assemblea della Società delle Nazioni del 1921, si evince che questo termine fu utilizzato anche per la questione relativa alla formazione di una Stato indipendente armeno sotto mandato internazionale. La relativa risoluzione fu adottata dalla sesta commissione della Società delle Nazioni per essere inserita nel trattato di pace con la Turchia. Ma a differenza del Mandato per la Palestina che fu accettato dalla Gran Bretagna in qualità di mandatario, il Mandato di Armenia non trovò nessuna Potenza vincitrice che si assumesse l'incarico di mandatario. Il Supremo Consiglio delle Potenze chiese l'intervento degli USA, ma essi declinarono il compito giudicandolo troppo oneroso in termini economici e di impegno militare. La Francia e la Gran Bretagna si dissero impossibilitati visto i loro impegni con i mandati di Siria, Mesopotamia e Palestina. Il destino dell'Armenia fu così segnato: tra il 1921 e il 1922 le truppe nazionaliste turche occuparono il territorio armeno e posero fine al sogno di indipendenza del popolo armeno. La stessa cosa, forse, si sarebbe replicata anche per l'embrionale Stato degli ebrei se non ci fosse stata la tutela da parte di una potenza mandataria.
   Il destino dell'Armenia avvalora la tesi che il termine "National Home" fosse applicato a situazioni particolari, nei quali i popoli che dovevano diventare indipendenti non erano in grado di farlo, in modo autonomo, ma necessitavano dell'aiuto internazionale per potersi sviluppare e crescere fino a diventare Stati nazionali indipendenti.
   Per questa ragione il principio del "National Home" va contestualizzato nel più ampio principio della tutela delle minoranze e dell'autodeterminazione che ha portato alla creazione della stessa Società delle Nazioni e degli Stati nazionali sorti dopo la Prima guerra mondiale.
   Entrando nel merito dello Statuto del Mandato per la Palestina, si capisce subito che esso ha due principi da portare a compimento, uno di carattere generale: l'Art. 22 dello Statuto della Società delle Nazioni (l'autodeterminazione dei popoli); e uno di carattere peculiare: la dichiarazione Balfour relativa al popolo ebraico. Entrambi sono incorporati nel mandato e quindi legalmente vincolanti.
   Quando si analizza il concetto di "Jewish National Home", contenuto nella Dichiarazione Balfour e applicato dal Mandato per la Palestina attraverso il preambolo, l'Art. 2, l'Art. 4, l'Art. 6, l'Art. 7 e la seconda disposizione dell'Art. 11, si vedono 3 distinti principi:
  • Il popolo ebraico nella sua interezza, e non solamente la parte di popolazione già residente in Palestina, deve avere l'opportunità di partecipare alla creazione dello Stato per il popolo ebraico (art. 4);
  • La comunità ebraica palestinese, aiutata e assistita dall'interezza del popolo ebraico, è in Palestina per diritto e non per acquiescenza (preambolo);
  • La "Jewish National Home" deve essere creata in Palestina (Eretz Israel) ma non necessariamente su tutto il territorio mandatario (art. 25);
Ora proviamo ad entrare, brevemente, in merito ad ogni singolo punto.
   In virtù di questo principio si riconosce al popolo ebraico un carattere di nazionalità proprio, e in forza al principio dell'autodeterminazione, esso può creare il proprio Stato esattamente come tutti gli altri gruppi nazionali riconosciuti. La sua peculiarità risiede nel fatto che solo una parte della popolazione è già residente nel territorio assegnato ma questo non inficia il fatto che gli ebrei residenti in altri paesi non possano partecipare alla formazione dello Stato. Anzi, la prevista creazione di una specifica Agenzia, riconosciuta dal diritto internazionale (l'Agenzia Ebraica nell'art. 4), per questo scopo ne rafforza l'obiettivo. Inoltre come messo in rilievo, nel preambolo del Mandato, dalla frase "Considerando che è stato quindi dato riconoscimento al legame storico del popolo ebraico con la Palestina e ai motivi per ricostituire la loro patria nazionale in quel paese" si capisce che l'utilizzo del verbo ricostruire è un rafforzativo per indicare che lo Stato era già esistito in passato creando una "storica connessione" con il presente tra il popolo ebraico e la terra degli avi. Questo concetto però non implica una "predominanza" ebraica su gli altri abitanti, come chiaramente specificato nel preambolo: "non sarà fatto nulla che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina" e nell'art. 2: " … anche per salvaguardare i diritti civili e religiosi di tutti gli abitanti della Palestina, indipendentemente dalla razza e dalla religione" ma semplicemente che il costituendo Stato degli ebrei dovrà garantire il rispetto dei diritti di tutte le popolazioni già presenti sul territorio. Cosa che è stata ampiamente rispettata dallo Stato di Israele. Un'ultima annotazione è necessaria.
   Quando l'ANP di Arafat prima e Abu Mazen dopo, ha iniziato a mettere in discussione la presenza ebraica nella terra di Israele e l'esistenza del Tempio a Gerusalemme, lo hanno fatto con il preciso intento di mettere in discussione la "storica connessione", che è alla base del diritto internazionale inerente a Israele. L'analogo attacco orchestrato dai paesi musulmani - con la compiacenza quasi totale dei paesi della UE - all'UNESCO aveva lo stesso scopo: cancellare le fonti di diritto internazionale relative allo Stato di Israele.
   Questo principio è espresso dal legislatore nel preambolo "…il legame storico del popolo ebraico con la Palestina",
  • all'art. 4 " l'Organizzazione Sionista … Adotterà misure in consultazione con il governo di Sua Maestà Britannica per garantire la cooperazione di tutti gli ebrei che sono disposti ad aiutare nella creazione della casa nazionale ebraica",
  • all'art. 6 "L'Amministrazione della Palestina, pur assicurando che i diritti e la posizione di altre sezioni della popolazione non siano pregiudicati, faciliterà l'immigrazione ebraica in condizioni adeguate e incoraggerà, in cooperazione con l'Agenzia Ebraica di cui all'art. 4, uno stretto insediamento degli Ebrei sulla terra…",
  • e infine all'art. 7 "L'Amministrazione della Palestina sarà responsabile dell'emanazione di una legge sulla nazionalità. Saranno incluse in questa legge disposizioni formulate in modo da facilitare l'acquisizione della cittadinanza palestinese da parte degli ebrei che prendono la loro residenza permanente in Palestina".
Non possono esserci dubbi che tutte queste disposizioni sono finalizzate a creare le condizioni per l'istituzione di uno Stato nazionale ebraico in cui tutti gli ebrei sparsi per il mondo, e che lo desiderano, possono diventarne cittadini e insediarvisi dentro i confini stabiliti. Il diritto di cittadinanza palestinese, in base all'art.7 è, esclusivamente, riservato alla popolazione ebraica (di tutto il mondo che desidera insediarsi in Eretz Israel), e a nessun altro.
   Come si accennava in precedenza, il legislatore ha voluto sottolineare che la costruzione di uno Stato nazionale ebraico non doveva pregiudicare i diritti acquisti dalla locale popolazione non ebraica. Inoltre, con l'articolo 25 del Mandato si stabiliva un altro importante principio. Questo è il testo integrale dell'art. 25:
    "Nei territori che si trovano tra il Giordano e il confine orientale della Palestina come stabilito di recente, il Mandatario avrà il diritto, con il consenso del Consiglio della Società delle Nazioni, di posticipare o rifiutare l'applicazione di tali disposizioni di questo mandato che egli può considerare inapplicabile alle condizioni locali esistenti, e di prevedere per l'amministrazione dei territori le disposizioni che egli ritenga adeguate a tali condizioni, a condizione che non venga intrapresa alcuna azione incompatibile con le disposizioni degli articoli 15, 16 e 18."
Qui non si entrerà in merito alle ragioni politiche che hanno portato la Gran Bretagna ad insediare, nella parte orientale del Mandato per la Palestina, l'emiro Abdallah ma si analizzerà solo l'implicazione legale della scissione amministrativa del territorio mandatario.
   In pratica il mandatario con proprio memorandum del settembre 1922, chiedeva al Consiglio della Società delle Nazioni, la possibilità di non applicare nei territori mandatari ad est del Giordano - in base al principio contenuto nell'art. 25 del Mandato - tutte le disposizioni relative alla realizzazione del Jewish National Home in Palestina. In questo modo, di fatto, si crearono due unità amministrative ben distinte all'interno del Mandato per la Palestina: una ad ovest del Giordano per la reazione di uno Stato nazionale ebraico e una ad est per rafforzare la tutela dei diritti delle popolazioni non ebraiche del Mandato. Va sottolineato, anche, che lo zelo con cui l'amministrazione inglese applicò le disposizioni dell'art. 25 (impedendo di fatto la residenza degli ebrei ad est del Giordano) di fatto portò alla violazione dell'ultima parte della disposizione contenuta nell'art. 25: "… a condizione che non venga intrapresa alcuna azione incompatibile con le disposizioni degli articoli 15, 16 e 18", a danno della comunità ebraica.
   Dalla creazione di queste due unità amministrative mandatarie nasceranno due distinti Stati: Israele e la Giordania, il primo per il popolo ebraico il secondo per quello arabo.
   In conclusione, il principio del Jewish National Home, contenuto nel diritto internazionale attraverso il Mandato per la Palestina (è un trattato internazionale) afferma:
  1. la legittimità di uno Stato nazionale ebraico;
  2. il diritto al ritorno, in Palestina (Eretz Israel), di tutti gli ebrei che lo desiderano;
  3. il loro insediamento in tutto il territorio mandatario compreso tra il Giordano e il Mediterraneo.
Inoltre, il Mandato per la Palestina sancisce - per mezzo del memorandum britannico del settembre 1922 - la creazione di un area amministrativa esclusivamente araba per rafforzare la piena tutela della locale popolazione non ebraica con un confine ben determinato: il fiume Giordano.

(L'informale, 9 ottobre 2020)


La chiusura d'Israele

                                 Israele alle prese col coronavirus                                                                                       Daniela Fubini
Era stato uno dei paesi più virtuosi nell'affrontare la prima fase del coronavirus, poi la situazione è precipitata e da oltre due settimane gli israeliani sono alle prese con una nuova chiusura. Ne parliamo con Daniela Fubini.



(RTV SLO, 10 ottobre 2020)


Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Il Sudan normalizzerà i rapporti con Israele o no? Khartum tentenna. La situazione Paese è infatti completamente diversa rispetto Emirati Arabi Uniti e Bahrein, che hanno già firmato gli accordi con Tel Aviv. Responsible Statecraft evidenzia tre diversità: in primis, a differenza degli accordi di Abramo, quello tra Sudan e Israele sarebbe un vero accordo di pace, visto che i due Paesi si sono fatti la guerra anche in anni recenti. Un'altra differenza riguarda la società civile, che in Sudan, rispetto agli EAU, è attiva, partecipe; è la stessa che ha portato alla caduta del regime di Omar al-Bashir nell'aprile 2019 e che ora è fortemente contraria alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Infine, il Sudan è ancora troppo fragile politicamente, perché Khartoum è stretta tra due forze: da una parte il deep state militare, dall'altra una componente civile molto forte. Gli analisti temono quindi che un accordo di pace con Israele andrebbe a minare i risultati raggiunti finora dal Sudan e romperebbe i fragili equilibri di politica interna. Una posizione, quella contraria agli accordi di normalizzazione, condivisa dall'autorità islamica del Paese.
  Anche a livello interno, infatti, la pacificazione sta venendo raggiunta, ma molto lentamente. Dall'indipendenza nel 1956 si è susseguita una serie di conflitti civili; tra i più recenti, quello in Darfur nel 2003 e la separazione del Sud Sudan nel 2011, che ha privato il nord di tre quarti delle riserve di petrolio. Dopo l'annuncio lo scorso 31 agosto di un accordo tra il governo di transizione (quello al potere dalla cacciata di al-Bashir) e gruppi ribelli, la settimana scorsa, a Juba, capitale del Sud Sudan, le parti hanno firmato l'accordo vero e proprio. Al Jazeera fa però notare che due gruppi si sono rifiutati di prendere parte alla cerimonia.
  Che questo possa finalmente essere un punto di svolta per il Paese? Se lo chiede Chatham House, secondo cui la parte più difficile per il Paese sarà proprio rendere operativo l'accordo di pace, soprattutto vista la mancanza di risorse per la crisi economica, la pandemia di Covid-19 e le recenti inondazioni: «Trasformare l'accoro di pace in realtà sul campo sarà molto difficile, data la fragilità del governo di transizione civile-militare, la sfiducia e la competizione tra i movimenti firmatari e alcuni partiti politici, nonché l'aumento dell'insicurezza in molte parti del paese causata dalle milizie armate, dalla violenza inter-tribale, dalla proliferazione delle armi e dal sabotaggio da parte di elementi del precedente regime».
  Gli Emirati finora hanno sponsorizzato l'ala militare del governo, ma restano dei nodi che coinvolgono soprattutto Washington. Il Sudan infatti continua a chiedere di essere depennato dalla lista degli Stati che sponsorizzano il terrorismo, ma non è chiaro se la richiesta verrà accettata dall'amministrazione Trump prima del 3 novembre. Scrive Al Monitor che per la parte civile del governo sudanese non conta tanto stabilire un legame con Israele, quando risanare il legame con gli Stati Uniti per ricevere gli aiuti economici, perché «Solo gli Stati Uniti - con l'aiuto dei Paesi del Golfo - potrebbero sottrarre il Sudan alla crisi economica in corso».
  Altri Paesi del mondo arabo potrebbero seguire la via tracciata dagli Emirati e dal Bahrein? The New Arab fa il punto della situazione per quanto riguarda i Paesi del Nord Africa, arrivando però alla conclusione che Marocco, Tunisia e Algeria non sigleranno presto nessun accordo con Israele, mentre il New York Times segnala un cambio di rotta anche in Arabia Saudita, dove per decenni la questione palestinese è sempre stata considerata sacrosanta. Il principe Bandar Bin Sultan, parte dell'establishment saudita, ha affermato che «la causa palestinese è una causa giusta, ma i suoi sostenitori hanno sempre fallito, e la causa israeliana è ingiusta, ma i suoi sostenitori hanno dimostrato di avere successo». Ma un cambiamento pare essersi verificato anche per l'Unione europea, rivela Axios: l'UE non invierà ulteriori aiuti economici alla Palestina finché l'Autorità palestinese non accetterà che Israele riprenda a riscuotere delle imposte nei Territori palestinesi. Il timore di Mahmoud Abbas è che l'annessione della Cisgiordania sbandierata da Netanyahu sia ancora una possibilità, sebbene i leader europei l'abbiano negato.

(Oasis, 9 ottobre 2020)


Stefano Gaj Taché, 38 anni fa l'attentato alla Sinagoga di Roma

Oggi il ricordo al Tempio Maggiore

 
 
Sono passati 38 anni da quando, il nove ottobre 1982, la Capitale venne scossa dall'attentato alla sua Sinagoga. A perdere la vita Stefano Gaj Tachè, appena due anni, mentre altre quaranta persone rimasero ferite. Oggi Roma si è fermata per ricordare la piccola vittima di quella triste giornata, la cui memoria è impressa nel nome di una strada davanti al Tempio Maggiore.
  Questa mattina proprio lì, si è svolta la cerimonia di commemorazione alla presenza della sindaca Virginia Raggi, dell'assessore alle politiche abitative e all'Urbanistica Massimiliano Valeriani, Riccardo Di Segni, del rabbino capo della comunità ebraica di Roma e di Ruth Dureghello, presidente della stessa: «Siamo qui per ricordare quella pagina terribile, non solo per la comunità ebraica ma per l'intera città - ha commentato la presidente - restano ancora punti da chiarire, ma oggi vogliamo ricordare la vicinanza alla famiglia e ai feriti».

 La storia
  A provocare la tragedia, un commando palestinese composto da circa dieci attentatori, che aprì il fuoco, con granate e raffiche di mitra, contro chi, ignaro, quel sabato stava uscendo dalla Sinagoga. L'episodio è considerato il più grave accaduto in Italia contro la comunità ebraica dalla fine della seconda guerra mondiale.

(Il Messaggero, 9 ottobre 2020)


La Giordania apre i propri cieli a Israele

Il Regno hashemita della Giordania e Israele, l'8 ottobre, hanno siglato un accordo, definito "storico", che consente a voli commerciali di sorvolare lo spazio aereo di entrambi i Paesi.
   Secondo il quotidiano al-Arab, si tratta di una mossa significativa, soprattutto perché giunge in un quadro mediorientale recentemente segnato dagli accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti (UAE) e Bahrein. Nello specifico, secondo quanto stabilito dall'accordo dell'8 ottobre, i sorvoli saranno consentiti nei giorni feriali tra le ore 23:00 e le 6:00 del mattino, mentre nei fine settimana l'apertura sarà estesa a 12 ore, con una finestra di 24 ore disponibile durante 12 giorni di festività all'anno.
   Stando a quanto riferito dal Ministero dei Trasporti israeliano, l'accordo è, in realtà in fase di discussione da anni, ma le due parti sono state in grado di finalizzarlo solo una volta siglata l'alleanza tra Israele e gli altri due Paesi mediorientali, avvenuta il 15 settembre alla Casa Bianca. Lo stesso Ministero ha spiegato che, grazie all'intesa tra Amman e Tel Aviv, gli aerei commerciali che volano sulla rotta Israele-Giordania potranno abbreviare i tempi di percorrenza per i viaggi che interessano anche l'Asia, l'Europa e l'America del Nord, e presto anche i voli provenienti dal Bahrein e dagli Emirati Arabi Uniti potranno beneficiare degli stessi vantaggi. "L'accordo ridurrà notevolmente i tempi di percorrenza verso i Paesi del Golfo, l'Asia e l'Estremo Oriente, il che porterà al risparmio di carburante e alla riduzione dell'inquinamento", è stato affermato in un comunicato del Ministero israeliano.
   "Grazie a questo accordo, Israele si sta integrando sempre più nella regione", ha affermato il ministro dei Trasporti israeliano, Miri Regev, precisando come il Paese si stia impegnando per instaurare nuovi canali di collaborazione nel settore dei trasporti, dell'economia e diplomatico con gli Stati con cui Israele condivide confini e interessi, con il fine ultimo di promuovere la pace a livello regionale. Prima degli accordi siglati il 15 settembre, le compagnie aeree con sede nel Golfo erano costrette a volare intorno allo spazio aereo israeliano per poter raggiungere le destinazioni situate ad Ovest. La situazione è cambiata dopo l'intesa con Abu Dhabi e Manama e dopo che il Regno saudita ha anch'esso consentito agli aerei israeliani diretti verso gli UAE di sorvolare i propri cieli.
   Precedentemente agli accordi tra Israele, UAE e Bahrein, la Giordania, anche attraverso il re Abdullah II, ha più volte affermato che il Regno hashemita rifiuta qualsiasi azione unilaterale effettuata da Israele in Cisgiordania, con riferimento ai piani di ammissione progettati dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Con l'"accordo Abraham" del 15 settembre, Israele si è impegnato a sospendere l'annessione dei territori palestinesi, sebbene il premier abbia specificato di aver semplicemente deciso di "ritardare" l'annessione come parte dell'accordo con Abu Dhabi.
   La Giordania è storicamente connessa alla questione palestinese, e, prima dell'accordo Abraham, rappresentava l'unico Paese arabo in Medio Oriente ad avere firmato un trattato di pace con Israele, quello del 1994, che ha normalizzato le relazioni tra i due Paesi dopo due conflitti. Il primo risale al 1948 e portò allo stanziamento di Israele nelle aree occidentali della Palestina, mentre la Giordania prese il controllo delle zone orientali palestinesi. Il secondo conflitto è del 1967 e risultò nella sconfitta della Giordania, con il conseguente ritiro da Gerusalemme Est e dalla Cisgiordania, pur continuando a mantenere la sovranità in questi territori.
   Nonostante il trattato di pace di Wadi Araba del 1994, che aveva posto le basi per la pace dopo decenni di guerra tra Giordania e Israele, il popolo giordano continua a considerare Israele un nemico e, a tal proposito, si è altresì opposto al cosiddetto piano di pace presentato dal capo della Casa Bianca, Donald Trump, il 28 gennaio 2020.

(Sicurezza Internazionale, 9 ottobre 2020)


Israele vieta le proteste contro Benjamin Netanyahu

di Giuseppe Gallinella

 
Il governo israeliano ha prorogato per un'altra settimana un provvedimento di emergenza che vieta le riunioni pubbliche, comprese le proteste diffuse contro il primo ministro Benjamin Netanyahu.
   I ministri del governo hanno approvato la misura con una votazione telefonica, ha detto l'ufficio del primo ministro in una dichiarazione mercoledì scorso. Rimarrà in vigore fino a martedì.
   Nel frattempo, il capo del servizio di sicurezza interno dello Shin Bet ha riconosciuto di aver violato gli ordini di blocco ospitando i membri della famiglia in visita a casa sua, diventando l'ultimo di diversi alti funzionari israeliani sorpresi a infrangere le regole.
   Il mese scorso Israele ha imposto un blocco a livello nazionale prima delle festività ebraiche per frenare l'epidemia di coronavirus nel paese. La Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato la scorsa settimana una legge che consente al governo di dichiarare uno stato di emergenza speciale di una settimana per limitare la partecipazione alle assemblee a causa della pandemia. Il governo ha quindi dichiarato lo stato di emergenza, limitando tutte le riunioni pubbliche a un chilometro (mezzo miglio) dalla casa di una persona.
   Netanyahu ha detto che le restrizioni sono guidate da preoccupazioni per la sicurezza mentre il paese combatte una pandemia in fuga, ma i critici e i manifestanti lo accusano di inasprire il blocco per imbavagliare il dissenso.
   Migliaia di israeliani hanno partecipato per mesi a manifestazioni settimanali fuori dalla residenza ufficiale di Netanyahu a Gerusalemme quest'estate, chiedendo al primo ministro di dimettersi mentre era sotto processo per corruzione.
   Da quando la restrizione è stata approvata il mese scorso, decine di migliaia di israeliani hanno organizzato proteste agli angoli delle strade e nelle piazze pubbliche vicino alle loro case contro la presunta cattiva gestione della crisi del coronavirus e le sue ricadute economiche da parte del governo.
   Giovedì, un manifestante israeliano ha dipinto la parola ebraica "Go" - uno slogan sempre più popolare tra i manifestanti anti-Netanyahu - a grandi lettere in piazza Rabin di Tel Aviv.
   Alti funzionari, tra cui Netanyahu e il presidente Reuven Rivlin, sono stati sorpresi a violare i propri ordini dall'inizio della pandemia. Negli ultimi giorni, il ministro dell'Ambiente Gila Gamliel è stata presa di mira per presunti traccianti di contatti fuorvianti dopo aver violato il blocco ed essere risultata positiva al virus.
   Il capo dello Shin Bet, Nadav Argaman, giovedì ha riconosciuto la stampa secondo cui sua figlia e altri membri della famiglia hanno visitato la sua casa durante le vacanze. "Il capo del servizio di sicurezza si rammarica di questo incidente e accetta la piena responsabilità", ha detto lo Shin Bet in una dichiarazione.
   L'agenzia di sicurezza, che di solito si concentra sul contrastare gli attacchi dei militanti palestinesi, è stata arruolata all'inizio della pandemia per aiutare a rintracciare i contatti sorvegliando i telefoni cellulari israeliani, una mossa che ha suscitato critiche da parte di alcuni legislatori e gruppi per i diritti.
   Israele è stato inizialmente elogiato per la sua rapida imposizione di restrizioni a febbraio per frenare la diffusione del coronavirus. Ma dopo la riapertura dell'economia e delle scuole a maggio, i nuovi casi sono aumentati rapidamente.
   Ha imposto un secondo blocco il 18 settembre quando il tasso di infezione è salito alle stelle fino a raggiungere uno dei più alti pro capite al mondo.
   Il Ministero della Salute ha registrato oltre 282.000 casi confermati e oltre 1.800 decessi nel Paese di circa 9 milioni di persone.
   Dopo quasi tre settimane di blocco, il numero di nuovi casi sta gradualmente diminuendo, ma le infezioni continuano a diffondersi, in particolare tra la comunità ebraica ultraortodossa duramente colpita del paese.
   La comunità ultraortodossa israeliana, che rappresenta circa il 10% della popolazione del paese, rappresenta più di un terzo dei casi di virus in Israele. Alcuni membri della comunità hanno infranto le regole e tenuto preghiere in spazi chiusi e grandi riunioni festive. Negli ultimi giorni centinaia di persone si sono scontrate con la polizia cercando di imporre restrizioni a Gerusalemme e in altre zone.

(ilFormat, 9 ottobre 2020)


Parashat Vezot Haberachà

L'incompletezza della vita di Mosè ci ricorda che l'ebraismo è l'espressione suprema della fede come tempo futuro

di Rabbi J. Sacks
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Che modo straordinario di concludere un libro: non un libro qualsiasi ma il Libro dei libri - con Mosè che vede la Terra Promessa dal Monte Nebo, allettantemente vicino, eppure così lontano che sa che non lo raggiungerà mai nella sua vita. Questo è un finale per sfidare tutte le aspettative narrative. La storia di un viaggio dovrebbe terminare alla fine del viaggio, con l'arrivo a destinazione. Ma la Torah termina prima del capolinea. Finisce a metà. È costruito come una sinfonia incompiuta.
  Noi, lettori e ascoltatori, sentiamo il personale senso di incompletezza di Mosè. Aveva dedicato una vita a condurre il popolo fuori dall'Egitto verso la Terra Promessa. Eppure non gli è stata concessa la sua richiesta di completare il compito e raggiungere il luogo in cui aveva trascorso la sua vita come leader alla guida del popolo. Quando pregò: "Fammi … attraversare e vedere la buona terra dall'altra parte del Giordano", Dio rispose: "Basta! Non parlarmi mai più di questo argomento "(Deut. 3: 25-26).
  Mosè - l'uomo che stava davanti al Faraone chiedendo la libertà del suo popolo, che non aveva paura nemmeno di sfidare Dio Stesso, che quando scese dalla montagna e vide le persone danzare intorno al Vitello d'Oro, fracassò le tavole divinamente tagliate, l'oggetto più sacro mai visto essere tenuto da mani umane - implorato per l'unica piccola misericordia che avrebbe completato l'opera della sua vita, ma non doveva esserlo. Quando pregava per gli altri, ci riusciva. Quando pregava per se stesso, falliva. Questo di per sé è strano.
  Eppure il senso di incompletezza non è solo personale, non è solo un dettaglio nella vita di Mosè. Si applica all'intero racconto così come si è svolto dall'inizio del libro dell'Esodo. Gli israeliti sono in esilio. Dio incarica Mosè del compito di condurre il popolo fuori dall'Egitto e di portarlo nella terra dove scorre latte e miele, il paese che aveva promesso ad Avraam, Isacco e Giacobbe. Sembra abbastanza semplice. Già in Esodo 13 il popolo è partito, mandato da un faraone e da un Egitto devastato dalle pestilenze. In pochi giorni, hanno incontrato un ostacolo. Davanti a loro c'era il Mar Rosso. Dietro di loro c'erano i carri che si avvicinano rapidamente dell'esercito del Faraone. Succede un miracolo. Il mare si divide. Passano sulla terraferma. Le truppe del faraone, le ruote dei loro carri intrappolate nel fango, annegano. Ora tutto ciò che si frappone tra loro e la loro destinazione è il deserto. Ogni problema che devono affrontare - mancanza di cibo, acqua, direzione, protezione - è risolto dall'intervento divino mediato da Mosè. Cosa resta da dire, se non il loro arrivo?
  Eppure non succede. Le spie vengono inviate per determinare il modo migliore per entrare e conquistare la terra, un compito relativamente semplice. Tornano, inaspettatamente, con un rapporto demoralizzante. La gente si perde d'animo e dice di voler tornare in Egitto. Il risultato è che Dio decreta che dovranno aspettare un'intera generazione, quarant'anni, prima di entrare nel paese. Non è solo Mosè a non attraversare il Giordano. L'intero popolo non l'ha ancora fatto quando la Torah finisce. Ciò deve attendere il libro di Giosuè, non stesso parte della Torah, ma piuttosto dei Nevi'im, i successivi testi profetici e storici.
  Questo, da un punto di vista letterario, è strano. Ma non è casuale. Nella Torah, lo stile rispecchia la sostanza. Il testo ci sta dicendo qualcosa di profondo. La storia ebraica finisce senza una fine. Si chiude senza chiusura. Nel giudaismo non c'è l'equivalente di "e vissero tutti felici e contenti" (la Bibbia più vicina a questo è il libro di Ester). Il racconto biblico manca di quello che Frank Kermode chiamava "il senso di una fine". Il tempo ebraico è tempo aperto - aperto a un epilogo non ancora realizzato, una destinazione non ancora raggiunta.
  Questo non è semplicemente perché la Torah registra la storia e la storia non ha fine. La Torah ci sta dicendo qualcosa di molto diverso dalla storia nel modo in cui i Greci, Erodoto e Tucidide, l'hanno scritta. La storia secolare non ha significato. Ci dice semplicemente cosa è successo. La storia biblica, al contrario, è satura di significato. Niente accade semplicemente bemikreh, per caso.
  Nel giudaismo il tempo diventa l'arena della crescita umana. Il futuro non è come il passato. Ne si può prevedere, prevedere il modo in cui si può prevedere la fine di qualsiasi mito. Giacobbe, alla fine della sua vita, disse ai suoi figli: "Radunatevi e vi dirò cosa vi accadrà alla fine dei giorni" (Gen. 49: 1). Rashi, citando il Talmud, dice: "Giacobbe cercò di rivelare la fine, ma la Presenza Divina si allontanò da lui". Non possiamo predire il futuro, perché dipende da noi: come agiamo, come scegliamo, come rispondiamo. Il futuro non può essere previsto, perché abbiamo il libero arbitrio. Anche noi stessi non sappiamo come risponderemo alla crisi finché non si verificherà. Solo in retrospettiva scopriamo noi stessi. Affrontiamo un futuro aperto. Solo Dio, che è al di là del tempo, può trascendere il tempo. La narrazione biblica non ha alcun senso di fine perché cerca costantemente di dirci che non abbiamo ancora completato il compito. Ciò resta da ottenere in un futuro in cui crediamo ma che non vivremo per vedere. Lo intravediamo da lontano, come Mosè vide la terra santa dall'altra parte del Giordano, ma come lui sappiamo di non essere ancora arrivati. Il giudaismo è l'espressione suprema della fede come tempo futuro.
  Il filosofo ebreo del diciannovesimo secolo Hermann Cohen lo espresse in questo modo:
  Ciò che l'intellettualismo greco non poteva creare, il monoteismo profetico è riuscito a creare…. Per i greci, la storia è orientata esclusivamente al passato. Il profeta, tuttavia, è un veggente, non uno studioso…. I profeti sono gli idealisti della storia. La loro veggenza ha creato il concetto di storia come l'essere del futuro. (Enfasi aggiunta.)
  Harold Fisch, lo studioso di letteratura, ha riassunto questo in una frase incredibilmente bella: "il ricordo inappagato di un futuro ancora da soddisfare".
  Il giudaismo è l'unica civiltà ad aver stabilito la sua età dell'oro non nel passato ma nel futuro. Lo sentiamo all'inizio della storia di Mosè, anche se non fino alla fine ci rendiamo conto del suo significato. Mosè chiede a Dio: Qual è il tuo nome? Dio risponde: Ehyeh asher Ehyeh, letteralmente, "sarò quello che sarò" (Es. 3:14). Partiamo dal presupposto che questo significhi qualcosa come "Io sono quello che sono: illimitato, indescrivibile, al di là della portata di un nome". Questo potrebbe essere parte del significato. Ma il punto fondamentale è: il mio nome è il futuro. "Io sono ciò che sarà." Dio è nella chiamata dal futuro al presente, dalla destinazione a noi che siamo ancora in viaggio. Ciò che distingue l'ebraismo dal cristianesimo è che in risposta alla domanda "è venuto il Messia?" la risposta ebraica è sempre: non ancora. La morte di Mosè, la sua vita incompiuta, il suo sguardo sulla terra del futuro, è il simbolo supremo del non ancora.
  "Non sta a te completare il compito, ma non sei nemmeno libero di desistere" (Mishnah Avot 2:16). Le sfide che affrontiamo come esseri umani non vengono mai risolte in modo semplice, rapido, completo. Il compito richiede molte vite. È oltre la portata di un singolo individuo, anche il più grande; è oltre lo scopo di una singola generazione, anche la più epica. Il Deuteronomio termina dicendo: "Non è mai più sorto in Israele un profeta come Mosè" (Deut. 34:10). Ma anche la sua vita era, necessariamente, incompleta.
  Quando lo vediamo, sul monte Nebo, guardando oltre il Giordano fino a Israele in lontananza, percepiamo la vasta e provocatoria verità che tutti noi dobbiamo affrontare. Ogni persona ha una terra promessa che non raggiungerà, un orizzonte oltre i limiti della sua visione. Ciò che rende questo sopportabile è il nostro intenso legame esistenziale tra le generazioni - tra genitore e figlio, insegnante e discepolo, leader e seguace. Il compito è più grande di noi, ma continuerà a vivere dopo di noi, poiché qualcosa di noi vivrà in coloro che abbiamo influenzato.
  L'errore più grande che possiamo fare è non fare nulla perché non possiamo fare tutto. Persino Mosè scoprì che non spettava a lui completare il compito. Ciò sarebbe stato raggiunto solo da Giosuè, e anche allora la storia degli israeliti era solo all'inizio. La morte di Mosè ci dice qualcosa di fondamentale sulla mortalità. La vita non è privata di significato perché un giorno finirà. Perché in verità, anche in questo mondo, prima di rivolgere i nostri pensieri alla vita eterna nel mondo a venire, diventiamo parte dell'eternità quando scriviamo il nostro capitolo nel libro della storia del nostro popolo e lo trasmettiamo a coloro che lo faranno. Il compito - costruire una società di giustizia e compassione, un'oasi in un deserto di violenza e corruzione - è più grande di qualsiasi vita. Il popolo ebraico è tornato nella terra, ma la visione non è ancora completa. Questo è ancora un mondo violento e aggressivo. La pace ci sfugge ancora, così come molto altro. Non abbiamo ancora raggiunto la meta, anche se la vediamo in lontananza, come Mosè. La Torah finisce senza una fine per dirci che anche noi siamo parte della storia; anche noi siamo ancora in viaggio.

(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2020)


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Parashat Vezot Haberachà

Alla riflessione di Rabbi J. Sacks sulla Parashà "Vezot Haberachà" (Deuteronomio 33:1-34:12) ne affianchiamo un'altra già presente sulle nostre pagine nella rubrica Parashot.

di Marcello Cicchese

Prima di morire Mosè lascia una benedizione al popolo. Ma che autorità ha Mosè per fare questo? In circostanze come questa, benedire significa trasmettere un bene proveniente da Dio. Per un padre, benedire i figli in punto di morte è come fare testamento a loro beneficio. Ne ha l'autorità, perché è attraverso i genitori che Il Signore fa arrivare ai figli la vita, e quindi anche precisi beni ad essa collegati.
Mosè però non è padre in questo senso, perché Israele non è figlio suo, ma di Dio (Esodo 4:22). Mosè non ha neppure l'autorità di benedire come sacerdote, perché tale non è. Per questo qualcuno potrebbe pensare che la persona più adatta a benedire il popolo in punto di morte sarebbe stata Aaronne, non Mosè. Ma così non è avvenuto.
Quasi a rispondere a questa obiezione, prima che si compia questa solenne benedizione, la Scrittura indica qual è titolo che Mosè riceve per avere l'autorità di compiere quell'atto:
    "Questa è la benedizione con la quale Mosè, uomo di Dio, benedisse i figli d'Israele, prima di morire" (Deuteronomio 33:1).
E' la prima volta che nella Scrittura compare l'espressione "uomo di Dio"; nessun patriarca prima di lui aveva ricevuto questo titolo. Senza dubbio questo ha la sua importanza, perché l'introduzione di un nuovo termine nella Bibbia ha sempre un significato che deve essere ricercato. Nel seguito, l'espressione serve sempre a indicare un profeta o, in un paio di casi, il re Davide (2 Cronache 8:14, Neemia 12:24,36), mai un sacerdote.
Mosè, che certamente è stato il primo profeta che ha portato la Parola di Dio al popolo, ha svolto anche funzioni simili a quelle di un re, com'è detto in questo passo: "... ed egli è stato re in Ieshurun" (Deuteronomio 33:5).
A questo si può aggiungere che Mosè ha svolto anche la funzione di mediatore. E' a lui il che popolo deve di essere rimasto in vita, protetto dall'ira del Signore; e adesso è a lui che deve non solo la sopravvivenza, ma anche la pienezza delle benedizioni di Dio.
Senza esaminare da vicino i beni promessi a ciascuna tribù, si può subito notare la differenza di tono tra le benedizioni di Giacobbe e quelle di Mosè. Se là non mancavano rimproveri, condanne e minacce, qui tutto è positivo, tutto è aperto alla speranza, tutto invita a rallegrarsi del futuro glorioso riservato al popolo.
    «Rallègrati, Zabulon, nel tuo uscire, e tu, Issacar, nelle tue tende! Essi chiameranno i popoli al monte, e là offriranno sacrifici di giustizia; poiché succhieranno l'abbondanza del mare e i tesori nascosti nella sabbia» (Deuteronomio 33:18-19).
Eppure, nel cantico precedente Mosè aveva denunciato la durezza di cuore e l'infedeltà che il popolo aveva mostrato verso il Signore. Come si spiegano questi repentini cambiamenti di tono nella Scrittura? Non si spiegano, se si rimane "sotto il sole", dove non c'è mai "nulla di nuovo"; si spiegano soltanto se ci si lascia trasportare "sopra il sole" dalla Parola di Dio che annuncia il "nuovo" portato dall'opera di Dio, e non da quella degli uomini.
Le ultimissime parole di Mosè, quelle che stanno tra i versetti 26 e 29 del capitolo 33, sono uno sguardo profetico su un futuro che Dio ha preparato, e che un giorno certamente arriverà. Prima di proseguire, si consiglia di rileggere questi versetti o di averli davanti agli occhi.
"Nessuno è pari al Dio di Ieshurun", si dice per prima cosa, e questo già si scontra con quell'Allahu Akbar (Allah è il più grande) che oggi sentiamo risuonare nelle nostre orecchie.
Poco più avanti si dice un'altra cosa di enorme importanza:
    "Te beato, o Israele! Chi è pari a te, popolo salvato dall'Eterno?"
E' significativo il collegamento fra i due "pari": come non c'è nessun dio pari al Dio di Israele, così non c'è nessun popolo pari al popolo di Israele. Dunque, l'unicità di Dio è espressa sul piano storico-politico dall'unicità di Israele.
Si spiega allora l'accanimento contro la "pretesa" del popolo ebraico di distinguersi dagli altri: non si accetta la scelta di Dio perché non si accetta che ci sia un Dio che sceglie. Ma poiché Dio sceglie per salvare, chi non accetta un Dio che sceglie non può essere salvato. Questo è vero sia per i singoli, sia per le nazioni.
Israele è "un popolo salvato dall'Eterno", ma affinché questo destino di salvezza diventi una realtà storica dovrà arrivare il giorno in cui Israele userà parole simili a quelle di Maria di Nazaret, che all'annuncio dell'angelo Gabriele: "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio", rispose umilmente: "Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola" (Vangelo di Luca, cap. 1).
E la parola dell'angelo Gabriele a Maria è questa:
    "Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre".
Gli altri popoli invece dovranno dire se vogliono accettare il fatto che Dio ha scelto il popolo d'Israele, e non solo il Messia d'Israele. Da questo dipenderà la loro entrata nel regno messianico o la definitiva sparizione dalla scena.
L'accanimento contro il popolo ebraico, oggi rappresentato dallo Stato d'Israele, è una costante storica umanamente inspiegabile. Non c'è accanimento pari a quello contro Israele, e anche questo conferma che non c'è un popolo pari a Israele, proprio come la Scrittura attesta.
Attenzione però, perché mettersi contro Israele in opposizione alle scelte di Dio non è privo di conseguenze, perché Israele è un popolo salvato dall'Eterno che ha in Dio uno scudo di difesa e una spada di offesa contro i suoi nemici.
    "Te beato, Israele! Chi è pari a te, popolo salvato dall'Eterno? Egli è lo scudo della tua difesa e la spada del tuo trionfo. I tuoi nemici verranno ad adularti, e tu calpesterai le loro alture».
(Notizie su Israele, 20 ottobre 2016)


Coronavirus: Israele, segni di arresto della pandemia

Preoccupazione per i contagi fra gli ebrei ortodossi

Dopo oltre due settimane di lockdown, il ministero della sanità israeliano ha oggi riferito di aver rilevato "segni apparenti di un arresto" nella diffusione della pandemia coronavirus. Ciò nonostante, ha avvertito, Israele resta uno dei Paesi col più elevato tasso di contagi. Ieri sono stati rilevati 3.692 casi positivi, l'8 per cento dei tamponi condotti (circa 46 mila). Si tratta di un calo ulteriore, dopo il picco del 15 per cento registrato alla fine di settembre. Stabile il numero dei malati gravi (852) e quello dei malati in rianimazione (241). I decessi sono saliti a 1.864.
Particolare preoccupazione desta la situazione sanitaria nelle località ortodosse, dove malgrado il lockdown in occasione di successive ricorrenze religiose ebraiche si sono avuti ripetuti assembramenti di massa. Migliora sensibilmente invece la situazione nelle località arabe, dove il mese scorso si erano registrati alti tassi di contagio imputati a matrimoni affollati. Secondo dati raccolti dall'Istituto Weizman fra i nuovi casi positivi della settimana scorsa l'8 per cento erano arabi, il 47 per cento ortodossi ed il 45 per cento il resto degli israeliani.

(ANSA, 9 ottobre 2020)


Covid-19, Israele da "Paese modello" al più colpito dalla pandemia

Israele e Covid-19. Cosa è successo tra il primo e il secondo lockdown? E la nuova chiusura totale sta funzionando? Ecco i primi dati.

di Daniele Particelli

Israele è stato per mesi, insieme all'Italia, uno dei Paesi da prendere come esempio per il modo in cui è riuscito ad affrontare la prima fase della pandemia di Covid-19, ma da qualche settimana a questa parte qualcosa è cambiato: i casi non soltanto hanno ripreso a salire, ma hanno toccato vette mai raggiunte dalla prima ondata al punto da costringere il Paese ad un nuovo e duro lockdown di almeno tre settimane e l'introduzione di un sistema a semafori che punta a regolare al vita dei cittadini, a seconda dei contagi nelle varie aree del Paese, per molte settimane a venire.
Cosa è successo in questi mesi? Sono stati commessi degli errori che rischiano di venir compiuti anche da Paesi come l'Italia, che ad oggi sembra uno dei Paesi che meglio sta gestendo la cosiddetta seconda ondata della pandemia di Covid-19?

(Blogo.it, 9 ottobre 2020)


Non solo Emirati Arabi. Perché (anche) il Qatar vuole l'F-35

di Emanuele Rossi

Anche il Qatar vuole l'F-35. Per gli Usa, l'eventuale vendita permetterebbe di rafforzare il sistema di pressione sull'Iran. Per Doha vorrebbe dire dare vigore alle ambizioni crescenti su varie questioni mediorientali. Prevedibili però le resistenze di Israele e Arabia Saudita. Ecco perché.

Dopo gli Emirati Arabi anche il Qatar vuole l'F-35, il velivolo americano di quinta generazione. Doha avrebbe già presentato richiesta formale a Washington, almeno stando alle indiscrezioni di Reuters che riporta tre diverse fonti vicine al dossier tra dipartimento di Stato e diplomazia Usa. La fornitura non si preannuncia facile, vista la necessaria approvazione del Congresso americano e le prevedibili resistenze di Arabia Saudita e Israele, che comunque presenta al momento diversi interessi convergenti con Doha. Intanto il Joint Strike Fighter si conferma strumento prediletto di Washington per il rafforzamento delle alleanze, nonché sistema ambito dai Paesi che vogliono essere più protagonisti sullo scenario internazionale.

 Interessi incrociati
  E infatti, se per gli Stati Uniti vendere l'F-35 al Qatar significherebbe rafforzare il sistema di pressione sull'Iran, per Doha vorrebbe dire dare vigore alle ambizioni crescenti su varie questioni mediorientali. Poche settimane fa, ricevendo a Washington il ministro degli Esteri Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, il segretario di Stato Mike Pompeo aveva spiegato l'intenzione di rafforzare i rapporti per rendere il Qatar uno dei maggiori alleati non-Nato degli Stati Uniti. A complicare tale obiettivo potrebbe però essere il necessario passaggio al Congresso per una vendita militare corposa che richiede tempi lunghi e su cui interverrà comunque anche l'esito del voto del prossimo 3 novembre. Tra l'altro, dal mondo politico americano sono in tanti a non fidarsi del Qatar per i legami con Hamas e Iran.

 Tra Israele…
  Ma le resistenze arriveranno probabilmente anche dai principali alleati di Washington nell'area: Israele e Arabia Saudita. Per Tel Aviv è prevedibile un'opposizione simile a quella che ha riguardato l'ipotesi di vendita di F-35 agli Emirati Arabi, smussata e ammorbidita solo dagli Accordi di Abramo e, soprattutto, dalle importanti garanzie americane sulla preservazione del "qualitative military edge" israeliano, cioè del vantaggio tecnologico militare che il Paese vanta nella regione. Garanzie che sono arrivate a Benjamin Netanyahu direttamente da Mike Pompeo, e al ministro della Difesa e vice primo ministro Benny Gantz dal capo del Pentagono Mark Esper, chiamati ora allo stesso lavoro di rassicurazione dell'alleato. Parallelamente, non è da escludere un riavvicinamento tra Tel Aviv e Doha. Formiche.net ha raccontato dei diversi piani di contatto (compresa la tregua tra Israele e Hamas) e di una convergenza di interessi che pone il Qatar tra i Paesi in lizza per possibile adesione agli Accordi di Abramo.

 … e Arabia Saudita
  A ostacolare la vendita potrebbe però essere anche l'Arabia Saudita. Riad non ha problemi sulla fornitura emiratina, ma potrebbe opporsi a quella qatariota. Da almeno quattro anni la frattura tra i Paesi del Golfo si è tradotta in un sostanziale isolamento regionale del Qatar, accusato dalle altre monarchie (insieme all'Egitto) di sostenere le ambizioni iraniane nella regione mediorientale e di offrire supporto ai Fratelli Musulmani e a gruppi integralisti come Hamas. Come notava su queste colonne l'ambasciatore Giampiero Massolo (presidente dell'Ispi e di Fincantieri), Doha è tra i protagonisti del confronto interno all'Islam sunnita, che "riguarda essenzialmente il futuro dell'Islam politico di cui la Turchia, sostenuta dal Qatar, si vuole rendere protagonista (e protettrice) e a cui invece si oppongono con determinazione Arabia Saudita ed Emirati Arabi".

 Il ruolo di Doha
  L'eventuale intesa per gli F-35 permetterebbe al Qatar di dare spinta all'uscita dall'isolamento, già evidente nelle relazioni con i Paesi europei (Italia compresa), e da Washington potrebbe essere letta come un distacco di Doha da Teheran. L'Emirato gioca un ruolo importante in Libia (insieme alla Turchia è il principale sponsor del Governo di accordo nazionale di Fayez al Serraj) e in altre partite che interessano gli Usa. Doha è il centro dei negoziati per la pacificazione dell'Afghanistan, un tema caro all'amministrazione targata Donald Trump anche nel contesto dell'attuale campagna elettorale.

(Formiche.net, 8 ottobre 2020)


Louise Glück ha vinto il Nobel per la letteratura

La poetessa statunitense è stata premiata "per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende l'esistenza individuale universale".

 
Louise Gluck alla cerimonia dei National Book Awards a New York, 2014
Il Premio Nobel per la letteratura 2020 è stato assegnato alla poetessa statunitense Louise Glück, "per la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende l'esistenza individuale universale".
   Glück ha 77 anni ed è una stimatissima poetessa negli Stati Uniti, già vincitrice di vari premi prestigiosi. Nata a New York, ha origini ebraico-ungheresi e insegna letteratura inglese all'Università di Yale. Nel 1993 vinse il premio Pulitzer della poesia con la raccolta di poesie L'iris selvatico; nel 2014 il National Book Award, un altro importante premio letterario americano. Ha scritto 12 raccolte di poesie, oltre a varie raccolte di saggi di critica letteraria. In italiano è stata pubblicata all'inizio dell'anno la sua decima raccolta di poesie, Averno, che era uscita negli Stati Uniti nel 2006: contiene una riscrittura del mito greco di Persefone. A pubblicarla è stata la Libreria Dante & Descartes di Napoli, che ha anche una piccola attività come casa editrice.
   La mitologia greca in generale è uno dei temi ricorrenti delle sue opere (altri personaggi che vi sono citati sono Didone ed Euridice, come Persefone donne tradite), oltre all'infanzia, e ai rapporti familiari, in particolare con genitori e fratelli e sorelle, e al rapporto con la natura: in L'iris selvatico le poesie sono "ambientate" in giardini dove a parlare sono i fiori.
   In uno dei suoi saggi, contenuto in Proofs & Theories: Essays on Poetry, del 1994, ha raccontato della sua esperienza con l'anoressia da giovane. Come ha spiegato Anders Olsson, presidente del comitato che le ha assegnato il Nobel, «non negherebbe mai l'importanza del contesto autobiografico nelle sue opere, ma non deve essere considerata una poetessa confessionale», come ad esempio sono Sylvia Plath e Anne Sexton, anche se proprio un poeta confessionale, Robert Lowell, è considerato dai critici tra quelli che più l'hanno influenzata.
   Un'altra caratteristica di Glück è che nelle sue opere spesso non c'è nulla che indichi il genere o altri caratteri identitari che descrivono il soggetto della poesia; è una di quegli autori a cui non piace essere identificati all'interno di una specifica categoria - come donna, o di origine ebraica.
   Il Nobel per la letteratura è uno dei più prestigiosi riconoscimenti in ambito letterario e viene assegnato dal 1901. Glück è la sedicesima donna a riceverlo, dopo la scrittrice polacca Olga Tokarczuk, vincitrice del premio per il 2018. Era invece dal 2011 che il premio Nobel per la letteratura non veniva assegnato non veniva assegnato a un autore che si occupa principalmente di poesia: quell'anno lo vinse lo svedese Tomas Tranströmer. L'ultimo statunitense a vincere il premio prima di Glück invece è stato Bob Dylan, nel 2016: anche lui è un poeta, anche se non è la prima parola che si userebbe per descriverlo. Un'ultima statistica: negli ultimi dieci anni, con Glück, sono stati quattro i vincitori del premio Nobel per la letteratura che scrivono in inglese.

(il Post, 8 ottobre 2020)


Netanyahu: "Presto in arrivo duemila immigrati dall'Etiopia"

Il premier Benyamin Netanyahu ha annunciato oggi l'arrivo in Israele di duemila nuovi immigrati dall'Etiopia, membri della comunità dei Falashmura: "Sei mesi fa - ha detto - mi sono impegnato a portare da noi quanto resta delle comunità ebraiche in Etiopia. Alla prossima seduta di governo voteremo il trasferimento di duemila membri del nostro popolo, per poi portare anche tutti gli altri". I Falashmura sono una comunità di origine ebraica che per un periodo ha praticato il cristianesimo per poi tornare, di recente, all'ebraismo. Secondo dati dell'Agenzia Ebraica almeno ottomila di loro, che attualmente si trovano in campi di raccolta ad Addis Abeba, hanno parenti stretti nella comunità Falasha (Beita Israel) in Israele, e sono dunque qualificati per la immigrazione. Gli israeliani di origine etiopica sono circa 100 mila.

(Politica News, 8 ottobre 2020)


Mossad, una notte a Teheran

Come fu organizzata l'operazione che permise agli 007 israeliani di mettere le mani sui documenti nucleari iraniani.

di Matteo Carnieletto

A volte, per descrivere la realtà, è necessario ricorrere alla finzione. Bisogna nascondere nelle pieghe di un romanzo quello che normalmente si può solo intuire o, peggio ancora, immaginare. Ma se davvero fosse così? Se davvero quanto immaginato dalla mente di un autore fosse più vero del vero?
   Partiamo dalla realtà. Dai fatti. Il 30 aprile del 2018, il premier israeliano Benjamin Netanyahu lancia una durissima accusa nei confronti dell'Iran: "Teheran mente sfacciatamente sulle sue armi nucleari" e "punta a dotarsi di almeno cinque ordigni nucleari analoghi a quelli utilizzati su Hiroshima". Alle spalle del primo ministro appaiono diverse immagini. Ai più dicono poco o nulla, ma sono il frutto di anni di lavoro dei servizi segreti israeliani. Si tratta, prosegue Netanayhu, di 55mila documenti e altri 55mila file su cd, "copia esatta degli originali provenienti dagli archivi segreti di Teheran". Prove che confermerebbero l'esistenza del piano di riarmo nucleare dell'Iran, chiamato "Amad".
   "Si tratta - conclude Neatanyahu - di uno dei maggiori successi di intelligence che Israele abbia mai conseguito". Difficile ribattere. Questi documenti, infatti, contribuiranno a far saltare l'accordo che gli Stati Uniti, insieme a Francia, Russia, Regno Unito e Germania, avevano siglato con l'Iran. Ma cosa accadde in quella notte di tanti anni fa?
   Il New York Times, in un articolo del 15 luglio 2018, poco più di due mesi dopo le parole di Netanyahu, ha cercato di fare un po' di chiarezza: "Gli agenti del Mossad che si sono trasferiti in un magazzino in uno squallido quartiere commerciale di Teheran sapevano esattamente quanto tempo avevano per disattivare gli allarmi, sfondare due porte, tagliare dozzine di casseforti giganti e uscire dalla città con la metà del materiale segreto: sei ore e 29 minuti". Tutto si gioca in una manciata di secondi: quella notte, il 31 gennaio, gli agenti del Mossad aprono 32 cassaforti, dalle quali riescono a trafugare parecchio materiale. Il tempo scorre veloce. Troppo, forse. Tre, due, uno. Finito. Bisogna partire. La squadra israeliana si dirige verso il confine, "trasportando circa 50mila pagine e 163 compact disc di promemoria, video e progetti".
   Qui finisce la storia e siamo costretti a entrare nella finzione, grazie a Mossad, una notte a Teheran, l'ultimo romanzo di Michael Sfaradi per La nave di Teseo (impreziosito dalla copertina e dai disegni, realizzati con matita, carboncino e penna biro, da Rosj Domini).
   Tutto ruota intorno a quel giorno, quel 31 gennaio che avrebbe cambiato la storia del Medio Oriente. Anzi, tutto ruota alla preparazione di quel giorno perché certe operazioni, per essere davvero efficaci, devono essere preparate anni prima. Tutto può iniziare per caso, per esempio assistendo a una strana lite in un pub tedesco, per arrivare infine all'operazione. E in mezzo? C'è la storia di un protagonista - Ilan - un po' James Bond, un po' Eli Cohen (la spia israeliana che riuscì a raggiungere il vertice dell'arcinemica Siria) che pensa e agisce come un perfetto 007: "Ragionare velocemente come era stato addestrato, fino ad arrivare ai limiti e, se fosse stato necessario, superarli per scopire la linea estrema e poi spingersi oltre".
   Ilan (Emad, una volta che viene infiltrato, Ndr) sa che ogni sua azione determinerà una reazione. Da una parte o dall'altra: "Ragionando (...) con il pragmatismo più estremo, cosa era meglio: l'Iran con in mano la bomba e il potenziale per non far più dormire una notte tranquilla a Israele per l'eternità o un gran casino che avrebbe ridisegnato il Medio Oriente con le lacrime e il sangue? La scelta doveva essere politica, lui era solo un agente che proponeva, e poi, quando le decisioni erano prese. obbediva agli ordini".
   Impossibile non pensare a queste parole rileggedo quanto successo in Iran in tre densissime settimane delle scorso luglio: strane esplosioni si sono registrate a Khojir, dove è situata la più importante struttura iraniana per la produzione di missili; nella base nucleare di Natanz, dove vengono fabbricate centrifughe per arricchire l'uranio; a ovest di Teheran dove, per ore, è stato registrato un blackout. È stato il Mossad? Nessuno può dirlo. Questo servizio segreto, infatti, è "famoso più per quello che non si sapeva di lui, che per ciò che negli anni era venuto alla luce, ma quello che impressionava i più, e intimoriva i nemici, era quell'aura di imbattibilità e mito che, nel corso degli anni, si era creato intorno a quella parola, Mossad, che in Israele è di uso comune, ma che nel resto del mondo fa tremare le vene ai polsi".
   Suggestioni, certo. Che però fanno riflettere...

(il Giornale, 8 ottobre 2020)


Ghez, un Nobel dalle radici ebraiche a cavallo tra Roma, Pisa e Livorno

Andrea Ghez
Radici ebraico-italiane per Andrea Ghez, la 55enne astronoma newyorkese vincitrice in queste ore del Premio Nobel per la Fisica. La quarta donna in assoluto a ottenere questo riconoscimento, tributatole insieme a Reinhard Genzel per le sue ricerche sulla Via Lattea. Laureatasi al Massachusettes Institute of Technology, dal 2004 è tra i membri dell'National Academy of Sciences e, sempre in coppia con Genzel, nel 2012 ha ricevuto il Premio Crafoord nel campo dell'astronomia. "Spero - il suo primo commento, dopo la telefonata ricevuta da Stoccolma - di ispirare altre giovani donne a dedicarsi a questo campo del sapere. La fisica è uno studio che può regalare così tante soddisfazioni e se si è appassionati di scienza, c'è veramente molto da fare".
   Il padre della scienziata, Gilbert, era nato a Roma nel 1938, secondo figlio del romano Henri e della tedesca Elsie Marx. Salvifica la scelta di emigrare nel giro di breve tempo a New York, dove la famiglia Ghez trascorre il periodo bellico. Finita la guerra, il ritorno in Europa. Con Gilbert che si forma alla scuola internazionale di Ginevra e poi, trasferitosi definitivamente negli Stati Uniti, completa il suo percorso di studi in economia in prestigiosi atenei tra cui Yale e Columbia University. Diventato economista di successo, nei primi Anni Novanta, poco dopo il crollo del Muro di Berlino, è l'artefice di un programma rivolto a studenti cecoslovacchi che, grazie al suo impegno, hanno l'opportunità di formarsi in America. Alcuni anni dopo, nel 2007, avrebbe invece ideato un'altra pregevole iniziativa: un'occasione d'incontro aperta ai discendenti della famiglia Ghez. L'appuntamento era stato tra Pisa e Livorno. Nei luoghi quindi di un avo illustre: l'ebreo livornese Giacomo di Castelnuovo (1819-1886), che fu protagonista del Risorgimento e medico di riferimento di casa Savoia. "Livorno dove Giacomo è nato, Pisa dove ha abitato ed è sepolto, con partecipazione di centoventi discendenti" racconta Bruno Di Porto, direttore del periodico "Hazman Veharaion - Il Tempo e L'Idea" e bisnipote del celebre medico.
   Henri, assieme al fratello Oscar, aveva fondato a Roma una fabbrica di prodotti del caucciù. "A seguito delle leggi antiebraiche - racconta Di Porto - la scambiarono con un'impresa di Pirelli nei pressi di Lione, trasferendosi in Francia". Alla sconfitta francese, Oscar riparò dapprima in Svizzera, dove nacque il figlio Claude, poi in Spagna, in Portogallo, negli Stati Uniti "dove fu consultato dal governo, come esperto di cose italiane". Nel dopoguerra si trasferì in Svizzera, realizzandovi un museo d'arte moderna, il Petit Palais. Sorelle di Oscar e Henri furono Ketty e Odette, che a Roma si salvò dalle persecuzioni in clandestinità assieme al marito Gino Terzago. Proprio a Odette fu affidato, per un breve periodo, lo stesso Bruno.
   Origini ebraiche anche per l'altro vincitore del Nobel per la Fisica, il più noto del terzetto: il matematico, fisico e cosmologo britannico Roger Penrose, laureato all'Università di Cambridge, professore emerito all'Istituto di matematica dell'Università di Oxford e nel 1988 vincitore, assieme a Stephen Hawking, del Premio Wolf per la fisica.

(moked, 7 ottobre 2020)


In Israele condotte sconsiderate dietro la nuova ondata di contagi

Intervista a Sergio Della Pergola.

- È ormai da alcuni mesi che la seconda ondata di coronavirus preoccupa le autorità. Vi è sempre il mancato rispetto delle norme di prevenzione a origine del crescente numero di contagi?
  «Sì, e con il tempo questa mancanza di disciplina si è molto acuita. Una parte della popolazione non rispetta le disposizioni sanitarie, non mantenendo le distanze di sicurezza, rifiutando l'uso della mascherina e via dicendo. A ciò va aggiunto il fatto che il 1° settembre sono state riaperte le scuole, decisione da molti ritenuta discutibile, e ciò ha portato ad un'impennata dei contagi. Israele è così diventato il primo Paese al mondo come numero di contagi rispetto al numero di abitanti. Mentre nella fase iniziale della pandemia avevamo dei dati molto bassi di infetti. Il numero totale dei decessi, circa 1.700, è relativamente basso, però è più che quintuplicato negli ultimi mesi».

- Quali effetti ha avuto l'esplosione del numero di infetti?
  «Tale crescita esponenziale dei contagiati comporta grosse tensioni interne, in quanto in Israele la popolazione è composta da vari gruppi con comportamenti culturali molto diversi gli uni dagli altri. La popolazione araba, circa un quinto del totale, registrava punte alte di contagi che negli ultimi giorni si sono un po' ridotti. Tra queste persone il fattore scatenante dell'epidemia sono i grandi matrimoni, le grandi manifestazioni di gioia collettiva nella comunità, senza alcuna precauzione. Comportamenti con gravi conseguenze in ambito sanitario».

- Preoccupa anche l'atteggiamento degli ortodossi?
  «Sì, oggi il problema principale è il comportamento della parte ortodossa della maggioranza ebraica. Si tratta del 10-12% della popolazione israeliana, ma negli ultimi giorni la percentuale di contagi in questo gruppo rappresenta circa il 40% di tutti i nuovi casi. Ci sono dei rabbini che dicono di ignorare le direttive dello Stato in quanto ritengono che quello che conta è la protezione divina».

- In cosa consiste il nuovo giro dl vite per contenere l'epidemia?
  «Un paio di settimane fa sono state adottate nuove restrizioni. E' ad esempio vietato muoversi oltre un chilometro dal proprio domicilio, anche se poi non tutti rispettano le norme. Molte attività produttive sono state chiuse, sia nel settore privato sia in quello pubblico. Dal mondo dell'economia, che stava riprendendosi dopo la prima ondata, è partita una nuova ondata di licenziamenti o di messa a riposo per ferie o malattia. Si calcola che circa un milione di persone sia rimasto senza lavoro».

- Vi sono aiuti per i disoccupati?
  «La situazione economica è grave, anche se lo stato sociale dà dei sussidi a chi resta disoccupato. Gli aiuti non possono andare avanti a lungo».

- Vi è il rischio che si arrivi a una situazione analoga a quella vissuta dall'ltalia lo scorso inverno?
  «Siamo ancora lontani da quella tragica situazione, però l'evolversi della pandemia dipende anche dalla forte incoscienza di alcuni gruppi della nostra società che organizzano riunioni di massa. In Israele abbiamo il Capodanno ebraico che è stato celebrato un paio di settimane fa. Poi vi è la celebrazione ebraica dell'espiazione, il giorno del Kippur. Anche le persone più lontane dalla religione finiscono per andare almeno una volta all'anno alla sinagoga a pregare e quindi si creano dei grandi assembramenti. Poi comincia la festa delle capanne, in ebraico Sukkot, che dura fino a sabato prossimo. Festività ricche di incontri, vedremo che impatto avranno sulla diffusione del virus. Poi si spera che l'ondata di contagi inizi a decrescere anche perché le scuole sono state chiuse e si procede con l'insegnamento a distanza».

(Corriere del Ticino, 7 ottobre 2020)


Israele-Emirati, primo incontro a museo Shoah di Berlino

di Fulvio Miele

 
 
In una scelta altamente evocativa, i ministri degli esteri di Israele ed Emirati Arabi Uniti hanno deciso di incontrarsi per la loro prima volta al Museo della Shoah di Berlino. Una riunione "storica" - dopo l'Accordo di Abramo firmato il mese scorso alla Casa Bianca - di grande impatto per i rapporti tra mondo ebraico ed arabo. "Mai piu'", ha scritto in arabo e in inglese sul libro del Museo il ministro Abdullah bin Zayed Al Nahyan commemorando cosi' "le vittime europee dell'Olocausto".
  "Una riunione che simboleggia l'inizio di una nuova era di pace tra i popoli", ha incalzato Gabi Ashkenazi, figlio di un sopravvissuto alla Shoah ed ex capo di stato maggiore di un esercito che piu' volte ha combattuto contro nazioni arabe. Ed Heiko Maas, ministro degli esteri tedesco, ha definito un "grande onore" il fatto che i due rappresentanti di paesi senza relazioni per decenni "abbiano scelto" proprio Berlino "come luogo del loro primo storico incontro".
  Visitando le sale di un luogo che racconta lo sterminio degli ebrei perpetrato dalla Germania nazista, Zayed Al Nahyan ha commentato che "un intero gruppo di esseri umani e' caduto vittima di quelli che parlano di estremismo e odio" sottolineando invece "l'importanza dei valori umani come la coesistenza, la tolleranza e l'accettazione dell'altro ed anche il rispetto per tutti i credi e le fedi". "Questi - ha affermato - sono i valori sui quali la mia patria e' stata fondata".
  I due ministri - accompagnati da Maas - si sono poi inoltrati nel labirinto di piu' di 2.700 blocchi di cemento disseminati in un'area equivalente a tre campi di calcio: un mausoleo del ricordo. Maas ha sottolineato che la volonta' dei due ministri di incontrarsi i quel luogo mostra "quanto sia serio il loro sforzo per buone relazioni bilaterali". Rapporti sanciti dall'Accordo di Abramo che per il ministro tedesco e' "la prima buona notizia in Medio Oriente da molto tempo". "Questo significa - ha detto - che una pacifica coesistenza nel Medio Oriente e' possibile," che e' possibile "rilanciare il dialogo tra israeliani e palestinesi". Tema ripreso sia dal ministro degli Emirati sia da quello israeliano. "C'e' una nuova speranza per Israele e Palestinesi in modo che - ha detto Zayed Al Nahyan - possano lavorare per una Soluzione a 2 Stati e una regione migliore". Ashkenazi ha fatto appello ai Palestinesi affinche' tornino ai negoziati sottolineando che " trattative dirette con Israele sono l'unica maniera di avanzare verso la pace".

(Juorno, 7 ottobre 2020)


Colloqui Israele-Libano, definire confini per dividersi il gas

Previsto a metà mese il via alle trattative «marittime» mediate da Usa e Onu. Sullo sfondo c'è il basso profilo della Siria, visibile nella mancata reazione all'Accordo di Abramo. Ed Hezbollah sa di dover favorire il dialogo per frenare la crisi economica.

di Michele Giorgio

Dovrebbero cominciare a metà mese i colloqui per la definizione dei confini marittimi tra Israele e Libano che vedranno allo stesso tavolo i delegati dei due paesi assieme ai mediatori statunitensi e dell'Onu.
   La sede degli incontri sarà nei locali della base militare dell'Unifil a Ras Naqura. La certezza che i negoziati prendano il via non c'è ancora. Israele e Libano sono in stato di guerra, non hanno rapporti e le differenze sulla composizione delle delegazioni e altri aspetti «politici» restano ampie. Ma alla fine si faranno: a Ras Naqura saranno in ballo i miliardi di dollari che Tel Aviv e Beirut potrebbero incassare dallo sfruttamento di ricchi giacimenti sottomarini di gas se riusciranno a trovare un'intesa su un'area di 860 chilometri quadrati, nel cosiddetto Blocco 9.
   Non siamo di fronte al primo passo di un futuro accordo diplomatico tra Israele e Libano come banalmente lasciavano intendere qualche giorno fa i resoconti di media entusiasti dell'Accordo di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati e Bahrain.
   Parliamo di gas nel Mediterraneo orientale, la corsa al nuovo oro che coinvolge Turchia, Grecia, Cipro, Egitto, oltre a Israele e Libano, e che potrebbe sfociare in una guerra se le cose dovessero mettersi male. Il presidente del parlamento libanese Nabih Berri ha precisato più volte che i colloqui a Ras Naqura sono estranei alla normalizzazione mediata dall'amministrazione Trump. Ed è stato esplicito sulle finalità del negoziato sottolineando che «se la demarcazione avrà successo potremo pagare i nostri debiti».
   Giorni fa il quotidiano di Beirut Al Akhbar riferiva che l'influente movimento sciita libanese Hezbollah si oppone fermamente alla partecipazione ai negoziati di esponenti del governo israeliano, per impedire che sia dato un carattere politico alla trattativa. L'esecutivo guidato da Netanyahu infatti vorrebbe a capo della delegazione israeliana il ministro dell'energia Steinitz. E il ministro degli esteri Ashkenazi ritiene che «il successo dei colloqui contribuirà in modo significativo alla stabilità della regione». Allo stesso tempo Hezbollah deve favorire l'avvio della trattativa che riguarda lo sfruttamento di una potenziale fonte di ricchezza per il paese dei cedri alle prese con una devastante crisi economica e finanziaria (la peggiore degli ultimi 30 anni) che ha fatto precipitare nella povertà larghi settori della popolazione.
   Conta anche l'accusa mossa da una parte della popolazione libanese al movimento sciita di badare più agli interessi dei suoi alleati iraniani che a quelli del proprio paese. Accusa che Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, respinge con forza. Il Libano ha già assegnato le licenze esplorative nel Blocco 9 a un consorzio di aziende che include la francese Total, la italiana Eni e la russa Novatek. Il governo Netanyahu ha coinvolto le compagnie Delek Drilling e Noble Energy, già partner nello sfruttamento di giacimenti israeliani. Nessuno dei due paesi è attivo nella zona contesa che, affermano i libanesi, sarà delimitata sulla base «del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) concordato nel 1996» e non in altri modi.
   Sullo sfondo c'è il basso profilo sugli ultimi sviluppi regionali che la Siria ha adottato di recente. Oltre a non aver espresso una posizione a proposito della trattativa sui confini marittimi tra Israele e Libano, Damasco ha criticato a bassa voce la normalizzazione di Emirati e Bahrain con i «nemici israeliani». Dopo le forti tensioni degli anni passati per l'appoggio offerto da Abu Dhabi a jihadisti e islamisti radicali schierati contro il presidente Assad, la leadership siriana dalla fine del 2018 vanta buone relazioni con gli Emirati che hanno riaperto l'ambasciata a Damasco sfidando la rivale Turchia.
   La Siria, poi, mantiene buoni rapporti con l'Egitto, alleato degli Emirati, e appoggia il generale libico Haftar contro il governo di Tripoli alleato di Ankara. Gli Emirati, si dice, saranno protagonisti della ricostruzione in Siria se e quando gli Usa cesseranno di ostacolarla.

(il manifesto, 7 ottobre 2020)


E' iniziata l'avventura!! L'Israel Start Up Nation Team alla 103a edizione del Giro d'Italia

E' iniziata l'avventura del Team Israeliano Start Up Nation al 103o giro d'Italia. I risultati sono stati davvero importanti: fin dal primo giorno!

di Mariella Belloni

 
La squadra israeliana è apparsa per la prima volta al Giro d'Italia in occasione della storica Big Start di Gerusalemme del 2018 già con Guy Niv e Guy Sagiv: un evento sportivo che ha davvero emozionato il mondo!
L'allora Cycling Accademy, oggi Start Up Nation, sta partecipando al Giro d'Italia 2020 dopo aver terminato una settimana fa la partecipazione al Tour de France.
L'edizione del 2018 avrà sempre un posto speciale nel cuore del team, dopo quella gara ricca di irripetibili emozioni che vide la Grande Partenza da Gerusalemme.
All'epoca Sylvan Adams, comproprietario della squadra, riuscì a dimostrare agli organizzatori di gare ciclistiche di tutto il mondo l'eccezionale cultura ciclistica della piccola Israele, attraverso la sicurezza delle sue strade e lo splendore dei suoi paesaggi.
Sylvan Adams, il pro-manager Kjell Carlström e il ciclista israeliano Guy Sagiv hanno ricordi fantastici dell'edizione 2018.
Adams ha dichiarato: "Il Giro ha dato alla nostra squadra la prima opportunità di correre in un Grand Tour che è stato reso memorabile quando è iniziato sul terreno di casa, a Gerusalemme. E' bello tornare al Giro per la terza volta, per vedere i nostri vecchi amici".
Kjell Carlström, la mente finlandese del team israeliano, ha continuato: "Iniziare in Israele, con il nostro team, e finire secondi in una delle tappe ebbe un grandissimo significato per l'ICA [ora ISN]".
Guy Sagiv ha continuato: "È stato semplicemente incredibile e da allora molto è cambiato. Questa volta sono qui non solo per sopravvivere, ma per gareggiare". Sagiv vuole aiutare i leader della squadra il più possibile e unirsi ad alcune fughe durante le tappe. "Sono pronto a rappresentare il mio Paese in quella che è una gara speciale per la squadra, per Israele e per me stesso. Credo che abbiamo ottimi velocisti e un risultato storico è in palio ".
Il team dei velocisti della Start Up Nation è di livello mondiale e, oltre a Sagiv, vi sono figure come Matthias Brändle, Alex Dowsett e Rick Zabel, Rudy Barbier e Davide Cimolai.
Cimolai è l'eroe locale dell'ISN al Giro. "Il gruppo trascorrerà quattro giorni attraversando la mia regione. È super eccitante per me".
Il direttore sportivo Nicki Sörensen è fiducioso che questa formazione sarà in grado di ottenere risultati davvero straordinari. "Questo è l'obiettivo principale", ha detto, "e Barbier e Cimolai sono i nostri due ciclisti che possono raggiungerlo. Navarro sarà la nostra forza in montagna. Accanto alle tappe pianeggianti, ci sono alcune giornate particolarmente interessanti per noi, per entrare in fuga. Mi aspetto gare emozionanti in montagna in questo Giro".
Qui di seguito il team:
    Rudy Barbier
    Matthias Brändle
    Alexander Cataford
    Davide Cimolai
    Alex Dowsett
    Daniel Navarro
    Guy Sagiv
    Rick Zabel.
Un bellissimo saluto è stato regalato alla stampa e ai tifosi dal nostro Davide Cimolai che davvero apre il cuore attraverso il suo ricordo dell'emozione vissuta durante la Grande Partenza, alla scoperta di Gerusalemme e della "sua" amatissima Israele.
Con orgoglio Israele promuove e segue le imprese di questo affiatatissimo team. Il Ministero del Turismo di Israele, sponsor ufficiale della squadra con il claim "Two Sunny cities one break. Tel Aviv - Jerusalem" tiene viva la passione per Israele attraverso le imprese e la simpatia di questi giovani atleti. E riprendendo le parole di Davide Cimolai:" vi invitiamo tutti in Israele. Questa Terra è davvero speciale".

(Comunicati-Stampa.net, 7 ottobre 2020)


Il sultano di Ankara sogna l'impero

Il leader della Mezzaluna sta andando alla conquista del Caucaso e del Mediterraneo anche grazie ai tagliagole dell'Isis. Ma l'Occidente e l'Ue sembrano non accorgersene.

di Vittorio Robiati Bendaud.

Gli armeni resistono e questa è l'unica buona notizia al momento. Un aeroporto azero è stato bombardato con successo dalle forze armene, venendo cosi neutralizzato. Non stupisce che molti aerei colà presenti fossero turchi, il che dovrebbe imporre domande gravissime e urgenti alle forze Nato e all'Unione europea. L'altro giorno Los Angeles è stata paralizzata da un'immensa manifestazione pacifica automobilistica di armeni: i discendenti dei sopravvissuti all'opera genocidaria dei Giovani turchi e dei loro sodali. Mobilitazioni simili, più o meno estese, stanno avendo luogo in tutto il mondo libero. Macron si è schierato a fianco dell'Armenia, come in precedenza ha preso misure a favore della Grecia (la quale ha inviato un contingente di truppe a difendere l'Armenia). Se Macron si schierato, con un'iniziativa ottima ma tutta francese, la Ue balbetta imbarazzata: la Spagna ha interessi bancari milionari con la Turchia e il nostro Paese, come altri, non è da meno. La Germania - antica alleata del governo genocidario dei Giovani turchi e, in precedenza, del sultano «rossore Abdul Hamid che impunemente massacrò a centinaia di migliaia gli armeni già a fine '800 -, che ospita un'enorme comunità turca, tace, come si è dimostrata abbondantemente silente in relazione agli attacchi di Erdogan alla Grecia.
  Dalle forze di Yerevan riceviamo ulteriori conferme circa lo spostamento di milizie islamiste dell'Isis (e non solo) lungo i confini armeni, grazie alle truppe turche e azere. Questo conferma quanto riportato già anni fa dai cristiani iracheni, dagli armeni siriani, dagli yazidi nell'ottusità distratta e colpevole dell'Occidente: il legame tra la Turchia di Erdogan, i Fratelli musulmani - che oggi vedono in lui il principale punto di riferimento, coniugante neo-ottomanesimo e panslamismo - e le forze Isis. Erdogan è ai confini dell'Europa (inclusi i confini italiani) e ai confini dell'Armenia, e l'Occidente incredibilmente non riesce ancora a comprendere che si tratta della stessa partita, giocata abilmente e con una progettualità lucida, capace di attendere.
  A rendere ancor più fosco il quadro, il ruolo di Israele. Se gli armeni, almeno negli ultimi decenni, sono alleati degli iraniani, per evidenti e validissimi motivi di sopravvivenza, per ragioni non dissimili, ma esattamente contrarie, Israele è alleato degli azeri, in funzione anti-iraniana, incluso un pessimo commercio di armi, impiegate anche contro gli armeni. Non c'è nulla di letterario in tutto ciò e drammaticamente la realtà supera ogni più oscena fantasia: sicché due popoli sopravvissuti a due genocidi - tra loro peraltro storicamente collegati a triplo filo -, si trovano rispettivamente alleati con potenze regionali che vorrebbero reiterare nei riguardi dell'una o dell'altra minoranza, ricostituitasi in sovranità nazionale, mattanze definitive. E in questo caso è macroscopico il legame azero-israeliano, con i suoi orribili droni, nonostante il paradossale odio antisraeliano e antiebraico, non reversibile, avviato, con l'egida subdola della Fratellanza islamica, da Erdogan. Cortocircuito totale.
  Tuttavia, se la realpolitik imprigiona Armenia e Israele, bisognerebbe però aprire gli occhi, più correttamente, su chi siano oggi Turchia, Azerbaijian e Iran. E su chi siano gli occidentali, coinvolti anche loro nella vendita di armi e in politiche prone a certi governi, come pure i russi, che tutelano l'Armenia, nonostante al contempo abbiano venduto loro stessi armi agli azeri.
  S'impone una riflessione etica e politica per noi occidentali sulla rimozione del genocidio armeno, sul suo essere erroneamente stato ridimensionato per gravità e ricadute nella contemporaneità, nonché, ancor più, sull'opera politica sostanziale e vitale per la quasi centenaria Repubblica di Turchia di negazionismo sistematico di detto genocidio, perseguita tanto in Europa che negli Stati Uniti, spesso con successo.
  Chi ama il mondo libero, sa che la battaglia si combatte a Gerusalemme, come a Yerevan e Stepanakert. Se, Dio non voglia, dovessero cadere, non si pensi che Parigi, Roma e Londra resisterebbero molto di più, anche perché assai più impreparate delle capitali armene e israeliana.

(La Verità, 7 ottobre 2020)


Israele ed Emirati Arabi Uniti, l'intesa valorizza anche la Memoria

La politica internazionale in questo momento è l'unica a regalare buone notizie a Israele. Sul fronte interno infatti, il governo di Gerusalemme con ogni probabilità estenderà il lockdown nazionale fino al 18 ottobre a causa del numero elevato di contagi da coronavirus. La situazione degli ospedali è ancora sotto controllo, ma la pressione legata al numero di malati sta mettendo a dura prova il sistema sanitario.
   E così gli israeliani guardano all'estero per avere qualche notizia che dia fiducia. In particolare alla Germania. Qui, in queste ore, si sta consolidando il percorso costruito dalla diplomazia israeliana con il mondo arabo. Nel segno dello storico accordo siglato il 15 settembre scorso a Washington, il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi ha infatti incontrato a Berlino il collega degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan. Su iniziativa del capo della diplomazia di Abu Dhabi, il primo incontro si è tenuto al Memoriale della Shoah di Berlino. "Una foto storica", hanno commentato i media israeliani in riferimento all'immagine che ritrae Ashkenazi, bin Zayed Al Nahyan e il ministro degli Esteri Heiko Maas, insieme nel luogo che commemora il genocidio degli ebrei d'Europa. "Never again", il significativo "mai più" scritto in inglese dal rappresentante emiratino nel messaggio lasciato in arabo sul libro del Memoriale della Shoah. Accanto, scritto in ebraico, il messaggio del collega israeliano. Un'altra immagine forte di questo nuovo cammino intrapreso da Israele assieme agli Emirati Arabi Uniti, della possibilità di costruire un Medio Oriente diverso.
   "Il coraggioso accordo di pace" tra i due Paesi è "la prima buona notizia dal Medio Oriente dopo tanto tempo, e allo stesso tempo un'opportunità per un nuovo passo nel dialogo tra Israele e i palestinesi", il commento del ministro degli Esteri tedesco Haas, che si è detto onorato di poter ospitare il primo storico incontro tra Ashkenazi e Al Nahyan. "Coraggio e fiducia" sono gli elementi di cui c'è bisogno nel processo di pace in Medio Oriente, ha aggiunto Maas. "Dobbiamo cogliere questa opportunità, e la Germania e l'Europa vogliono aiutare. Spero che Berlino possa offrire una buona cornice per discutere ulteriori passi su questa strada".

(moked, 6 ottobre 2020)


Coronavirus, drammatica situazione in Israele: ospedali al collasso

Il totale dei contagi ha toccato quota 300mila. Pronti soccorsi allestiti nei parcheggi pubblici

di Angelo Papi

Il sistema ospedaliero israeliano è sopraffatto e sulla buona strada per crollare, secondo i massimi esperti della nazione responsabili dei pazienti Covid-19.
In una conferenza stampa straordinaria, il dottor Avishai Elis, segretario dell'Associazione israeliana di medicina interna, ha avvertito il pubblico di un imminente disastro e delle "tragiche implicazioni" della paralisi che ha preso il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo agli ospedali del Paese.
Due settimane fa, Israele è diventato il primo paese al mondo a imporre un secondo blocco a livello nazionale, con fortissime ripercussioni sulla propria economia interna.
Le proteste al Governo si sono mischiate con quelle per il lockdown, imposto sulla base di una seconda ondata paragonabile solo a quanto sta accadendo in Stati Uniti e Francia.
Sabato scorso Israele ha battuto un nuovo record di contagi, con 9.015 casi confermati di Covid-19 in sole 24 ore.
Il premier Netanyahu ha definito le manifestazioni anti governative come "incubatrici di malattie". Il controverso provvedimento di emergenza che limita il diritto di protesta potrà essere rinnovato di settimana in settimana e per molti è un attacco alla libertà del popolo.

 Ospedali allestiti nei parcheggi
  La situazione a livello sanitario sta raggiungendo il limite, con gli ospedali che ormai sono al collasso. Per ogni reparto di coronavirus che si apre, ha osservato il ministero della Salute istraeliano, un reparto di non-covid chiude. Non ci sono abbastanza medici per tenere in piedi entrambi.
I direttori degli ospedali sono stati inoltre irritati dal rifiuto del ministero della Salute di fornire ai medici vaccini antinfluenzali del primo lotto arrivato in Israele - consigliandoli di aspettare fino a novembre - e dalla mancanza di trasparenza del ministero sul contagio.
I casi totali confermati sono comunque saliti a 280 mila, le vittime a 1780. Il numero dei pazienti in terapia intensiva torna a farsi preoccupante, toccando quota 900. Continuando così fra poche settimane non ci saranno più posti per i ricoveri. In questa emergenza il Governo sta allestendo dei reparti di emergenza all'interno di aree pubbliche. Ad Haifa è stato realizzato un nuovo ospedale in un parcheggio sotterraneo, in previsione di un'ondata di pazienti gravi.

(News24.it, 6 ottobre 2020)


Choc ad Amburgo: aggredito con la vanga uno studente ebreo

Merkel: una vergogna

BERLINO - E' stato aggredito mentre si recava alla sinagoga di Hohe Weide, ad Amburgo, nel pomeriggio di domenica, per celebrare la festa di Sukkot. L'autore del crimine, un 29enne berlinese di origini kazake in tuta mimetica, lo ha colpito alla testa con una vanga, prima di essere sopraffatto dagli agenti di sicurezza e consegnato alle autorità. La vittima, uno studente ebreo di 26 anni, è rimasto ferito in modo grave e ricoverato in ospedale. Immediatamente la polizia e la procura della città hanno aperto un'inchiesta per «tentato omicidio» di «matrice antisemita» sulla base di alcuni dettagli inquietanti. L'aggressore non ha agito a caso: lo studente è stato "scelto" e attaccato proprio mentre entrava nel luogo di culto. Nella tasca del 29enne, è stato trovato un disegno con una croce uncinata.
   L'attacco, inoltre, è avvenuto a pochi giorni dall'anniversario dell'attentato alla sinagoga di Halle compiuto da un estremista di destra. Allora, Stephan Balliet, riuscì ad uccidere due persone prima di essere fermato: al momento è sotto processo. Il nuovo crimine ha molto colpito l'opinione pubblica tedesca. E «vergognoso», ha tuonato il governo tedesco. «Si stenta a credere che una cosa del genere sia potuta accadere nelle strade del nostro Paese», ha tuonato il portavoce della cancelliera Angela Merkel, Steffen Seibert. E ha aggiunto: «Il governo è inorridito. Condanniamo questo atto con la massima fermezza».
   Negli ultimi tre anni, la Germania ha assistito a un aumento esponenziale delle aggressioni antisemite: queste sono triplicate. Solo l'anno scorso, ne sono state registrate 2.032. Il mese scorso, Merkel aveva espresso forte preoccupazione per l'incremento dell'antisemitismo. Perché quest'ultimo continua a sopravvivere? si è domandato Ronald S. Lauder, presidente del World Jewish Council. E ha sottolineato l'importanza dell'educazione delle nuove generazioni per rompere la catena dell'odio.
   
(Avvenire, 6 ottobre 2020)


Così la Brigata Ebraica guidò i sopravvissuti in Palestina

Finita la guerra, 20 mila persone desiderose di lottare per la nascita dello Stato di Israele vennero trasportate clandestinamente ad Haifa. Un saggio ricostruisce il viaggio della libertà.

di Enrico Franceschini

La Brigata Ebraica
LONDRA — In una sera di giugno del 1946, l'ex-corvetta della marina militare canadese Wedgwood salpa dal porto ligure di Vado con a bordo uno strano equipaggio di un migliaio di uomini e donne. Domenico Farro, oggi un pescatore 84enne ancora residente nella cittadina in provincia di Savona, non ha dimenticato l'impressione che gli fecero quelle facce smunte: tira in dentro le guance per mostrare quanto fossero scavate da fame e sofferenze, più di un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
   Da simili testimonianze dirette, rintracciate meticolosamente da un capo all'altro dell'Europa, la ricercatrice inglese Rosie Whitehouse ha ricomposto la storia di come i soldati della dissolta Brigata Ebraica dell'esercito britannico, subito dopo la fine del conflitto, organizzarono un'operazione segreta per trasportare clandestinamente in Palestina migliaia di sopravvissuti dell'Olocausto, desiderosi di lottare e se necessario combattere per creare lo stato di Israele. Il risultato della sua inchiesta è The people on the beach -journeys to freedom after the Holocaust, un libro pubblicato nel Regno Unito, di cui ha fornito un'anticipazione il Times.
   La Gran Bretagna è la prima nazione a riconoscere nel 1917 il diritto a «una dimora nazionale per il popolo ebraico» in Palestina, allora parte dell'Impero ottomano, avvicinando l'obiettivo sionista di uno stato ebraico. Ma alla vigilia della Seconda guerra mondiale, mentre Londra controlla la Palestina attraverso il cosiddetto "mandato britannico", il governo di Neville Chamberlain si oppone all'immigrazione degli ebrei in Palestina. Tuttavia, nel 1944 Churchill in persona autorizza la formazione di una Brigata Ebraica composta da circa 5 mila volontari ebrei della Palestina mandataria e di altre regioni. Il battesimo del fuoco per quei battaglioni avviene sul fronte italiano, a Brisighella, in provincia di Ravenna, contro unità tedesche che non possono credere di trovarsi di fronte soldati con la bandiera della stella di Davide e l'uniforme inglese.
   Nel 1945 la Brigata viene dislocata a Tarvisio, in Friuli, per tenerla lontana da possibili vendette in Germania. Senonché, così facendo, l'alto comando britannico fornisce al corpo di volontari ebrei una carta decisiva per il suo ruolo successivo: vicina al confine con l'Austria, Tarvisio è una base perfetta per soccorrere i superstiti della Shoah e aiutarli a emigrare in Palestina. Oltre che per individuare e uccidere ex-criminali nazisti che cercano di nascondersi.
   Il club della Brigata Ebraica, a Palazzo Odescalchi, a Milano, si trasforma in un ufficio fantasma di emigrazione dal quale passano migliaia di profughi scampati ai lager di Hitler. Nell'ex-colonia fascista di Sciesopoli, a Selvino, nelle Prealpi bergamasche, la Brigata apre un centro di accoglienza per 800 bambini ebrei rimasti orfani e prepara anche loro all'emigrazione. E dal porti della Liguria, in particolare quello di Vado, organizza la partenza di ex-navi militari o imbarcazioni di fortuna, carrette del mare acquistate per quattro soldi per un viaggio di sola andata fino in Palestina. La Wedgwood, che durante la guerra dava la caccia alle U-boat tedesche, è una di queste: dopo un'odissea di otto giorni in cui evade il blocco navale britannico, i suoi passeggeri sbarcano finalmente a Haifa.
   Sono la "gente sulla spiaggia" a cui allude il titolo del volume: un anno dopo giunge la risoluzione dell'Onu che riconosce uno stato ebraico in Palestina e nel 1948, dopo la guerra d'indipendenza risultata dall'attacco dei paesi arabi, la nascita dello stato di Israele. Più di 20 mila ebrei arrivano nella Terra Promessa grazie alla Brigata Ebraica, i cui soldati non obbediscono più a Londra bensì a David Ben Gurion.
   Il libro di Rosie Whitehouse narra questa epopea poco conosciuta tra i cui eroi abbondano gli ebrei italiani, come Ada Sereni e il marito Enzo, paracadutatosi dietro le linee tedesche, quindi catturato e morto nel campo di concentramento di Dachau. Una storia, nota l'autrice, nella quale i sopravvissuti dell'Olocausto emergono "non come un popolo debole e oppresso, né come aggressivi imperialisti decisi a conquistare una terra straniera".

(la Repubblica, 6 ottobre 2020)


Beata Nemcovà. La guardiana

È la custode volontaria di un cimitero ebraico in una città della Slovacchia. Motociclista e antifascista, ha trasformato un luogo abbandonato in un monumento alla memoria storica della comunità locale.

di Stefan Chrappa

 
Beata Ruckschloss Nemcovà
Strade tortuose arrivano a Banskà Stiavnica, nel centro della Slovacchia. È una città dall'atmosfera straordinaria, che non a caso negli ultimi anni attira un numero crescente di turisti. È così ambita che la domanda di immobili è in costante aumento, e questo a sua volta fa salire le quotazioni immobiliari. C'è davvero qualcosa di particolare qui. Stiavnica ha i suoi segreti e i suoi traumi sia nel lontano passato sia nel presente. Il suo misterioso castello è incantevole: costruito attorno a una chiesa medievale, si dice fosse una roccaforte dei templari.
  Nel quartiere, tra piazza della Santa Trinità e piazza Radnicné, c'è la chiesa di Santa Caterina, che fu costruita dai minatori. Al cantiere parteciparono sia cattolici sia luterani. Alla fine la chiesa rimase cattolica, ma fin dal 1658 in questa città multiculturale si predicava in slovacco. Di fronte a Santa Caterina sorge una chiesa evangelica in stile classicista.
  Incastonata dentro un edificio, ci lascia di stucco quando, entrando dal fondo, c'imbattiamo nella sua originale organizzazione dello spazio. Il pilastro della Santissima Trinità fu eretto all'inizio del settecento dopo che la città era stata colpita da un'epidemia di peste. Nel vicolo dietro la piazza del municipio c'è una sinagoga neologa del 1893. Percorriamo poche centinaia di metri su una ripida scala e arriviamo al castello rinascimentale, Novy Zàmok, da cui si può ammirare il panorama di Stiavnica.
  Tutti questi edifici raccontano delle storie: turbolente o gloriose che siano, hanno lasciato segni che l'occhio del visitatore può leggere e decifrare. Tuttavia in questa città mineraria, un tempo molto ricca e importante, c'è anche un luogo che è il testimone silenzioso di altri eventi. Ed è lì che ci stiamo dirigendo.
  La nostra guida, Beata Ruckschloss Nemcovà, interprete in tribunale, custode del cimitero ebraico della città e guida dell'associazione civica Omnis Terra, ci sta aspettando nel parcheggio ai piedi del castello. Gira su un'elegante motocicletta nera e sembra l'eroina di un film d'azione. Ha un simbolo antifascista stampato sulla bandana: una svastica barrata di rosso. Si toglie il casco e gli occhiali, ci dà il benvenuto e ci mostra il percorso che faremo insieme.
  Prendiamo degli attrezzi e delle torce dalla macchina e saliamo verso il castello, svoltando a sinistra su una strada non asfaltata. Ruckschloss Nemcovà, la nostra carismatica guida, ci precede lentamente sulla sua moto chopper. Si ferma, indica un punto e ci racconta di quando l'autocarro su cui viaggiava si è ribaltato: "Il bordo della strada era franato, fortunatamente non è successo niente a nessuno, ma è stato pericoloso".

 Senza soluzione
  Da lontano vediamo la cupola della camera mortuaria che domina il cimitero. Ci avviciniamo. Ruckschloss Nemcovà ferma la moto e tocca con la punta delle dita il muro scrostato. Sull'edificio sfregiato due cartelli indicano gli artefici di questa desolazione. "I comunisti provarono a tenere insieme la struttura fissandola con il cemento, ma alla fine è franata sotto al suo peso. A quell'epoca le cose venivano sempre fatte in modo provvisorio. Noi abbiamo eliminato il cemento e abbiamo intonacato l'interno. Poi abbiamo ricevuto i finanziamenti dalla fondazione di una banca e abbiamo cominciato a intonacare anche l'esterno".
  È stato l'inizio di un'esperienza esasperante. A volte in Slovacchia sembra che niente possa cambiare. Cos'è successo dopo? "L'intonaco all'esterno era stato realizzato in modo non professionale, ed è crollato insieme a quello precedentemente applicato all'interno", spiega Nemcovà.
  In quel periodo lei aveva rischiato di perdere una gamba a causa di un infortunio. Quando è finalmente riuscita a tornare al cimitero, è rimasta inorridita. "Quattro mesi dopo la fine dei lavori l'intonaco stava crollando. Ho trovato un grosso calcinaccio qui per terra, non potete immaginare come mi sono sentita in quel momento". L'impresa che aveva eseguito i lavori di restauro sosteneva che nella camera mortuaria era tutto a posto. E così si è aperto un contenzioso in cui non ci sono stati vincitori, ma solo vinti, o piuttosto beffati: tutti quelli che riposano nel cimitero e le persone a cui questo posto sta a cuore.
  "Abbiamo cercato in tutti i modi di ottenere giustizia, firmando petizioni, facendo denunce e ricorsi. Abbiamo anche un rapporto di più di cento pagine di un esperto. L'impresa che ha fatto i lavori lo aveva commissionato per incolpare noi, invece le perizie confermano che il restauro è stato eseguito in modo sbagliato. Siamo arrivati al culmine quando l'impresa è stata venduta e noi siamo rimasti con un palmo di naso". La camera mortuaria sarà ricostruita quando si troveranno i fondi necessari e dei donatori.
  Ruckschloss Nemcovà apre il massiccio cancello in ferro battuto della camera mortuaria. Ci indica il panorama del cimitero ebraico su un terreno in pendenza, come tutto in questo angolo del paese. Da qui si vede anche il panorama di Stiavnica, i tetti delle case e la chiesa del Calvario, a pochi chilometri in linea d'aria.
  Beata Ruckschloss Nemcovà è nata a Banskà Stiavnica. Quando insegnava inglese in una scuola superiore della città, i suoi studenti lavoravano a un progetto sui luoghi dimenticati. "Una volta completato il lavoro, ci siamo resi conto che era rimasto fuori questo cimitero ebraico. Siamo venuti qui. Siamo rimasti incantati dal luogo e abbiamo deciso di rimetterlo a posto in un anno". Era un piano coraggioso ma ingenuo. Il cimitero era ricoperto di erba alta e vegetazione spontanea. I monumenti erano crollati. "Non sapevamo neanche cosa fosse esattamente, ma sapevamo che dovevamo fare qualcosa. Era il 1997. Non avevamo idea di quante fossero le tombe, a cosa servissero quegli edifìci fatiscenti. In poche parole, era una giungla. Quando abbiamo tagliato l'edera e le erbacce,abbiamo scoperto che c'erano molte tombe. Le abbiamo pulite tutte, una per una. Di tutte le pietre tombali ne erano rimaste in piedi solo quattordici. Le altre erano state abbattute. Dopo la pulizia, abbiamo dovuto mappare le tombe, riportare al loro posto le pietre tombali ed erigerle di nuovo. Erano sparse per il cimitero e nell'area circostante. Molte mancavano, erano state rubate, prese per farne materiale da costruzione o da incisione. Un gioco da ragazzi: basta cancellare i nomi sulla lapide per ottenerne una pronta da vendere. Così si fanno affari d'oro, no?", dice Ruckschloss Nemcovà.
  Oggi ogni tomba è localizzabile, ha una descrizione e una documentazione fotografica. C'è anche il cimitero virtuale di Banskà Stiavnica, un sito creato anni fa da alcuni studenti di geodesia come tesi di laurea.
  Attraversiamo il cimitero, fermandoci vicino a ogni tomba. La nostra guida indica una lapide rotta: "Questa è la più antica". Gli esperti hanno confermato che è del cinquecento. È stata la prima. "Cosa c'è scritto? Non lo sappiamo. Abbiamo inviato una foto ai nostri amici esperti in Israele, ma non hanno saputo darci una risposta perché manca un pezzo e le lettere rimaste sono danneggiate".

 Pregi e difetti
 
Il cimitero ebraico di Banskà Stiavnica
  Le pietre tombali nel cimitero ebraico di Stiavnica sono poliglotte. Alcune hanno iscrizioni solo in ebraico, altre in due o addirittura tre lingue. "Stiavnica ha un passato multiculturale: tedeschi, slovacchi, ungheresi, cechi ed ebrei vivevano qui fianco a fianco. Queste pietre tombali mostrano chiaramente quale fosse la lingua prevalente in un dato periodo. I più affascinanti sono gli epitaffi spiritosi. Nei cimiteri cristiani una cosa del genere non sarebbe concepibile. Eppure quelle scritte ci dicono chi era realmente la persona sepolta e che neanche i difetti potranno essere dimenticati. In poche parole, qui giacciono uomini e donne, non immagini idealizzate", osserva la nostra guida. "È tutto più umano".
  Nel quartiere c'è anche un cimitero cristiano. All'interno c'è un monumento eretto in memoria delle ultime vittime della seconda guerra mondiale. "Qui viveva anche una comunità tedesca. Nel caos della guerra sono usciti allo scoperto i lati più oscuri delle persone. Questi tedeschi non erano collaborazionisti. Erano a tutti gli effetti cittadini di Stiavnica. Nonostante questo furono fucilati vicino alla stazione ferroviaria".
  Alcune tombe ebraiche si possono trovare anche nei cimiteri cattolici o evangelici. Quasi tutti i defunti erano parenti acquisiti.
  Quando i volontari hanno cominciato a pulire il cimitero, le reazioni dei residenti non sono state per niente entusiaste. Per questo terreno c'erano altri progetti. "Qui volevano costruire un palazzo. D'altra parte il posto è bellissimo, tranquillo, soleggiato. È forse un problema se qualcuno va a vivere sul sito di un ex cimitero? La gente sembra più infastidita dai furti delle lapidi, ma la costruzione di un palazzo non gli darebbe fastidio. Tuttavia, se si trattasse della tomba dei loro nonni probabilmente non permetterebbero uno scempio del genere".
  La distruzione dei monumenti ebraici e la profanazione delle tombe è tipica dello pseudopatriottismo slovacco e dell'antisemitismo. Se ne sente parlare spesso. Com'è la situazione a Stiavnica? "Ci sono casi anche dalle nostre parti, cinque o sei volte all'anno. Avevamo sia foto sia video degli atti vandalici, ma questi materiali non possono essere usati come prove. Di solito risolviamo il problema ricostruendo il monumento abbattuto. Non chiamiamo più la polizia, ci siamo resi conto che non ha senso".
  La guida ha un modo tutto suo di trattare i delinquenti: "Quei ragazzi, quasi tutti giovani non troppo istruiti e non molto consapevoli, sono stracolmi di energia e a volte di alcol. Io li ho portati qui a pulire qualche tomba. Nel frattempo mi sono messa a raccontargli della comunità ebraica locale, della tragedia accaduta qui. Molti di loro si sono vergognati di quello che avevano fatto e si sono scusati. C'è un solo modo: informare ed educare".

 Il ritorno
  Per ogni problema che affligge la Slovacchia, il filo rosso porta sempre alle scuole. "Lì è cominciato tutto. Tengo lezioni anche agli insegnanti: non mi metto a elencare date, ma cerco di coinvolgerli con l'aiuto di racconti ed emozioni".
  Se il cimitero fosse dichiarato monumento nazionale, le sanzioni per gli autori degli atti di vandalismo potrebbero essere più severe, anche se non gli impedirebbero di commetterli. Molto spesso i visitatori chiedono a Ruckschloss Nemcovà perché gli ebrei, a cui appartiene questo cimitero, non se ne occupino. "Perché per il 99 per cento sono stati uccisi! Ma tramite il sito siamo stati contattati da persone che avevano dei parenti qui. Per esempio, un canadese che di cognome fa Hell è un discendente dei famosi Hellov. La sua famiglia emigrò oltreoceano. Hell è professore di matematica in Canada. Quando è tornato a vedere il posto e poi siamo andati nella sua vecchia casa è stato un momento magico. Nella sua cameretta c'era ancora un dipinto che aveva lì da bambino. Oggi è chiusa, sarà ricostruita".
  Cosa pensa Ruckschloss Nemcovà del fatto che dei politici dichiaratamente fascisti hanno incarichi importanti in Slovacchia? "Nel 2006 i giornalisti mi hanno chiesto se pensavo che il fascismo sarebbe tornato. Tornare? È già qui! Mi hanno trattato come un'isterica. Ma oggi i fascisti sono in parlamento! ".
  Che ne sarà del cimitero? Le riparazioni della camera mortuaria andranno avanti, poi ci sarà una mostra sui rituali funebri ebraici, una rarità in Europa. "Tutti dovrebbero trovare un cimitero, almeno immaginario, di cui prendersi cura. È a tutti gli effetti un investimento a lungo termine", dice Nemcovà.

(Kolòt, 6 ottobre 2020)


Per il "Kibbutz" di Indro tradimenti e polemiche

L'anno successivo al viaggio in Palestina la prima del dramma, ambientato in una colonia agricola.

di Angelo Allegri

Tra le opere teatrali di Montanelli non è la più nota, ma è strettamente legata al suo viaggio reportage in Israele: nel novembre del 1961 va in scena a Milano «Kibbutz», dramma in tre atti ambientato in una comunità di coloni.
   Il protagonista maschile è Ernesto Calindri (primattore l'anno precedente anche de «I sogni muoiono all'alba», opera dedicata alla rivolta ungherese), quella femminile è Pupella Maggio, famosa per le interpretazioni del teatro di Scarpetta e di Eduardo De Filippo.
   La vicenda ruota intorno alla storia di Rachele, ebrea napoletana (la Maggio, appunto): è una delle animatrici del kibbutz ma si scopre che è stata amante del braccio destro di Adolf Eichmann, per viltà e convenienza ha tradito i suoi correligionari. I coloni si interrogano su cosa fare, alcuni sono posti di fronte ai compromessi del recente passato. Alla fine decidono di non denunciarla. Come spiegherà lo stesso Montanelli in un'intervista: «Quanto dolore. Come giudicare, dunque? Meglio assolvere, meglio dimenticare, con il passato della donna del kibbutz, anche il nostro».
   Dietro il lavoro teatrale c'è, come detto, la scoperta di Israele. Ma anche l'eco della cattura dello stesso Eichmann, che i servizi segreti israeliani hanno rapito e trasferito in Israele, dove sarà processato, nel maggio del 1960.
   Come scrivono Sandro Gerbi e Raffaele Liucci, autori di «Indro Montanelli. Una Biografia» (Hoepli): «Il dramma ottiene un buon successo di pubblico, ma suscita reazioni contrastanti sulla stampa dell'epoca». E le reazioni corrispondono agli schieramenti politici e culturali. Dal Corriere della Sera (per cui Montanelli scrive) e dal giornale della comunità ebraica milanese arrivano lodi, dall'Unità e dal «progressista» Giorno, piovono stroncature. Un «festival del qualunquismo», «saga della strizzatina d'occhio», un'opera «decisamente brutta», scrive il critico di quest'ultimo giornale, Roberto De Monticelli.
   In ogni caso, scrivono Gerbi e Liucci, «l'interesse per la cosiddetta questione ebraica» non abbandonerà mai Montanelli. Negli ultimi anni, dal 1996 in poi, ne farà oggetto di almeno 15 della sue Stanze sul Corriere. Significativi negli anni successivi al Reportage gli interventi sul caso Eichmann: Montanelli non si schiera contro la condanna capitale, ma chiede una pena suppletiva: bisogna mostrargli Israele, deve vedere «ciò che gli ebrei, questa razza da lui ritenuta inferiore e maledetta, hanno fatto in quell'angolo di sabbioso deserto», deve avere di fronte agli occhi «la superba avventura pionieristica di questo popolo». Sarebbe questo, scrive, «il suo vero e più terribile castigo».
   
(il Giornale, 6 ottobre 2020)


Al Meis di Ferrara dal 6 all'8 ottobre la Festa del libro ebraico

La bambina Matilde, i geroglifici e la capanna di Sukkot

Quest'anno la festa sarà sotto la capanna. Il giardino del museo per la prima volta ospiterà la Sukkà adornata da frutta di stagione, la tradizionale capanna che viene costruita dalle famiglie ebree in occasione della festa di Sukkot, per ricordare il periodo vissuto nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Torna dal 6 all'8 ottobre a Ferrara la Festa del Libro Ebraico, l'annuale appuntamento del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah (Meis) dedicato alla letteratura italiana e internazionale con presentazioni e incontri. Il festival, giunto alla sua undicesima edizione e realizzato con il contributo della Regione Emilia-Romagna e il patrocinio del Comune di Ferrara e dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, prende il via domani alle 18 con l'incontro "Il potere del segno", una conversazione tra Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, e Amedeo Spagnoletto, direttore del MEIS, sul mondo della scrittura e l'identità a partire dai caratteri dell'ebraico biblico e dei geroglifici egizi.
- Mercoledì alle 16 verrà presentato il volume "Archivio e camera oscura - Carteggio 1932-1940" (Adelphi) che raccoglie le lettere tra il filosofo Walter Benjamin e il teologo Gershom Scholem: a discuterne con il curatore Saverio Campanini, saranno lo storico sociale delle idee David Bidussa e Shaul Bassi, professore all'Università Ca' Foscari.
- Seguirà la presentazione del catalogo "Oltre il ghetto. Dentro & Fuori" (Silvana Editoriale) pubblicato in occasione della nuova grande mostra del Meis che verrà inaugurata nel marzo del 2021. A parlarne sarà Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi - uno dei prestigiosi musei che hanno prestato le loro opere per l'esposizione - assieme alle quattro curatrici Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel.
- Giovedì 8 ottobre alle 16 il presidente del Meis Dario Disegni e l'avvocato ferrarese Marcello Sacerdoti presentano "I racconti di Matilde" di Ermanno Tedeschi (edito dall'Associazione Culturale Acribia): la vera storia di una piccola bambola che ha viaggiato il mondo dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938.
- Si conclude alle 18 con la presentazione del libro "Olocaustico" (Giuntina) di Alberto Caviglia.

(Il Messaggero, 5 ottobre 2020)


La scoperta di Israele il reportage e gli ebrei italiani

«Dopo quel libro ci sentimmo meno soli». Sessant'anni fa Indro Montanelli pubblicava il suo viaggio-reportage sullo Stato ebraico. Fu una svolta che contribuì a cambiare l'immagine del Paese appena nato. Tra gli israeliti italiani c'è chi non l'ha dimenticato.

Sinistra e parte del mondo cattolico contro Israele. Sull'altro fronte Montanelli e la minoranza liberale. Il fondatore del «Giornale»: «I profughi palestinesi? Povere vittime non c'è dubbio, ma degli Stati arabi».

di Alberto Giannoni

«Ci deve pur essere un segreto che spieghi il miracolo ebraico». Non aveva intenzioni celebrative, Indro Montanelli, quando partì per raccontare il Medio Oriente. Ma senza volerlo, si trovò di fronte a una sorta di prodigio. Umano, umanissimo. Una «meravigliosa avventura umana che mi ha ipnotizzato», disse. Lo chiamò inizialmente «mistero» o «segreto», ma quello che andava via via descrivendo era l'autentico miracolo del nascente Stato israeliano.
  Sono passati 60 anni esatti dall'uscita del Reportage su Israele, il libro che raccolse le corrispondenze del grande giornalista toscano. Era il 1960 e dalla proclamazione dello Stato israeliano ne erano trascorsi appena 12, un soffio nella storia. Eppure il suo sguardo - prima scettico, poi ammirato - colse allo stato embrionale motivi destinati a diventare portanti: il pionierismo, lo slancio verso il futuro, il rigore e una peculiare idea di laicità. Molti anni dopo, l'amicizia per Israele ha germogliato in buona parte del mondo politico, ma allora gli amici di Israele erano rari. Montanelli fu fra i primi a gettare questo seme. «Ricordo come lettrice e come giornalista le sue posizioni - osserva Fiona Diwan, direttrice del mensile Bet Magazine e di Mosaico, il portale della Comunità ebraica di Milano -, ricordo il suo entusiasmo per Israele e l'ammirazione per lo spirito pionieristico, per la capacità di applicare scienza e tecnologia per migliorare le condizioni di vita delle persone, in un luogo che era avarissimo. L'immagine del deserto che diventa giardino oggi suona retorica ma allora non era così diffusa. Certamente - prosegue - la matrice liberale-repubblicana e quel tipo di cultura, così nobile, nell'Italia di quegli anni, hanno fatto sì che ci sentissimo meno soli e che Israele fosse meno solo. E stato molto importante».

 Voci nel deserto
  Erano gli anni in cui stava per consumarsi quello che il grande rabbino Giuseppe Laras avrebbe chiamato «il tradimento delle sinistre». E le voci laiche pro Israele cominciavano una traversata nel deserto. «La sinistra, quasi tutta, e la Dc, col mondo cattolico, sono stati a lungo contro la causa israeliana - ammette Ugo Volli, professore all'Università di Torino, semiologo, ebreo, con un passato a sinistra -. Dall'altra parte c'erano voci più isolate, penso, appunto, a Montanelli, a Giovanni Spadolini, a Ugo La Malfa. Queste privilegiavano un'idea di democrazia liberale che ora può apparire ovvia, ma allora non lo era affatto».
  Lo Stato di Israele era nato nel 1948 con il sì di Usa e Urss. Per ragioni geopolitiche, i sovietici - memori anche del feroce antisemitismo di Stalin - presto trasformarono quel favore in aperta ostilità, e i partiti comunisti europei seguirono come sempre. «La storia è questa - riflette Volli -, dopo Shoah e Nazismo ci fu un'incomprensione del sionismo come movimento di liberazione del popolo ebraico, e di Israele come rottura del colonialismo britannico. Israele nasce in una convergenza di posizioni fra Usa e Urss, che si rompe quando Israele non si mostra obbediente alla sfera di influenza sovietica. Anche il mondo cattolico è sempre stato diffidente, c'erano anche questioni teologiche aperte, fino al Concilio, e la Dc maturò l'idea del ponte col mondo arabo. Però un'esigua parte della cultura laica, possiamo citare Montanelli, Oriana Fallaci e altri, al di là della sua posizione sugli ebrei aveva la percezione di Israele come luogo di "cultura occidentale" e sapeva che era attaccato solo per questo».
  Sessant'anni fa, Montanelli già negava il carattere religioso del nascente Stato degli ebrei. «Essi - avvertiva - appartengono all'Occidente, tutto nel loro Paese, odora d'Europa». «Democrazia laica, lo sono già». Sulla Domenica del Corriere, lo riporta Progetto Dreyfus, raccontò la genesi della sua missione bisettimanale verso quella che chiamava, e innegabilmente era, la «Capitale Gerusalemme». Avrebbe dovuto «studiare» i Paesi arabi. «Ma dopo un paio di giorni - confessava - avevo abbandonato il progetto, anzi me lo ero completamente dimenticato, tutto preso com'ero dall'interesse che in me suscitavano le cose locali». E il suo interesse si rivolse appunto al «mistero», o al «miracolo» di Israele, a cui si avvicinò con la proverbiale franchezza, che in alcuni passaggi oggi appare brutale, ma infine si risolve in autentica ammirazione. Come avranno fatto - si chiedeva - a «convenire all'agricoltura alcune fra le più desolate petraie del mondo. Di dove hanno tirato fuori quegli uomini di Stato e quei generali che li hanno così ben guidati. (...) Ci deve essere una chiave, che decifri questo mistero».

 La scoperta di un miracolo
  Eccola, la scoperta di Israele, che sopravvive «incuneata in un mondo ostile», ed economicamente inizia a prosperare pur priva di risorse e materie prime. Nessuno avrebbe scommesso sulla riuscita di questa scommessa allora. «E ci siamo grossolanamente sbagliati», ammetteva, perché Israele «in dieci anni ha dato un esempio di vitalità e di capacità organizzativa». Ed eccole, la ragioni del miracolo: «L'ideale del pioniere». Poi i soldati. Israele è «fondato sulla spada», ma le circostanze lo hanno «imposto». L'esercito lo vedeva «giovane, svelto, empirico e senza pance», incarnato nella figura di Moshe Dayan, artefice nel '56 di un «capolavoro» e capace di dirigere le operazioni militari da un piccolo aereo di ricognizione che «guidava da solo tenendolo librato in volo». Incontrò Ben Gurion, che rappresenta la dimensione profetica dei padri di Israele, e incontrò proprio Dayan, ebreo nato in Palestina, generale appena entrato in politica: «Questa è casa nostra - disse -. Ne siamo stati i più antichi abitatori. E abbiamo dimostrato di saperla difendere, quando occorre». Infine, c'è un socialismo che non si impantana nella burocrazia, un «socialismo umanitario di ispirazione tolstoiana», un socialismo «esemplare». «Non siamo uno Stato comunista e non vogliamo affatto diventarlo», precisa Dayan. Ed ecco il kibbutz. L'uomo del kibbutz è il «portabandiera» della nascente cultura israeliana.

 Laboratorio di umanità
  «Montanelli - spiega Diwan - vede benissimo il tema del kibbutz come laboratorio, esperimento sociale riuscito, e non ha mai cambiato idea. L'estremo sacrificio fisico lo riempiva di stupore, riconosceva il valore di tutto ciò. Sapeva che sono gli uomini a fare i Paesi e cominciò anche a dire che nei Paesi in cui lo sviluppo non decolla occorre interrogarsi sul perché. La sua è stata una voce fuori dal coro anche sul problema palestinese. Ammetteva che i palestinesi erano vittime, ma vittime dei Paesi arabi. Aveva visto lungo, e lo aveva fatto allora, quando il mondo cattolico e comunista si defilarono, intimando «Davide discolpati». L'immagine di un Israele vittorioso per molti era intollerabile: il popolo ebraico deve essere umiliato, perdente e offeso, solo allora possiamo chinarci su di lui. Ecco, lui aveva un'idea opposta. In questo era davvero originale».
  La scoperta di Israele sfata subito varie leggende che avrebbero alimentato in seguito la vulgata anti-israeliana. Montanelli, per esempio, usava l'aggettivo «palestinese» nel suo significato proprio: abitante della Palestina, a prescindere da etnia e religione. E raccontò la vera storia dei coloni: «Non occuparono le terre di nessuno. Comprarono, spesso a prezzi esosi, quelle incolte dei latifondisti arabi, ridotti a petraie dalla voracità delle loro capre». Chiarì anche l'uso strumentale dei profughi.
  Certe sovrastrutture ideologiche erano ancora di là da venire. Non imperava il politicamente corretto e Montanelli raccontò una verità scarna, con qualche asprezza, propria dei tempi. Però si fece beffe degli stereotipi: in uno scritto osservava per esempio che «tutto è perfettamente organizzato in Israele» e che «l'unica cosa che funziona male sono le banche». Andò dritto al cuore della questione e ci trovò, quasi inaspettatamente, qualcosa che per lui contava: valore umano, visione del futuro. Raccontò dei milioni di alberi piantati, e protetti, riflettendo: «Questa è gente che pianta alberi perché crede nel domani». Ciò che lo colpì sopra ogni cosa? «Gli occhi dei bambini ebrei». «In Israele gli occhi dei bambini ridono, o sorridono, anche quando il volto è curvo e intento sul compito di scuola».

(il Giornale, 5 ottobre 2020)


"Contro il virus, una lotta per la nostra vita"

Rivlin nella sua Sukkà
"Questa domenica mattina doveva essere l'ultima volta che, durante il mio mandato, avrei aperto la mia casa al popolo israeliano in onore della festa di Sukkot. È sempre stata una giornata di festa e di cuore per me e per mia moglie Nechama, che si mescolavano tra i visitatori per ore e ore, senza mai perdere l'occasione di stringere la mano a qualcuno o di fare un selfie. Mi piaceva vedere i bambini correre e giocare, lavando via la serietà di questa vecchia casa e riempiendola di gioia festiva. Ma quest'anno la mia casa è rimasta chiusa". Sono amare le considerazioni del Presidente d'Israele Reuven Rivlin in questa che sarà la sua ultima festa di Sukkot nella residenza presidenziale. Il prossimo anno infatti scadrà il suo mandato. In sette anni Rivlin è diventato una figura molto apprezzata della politica israeliana, grazie al suo impegno per far dialogare la politica e i diversi settori della società.
   Non sono mancati momenti complicati nel corso della sua presidenza, in particolare rispetto all'instabilità politica degli ultimi anni. Contro il continuo ricorso alle urne, Rivlin si è espresso in modo deciso e chiaro, appellandosi ai leader politici affinché trovassero una quadra. Alla terza votazione in un anno, l'intesa è stata trovata nella primavera scorsa, ma con essa è arrivata anche la crisi sanitaria da affrontare. Una crisi che accompagnerà il Presidente nel suo ultimo anno di mandato. "Siamo impegnati in una battaglia per la nostra vita, ma anche in una battaglia per salvare gli altri. E se non collaboriamo e non seguiamo gli ordini come in tutte le precedenti guerre del Paese, non la vinceremo", ha dichiarato Rivlin, parlando ai suoi concittadini in occasione della festa di Sukkot.
   Il numero di positivi confermati in Israele, al momento chiuso per il secondo lockdown, ha di recente subito un significativo declino. Nelle ultime 24 ore, meno di 3mila casi registrati, dopo aver raggiunto punte di 11mila al giorno. I funzionari del ministero della Sanità hanno espresso cauto ottimismo in riferimento all'appiattirsi della curva dei contagi, ma ricordando che la battaglia è ancora lunga. "Incontro ogni giorno direttori di ospedali, medici, infermieri, soldati, ufficiali, scienziati e volontari che sono in prima linea nella battaglia contro il virus e vedo una determinazione e un sacrificio incessante per il bene pubblico. - le parole di Rivlin - Non lasciateli intrappolati nella terra di nessuno. Se non obbediamo alle direttive della sanità pubblica e non facciamo la nostra parte nella lotta contro la pandemia, perderemo. Durante il primo blocco nazionale, un senso di disattenzione e di libertà si è impadronito dei cittadini quando improvvisamente i loro giorni sono stati liberati dal dover lavorare. Ora siamo più saggi, e sì, anche più stanchi del solito e infelici. Ma, mi rivolgo al pubblico israeliano: chiusura non significa vacanza".

(moked, 5 ottobre 2020)


Coronavirus - Virologa cinese fuggita in Usa: "è artificiale, creato per essere diffuso"

"Ci troviamo davanti non a un virus derivato da un patogeno naturale, ma a un virus artificiale, elaborato e rilasciato dal Wuhan Istitute of Virology, un laboratorio di massima sicurezza che è posto sotto il controllo del Partito comunista cinese". Lo dice a La Verità Li-Meng Yan, virologa, prima firmataria del Rapporto Yan (un paper di 26 pagine sul coronavirus), convinta che "si sia creato un virus letale al fine di diffonderlo senza poter risalire agli autori".
   La virologa afferma di aver iniziato le ricerche sul Covid-19 "il 31 dicembre" scorso, "prima che il 7 gennaio le autorità cinesi dessero all'annuncio ufficiale del primo caso accertato, che addirittura risale al 16 novembre" e precisa che svolgeva le sue ricerche "nel laboratorio dell'Organizzazione mondiale della sanità presso l'università di Hong Kong". Ha lavorato fino alla primavera nel dipartimento di Salute pubblica della Hong Kong University. Ora è a New York, vive "sotto la protezione del governo degli Stati Uniti". "Nessuno dice la verità. Il governo cinese, l'Oms, il mondo scientifico - afferma - Ho studiato il genoma del Sars-Cov-2 e quel corredo cellulare non esiste in natura. E' molto simile a un virus in possesso di un laboratorio di ricerca militare, un Sars-like-Cov isolato anni fa, chiamato Zc45/Zxc21".
   "Nel mio paper spiego in modo dettagliato la procedura seguita dal Wuhan Institute of Virology per modificare tale coronavirus. Alcune parti sono state aggiunte, scambiate, modificate", dice, con l'obiettivo di "farlo sembrare un virus nuovo". Poi ancora, "la regione del virus che caratterizza l'infezione del Sars-Cov-2, chiamata Rbm, assomiglia molto a quella del virus Sars-Cov-1, responsabile dell'epidemia di Sars", nel 2003.
   Infine, "una proteina di Sars-Cov-2 chiamata Spike esiste in un sito di taglio per la furina che manca in tutti gli altri coronavirus simili a questo". E, afferma, "questa caratteristica del nuovo coronavirus induce a pensare che il Covid-19 non sia naturale, ma sia stato creato artificialmente". C'è dell'altro. "Le tecniche usate per creare il Covid-19 erano state impiegate fin da 2008 da un gruppo di ricerca coordinato dalla dottoressa Zhengli Shi del laboratorio di Wuhan - afferma - E il fatto che la stessa regione Rbm sia stata modificata dalla dottoressa Shi e da suoi collaboratori è la pistola fumante, la prova che il Sars-Cov-2 è il prodotto di una manipolazione genetica".

(Shalom, 5 ottobre 2020)


Se lo spirito di solidarietà si incrina

di Abraham Yehoshua

L'attuale pandemia di coronavirus imporrà agli israeliani un esame di coscienza non meno rigoroso e profondo (se non addirittura di più) di quello fatto dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973. Non so come evolverà la situazione, se la pandemia si fermerà, si indebolirà, se l'attuale lockdown sarà veramente efficace, se sarà l'ultimo, quali danni subirà l'economia e quale sarà il tasso di disoccupazione. Al di là di queste domande, pertinenti a tutti gli abitanti del mondo, la società israeliana dovrà chiedersi come sia arrivata a un livello di contagio tanto elevato da averla costretta, a differenza di altri Paesi, a un nuovo e ancor più rigido periodo di isolamento. Dopo tutto Israele non è una Nazione del terzo mondo. È uno Stato ben organizzato, con frontiere chiuse e strettamente sorvegliate. È preparato a emergenze belliche prolungate e ha un esercito grande e ben addestrato in grado di reclutare rapidamente riservisti che potrebbero dare una mano al personale sanitario nell'eseguire test e nel predispone ospedali da campo e che eventualmente potrebbero coadiuvare la polizia nel compito di far rispettare le misure anti contagio.
  In altre parole Israele avrebbe potuto gestire in maniera più efficace l'emergenza e mantenere sotto controllo l'epidemia senza che si rendesse necessaria una nuova chiusura, dannosa per l'economia già sull'orlo del collasso. Invece non è andata così. Cos'è successo? Come mai si è arrivati a uno stato di cose tanto preoccupante?
  Va subito detto che questo fallimento non è da imputare solamente al bizzarro governo che si è formato dopo tre tornate elettorali terminate con un nulla di fatto. Anche se, come molti altri esecutivi ritrovatisi ad affrontare un fenomeno nuovo e sconosciuto, pure quello israeliano, nonostante l'eccellente livello del personale medico, ha commesso qualche errore nella lotta contro il virus. È chiaro però che la disastrosa situazione in cui ci troviamo non è dovuta solo a malagestione e a decisioni sbagliate ma anche al comportamento promiscuo e persino provocatorio di varie fasce della popolazione. Il che sta a indicare che lo spirito di solidarietà nazionale israeliano si è profondamente incrinato.
  Tre fasce della popolazione se ne infischiano delle disposizioni mirate a contenere l'epidemia, e lo fanno pubblicamente e senza sensi di colpa aggravando così la diffusione del virus. Primi fra tutti gli ultraortodossi, soprattutto i Chassidim, che riempiono ospedali e cimiteri. È fra di loro infatti che si registra il maggior numero di contagi. Le varie fazioni chassidiche e religiose (alle quali, negli ultimi dieci anni, si sono affiancati i religiosi nazionalisti) si sono gonfiate a dismisura non solo in Israele ma in tutto il mondo, diventando una realtà di primo piano nella politica israeliana e ricevendo da Benjamin Netanyahu sostegno e privilegi come mai in passato. La provocatoria e spregevole dichiarazione del primo ministro agli inizi della sua carriera - "La sinistra ha dimenticato cosa significa essere un ebreo" - ha fatto sì che gli ultraortodossi diventassero il suo più prezioso partner politico, ha aggravato il loro parassitismo nella società israeliana e li ha resi civicamente indisciplinati. "Israele non è nazione senza la Torah", proclamano sfacciatamente i religiosi e, secondo il loro modo di vedere sta a loro stabilire ciò che è permesso e ciò che è vietato anziché al governo o alla Knesset. Quando decine di migliaia di ultraortodossi si accalcano nelle sinagoghe senza mascherine, infrangendo ogni regola, e il primo ministro, che dipende dal loro voto nelle prossime elezioni per evitare di finire in prigione, si guarda bene dall'imporgli le norme mirate a frenare la pandemia, non c'è da sorprendersi che i contagi arrivino a battere ogni record. Non basta che gli ultraortodossi non prestino servizio nell'esercito, non basta che non si dedichino a professioni che consentano a loro, e a noi, di affrontare i problemi del mondo moderno, non basta che vivano in condizioni di indigenza, ora mettono spudoratamente in pericolo la nostra salute e quella dei nostri figli.
  Al polo opposto c'è un settore della popolazione completamente diverso: gli arabi israeliani. Netanyahu, promulgando la legge sulla nazionalità ebraica che stabilisce che Israele è di fatto lo Stato del solo popolo ebraico e ai non ebrei è garantita unicamente l'uguaglianza sociale, ha minato il loro spirito di solidarietà verso il Paese. E’ infatti anche questa fetta della popolazione, benché in modo diverso, trasgredisce alle regole anti Covid. E lo fa non pregando in spazi chiusi e affollati ma celebrando matrimoni con centinaia di invitati. E così, accanto agli ultraortodossi, gli arabi israeliani riempiono le corsie degli ospedali (soprattutto nel Nord del Paese) ormai prossimi al collasso a causa della crescente mole di lavoro e del pericoloso logoramento del personale.
  Il terzo settore che ostacola la limitazione dei contagi è uno che mi sta particolarmente a cuore ed è vicino alla mia visione del mondo. Eppure mi indigna il modo in cui viola i decreti and Covid. Mi riferisco ai dimostranti contro Netanyahu, appartenenti a organizzazioni di sinistra e di centro che fino alla decisione di pochissimi giorni fa di bloccare tutte le manifestazioni, si raccoglievano in massa ogni sabato sera vicino alla sua residenza di Gerusalemme. Non ho dubbi che quei raduni aumentassero il numero dei contagi anche se i partecipanti indossavano mascherine e si sforzavano di mantenere le distanze. Ma anche se mi sbagliassi e se così non fosse, come sostengono alcuni degli organizzatori, quelle manifestazioni concedevano legittimità ai comportamenti trasgressivi di arabi e ultraortodossi.
  Lo spirito di solidarietà israeliano si è sgretolato ed è questo il danno peggiore causato dal governo di Netanyahu alla nostra società. Rispetto a questo tutti i successi del premier impallidiscono, svaniscono. Per il momento la Corte suprema gli ha concesso di continuare a mantenere la carica di capo del governo nonostante le gravi accuse contro di lui e anche se questa decisione ci sembra ingiusta, la si deve accettare. Il dovere di mantenersi coesi e di rispettare la legge in una società pluralista e polarizzata come la nostra è sacrosanto e le forze liberali e illuminate dovrebbero essere in prima fila.


Le descrizioni che Abraham Yehoshua fa della realtà israeliana sono spesso interessanti. Ma già quando si passa dall’anamnesi alla diagnosi cominciano a delinearsi le prime sfilacciature del discorso. Dopo aver detto: così stanno le cose, qualcuno vorrebbe sapere: ma qual è il male? A questo punto le dichiarazioni diagnostiche del romanziere cominciano a diventare inaffidabili. E’ un romanziere, appunto, abituato a rappresentare nei suoi scritti una realtà immaginata, che lui, e solo lui, riesce perfettamente a dominare. E in certi momenti a quei meravigliosi occhi creativi la nuda realtà dei fatti appare minacciosamente immersa nel male. E il male sta appunto nel fatto che ai suoi occhi la realtà non si presenta come la vorrebbe lui, e quindi... tanto peggio per la realtà. La realtà è un fatto che riguarda i politici. Lui ha altri compiti. Più lirici. Quando le cose vanno male i politici decidono, lui si indigna. Si indigna anche contro quelli che la pensano come lui ma non si comportano come lui, che da tutta una vita ha sognato, sperato, cantato lo “spirito di solidarietà israeliano”. E’ la sua “visione del mondo”. Un visionario dunque. Che si muove bene nel mondo della sua visione ma si indigna ogni volta che la sua realtà immaginaria viene disturbata. Uomini così sono pericolosi. Come papa Bergoglio. M.C.


"Fratelli arabi, basta antisemitismo"

Lo scrittore algerino Sansal si appella alla umma: "L'odio per Israele è un ritardo mentale"

di Boualem Sansal

Algeria è profondamente antisemita", questa è la conclusione infelice, ma non inaspettata, alla quale siamo giunti al termine di una chiacchierata franca tra amici fidati, organizzata a tal proposito a casa mia. Non generalizziamo, non siamo categorici, l'Algeria è un po' più antisemita in alcuni ambienti, un po' meno in altri, dipende da mille cose, dal clima sociale, dal percorso di ognuno, dalla sua lettura degli incitamenti del governo, dalle prediche del venerdì, dall'attualità delle nostre banlieue maghrebine in Francia, dal conflitto con Israele nelle sue tre dimensioni, palestinese, araba, musulmana, dai tweet di Trump, dai video del web islamico, dalle lezioni dello sceicco al-Ghazali, cui l'Algeria deve gran parte della sua follia islamista e del suo antisemitismo militante, dipende dagli sketch di Dieudonné, etc... Anche le equazioni israelo-turche e israelo-iraniane sono prese in considerazione. Con fervore dai nostri islamisti, poiché la Turchia e l'Iran, paesi non arabi, ma grandi musulmani dinanzi all'Eterno (da soli, i due paesi, contano 162 milioni di fedeli) e motivo di fierezza per l'umma, hanno il desiderio di annientare Israele. E in maniera discutibile da parte dei nostri antisemiti che si rivendicano come appartenenti ad altri movimenti politici, nazionalista, liberale, socialista o altro, e vedono in essi una fortuna e un pericolo: la fortuna è che la Turchia e l'Iran sono delle vere potenze che attuano delle autentiche politiche contro Israele, politiche che includono l'aspetto militare e anche nucleare nel caso dell'Iran; il pericolo è che la loro vittoria su Israele segnerebbe la fine del mondo arabo. Questi paesi sono i suoi nemici giurati: la Turchia vorrebbe ricostituire l'Europa ottomana sulle rovine di Israele e del mondo arabo, che si disgregherà da solo con la scomparsa di Israele, e l'Iran sciita rivendicherà subito dopo i suoi diritti legittimi sull'islam, usurpati dai califfi sunniti alla morte del profeta.
   Quale paese arabo vorrebbe che Israele cadesse sotto i colpi dei turchi e degli iraniani? Nessuno. Antisionisti sì, ma non pazzi, perché hanno bisogno di Israele per tenere a distanza questi due mastodonti, fratelli in islam, ma traditori dinanzi all'Eterno. Ecco perché, in questi ultimi tempi, mandano dei segnali a Israele. Gli darebbero la Palestina se togliesse loro di mezzo l'Iran, come Netanyahu aveva promesso. Ma non è tutto. L'antisemitismo, che si aggrava a ogni luna piena, ha generato nei nostri islamisti e nei loro amici delle orribili malattie: il ritardo mentale, il vittimismo infantile, il passatismo frenetico, la logorrea urlante, una passione sterminatrice acuta. Tutto ciò inquina le nostre vite e minaccia specialmente i nostri figli, poiché il nuovo antisemitismo va di pari passo con la salafizzazione rampante della società sullo sfondo di una povertà galoppante e di una stucchevole incuria da parte del governo. Come sconfiggere questo male inesauribile che avvilisce l'umanità se nessuno ne parla, né nel mondo arabo, né in occidente, né all'Onu, né durante il Consiglio di sicurezza? Il silenzio, un tempo d'oro, non è l'antincendio miracoloso che si può credere, bensì l'ossigeno che fa divampare le fiamme in casa. Non potendo agire, ci si interroga tra amici, in termini velati, per paura di ritrovarsi accusati di alcune cose. Abbiamo delle riposte, ma non a tutto.
   Mi auguro che i nostri giovani compatrioti che da un anno si sono impegnati con anima e corpo nel movimento Hirak contro la dittatura militare, una rivoluzione magnifica, pacifica, intelligente e molto ottimista, sapranno dare delle belle risposte a queste domande vitali. Devono convincersi ogni giorno di più che in materia di libertà non si fanno le cose a metà, è tutto o nulla. Che chiedano ai loro genitori perché la liberazione del paese nel 1962 non sia sfociata nella liberazione del popolo. Nell'attesa, continuiamo a farci delle domande.
   Gli algerini e il mondo arabo-musulmano possono liberarsi dalla loro assuefazione all'antisemitismo? No, a nostro avviso, e come prove avanziamo tre argomenti indiscutibili.
  1. L'islam, nei suoi quattro sviluppi, corano, sunna, hadith, sharia, li obbliga a combattere e a uccidere gli ebrei ovunque essi siano, "nascosti sotto le pietre o dietro gli alberi".
  2. Allah ha assegnato agli arabi la missione di diffondere l'islam in tutto il mondo e di difendere a costo della propria vita le sue terre e i suoi simboli (il Corano, il profeta, la sua famiglia, l'umma, i luoghi santi, la lingua araba, il califfato, etc.).
  3. Gli ebrei occupano la Palestina e non hanno nessuna intenzione di restituirla. Di più, essi colonizzano ogni giorno nuove terre arabe e respingono i palestinesi sempre più lontano.
Gli arabi sono pronti a dibattere sul desiderio di progredire? Dibattere, nel senso di riformare l'islam, è ciò che vi è di più pericoloso al mondo per loro. Farlo significherebbe subito essere accusati di diversi crimini che meritano tutti una morte dolorosa. La lista delle persone che vivono con delle fatwa di morte che pesano sulla testa è già assai lunga attualmente. Quale "primavera araba" potrebbe cambiare le cose e mettere gli uomini al riparo dagli eccessi della religione? I militanti dei diritti dell'uomo, e sono numerosi in Algeria e nel mondo arabo, ne guadagnerebbero a deglobalizzare il termine "diritti dell'uomo", troppo generico per essere efficace e iscriverlo nel solo quadro della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Bisogna essere chiari, dare il giusto nome alle cose: i diritti delle donne, dei bambini, degli omosessuali, e denunciare in maniera netta l'antisemitismo, anche a rischio di essere accusati di simpatia per il popolo ebraico e, peggio, per Israele.

(Il Foglio, 5 ottobre 2020 - trad. Mauro Zanon)



Aspettando il vaccino

Oppressa da “timor pandemico”, la gente ormai sta aspettando il vaccino come si aspetta il messia. Si guarda in trepida attesa ai risultati promessi, corretti, superati e sostituiti dai sacerdoti del nostro mondo secolarizzato: gli scienziati. Chi vincerà la gara di dare al mondo, per primo, il farmaco risolutore? Viene voglia di pregare, ma come? Proponiamo allora una preghiera rigorosamente laica che abbiamo chiamata “Salmo” per analogia stilistica con quelli contenuti nella Bibbia e le abbiamo assegnato il numero 151 (121+30) per non confonderla con quelli canonici.


SALMO 151

Canto della pandemia. Per l'uomo laico.

Io alzo gli occhi ai monti della Scienza,
da dove mi verrà il vaccino?
Il vaccino viene dall'Uomo
che domina il cielo e la terra.
La Scienza non permetterà che il tuo corpo s'infetti
l'Immuni che ti protegge non sonnecchierà.
La Scienza è colei che ti protegge,
l'Immuni è la tua ombra, sta alla tua destra.
Di giorno il virus non ti colpirà
né il bacillo di notte.
La Scienza ti protegge dal contagio,
ella protegge il corpo tuo.
L'Immuni sorveglierà il tuo uscire e il tuo entrare
da ora in eterno.

(Notizie su Israele, 5 ottobre 2020)

 


Svolta nella disputa sul gas in mare Libano e Israele trattano sui confini

Nuovo successo dell'amministrazione statunitense dopo tre anni di mediazione. Trattativa al via il 14 ottobre Beirut: "L'intesa ci aiuterebbe a pagare i debiti". Due settimane fa gli Accordi di Abramo con Emirati e Bahrein.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - — L'amministrazione Usa incassa un altro successo in Medio Oriente, annunciando che Israele e Libano hanno accettato, dopo tre anni di mediazione americana, di condurre negoziati diretti per la definizione della disputa sul confine marittimo tra i due Stati ancora formalmente in guerra.
   La trattativa inizierà il 14 ottobre nella base Unifil a Naqura, in Libano, a pochi chilometri dalla Linea Blu, alla presenza del vice-segretario di Stato Usa David Schenker, che ha di fatto mediato tra le parti, e del Coordinatore speciale dell'Onu per il Libano, Jan Kubis.
   La disputa sulle acque territoriali riguarda un'area di 855 kmq ricca di giacimenti di gas. Passate trattative indirette sono fallite, nonostante Israele concordasse su un compromesso di spartizione dell'area 52:48 a favore del Libano. Ma nei giorni scorsi, il presidente del Parlamento libanese, Nabih Berri, leader del partito sciita Amal alleato di Hezbollah, ha dato il senso del momento: «Questo accordo ci aiuterebbe a pagare i nostri debiti».
   Il Paese dei Cedri sta vivendo la peggiore crisi economica della sua storia, che si aggiunge a quella politica innescata con l'esplosione al porto di Beirut il 4 agosto, per cui le indagini sono ancora in corso e un nuovo governo deve ancora essere formato. Alla luce del default finanziario in cui si trova in Paese, anche Hezbollah ha ammorbidito la linea verso Israele.
   La svolta arriva a poco più di due settimane dalla firma degli Accordi di Abramo, che avviano le relazioni diplomatiche tra Israele e due Stati del Golfo, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Gli osservatori del confine israelo-libanese sanno che non sono fronti paragonabili e che la strada per la normalizzazione tra i due Paesi confinanti è molto più insidiosa. Ma forse meno improbabile di quanto non si pensasse pochi mesi fa.
   Il giornalista libanese Nadim Koteich, il giorno della firma alla Casa Bianca, ha scritto un editoriale su Asharg Al Awsat, "A quando una pace tra Libano e Israele?", sostenendo che le dispute territoriali tra i due Paesi sono minime — oltre al confine marittimo, anche i circa 24 chilometri quadrati delle Fattorie di Sheeba e il villaggio di Ghajar — ma soprattutto del tutto risolvibili. «Il Libano dovrebbe sfruttare il momento e chiedere agli Eau di premere su Israele, come ha fatto per l'annessione dei Territori palestinesi».
   Secondo un altro analista libanese, Munir al-Rabee, le trattative dirette sono di per sé un risultato importante e fa notare come «Beni nel suo annuncio abbia usato il termine "Israele" e non "entità nemica" o "potenza occupante" come avviene di solito».
   Netanyahu, nel suo discorso martedì all'Assemblea Generale Onu, ha rivelato nuovi depositi missilistici di Hezbollah in zone abitate. Nasrallah ha negato e ribadito che Hezbollah è sempre pronto ad agire sul confine, dove da luglio si sono verificati alcuni scontri a fuoco con l'esercito israeliano.
   Nonostante queste dichiarazioni, íl fatto che le trattative sul confine marittimo e sui giacimenti energetici possano rappresentare un'ancora di salvezza per il governo libanese, fa sperare che si possa mantenere una certa calma al confine, almeno nel breve raggio.

(la Repubblica, 4 ottobre 2020)


Israele: proteste anti-governative dopo l'imposizione di nuove restrizioni anti-coronavirus

Si stima che circa 130.000 persone abbiano partecipato alle proteste di sabato in Israele. Unità di polizia a cavallo sono state dispiegate a Tel Aviv, dove i manifestanti si sono scontrati con la polizia, che secondo quanto riferito ha attaccato alcuni manifestanti.
L'Haaretz ha affermato che sabato a Tel Aviv sono stati effettuati almeno dieci arresti e sono state inflitte multe a più persone a Tel Aviv per violazioni dei regolamenti di emergenza.
Sabato il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai è stato leggermente ferito alla mano durante gli scontri tra manifestanti e polizia, ha detto il giornale, aggiungendo che il sindaco si sente bene.

 Le nuove misure anti-coronavirus
  Alla fine del mese scorso, in Israele sono entrate in vigore nuove restrizioni sul coronavirus, sulla base del nuovo blocco introdotto il 18 settembre. Le nuove misure di lockdown saranno in vigore fino al 14 ottobre, con possibilità di proroga.
Mercoledì il Knesset (parlamento israeliano) ha approvato un emendamento alla legge sul coronavirus che consente di limitare le proteste: ora le manifestazioni non possono essere composte da più di 20 persone e devono svolgersi a non più di un chilometro di distanza dalle proprie abitazioni.
Le proteste che chiedono a Netanyahu di dimettersi a causa di una crisi economica causata dalla pandemia di coronavirus sono in corso da luglio.
Ronni Gamzu, il massimo consigliere politico israeliano per il Covid-19 e direttore generale del Tel Aviv Sourasky Medical Center, ha accusato Netanyahu d'inasprire le restrizioni Covid-19 nel tentativo di contenere le manifestazioni anti-governative.

(Sputnik Italia, 4 ottobre 2020)


Il secondo lockdown in Israele: la Masada pandemica

di Claudio Vercelli

Il contrasto tra le componenti laiche, secolarizzate ed ortodosse da una parte, disposte a seguire le misure di contenimento, e una parte di quelle ultra-ortodosse, caparbiamente indisponibili a rispettare anche le norme più elementari, è divenuto l'ennesimo terreno di scontro, sul quale la mediazione politica ha potuto poco se non nulla
  Così non va, per nulla. Quanto meno a detta di molti. Il secondo lockdown, che il governo israeliano aveva deliberato con l'avvio del 18 settembre, per una durata di tre settimane, secondo l'oramai famoso sistema del «semaforo», proseguirà almeno fino al 14 ottobre. Se ciò basterà, beninteso. Salvo, quindi, verifiche a venire. Con le conseguenze economiche ma anche sociali e civili, nonché per molti anche di ordine politico, destinate a pesare sul futuro, immediato e non, del Paese.
  Un'ulteriore chiusura pressoché ermetica, con una sorta di silicone politico e amministrativo, costituisce un poco invidiabile primato tra le nazioni a sviluppo avanzato. Questo anche al netto delle restrizioni che anche altri Stati potrebbero dovere assumere a breve. L'andamento pandemico è peraltro in parte imprevedibile, anche se alcuni elementi sono incontrovertibili: si trasmette con grande facilità; ha un'immediata incidenza sui sistemi sanitari (che sono dal febbraio di quest'anno al centro dell'attenzione dei governi nazionali, ben sapendo che il grado di saturazione rispetto ai casi di terapia intensiva, si raggiunge molto velocemente); disarticola l'insieme delle relazioni collettive, colpendone il versante più fragile ma anche più importante, quello della socialità, sia per ciò che concerne il lavoro che per quanto riguarda i rapporti interpersonali.
  La sua cronicizzazione sta creando nuovi orizzonti problematici, al netto di qualsiasi ipotesi di prospettiva di medio e lungo termine. La previsionalità a medio-breve periodo indica l'anno entrante, il 2021, come destinato ad essere comunque impegnato nel fronteggiare, a Gerusalemme come nel resto del modo, le ricadute della pandemia. Fermo restando che, al netto degli annunci miracolistici, così come delle visuali più cupe se non apocalittiche, l'identificazione di un vaccino effettivamente efficace e la sua distribuzione ad una quota sufficiente della popolazione mondiale per garantire un'adeguata copertura collettiva, richiederà diverso tempo. Quanto, al momento, nessuno può dirlo. Si possono fare solo delle ipotesi, per l'appunto.
  Il problema che accompagna Israele, così come ogni Stato, al momento è quello di garantirsi una progressione pandemica gestibile. È tale quella che non mette in cortocircuito i sistemi sanitari nazionali, che permette di mantenere un livello accettabile nell'assolvimento delle attività economiche, che mantiene in sicurezza il sistema delle comunicazioni e della distribuzione commerciale, che garantisce lo svolgimento di una serie di attività sociali elementari, evitandone l'azzeramento totale degli scambi (nessuna popolazione può vivere in totale auto-isolamento oltre determinate soglie di tempo e di spazio, in sé mutevoli ma che una volta raggiunte rischiano di causare il collasso dei sistemi legali di contenimento in regimi costrittivi, come ad esempio l'ambito esclusivamente domestico).
  All'inizio di ottobre Israele conta complessivamente 256.071 casi conclamati di Coronavirus su una popolazione stimata di 9 milioni e 240mila individui. Un range di oscillazione che varia dai 276 ai 297 contagiati ogni 100mila abitanti (molto dipende da quali cifre si usino per campionare i soggetti). L'accertamento è a carico delle autorità sanitarie, attraverso il sistema universale del cosiddetto tampone rino-faringeo per il Covid-19 (PCR SARS-Cov-2), da solo o abbinato al test sierologico SARS-CoV-2 anticorpi IGG o al test sierologico SARS-CoV-2 anticorpi IGG e IGM. Dall'inizio della pandemia i morti censiti sono stati 1.629. All'atto della lettura di queste note, ovviamente i numeri saranno nel mentre già aumentati. Il vero differenziale tra ciò che è accettabile e quanto non lo è sta nella misura di grandezza; se l'incremento quotidiano continua in progressione eccessiva, allora le cose si mettono male. Il primo caso pandemico, in Israele, era stato registrato il 21 febbraio a Ramat Gan; un mese dopo si era verificato il primo decesso. Attualmente, degli infetti registrati, pari a 70.942, il 99% di essi è in condizioni "gestibili", ossia domiciliati oppure ospedalizzati in reparti non di emergenza; la parte restante, 849 casi, è invece in condizione più che critiche, richiedendo il ricorso a terapie intensive o paraintesive. Nel mentre, 185.129 casi si sono risolti dal momento della loro manifestazione ad oggi di essi, mentre l'1% è deceduto.
  L'andamento statistico indica una curva fortemente accentuata dalla fine di giugno, quando si passa progressivamente dai 20mila casi agli attuali 256mila, con una decuplicazione nel corso di poco più di tre mesi. Il 23 settembre, si è arrivato al picco di 11.316 casi in un giorno, scesi a circa 2.300 il 28 dello stesso mese e tornati a quasi 8mila due giorni dopo. Un ottovolante inaccettabile. Va da sé che numerosità e concentrazione temporale sono indici relazionati alla quantità di tamponi effettuati, oltre ad una miriade di altri fattori, spesso difficilmente computabili. Il numero di "infetti" indica quindi una tendenza, non un valore assoluto, da intendersi come totalmente preciso. Poiché qualsiasi politica di sanità pubblica necessita di soglie quantificabili, per predisporre ed attivare misure sistematiche di prevenzione e cura, quando a metà settembre sono stati superati i 5mila casi giornalieri, il governo ha pertanto deciso di intervenire con una seconda quarantena collettiva. Il lockdown obbligatorio per l'intera popolazione, quindi, risponde sia all'esigenza di evitare la diffusione geometrica ed esponenziale del virus sia alla necessità inderogabile di non fare collassare un sistema sanitario sottoposto a fortissime pressioni. Le due cose, peraltro, rischiano altrimenti di alimentarsi vicendevolmente.
  La sanità israeliana (tenendo fermo che un conto sono i servizi ordinari, quelli che esulano da una condizione pandemica, mentre altro discorso vale per le emergenze pandemiche, alle quali non eravamo abituati fino alla fine del primo trimestre di quest'anno) conta 5,89 infermieri ogni mille persone; 3,33 dottori per mille abitanti; 9,58 ospedali ogni milione di cittadini (la misura è puramente generica, poiché contempla unità sanitarie residenziali tra di loro molto diverse, calcolando policlinici e nosocomi di dimensioni ragguardevoli ad unità ospedaliere più piccole) con 3 letti per ogni mille israeliani. I letti ICU (Intensive Care Unit, conosciuti anche come Intensive therapy unit o Intensive treatment unit-ITU ed ancora critical care unit-CCU) risultano essere circa 250 ogni 100mila persone.
  Le iniziali misure di contenimento attivo (divieti e vincoli nelle relazioni sociali) sono state assunte con una discreta celerità (anche se le modalità e la tempistica sono invece state contestate da molti) con l'11 marzo, seguite quasi subito dalla chiusura delle scuole; già erano stati vietati gli accessi dai paesi considerati maggiormente a rischio, tra cui l'Italia; otto giorni dopo, Benjamin Netanyahu dichiarava lo stato di emergenza nazionale, seguito, nei primi giorni di aprile, dalla proclamazione di «restricted zone», con limitazione alla libera circolazione. Israele ha raggiunto il primo picco della prima ondata il 2 di aprile, con 765 infetti in un giorno e 10mila positivi registrati complessivamente. I quartieri Haredi di Gerusalemme, considerate zone di intensi focolai, con il 12 aprile venivano sottoposti a rigidissime misure di contenimento, tra molte polemiche e diffuse manifestazioni di insubordinazione. Da ciò, quindi, a stretto seguito la prima quarantena collettiva.
  Nel corso della prima ondata, lo Stato d'Israele ha cercato di reagire adottando non solo misure di contenimento passivo (tampone, tracciamento e trattamento, quindi isolamento domiciliare, ricovero ospedaliero, somministrazione di farmaci generici) ma anche attivo (test rapidi, identificazione di una nuova generazione di mascherine, ricorso all'intelligence per mappare i positivi; misura, quest'ultima, fonte di molte polemiche relative alla privacy e alla libertà dei cittadini). Il sistema adottato, che proseguito nei mesi successivi, è stato quasi da subito quello del cosiddetto «semaforo», voluto dal commissario nazionale anticoronavirus Ronni Gamzu, già Ceo del Tel Aviv Sourasky Medical Center ed ora soprannominato da una parte della stampa «zar del Covid»: il rosso per la chiusura totale, il giallo-arancione con la chiusura parziale, il verde ad apertura (con vincoli selettivi e mutevoli). Inutile dire che gli effetti economici di un tale stato di cose si sono fatti sentire da subito, con un dato del tasso di disoccupazione, più che quintuplicato (dal 4% circa a ben oltre il 20%), solo in parte tamponato dalle misure di emergenza assunte dal governo. Il Prodotto interno lordo è velocemente calato del 6-7%, con la prospettiva - tuttavia - di una celere ripresa qualora la pandemia fosse stata gestita positivamente e, a ciò, si fosse accompagnato un vasto piani di interventi pubblici.
  Le cose, per il momento, stanno andando diversamente. Non solo in Israele, va da sé. Tuttavia, per una società abituata, fino all'inizio di quest'anno, ad avere un tasso di disoccupazione molto contenuto (a fronte di una retribuzione media salariale comunque insoddisfacente), ad oggi circa un quarto della forza lavoro è invece a spasso. Il fatto che nel momento in cui le attività dovessero riprendere a pieno ritmo, un buon numero di disimpegnati sarebbe riassorbito, non toglie nulla alla drammaticità dello stato vigente delle cose. Anche perché nessun paese al mondo sa quando una tale "normalità" potrà subentrare né, tanto meno, in che cosa consisterà concretamente le reali condizioni con le quali, a quel punto, le società si dovranno confrontare. In altre parole, è la nozione medesima di normalità, se con essa si intende prevedibilità e calcolabilità, ad essere a sua volta sottoposta a molti interrogativi.
  La cronicizzazione della crisi comporta la diffusione di un disagio economico che si fa sociale e, quindi, malessere civile. I giovani lavoratori sono destinati a pagare il prezzo più alto delle tensioni in corso, insieme alle tradizionali fasce deboli della società israeliana. Non pochi cittadini hanno contestato al governo, in questa seconda fase, incoerenza, lentezza nei processi decisionali e una sostanziale mancanza di obiettivi che non siano quelli meramente legati al tamponamento delle situazioni di immediata criticità. Il fatto che l'esecutivo sia composto da due premier concorrenti, Netanyahu e Gantz, di certo non aiuta l'assunzione di misure basate su un celere decision making. Come nel caso italiano, la "patata bollente" è stata affidata in parte ai tecnici i quali, a loro volta, dopo avere formulato pareri spesso tra di loro contrastanti, l'hanno rigirata all'esecutivo. Mentre i sanitari hanno ripetutamente lanciato il loro segnale di allarme, temendo default organizzativi nel sistema di contenimento della pandemia.
  Se a marzo ed aprile la leadership politica sembrava essere ancora motivata e unitaria almeno sul dossier Covid (dopo le ripetute esortazioni del presidente Reuven Rivlin), dall'estate le cose sono invece andando peggiorando. Con increspature tra ministri che si sono poi tradotte in continue contrattazioni, spesso defatiganti, su modalità, tempistiche e misure da assumere. Fino a manifestazioni di rottura dentro la stessa compagine governativa. Il contrasto, nella società civile, tra le componenti laiche, secolarizzate ed ortodosse da una parte, sostanzialmente proclivi a seguire le misure di contenimento, e una parte di quelle ultra-ortodosse, caparbiamente indisponibili a rispettare anche le norme più elementari, è divenuto l'ennesimo terreno di scontro, sul quale la mediazione politica (peraltro assai debole) ha potuto poco se non nulla. Sta di fatto che le preesistenti tensioni ideologiche tra gruppi sociali molto differenziati, ne escono ulteriormente rafforzate da questo transito.
  A tutto ciò, secondando un meccanismo presente in molti altri paesi, diversi cittadini, pur rispettando selettivamente le norme dettate dalle autorità, hanno spinto per la veloce riapertura delle attività economiche. Se a maggio, per un poco si è respirata una pallida parvenza di ritorno alle vecchie prassi, già in estate le cose sono peggiorate molto velocemente. E qui l'inerzia dell'esecutivo, sospeso tra una linea che chiedeva la reintroduzione da subito di misure radicali ed un'altra, invece, più "attendista", ha contribuito ad aumentare la confusione. La prassi del bilancino (chiudere; non chiudere; chiudere prima, durante o dopo le festività ebraiche) non sta premiando nessuno.
  Nel mentre, diversi cittadini - già di per sé poco o nulla favorevoli al premier Netanyahu - non solo hanno continuato a manifestare in pubblico ma hanno intensificato numeri e occasioni di protesta, a partire da quelle che si sono ripetute dinanzi alla casa del premier. I rigidi vincoli imposti agli assembramenti, di fatto pressoché vietati, sono stati denunciati da una parte delle opposizioni come una manovra politica dal titolare dell'esecutivo per limitare o azzerare ogni forma di contestazione nei confronti della sua persona. L'accusa di cesarismo nei confronti di Netanyahu è oramai abituale nella discussione politica corrente. Le stime più prudenti degli esperti calcolano in almeno 15 miliardi di shekelim le perdite dirette generate dal blocco parziale delle attività in meno di un mese del calendario commerciale.
  La Banca d'Israele ha ribadito una contrazione del prodotto interno lordo annuo intorno al 7%, qualora tuttavia le cose non dovessero ulteriormente peggiorare. Il calo della produzione dovrebbe attestarsi intorno al 14,6%. Sono tuttavia stime miti e benevole, beninteso. Che non possono ancora tenere in considerazioni molte variabili, al momento difficilmente confutabili. Ad esempio, quando il turismo, voce strategica del bilancio israeliano, riprenderà ritmi accettabili? Quanto tempo si dovrà attendere? Anche perché, al netto dei numerosi annunci miracolistici, che risuonano un po' ovunque in tutto il mondo su vaccini salvifici prossimi ad essere prodotti e distribuiti, la comunità dei virologi invita invece a valutare la reale situazione nella sua problematicità, indicando in almeno un anno, se non più, i tempi per potere contare su un antidoto efficace. Con la seconda metà di settembre i contagi mondiali di Covid hanno abbondantemente superato i 30 milioni (con un tasso di mortalità del 3,5% circa). Purtroppo, le previsioni per i mesi a venire, a Gerusalemme come nel resto del pianeta, prospettano un aumento dei casi (e dei decessi in valore proporzionale) non solo in progressione aritmetica. Qualunque sia il risultato a venire, in Israele come in Italia e nel resto del mondo, sarà ancora una partita lunga e defatigante quella che l'umanità ha dovuto ingaggiare contro il SARS-CoV-2.

(JoiMag, 4 ottobre 2020)


Graffiti antisemiti in un ristorante francese: aperta un'inchiesta

Graffiti antisemiti sono stati scoperti in un ristorante kosher a Parigi, sui quali la Procura ha avviato delle indagini. Un video pubblicato dall'Unione degli studenti ebrei di Francia mostra i muri del ristorante nel 19esimo arrondissement nella capitale, con slogan antisemiti e svastiche, nonché finestre rotte e tavoli e sedie distrutti. L'indagine è stata aperta per «degradazioni razziste», hanno detto i pubblici ministeri.
Ferma condanna della sindaca di Parigi Anne Hidalgo e del premier Jean Castex. Che ha anche twittato la sua «solidarietà ai nostri compatrioti ebrei», dicendo di condividere la loro «emozione e indignazione». Lo scorso anno la polizia francese ha registrato 687 atti antisemiti, con un aumento del 27% rispetto all'anno precedente.

(Avvenire, 4 ottobre 2020)


Usa, Israele ed Emirati pronti a collaborare su petrolio, gas e rinnovabili

I tre paesi si sono impegnati a esplorare le attività collettive in contesti multilaterali in coordinamento con le istituzioni finanziarie e il settore privato

di
Sebastiano Torrini

Gli Stati Uniti, Israele e gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di cooperare nei settori del petrolio, del gas e delle energie rinnovabili tra gli altri settori energetici, a seguito della firma dell'accordo di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti a settembre.
  I tre paesi "concordano di incoraggiare un maggiore coordinamento nel settore energetico, comprese le energie rinnovabili, l'efficienza energetica, il petrolio, le risorse di gas naturale e le relative tecnologie e le tecnologie di desalinizzazione dell'acqua - secondo quanto riporta una dichiarazione congiunta dei ministri dell'energia di tutti e tre i paesi pubblicati sul sito web del Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti -. Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti sono impegnati a esplorare attività collettive in contesti multilaterali in coordinamento con le istituzioni finanziarie e il settore privato per migliorare gli investimenti internazionali in ricerca e sviluppo e la rapida adozione di nuove tecnologie energetiche".

 Gli Emirati possono cooperare con Israele sulla desalinizzazione e il solare
  Gli Emirati Arabi Uniti, che hanno firmato un accordo di pace con Israele a Washington il 15 settembre, possono cooperare con Israele nei campi della desalinizzazione dell'acqua e dell'energia solare, visto anche il fatto che il terzo produttore di petrolio dell'OPpec cerca di generare il 44% della sua energia da energie rinnovabili entro il 2050, secondo quanto annunciato dal ministro dell'Energia Suhail al-Mazrouei lo scorso 14 settembre in occasione della firma del trattato.

 Potenziamento della capacità
  Gli Emirati Arabi Uniti sono il primo membro del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) a cercare un accordo di pace con Israele, che ha altri due patti simili con i paesi del Medio Oriente, Giordania ed Egitto, oltre agli accordi di pace di Oslo con i palestinesi. Il Gcc include anche Bahrain, Qatar, Oman, Kuwait e Arabia Saudita.
  Sia gli Emirati Arabi Uniti sia il Bahrein hanno firmato il 15 settembre gli accordi di pace con Israele a Washington, ma il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si aspetta che più paesi del Medio Oriente normalizzino i loro legami con il paese.
  Abu Dhabi National Oil Co., il più grande produttore di energia degli Emirati Arabi Uniti, prevede di aumentare la sua capacità di produzione di greggio a 5 milioni di barili al giorno entro il 2030 dai 4 milioni di barili al giorno attuali, con l'aiuto delle compagnie petrolifere internazionali. Sta anche aumentando la produzione di gas.
  Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti stanno portando avanti vari progetti nel comparto fotovoltaico nel tentativo di diversificare il proprio mix energetico e liberare petrolio e gas per l'esportazione. L'obiettivo è quello di generare il 50% dell'energia dalle rinnovabili, nucleare compreso, entro il 2050.
  Gli Emirati Arabi Uniti sono diventati, tra l'altro, il primo paese del Golfo a generare energia dal nucleare quest'anno, con l'avvio di uno dei quattro reattori in costrizione. Una volta che tutti i reattori saranno operativi, produrranno 5,6 GW di energia nucleare, soddisfacendo fino al 25% del fabbisogno energetico del Paese.

 Obiettivo 2030
  Israele ha fatto passi da gigante nella produzione di gas con la scoperta di due giacimenti importanti nell'ultimo decennio. La produzione di gas di Leviathan, che detiene 620 mld di mc di riserve di gas recuperabili, è iniziata alla fine di dicembre 2019. Leviathan è il secondo grande giacimento di gas in Israele ad iniziare la produzione dopo l'avvio nel 2013 del giacimento Tamar gestito da Noble, che continua a servire il mercato interno.
  Il ministero dell'Energia israeliano ha anche annunciato a giugno un piano da 80 miliardi di Shekel (23,3 miliardi di dollari) per aumentare la quota di energia solare nel mix energetico. Il paese, che ha generato il 5% della sua elettricità dall'energia solare nel 2019, vuole aumentare tale livello al 30% o 16 GW entro il 2030. Israele attualmente fa affidamento principalmente su gas e carbone per produrre elettricità.

(Energia Solare, 4 ottobre 2020)


Le nuove alleanze che ridisegnano il Medio Oriente

di Robert D. Kaplan

L'imminente avvio dei rapporti diplomatici tra Israele e due Stati del Golfo — gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein — fa parte di un processo di cooperazione in materia di sicurezza che è stato inaugurato molti anni fa. Un dato, questo, che se da un lato riduce l'impatto dell'evento, dall'altro ne aumenta il significato e suggerisce che l'iniziativa di porre fine all'era degli scontri arabo-israeliani è destinata ad andare avanti e forse culminerà in un sovvertimento politico in Iran. Questa sembra essere la strada che il Medio Oriente si trova a percorrere.
   Sudan, Arabia Saudita, Oman e Kuwait sono alcuni dei Paesi arabi che pare stiano valutando la possibilità di avviare dei colloqui di pace con Israele. Uno o due di questi Paesi potrebbero cambiare idea, mentre l'Arabia Saudita — che pure sostiene il processo di normalizzazione regionale con Israele — potrebbe negare un riconoscimento ufficiale. Ma non importa: anche in assenza di documenti ufficiali, tutti questi Paesi hanno, in senso spirituale, posto fine alle ostilità con lo Stato ebraico.
   Diamo uno sguardo alla cartina geografica. L'alleanza tra Israele e Emirati gode di un accesso praticamente illimitato ai tre lati della penisola arabica: il Mar Rosso, il Mar Arabico e il Golfo Persico. L'unica sfida rimane quella rappresentata dal piccolo Qatar e dallo Yemen, caotico e dilaniato dalla guerra.
   Nel frattempo, la crescente presenza militare della Cina nel Gibuti e, potenzialmente, a Port Sudan, continuerà a essere un elemento neutrale rispetto a questa nuova iniziativa di sicurezza araboisraeliana che si estenderà ben oltre la sfera navale, sino ad abbracciare ogni aspetto della sicurezza e dei sistemi di attacco e di difesa ad alta tecnologia.
   II Medio Oriente sta attraversando un complicato processo di trasformazione. Per decenni, a partire dagli anni Sessanta, I regimi baathisti totalitari di Siria e Iraq avevano diretto il fronte del rifiuto a Israele. Ma quei due Stati, così come la Libia, adesso appaiono completamente devastati, mentre l'Egitto resta impotente, schiacciato com'è da una repressione debilitante e dal caos economica. Elementi palestinesi, shiiti e gatarini in Libano sono tutto quel che resta del fronte di opposizione arabo, che ormai è costretto a dover contare sul sostegno di due Paesi non arabi: Turchia e Iran.
   Dei due l'Iran è forse il più fragile. Mentre il leader neo-autoritario turco Recep Tayyip Erdogan continua a operare in un contesto di parziale democrazia, tra partiti politici rivali e sindaci e giornalisti indipendenti, il regime dell'Ayatollah Ali Khamenei rappresenta una teocrazia radicale decisamente più impopolare in patria di quanto Erdogan non lo sia in Turchia. Il regime iraniano, inoltre, a differenza di quello turco, è legato al prezzo degli idrocarburi, che in generale (e a prescindere dalle sanzioni imposte dagli Usa) è sceso, anche se i recenti accordi di pace tra arabi e Israele mettono a rischio proprio l'appoggio dell'Iran nel Golfo. Infine la Turchia, per motivi geografici, culturali e di storia del ventesimo secolo, è uno Stato quasi europeo. Con tutta la stabilità che da ciò deriva. L'Iran, no.
   Verso la fine del 2019, ben prima che il governo desse prova di una gestione fallimentare della crisi del Covid-19, l'Iran è stato scosso da imponenti manifestazioni di protesta contro il regime. Il regime iracheno è sottoposto a crescenti pressioni politiche e viene considerato dal popolo palesemente illegittimo. La scomparsa del terrorista e mente della geopolitica Qassem Soleimani, assassinato agli inizi dell'anno dagli Stati Uniti di Trump, renderà più difficile all'Iran rispondere con atti di terrorismo o con la forza militare, come in passato.
   Secondo una famosa affermazione di Lenin: «Ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui accadono decenni». Dalla Rivoluzione del 1979 in poi in Iran non è accaduto praticamente nulla, così come a partire dal 1994, anno in cui Israele e Giordania inaugurarono i rapporti diplomatici, nulla è più accaduto tra Israele e i suoi vicini arabi. Poi, nel giro di qualche settimana, delle dinamiche che erano al lavoro già da decenni hanno prodotto due trattati di pace. Viene da domandarsi se e quando in Iran vedremo accadere decenni nel giro di qualche settimana. Non adesso, certo, ma forse nel corso del prossimo mandato presidenziale degli Stati Uniti.
   In breve: la battaglia per conquistare i cuori e le menti degli iraniani e iniziata all'indomani della nuova alleanza tra Israele e Paesi del Golfo arabo, poiché si tratta di due eventi legati inevitabilmente l'uno all'altro. Nei prossimi anni, a poter imprimere all'intera regione un vero cambiamento saranno le dinamiche interne all'Iran — un Paese di 84 milioni di abitanti, con un alto tasso di istruzione.
   Eppure, a dispetto dei drammatici eventi della scorsa settimana, a Washington c'è ancora chi, incapace di accettare la realtà dei fatti, adduce "le guerre infinite" come motivo per ritirarsi del tutto dal Medio Oriente. Nello stilare una classifica di regioni in ordine di importanza, un consigliere senior del candidato presidenziale Joe Biden citato dalla rivista Foreign Policy ha relegato il Medio Oriente al quarto posto "con grande distacco sul terzo" e preceduto da Europa, Indo-Pacifico e America Latina.
   In realtà le "guerre infinite" sono da anni sul punto di finire, mentre la presenza dei militari Usa continua a diminuire, passando da 132mila a 3mila in Iraq, da 100mila a 4.500 in Afghanistan, sino ad arrivare a meno di mille in Siria. Stiamo vivendo una nuova era, caratterizzata dalla cooperazione implicita ed esplicita tra arabi e israeliani, dall'espansione neo-ottomana della Turchia, e dalla crisi interna iraniana.
   Il tutto sotto l'insidiosa ombra economica dei cinesi, che anziché considerare il Medio Oriente al «quarto posto, con grande distacco», lo vedono sempre più come un elemento chiave: l'anello necessario a collegare con naturalezza la Via della Seta in Asia con quella in Europa. Per questo, sostenuti da investimenti da centinaia di miliardi di dollari, i cinesi stanno costruendo in tutta la regione porti e basi militari.
   Non è il momento di ritirarsi dal Medio Oriente, né di considerarlo una regione scollegata da tutte le altre. Al contrario: il Medio Oriente è parte integrante dell'Eurasia ed è quindi ora che gli Stati Uniti, durante il prossimo mandato presidenziale, contribuiscano a espandere e rafforzare la pace arabo-israeliana, allo scopo di arginare il neo-imperialismo della Turchia e indebolire ulteriormente il regime iraniano. Il tutto, nell'ottica di gestire con intelligenza l'ascesa della Cina nell'Indo-Pacifico.

* Robert D. Kaplan. titolare degli studi di Geopolitica al Foreign Policy Research Institute di Philadelphia *

(la Repubblica, 4 ottobre 2020)



Il primo comandamento: una questione di vita o di morte
    «Non avere altri dei nel mio cospetto» (Esodo 20:3).
Davanti al tempo che passa, alle situazioni che cambiano, alle ideologie che si susseguono, ai valori morali che si modificano, ogni uomo ha la segreta nostalgia di un punto fisso, l'aspirazione a qualcosa di assoluto, di cui non si possa dire che oggi c'è e domani no, che non debba continuamente essere messo in discussione, che non abbia l'aspetto della provvisorietà e dell'incertezza.
   Qualcosa di questo genere esiste: è la morte. In qualunque periodo si viva, qualunque posizione si occupi, qualunque cosa si pensi, tutti muoiono. Questo fatto non cambia. Su questo non si discute. Non potrebbe allora essere proprio questo l'assoluto che è alla base di tutta la realtà?
   L'uomo normale rifiuta questa ipotesi. Egli avverte istintivamente che la morte è un buco nero in cui precipita tutto ciò che esiste, ma che non è, non può essere il fondamento di ciò che esiste. La morte che interrompe un rapporto d'amore tra due persone separandole dolorosamente l'una dall'altra non può essere il fondamento di quell'amore. No, non si può «vivere per la morte»: nessuno potrebbe sopportare una così atroce lacerazione.
   Si cercano allora altri punti fissi: qualcosa o qualcuno che costituisca il fondamento stesso della vita, qualcosa per cui valga la pena e sia giusto vivere.
   Questo qualcuno esiste: è l'Eterno, colui che ha nome «Io sono». La Scrittura dice che soltanto Lui è il fondamento di tutto ciò che è. Egli occupa interamente lo spazio in cui si muove tutto ciò che ha vita.
    «Difatti, in lui viviamo, ci moviamo e siamo» (Atti 17:28).
Egli è e crea. Egli è il creatore degli uomini e di tutte le cose. Quindi non ci sono, non ci possono essere altri dei da mettere a confronto con Lui. Egli è unico. È l'unico vero punto di riferimento di tutto ciò che vive. Chi cerca un altro assoluto, trova soltanto la morte. Ogni altro dio che pretenda di confrontarsi con l'Eterno non può essere che una manifestazione della morte.
   Ma come si può conoscere questo Dio «nel quale viviamo, ci moviamo e siamo»?
    «Io sono l'Eterno, l'Iddio tuo, che ti ho tratto dal paese d'Egitto, dalla casa di servitù» (Esodo 20:2).
L'Eterno è un Dio che parla e agisce. Più precisamente libera. Da che cosa? «Dalla legge del peccato e della morte» (Romani 8:2). La liberazione di Israele dalla schiavitù di Egitto è un'anticipazione della liberazione dalla schiavitù della morte a cui soggiace tutta la creazione in conseguenza del peccato dell'uomo. Adamo ha cercato un punto di riferimento diverso da Dio, e l'ha trovato: la morte. Nello stesso modo, chi si pone alle dipendenze di dei stranieri non trova prosperità e pace, ma soltanto la morte.
    «Ma se avvenga che tu dimentichi il tuo Dio, l'Eterno, e vada dietro ad altri dei e li serva e ti prostri davanti a loro, io vi dichiaro quest'oggi solennemente che certo perirete» (Deuteronomio 8:19).
Risuonano in questo avvertimento le solenni parole di Dio ad Adamo: «Nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai» (Genesi 2:17).
   Ecco perché il primo comandamento è così tremendamente importante: si tratta di una questione di vita o di morte.
    «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io ti comando oggi d'amare l'Eterno, il tuo Dio» (Deuteronomio 30:15).
L'Eterno è un Dio geloso perché sa che dietro l'idolo c'è la morte. E Dio non vuole che l'uomo muoia: per questo non si stanca di mettere in guardia il suo popolo dai rischi che corre ad andare dietro ad altri dei.
   Si dice talvolta che la gelosia di Dio sottolinea la sua sovranità, la sua maestosa regalità. Ma con ciò non si dice tutto, anzi, si dice molto poco. Se un padre deve attraversare con suo figlio un fiume in piena, passando su un ponticello stretto e privo di protezione, e per il pericolo che vede continua a ripetere minacciosamente a suo figlio di non allontanarsi da lui nemmeno per un attimo, chi direbbe che quel padre sta insegnando al figlio l'ubbidienza e il rispetto assoluto dell'autorità paterna?
   Dio ci ama di un amore appassionato, tenero, sviscerato, e non può sopportare l'idea che l'uomo si perda. Per questo non si stanca di dirci e di ripeterci che bisogna guardarsi dagli idoli, perché con gli idoli non si scherza. All'idolo si dà il cuore, cioè tutto sé stessi, e quindi l'idolo ci possiede e ci tiene in schiavitù fino a che non ci consegna alla morte.
   Si potrebbe obiettare che l'idolo non è niente, perché è soltanto una costruzione umana, come descrive il profeta Isaia (44:9 ss.). Ma bisogna fare attenzione: l'idolo non è nulla nei confronti di Dio, ma non nei confronti dell'uomo; esattamente come la morte non ha alcun potere su Dio, ma un potere reale sull'uomo. L'idolo, come la morte, non ha quindi alcun potere sull'uomo che confida nell'Eterno; ma, come la morte, ha un potere reale e devastante sull'uomo che si è allontanato dal suo Creatore e Signore.
   L'idolo non è nulla, perché non può salvare; ma è qualcosa, perché può uccidere.
   La continua tendenza dell'uomo all'idolatria fa capire che, per natura, l'uomo non può essere indipendente. Egli è nato per dipendere da qualcuno. I fatti fondamentali della sua esistenza, la vita e la morte, non sono in suo potere. Egli può, a dire il vero, darsi la morte, ma non può né darsi la vita né impedire che questa gli sfugga. E questo dimostra, ancora una volta, che l'unico potere autonomo dell'uomo è quello dell'autodistruzione. La libertà dell'uomo senza Dio è la possibilità di scegliere per sé la morte.
   L'uomo è un essere dipendente, e quindi se non ha un Dio è costretto a farselo.
   Ai piedi del monte Sinai il popolo d'Israele stava aspettando da molti giorni che Mosè tornasse, portando disposizioni da parte di Dio. Ma di Mosè non c'era più traccia e Dio non dava segni di sé. E se tutto fosse rimasto così per sempre? Poteva un intero popolo rimanere a bivaccare nel deserto per tutta la vita? Bisognava agire, muoversi. Ma si può attraversare un lungo e ignoto deserto senza avere un dio che si ponga alla guida del popolo? No, non è possibile, non c'è neppure da pensarci. Se non si ha un dio, bisogna farselo.
    «Or il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dal monte, si radunò intorno ad Aaronne, e gli disse: "Orsù, facci un dio che ci vada dinanzi" poiché quanto a Mosè, a quest'uomo che ci ha tratto dal paese d'Egitto, non sappiamo che ne sia stato"» (Esodo 32:1).
Il popolo d'Israele non ebbe la pazienza di aspettare, e la sua impazienza nei confronti dei tempi di Dio lo condusse all'idolatria.
   L'uomo che non accetta l'Eterno come Dio, deve dunque costruirsi un altro dio. Un dio che non solo non salva, ma non resta neppure inerte. Il feticcio che l'uomo si costruisce comincia presto a sprigionare una misteriosa forza d'attrazione, una specie di risucchio che attira l'anima del costruttore in un vortice senza via d'uscita. Dal momento che la creazione di un idolo fa uscire l'uomo dalla dipendenza del Dio vivente, e poiché l'unica possibilità autonoma dell'uomo è quella di scegliere la morte, l'idolo che egli si costruisce cade nelle mani della morte e diventa uno strumento per la sua distruzione.
   L'uomo dunque non può in alcun modo fabbricare un Dio che lo libera e lo salva; ma può fabbricare un mostro che lo rende schiavo e l'uccide.
    «Ascolta Israele: l'Eterno, l'Iddio nostro, è l'unico Eterno. Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6:4-5).
Con queste parole comincia la famosa preghiera «Sh'ma Israel» (Ascolta, Israele), tratta dal libro del Deuteronomio, che l'ebreo pio recita tutti i giorni. Con questa ripetuta recitazione il pio israelita ricorda continuamente a sé stesso l'importanza del primo comandamento. Il famoso « gran comandamento» dell'amore che Gesù cita in risposta alla domanda dello scriba (Marco 12:29-30) non è dunque una specie di undicesimo comandamento, ma una formulazione del primo, il quale vieta solennemente all'uomo di dividere il suo cuore, la sua anima, la sua mente, le sue forze tra diversi dei. L'Eterno, e soltanto l'Eterno, deve essere amato.
   Questo primo comandamento era ben presente nella mente di Gesù. Uno dei pochi passi del vangelo in cui vediamo Gesù citare esplicitamente i comandamenti è quello del giovane ricco. A questo giovane pio e di buona reputazione, che vuole avere buoni consigli per ottenere la vita eterna, Gesù risponde di osservare i comandamenti. Ma è da notare che i comandamenti citati da Gesù sono quelli della seconda tavola, cioè quelli che riguardano i rapporti con il prossimo. I racconti dei vangeli non danno alcun motivo di pensare che Gesù non abbia creduto alle parole del giovane. Ma quando questi chiede: «Che cosa mi manca?» Gesù in sostanza risponde: Ti manca di osservare il primo comandamento, il quale esclude che ci possano essere altri dei da tenere accanto all'unico vero Dio. Quindi va', sbarazzati del tuo idolo, e rendi onore a Dio ubbidendo alla sua parola che oggi ti chiama a seguirlo.
   Liberarsi di un idolo può essere qualcosa di incredibilmente difficile. Anzi, come dice Gesù, agli uomini è impossibile. Impossibile come liberarsi da soli dal potere della morte. Come l'uomo non può decidere di sciogliersi da solo dai lacci della morte per entrare di sua volontà nella vita, così non può liberarsi da solo da quella espressione del potere della morte che è l'idolo. L'unica possibilità per lui è di cogliere il momento in cui Dio stesso lo chiama ad uscire dalla schiavitù della morte per entrare nella libertà della vita eterna. Il giovane ricco ha rifiutato di essere liberato dall'idolo e quindi è rimasto sotto il suo potere, sotto il potere della morte, perché in questo modo non ha potuto ereditare quella vita eterna che Gesù gli aveva offerto.
   Gli idoli che minacciano oggi la nostra vita possono essere di diversa natura. Che si tratti dei soldi o del potere o del prestigio o della droga o di un'ideologia o di qualcosa di molto semplice e innocuo, l'idolo è sempre una potenza a cui consegniamo la nostra vita, a cui restiamo legati da una dipendenza vitale. Gli idoli che condizionano la vita di un uomo possono anche essere più di uno; in tal caso il cuore si divide e l'uomo cade nella paura di dover indovinare ogni volta quello giusto da invocare e da ingraziarsi.
   Un segno inequivocabile di dipendenza dagli idoli è la paura persistente. Le spiegazioni psicologiche che caso per caso si possono dare non sono in grado di arrivare alla radice del male. Le banalizzazioni supportate da argomentazioni «scientifiche» non servono. Va detto e ripetuto che con gli idoli non si scherza. Essi hanno a che fare con la morte: per questo non possono che generare paura, instabilità, insicurezza.
   Il primo comandamento doveva servire a mettere minacciosamente in guardia il popolo, perché il pericolo che correva ad abbandonare il suo Dio, o a permettere che accanto a Lui ci fossero divinità straniere, era mortale. Questo minaccioso avvertimento vale anche per noi. Dio ci ama teneramente, ci conosce per nome; ciascuno di noi esprime un suo pensiero, un suo particolare progetto. Per questo Dio non può tollerare che la sua creatura si consegni a padroni spietati che sembrano promettere chi sa quali soddisfazioni ma non mantengono mai le loro promesse, e alla fine, quando ormai è troppo tardi, fanno cadere la maschera e rivelano il loro vero volto, che è il volto macabro della morte. Per questo Dio avverte, minaccia, richiama, riprende, castiga, colpisce: Egli vuole che rimaniamo in una posizione di totale e continua dipendenza da Lui, e non per dare sfogo al suo dispotismo, ma perché ci ama. Soltanto Lui, che ci ha creati per amore, e ci mantiene in vita per amore, e per amore ci fa rinascere in Gesù Cristo, è in grado di darci «la vita e il bene»; gli idoli invece non possono che darci «la morte e il male».
   Il primo comandamento esprime dunque l'invito teneramente imperioso di Dio a rispondere senza alcuna riserva a questo amore, perché soltanto in questa risposta incondizionata l'uomo può trovare la sua vera vita e la liberazione da ogni paura della morte. Perché «Dio è amore» (I Giovanni 4:8) e «nell'amore non c'è paura» (I Giov. 4:18).
    «Io prendo oggi a testimoni contro a voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua progenie, amando l'Eterno, il tuo Dio, ubbidendo alla sua voce e tenendoti stretto a lui (poiché egli è la tua vita e colui che prolunga i tuoi giorni), affinché tu possa abitare sul suolo che l'Eterno giurò di dare ai tuoi padri Abrahamo, Isacco e Giacobbe» (Deuteronomio 30:19-20).
(da “Le dieci parole”, di Marcello Cicchese)

 


Negoziati tra Israele e Libano per la definizione dei confini marittimi

Le trattative partiranno a metà ottobre con la mediazione degli Stati Uniti

Israele e Libano hanno annunciato congiuntamente ieri il prossimo avvio di negoziati per la definizione dei confini marittimi, nell'intento di dare impulso all'esplorazione e allo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale nella zona. Lo hanno indicato il presidente del Parlamento libanese, Nabih Berri (leader del movimento sciita Amal), e il ministro degli Esteri israeliano, Gaby Ashkenazi. Berri ha comunque tenuto a precisare che questo sviluppo è estraneo al graduale processo di normalizzazione fra Israele ed alcuni paesi arabi recentemente avviato.
   Mediati dagli Stati Uniti, i negoziati dovrebbero iniziare «verso il 14 ottobre», secondo quanto ha anticipato alla stampa israeliana da David Schenke, consigliere del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. Si svolgeranno, ha aggiunto il funzionario statunitense, sotto gli auspici dell'Onu nella sede dell'Unifil (il contingente delle Nazioni Unite nel Libano meridionale) a Naqoura, il punto di valico sul mare fra Israele e Libano, ex sede della dogana libanese, confinante con la base militare israeliana di Rosh Ha-Nikra. In questa stessa sede si tengono da più di dieci anni regolari incontri tripartiti tra israeliani, libanesi e i vertici della missione dell'Onu in Libano.
   La delegazione del Libano sarà messa a punto dal presidente, Michel Aoun, nei prossimi giorni, mentre, per Israele, il coordinatore dei colloqui sarà il ministro dell'Energia, Yuval Steinitz. Gli Stati Uniti, ha precisato Berri, hanno preso nota che «la delimitazione dei confini marittimi dovrà avvenire sulla base del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) concordato nel 1996». Dall'anno scorso, gli emissari Usa hanno mantenuto una spola serrata fra Israele e Libano proprio per mettere a punto il quadro dei negoziati per delimitare un'area marina di centinaia di chilometri quadrati, nota come "Bloc 9". Questi contatti hanno avuto di recente un impulso per l'aggravarsi della crisi economica libanese (la peggiore degli ultimi trent'anni) e anche per i contraccolpi della esplosione di due mesi fa al porto di Beirut. Secondo la radio statale israeliana, è presumibile che la ripresa dopo tre decenni dei contatti israelo-libanesi sia stata approvata anche dal leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah. Ed un allentamento delle tensioni militari nella zona è quanto si attendono le compagnie occidentali interessate allo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale.
   
(L'Osservatore Romano, 3 ottobre 2020)


Hezbollah ha i missili puntati. Dal Libano contro Israele

Sono numerosissimi e anche ad altissima precisione. Lo ha dimostrato all'Onu il premier israeliano Benjamin Netanyahu. I missili dell'ultima generazione vengono montati in stabilimenti realizzati sotto condomini abitati da gente comune al centro della città di Beirut per cui, se ci fossero degli incidenti (com'è successo il 4 agosto scorso nel porto della capitale libanese) le incolpevoli vittime civili sarebbero moltissime. Gli hezbollah hanno deciso di collocare le fabbriche di missili in questo modo per evitare che l'aviazione militare israeliana, che sa dove sono, sarebbe in grado i colpirli.

di Dorian Gray

Parlando in videoconferenza in occasione dell'annuale discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il premier israeliano Netanyahu ha nuovamente fatto delle rivelazioni di intelligence molto importanti. Questa volta Netanyahu non ha parlato del nucleare iraniano, ma dei depositi di missili di precisione del gruppo terrorista libanese Hezbollah. Secondo quanto rivelato dal primo ministro israeliano, a pochi chilometri dall'area delle esplosioni al porto di Beirut avvenute il 4 agosto scorso, ci sarebbero ben tre fabbriche di missili di precisione (Pgm) del Partito di Dio (quindi tutte nella capitale libanese).
La prima fabbrica si trova nell'area di Laylaki, nei sotterranei di un condominio di sette piani, in cui vivono ben settanta famiglie (!).
   La seconda si trova nell'area di Chouaifet, nei sotterranei di un palazzo di cinque piani, in cui vivono cinquanta famiglie (!).
   La terza fabbrica si trova invece nell'area di Janah, vicino a delle abitazioni civili, a due società del gas e ad una pompa del gas.
   Tutte aree in cui, se avvenisse un qualsiasi incidente «di lavoro», i terroristi di Hezbollah potrebbero causare la morte di decine e decine di innocenti civili, usati come scudi umani dagli uomini di Nasrallah, al fine di ridurre il rischio di essere colpiti dagli aerei nemici, ben sapendo che il codice morale di eserciti come quello israeliano impone di cercare sempre di ridurre al minimo i rischi di perdite di vite civili.
   I Pgm sono missili di precisione con sistemi di navigazione altamente avanzata che, se ben sviluppati, consentono di eludere le difese missilistiche, colpendo le aree civili con estrema precisione. Per questo Israele ritiene che questi missili siano molto pericolosi e sta cercando in tutti i modi di impedirne la costruzione.
   Per anni il regime iraniano ha tentato dal 2013 al 2015 di esportare i Pgm in Libano ma, dopo vari fallimenti, ha deciso di inviare a Hezbollah i missili divisi in vari pezzi, affinché l'assemblaggio avvenisse in loco.
   Ricordiamo che già nel 2018, parlando all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Netanyahu aveva mostrato delle immagini satellitari che rivelavano la presenza di centri di produzione di missili di precisione di Hezbollah nei pressi dell'aeroporto Rafiq Hariri, l'aeroporto internazionale di Beirut dedicato all'ex premier libanese, ucciso proprio da uomini del Partito di Dio. Da non dimenticare anche che a metà luglio scorso, il centro di ricerca israeliano Alma aveva rivelato l'esistenza di almeno 28 siti di lancio missilistici appartenenti a Hezbollah installati in mezzo alle aree civili di Beirut. Il centro Alma aveva corredato la sua indagine con una serie di mappe estremamente precise, a riprova di quanto veniva affermato. Si stima che da queste postazioni il gruppo terrorista potrebbe lanciare verso Israele anche missili a medio raggio (sempre di produzione iraniana) come il Fateh 110.
   Infine, ricordiamo che l'ultimo «incidente di lavoro» causato dai terroristi di Hezbollah è avvenuto appena pochi giorni fa: il 22 settembre, infatti, è saltato in aria un deposito di armi presso il villaggio di Ain Qana, causando ingenti danni, uccidendo un terrorista di Hezbollah, ferendo altre quattro persone e mettendo in pericolo la vita di decine di civili.

(ItaliaOggi, 3 ottobre 2020)


La prima strada wireless che ricarica i veicoli elettrici: avviato il progetto a Tel Aviv

 
La prima strada wireless a Tel Aviv
La città di Tel Aviv, in Israele, sta sviluppando un particolare progetto legato alla viabilità attraverso il quale le strade, dotate di strutture wireless, avranno la specifica funzione di ricaricare i mezzi di trasporto elettrici in circolazione. L'ideazione del progetto è di paternità della società israeliana ElectReon, in cooperazione con la Dan Bus Company, nota azienda di trasporti pubblici. La priorità al momento è data al trasporto pubblico; il sistema verrà inizialmente testato su un tragitto di 2 chilometri, partendo dalla stazione ferroviaria in prossimità dell'università di Tel Aviv fino ad arrivare all'aeroporto.

 Come è strutturata la strada wireless
  Stando ai dettagli tecnici, otto centimetri al di sotto del pavimento stradale verranno installate delle bobine di rame in grado di ricaricare tramite wireless i mezzi pubblici in circolazione attrezzati per la ricarica. La tecnologia in questione è chiamata DWPT, Dynamic Wireless Power Transfer, e consente un notevole risparmio dei costi, oltre che del peso, grazie alle dimensioni ridotte delle batterie collocate sui mezzi. È la prima volta che un progetto simile viene messo in atto, la tecnologia potrebbe così andare ad incidere anche sul nostro modo di spostarci.

 I risultati del primo test su strada wireless
  La società israeliana ha già effettuato il primo test in strada a Beit Yanay attraverso una Renault Zoe e sembrerebbe che la prova su strada sia stata superata.
La ElectReon ha da poco diffuso i risultati della prova: "Il test ha mostrato una trasmissione di energia di 8,5 kw con un'efficienza superiore al 91%. Prevediamo di poter aumentare la potenza oltre i 15 kw in poche settimane" ha dichiarato la società.

 Il progetto eco-sostenibile contro l'inquinamento ambientale
  Il progetto è nato con un'evidente impronta di eco sostenibilità e tutela dell'Ambiente con il sindaco della città israeliana, Ron Huldai ad aver affermato che il tutto rientra in un programma di lotta all'inquinamento ambientale. La possibilità di caricare direttamente i veicoli sulla strada tramite wireless consentirebbe di eliminare le stazioni di ricarica e i terminali.
CNN Business, portale online di notizie e informazioni finanziarie, ha comunicato che i lavori sono già iniziati a Tel Aviv, le strade sono in costruzione e nei prossimi giorni verranno effettuate ulteriori prove. Al momento in Israele sono comunque vigenti delle limitazioni a causa della pandemia da Covid-19, la cosa potrà ovviamente portare a un ritardo nel compimento del progetto.

(Blasting News Italia, 3 ottobre 2020)


Bisogna eliminare con la legge i privilegi che solo gli ebrei hanno

II primo documento politico di Hitler. Il capitano Karl Mayr, che apparteneva a un'unità di intelligence, affidò a Hitler l'incarico di fornire chiarimenti riguardo alla posizione dell'esercito sulla questione ebraica a un suo collega, l'ufficiale Adolf Gemlich. La lettera del 16 settembre 1919 è il primo documento politico di Hitler. Inedita in Italia, è pubblicata nel volumetto di Levy. Ne anticipiamo alcuni brani.

di Adolf Hitler

L'origine dell'avversione di ampi settori popolari verso l'ebraismo non va ricercata in una nitida conoscenza dell'agire pernicioso più o meno pianificato del gruppo ebraico verso la nostra nazione, ma per lo più nei rapporti personali, nell'effetto prodotto dal singolo ebreo, che è quasi sempre sfavorevole. Ma così l'antisemitismo assume solo il carattere di mero fenomeno emotivo. E questo non va bene. L'antisemitismo come movimento politico non deve e non può essere determinato da moti emotivi, ma dalla conoscenza dei fatti. (...).
   Con una millenaria riproduzione endogamica, spesso avvenuta in cerchie molto ristrette, l'ebreo ha saputo conservare la razza e le proprie caratteristiche assai meglio rispetto a molti dei popoli tra cui vive. E, quindi, fra noi vive una razza straniera, non tedesca, nient'affatto disposta o in grado di sacrificare le sue caratteristiche razziali, di rinnegare i suoi sentimenti, i suoi pensieri e le sue aspirazioni, e che tuttavia possiede politicamente i nostri stessi diritti. L'ebreo agisce spinto solo da moventi puramente materiali, ancor di più lo sono i suoi pensieri e le sue aspirazioni. La danza intorno al vitello d'oro diventa la lotta implacabile per ogni bene che, secondo i nostri sentimenti più profondi, non devono essere quelli più importanti e desiderabili su questa terra. (...)
   L'antisemitismo su basi puramente emotive troverà la sua espressione conclusiva nella forma dei pogrom. L'antisemitismo della ragione deve tuttavia condurre alla lotta giuridica pianificata e all'eliminazione dei privilegi dell'ebreo, che solo lui possiede rispetto agli altri stranieri che vivono fra noi (soggetti alla legislazione degli stranieri). Il fine ultimo di tale legislazione deve essere l'allontanamento definitivo degli ebrei. A tal fine è necessario un governo di forza nazionale e non un governo di impotenza nazionale.
   La Repubblica tedesca deve la sua nascita non alla volontà unitaria nazionale del nostro popolo, ma allo scaltro utilizzo di una serie di circostanze che tutte insieme produssero un profondo malcontento generale. Ma tali circostanze erano indipendenti dalla forma statale e agiscono tuttora. Ben più di prima. Perciò una larga parte del nostro popolo è disposta ad ammettere che non è la mutata forma statale a poter cambiare o migliorare la nostra situazione, ma solo una rinascita delle forze morali e spirituali della nazione.
   E tale rinascita non sarà avviata da una classe dirigente di maggioranze irresponsabili influenzate da precisi dogmi partitici, da una stampa irresponsabile, da slogan e da parole d'ordine di conio straniero, ma dall'utilizzo spietato di personalità carismatiche, di sentimenti nazionali, di intimo senso di responsabilità.
   Questo fatto priva tuttavia la Repubblica del sostegno intimo delle forze spirituali della nazione. Perciò l'attuale classe dirigente è costretta a cercare il sostegno di coloro che traggono e trassero esclusivamente beneficio dal rimodellamento delle condizioni tedesche, e che per questo motivo furono anche le forze trainanti della Rivoluzione: gli ebrei. Pur consapevoli del pericolo dell'ebraismo (ne sono una dimostrazione le diverse espressioni delle attuali personalità al comando), la nostra classe dirigente è costretta ad accettare a proprio vantaggio il sostegno prontamente fornito dagli ebrei, e così anche la contropartita richiesta. E questo scambio non consiste solo nel generico sostegno dell'ebraismo, ma soprattutto nell'impedire la lotta del popolo tradito contro i suoi mistificatori, cioè reprimendo il movimento antisemita.
   Rispettosamente,
   A. H.

(La Stampa - tuttolibri, 3 ottobre 2020)


Macron contro l'Islam radicale: un esempio anche per l'Italia

Iniziative da prendere come esempio anche in Italia dove la lotta all'Islam radicale sembra completamente dimenticata pur sapendo che sotto la cenere cova il fuoco.

di Franco Londei

Emmanuel Macron ha un piano per difendere i valori secolari della Francia contro l'Islam radicale. Lo ha svelato lui stesso ieri durante un discorso tenuto a Les Mureaux, poco fuori Parigi.
   Macron ha annunciato una supervisione più rigorosa delle scuole islamiche, sulla provenienza e sull'utilizzo dei fondi delle varie associazioni islamiche e tutta una serie di provvedimenti volti ad integrare i giovani musulmani nella società francese impedendo così che in Francia si instauri una sorta di "doppia legislazione", quella nazionale e quella islamica, non di rado ritenuta dai musulmani superiore a quella francese se non addirittura l'unica legislazione.
   Il Presidente francese ha dipinto l'Islam come "una religione in crisi" per via del fatto che sempre più spesso vira verso l'integralismo piuttosto che verso una idea di pacifica convivenza nel rispetto delle altre religioni.
   Un fenomeno che in Francia sta assumendo contorni davvero allarmanti considerando anche il fatto che la Francia ospita la più grande comunità islamica dell'Europa occidentale con i suoi cinque milioni di adepti.
   Secondo Macron in Francia è in corso una sorta di "separatismo islamista" dove le scuole islamiche vengono usate per indottrinare i bambini verso l'Islam integralista trascurando di insegnare loro le leggi della Repubblica che vengono sostituite con la legge islamica. Si sta cercando insomma di creare una "contro-società" che considera le proprie leggi al di sopra di quelle della Repubblica.
   Nelle prossime settimane il Governo presenterà una nuova legge per la separazione della religione dallo Stato che vada a rafforzare se non addirittura a sostituire quella già in vigore dal 1905.
   La normativa più interessante che verrebbe introdotta in questa nuova legge è quella che prevede l'obbligo per i bambini dai tre anni in su di frequentare solo scuole francesi.
   Secondo alcuni esperti infatti oggi non sarebbero più le moschee il vettore principale con il quale inculcare ideologie estremiste, ma sarebbero le scuole islamiche.
   Le stesse moschee saranno oggetto di questo piano per fermare l'Islam radicale. Oggi buona parte degli Imam arrivano dall'estero e di solito riescono ad estremizzare una moschea e a prenderne il controllo in poche settimane. Per questo motivo la Francia avvierà una procedura che porterà gradualmente a riconoscere solo Imam francesi.
   Macron ha parlato di «pesanti influenze straniere nell'Islam francese» puntando il dito contro Arabia Saudita, Qatar e Turchia annunciando anche maggiori controlli sui finanziamenti esteri alle moschee. Secondo il Presidente francese «dobbiamo liberare l'Islam francese».
   Infine Macron ha riconosciuto gli errori fatti dalla Francia nel "ghettizzare" i musulmani francesi. «Abbiamo concentrato le popolazioni in base alle loro origini, non abbiamo lavorato sufficientemente bene per integrare la diversità, né assicurato la mobilità economica e sociale» ha detto il Presidente.
   «Gli islamisti radicali sono piombati qui, approfittando del nostro ritiro e della nostra codardia» ha poi aggiunto.
   Le iniziative annunciate da Macron arrivano una settimana dopo l'ultimo attentato islamista subito dalla Francia e, se veramente messe in pratica, sarebbero un coraggioso passo avanti nella lotta all'Islam radicale. Iniziative da prendere come esempio anche in Italia dove la lotta all'Islam radicale sembra completamente dimenticata pur sapendo che sotto la cenere cova il fuoco.

(Rights Reporter, 3 ottobre 2020)


Basket - 12 squadre israeliane si sono iscritte alla Balkan League

12 squadre della Winner League sono state iscritte venerdì alla Balkan League, campionato che l'Hapoel Gilboa/Galilea ha vinto due volte nel 2012 e nel 2013. La Lega Balcanica è riconosciuta dalla FIBA dalla sua fondazione nel 2008 da parte dell'ex arbitro israeliano Shai Streix e la prossima stagione sarà la sua 13a consecutiva.
Le squadre israeliane, è stato dichiarato, "sono felici di entrare a far parte di un torneo internazionale di lunga data e rispettato, e la registrazione per questo campionato deriva da un genuino desiderio da parte delle squadre di continuare a giocare a basket anche durante questo periodo impegnativo e dal desiderio di preservare l'industria del basket in Israele."
La mossa è stata fatta perché solo le squadre iscritte alle competizioni internazionali sono attualmente autorizzate ad allenarsi e giocare a causa del lockdown del governo israeliano. Ciò consentirà ai giocatori di mantenersi in forma a causa delle restrizioni che sono state imposte allo sport.
Nel corso degli anni la Lega Balcanica ha visto passare squadre provenienti da Bulgaria, Croazia, Serbia, Macedonia settentrionale, Montenegro, Grecia, Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Albania, Kazakistan, Romania e, come detto, Israele. Oltre all'Hapoel Gilboa/Galilea, che ha vinto il titolo per due anni di fila e ha raggiunto un'altra finale, l'Hapoel Tel Aviv ha disputato le Final Four del 2012 tenutesi al Candle Garden.

(Pianeta Basket, 3 ottobre 2020)


Accordo Israele-Libano per i giacimenti di gas

L'intesa commerciale prevede contatti diretti tra i due Paesi con la mediazione degli Usa.

di Roberto Bongiorni

Non si tratta di una tregua, neanche di un tentativo. Si tratta, come ha ben spiegato il ministro israeliano dell'Energia Yuval Steinitz , di una questione commerciale. Ma per due Paesi che hanno combattuto diversi conflitti, e sono ancora formalmente in Stato di guerra, è un passo in avanti.
   «Israele e Libano - ha spiegato il ministro israeliano dell'Energia - terranno contatti diretti, con la mediazione americana, per i confini delle acque commerciali tra le due nazioni. Il nostro obiettivo è mettere fine alle divergenze sulla questione per aiutare lo sviluppo delle risorse naturali a beneficio dei popoli della regione».
   La conferma è arrivata anche dal Libano per bocca del capo del Parlamento, lo sciita Nabih Beni. «La visita del segretario di Stato americano Mike Pompeo in Libano - ha chiarito Berri - ha riportato in vita il dossier della demarcazione del confine». «Gli Stati Uniti - ha aggiunto - si rendono conto che i governi di Libano e Israele sono pronti a delimitare i loro confini marittimi sulla base dell'esperienza del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) esistente dagli accordi dell'aprile dei 1996 e che è attualmente regolato dalla risoluzione Onu n.1701 (del 2006)».
   La questione è da anni legata allo sfruttamento di alcuni giacimenti contesi di gas naturale al largo delle coste israeliane e libanesi. Le acque davanti a Israele, ma anche nel sud del Libano, nascondono ricchissimi giacimenti di gas. Ma se Israele li ha già messi in produzione, divenendo un esportatore di energia per la prima volta nella sua storia, il Libano è molto in ritardo. Le gare per la concessione delle licenze alle compagnie straniere per l'esplorazione dei blocchi sono state più volte rinviate. Il Libano, tuttavia, sta attraversando la più grave crisi economica di sempre. In marzo è stato dichiarato il default. La Pandemia di Covid-19 ha poi fatto il resto. La devastante esplosione al porto di Beirut avvenuta in agosto ha dato il colpo finale. Mettere a frutto il tesoro energetico che si nasconde sotto le acque del sud del Libano, anche se ci vorranno anni prima di commerciare il gas, contribuirebbe a frenare la crisi evitando lo scenario peggiore. Ovvero che il Piccolo Paese dei Cedri, un tempo noto come la Svizzera del Medio Oriente, divenga un `Venezuela del Medio Oriente".

(Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020)


Storica collaborazione musicale tra musicisti israeliani e degli Emirati Arabi

di Luca Spizzichino

 
Con il processo di normalizzazione dei rapporti tra lo Stato d'Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Barhein, ufficializzato con la firma dei cosiddetti "Accordi di Abramo" lo scorso 15 settembre, sono iniziate le prime collaborazioni tra i paesi, soprattutto tra lo Stato ebraico e gli Emirati, non solo a livello economico, ma anche culturale, o per meglio dire musicale.
Infatti, proprio nel panorama musicale israeliano si stanno vedendo i primi segni tangibili di una pace tanto agognata. Il primo a muoversi è stato quello che al momento è uno dei cantanti israeliani più conosciuti al mondo, Omer Adam, che attraverso il canale Kan ha sorpreso tutti confermando la visita dello stato del Golfo e la realizzazione di un concerto appena si sarebbero ufficializzati i rapporti tra i due stati.
A meno di un mese dalle firme del trattato di pace tra i tre stati, è avvenuto un altro fatto storico per la musica israeliana ed emiratina, infatti lo scorso 30 settembre è uscita la prima collaborazione musicale tra un cantante israeliano, Elkana Marziano, e un cantante proveniente dagli Emirati Arabi Uniti, Waleed Aljassim.
La canzone, che si chiama "Ahalan Bik", caratterizzata da una melodia arabeggiante, è un mix tra arabo, ebraico ed inglese, il cui messaggio è quello di fratellanza e di pace.
Tra le menti che hanno partorito questo storico progetto, Doron Medalie, autore di "Toy" di Netta Barzilai, vincitrice dell'Eurovision Song Contest, ed Henree, produttore musicale, che attraverso i social ha affermato che "la musica connette le religioni e le nazioni".
Questo caso storico è l'esempio lampante di come l'arte, e in questo caso la musica, sia il ponte migliore per unire due culture distanti e differenti.

(Shalom, 2 ottobre 2020)


Mossad: il racconto di una notte a Teheran

In arrivo nelle librerie la storia di una delle più importanti operazioni dei servizi segreti israeliani

Il 30 aprile 2018 il premier israeliano Benjamin Netanyahu mostrò in diretta televisiva parte dell'archivio segreto relativo al nucleare iraniano, che agenti del Mossad avevano trafugato a Teheran e portato in Israele. Secondo gli esperti dell'Intelligence israeliana e della Cia, che poterono visionare il materiale prima della rivelazione in mondovisione, quei documenti, rapporti, video e fotografie erano le prove che l'Iran, dopo aver firmato l'accordo che avrebbe dovuto fermare lo sviluppo militare delle ricerche nucleari, stava ingannando il mondo intero. Nel corso della conferenza stampa in diretta tv, il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva smascherato il governo degli Ayatollah dicendo: "Ecco le prove che il programma iraniano cerca ancora di creare l'arma atomica". Secondo le rivelazioni l'archivio segreto era stato trovato e prelevato a Teheran dagli agenti israeliani, in un edificio che dall'esterno sembrava un normale magazzino. L'obiettivo dei Pasdaran, aveva poi affermato Netanyahu, era quello di produrre e installare su un missile balistico, una testata nucleare con potenza pari a cinque volte la bomba che distrusse Hiroshima. Israele, per poter provare al mondo la malafede iraniana, aveva rinvenuto e prelevato cinquantacinquemila files di informazioni che incriminavano l'Iran, e lo fecero eseguendo una vasta operazione d'Intelligence in una località segreta della quale, durante la conferenza, fu mostrata anche un'immagine. Il peso totale del materiale arrivato a Gerusalemme era di cinquecento chilogrammi.
  È la trama del libro "Mossad, una notte a Teheran", in uscita l'8 ottobre edito da 'La nave di Teseo', scritto da Michael Sfaradi, giornalista free lance in lingua italiana iscritto alla Tel Aviv Journalist Association, specializzato in politica mediorientale, analisi militari e reportage di guerra, che racconta, in uno scenario di fantasia, come potrebbe essersi svolta la vicenda e quali intrighi internazionali potrebbero averla caratterizzata fino al momento in cui il Mossad, su ordine del governo israeliano, decise l'operazione di recupero degli archivi segreti sul nucleare iraniano. Nel racconto si prova anche a ricostruire le tensioni politiche, diplomatiche e militari, che caratterizzarono il periodo che precedette le rivelazioni del Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, basate proprio sui documenti recuperati.
  Agosto 2017. Report arrivati dai servizi segreti alleati, CIA e MI6 in particolare, che danno calma piatta sulla situazione iraniana, contrastano con le informazioni inoltrate da un agente infiltrato a Teheran che, invece, fa presente che lavori importanti sono eseguiti in quelle ore intorno alle centrali nucleari e negli uffici del ministero che si occupa del progetto nucleare. L'agente, nome in codice 'Apostolo 04' faceva parte di una rete di 12 agenti infiltrati in Iran e proprio perché 12 erano stati tutti soprannominati 'Apostolo'. Questa discrepanza di informazioni convince il capo del Mossad a proporre al Primo Ministro una missione di infiltrazione ausiliaria di un'agente donna da affiancare ad Apostolo 04 per vagliare sul campo la validità dei rapporti inoltrati. Nel romanzo viene spiegata la dinamica dell'arruolamento nei servizi segreti israeliani degli agenti destinati ad essere infiltrati in Iran e qui viene raccontata la storia di uno dei personaggi più importanti, Apostolo 04 per l'appunto, al secolo Ilan Ghorbani. Ilan, già ufficiale dell'esercito, nasce in una famiglia di origini persiane che lasciò Teheran alla caduta dello Scià. In famiglia ha appreso le tradizioni iraniane, conosce usi, costumi e la lingua farsi parlata, ma non scritta e non letta. Un corso approfondito di lingua Farsi, tenuto da Saman Yeganeh, anche lei figlia di una famiglia scappata all'arrivo di Khomeini, sarà parte dell'addestramento.

(OFCS.Report, 2 ottobre 2020)


La Chiesa contro Kertzer

Il controverso operato di Pio XII al tempo delle persecuzioni antiebraiche resta al centro dell'attenzione degli storici. Una vicenda che la recente apertura degli archivi apostolici vaticani permetterà di inquadrare in modo forse più esaustivo rispetto a quanto avvenuto finora. Anche in questa nuova fase di studio e approfondimento sulle carte non mancano però gli attacchi strumentali contro chi cerca di fare, con rigore e professionalità, il proprio lavoro. Come quello, lanciato nelle scorse settimane, nei confronti del Premio Pulitzer David Kertzer.

di Roberto Benedetti e Tommaso Dell'Era

Che cosa succede in Vaticano? Perché venerdì 4 settembre si è scelto di dedicare l'intera quarta pagina de L'Osservatore Romano - principale organo di stampa, anche se non ufficiale, della Santa Sede - ad una critica serrata di un articolo scritto qualche giorno prima dallo storico statunitense David I. Kertzer?
L'articolo di Matteo Luigi Napolitano, professore di Storia delle relazioni internazionali presso l'Università degli Studi del Molise, si intitola Per una nuova democrazia storiografica ed è una lettura interessante sotto molti punti di vista. L'argomento trattato è "l'apertura degli archivi su Pio XII e i pregiudizi da sfatare" ma per comprenderne appieno il significato occorre analizzare brevemente il contesto da cui nasce e fare dunque un passo indietro di qualche mese.
   Il 2 marzo 2020 gli archivi vaticani hanno aperto alla consultazione pubblica i fondi archivistici relativi al pontificato di Pio XII. La notizia era stata diffusa circa un anno prima e aveva creato una grande e giustificata fibrillazione all'interno della comunità scientifica degli storici di tutto il mondo: finalmente, dopo decenni di richieste, chilometri di documentazione vaticana sarebbero stati resi accessibili agli studiosi.
   In realtà, una piccola parte di questa immensa documentazione era stata messa a disposizione già a partire dal 1965, grazie al lavoro di una speciale commissione vaticana, nominata per ordine di papa Paolo VI, che aveva avuto lo specifico incarico di pubblicare tutti i documenti che potessero aiutare a stemperare le insistenti e insopportabili accuse di indifferenza al dramma della Shoah, quando non addirittura di contiguità con i regimi fascisti e nazista. In poco meno di venti anni di lavoro serrato la commissione riuscì a dare alle stampe ben dodici corposi volumi degli Actes et Documents du Saint-Siège rélatifs à la seconde guerre mondiale (Adss, 1965-1981), contenenti la trascrizione di una grande quantità di carte provenienti proprio dalla Segreteria di Stato vaticana. Fin da subito, però, la comunità scientifica aveva iniziato a richiedere a gran voce l'apertura degli archivi per verificare che tipo di selezione - qualitativa e quantitativa - fosse stata fatta dalla commissione vaticana....

(Pagine Ebraiche, ottobre 2020)


Sukkot in tutto il mondo - 5781/2020

di Laura Ben-David

Come ogni anno, siamo felici di condividere con voi un'esperienza visiva delle celebrazioni di Sukkot nelle nostre comunità in tutto il mondo e in Israele!
Uno degli aspetti piacevoli e divertenti di lavorare con le comunità ebraiche di tutto il mondo è il momento in cui si celebrano le" festività ebraiche" . Dare un'occhiata alle tradizioni, alla cultura, alla varietà e allo stile in ogni comunità unica ci ricorda come ci siano davvero "70 volti della Torah…" - e a tutti coloro che vi aderiscono! Date un'occhiata ad alcune delle Sukkot (capanne) che i nostri membri della comunità hanno costruito.
E rimanete sintonizzati! verranno aggiunte altre foto durante il periodo della festa!

(Shavei Israel Italia, 2 ottobre 2020)


Festival della Palestina, caso a San Lorenzo

Polemiche per il patrocinio del II Municipio all'iniziativa. Un assessore lascia la giunta.

L'imbarazzo dentro al Pd è totale e arriva ai piani altissimi del Nazareno quando ieri l'assessore alla cultura Lucrezia Colmayer ha deciso di protocollare le sue dimissioni dalla giunta Pd del Trieste Salario. La questione gira attorno al patrocinio concesso dalla presidente del Municipio II, Francesca Del Bello, alla quattro giorni del Falastin Festival della Palestina, cominciato ieri a San Lorenzo che strizza l'occhio ai movimenti di boicottaggio contro Israele. Nel Pd c'è chi come Aurelio Mancuso parla di «operazioni politiche mimetizzate da evento culturale» e ricorda che il partito «è contrario rispetto alle campagne di boicottaggio di Israele (BDS)». «Iniziativa inappropriata», la bolla il segretario regionale Bruno Astorre. II festival diventa per questo inaccettabile per la Comunità ebraica di Roma e per un bel pezzo di Pd. «Ho scritto personalmente alla presidente Del Bello per chiedere il ritiro del patrocinio, da cui mi dissocio e non ho nemmeno ricevuto risposta», ha detto Colmayer. «II patrocinio è incompatibile con la mia storia e visione politica e rende impossibile la mia permanenza in Giunta», ha scritto Colmayer incassando la solidarietà dei Giovani Democratici, di Italia Viva, Azione e di Valentina Grippo, alla Regione Lazio che parla di «ammirevole coerenza» di Colmayer. L'assessore municipale all'Ambiente Rino Fabiano, favorevole al patrocinio, vorrebbe trattenersi, parla sui social di un imprecisato «senso di vomito». Nel partito intanto si fanno distinguo, si spiega, si scrivono note. L'imbarazzo totale, appunto. Ste. P.

(Il Messaggero, 2 ottobre 2020)


Coronavirus, in Israele quasi 9mila casi in un giorno

"Il 34% dei contagiati sono ebrei ultraortodossi"

 
Agente di polizia di pattuglia nella città vecchia di Gerusalemme durante un blocco del coronavirus
 
Protesta. Nella scritta: "Un grande cartello contro una piccola autorità"
 
PROTESTA!
Record negativo di contagi in Israele, primo paese a entrare in un secondo lockdown che durerà almeno fino al 14 ottobre. Nelle ultime 24 ore sono state quasi 9mila (8.919) le infezioni registrate e il 34% delle persone diagnosticate con il Covid sono ebrei ultraortodossi, sebbene questa comunità costituisca circa il 12% della popolazione complessiva. Oltre 65mila - secondo i dati della sanità - i tamponi effettuati con un tasso di morbilità del 13.6%. I casi attivi della malattia sono 69mila con 810 malati gravi, per la prima volta in discesa, e 206 in ventilazione. I decessi hanno raggiunto quota 1.571 con 43 morti in un giorno. Il governo ha inoltre previsto sanzioni fino a 500 Shekel (circa 124 euro) per quanti violeranno le disposizioni delle autorità in occasione del Sukkot, una delle più importanti festività della religione ebraica che durerà dal 2 al 9 ottobre.

 I contagi tra gli ultraortodossi
  A spiegare perché siano così tanti all'interno della comunità dei più religiosi, è intervenuto il direttore generale del ministero della sanità Chezy Levy: "Causa il superaffollamento e le preghiere che a volte violano le regole di condotta" questa parte della popolazione "ha raggiunto un alto livello di morbilità". Levy ha anche sottolineato che sebbene il tasso di mortalità in questa comunità rimanga relativamente basso in rapporto con la popolazione generale e con quella araba, presumibilmente per la giovane età di quelli infettati, tuttavia il tasso sta "subendo un forte aumento". Per Levy alcune scuole religiose ultraortodosse hanno "enormi" tassi di infezione.

 L'estensione del lockdown
  Il governo israeliano ha approvato una misura per estendere il lockdown, imposto a partire dal 18 settembre, di tre giorni, fino al 14 ottobre. L'esecutivo Netanyahu ha anche approvato una misura per limitare le proteste e il culto nel raggio di un chilometro dalla propria casa, un passo controverso per frenare la diffusione del contagio che secondo i critici mira a reprimere le proteste settimanali contro il premier. Il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha sostenuto il provvedimento sulle proteste in un'intervista a Israel Radio, affermando che al momento c'è "bisogno di un rinvio" nelle manifestazioni per fermare la diffusione della malattia. Gantz ha inoltre aggiunto che il blocco nazionale potrebbe rimanere in vigore per molte altre settimane. Israele ha visto un notevole aumento del numero di nuovi casi di Covid-19 nelle ultime settimane: dopo aver in gran parte contenuto il virus in primavera con una risposta rapida, il Paese ha revocato le restrizioni troppo rapidamente a maggio, con conseguente ripresa dei contagi.

(il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2020)


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Israele - Il Parlamento approva una legge che vieta le manifestazioni in lockdown

Il Parlamento israeliano ha approvato una legge che vieta manifestazioni durante il lockdown nel paese per il coronavirus, che secondo i critici ha l'obiettivo di mettere a tacere le proteste contro il primo ministro Benjamin Netanyahu. La legge, passata in ultima lettura con 46 voti favorevoli e 38 contrari, dovrebbe far parte della serie di misure adottate da Israele per limitare il numero di contagi, esplosi nelle ultime settimane. In base alla nuova normativa, il governo sarebbe ora autorizzato a dichiarare "uno stato d'emergenza speciale a causa della pandemia di coronavirus" per una settimana, durante la quale sarebbero vietati spostamenti di oltre un chilometro da casa. Una misura che comunque sarebbe introdotta in futuro solo in caso di nuovo lockdown.

(Shalom, 1 ottobre 2020)


L'asse israelo-sunnita di contenimento agli ayatollah

Il rafforzamento degli alleati Usa nel Golfo arabico e a Gerusalemme attraverso gli accordi di Abramo — tra Israele, Uae e Bahrein — è andato di pari passo con il rafforzamento delle sanzioni americane a Teheran, fissate per spremere ulteriormente la leadership iraniana. Le opzioni di ritorsione da parte degli ayatollah sono limitate, anche perché gli Emirati Arabi Uniti sono un mercato redditizio per l'Iran, con quasi 4,5 miliardi di dollari di esportazioni nel 2019 ad Abu Dhabi e 8,9 miliardi di dollari di importazioni a Teheran.

di Matthew Robinson*

Mentre la pandemia ha dominato il panorama politico interno americano, con commentatori distratti da test e numeri di casi, le sabbie geopolitiche si sono spostate in modo monumentale in Medio Oriente con gli accordi di Abramo. La normalizzazione delle relazioni degli Emirati Arabi Uniti (Eau) e del Regno del Bahrein con Israele segna un coronamento della diplomazia americana, che vede il terzo e il quarto Paese arabo aprire relazioni diplomatiche con Israele, dopo Egitto e Giordania. L'accordo di pace è sicuramente da considerarsi come una vittoria per Mohammed bin Zayed, il governatore de facto degli Emirati; Hamad bin Isa Al Khalifa, il re del Bahrain; Benjamin Netanyahu, Primo ministro israeliano; per il presidente Trump e infine per Mohammed bin Salman, il principe ereditario dell'Arabia Saudita. Infatti, sebbene l'Arabia Saudita non fosse parte dell'accordo, senza il suo consenso gli Stati del Golfo, in particolare il Bahrein, sarebbero stati molto più cauti nell'impegnarsi in questo accordo, al contrario stipulato con tanta audacia. La benedizione di Mohammed bin Salman a questo riguardo è una mossa strategica per consolidare la sua posizione di riformatore e modernizzatore agli occhi dell'occidente. L'annuncio di questo accordo alla Casa Bianca non dovrebbe essere guardato isolatamente, perché parte di un riallineamento più ampio e attentamente ponderato nella regione guidata dagli americani. Prima dell'accordo di pace, il segretario di Stato americano Mike Pompeo è volato a Doha per incontrare una delegazione talebana per i negoziati di pace in Afghanistan con l'obiettivo di garantire un ritiro sicuro del personale militare americano nel Paese. Inoltre, gli sforzi di Pompeo sono arrivati pochi giorni dopo una visita in Iraq del generale della Marina Frank McKenzie, il comandante del Comando centrale degli Stati Uniti, in cui ha confermato il ritiro parziale, da tempo anticipato, delle truppe statunitensi da 5.200 a 3mila. Entrambe le mosse mirano a mantenere Trump presidente. L'impegno della campagna del 2016 di ridurre l'impronta del personale militare americano in Medio Oriente e far uscire così gli Stati Uniti da — come dice lui — "guerre infinite", si riattiva ora in vista delle sue speranze di rielezione a novembre. Sempre nel mese di settembre, l'amministrazione Trump ha raddoppiato il suo precedente ritiro dal Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), altrimenti noto come l'accordo nucleare iraniano, aumentando le sanzioni contro la Repubblica Islamica per il suo programma di armi nucleari. Il dipartimento di Stato ha affermato che "l'embargo delle Nazioni Unite sulle armi all'Iran è ora imposto a tempo indeterminato, e faremo in modo che rimanga in vigore finché l'Iran non cambierà il suo comportamento".
   In tandem con il rafforzamento degli alleati Usa nel Golfo arabico e a Gerusalemme attraverso gli accordi di Abramo, queste sanzioni sono fissate per spremere ulteriormente la leadership iraniana a Teheran. Anche se, sorprendentemente, l'Iran non ha rifiutato l'accordo, con il presidente Rouhani che condanna la mossa sia come un "enorme errore" sia come un "atto insidioso" da parte dei Paesi del Golfo, le loro opzioni di ritorsione sono limitate. Dopotutto, gli Emirati Arabi Uniti sono un mercato redditizio per l'Iran, con quasi 4,5 miliardi di dollari di esportazioni nel 2019 negli Eau e 8,9 miliardi di dollari di importazioni nell'Iran. Farshid Farzanegan, presidente della Camera di commercio Iran-Emirati Arabi Uniti ha affermato i limiti economici dell'Iran quando ha parlato all'Iranian labour news agency nel luglio di quest'anno: "Non abbiamo una vasta gamma di opzioni per quanto riguarda il commercio, viste le sanzioni. Gli Emirati Arabi Uniti sono il principale mercato dei cambi per l'Iran. E difficile rinunciarvi, viste le severe sanzioni bancarie e finanziarie contro l'Iran". Mentre il soggiorno di Donald Trump al 1600 di Pennsylvania Avenue è tutt'altro che permanente, la sua strategia per il Medio Oriente lo è. Un'ipotetica amministrazione Biden molto probabilmente manterrebbe la rotta del contenimento iraniano nella regione, cercando contemporaneamente di consolidare gli storici accordi di Abramo. L'asse israelo-sunnita è destinato a restare.

* Membro del comitato direttivo Egic e già consigliere della delegazione per le relazioni con l'Iraq presso il Parlamento europeo.

(Formiche.net, 1 ottobre 2020)


Roma - La Comunità Ebraica contro il patrocinio del II Municipio ad un evento che ospita il Bds

L'ennesimo evento propal contro Israele a Roma, come sempre mascherato da festival culturale o pseudo tale, questa volta patrocinato dal II Municipio della Capitale con il logo ben in evidenza sul manifesto, scatena la reazione della Comunità Ebraica di Roma che in una nota attacca duramente:
«Il patrocinio del II Municipio a un'iniziativa che vede la presenza del movimento di boicottaggio di Israele (Bds) è inaccettabile e pericoloso. Il movimento di boicottaggio, nega allo Stato Ebraico il diritto ad esistere ed è legato ai movimenti terroristici di Hamas e Al Fatah».
«Così come dichiarato nella definizione di antisemitismo dell'IHRA, adottata dal nostro governo su input di tutti i partiti politici e come stabilito dai parlamenti di Francia e Austria questo movimento è antisemita. - prosegue la nota - Con questa scelta il Municipio sta legittimando l'odio antiebraico. Non ci possono essere ambiguità su questi temi, tanto che se questa è la linea non parteciperemo a iniziative per la memoria in quel territorio. Non si possono ricordare gli ebrei di ieri e legittimare l'odio antiebraico verso gli ebrei di oggi»

(Progetto Dreyfus, 1 ottobre 2020)

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Lucaselli: il patrocinio del II Municipio di Roma al Bds è vergognoso

Ylenja Lucaselli
"Il patrocinio del II Municipio della Capitale all'iniziativa Bds è vergognoso e inaccettabile. Una istituzione territoriale non può dare questo riconoscimento ad una realtà che, di fatto, predica la cancellazione di Israele". Lo dichiara la deputata di Fratelli d'Italia Ylenja Lucaselli. "Questo tanto più in una città come Roma, che vanta una delle più antiche comunità ebraiche d'Europa ed allaccia un filo ideale e storico con Gerusalemme. L'indignazione sia più ampia possibile: non può esserci spazio per l'odio e per gli estremisti", conclude.

(La Voce del Patriota, 1 ottobre 2020)


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