Notizie 1-15 ottobre 2021
Privacy addio, con il decreto Capienze libero accesso ai dati degli italiani per centinaia di enti pubblici
La norma che regola l’accesso a cinema e teatri semplifica il trattamento dei dati personali per centinaia di enti della pubblica amministrazione. Blengino: «La tutela dei dati degli italiani è a rischio». Pizzetti (ex Garante): «Modificato il ruolo dell’Autorità».
di Silvio Puccio
Non solo Agenzia delle Entrate. Le modifiche introdotte dal decreto Capienze permettono a un vasto insieme di società pubbliche di accedere ai dati personali dei cittadini. Senza che una norma di legge o l’autorizzazione del Garante ne disciplini il trattamento.
Il lungo elenco comprende le aziende più varie, dalle agenzie fiscali alle istituzioni sanitarie, che necessitano di informazioni per poter offrire servizi ai cittadini. Ma ci sono anche enti che d’improvviso possono trattare i dati e comunicarli ad altri soggetti pubblici con meno restrizioni di prima. Come fondazioni o società in liquidazione in cerca dei creditori, oppure istituti che lavorano estraendo informazioni a partire dal reddito.
SEMPLIFICAZIONE A preoccupare è l’indebolimento dei vincoli sulla comunicazione dei dati personali tra soggetti pubblici nei limiti dell’esercizio dei loro poteri. «Facciamo l’esempio – prosegue Blengino – di un cittadino che non paga una bolletta dell’acqua perché insolvente. Non si tratta di un dato riservato, ma può essere indice di una sofferenza economica. Con le modifiche introdotte, un altro soggetto pubblico interessato al trattamento dei dati può estrarre quell’informazione per decidere se concedere un mutuo o un finanziamento. Oppure non farlo». La platea coinvolta è sterminata: si va dall’Istituto culturale cimbro all’Azienda forestale della Calabria, in liquidazione come la società Terme di Sciacca, presente nella lista. Tutte amministrazioni pubbliche che potranno operare sui dati degli italiani in maniera meno vincolata rispetto al passato.
LA NORMA Come si legge nel decreto, «il trattamento dei dati personali da parte di un’amministrazione pubblica è sempre consentito se necessario per l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse, o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti». La gestione delle informazioni era disciplinata da una norma di legge o dalle prescrizioni del Garante della privacy, che poteva normare il trattamento dei dati più sensibili. Adesso la responsabilità è rimessa alle società pubbliche stesse. Il cui trattamento dei dati verrà limitato o sanzionato solo dopo dagli organi di tutela. Misura che antepone le finalità delle società pubbliche alla protezione dei dati dei cittadini. Non sono le uniche modifiche: Il nuovo decreto abroga il comma 5 dell’art. 132 del Codice della Privacy. Una parte del testo che disciplina il trattamento e la conservazione dei tabulati telefonici per le finalità di accertamento e repressione dei reati. Attività rimesse al rispetto delle misure prescritte dal Garante Privacy e non più previste.
I DIRITTI Una semplificazione delle procedure nata con l’obiettivo di sveltire le attività della pubblica amministrazione. Ma che desta l’allarme degli esperti di settore: «Siamo di fronte a uno squilibrio che indebolisce in modo significativo del diritto alla protezione dei dati nei confronti del potere dello Stato», spiega Carlo Blengino, avvocato e associato del Nexa Center for internet society del Politecnico di Torino.
IL RISCHIO PER I CITTADINI «Questa misura diminuisce la privacy del cittadino e le tutele che il Garante della privacy può assicurare», spiega Francesco Pizzetti, ex Garante della privacy, professore emerito all’Università di Torino e docente alla Luiss di Roma. «Una modifica rilevante nelle competenze dell’Autorità. Cui rimane il potere di sanzionare le modalità del trattamento solo dopo che questo ha avuto luogo. In sostanza, è come punire un automobilista che ha avuto un incidente per eccesso di velocità. Ma senza stabilire il limite sopra il quale non è sicuro procedere. E se prima il garante era un colegislatore in merito al trattamento dei dati, il suo ruolo adesso è quello del poliziotto. Chiamato a intervenire caso per caso». Una trasformazione delle competenze che rischia di lasciare i cittadini con meno tutele di prima, messe da parte per favorire l’efficienza della pubblica amministrazione: «Si espone così il cittadino a ulteriori rischi – conclude Pizzetti - Una semplificazione che comporta costi potenziali rilevanti e più responsabilità della pubblica amministrazione. Non parliamo solo delle sanzioni, ma di lesioni dei diritti degli interessati dal trattamento dei dati. Cosa ben più importante». Ulteriori modifiche riguardano il contrasto alla pratica del revenge porn. Le uniche, forse, di segno positivo contenute nel decreto. Che con l’articolo 10 riconosce al Garante il ruolo di interlocutore per le vittime, potendo intervenire d’urgenza - dopo la segnalazione - per limitare la diffusione di materiale considerato privato.
All'articolo segue il commento di un lettore:
Ennesima e gravissima violazione dei diritti fondamentali del cittadino. Un decreto legge, quindi un provvedimento legislativo del Governo, emesso in totale assenza dei presupposti costituzionali di necessità ed urgenza e che passerà in Parlamento con il voto di fiducia, quindi senza nessuna discussione, esame e possibilità di modifica, elimina qualsiasi tutela della nostra privacy di fronte alla P.A. Nessuna forza politica proferisce verbo. Da oggi qualsiasi pubblica amministrazione potrà, per qualsiasi fine, raccogliere e scambiare i nostri dati, anche quelli più sensibili (ad esempio quelli sanitari). Il Green pass non era e non è un mezzo per difenderci dal virus, il green pass è il loro fine ultimo, costituisce lo strumento con il quale il nostro governo di banchieri ci potrà controllare e sanzionare digitalmente. Vi hanno terrorizzato con un'influenza, vi hanno chiuso in casa e serrato le vostre attività, vi hanno ricattato con il vaccino sperimentale, hanno subordinato i vostri diritti ed il vostro lavoro al possesso di una identità digitale tracciabile ed ora fanno man bassa di ogni nostra informazione e dato. Il loro modello, il loro fine ultimo era ed è la società del controllo, la dittature digitale cinese. Bravi bravi continuate a gridare al fascismo. Aprite gli occhi, chiedetevi: dove stanno i fascisti. Tra coloro che contestano questo sistema e questo governo o tra coloro che ne fanno parte per legiferare in questo modo? La risposta è semplice e chiara.
(La Stampa, 15 ottobre 2021)
Il motivo per cui compaiono su questo sito articoli di questo tipo non è ovviamente per cercare di avere influenza su ciò che avviene a livello politico. Il governo a trazione Draghi è riuscito ormai a fare notevoli passi avanti e marcia decisamente verso una forma irreversibile di nuovo totalitarismo, detto da alcuni "totalitarismo liquido", o "totalitarismo della sorveglianza", che per sua natura sarà sempre più invasivo e richiederà scelte sempre più impegnative, a tutti i livelli. Anche per noi credenti in Cristo si sta avvicinando il tempo, o forse è già arrivato, in cui non potremo più facilmente cavarcela dicendo che "tutti possono avere le loro idee" e "l'importante è mantenere l'unità". Nei momenti critici di svolta la vera unità spirituale nel servizio a Dio si mantiene facendo di pari consentimento le stesse scelte. M.C.
Eitan: nonna Peleg denuncia in Israele Aya Biran Nirko
'Uso illegale di cellulari, furto gioielli e Ipad'
Etty Peleg Cohen, nonna materna di Eitan, ha denunciato alla polizia di Tel Aviv Aya Biran Nirko, zia paterna del piccolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone e sua affidataria. Lo ha riferito la tv N12 secondo cui la denuncia si riferisce all' "uso illegale di cellulari ritrovati nell'abitazione dei genitori" di Eitan morti sul Mottarone e anche "al furto di gioielli, Ipad, macchine fotografiche e all'uso illegale" dei contenuti del computer nella causa in corso in Israele.
Nella denuncia - secondo la stessa fonte - si afferma anche che "la famiglia Biran Nirko ha attivato una raccolta di fondi in rete destinati presumibilmente al benessere e al trattamento psicologico di Eitan, ma che sarebbero stati utilizzati" per le spese legali.
L'emittente ha ripreso una dichiarazione della donna all'uscita dal posto di polizia di Tel Aviv. "Sono la nonna di Eitan - ha detto nel servizio - e faccio di tutto per proteggerlo. Spero che riusciremo a tenerlo qui in Israele e che il bambino viva nella sua patria e con il suo popolo". N12 ha riportato anche una reazione degli avvocati di Aya Biran Nirko secondo cui la "denuncia è infondata. Quando una persona è sconvolta non bisogna giudicarla".
Intanto, il giudice del Tribunale della famiglia di Tel Aviv si appresta ad emettere la sentenza sulla causa intentata dalla stessa Aya, in base alla convenzione dell'Aia, per il rientro immediato in Italia di Eitan. La decisione è attesa nei prossimi giorni.
(ANSA, 15 ottobre 2021)
Migliaia di palestinesi di Gaza vogliono lavorare in Israele
Hamas ha fallito, il popolo prova solo ad arrivare in pace a fine mese
di Anna Mahjar-Barducci
GERUSALEMME - Migliaia di palestinesi si sono presentati alle Camere di commercio di Gaza per ottenere il permesso di lavoro in Israele. Questo mese, le autorità israeliane hanno infatti aumentato a 7mila il numero di permessi per gli abitanti della Striscia (2mila in più rispetto ad agosto). Le immagini che arrivano da Gaza mostrano calche di palestinesi disperati che si spingono l'uno con l'altro per potere accedere agli uffici e ricevere la tanto desiderata documentazione per attraversare il valico di Erez ed entrare finalmente in Israele. Le lunghe file di palestinesi fuori dalle Camere di commercio sembrano però surreali. Solo pochi mesi fa, Hamas aveva lanciato da Gaza migliaia di missili sullo Stato ebraico per undici giorni consecutivi, mostrando video della popolazione festante ogniqualvolta un target veniva colpito a Tel Aviv o nel sud del Paese. Nonostante la propaganda sponsorizzata da Hamas, il popolo sembra volere semplicemente arrivare in pace a fine mese. La realtà infatti è che la maggior parte dei palestinesi lascerebbero molto volentieri la Gaza governata dal movimento islamista per la possibilità di poter vivere in Israele, dove ci sono libertà di parola, opportunità di impiego, diritti lavorativi, stipendi più alti e previdenza sociale. Le foto delle decine di migliaia di palestinesi accalcati per andare in Israele mostra chiaramente come Hamas a Gaza abbia fallito. Negli ultimi sei anni, il Qatar ha destinato solo a Gaza più di 1,4 miliardi di dollari, mentre dal 2008 al 2016 Ue, Usaid, Nazioni Unite e altri enti internazionali hanno dato 20,3 miliardi di dollari per Gaza e la West Bank. Se consideriamo soltanto i finanziamenti dati dall'emirato qatarino, otteniamo un aiuto di circa 234 milioni di dollari all'anno per una popolazione di circa 2 milioni di persone (molto meno di Roma città), con un numero di famiglie calcolato intorno a 5.600. Se questi aiuti qatarini fossero dati per famiglia, ciascuna otterrebbe un budget di circa 42mila dollari all'anno. Gli aiuti però sembrano avere arricchito soltanto i leader di Hamas. Secondo il sito israeliano "Globes", nel 2016 l'ex capo del movimento Khaled Mashaal avrebbe accumulato dai 2 ai 5 miliardi di dollari. Inoltre, il quotidiano saudita "Asharq Al-Awsat'' ha riportato che a Gaza ci sarebbero 600 milionari in dollari, molto probabilmente legati a Hamas. Nel 2018, Avigdor Lieberman, allora ministro della Difesa di Israele, aveva detto che Gaza avrebbe «il potenziale per diventare la Singapore del Medio Oriente» se gli investimenti e gli aiuti economici fossero destinati a migliorare la condizione dei residenti dell'enclave palestinese «invece di promuovere il terrorismo». Si calcola infatti che, solo per costruire la rete di tunnel utilizzati per spostare armi e miliziani, Hamas abbia speso più di 90 milioni di dollari. Per molti palestinesi di Gaza il permesso per entrare in Israele rappresenta pertanto quell'opportunità di avere accesso a un lavoro dignitoso che fino a ora è stata negata loro da Hamas.
(la Ragione, 15 ottobre 2021)
Eilat 2021, il benvenuto del primo cittadino israeliano
Il commento del primo cittadino di Eilat.
di Matteo Mattei
Manca meno di un mese all'Esports World Championship di Eilat 2021. Il mondiale si disputerà finalmente dal vivo il 13-14 novembre e la città israeliana di Eilat si appresta ad ospitare la kermesse. Online il commento del primo cittadino di Eilat, Eli Lankri:
"Per la prima volta in Israele il World Gaming Championship, qui a Eilat. Il presente è impressionante e il futuro promette bene! Il mese prossimo, la città di Eilat ospiterà 500 giocatori provenienti da 85 paesi nella prestigiosa competizione di gioco internazionale. Milioni di occhi guarderanno l'evento festoso e storico che rafforzerà ulteriormente lo status di Eilat come città sportiva internazionale e una destinazione turistica e attraente per l'intrattenimento e lo svolgimento di grandi eventi e grandi conferenze. Ringrazio i membri della World Gaming Federation che hanno scelto la città di Eilat per ospitare la prestigiosa competizione ed essere una vetrina per l'intero Stato di Israele".
L'obiettivo della fase finale ai mondiali dal vivo è stato raggiunto egregiamente dall'Italia. La nostra nazione verrà rappresentata nel titolo eFootballPES grazie al talento di Carmine Liuzzi. L'ex campione d'Europa del 2020 e due volte campione BeSports ha ottenuto il pass per le finali con due partite di anticipo alle Regionals Europa poi concluse con la grande vittoria finale. La spedizione italiana curata e seguita dalla FIDE Federazione Italiana Discipline Elettroniche con il suo player, sono pronte per essere protagoniste in Israele.
IESF Esports World Championship è la competizione di punta di IESF e funge da unico torneo di Esports multi-gioco al mondo che include squadre nazionali. IESF è un'organizzazione senza scopo di lucro fondata nel 2008 che promuove costantemente gli Esports come un vero sport al di là delle barriere linguistiche, razziali e culturali. IESF è composta da più di 100 membri in tutti i continenti, organizza campionati mondiali annuali e si impegna a garantire la sinergia tra le parti interessate garantendo i diritti degli atleti.
(ESports Web, 15 ottobre 2021)
Hezbollah tenta raid contro un giudice, finisce in guerriglia
Il partito di Dio vuole bloccare l'inchiesta sull'esplosione del porto che sta arrivando troppo vicino. Sei morti nelle strade.
di Daniele Ranieri
ROMA - Ieri a Beirut, capitale del Libano, una spedizione punitiva del gruppo Hezbollah che in teoria avrebbe dovuto devastare un quartiere cristiano per mandare un messaggio di intimidazione ai rivali politici è finita sotto il fuoco di uomini armati che difendevano le strade dai tetti degli edifici.Nello scontro a fuoco sono morte sei persone, i miliziani di Hezbollah hanno avuto la peggio e si sono ritirati, poche ore dopo molti veicoli con la bandiera gialla del partito e mitragliatrici montate sui cassoni sono stati visti entrare nella capitale libanese-erano i rinforzi che arrivavano in caso di altre violenze.
La spedizione di Hezbollah (in italiano: il partito di Dio) era un tentativo di fermare l'inchiesta di un giudice istruttore efficiente, Tarek Bitar, che da sei mesi indaga sull'esplosione che il 4 agosto 2020 ha devastato la capitale del Libano. Lunedì l'avvertimento era arrivato dallo stesso Hassan Nasrallah, capo del movimento, che durante un discorso di un'ora trasmesso in televisione aveva detto: "Vogliamo un giudice sincero e trasparente. Quello che sta succedendo è un grande, grande, grande, grande errore che non porterà alla verità e alla giustizia". Nasrallah è nervoso, l'inchiesta sta arrivando troppo vicino a Hezbollah e del resto era difficile che fosse altrimenti: da molti anni il partito di Dio esercita un controllo forte su tutto quello che succede nel paese, fa parte con una quota importante di ogni governo ed è perlomeno corresponsabile nelle decisioni più importanti. E' implicato nella storia delle migliaia di tonnellate di nitrato d'ammonio abbandonate in un hangar del porto che, a causa di un incendio, esplosero con effetti devastanti sui quartieri più vicini al mare. C'è il sospetto che quel nitrato d'ammonio arrivato a bordo di una nave in avaria fosse stato conservato nel caso servisse anche come esplosivo e quindi sarebbe stato un peccato gettarlo via.
Era inevitabile che Bitar cominciasse a guardare in direzione di Hezbollah ed era altrettanto inevitabile che la milizia avrebbe provato a rispondere con la forza. Martedì, il giorno dopo l'avvertimento di Nasrallah, il giudice aveva ordinato l'arresto di un ex ministro delle Finanze, Ali Hassan Khalil, che appartiene al movimento sciita Amal, alleato stretto di Hezbollah. Khalil per ora non è stato arrestato e ha chiesto a un tribunale di rimpiazzare il magistrato, ma lo spettacolo è sorprendente per i partiti e per i leader libanesi: c'è un giudice che ha preso davvero a cuore l'inchiesta e firma veri ordini di arresto, dopo che per un anno e mezzo l'inchiesta era rimasta nelle mani di un altro giudice senza fare progressi decisivi.
E arriviamo a ieri, due giorni dopo il mandato d'arresto. Hezbollah ha tentato una protesta violenta in una strada del quartiere cristiano di Ain al Remmaneh, proprio davanti a Chiya, il quartiere del movimento Amal - quello del ministro che il giudice Bitar vuole arrestare. Tra i due quartieri passa una strada che un tempo segnava la cosiddetta Linea verde, che negli anni della guerra civile faceva da demarcazione tra la Beirut occidentale a maggioranza musulmana e la Beirut orientale a maggioranza cristiana. I miliziani hanno sfasciato quello che trovavano a tiro e hanno cantato slogan, fino a quando non è cominciato il fuoco dai tetti. Come spesso succede in Libano, le fazioni armate dei partiti hanno cominciato ad agire al posto della politica.
Il Foglio, 15 ottobre 2021)
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Gli scontri in Libano spiegati semplice semplice
Una provincia iraniana non può non obbedire agli ordini di Teheran
di Franco Londei
In tanti si chiedono come e perché sono iniziati gli scontri armati di ieri in Libano che per ore hanno fatto temere lo scoppio di una nuova guerra civile. In realtà non c’è molto da scoprire. La verità è che una provincia iraniana non può ribellarsi a Teheran. E il Libano è ormai a tutti gli effetti una provincia iraniana, checché ne dicano i difensori ad oltranza delle interferenze iraniane in Medio Oriente. Hezbollah non è altro che un corpo speciale dei Guardiani della Rivoluzione iraniana (IRGC), uno dei tanti gruppi terroristici legati alla galassia jihadista sciita. Ed è Hezbollah che controlla politicamente e militarmente il Libano. Se quindi Hezbollah dice (ordina) di cambiare il giudice cristiano incaricato di indagare sulla terribile esplosione che devastò Beirut, nessuno vi si può opporre. Se qualcuno si oppone poi succedono i fatti accaduti ieri, i terroristi sciiti prendono le armi gentilmente e generosamente offerte dall’Iran e cominciano a sparare incuranti di dove colpiscono. E se qualcuno dovesse anche solo minimamente pensare alla possibilità di una guerra civile in Libano, si metta il cuore in pace. Durerebbe solo poche ore tanto è lo strapotere militare di Hezbollah rispetto a qualsiasi altro gruppo e persino all’esercito libanese (per altro strapieno di uomini sciiti). Poi ci si potrebbe interrogare sul perché Hezbollah non gradiva un giudice cristiano famoso per essere incorruttibile ad indagare su quella terribile esplosione. Chissà, magari avrebbe potuto scoprire che oltre a una gran quantità di nitrato d’ammonio da quelle parti gli iraniani riconvertivano i missili di Hezbollah per renderli intelligenti. Cambierebbe il quadro e, soprattutto, cambierebbero le responsabilità che ricadrebbero totalmente su Hezbollah e i loro padroni iraniani.
E allora meglio metterci un giudice sciita e facilmente corruttibile ad indagare su quell’incidente piuttosto che un giudice cristiano famoso per essere onesto.
Ecco, spiegato semplice semplice, i motivi per cui ieri a Beirut sono scoppiati gli scontri tra Hezbollah e quei pochi che hanno avuto il coraggio di opporsi alla loro prepotenza.
(Rights Reporter, 15 ottobre 2021)
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La Comunità ebraica alle urne in anticipo
Domenica le elezioni
di Zita Dazzi
È election day anche per la Comunità ebraica milanese domenica prossima, in contemporanea con i ballottaggi delle amministrative. Dopo una crisi improvvisa che ha portato alle dimissioni dell'intero Consiglio in via Sally Mayer, i settemila ebrei milanesi sono chiamati al rinnovo degli organi elettivi nello stesso giorno in cui si vota anche per l'Ucei, l'Unione delle Comunità ebraiche italiane.
È anticipato di due anni rispetto alla scadenza naturale il voto per il Consiglio milanese, decaduto dopo le polemiche dimissioni dei consiglieri di opposizione. Le ragioni di questa rottura interna sono legate soprattutto alla mancanza di reciproca fiducia fra le due liste che hanno governato assieme la comunità in questi anni. E a norma di statuto, il venir meno del 51% dei consiglieri comporta automaticamente la crisi del parlamentino, il ricorso alle urne e la formazione di una nuova giunta e un nuovo Consiglio.
Da diversi anni a Milano l'area progressista non vince le elezioni e anche questa volta le due liste che si presentano sono entrambe di orientamento moderato, se non conservatore. Una più laica (con l'appoggio anche di alcuni esponenti di sinistra) è quella del presidente uscente Milo Hasbani; l'altra è più marcatamente religiosa ed è guidata da Walker Meghnagi. I due leader politicamente sono comunque entrambi vicini al centrodestra.
Diciassette sono i candidati della lista "Milano ebraica", guidata da Milo Hasbani, classe 1948, imprenditore, cittadino israeliano, nato a Beyrouth e attuale presidente della Comunità ebraica di Milano, il quale nei due mandati precedenti ha fatto parte delle commissioni Kasheruth e Rapporti con Israele. Hasbani ha raccolto il sostegno di nomi molto conosciuti in città. Fra questi Roberto Jarach, imprenditore milanese nato in Svizzera nel '44, attivissimo presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di piazza Sraffa, ex assessore, ex vicepresidente e presidente della Comunità milanese, oltre che vicepresidente dell'Ucei dal 2012 al 2016.
Con Hasbani si candidano otto membri della squadra precedente, che ha riportato in attivo i bilanci della Comunità, dopo gli scandali finanziari che avevano fatto cadere la giunta diversi anni fa. Fra le conferme anche Gadi Schoenheit, ex assessore alla Cultura, l'organizzatore di tutte le ultime Giornate Europee della Cultura Ebraica e i festival "Jewish in the City'', oltre che del ciclo "Incontri in Guastalla", per creare occasioni di dialogo e confronto con la città, le sue istituzioni, i cittadini.
La seconda lista che si presenta è Beyachad (Insieme) e il candidato presidente è Walker Meghnagi, 70 anni, storico membro della Comunità meneghina, fratello del noto rappresentante dei commercianti, imprenditore immobiliare, ex presidente della Comunità una decina di anni fa. Meghnagi fu già protagonista di clamorose dimissioni nel 2014, a seguito degli scontri interni per la scoperta che lui stesso fece di episodi di malversazione, che portarono a uno scoperto bancario e suscitarono tante polemiche anche fuori dalle mura della Comunità milanese. Con lui, si candida il nipote, Han Boni: «Vorrei occuparmi soprattutto di giovani, in un clima di serenità e partecipazione».
(la Repubblica - Milano, 15 ottobre 2021)
I libri resistono a tutto: riapre in presenza il Salone del libro di Torino
di Michelle Zarfati
“Ogni lettura è un atto di resistenza. Di resistenza a cosa? A tutte le contingenze” diceva Daniel Pennac, per questo i libri resistono e hanno ancora tanto da comunicare e donare. A Torino torna, con la sua trentatreesima edizione il Salone Internazionale del Libro, un’edizione particolare dedicata a Dante: “Vita Supernova” è il titolo dell’evento, un omaggio al poeta ed alle stelle. C’era anche Shalom, presente per raccontare come l’editoria e la letteratura ebraica sia attiva nel panorama librario. Una rinascita dopo un fermo della fiera di quasi due anni a causa della pandemia Covid-19. Appuntamento culturale ormai consolidato nella città torinese, che ha aperto ieri mattina le sue porte all’interno del Lingotto Fiere a grandi, e soprattutto piccoli amanti della lettura. 400 scuole arrivate a Torino per partecipare all’evento, 1025 classi provenienti da 613 paesi hanno passeggiato tra gli stand ricchi di libri. Giovani, adulti e un pubblico variegato ha partecipato all’evento a dimostrazione di come la lettura resista nonostante tutto, riuscendo a trovare sempre nuove vie di comunicazione. L’evento si è aperto, con un video messaggio del premio Nobel Giorgio Parisi e i ministri Dario Franceschini, Ministro della Cultura e Patrizio Bianchi Ministro dell’istruzione. File lunghissime e tante proposte interessanti con oltre 715 editori. Un tripudio di parole e libri e tra questi anche la narrativa ebraica e israeliana, che rappresenta una proposta ricca e amata dal pubblico italiano. “Siamo felicissimi di essere tornati in contatto diretto con i lettori, qualcosa che ci è mancato sebbene abbiamo cercato sempre di trovare altre vie per raggiungere il nostro pubblico. Vedersi dal vivo, raccontare i nostri libri ai lettori è qualcosa di straordinario- spiega Sabine Schultz, Foreign Editor di Neri Pozza Editore- Siamo molto felici del successo della narrativa israeliana: Eshkol Nevo, ad esempio, lo pubblichiamo da anni, abbiamo creduto in lui sin dall’inizio. Un autore che ci porta a conoscere Israele parlando delle passioni umane e della vita in Israele. In generale i lettori conoscono le nostre pubblicazioni e sanno quanto abbiamo a cuore divulgare la letteratura ebraica e israeliana”. Una narrativa portata fieramente avanti da tante case editrici, come La Nave di Teseo, che ha pubblicato libri di enorme successo come “Il pane perduto” di Edith Bruck, vincitore del Premio Strega Giovani. “Per noi è un enorme piacere pubblicare testi di narrativa ebraica, che riscuotono successo e arrivano dritti al pubblico. Abbiamo tanti nuovi progetti in uscita, come il nuovo libro di Elena Loewenthal” dice Stefano Losani- Direttore Commerciale della casa editrice La Nave di Teseo. Tra i coloratissimi e ricchi stand di libri presenti al Lingotto c’era anche la casa editrice ebraica Giuntina, con le nuove uscite, già acclamatissime dalla critica e con i grandi classici della letteratura ebraica, da Kafka a Wiesel, passando per Sacks. “Abbiamo aspettato tanto, ed è molto importante per noi tornare al salone perché il luogo in cui ci si confronta con i lettori, si comprende cosa hanno letto e apprezzato. Una manifestazione in cui si rinsalda il rapporto tra editore e lettore che è fondamentale per il nostro lavoro- condivide Shulim Volgemann, editore della casa editrice Giuntina. “Noi cerchiamo di pubblicare libri che partano da un particolare ebraico, che siano profondamente ebraici ma che al contempo possano interessare ogni lettore e inserirsi nel dialogo culturale italiano generale. Facciamo una ricerca attenta sia di autori già affermati, come nel caso di “Dove gli ebrei non ci sono” oppure cercando la grande qualità della narrativa ebraica completamente sconosciuta, come ad esempio Chaim Grade, che abbiamo riscoperto. Un autore completamente dimenticato in tutto il mondo ma che è di fatto uno dei più grandi autori yiddish- aggiunge Volgemann- tutto questo lavoro viene fatto proprio per arrivare al Salone e verificare assieme ai lettori se tutto ciò è stato apprezzato. Venire qui è un lavoro molto gratificante per noi”. Un panorama culturale vasto in cui anche la cultura ebraica si ritaglia la sua parte, tra gli incontri del primo giorno anche Elena Loewenthal è intervenuta spiegando “Bereshit- Genesi” un toccante focus letterario sulla prima parte della Torah. “La comunità di Torino è una realtà viva e vivace, ed è inserita nella vita culturale di questa città. In eventi come questo, che caratterizzano la città, siamo senza dubbio coinvolti. Molti libri del salone afferiscono proprio alla letteratura ebraica o israeliana” dice Dario Disegni Presidente della Comunità Ebraica di Torino. Un calendario fitto di incontri interessanti, che si protrarranno fino al 18 ottobre 2021. L’occasione perfetta per celebrare la lettura in tutte le sue forme, dalle grandi alle piccole realtà editoriali, tutti uniti per dimostrare all’unisono l’importanza dei libri.
(Shalom, 15 ottobre 2021)
L'antifascismo corrotto dalla sinistra
di Fiamma Nirenstein
L 'antifascismo è una battaglia sacrosanta, le leggi che ci conservano la democrazia contro i cosiddetti «rigurgiti» (che strana espressione) sono la cassaforte che ne proteggono l'universalità. L'antifascismo, però, deve appunto essere propagato e protetto in nome della democrazia, tutta. Invece non funziona così quando l'antifascismo diventa «militante». In quest'ottica, il nemico è stato storicamente di destra. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la sinistra ha avuto buon gioco a lavare i suoi crimini e i suoi errori tingendo solo di «nero» le acque della violazione dei diritti umani. La battaglia antifascista e l'esaltazione dell'epopea partigiana si sono sviluppate lasciando che al sogno della libertà si sovrapponesse quello di una società socialista o comunista. L'antifascismo ha così perso la sua universalità, ed è stato un peccato. Una parte della Resistenza, quella cattolica di Dossetti, Gorrieri, Tina Anselmi e dei preti fuggiti in montagna, è stata cancellata dalla figura del partigiano rosso. Inoltre, per la narrazione antifascista la vittoria russa sui tedeschi è stata mitizzata nonostante il comunismo mostrasse sin dal principio molte somiglianze con il totalitarismo di destra: ipernazionalismo, militarismo, glorificazione e uso della violenza, feticizzazione della giovinezza, della mascolinità, del culto del leader, della massa obbediente, gerarchica e militarizzata, e anche razzismo e odio antisemita. Il doppio standard è da sempre una caratteristica dell'antifascismo militante. La Brigata Ebraica, che in un miracolo di eroismo, in piena Shoah, portò dei giovani «palestinesi» ebrei a combattere sul nostro suolo contro i nazifascisti, è stata sconfessata e vilipesa nelle manifestazioni Anpi perché Israele non è gradita a sinistra. Non erano antifascisti? E non era invece nazi-fascista il muftl Haj Amin Al Husseini che con Hitler progettava lo sterminio degli ebrei? Quanti sono stati tacciati di fascismo solo perché non di sinistra? Il lavoro di bonifica dell'unità nazionale intorno alla Resistenza è stato valoroso, ma il termine antifascista deve prescindere dall'appartenenza politica, perché la genesi della Repubblica Italiana deve diventare finalmente patrimonio comune. Ma quanto è duro mandare giù questo rospo quando le radici culturali affondano nel terreno comune, acquisito, politicamente stratificato, del socialismo. La cosa vale per l'Europa intera, ambigua e ammiccante: dici democrazia, ma alludi a un'utopia socialista, almeno sospirata. Molte delle difficoltà della Ue, infatti, risiedono nel sogno palingenetico post bellico, quando l'antifascismo caricò a bordo il sogno socialista invece di fare i conti con la soggettività dei Paesi europei. Perché anche «nazione» può non essere una parolaccia, se non ha mire oppressive ed espansive. Occorre deporre sul serio le ideologie del Novecento per restare antifascisti veri. Cioè, amanti della democrazia.
(il Giornale, 14 ottobre 2021)
Ebrei e arabi, mondiale condiviso, la Fifa tra sogno e megalomania
Dopo la proposta di Infantino la Palestina annulla l'incontro di Ramallah con il presidente. «Aspetto candidature che parlino di pace, come Israele ed Emirati insieme».
di Giulia Zonca
Prendi il Mondiale ogni due anni e buttalo nella mischia del dibattito sul futuro del calcio. Potenzialità contro equilibrio, Fifa contra Uefa, con ragioni e problemi su ogni tavolo e pochissima voglia di trovare un'intesa. Poi prendi il dissidio più profondo che ci sia e fallo rotolare su un campo dove tutto sembra possibile. Gianni Infantino, presidente della Fifa, esporta la sua visione e propone addirittura un potenziale Mondiale organizzato da Israele ed Emirati, da ebrei ed arabi insieme: un incrocio tra un sogno e una botta di megalomania. L'idea non arriva per caso, ma in un discorso studiato (e studiato bene) letto all'inaugurazione del Museo della tolleranza a Gerusalemme, davanti al premier israeliano Bennett e all'ex segretario di stato americano Pompeo. Inizia così: «Il calcio ha giocato e può giocare un ruolo nella diplomazia mondiale. Può riportare le donne allo stadio in Iran per esempio e può anche aiutare ebrei e musulmani a giocare insieme. La Fifa si aspetta candidature che parlino di pace, la Palestina deve essere parte della nostra comunità. Le proposte devono essere coraggiose, perché Israele non pensa a un Mondiale con altri Paesi della Regione? Perché non con gli Emirati Arabi? », Una candidatura ai futuri Mondiali da raddoppiare, in teoria dal 2028, e anche al Nobel per la pace. Se funziona. Per ora Israele sorride educatamente, gli Emirati valutano un'opportunità che, dopo il caos con l'edizione assegnata al Qatar, difficilmente avrebbero a breve in altro modo e la Palestina annulla l'incontro programmato a Ramallah con Infantino. Offesi dall'ipotesi e dal fatto che sia stata fatta in presenza della cerchia di Trump (compresi Ivanka e il marito). Il capo della Fifa non voleva raccogliere conferme, solo seminare scenari futuri. Ci sta, magari è tutto un po' eccessivo, ma ammesso l'approccio visionario ci sarebbero anche questioni più gestibili da risolvere. Due giorni fa, a Wembley, gli ultrà ungheresi hanno dato l'ennesima prova di inciviltà: cori razzisti e rissa con gli addetti alla sicurezza. Nuova squalifica per i tifosi, partite da giocare a porte chiuse e multe. Non serve, è ora di tentare un altro approccio, magari più radicale. Quanto un mondiale biennale che lisci ogni conflitto geopolitico.
(La Stampa, 14 ottobre 2021)
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«Mondiali in Israele ed Emirati, ora si può»
La proposta di Infantino per il 2030, coinvolgendo anche i Palestinesi: «Dobbiamo pensare in grande, sognare e avere ambizioni
ENORME OPPORTUNITA'
Il numero 1 della Fifa: «Milioni di biglietti e miliardi di spettatori in tv»
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UN CALCIO AI CONFLITTI
Gli Accordi di Abramo dello scorso anno la base per avviare una pace
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E se fosse il calcio a riconciliare due mondi e a spianare la strada della pace e della reciproca comprensione? Gianni Infantino, numero uno della Fifa, ci crede e da alfiere di un pallone globalizzato che rotola rapido superando ogni steccato propone per il 2030 - praticamente dopodomani - il Mondiale in Israele e in Medio Oriente. Fino a poco tempo fa, assodato per l'appunto quanto la passione per questo sport travalichi ormai ogni confine, la massima ambizione possibile sembrava quella di fissare la sede della massima kermesse nei continenti storicamente meno coinvolti anche a livello di business. Il Mondiale in Corea e Giappone nel 2002 è stato il primo in Asia, otto anni dopo l'edizione del Sudafrica ha sancito un altro debutto assoluto a livello continentale. L'anno prossimo il Qatar costituirà un'ulteriore novità visto l'inedito della Penisola Araba. Ora però l'ambizione si alza di un bel paio di tacche. Perché fa leva sulla certezza che il pallone possa abbattere contrasti sedimentati nella storia, dando poi un inequivocabile messaggio a chi, lo scontro, lo alimenta quasi fosse una ragione d'essere. Durante la sua prima visita ufficiale in Israele, parlando degli "Accordi di Abramo" siglati un anno fa per normalizzare i rapporti di Israele con Emirati Arabi Uniti e Bahrain, Infantino ieri ha suggerito di coinvolgere anche i Palestinesi nell'organizzazione del maxi evento del 2030. «Niente è impossibile - ha detto - dobbiamo pensare in grande. Oggi ospitare un Mondiale è un'avventura molto grande, è qualcosa di più di un evento sportivo, è un evento da milioni di biglietti venduti e miliardi di telespettatori. Bisogna avere visione, sogni e ambizione. Ne abbiamo parlato tanto negli ultimi mesi dopo l'accordo fra Emirati e Israele, per cui una candidatura congiunta è un'opzione. Dopo il Qatar, i Mondiali si giocheranno in Canada, Messico e Usa, tre Paesi enormi. E allora perché no Israele?». Quella del presidente della Fifa non è parsa affatto una boutade. La velocità con cui questo mondo cambia offrendo nuove opportunità e mettendo in soffitta certezze che parevano assolute è sotto gli occhi di tutti. E anche conflitti scolpiti nei libri possono essere spazzati via da un nuovo modo di essere. Non a caso, poi, Infantino parla apertamente di audience planetaria e di vendita di prodotti (i biglietti, ma pure le partite in tv ... ) come elementi fondanti di un Mondiale. E anche per questi motivi si potrebbe mettere in discesa un percorso che visto da altre prospettive parrebbe non percorribile. Gli stessi Accordi di Abramo dello scorso anno sono stati a livello geopolitico un bel passo avanti, con la normalizzazione di una ostilità che era permanente: ora potrebbero rivelarsi il trampolino per qualcosa di ancora più grande. La storia dei Mondiali è inscindibile da quella dell'umanità da 91 anni a questa parte. Come poche altre serve anche a descriverla, fissando fotogrammi più potenti di tanti trattati. Le tensioni non sono estranee a una manifestazione che diventa fulcro di miliardi di singole passioni. Pensiamo solo ad Argentina '78 - non certo una vita fa - i Mondiali nella terra del dittatore Videla e con il Cile che scese in campo contro nessun avversario nelle qualificazioni perché l'Unione Sovietica boicottò lo spareggio, quello che le mise di fronte il Cile di Pinochet. Agli antipodi, dodici anni dopo, la magia di Italia '90 che non ci fece purtroppo gioire sportivamente, ma per il nostro Paese fu un incanto. I Mondiali sono di per sé un miracolo, ce ne possono concedere un altro.
(Nazione-Carlino-Giorno, 14 ottobre 2021)
Gli ebrei col burqa in fuga verso l'Iran
Gli Stati Uniti cercano di fermare l'esodo dei Lev Tahor verso lo Stato islamico.
di Mario Dergani
Una setta estremista ebraica sta cercando di trasferirsi in Iran. Ma le autorità americane e israeliane, allertate dai parenti angosciati, temono che Teheran ne prenda in ostaggio gli appartenenti, eventualmente per usarli come merce di scambio.
Il gruppo si è stabilito da alcuni anni in Guatemala e le autorità locali, su richiesta di Washington, hanno fermato alcune famiglie che stavano imbarcandosi per il Kurdistan iracheno, con l'obiettivo di raggiungere l'Iran, stando a quanto raccontano i media israeliani. Secondo Ynet la setta LevTahor (cuore puro), fondata da Shlomo Elbames una ventina d'anni fa, conta circa 280 membri, di nazionalità israeliana, americana e canadese. Nato nel 1980 a Gerusalemme, il gruppo è emigrato inizialmente in Canada e poi si è trasferito in Guatemala nel 2014. Ogni volta l'obiettivo del trasferimento era sfuggire alle autorità, che indagavano sugli abusi nei confronti dei bambini.
Descritti come i «talebanì ebrei», i LevTahor obbligano donne e bambine, fin dall'età di 3 anni, a coprirsi il capo e indossare lunghe vesti nere, lasciando scoperto solo il viso. Gli uomini passano gran parte del tempo in preghiera e a leggere la Torah. I figli vengono fatti sposare fra loro da bambini, oppure le ragazzine vengono date in sposa ad adulti.
I Lev Tahor avevano chiesto asilo politico all'Iran nel 2018, promettendo fedeltà al leader supremo religioso, Ayatollah Ali Khamenei. Un'avanguardia è già arrivata nel Kurdistan iracheno, con l'obiettivo di insediarsi prima a Erbil, identificata come la Babilonia biblica, per poi traversare il confine e trasferirsi in Iran. Dopo i fermi all' aeroporto in Guatemala, apparentemente una parte del gruppo ha intenzione di raggiungere El Salvador o il Messico per poi partire verso l'Iraq.
Libero, 14 ottobre 2021)
16 ottobre 1943: Una mappa digitale illustra la geografia della deportazione degli ebrei di Roma
Una mappa interattiva, un viaggio nel tempo e nel tessuto urbano di Roma, per raccontare, illustrare, e comprendere come avvenne la razzia degli ebrei romani per mano dei nazifascisti, che si consumò tra il 16 e il 18 ottobre del 1943. La Fondazione Museo della Shoah, in occasione dell’anniversario del 16 ottobre, presenta il progetto “16 ottobre 1943. Geografia della Deportazione” a cura di Marco Caviglia, Isabella Insolvibile e Amedeo Osti Guerrazzi.
La mappa digitale, che ricostruisce la razzia dei 1022 ebrei deportati da Roma in quei terribili giorni, da cui iniziarono i rastrellamenti in Italia, permette di “navigare” nella città, per esplorare i luoghi degli arresti, i comandi della polizia nazista, le tappe della deportazione. Arricchita da contenuti multimediali, dunque interviste a sopravvissuti e testimoni, assieme ad immagini e documenti, la mappa mostra come i rastrellamenti coinvolsero buona parte della città, e non solo la zona del vecchio ghetto.
Marco Caviglia, che ha curato il progetto, frutto dei più recenti studi storico scientifici, spiega a Shalom gli obiettivi e le finalità: «Fino a gennaio la mappa sarà fruibile sul Totem presso Casina dei Vallati, sede espositiva della Fondazione Museo della Shoah, da febbraio sarà anche on line e messa quindi a disposizione di tutti, e soprattutto, delle scuole. Abbiamo già prenotazione di scuole dove faremo, nell’aula magna, lezione in presenza davanti a studenti utilizzando la mappa». Un progetto innovativo rivolto soprattutto agli studenti, che con un linguaggio a loro congeniale e contemporaneo possono conoscere la storia. «Siamo anche riusciti ad aggiungere informazioni biografiche di 16 sopravvissuti. – continua Caviglia – La caratteristica principale della mappa è quella di avere tante fonti diverse tra loro in un unico ambiente, e queste sono geolocalizzate in 3D su una mappa d’epoca».
(Shalom, 14 ottobre 2021)
Verso la normalizzazione i rapporti tra Iran e Arabia Saudita
L’Arabia Saudita e l’Iran potranno firmare “entro le prossime settimane” un accordo per normalizzare le loro relazioni, dopo anni di tensione nell’area del Golfo. Lo hanno detto fonti diplomatiche citate stamani dai media panarabi.
Nei giorni scorsi il portavoce del ministero degli esteri iraniano Saeed Khatibzadeh aveva riferito, citato dall’agenzia Tasnim, che negli ultimi mesi si sono tenuti cinque incontri tra rappresentanti sauditi e iraniani: quattro incontri a Baghdad, in Iraq, e un quinto a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York.
L’Arabia Saudita, principale alleato degli Stati Uniti nella regione, e l’Iran avevano interrotto i loro rapporti diplomatici nel 2016 in corrispondenza dell’innalzamento della tensione regionale. “I due Paesi hanno già firmato una serie di accordi”, aveva detto Khatibzadeh. Mentre le fonti diplomatiche affermano che nelle prossime settimane si attende la firma di un accordo per la normalizzazione dei rapporti bilaterali.
Dopo questo passo, proseguono le fonti, potranno riaprire le rispettive ambasciate a Teheran e Riad.
(Giornale di Rimini, 13 ottobre 2021)
In Israele emerge la più grande area per la produzione di vino di epoca bizantina
Il “Vino di Gaza” era esportato in tutto il Mediterraneo
In Israele, nel sud del paese vicino alla città di Yavne (30 chilometri a sud di Tel Aviv) è emerso un sito di epoca bizantina per la produzione di vino. Si stima che la produzione di vino potesse essere dell’ordine dei due milioni di litri. Il complesso ha le dimensioni di un moderno campo da calcio e si ritiene che abbia circa 1.500 anni. Sono presenti ben 5 vasche per la pigiatura ciascuna da 225 metri quadri, due grandi tini ottagonali per il mosto e quattro forni adibiti alla “cottura” dell’argilla, per la realizzazione di anfore o giare utilizzate per l’invecchiamento ma anche per il trasporto del vino. Sono state rinvenute, inoltre, decine di migliaia di frammenti di vasi e strumenti per la vinificazione. Il direttore degli scavi Jon Seligman ha affermato che il vino prodotto nell’area, noto come “vino di Gaza”, veniva esportato in tutta la regione, inclusi Egitto, Turchia, Grecia e, forse, nel sud Italia. Nel medesimo sito sono state ritrovate anche delle presse ancora più antiche, risalenti a 2300 anni fa. Le autorità israeliane hanno assicurato che l’area sarà tutelata e che il complesso di Yavne farà parte di un futuro parco archeologico accessibile al pubblico.
(La Fillossera, 12 ottobre 2021)
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Il sedimento della crisi
di Marcello Cicchese
Nel febbraio del 2011, quando in nazioni come Italia e Grecia imperversava la crisi dello spread, Mario Monti ebbe a dire in un suo discorso:
«Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi e di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario. È chiaro che il potere politico ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. [...] Abbiamo bisogno delle crisi come il G20 e degli altri consessi internazionali per fare passi avanti, ma quando una crisi sparisce, rimane un sedimento, perché si sono messe in opera istituzioni, leggi e altro per cui non è pienamente reversibile. […]. Certamente occorrono delle autorità di enforcement rispettate che si facciano rispettare, che siano indipendenti e che abbiano risorse e mezzi adeguati [l’élite finanziaria internazionale, ndr]. Oggi abbiamo in Europa troppi governi che si dicono liberali e che come prima cosa hanno cercato di attenuare la portata, la capacità di azione, le risorse, l’indipendenza delle autorità che si sposano necessariamente al mercato in una economia anche solo liberale” [sempre la medesima élite finanziaria internazionale, ndr].
Pochi mesi dopo, nel novembre 2011, le "autorità che si sposano al mercato" ebbero modo di rallegrarsi nel vedere che la crisi in Italia era diventata talmente grave da spingerle a fare pressioni affinché l'ultimo presidente del consiglio eletto dal popolo italiano fosse sostituito da un esponente indicato dalle autorità di enforcement: Mario Monti, per l'appunto. Il governo Monti non fece molta strada, forse perché le crisi di cui aveva bisogno il mercato internazionale non erano sufficientemente gravi e anche perché si era sviluppato in Italia un confuso movimento antieuropeista che si rifiutava di vedere la soluzione dei problemi della nazione in "cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario". Molti infatti vedevano proprio in questo "livello comunitario", cioè in un'Europa guidata dalle "autorità di enforcement" finanziarie, un aggravamento dei problemi. I tempi evidentemente non erano ancora maturi. Ma poi avvenne quello che inaspettatamente portò ad una accelerazione del processo di "maturazione" verso il globalismo europeo: il Covid19. E dopo un certo tempo arrivò lui, Draghi. Si può dire allora che il pimpante governo Draghi di oggi è l'adempimento tardivo del debole governo Monti di dieci anni fa. Passiamo al setaccio le parole di Monti.
«Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi e di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario. »
Non ci si deve dunque aspettare che l'obiettivo europeo sia raggiunto alla fine di un graduale processo di maturazione delle democrazie nazionali, che vedono l'utilità di una democrazia europea entro cui fondersi . No, le democrazie nazionali sono lente e sorde, non capiscono, restano attaccate a valori e interessi particolari, non si muovono. Non vogliono cedere parti della loro sovranità, forse perché si chiedono in quali mani andranno a finire. Ecco allora ciò di cui hanno bisogno le collettività nazionali recalcitranti:
«È chiaro che il potere politico ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. »
Le collettività nazionali insomma per procedere verso l'obiettivo europeo devono andare in crisi, devono star male. Ma così male da arrivare al punto di pensare che si soffre meno cedendo parti di sovranità nazionale a non ben precisate autorità poste "a un livello comunitario", designate da Monti come "autorità di enforcement" o più delicatamente come "autorità che si sposano al mercato", modi diversi per indicare quelli che una volta a sinistra venivano chiamati popolarmente "i padroni", e oggi costituiscono l'élite finanziaria che detta le regole a popoli e nazioni.
«Abbiamo bisogno delle crisi come il G20 e degli altri consessi internazionali per fare passi avanti...»
"Abbiamo bisogno delle crisi", sottolinea con decisione l'emissario della finanza internazionale. E a un certo momento è stato esaudito: un inaspettato miracolo deve aver soddisfatto pienamente il bisogno di Monti, un fatto davvero "provvidenziale" per le "autorità di enforcement": è arrivato il Covid19. Sotto il suo imperversare è avvenuto proprio ciò che Mario Monti aveva auspicato: "una crisi in atto, visibile, conclamata". Meglio di così... Non è che le autorità che si sposano al mercato siano la causa della pandemia, ma è certo che in questo flagello le suddette autorità devono aver visto un'ottima occasione. E dal loro punto di vista è normale: è dovere professionale di operatori abili saper cogliere al volo le occasioni favorevoli, quando queste inaspettatamente si presentano. E il Covid è indubbiamente un'occasione d'oro (letteralmente per le case farmaceutiche). Ma l'interessante è il seguito della frase:
«... ma quando una crisi sparisce, rimane un sedimento, perché si sono messe in opera istituzioni, leggi e altro per cui non è pienamente reversibile.»
Ed è ciò che oggi sta avvenendo sotto i nostri occhi. La crisi sanitaria c'è stata, c'è ancora in qualche misura; non è stata inventata ad arte, ma è stata ed è maneggiata e strumentalizzata fino ai limiti del possibile. Qualcuno dice che la crisi si avvia a sparire, ma in ogni caso per il governo questo non avverrà mai prima che abbia lasciato sul terreno un sedimento irreversibile. E questo sedimento per l'Italia è il green pass.
Se il green pass è servito all'inizio a spingere alla vaccinazione, adesso è la vaccinazione che spinge all'obbligo del green pass. E' il controllo sulle persone che si vuole, esteso nel numero e costante nel tempo, per poter gestire a modo proprio, con ampie possibilità di costrizione e ricatto, l'inevitabile mole di problemi sociali, psicologici e finanziari che si abbatteranno sul paese. E' inutile allora sottolineare tutte le disfunzioni a cui sta portando e può portare ancora l'obbligo del green pass, perché forse queste sono state già messe in conto. E viene il dubbio che al timoniere non interessi poi tanto il buon andamento della barca, e che le disfunzioni facciano parte del progetto politico. Forse nella logica "montiana" che ispira il nostro premier la crisi dovrà andare avanti in tutti i suoi aspetti dolorosi fino a che altri pezzi importanti di sovranità nazionale non vadano a cadere nelle mani di autorità finanziarie sovranazionali, ben rappresentate alla guida del nostro governo. Non si notano già ora i pezzi di sovranità pubblica, intesa anche come sovranità personale, cioè libertà di muoversi senza dover rendere conto dei propri movimenti, che sfuggono ai cittadini e passano in altre mani? In mani di chi vorrebbe anche farci credere che lo fa per il nostro bene, per il bene della nazione, dell'Europa e di tutto il mondo.
Perché dire tutto questo? Il credente in Cristo biblicamente fondato sa che nulla sfugge al controllo di Dio, e sa anche che la storia andrà incontro a tempi molto peggiori di questi. Non è il caso dunque di farsi illusioni e coltivare ingannevoli speranze fondate sulla sincerità e la buona volontà degli uomini. Né si deve sentire il dovere di unirsi ad agitatori di acque politiche con l'intento di riuscire a "fermare il pazzo", come diceva Bonhoeffer riferendosi a Hitler, cosa non approvabile e che comunque Dio non ha voluto che riuscisse. Al premier è dovuto il rispetto per la funzione che ricopre, ma ai cittadini compete il dovere civile di rilevare, anche pubblicamente, quello che appare in contrasto con la posizione che occupa.
E ai credenti in Cristo compete anche il dovere spirituale di scrutare attentamente i tempi e saperli leggere con la sapienza che la Parola di Dio promette (Giacomo 1:5-8). Certo, tutti possono avere le loro idee e tutti devono essere rispettati. Ma non tutte le idee meritano rispetto. 
"Guardate dunque con diligenza a come vi conducete; non da stolti, ma da saggi; ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi" (Efesini 5:15-16).
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(Notizie su Israele, 13 ottobre 2021)
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Israele fornirà alla Giordania il doppio dell’acqua
di Piera Laurenza
Israele e Giordania hanno siglato un accordo, il 12 ottobre, con cui Tel Aviv si è impegnata a raddoppiare le forniture di acqua dolce per Amman. Il patto va a sostegno di un Paese, il Regno hashemita, considerato uno dei più poveri al mondo in termini di risorse idriche.
Nello specifico, Israele fornirà 50 milioni di metri cubi in più ogni anno, al di fuori di accordi precedenti, andando, così, a raddoppiare la quantità già destinata gratuitamente ai territori giordani, pari a 55 milioni. Il Regno hashemita potrà acquistare acqua a 65 centesimi al metro cubo per un anno, con l’opzione di ottenere la stessa quantità per altri due anni, ma a un prezzo leggermente più alto. L’acqua aggiuntiva proverrà dal Mar di Galilea. L’intesa è stata firmata nel corso di un incontro che ha visto protagonisti la ministra israeliana delle Infrastrutture, dell’Energia e delle Risorse idriche, Karine Elharrar, e i rappresentanti del Joint Water Committee, responsabile della gestione delle relazioni bilaterali tra i due Paesi in materia di risorse idriche. “L’accordo è la prova che vogliamo relazioni di buon vicinato”, ha affermato Elharrar, la quale ha dato seguito al patto, firmato, l’8 luglio scorso, dai ministri degli Esteri israeliano e giordano, rispettivamente Yair Lapid e Ayman Safadi.
“Si tratta della più grande vendita di acqua nella storia dei due Paesi”, ha invece aggiunto Gidon Bromberg, direttore israeliano del gruppo ambientale regionale EcoPeace Middle East. A detta di Bromberg, l’intesa riflette altresì la crescente consapevolezza delle problematiche a livello ambientale e climatico e del loro impatto sulla regione mediorientale, il che richiede una cooperazione sempre maggiore.
Sebbene Israele sia un Paese caldo e secco, la tecnologia di desalinizzazione di cui si è dotato gli consente di esportare acqua all’estero. La Giordania, invece, da territori aridi e quasi completamente priva di sbocchi sul mare, affronta una situazione difficile in termini di risorse idriche, a causa dell’aumento della popolazione e delle temperature. Secondo le cifre rilasciate dal Ministero dell’Acqua giordano, la quota pro capite di acqua è inferiore allo 0,8% rispetto alla quota globale. Ciò significa che ciascun individuo non riceve più di 100 metri cubi d’acqua all’anno, mentre le quote pro capite nei Paesi limitrofi superano circa i 1.300 metri cubi all’anno. Parallelamente, un centro di ricerca americano, “Century”, ha dichiarato, in un rapporto di dicembre 2020, che la Giordania è il secondo Paese più insicuro al mondo in termini di risorse idriche e si prevede che il fabbisogno idrico supererà le risorse disponibili di oltre il 26% entro il 2025.
Ai sensi di un accordo raggiunto nel 1994, Israele fornisce da anni acqua alla Giordania. Tuttavia, nel mese di marzo scorso, le gravi carenze, pari all’incirca a 500 milioni di metri cubi, hanno portato Amman a chiedere a Tel Aviv forniture aggiuntive. Inoltre, secondo l’intesa del 1994, Israele dovrebbe fornire alla Giordania circa 50 milioni di metri cubi di acqua all’anno, ma Bromberg ha affermato che Israele non ha mai esportato più di 10 milioni di metri cubi fino a marzo scorso.
L’inizio della “diplomazia sull’acqua” tra Israele e Giordania risale, in realtà, al 1921, con la costruzione di una centrale idroelettrica alla confluenza del fiume Yarmouk con il fiume Giordano. Negli anni successivi, le iniziative sono continuate, sebbene i due Paesi siano stati, per alcuni momenti, in guerra fra loro. Ora, gli accordi dell’8 luglio e del 12 ottobre sono stati visti come un segnale del miglioramento delle relazioni tra la Giordania e il nuovo esecutivo israeliano, rispetto al precedente governo guidato da Benjamin Netanyahu.
Ad ogni modo, proprio in occasione del meeting dell’8 ottobre, Safadi aveva messo in guardia il proprio interlocutore dalle decisioni di sfratto a Gerusalemme Est, e, in particolare, nel quartiere di Sheikh Jarrah. Inoltre, era stato il medesimo ministro giordano a condannare gli “attacchi razzisti” israeliani all’origine delle tensioni verificatesi dal 10 al 21 maggio, chiedendo “un’azione internazionale”. A tal proposito, l’8 luglio, Safadi ha ribadito la necessità di rispettare lo status quo storico e legale della moschea di Al-Aqsa e il diritto delle famiglie di Sheikh Jarrah a rimanere nelle proprie abitazioni, in quanto la loro espulsione costituirebbe un crimine di guerra, secondo il diritto internazionale. Inoltre, il ministro ha riferito a Lapid che l’unico modo per raggiungere una pace tra israeliani e palestinesi è una soluzione a due Stati.
La Giordania è storicamente connessa alla questione palestinese, e, prima dell’accordo Abraham del 15 settembre 2021, rappresentava l’unico Paese arabo in Medio Oriente ad avere firmato un trattato di pace con Israele, quello del 1994, che ha normalizzato le relazioni tra i due Paesi dopo due conflitti. Il primo risale al 1948 e portò allo stanziamento di Israele nelle aree occidentali della Palestina, mentre la Giordania prese il controllo delle zone orientali palestinesi. Il secondo conflitto è del 1967 e risultò nella sconfitta della Giordania, con il conseguente ritiro da Gerusalemme Est e dalla Cisgiordania, pur continuando a mantenere la sovranità in questi territori. Nonostante il trattato di pace di Wadi Araba del 1994, che ha posto le basi per la pace dopo decenni di guerra tra Giordania e Israele, il popolo giordano continua a considerare Israele un nemico e, a tal proposito, si è altresì opposto al cosiddetto piano di pace presentato dall’ex capo della Casa Bianca, Donald Trump, il 28 gennaio 2020.
(Sicurezza Internazionale, 13 ottobre 2021)
Antisemitismo: c’è chi lo cerca da una parte sola (e ne vede, inevitabilmente, solo la metà)
di Emanuel Segre Amar
In occasione della Giornata della Cultura Ebraica, Shalom ha effettuato alcune interviste al Portico d’Ottavia: assolutamente perfetti, per i contenuti e per i toni, sono apparsi gli interventi di Ruben Della Rocca e del giornalista Polito, uno dei non numerosi giornalisti che non temono di mostrarsi amici di Israele oltre che degli ebrei - e le due amicizie vanno a braccetto; non altrettanto, purtroppo, si può dire per le parole pronunciate da Piero Fassino che, non va dimenticato, è anche Presidente della Commissione Esteri della Camera.
Sicuramente condivisibile la presa di posizione nei confronti delle parole pronunciate dal candidato sindaco Enrico Michetti, definite “parole fondate sull’ignoranza e sul pregiudizio” e non esenti da “pregiudizi antisemiti”; è tuttavia impossibile non rilevare che anche nella sinistra PD si “continua a non fare i conti con la storia e con la verità storica” (quei conti che Fassino chiede – con piena ragione – alla destra), a proposito dell’URSS e del PCI (del quale Fassino fu parlamentare) che, pure, furono anti-semiti prima, e anti-sionisti successivamente (come dimenticare, per fare un solo esempio, le innumerevoli, violente accuse a Israele di Massimo D’Alema, difficilmente interpretabili come semplici “legittime critiche”, in cui non si sa se sia più grande l’ignoranza dei fatti o la mistificazione degli stessi?).
Quanto allo sconfessare e rigettare il passato, continuamente preteso nei confronti della destra nella sua qualità di vera o presunta erede del fascismo, Niram Ferretti ha recentemente ricordato queste parole pronunciate nel 1978 dal “riformista” Berlinguer:
“Chi ci chiede di emettere condanne e di compiere abiure nei confronti della storia, ci chiede una cosa che è al tempo stesso impossibile e sciocca. Non si rinnega la storia: né la propria, né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi, nella continuità… i nostri critici pretendono che noi buttiamo a mare non solo la ricca lezione di Marx e di Lenin, ma anche le innovazioni ideali e politiche di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. E poi, di passo in passo, dovremmo giungere fino a proclamare che tutta la nostra storia - che ha anche le sue ombre - e stata solo una sequela di errori”.
Sarebbe dunque opportuno che la sinistra, prima di fare i pur sacrosanti conti in casa d’altri, provvedesse a farli in casa propria, e a estromettere chiunque indulga in atteggiamenti e sentimenti antisemiti e antisionisti nella stessa misura in cui lo chiede alla destra. Gli ebrei romani, ad ogni buon conto, presteranno un orecchio molto attento alle esternazioni dei candidati su questi temi, sia in campagna elettorale che durante la successiva amministrazione, cercando di scegliere, magari turandosi il naso, il meno peggio.
L’antisemitismo nell’estrema destra, inutile negarlo, è tuttora ben presente, ma fortunatamente, come spesso ripete Georges Bensoussan nelle sue interviste, sembra oggi relegato in frange di gran lunga minoritarie rispetto a quello di altri partiti politici (pur con le meritorie eccezioni), nei quali si preferisce ignorarlo.
(Shalom, 13 ottobre 2021)
L'odio dell'autrice per Israele: rifiuta la traduzione in ebraico
Polemiche su Sally Rooney
di Daniel Mosseri
Il primo romanzo, Parlarne tra amici, del 2017, è andato bene e ha venduto in dodici paesi. Dal secondo, Persone normali, del 2018, la Bbc ha tratto una serie televisiva in dodici episodi. Un doppio successo condito da una serie di premi vinti dalla giovane autrice, Sally Rooney, in Gran Bretagna e in Irlanda, sua terra natale. La notizia è che la terza opera letteraria della scrittrice classe 1991, Beautiful World, WhereAre You?, non sarà tradotta in ebraico. È stata la casa editrice israeliana Modan Publishing House a far sapere che Rooney ha vietato la traduzione del libro nella lingua della Bibbia. La ragione? L'autrice è una convinta sostenitrice del boicottaggio culturale di Israele. Culturale e, come i testi della stessa Rooney lasciano immaginare, anche politico ed economico. Assieme a Roger Waters dei Pink Floyd, acceso sostenitore del movimento Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), a Patti Smith e ad alcune centinaia di altri artisti e intellettuali delle due sponde dell'Atlantico, lo scorso maggio la trentenne Rooney ha firmato un documento appellandosi ai colleghi di tutto il mondo «affinché rifiutiate di esibirvi con la complicità culturale delle istituzioni israeliane».
L'APPELLO
Nelle ore in cui lo Stato ebraico veniva travolto dal maggior numero di missili esplosi da Hamas nella sua storia, l'appello è sembrato ai 600 firmatari il miglior contributo alla pace in Medio Oriente. E a riprova che l'ostilità della scrittrice irlandese non è passeggera, il Jerusalem Post riporta alcuni passaggi dei suoi due primi libri che Rooney ha permesso venissero tradotti nella lingua degli odiati sionisti. In Normal People, i personaggi principali partecipano a una protesta contro Israele durante la guerra di Gaza del 2014. E nel romanzo di debutto, un personaggio di nome Babbi disquisisce su come Israele abbia più potere dei suoi vicini.
IL COMUNICATO
È stato invece il Guardian a riportare un comunicato dell' autrice in cui Rooney si dice convinta di sostenere il Bds, perché «il sistema israeliano di dominazione razziale e di segregazione contro i palestinesi soddisfa la definizione di apartheid secondo il diritto internazionale». Frase che Rooney ricava da un comunicato stampa di Betselem, ong israeliana di estrema sinistra. A Rooney come a Betselem sarà sfuggito che la grande maggioranza dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania è governata, o meglio oppressa, da altri palestinesi, mentre fra gli arabi israeliani si contano insegnanti, medici, giudici, deputati e da alcuni mesi anche ministri che lavorano fianco a fianco di altri insegnanti, medici, giudici, deputati e ministri ebrei. Il paragone con il Sudafrica del passato dove bianchi, neri e indiani avevano giardini, fontane e assemblee parlamentari separate non sta in piedi. Eppure anche Rooney nel suo comunicato usa l'esempio del vecchio Sudafrica razzista per convincere il mondo - o se stessa? -di non detestare solo lo Stato degli ebrei. Israele, al pari di tanti altri paesi del mondo, è perfettibile e Sally Rooney, dal canto suo, resta libera di odiare chi le pare. Ma da un'autrice che si fa tradurre in arabo, in cinese e nelle tante lingue di questo brutto mondo pieno di guerre e dittature non si può accettare il ragionamento per cui si pretende di contestare un governo impedendo a tutti i cittadini di quel paese (arabi ed ebrei, di destra e di sinistra) di leggere un romanzo. Una mossa del genere non è protesta politica ma delegittimazione tout court. In una parola: odio.
Libero, 13 ottobre 2021)
In Europa i pregiudizi antisemiti presenti soprattutto in Grecia e nell'Europa dell'Est
I risultati di un sondaggio condotto in 16 stati pubblicato martedì 12 ottobre per la conferenza annuale dell'Associazione ebraica europea (Eja).
Gli stereotipi e le voci contro gli ebrei (di cui ultimamente ne sappiamo qualcosa anche in Italia) sono presenti in alcuni paesi più che in altri, e non stupisce che alcuni di questi stati siano governati da delle potenze estremiste.
Grecia, Polonia e Ungheria sono i paesi europei in cui il pregiudizio antisemita è più diffuso, rileva un sondaggio condotto in 16 stati pubblicato martedì 12 ottobre per la conferenza annuale dell'Associazione ebraica europea (Eja).
Secondo questo sondaggio commissionato dalla Action and Protection League (APL), organizzazione partner dell'Eja, più di un terzo di greci e polacchi (36%) e il 30% degli ungheresi intervistati ritengono che "gli ebrei non saranno mai in grado di integrarsi pienamente nella società".
La credenza in una "rete ebraica segreta che influenza gli affari politici ed economici nel mondo" è condivisa dal 58% dei greci, dal 39% degli ungheresi e dal 34% degli slovacchi intervistati.
Circa il 36% dei greci, il 27% degli ungheresi e il 23% dei polacchi intervistati nutrono "sentimenti piuttosto negativi" nei confronti degli ebrei, una percentuale dell'11% in Germania, dell'8% in Francia e che scende al 3% in Svezia e nel Regno Unito, e 2% nei Paesi Bassi. Questi tre Paesi del nord Europa sono anche quelli dove la relativizzazione dell'Olocausto è meno forte, secondo il sondaggio che conta 70 domande.
"I risultati inquietanti dell'indagine mostrano che l'antisemitismo è profondamente radicato in Europa", ha affermato il rabbino Menachem Margolin, presidente dell'Eja, che prevede di adottare alla sua conferenza un piano d'azione in 10 punti. Il presidente del Concistoro Centrale di Francia e del Centro europeo dell'ebraismo, Joël Mergui, ha denunciato attacchi alla libertà di culto ebraico, in particolare facendo riferimento a una sentenza della Corte costituzionale belga di vietare la macellazione rituale senza previo stordimento.
"Se non possiamo più mangiare kosher, se non possiamo più circoncidere i nostri figli, se non possiamo più rispettare le nostre tradizioni, non abbiamo più futuro nei paesi che ce lo impediscono", ha avvertito.
L'indagine è stata condotta dall'istituto Ipsos a dicembre 2019 e gennaio 2020 in Germania, Austria, Belgio, Francia, Grecia, Ungheria, Italia, Lettonia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Spagna, Svezia e Regno Unito.
(globalist, 13 ottobre 2021)
Gli Stati Uniti avvertono Israele di non intervenire nel conflitto con l'Iran per i suoi nuovi missili
Nuovi missili iraniani minacciano Israele e non c'è difesa contro di loro.
Il capo della direzione dell'intelligence militare degli Stati Uniti ha rilasciato una dichiarazione in cui ha avvertito la parte israeliana della necessità di ridurre l'escalation della situazione con l'Iran, poiché la Repubblica islamica ha ricevuto nuovi missili, che non solo sono molto precisi, e i complessi sono altamente mobili, ma anche i sistemi di difesa aerea e missilistica israeliani semplicemente non saranno in grado di farlo.
Secondo la parte americana, le informazioni di cui dispongono le forze di difesa israeliane non coincidono molto con la realtà e negli ultimi anni l'Iran ha notevolmente rafforzato la sua difesa con vari mezzi di distruzione. Inoltre, l'esercito iraniano potrebbe essere armato con migliaia di missili da crociera e balistici, che la difesa antimissilistica dello stato ebraico non può nemmeno respingere fisicamente allo stesso tempo.
Considerando la dichiarazione resa dal capo della Direzione dell'intelligence militare statunitense, Washington non solo teme possibili scontri tra Israele e Iran, ma esprime anche fiducia che l'Iran possa facilmente distruggere le truppe israeliane, tanto più che la Russia può fornire assistenza alla repubblica islamica in questa regione come uno dei loro alleati, ad esempio, fornendo dati operativi sui voli dei caccia dell'aeronautica israeliana.
(Avia.pro, 12 ottobre 2021)
Israele aggiorna i suoi F-35I "Adir"
di Aurelio Giansiracusa
L’Israeli Air Force (IAF) ha in corso un programma di aggiornamento e potenziamento dei suoi F-35I “Adir” che stanno affluendo ai reparti operativi.
Come noto, Israele con le sue principali industrie militari e tecnologiche è ben presente nel programma F-35 Lightning II, da IAI che produce set alari ad Elbit Systems che fornisce il sofisticato casco HMDS dei piloti.
Altra forte presenza israeliana (quasi sempre sottaciuta e dimenticata) è nello sviluppo e programmazione del software, elemento indispensabile per un velivolo così sofisticato come l’F-35.
Ma v’è di più; infatti, Israele impiega una versione “customizzata” del F-35, l’Adir, che è “tagliata su misura” per le esigenze della IAF.
Questa versione impiega sistemi di comunicazioni protette, il sistema IFF e di guerra elettronica (EW) in esclusiva dotazione alla IAF, messi a punto dall’industria nazionale per far fronte alle esigenze delle IDF.
La IAF ha ordinato in prima istanza cinquanta F-35I; tra questi vi è un velivolo particolare impiegato esclusivamente per lo sviluppo e l’integrazione di nuove tecnologie.
Tale velivolo sperimentale ha un valore strategico perché permette alla IAF di sviluppare, provare ed eventualmente installare aggiornamenti “dedicati” in settori sensibili. E’ interessante notare che si tratta dell'unico velivolo sperimentale F-35 che opera al di fuori degli Stati Uniti.
Secondo la stampa israeliana, al momento, la IAF sta sviluppando e testando nuovi sistemi altamente classificati ed armamenti di nuovo tipo. Questi ultimi permetterebbero al F-35I di portarne un maggior numero all’interno delle baie, ottimizzando il rapporto carico/missione operativa, permettendo l’attacco di precisione a più bersagli.
Attualmente, sono in via di completamento le dotazioni di tre Squadron, il 116°, 117° e 140° che formano sulla base di Nevatim la “Divisione Adir”, un vero e proprio “maglio” strategico a disposizione delle IDF, in grado di operare sul tutto il Medio Oriente.
(Area Osservatorio Difesa, 12 ottobre 2021)
Israele - Nel 2021 l’Aliyah è aumentata del 31%
di Michelle Zarfati
Sebbene le restrizioni nei confronti dei viaggi internazionali, causate dalla pandemia, siano ancora in vigore in tutto il mondo, il graduale rallentamento delle misure di sicurezza aeroportuali ha permesso l’immigrazione verso Israele di circa 20.360 ebrei; atterrati all'aeroporto di Ben Gurion, da gennaio a settembre, tutti con l'obiettivo di iniziare una nuova vita nella terra d’Israele.
I dati ministeriali, pubblicati domenica dal ministero dell’Integrazione e dall’Agenzia Ebraica, confermano infatti che lo stato ebraico ha registrato quest’anno un aumento del 31% di Aliyot (immigrazione ebraica). "Israele ha continuato a vedere un massico aumento di Aliyot nonostante la pandemia di Covid-19", indica il rapporto ministeriale.
Domenica il Presidente Isaac Herzog e il Ministro dell’Aliyah e dell’integrazione Pnina Tamano-Shete hanno consegnato insieme il "Premio del ministro dell'integrazione agli Olim Chadashim (nuovi immigrati) per gli eccezionali contributi alla società e allo Stato d’ Israele”, in una cerimonia di premiazione presso la residenza ufficiale del Presidente.
Herzog ha parlato del grande coraggio mostrato nel fare l'Aliyah, e delle sfide che si trovano ad affrontare coloro che cominciano una nuova vita in Israele: "Le restrizioni legate alla pandemia, le difficoltà, la quarantena, la lingua e la cultura: tutto ciò rappresenta qualcosa di complesso per chi sceglie di cominciare una nuova vita qui, eppure non vi siete fatti intimorire. Tutti noi siamo davvero orgogliosi di voi.”
Nonostante le cifre promettenti, il numero di nuovi arrivi in Israele rimane relativamente basso rispetto agli anni precedenti al Covid-19. Solo nel 2019 vennero registrati circa 33.500 Olim Chadashim, ovvero nuovi immigrati.
Secondo il rapporto ministeriale, il primo Paese di origine di Olim Chadashim finora nel 2021, è la Russia, con 5.075 nuovi arrivati nonostante un calo del 5% rispetto al 2020. Al secondo posto gli Stati Uniti con 3.104 nuovi israeliani, in crescita del 41% rispetto ai primi nove mesi del 2020.
L'immigrazione dalla Francia è aumentata del 55%, con 2.819 immigrati francesi, mentre il numero di immigrati dall'Ucraina è aumentato del 4%, con 2.123 immigrati diretti in Israele.
I dati mostrano inoltre che 780 immigrati sono arrivati dalla Bielorussia, segnando un aumento del 69%. Mentre l'immigrazione dall'Argentina è aumentata del 46%, con 633 nuovi israeliani che hanno attraversato l'Oceano Atlantico.
Altri paesi includono: il Regno Unito con 490 immigrati più 20% rispetto al 2020 e il Brasile con 438. Per finire il Sudafrica con 373 Olim Chadashim, più del 56% rispetto agli anni precedenti.
Un totale di 1.589 immigrati è arrivato dall'Etiopia rispetto ai 285 dell'anno precedente, come parte dell'Operazione Zur Israel, un'iniziativa del governo per riunire gli ebrei etiopi con le loro famiglie che hanno fatto l’Aliyah precedentemente. Dati speranzosi che il governo auspica di vedere aumentare con un graduale ritorno alla normalità.
(Shalom, 12 ottobre 2021)
Nasce a Gerusalemme il museo della tolleranza
Diciassette anni dopo l'avvio del progetto, e dopo aver superato numerosi ostacoli (fra cui un blocco dei lavori imposto a suo tempo dalla Corte Suprema israeliana) il "Museo della Tolleranza" apre finalmente al pubblico. Situato nel pieno centro di Gerusalemme, il maestoso edificio ospiterà oggi i partecipanti ad un convegno organizzato dal Jerusalem Post a cui presenzieranno il capo dello Stato lsaac Herzog, il premier Naftali Bennett e dirigenti del Centro Wiesenthal ( che hanno concepito e realizzato l'opera). Ma la Autorità nazionale palestinese ha subito espresso dure critiche. Il suo ministero degli esteri ha definito l'avvio delle attività del Museo «un attacco provocatorio ad uno storico cimitero islamico, nonché una violazione palese del diritto e delle convenzioni internazionali». L'ideatore del progetto, il rabbino Marvin Hier, ha spiegato che «il Museo è un regalo alle nuove generazioni» nell'intento di diffondere i valori della dignità umana.
(Il Messaggero, 12 ottobre 2021)
Gli ebrei, Israele: una storia difficile. Benvenuti alla fiera dei pregiudizi
Esce per l'editrice Giuntina il pamphlet «Jewish Lives Matter» di Fiamma Nirenstein
La denuncia
«Da tremila anni si considerano gli ebrei un ospite speciale di questo mondo»
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L’allarme
Per la scrittrice l'odio per gli ebrei è diventato odio per Israele. E dilaga in Occidente
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di Giorgio Montefoschl
Farà discutere Jewish Lives matter. Diritti umani e antisemitismo, il pamphlet di Fiamma Nirenstein pubblicato dalla Casa editrice Giuntina. È un tema caldo. L'autrice confessa di averlo affrontato scrivendolo di getto, e con «rabbia nutrita di dolore». Perché, rabbia e dolore? «Ho già spiegato in lungo e in largo - scrive - come l'antisemitismo sia diventato odio per Israele, ma questa è la prima volta che vedo i miei stessi amici cadere in preda, lentamente e senza accorgersene, di un alieno spirito antisemita, uno spirito che si è fatto strada in loro proprio in nome delle buone cose in cui credono: i diritti umani».
Il libro prende le mosse dalla ricostruzione delle cause che hanno portato all'ultimo scontro fra Israele e Hamas (l'evacuazione delle case di Gerusalemme Est abitate da famiglie arabe, l'impedimento della libertà religiosa sulla Spianata delle Moschee, il cambiamento dello status quo a Gerusalemme), e prosegue con il racconto di quanto è accaduto (4.500 razzi sparati da Gaza, la ritorsione israeliana, consistita nella distruzione delle basi di lancio e dei missili e delle gallerie sotterranee, il numero diseguale dei morti: 260 a Gaza, 13 in Israele - ma, sottolinea l'autrice, di quei 260, 200 erano capi operativi di Hamas, quindi terroristi).
Undici giorni di sangue, di paura, di bambini usati come scudi umani, che invece, secondo Fiamma Nirenstein, hanno origine da una volontà che precede le cause suddette e sta tutta intera scritta nella geopolitica mediorientale, dominata in questo momento dall’Iran e dalla Turchia, e nella strategia di Hamas, la cui Carta del 1987 esplicitamente proclama che Israele dovrà scomparire dalla faccia della terra. ·
Ma l'origine del problema - scrive Nirenstein - è sempre la stessa: «Il misterioso impulso che da tremila anni considera gli ebrei un ospite speciale di questo mondo. Un ospite privilegiato, vittimizzato, diverso ... ». Dunque, come tutti i diversi che fanno le vittime e sono invece privilegiati (dal danaro, dalla ricchezza, dal potere; leggere i Protocolli dei savi di Sion), ospiti da estinguere. Questo è l'antisemitismo: quello storico, quello dei ghetti, quello dei pogrom nell'Europa dell'Est, quello di Stalin, quello di Hitler, quello dei sei milioni bruciati nei campi di concentramento nazisti non più tardi di ottanta anni fa.
Ora - sostiene Nirenstein - questo odio per gli ebrei si è trasformato in odio per Israele. Un odio che sta dilagando in Occidente, nelle università, nei giornali, addirittura nei videogiochi (è di adesso la notizia di un nuovo game pronto a dicembre, il cui vincitore è quello che stermina più israeliani possibile), e a poco a poco si sta insinuando nell'opinione pubblica, benedetto dalla conferenza del 2001 dell'Onu a Durban, nella quale le parole «antisemitismo» e «Olocausto» non compaiono, mentre i palestinesi vengono considerati «vittime del razzismo israeliano».
Israele non è un Paese razzista. Basterebbe visitare i suoi ospedali, dove malati arabi sono curati e stanno accanto a pazienti israeliani; o sottolineare che uno dei tre giudici che hanno condannato l'ex presidente della repubblica Moshe Katzav a cinque anni di carcere per molestie sessuali, è arabo. Israele, sostiene Fiamma Nirenstein - ed è difficile darle torto - è l'unico Paese democratico del Medio Oriente. Dunque, «la logica su cui poggia l'attuale insorgenza ideologica contro lo Stato degli ebrei è una spaventevole destrutturazione della nostra stessa natura democratica e antifascista, è una logica suicida perché oblitera il senso critico su cui si è costruita l'etica democratica».
In poche parole, è un vulnus che procuriamo a noi stessi. Così come è un vulnus che Israele provoca in primo luogo a sé stesso e alla sua credibilità, la sciagurata (a giudizio di chi scrive) proliferazione degli insediamenti nei Territori occupati. Questo, tanto per smentire la favoletta che non si può criticare Israele perché si corre il rischio di essere tacciati di antisemitismo.
(Corriere della Sera, 12 ottobre 2021)
Forse per non sembrare troppo a favore di Israele, l’autore ha voluto citare “la sciagurata proliferazione degli insediamenti nei Territori occupati”. Come se questo potesse bastare a bilanciare tutto quello che l’autrice dice nel suo libro. M.C.
Nel 2021 cresce del 31% l’immigrazione ebraica in Israele
Calano gli arrivi dalla Russia, in aumento da Stati Uniti, Sud Africa ed Etiopia nel quadro dell’operazione Tzur Israel. Un'immigrazione in larga maggioranza giovanile. Il flusso in entrata non si è mai fermato, nemmeno durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19. Per il ministro israeliano sono cifre “positive”.
GERUSALEMME - Nei primi mesi del 2021 l’immigrazione ebraica in Israele è cresciuta del 31%, con un numero crescente di ingressi da Stati Uniti, Francia, Ucraina, Bielorussia, Sud Africa ed Etiopia, mentre si registra una lieve flessione dalla Russia. È quanto emerge dai dati ufficiali forniti dal ministero israeliano dell’Immigrazione e dall’Agenzia ebraica, alla vigilia della festa di domani in ricordo delle persone che hanno intrapreso il viaggio verso la “terra promessa”.
Secondo le statistiche ufficiali, anche per quest’anno il maggior numero di immigrati ebrei proviene dalla Russia (5.075), a dispetto di una diminuzione del 5% nel numero rispetto al 2020. Vi sono stati 3.104 nuovi ingressi dagli Stati Uniti, con una crescita del 41% rispetto ai primi nove mesi dell’anno passato.
Almeno 2.819 nuovi immigrati si sono trasferiti dalla Francia (+55%), 2.123 dall’Ucraina (+4%), 780 dalla Bielorussia (+69%), 633 dall’Argentina (+ 46%), 490 dal Regno Unito (+20%), 438 dal Brasile (+4%) e 373 dal Sudafrica (+56%). Dall’Etiopia si registrano 1.589 immigrati nel quadro dell’operazione Tzur Israel, una iniziativa voluta dal governo per favorire l’immigrazione di membri della comunità ebraica dal Paese africano.
In base all’età, oltre la metà degli immigrati ebrei in Israele giunti nel 2021 ha meno di 35 anni, con il 23,4% di età compresa fra 0 e 17 anni; il 33,4% ha fra i 18 e i 35 anni. Il 16,3% rientra nella fascia 36-50 anni, il 13% ha fra 51 e 64 anni e il 13,9% ha più di 65 anni. Il ministero dell’Immigrazione aggiunge che 2.184 nuovi immigrati si sono trasferiti a Gerusalemme, 2.122 a Tel Aviv, 2.031 a Netanya, 1.410 ad Haifa e 744 ad Ashdod. Il titolare del dicastero Pnina Tamano-Shata parla di cifre “positive”, sottolineando il grande contributo fornito dagli immigrati ebrei alla società israeliana in un’ottica complessiva di sviluppo.
In una nota scritta in inglese, ma usando i termini ebraici per riferirsi all’immigrazione e agli immigrati, il ministro ha detto: “Sono lieto di lanciare la settimana Aliyah per il 2021, dove salutiamo e accogliamo gli immigrati per il loro contributo allo Stato di Israele. Ho lavorato nel governo per garantire che l’immigrazione non si fermasse, nemmeno durante la pandemia di Covid-19, e perché l’aliyah possa essere la realizzazione del sogno sionista”.
Lo scorso anno, durante il periodo più acuto dell’emergenza sanitaria innescata dalla pandemia di nuovo coronavirus, il dato relativo all’immigrazione ebraica in Israele è calato di circa il 40%. Il dato nel 2020 si è fermato a 21.200, rispetto ai 33.500 dell’anno precedente, con un calo complessivo del 36,7%.
(AsiaNews, 11 ottobre 2021)
Caso Eitan: legali, decisione giudice Tel Aviv forse già mercoledì
MILANO – “E’ attesa in tempi brevi forse già mercoledì,”, secondo quanto apprende l’Adnkronos da fonti legali, la decisione del tribunale della famiglia di Tel Aviv chiamato a decidere se Eitan, il bambino sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, potrà restare in Israele o dovrà tornare in Italia dove è stato affidato, in via provvisoria, alla zia paterna Aya, tutrice legale. Il giudice israeliano -che non ha dato indicazioni temporali- prenderà la sua decisione in base alla Convenzione dell’Aja al termine di una tre giorni intensi di udienze in cui sono state sentite le parti e alcuni esperti anche di diritto italiano.
(Adnkronos, 11 ottobre 2021)
Israele : giovani scettici sulla necessità del richiamo del vaccino contro il Covid
Il risalto in colore è stato aggiunto. NdI
MILANO (MF-DJ)--Israele è tra i Paesi più aggressivi al mondo nella somministrazione del richiamo del vaccino contro il Covid-19 e molti giovani qui si chiedono perché.
Alla fine di questo mese il Governo inizierà a far rispettare nuove regole che richiedono alle persone di avere il richiamo del vaccino contro il Covid-19 o di presentare un test negativo per andare in ristoranti, bar o altri luoghi di intrattenimento al chiuso. I richiami sono necessari per mantenere validi i Green Pass, cosa che le autorità considerano efficace per spingere il maggior numero possibile di persone a ottenere la terza dose del vaccino in modo da aumentare l'immunità e ridurre la diffusione del virus tra la popolazione.
Eppure, mentre molti giovani israeliani erano felici di ricevere le dosi iniziali del vaccino di Pfizer/BioNTech, questa volta non sono così bendisposti a farsi somministrare il richiamo. Alcuni affermano di sentirsi obbligati a fare ricevere la terza dose prima che il nuovo programma del Governo inizi il 17 ottobre e dicono che preferirebbero aspettare, sottolineando che credono di essere ancora protetti dai casi gravi di Covid, nonostante gli sforzi dei funzionari sanitari per convincerli che la terza dose può prevenire il cosiddetto Long Covid.
Poco più di un quarto dei giovani tra i 16 e i 19 anni ha ricevuto il richiamo insieme al 40% dei giovani tra i 20 e i 29 anni e al 47% dei giovani tra i 30 e i 39 anni, secondo il ministero della Salute di Israele. Questo rispetto al 65% degli adulti tra i 50 e i 59 anni e al 75% di coloro che hanno tra 60 e 69 anni. I numeri sono in parte appesantiti dalla maggiore esitazione tra i giovani arabi e gli israeliani ultraortodossi.
Gli esperti affermano che i dubbi dei giovani sui richiami potrebbero essere un presagio di ciò che altri Paesi potrebbero aspettarsi quando inizieranno a lanciare la somministrazione della terza dose e sollevano la possibilità che la trasmissione del virus possa continuare.
"I giovani hanno meno paura del coronavirus", ha affermato Tamar Hermann, che ha condotto sondaggi di opinione sulla politica dei vaccini presso l'Israel Democracy Institute con sede a Gerusalemme, sottolineando che "alcuni sono confusi e sconcertati e non capiscono se sono davvero a rischio o se la mossa fa parte della propaganda del Governo".
L'autorità di regolamentazione sanitaria europea, l'Ema, lunedì scorso ha raccomandato il richiamo per chiunque abbia dai 18 anni in su e abbia ricevuto la seconda dose del vaccino sviluppato da Pfizer/BioNTech. Il Regno Unito ha iniziato a somministrare il richiamo a chiunque abbia più di 50 anni, mentre gli Stati Uniti lo stanno offrendo agli over 65 e alle persone ad alto rischio.
In Israele, che ha iniziato a vaccinare ampiamente la popolazione prima di molti altri Paesi, alcuni giovani questa volta dicono di sentirsi costretti a fare il richiamo. "Tutti dicono che stanno ricevendo la terza dose solo per mantenere i loro diritti", ha detto Dan Rushansky, 33 anni, che possiede un bar nel quartiere giovane e alla moda di Florentine, a Tel Aviv. Rushansky ha detto che lui e 10 dei suoi 20 dipendenti non hanno ancora ricevuto la terza dose e lo stesso vale per gran parte della sua clientela.
Inizialmente, il Green Pass di Israele doveva essere collegato alla terza dose a partire dal 7 ottobre ma l'entrata in vigore del nuovo programma è stata rinviata a causa di problemi tecnici. Nel frattempo, i tassi di chi accetta di farsi somministrare il richiamo stanno accelerando con l'avvicinarsi della data di applicazione della misura ma questo non avviene perché i giovani vogliono ottenerli o credono che miglioreranno la loro protezione contro il Covid-19. Avviene solo perché vogliono continuare ad avere i loro pass. "Tutti vogliono avere una vita normale, quindi le persone stanno facendo la terza dose", ha detto Shon Weizman, di 27 anni, che lavora in un wine bar a Tel Aviv.
La strategia di Israele contro il Covid-19 è seguita da vicino nel resto del mondo. La scorsa settimana, il dottor Anthony Fauci, capo consigliere medico del presidente Usa, Joe Biden, e direttore dell'Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, ha dichiarato in un'intervista alla Radio dell'Esercito israeliano che i regolatori statunitensi stanno aspettando i dati dall'Esercito israeliano per comprendere l'analisi rischio-beneficio derivante dalla somministrazione del richiamo ai giovani.
Il dottor Fauci ha affermato che i regolatori sono particolarmente interessati a comprendere il rischio per i giovani di sviluppare un raro effetto collaterale connesso all'infiammazione del muscolo cardiaco, la cosiddetta miocardite, dopo la terza dose del vaccino di Pfizer. Fauci ha aggiunto che credeva che gli Stati Uniti alla fine avrebbero seguito l'esempio di Israele sui richiami.
Il ministero della Salute israeliano ha pubblicato i dati indicando che il richiamo causa meno effetti collaterali rispetto alle prime dosi e fornisce un significativo aumento della resistenza al virus per le persone che hanno ricevuto la seconda dose cinque mesi o più prima. Funzionari e professionisti medici attribuiscono alla campagna di richiamo il merito di aver represso un'ondata di infezioni e malattie gravi dovute alla variante Delta.
Alcuni hanno suggerito che il Governo dovrebbe essere più flessibile nell'applicare le nuove regole sul Green Pass e concentrarsi maggiormente sulla comunicazione dei benefici della terza dose.
Nadav Davidovitch, a capo dell'Associazione israeliana dei medici della sanità pubblica e direttore della Scuola di salute pubblica presso l'Università Ben Gurion di Bèer Sheva, ritiene che ciò sia particolarmente vero tra i giovani arabi e ultraortodossi che sono stati più lenti a ricevere il richiamo, perché i tassi di infezione sono stati più alti in quest'ultimo gruppo e molti si stanno ancora riprendendo dal virus. "Penso che forse abbiamo bisogno di dedicare più tempo e investire di più nella promozione della salute rivolgendosi a gruppi specifici", ha detto Davidovitch.
Capito perché i giovani israeliani devono andare presto a prendere la terza dose di vaccino? Perché "i regolatori statunitensi stanno aspettando i dati dall'Esercito israeliano per comprendere l'analisi rischio-beneficio derivante dalla somministrazione del richiamo ai giovani". Perché dall'Esercito israeliano? Forse perché si tratta di una guerra. Forse perché per sferrare il suo deciso Blitzkrieg anticovid, Netanyahu ha dovuto pagare profumatamente, e in anticipo su tutti gli altri, una grande mole di vaccini, e per poterlo fare ha fatto ricorso anche a fondi destinati a spese militari. Andate dunque, o giovani israeliani, ne va della salute. Forse anche vostra, ma certamente - dicono - dell'umanità. Tra i primati di Israele ci sarà anche quello di essere stato il primo paese ad essersi offerto come terra di esperimenti per le multinazionali farmaceutiche? E di essere diventato in questo un esempio per tutti gli altri? M.C.
Angela Merkel in Israele: “la sicurezza dello Stato Ebraico sarà sempre una priorità per la Germania”
di Michelle Zarfati
La cancelliera tedesca uscente, Angela Merkel, è in visita in Israele, un viaggio “d’addio” a conclusione dei suoi 16 anni di mandato, in cui ha assicurato, che “la sicurezza di Israele rimarrà una priorità assoluta per ogni governo tedesco". Merkel ha il memoriale della Shoah Yad Vashem definendo “commovente” come lo stato ebraico sia riuscito a fidarsi della Germania nel dopoguerra.
La Merkel ha inoltre avuto un colloquio con il Primo Ministro Naftali Bennett. "Dopo i crimini contro l'umanità della Shoah, è stato possibile ripristinare e ristabilire le relazioni", ha ricordato Merkel - "Voglio sfruttare questa opportunità per sottolineare che il tema della sicurezza di Israele sarà sempre una priorità centrale e un argomento importante per ogni governo tedesco", ha aggiunto.
Bennett ha sottolineato come, durante il mandato di Merkel il legame e l’intesa i tra i due paesi siano stati senza precedenti.
In una dichiarazione congiunta prima del loro incontro privato, Bennett ha definito la Merkel "una cara amica d’Israele" e ha insistito sul fatto che, grazie alla sua collaborazione, i legami tra Israele e Germania possono definirsi più forti di quanto non fossero mai stati. “Non vediamo l'ora di rafforzarli ancora di più, negli affari, nella scienza, nell'istruzione, nella salute e, naturalmente, nella sicurezza", ha condiviso Bennett.
Sempre durante la conferenza stampa congiunta a Gerusalemme, Bennett ha anche affrontato i disaccordi tra lui e la Merkel su un futuro stato palestinese. "Non stiamo ignorando i palestinesi", ha detto Bennett in risposta a una domanda durante la conferenza stampa. “Sono i nostri vicini e non andranno da nessun’altra parte- ha spiegato il Primo Ministro- Allo stesso tempo, abbiamo imparato dall'esperienza che uno stato palestinese significherebbe avere probabilmente un stato terroristico emergente a sette minuti dalla propria casa” ha proseguito. “Sono una persona molto pragmatica. Stiamo intraprendendo una serie di azioni sul campo per rendere le cose più facili per tutti, per gli ebrei e per gli arabi. In Giudea e Samaria e a Gaza", ha detto Bennett.
(Shalom, 10 ottobre 2021)
GECE 2021. I saluti istituzionali e il collegamento con il vicesindaco di Tel Aviv
di Paolo Castellano
Grande successo per gli eventi mattutini della Giornata Europea della Cultura Ebraica (GECE) che si sono svolti domenica 10 ottobre alla Sinagoga Centrale di Milano. Sin dalle 9 del mattino, i partecipanti hanno potuto assistere alla visita guidata della sinagoga curata da Esther Nissim Abdollahi attraverso cui hanno conosciuto e approfondito la storia dell’edificio religioso e i principi generali della religione ebraica.
Al termine dell’intervento di Nissim Abdollahi, hanno preso la parola i rappresentanti della Comunità ebraica di Milano (CEM) per dare il benvenuto ai partecipanti e agli ospiti dell’evento culturale. L’assessore alla Cultura Gadi Schoenheit, il presidente della CEM Milo Hasbani e il rabbino capo della Comunità ebraica Rav Alfonso Arbib.
Prima dei saluti istituzionali è avvenuto un collegamento virtuale con il vicesindaco di Tel Aviv, Yael Dayan, per confrontarsi sul valore del dialogo, tema centrale della GECE 2021. Dayan ha evidenziato quanto Tel Aviv sia una metropoli progressista e liberale, sottolineando come la fratellanza sia una “dato irrinunciabile” per creare dignità tra gli israeliani.
«Uno dei valori portanti di Tel Aviv è l’appartenenza. Un valore portante per realizzare una città pluralista che crei solidarietà tra i cittadini. Mettere in collegamento le autorità e la società civile per ridurre i sentimenti di sfiducia e creare forte solidarietà», ha dichiarato Dayan. Gli altri valori basilari per promuovere il dialogo sono l’uguaglianza e l’intersezionalità. Con il termine intersezionalità, il vicesindaco di Tel Aviv ha inteso lo sforzo di garantire i diritti della maggioranza e delle minoranze, offrendo coinvolgimento e uguali opportunità a tutti i cittadini israeliani.
Dayan ha poi sottolineato quanto la municipalità di Tel Aviv si sforzi nel costruire un dialogo con i suoi residenti, per creare servizi mirati con l’obiettivo di risolvere i problemi della gente. Dunque, si tratta di una forma di cittadinanza attiva in cui si vuole costruire un canale comunicativo con chi fa le leggi e amministra la città. «Io stessa incontro i cittadini, e ho uno stretto rapporto con le persone per capire le loro problematiche», ha commentato il vicesindaco di Tel Aviv.
Con lo scoppio della pandemia si sono implementati gli strumenti digitali per interagire con la cittadinanza. A causa delle passate restrizioni sanitarie, ogni mese il comune di Tel Aviv ha organizzato incontri su Zoom per raccogliere le richieste degli israeliani, soprattutto di quelli più anziani. Un vero e proprio esempio di “accessibilità” e inclusione per stare più vicini alle persone.
Dopo l’intervento di Dayan, ha preso la parola Gadi Schoenheit, assessore alla Cultura della CEM. Schoenheit ha sottolineato che “quando finiscono le parole, arriva la violenza”, citando il saggio Discutere in nome del cielo (Guerini e Associati) di Vittorio Robiati Bendaud e Ugo Volli, e specificando l’estrema importanza di promuovere il dialogo tra religioni e culture diverse. Tuttavia, Schoenheit ha dichiarato che non sia possibile dialogare con tutti. Non è infatti proponibile cercare di interagire con chi vuole la distruzione del popolo ebraico e di Israele, come nel caso dell’organizzazione terroristica palestinese Hamas e del regime iraniano. Infine, l’assessore alla Cultura CEM ha invitato il pubblico a non sottovalutare recenti affermazioni antisemite emerse nel mondo politico italiano che negano e insultano la memoria della Shoah.
Dopo l’intervento di Schoenheit, il microfono è passato al Rabbino Capo di Milano, Rav Alfonso Arbib. «Per la tradizione ebraica, il principio di tolleranza è un principio fondamentale. Determina la sopravvivenza. Pensiamo al passo della Torah in cui viene descritto il diluvio universale. Alla fine la promessa divina si manifesta con un arcobaleno, formato da colori diversi, un simbolo della coesistenza delle diversità». Secondo Rav Arbib, “il contrario del dialogo è proprio la chiacchiera” e “avere il diritto di dire tutto non significa parlare per forza”. Alcune volte è opportuno tacere. Parlare senza aver riflettuto produce superficialità, slogan e idee senza significato. La chiacchiera elimina il pensiero critico e di conseguenza non consente di conoscere il prossimo. Come ha sottolineato il Rabbino capo, il Talmud è una dimostrazione di tolleranza e dialogo poiché ospita discussioni tra uomini, presentando sia le posizioni di maggioranza che di minoranza. «Dialogo non significa essere tutti d’accordo. Alcune volte, dialogare significa andare oltre al politicamente corretto, al pensiero comune. Significa avere il coraggio di esprimere le proprie opinioni perché soltanto nei totalitarismi sono tutti d’accordo», ha commentato Rav Arbib.
Anche il presidente della CEM Milo Hasbani ha voluto ringraziare il pubblico accorso alla Sinagoga Centrale di Milano per partecipare agli eventi in programma. Hasbani ha ricordato il gemellaggio tra il capoluogo lombardo e Tel Aviv, e ha sottolineato l’importanza delle iniziative organizzate con il COREIS per la promozione del dialogo tra le comunità islamiche e le comunità ebraiche.
I saluti istituzionali sono terminati con i ringraziamenti di Carlo Borghetti, vicepresidente del Consiglio della Regione Lombardia, Stefano Bolognini, assessore regionale allo Sviluppo Città metropolitana, Giovani e Comunicazione, e il neo-consigliere della città comunale Daniele Nahum. Quest’ultimo ha celebrato l’impegno di Roberto Jarach nella gestione del Memoriale della Shoah di Milano.
(Bet Magazine Mosaico, 10 ottobre 2021)
“La cristianità sta svanendo in Europa. La nuova religione è pagana”
La filosofa Chantal Delsol spiega che una società non si secolarizza mai. Una religione muore e ne nasce un’altra.
Scrive il Figaro (27/9)
E’ stata varcata una soglia simbolica: ormai più di metà della popolazione si dichiara atea”, scrive la filosofa Chantal Delsol. “E’ tutto il vecchio continente e l’occidente che vede la cancellazione della religione dei suoi padri. Il movimento, che ora sta esplodendo sotto i nostri occhi, è iniziato molto tempo fa, senza dubbio con i filosofi del Settecento e anche prima. Il giudeo-cristianesimo porta con sé il dubbio, perché porta con sé l’idea di verità. Così avanza nella storia abitata dal suo stesso interrogarsi. Tuttavia, dobbiamo distinguere tra cristianesimo e cristianità. Il cristianesimo non sembra affatto essere sull’orlo dell’estinzione. Si sta diffondendo in vaste aree dell’America Latina e dell’Asia. E’ in occidente che svanisce. Ma la cristianità si traduce come qualcos’altro: il cristianesimo come civiltà, come potere sui costumi e sulle leggi dei paesi.
Possiamo dire che il cristianesimo in quanto tale è scomparso dai nostri territori dagli anni Sessanta o dalle leggi sull’aborto. Da allora, non sono più i dogmi religiosi a determinare ciò che la morale proibisce o consente, sono i comitati etici composti da una moltitudine di correnti diverse. La cristianità è durata sedici secoli, dalla fine del IV secolo. E’ oggi che va in frantumi. Di qui l’angoscia, e il panico, di alcuni cristiani di oggi. Avendo perso il potere sulla società, pensano di aver perso del tutto, come se la loro stessa esistenza fosse legata alla loro egemonia. Stanno per diventare, o sono già diventati, una minoranza e non sanno cosa sia. Dovrebbero andare a prendere lezioni dagli ebrei o dai protestanti. Non sono sicuro che i nostri chierici abbiano capito questo nuovo status di minoranza, che richiede un atteggiamento di verità. I casi di pedofilia, dove vediamo che il peccato cerca di nascondersi più che di combattere se stesso, hanno inferto un colpo terribile a un’istituzione già molto malata, e che continua la sua caduta nei paesi più cattolici del vecchio continente: Spagna, Irlanda, Polonia.
Tuttavia, non si deve immaginare che il vecchio occidente diventerà ‘ateo’, come ci dicono gli studi. A dire il vero, ‘ateo’ non esiste, tranne forse tra pochi intellettuali di lingua tedesca, non sempre onesti con se stessi. L’uomo è un animale religioso, perché si confronta sempre e ovunque con il male, la sofferenza e la morte, e non può vivere senza cercare di dar loro un senso. Quando André Malraux dice che ‘il XXI secolo sarà religioso o non sarà’, sta enunciando un truismo: tutti i secoli sono religiosi! I paesi occidentali non sono diventati ‘atei’: hanno adottato altre credenze, altre religioni o spiritualità, altre morali. Non sto parlando dell’islam. La religione dell’occidente viene gradualmente sostituita dal suo surrogato, dai suoi sostituti, dai suoi echi. Una religione non muore mai. I suoi resti sono recuperati da quel che segue. I primi cristiani si stabilirono in templi pagani, di cui trasformarono i significati. Non ci fu tabula rasa. Tutta la cultura è un palinsesto. Così è la modernità con il cristianesimo. La fede nella trascendenza crolla, ma l’edificio non scompare, ma viene riciclato diversamente.
Uno storico americano, Joseph Bottum, ha descritto il riciclaggio della trascendenza nell’immanenza nel corso del XX secolo e come i cieli si siano virtualmente schiantati sulla terra. La preoccupazione per la salvezza si è trasformata in preoccupazione per la salvezza sociale. La religione tradizionale dell’occidente trascendente e monoteista non è stata semplicemente cancellata e sostituita dal nulla. E’ stata lentamente soppiantata da politeismi immanenti. Oppure da molteplici spiritualità, a volte ereditate dalle nostre tradizioni (stoicismo, epicureismo), a volte ricevute da altre culture (buddismo). L’uomo è un essere spirituale e religioso. Ecco perché oggi in occidente abbiamo discendenti degli epicurei, seguaci di Buddha, persone che baciano alberi e adoratori delle balene, per esempio. L’ecologia prende il posto di una nuova religione e in questo caso è il panteismo. Ha i suoi riti, il suo catechismo obbligatorio, le sue proibizioni, i suoi profeti, i suoi sacerdoti, i suoi anatemi e le sue scomuniche.
Ciò che i popoli occidentali hanno già iniziato a perdere sono i fondamenti del giudeo-cristianesimo, i presupposti culturali su cui si basava l’edificio. Il primo è la fede nell’esistenza della verità, che ci viene dai greci. Poi è l’idea del tempo lineare, che storicamente ci ha dato l’idea del progresso, così si torna al tempo ciclico con l’annuncio di catastrofi apocalittiche. Infine, è la fede nella dignità sostanziale dell’essere umano che viene cancellata per far posto a una dignità conferita dall’esterno, sociale e non sostanziale, come avveniva prima del cristianesimo. Dobbiamo convivere con questi nuovi presupposti”.
Il Foglio, 11 ottobre 2021 - trad. Giulio Meotti)
La caduta della cristianità visibile e trionfante non è qualcosa che dovrebbe sorprendere chi ha una formazione cristiana evangelica di base, dove la "preccupazione per la salvezza" non è mai stata sostituita (o non avrebbe dovuto esserlo) dalla "preoccupazione per la salvezza sociale". Per certi aspetti gli evangelici si trovano in una posizione simile a quella degli ebrei: in minoranza, dispersi e non dipendenti in modo essenziale dai poteri costituiti. E' certo però che i "politeismi immanenti" possono attrarre entrambi gli ambienti. M.C.
Bennett: Iran più vicino che mai ad arma nucleare
GERUSALEMME - L’Iran è più vicino che mai alla realizzazione di un’arma nucleare. Lo ha dichiarato il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, durante una riunione del gabinetto di governo a Gerusalemme, alla quale ha partecipato anche la cancelliera tedesca Angela Merkel. In questa occasione, il premier ha dichiarato che agirà per impedire a Teheran di ottenere la bomba, mentre la cancelliera ha sottolineato che la sicurezza di Israele ricoprirà sempre un “ruolo centrale”. "Un'arma nucleare nelle mani di un regime così violento cambierà il volto della regione e del mondo", ha affermato Bennett, evidenziando che il problema “non è strategico, ma piuttosto esistenziale”. “Negli ultimi tre anni l'Iran ha fatto un enorme balzo in avanti nella sua capacità di arricchire l'uranio", ha proseguito il primo ministro israeliano, invitando i ministri presenti a concentrarsi sui rapporti bilaterali con la Germania, come il rafforzamento dei legami economici. "Voglio cogliere questa opportunità per esprimere il profondo ringraziamento di Israele per esserci stata accanto nel corso degli anni”, ha concluso Bennet rivolgendosi alla cancelliera Merkel.
(Agenzia Nova, 10 ottobre 2021)
Un piccolo tesoro che testimonia una comunità fiorente ora scomparsa
La sinagoga di Asti apre alle visite per la Giornata Europea della Cultura Ebraica
di Carlo Francesco Conti
«Sappi, davanti a chi tu stai, questa è la porta del Signore, i Giusti entreranno in essa». Questa scritta si trova nella sinagoga di Asti che oggi, domenica 10 ottobre, aprirà alle visite nell’ambito della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Una testimonianza importante, forse non dal punto di vista architettonico, ma sicuramente da quello storico. Perché la prima considerazione da fare è che una comunità fiorente come quella ebraica di Asti, è completamente scomparsa a causa delle persecuzioni razziali di matrice fascista. E mentre in altre città comunità anche piccole si sono mantenute, ad Asti le ultime presenze ebraiche sono state le sorelle Elda ed Enrica Jona, testimoni e vittime della politica razzista attuata in Italia: Enrica fu deportata a Birkenau, poi a Ravensbruck e Neustadt-Glewe. Enrica Jona, morta nel 2000, fu una dei tre ebrei che riuscirono a tornare ad Asti sui 30 deportati. Non ce la fecero invece i genitori. I nomi delle vittime sono su una lapide commemorativa nel cortile della sinagoga.
• GLI EBREI AD ASTI
Gli ebrei astigiani erano perfettamente integrati nel tessuto sociale e politico della città. Lo testimonia l’importanza della famiglia Ottolenghi, e il rilievo dei suoi interventi a favore della città (la creazione di piazza Cairoli, o del Cavallo, l’acquisto di Casa Alfieri donata alla municipalità, il palazzo della famiglia, divenuto punto di riferimento per attività culturali). Tra i personaggi eminenti della comunità astigiana si possono ricordare il senatore Isacco Artom, segretario del conte Camillo Benso Conte di Cavour, Zaccaria Ottolenghi, costruttore e finanziatore del Teatro Vittorio Alfieri, e Lazzaro Artom. Su numerosi edifici e targhe commemorative si trovano i nomi di importanti famiglie ebraiche astigiane come De Benedetti, Clava, Treves e Levi Montalcini (basti ricordare che il futuro premio Nobel Rita Levi Montalcini fu rifugiata in una cascina alle porte di Asti). Un racconto storicamente fedele e ampiamente godibile della comunità astigiana è il romanzo «I giorni del mondo» di Guido Artom, recentemente ripubblicato da Morcelliana a cura di Paolo De Benedetti, ultimo grande cantore di una tradizione inestimabile. Un approfondito studio storico è invece «Il ghetto, la sinagoga. Viaggio attraverso la cultura ebraica ad Asti» di Maria Luisa Giribaldi e Maria Paola Villani (Lindau).
È probabile che una sinagoga esistesse già nel ’400 con l’arrivo dei primi ebrei in città. Quella attuale risale al ’700, accanto al luogo di culto vi era anche un centro che svolgeva funzioni civili e assistenziali. Quando caddero le mura del ghetto (l’ingresso era in via Aliberti) nel 1848, si rese necessaria una ristrutturazione. Questa fu affidata a Carlo Benzi, finanziato dalle famiglie Artom e Ottolenghi. Alcune delle case vicine furono espropriate per realizzare il sagrato chiuso dal cancello. Fu anche innalzata un’ala destra per ampliare il matroneo, la loggia sopraelevata riservata alle donne. Degno di nota è l’«Aròn» o Arca Santa, opera dell’atelier dell’ebanista di Casa Savoia, l’astigiano Giuseppe Maria Bonzanigo, costruito nel 1809 e dorato, come testimoniano alcune iscrizioni, nel 1816. È un armadio a muro composto da otto pannelli scolpiti e dorati, ognuno dei quali raffigura un simbolo differente.
• IL RITO «APAM»
A testimoniare l’importanza delle comunità ebraiche nell’Astigiano, si ricorda che qui si sviluppò un rito peculiare, noto come «Apam» (o Appam). Di fatto è una sigla dovuta alle iniziali delle tre comunità ebraiche che lo praticavano: Asti, Fossano (in ebraico F e P sono la stessa lettera) e quella di Moncalvo. È una combinazione del rito tedesco e dell’antico rito francese, che scomparve dalla Francia dopo l’espulsione degli ebrei nel 1394. Qualcuno ritiene che il rito, anche se più recente di quello italiano, avendo origini medioevali, sia più autentico di quello italiano, che è stato spesso contaminato da varie influenze. Questo rito, non ha solo peculiarità dottrinali, ma è caratterizzato anche da melodie proprie, raccolte nel 1955 da Leo Levy all’accademia di Santa Cecilia a Roma.
• LA GIORNATA
Oggi si svolge la 22ª Giornata Europea della Cultura Ebraica. L’iniziativa, coordinata e promossa dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha come tema «Dialoghi» per sottolineare l’importanza dell’incontro e del confronto interculturale. Nel programma piemontese, curato dalla Comunità ebraica di Torino, vi è l’apertura della sinagoga di Asti in via Ottolenghi a cura della cooperativa Artefacta. Le visite, condotte da Donatella Andriolo, operatrice didattica museale e sommelier, si svolgeranno ogni ora dalle 10 alle 13 e dalle 14,30 alle 18. Si potrà visitare anche il Museo ebraico. La sinagoga è visitabile anche su appuntamento: info@torinoebraica.it, 011/65.08.332.
(La Stampa, 10 ottobre 2021)
Proteggiamo la morbidezza dell'ebraismo italiano
di Massimiliano Boni
Simonetta Della Seta, nella Giornata europea delle cultura ebraica, spiega a Riflessi perchè è importante per gli ebrei italiani dialogare, e tornare a farlo con l’ebraismo europeo.
- Simonetta, ci parliamo al telefono con il Mediterraneo a dividerci. Il tuo trasferimento in Israele è definitivo?
Per noi in realtà è un ritorno. Abbiamo vissuto in Israele moltissimi anni, poi per un periodo siamo tornati in Italia per stare vicini alla famiglia, e poi c’è stata la bellissima esperienza di costruire il MEIS [Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, n.d.r.]; terminata quella, siamo tornati a Gerusalemme.
- Che cosa fai ora in Israele?
Mi dedico finalmente alla ricerca, su alcuni temi che avevo messo da parte, tra cui quello del sionismo italiano. Sto lavorando a diverse pubblicazioni. Sono inoltre attiva nella International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA – l’Alleanza intergovernativa che si occupa di Shoah), nella quale sono membro della delegazione italiana. In particolare, sto lavorando sulle problematiche legate alla distorsione della Shoah, che ormai viene espressa a tantissimi livelli.
- Hai fatto prima riferimento alla direzione del MEIS, ma già in passato, per molti anni, hai collaborato con varie istituzioni per promuovere la cultura italiana, tra cui quella ebraica. Oggi la giornata europea della cultura ebraica è dedicata ai “dialoghi”. Innanzitutto, c’è un tratto caratteristico della cultura ebraica italiana?
Sono stata direttrice di chiara fama dell’Istituto Italiano di Cultura in Israele, e poi, in seguito, sono rimasta diversi anni consigliere dell’ambasciatore italiano. Ovviamente promuovevo tutta la cultura italiana e non solo quella ebraica, ma nel 2007 ho organizzato in Israele una grande mostra – con più di 200 oggetti – dal titolo ITALIA EBRAICA, che ha fatto conoscere la specificità del nostro ebraismo a moltissimi israeliani. L’ebraismo italiano è caratterizzato da un aspetto fondamentale e unico: è radicato nel territorio da molto più tempo di quanto qualsiasi altra comunità della diaspora. Questo elemento ha un peso notevole. Il fatto che gli ebrei siano in questa penisola da 2200 anni ci rende una comunità e una cultura molto speciali.
- In che modo?
Perché ne forgia un carattere tipico: credo infatti che l’ebraismo italiano sia di fondo un ebraismo moderato.
- Cosa intendi?
Questo lungo incontro tra noi e la cultura italica – la chiamo così perché stiamo parlando di un processo cominciato ben prima della nascita della nazione moderna – ha creato una influenza reciproca. Certo non è stato sempre un abbraccio: c’è stata la persecuzione cattolica di matrice cattolica, c’è stata l’espulsione degli ebrei dal meridione sotto gli spagnoli, ci sono stati i ghetti, fino al trauma della discriminazione e della persecuzione sotto il regime fascista. Però, in definitiva, la lunga e continuativa convivenza ha trasmesso all’ebraismo italiano un carattere moderato, mediterraneo. Non a caso, gli ebri italiani si definiscono italiani anche nel rito, né ashkenaziti, né sefarditi, sebbene le nostre comunità abbiano accolto nei secoli sia ebrei sefarditi che ashkenaziti. Nella nostra cultura ebraica c’è più morbidezza rispetto alle altre culture ebraiche: come se avessimo assorbito la bellezza poetica di paesaggi italiani ed alcuni tratti di un carattere mediterraneo in cui viviamo da due millenni.
- Questa tua espressione, “morbidezza”, mi piace molto. Come la declineresti?
Essa si esprime nei canti, nel modo di vivere, nell’ambito familiare, nella vita dentro la sinagoga, nello studio, nella solidarietà, nei rapporti tra sessi, nei rapporti tra noi e gli altri. Da direttrice del MEIS ho visitato moltissimi musei ebraici: sono stata in Olanda, in Polonia, in Francia, in Austria, in Germania ecc. Lì mi sono resa conto ancora di più di quanto il carattere dell’ebraismo italiano sia antico, intersecato con la cultura italiana e per certi versi rimasto per tradizione anche vicino all’ebraismo di Eretz Israel, della Terra di Israele, con la quale c’è stato nei secoli uno scambio continuo, grazie alla vicinanza geografica. Per questo l’ebraismo italiano, pur piccolo nei numeri, ha dato un contributo sia alla cultura italiana che a quella ebraica generale. Già nel medioevo e nel rinascimento si vede questo scambio. Recentemente ho riletto i diari del rabbino David Prato, che presto saranno pubblicati: un esempio di un bagaglio ebraico ricco, aperto, umanista. Insomma, noi ebrei italiani siamo in fondo degli umanisti.
- Ritrovi questi caratteri anche nell’attuale rabbinato italiano?
Intanto sono contenta che la grande maggioranza delle nostre comunità sia guidata da rabbini italiani e che esista una scuola rabbinica italiana capace di formare nuove generazioni di rabbini con la nostra cultura. Il collegamento stretto con il rabbinato israeliano è secondo me frutto di due fenomeni: uno storico collegamento tra l’ebraismo italiano e quello della Terra d’Israele – ci sono sempre stati scambi e viaggi nelle due direzioni – e poi l’effetto della globalizzazione. Quando una comunità piccola entra in contatto con il mondo intero, e ad esempio i nostri ragazzi viaggiano, e incontrano altri ebraismi, si pone un problema di riconoscimento e legittimazione. Questo fa sì che il rabbinato italiano cerchi di garantire degli standard più internazionali, per permetterci di viaggiare e avere contatti con tutto l’ebraismo mondiale. Io perciò ho letto questa tendenza come una conseguenza del mondo globale. Si è cercato di dare all’ebraismo italiano degli istrumenti per agire alla pari ed essere riconosciuti.
- Non rischiamo così però di vedere appannare quei tratti distintivi dell’ebraismo italiano che dicevamo prima?
Io credo sia importante ricordarsi che l’ebraismo italiano ha una sua autorevolezza riconosciuta tale nel mondo, anche se poggiata su piccoli numeri. Abbiamo sempre espresso una nostra identità. Ad esempio, in Israele si studiano i testi dei chakamim italiani. Ho avuto la grande fortuna di essere vicina al Rav Adin Steinsaltz zzl, il quale aveva una grandissima considerazione dell’ebraismo italiano, che nasceva dal fatto che l’ebraismo italiano ha dato la luce a tante correnti e pensieri importanti. Per certi versi, nel mondo ebraico si pensa che l’ebraismo di Roma non potrà mai estinguersi, non solo per le sue antiche radici, e per il fatto che è nato dalla distruzione della Gerusalemme ebraica e dunque ha portato con sé tanta di quella Gerusalemme immaginaria, ma perché ha un ruolo storico nella città capitale mondiale del cattolicesimo. Certo, per mantenere questa autorevolezza è importante che gli ebrei italiani – intendo di tutta Italia, mentre a Roma a volte non si considera quanto sia importante il resto dell’ebraismo italiano, anche come contribuito alla nostra storia e cultura – si ricordino sempre chi sono, pur confrontandosi sempre con il resto del mondo ebraico, non solo con quello israeliano.
- A cosa pensi?
È importante avere contatti con l’ebraismo francese, olandese, tedesco, spagnolo, con tutto l’ebraismo d’oltralpe. Credo che alla fine, nel mondo, ci sarà l’ebraismo di Israele, quello delle due Americhe e quello dell’Europa. L’Italia ebraica potrebbe avere un ruolo da giocare non solo nei confronti dello Stato di Israele, ma anche rafforzando il proprio sguardo verso l’Europa.
- Torniamo al tema della giornata: i dialoghi. Questo è anche l’anno dantesco. Ci sono legami tra gli ebrei italiani e Dante?
Certo. Come direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura a Tel Aviv mi sono occupata molto di Dante. La Commedia è stata tradotta in ebraico prima ancora che nascesse lo Stato di Israele, e Dante è tuttora studiato e letto, non solo nelle università. Sicuramente la sua poesia influenza noi ebrei a vari livelli. Dante ha parlato di un mondo universale e con una lingua universale, e come sempre, gli ebrei sono attenti a questo tipo di comunicazione. La Commedia è un’opera universale, e gli ebrei colgono sempre per primi questi messaggi. L’ebraismo stesso contiene messaggi universali, per cui sono mondi, quello di Dante e quello ebraico, che si sono parlati e si parlano. Dante ha scritto del bene e del male, dell’amore, del successo e della decadenza; è chiaro che sono temi che coinvolgono l’intera umanità. E poi Dante ha messo al centro l’uomo, e anche l’ebraismo ha al centro l’uomo – naturalmente in dialogo con Dio –, come emerge già nel libro della Genesi che abbiamo ricominciato a leggere: le acque di sopra e le acque di sotto, Adamo ed Eva creati per stare nelle acque terrene ma obbedire e tendere verso quelle celesti. C’è un mondo superiore che possiamo tentare di capire, di questo in fondo parla anche Dante. Dante in Israele è noto e studiato con molte traduzioni, ma ci sono stati ebrei che hanno studiato Dante nei secoli precedenti, a partire dal nostro poeta dantesco, Immanuel Romano.
- E nel dialogo tra noi ebrei italiani e il resto del paese? Cosa sanno gli italiani dell’ebraismo?
E’ la domanda che mi sono posta dirigendo il MEIS, specie quando all’inizio bisognava concepirne e costruirne il percorso museale. Per oltre un anno ho chiesto ad interlocutori non ebrei perché dovesse essere rilevante costruire un museo nazionale dell’ebraismo italiano. Le risposte sono state diverse. Alcuni mi hanno risposto che non sapevano nulla della cultura ebraica: chi sono gli ebrei? Altri mi hanno detto di percepire che nell’ebraismo ci sono valori che, se capiti e studiati, possono essere rilevanti e dare benefici per la vita di tutti. Ho capito allora che era importante raccontare e far parlare la cultura ebraica, la nostra cultura. Ho cercato così di fare del MEIS un luogo significativo per tanti, e oggi è un museo frequentato soprattutto da non ebrei. Se si parla solo di Shoah si creano equivoci: occorre sempre partire dalla vita ebraica, dalla cultura e dai valori. Nella Shoah stessa c’è stata tanta vita ebraica, soppressa ma anche resistente. Per questo siamo ancora qui.
- A proposito, vedi il rischio di una concorrenza tra il MEIS e il Museo della Shoah di Roma?
Assolutamente no, perché hanno due vocazioni diverse. Il MEIS parla della Shoah, in quanto capitolo della lunga storia dell’ebraismo italiano che esso racconta; il Museo della Shoah di Roma tratterà della Shoah in generale, come un capitolo della storia dell’umanità, come l’Holocaust Museum di Washington. Non vedo perciò contrapposizione tra Ferrara e Roma, come non ne vedo con il Memoriale di Milano, che un luogo testimone della sua stessa storia. Anzi, spero che queste tre istituzioni saranno alleate e creeranno una rete didattica. Sono persuasa che la Shoah vada raccontata parlando anche della vita.
- Cioè?
Gli ebrei hanno sempre cercato di reagire secondo i loro valori. E anche dopo la Shoah, la vita è ripresa grazie ai valori e ai principi dell’ebraismo, che vanno conosciuti. Ecco perché è importante costruire un museo dell’ebraismo oltre a un museo della Shoah. Il governo italiano ha fortemente voluto il MEIS perché racconta una parte della storia italiana, della cultura italiana e della vita italiana, anche oggi. C’è una grande richiesta di conoscere la cultura ebraica.
- Perché, secondo te?
Innanzitutto, come ho detto, perché dentro l’ebraismo ci sono valori che sono universali e che possono essere rilevanti anche ad affrontare alcune tematiche attuali: l’incertezza, la migrazione. E poi perché l’ebraismo è una cultura che si basa sulle domande ed è abituata a stare nell’incertezza, l’appartenenza a culture multiple, solo per citarne alcune. Sapere come gli ebrei vivono e salvaguardano la loro cultura attraverso i secoli è una lezione per tutti.
- Un’ultima domanda. Tu sei stata per anni giornalista in medio oriente e ora vi sei tornata da privata cittadina. Che ti sembra dell’aria che si respira oggi in Israele?
Sono stata giornalista in Israele per trent’anni. Oggi non faccio più quel lavoro, però da semplice osservatrice posso rispondere che mi pare ci sia una buona atmosfera, in cui se non altro si cerca di dialogare tra ebrei e arabi israeliani, si cerca un linguaggio nuovo, non di contrasto. Vivo a Gerusalemme, vicino al parco della ferrovia, che attraversa anche quartieri arabi, e per la prima volta vedo mescolarsi musulmani ebrei e cristiani sullo stesso percorso. È una bella sensazione vedere che arabi ed ebrei vivono negli stessi luoghi e frequentano perfino gli stesi caffè. M sembra che l’atmosfera sia positiva, che i toni siano meno acuti e aggressivi. Quello che viviamo è un tempo sperimentale, per via della pandemia, in tutto il mondo. Chissà che frutti porterà. Al momento percepisco meno avversità tra le parti, come tra chi cerchi di fare dei passi per un dialogo.
(Riflessi Menorah, 10 ottobre 2021)
Spy story: cosa è successo tra Israele e Iran, insolito cablogramma della Cia
Due storie di spionaggio che riguardano Israele e l’Iran e la Cia.
di Giuseppe Gagliano
1) Israele ha accusato l’Iran di essere dietro un complotto per uccidere cittadini israeliani nella Repubblica di Cipro, in seguito all’arresto di un uomo che sarebbe stato trovato con una pistola dotata di silenziatore nella capitale cipriota Nicosia. Secondo quanto riferito, l’uomo è entrato a Cipro con un volo che è atterrato all’aeroporto internazionale di Larnaca la scorsa settimana. Si ritiene che sia un cittadino azero di 38 anni, che sarebbe entrato a Cipro utilizzando un passaporto russo. Secondo quanto riferito dal Times la polizia cipriota ha tenuto d’occhio il sospetto assassino non appena è entrato a Cipro. È probabile che il Mossad potrebbe essere stata dietro una soffiata data ai ciprioti sulla presenza dell’uomo sull’isola. Nei giorni successivi al suo arrivo, il sospettato ha attraversato più volte la regione settentrionale di Cipro occupata dai turchi, usando il suo passaporto russo e “cercando di mantenere un basso profilo”, secondo i resoconti dei media israeliani. L’uomo azero è stato infine arrestato a Nicosia, poco dopo essere entrato dal nord di Cipro al checkpoint di Agios Dometios. Alcuni notiziari locali suggeriscono che è stato scoperto che trasportava una pistola dotata di silenziatore e che stava progettando di prendere di mira un certo numero di importanti uomini d’affari israeliani che vivono sull’isola. Rapporti in Israele affermano che l’obiettivo principale del presunto assassino era Teddy Sagi, un investitore israeliano che possiede piattaforme di gioco d’azzardo online, nonché proprietà nel Regno Unito e a Cipro. Si crede che sia tra i cittadini più ricchi di Israele. L’Iran ha negato con veemenza l’affermazione di Israele secondo cui la polizia cipriota ha evitato “un atto di terrore [che] è stato orchestrato dall’Iran contro gli uomini d’affari israeliani” a Cipro. Tuttavia, l’annuncio del governo israeliano non è entrato nei dettagli, mentre i funzionari israeliani si sono rifiutati di confermare che Teddy Sagi fosse l’obiettivo della presunta operazione.
2) In un cablogramma descritto dagli osservatori come “insolito”, la Central Intelligence Agency degli Stati Uniti ha avvertito i suoi agenti di dare priorità alla sicurezza quando reclutano spie in paesi stranieri. I trattamenti fittizi del lavoro di spionaggio di solito si riferiscono al personale della CIA come “spie”. Nel lavoro di spionaggio nella vita reale, tuttavia, questo termine è in realtà riservato ai cittadini di paesi stranieri reclutati dai funzionari della CIA per lavorare come informatori. Secondo il New York Times, negli ultimi anni un gran numero di questi informatori stranieri della CIA è stato “catturato o ucciso”. Secondo quanto riferito, il numero è così alto che il centro di missione di controspionaggio della CIA ha inviato “un insolito messaggio top secret” la scorsa settimana a ogni stazione della CIA in tutto il mondo, attirando l’attenzione su questo fatto. Il cablogramma ha fatto menzione specifica di informatori che sono stati neutralizzati in paesi come Pakistan, Iran, Cina e Russia. Il cablogramma top-secret ha continuato sottolineando l’importanza di porre la sicurezza al centro della missione della CIA, soprattutto quando si reclutano nuovi informatori, ha affermato il Times. Ma il cablogramma top-secret “ha ricordato ai funzionari della CIA di concentrarsi non solo sul reclutamento di fonti, ma anche su questioni di sicurezza, tra cui il controllo degli informatori”, Il giornale ha aggiunto che la lingua del cablogramma implicava che i funzionari della CIA avessero spesso sottovalutato gli avversari dell’agenzia all’estero. Il Times ha affermato di aver contattato la CIA con domande sul memo top-secret, ma “un portavoce della CIA ha rifiutato di commentare”.
(Startmag Web magazine, 10 ottobre 2021)
Studi sul vaccino Pfizer in Israele: “aumento dell’incidenza di miocardite dopo la seconda dose, rischio maggiore tra i giovani maschi”
I risultati di due diversi studi israeliani sul rischio di miocardite a seguito della vaccinazione con il siero Pfizer: rischio maggiore tra i giovani maschi.
Durante la campagna di vaccinazione contro il coronavirus SARS-CoV-2 nel mondo, è emersa un’associazione tra lo sviluppo di miocarditi e la ricezione dei vaccini a mRNA contro il Covid-19. “Di recente, i ricercatori in Israele hanno riportato che la vaccinazione ha aumentato il rischio di miocardite a 42 giorni di un fattore di 3,24 rispetto al rischio tra le persone non vaccinate, eventi che erano prevalentemente concentrate tra i giovani pazienti maschi”, si legge in un nuovo studio, pubblicato su The New England Journal of Medicine, che ha analizzato la frequenza e la gravità delle miocarditi a seguito della vaccinazione. Lo studio è stato condotto sulla base dei dati di Clalit Health Services, la più grande organizzazione sanitaria in Israele. I ricercatori hanno cercato nel database dell’organizzazione le diagnosi di miocarditi in pazienti che avevano ricevuto almeno una dose del vaccino sviluppato da Pfizer-BioNTech. “Tra gli oltre 2,5 milioni di membri vaccinati della Clalit Health Services, che avevano almeno 16 anni, 54 casi hanno soddisfatto i criteri per la miocardite. L’incidenza stimata ogni 100.000 persone che avevano ricevuto almeno una dose di vaccino era di 2,13 casi, che includeva un’incidenza di 4,12 tra i pazienti di sesso maschile e 0,23 tra le pazienti di sesso femminile. L’incidenza di miocardite più alta (10,69 casi ogni 100.000 persone) è stata riportata in pazienti maschi tra i 16 e i 29 anni”. “Un totale del 76% dei casi di miocardite è stato descritto come lieve e il 22% come intermedio; 1 caso è stato associato a shock cardiogeno”, una grave condizione medica, in cui il cuore (solitamente il ventricolo sinistro) è incapace di pompare in circolo quantità adeguate di sangue, si legge nello studio. “Dopo un follow-up medio di 83 giorni dall’insorgenza della miocardite, 1 paziente è stato ricoverato in ospedale e 1 è morto per una causa sconosciuta dopo le dimissioni. Dei 14 pazienti che aveva una disfunzione ventricolare sinistra all’ecocardiografia durante il ricovero, 10 avevano ancora tale disfunzione al momento delle dimissioni dall’ospedale. Di questi pazienti, 5 sono stati sottoposti a test successivi che hanno rivelato una normale funzione cardiaca”, continua ancora lo studio. Le caratteristiche dei pazienti con miocardite, descritte nello studio, indicano una “età media dei pazienti di 27 anni, il 94% erano maschi. Due pazienti avevano contratto il Covid-19 prima di ricevere il vaccino (125 e 186 giorni prima). La maggior parte dei pazienti (83%) non aveva patologie mediche coesistenti; il 13% riceveva cure per malattie croniche. Tra i pazienti con miocardite, 37 (69%) ha ricevuto la diagnosi dopo la seconda dose di vaccino, con un intervallo medio di 21 giorni tra le dosi”, si legge nello studio, che riporta un “aumento dell’incidenza dopo la seconda dose”. I tassi di miocardite emersi da questo studio, inoltre, possono essere messi a confronto con quelli emersi da un altro studio, pubblicato sempre su The New England Journal of Medicine, in cui sono stati rivisti retrospettivamente i dati ottenuti dal 20 dicembre 2020 al 31 maggio 2021 su tutti i casi di miocardite riportati sui circa 5,1 milioni di israeliani che fino al 31 maggio 2021 avevano ricevuto la seconda dose del vaccino Pfizer. Durante il periodo di tempo considerato, “il Ministero della Salute israeliano ha registrato 136 casi di miocardite definitiva o probabile che si sono verificati in prossimità della somministrazione delle due dosi del vaccino” di Pfizer, “un rischio che era oltre il doppio rispetto alle persone non vaccinate”, si legge nello studio. “Questa associazione era più alta nei giovani di sesso maschile entro la prima settimana dopo la seconda dose. Nel nostro studio, i casi di miocardite definitiva o probabile tra persone tra 16 e 19 anni entro 21 giorni dopo la seconda dose di vaccino si sono verificati in circa 1 su 6.637 riceventi di sesso maschile e 1 su 99.853 riceventi di sesso femminile”. “Nella maggior parte dei casi, i sintomi di miocardite si sono sviluppati entro pochi giorni dopo la seconda dose di vaccino. L’incidenza di miocardite è calata mentre il numero di persone appena vaccinate diminuiva nel tempo. Questo risultato suggerisce una possibile relazione causale tra le due dosi di vaccino e il rischio di miocardite. In generale, abbiamo stimato che i casi di miocardite certa o probabile si sono verificati nella popolazione generale israeliana ad un tasso di circa 1 su 26.000 uomini e 1 su 218.000 donne dopo la seconda dose di vaccino, con il rischio più alto tra i giovani maschi”, si legge nello studio, che evidenzia come l’incidenza di miocardite nello studio sui dati della Clalit Health Services sia un po’ più basso, “forse a causa dei diversi metodi utilizzati”. “Nel nostro studio, è stata registrata ogni data di vaccinazione per assicurare un follow-up di 21 giorni dopo la prima dose e 30 giorni dopo la seconda dose”, mentre l’altro studio “ha seguito i vaccinati per 42 giorni dopo la prima dose”, fattore che “potrebbe aver portato ad una sottostima dei casi di miocardite a causa di un follow-up più breve per la seconda dose”, spiegano i ricercatori. “Nel nostro studio, il tasso di miocardite nella popolazione generale non vaccinata era di 1 su 10.857 e può essere confrontato con i risultati che indicano che la miocardite era più comune dopo l’infezione da SARS-CoV-2 che dopo la vaccinazione. Sulla base dei dati da un database nazionale israeliano, l’incidenza di miocardite dopo due dosi del vaccino Pfizer era bassa ma più alta rispetto all’incidenza tra le persone non vaccinate e tra i controlli storici. Il rischio di miocardite è stato guidato principalmente dalla maggiore incidenza dopo la seconda dose di vaccino e nei riceventi giovani di sesso maschile”, conclude lo studio.
(MeteoWeb, 10 ottobre 2021)
La teoria scientifica che conferma uno dei racconti più famosi della Bibbia
Nuove ricerche sembrano confermare il racconto biblico di Sodoma e Gomorra: l'impatto con un asteroide potrebbe aver distrutto le due città giordane.
La città di Tall El Hammam, nella valle del Giordano, è oggetto di scavi approfonditi da circa vent’anni. Le evidenze portate alla luce dagli archeologi sembrano concordi: l’immensa città dell’età del bronzo riportata alla luce pochi chilometri a nord del Mar Morto corrisponde alle descrizioni bibliche della città di Sodoma. Un nuovo studio, pubblicato su Nature, sembra confermare la versione biblica della "pioggia di zolfo e di fuoco" che distrusse le città di Sodoma e Gomorra.
• LA DISTRUZIONE DI SODOMA E GOMORRA Nella Genesi è scritto che "Il Signore fece cadere dal cielo su Sodoma e Gomorra una pioggia di zolfo e di fuoco" che distrusse le città, uccidendone tutti gli abitanti e incendiandone la vegetazione. Gli antichi interpretarono tale atto di distruzione come una punizione divina: le più recenti indagini sul sito di Tall El Hammam confermano il racconto biblico della "pioggia di fuoco", e rivelano che tale immane distruzione potrebbe aver avuto tutt’altra origine. L’analisi dei materiali trovati durante gli scavi della città giordana, infatti, indicano che il sito fu colpito da temperature superiori ai 2000°C, ovviamente impossibili da produrre con la tecnica disponibile all’epoca. La distruzione di Tall El Hammam avvenne attorno al 1650 a.C.: in quegli anni, la città individuata come Sodoma era un fiorente centro abitato, tra i più grandi dell’area del Giordano, più grande addirittura della ricca Gerusalemme. La città, rilevano gli archeologi, sembra essere stata completamente abbandonata attorno a quella data, insieme almeno ad altri 25 centri abitati minori nell’area del Sud del Giordano, ad indicare che l’evento distruttivo descritto dalla Bibbia potrebbe riferirsi ad un reale evento catastrofico che spazzò via la popolazione di Sodoma e Gomorra. Dopo aver escluso, tra le cause, l’attività vulcanica e tettonica dell’area di riferimento, gli scienziati sembrano oggi propendere per una spiegazione precisa: Sodoma fu distrutta dall’esplosione di un meteorite.
• L’IMPATTO DEL METEORITE La ricerca pubblicata su Nature indaga le caratteristiche dei singolari ritrovamenti emersi durante gli scavi del grande sito archeologico di Tall El Hammam: oltre alle evidenze che indicano l’esposizione ad altissime temperature, i ricercatori hanno individuato del cosiddetto "quarzo da impatto". Come spiega James Kennett, geologo dell’Università di Santa Barbara, l’esistenza di tale formazione rocciosa si può spiegare esclusivamente ipotizzando una variazione di pressione estremamente elevata, del genere di quella causata dall’esplosione di un asteroide in aria. L’asteroide che deve aver provocato la distruzione di Sodoma e Gomorra deve essere stato ancora più grande del bolide che provocò nel 1908 l’esplosione di Tunguska in Russia, rilasciando circa 1000 volte l’energia della bomba atomica che colpì Hiroshima. L’asteroide che provocò la fine di Tall El Hammam fu ancora più distruttivo, secondo gli scienziati: con l’esplosione morirono oltre 8mila persone, e la "frammentazione degli scheletri" individuata dagli archeologici sembrerebbe indicare un evento dalla violenza inaudita. Parrebbe addirittura che lo sbalzo di pressione provocato dall’immane esplosione dell’asteroide nei cieli di Sodoma possa essere la causa della particolare salinità del vicino Mar Morto: le prove sembrano indicare che notevoli quantità di sale si siano alzate dal terreno, provocando anche la desertificazione delle zone circostanti. Tall El Hammam fu dunque distrutta da un asteroide, le evidenze sono concordi. Purtroppo non esistono testi coevi alla Genesi che confermino la tradizione orale della grande distruzione di Sodoma e Gomorra. La tentazione di credere che si tratti proprio della spiegazione scientifica di un racconto biblico non lascia però indifferenti gli archeologi, che concludono "la descrizione dell’evento catastrofico potrebbe essere arrivato a noi tramite una tradizione orale che, nel tempo, può aver preso la forma del racconto scritto nella Bibbia a proposito della distruzione di Sodoma".
(Libero Tecnologia, 10 ottobre 2021)
Articoli come questo possono essere interessanti, ma non aggiungono né tolgono nulla alla verità del racconto biblico. M.C.
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Esortazione alla saggezza
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 7.
- Figlio mio, custodisci le mie parole,
fa’ tesoro dei miei precetti.
- Osserva i miei precetti e vivrai;
custodisci il mio insegnamento come la pupilla degli occhi.
- Légateli alle dita,
scrivili sulla tavola del tuo cuore.
- Di’ alla sapienza: «Tu sei mia sorella»,
e chiama l’intelligenza amica tua,
- affinché ti preservino dalla donna altrui,
dall’estranea che usa parole seducenti.
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Figlio mio, custodisci le mie parole,
fa’ tesoro dei miei precetti.
E' benedetto quel figlio che dal padre riceve non soltanto soldi e cose, ma anche parole di saggezza. E' pazzo quel figlio che avendo ricevuto tali parole, le getta via o le accantona in qualche remoto angolo della sua memoria come un oggetto privo di valore. Il padre saggio sa che purtroppo questo può avvenire e per questo insiste ancora una volta nella sua raccomandazione: custodisci le mie parole, non permettere che siano annullate e sostituite da altre parole ingannatrici; fa' tesoro dei miei precetti, sappili apprezzare, non svalutarli considerandoli poco importanti.
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Osserva i miei precetti e vivrai;
custodisci il mio insegnamento come la pupilla degli occhi.
Il bene promesso non è un abbellimento della vita, ma è la vita stessa. Ecco perché si paragona l'insegnamento da custodire ad una parte così delicata e preziosa come la pupilla degli occhi. Le parole che seguono non sono consigli utili: sono comandamenti vitali.
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Légateli alle dita,
scrivili sulla tavola del tuo cuore.
Per capire il valore dell'uso di termini come "legare" e "scrivere" può essere utile considerare due esempi negativi: "La follia è legata al cuore del bambino (Proverbi 22.15); "Il peccato di Giuda è scritto con uno stilo di ferro, con una punta di diamante; è scolpito sulla tavola del loro cuore (Geremia 17.1). Il verbo "legare" esprime una indissolubile vicinanza spaziale e il verbo "scrivere" una immodificabile durata temporale. L'uomo lontano da Dio è schiavo del peccato (Giovanni 7.34, Romani 8.14) e il tempo non può cambiare la sua situazione. Soltanto la Parola di Dio porta salvezza e guarigione. Per questo il discepolo viene invitato a legarla alle sue dita, per tenerla sempre vicina alla sua attenzione, e a scriverla sulla tavola del suo cuore, per non dimenticarne mai il valore e l'importanza.
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Di’ alla sapienza: «Tu sei mia sorella»,
e chiama l’intelligenza amica tua,
Nel Cantico dei Cantici lo sposo si rivolge alla sposa chiamandola "sorella mia, amica mia" (Cantico dei Cantici 5.2). Il giovane, non essendo ancora vincolato dal matrimonio, potrebbe pensare di essere libero di gestire come meglio crede gli impulsi del suo proprio corpo. Il padre saggio lo invita allora a considerarsi "sposato" alla sapienza, e a trattarla con la dolcezza dovuta ad una sposa di cui si è profondamente innamorati.
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affinché ti preservino dalla donna altrui,
dall’estranea che usa parole seducenti.
Il padre saggio potrebbe dire al giovane: "Se la sapienza non diventerà tua sposa, l'estranea diventerà la tua sapienza". Perché l'estranea non attira solamente con la sensualità del corpo, ma anche con parole seducenti, cioè con discorsi che vogliono convincere, prima ancora che indurre a compiere degli atti. Chi si lascia sedurre dall'estranea divorzia dalla sapienza e si unisce alla follia. "Resta fedele alla sapienza - sembra dire il padre - e non arriverai a fornicare con la donna altrui, perché non sarai sedotto da quella donna turbolenta che è la follia (9.13).
M.C.
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La nonna di Eitan accusa l'Italia: "Ha ucciso i miei cari, lui resti qui"
Lo sfogo di Etty Cohen davanti all tribunale di Tel Aviv durante l'udienza per l'affido.
di Sharon Nizza
TEL AVIV - Otto ore di udienza a porte chiuse, nessuna dichiarazione. Ieri è ripartito il processo presso il tribunale della famiglia di Tel Aviv sul caso di Eitan, unico superstite della tragedia del Mottarone, condotto in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg l'll settembre all'insaputa della zia patema e tutrice legale Aya Biran. A rompere il silenzio stampa al termine della seduta, descritta come estremamente tesa, è stata la nonna materna Esther (Etty) Cohen, ex moglie di Peleg. I legali cercano di trattenerla quando passa di fronte ai giornalisti, ma Etty si lascia andare a uno sfogo drammatico: «La giudice non mi ha permesso di presenziare in aula, mi ha equiparata al console italiano che non è stato fatto entrare. Ma io sono la nonna! Ho perso cinque membri della famiglia! Eravamo quattro generazioni, tre se ne sono andate. L'Italia ha ucciso mio padre, mia figlia e mio nipote, non possono prendere Eitan, è l'unico che mi rimane».
Ieri il dibattimento si è concentrato sui testi convocati dai Biran, che hanno intentato la causa richiedendo l'applicazione della Convenzione dell' Aja sui minori condotti illecitamente all'estero. Nell'aula erano presenti solo Shmuel e Aya - che è stata raggiunta in Israele dal marito Or Nirko e dalle figlie nei giorni scorsi - oltre a uno stuolo di avvocati e l'interprete, che ha tradotto diversi collegamenti video, tra cui il parere di un'esperta di diritto internazionale italiana che ha servito in passato come giudice. Sono stati sentiti anche amici residenti in Italia di Tal e Amit - i genitori di Eitan rimasti uccisi nella tragedia - per confutare la tesi della famiglia Peleg secondo cui la coppia fosse intenzionata a tornare in Israele entro un anno. È infatti questo uno dei punti cardine della strategia legale della famiglia materna, che contesta la definizione dell'Italia come "residenza abituale" di Eitan - uno dei criteri su cui si basa la Convenzione dell'Aia per stabilire il rientro del minore.
Nel tardo pomeriggio, Etty arriva improvvisamente in tribunale, molto agitata. Fuori dall'aula ha un alterco con Avi Himi, legale dei Biran. «Sento che ora stanno distruggendo l'immagine di mia figlia, che non può reagire», e lo ripete più tardi ai cronisti forse riferendosi a elementi delle testimonianze ascoltate in aula poco prima.
L'udienza riprenderà questa sera al termine dello shabbat e proseguirà domani. Secondo fonti legali, la giudice Iris Ilotovich-Segal ha intenzione di chiudere la fase dibattimentale domenica «anche facendo le ore piccole». La sentenza è prevista nel giro di un paio di settimane. Se la giudice delibererà a favore dell'applicazione della Convenzione e del conseguente rientro di Eitan in Italia - che potrebbe protrarsi in caso di appello - significa che sarà la giustizia italiana a stabilire il futuro del bambino e nello specifico a quale ramo della famiglia verrà affidato in via definitiva. Il 22 ottobre a Milano verrà discusso il ricorso presentato dalla famiglia Peleg contro l'affidamento ad Aya. Nel frattempo, Eitan continua a trascorrere le sue giornate in Israele alternato tra le due famiglie, un'intesa che rischia di non reggere alla tensione tra le parti.
(la Repubblica, 9 ottobre 2021)
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Eitan, seconda udienza a Tel Aviv. La nonna: "L'Italia mi ha sterminato la famiglia, lasciatemi Eitan"
Il 23 settembre era stato stabilito, in attesa di una decisione, che il bimbo avrebbe trascorso tre giorni con una famiglia e tre con l'altra. I giudici devono decidere se il bambino deve tornare in Italia.
di Sharon Nizza
TEL AVIV, 8 ottobre - Oggi si è tenuta la seconda udienza presso il tribunale della Famiglia di Tel Aviv sul caso di Eitan Biran, il bambino di 6 anni unico superstite della tragedia del Mottarone condotto in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg l'11 settembre. Oltre al nonno sono presenti in aula anche Aya Biran, la zia paterna giunta in Italia per seguire il processo, e suo fratello Hagai. La giudice Iris Ilotovich-Segal dovrà decidere se applicare al caso la Convenzione dell'Aja sui bambini portati illecitamente all'estero e di conseguenza ordinare il rientro di Eitan in Italia, dove sarà la giustizia italiana a stabilire il futuro del bambino e nello specifico a quale ramo della famiglia verrà affidato in via definitiva. Il 22 ottobre verrà discusso presso il tribunale minorile di Milano il ricorso presentato dalla famiglia Peleg sulla decisione di affidare Eitan alla zia paterna Aya Biran, residente in provincia di Pavia. Come la prima udienza, del 23 settembre, anche il dibattimento di oggi si è svolto a porte chiuse e così sarà anche per le future sedute, previste per sabato sera e domenica. Lo svolgimento di un processo nel week end, in concomitanza con il giorno dello shabbat, è estremamente inusuale e indice dell'urgenza che il giudice riserva al caso. Fonti legali confermano a Repubblica che nella mattinata è stato ascoltato il parere di un'esperta di diritto internazionale italiana che ha servito in passato come giudice. Anche Aya Biran è sul banco dei testimoni. La zia paterna è stata anche ascoltata dalla polizia nei giorni scorsi, nell'ambito dell'indagine penale a carico del nonno Shmuel Peleg per rapimento di minore in corso in Israele, in parallelo a quella aperta dalla procura di Pavia, in cui risultano iscritti nel registro degli indagati anche la nonna Esther Cohen (ex moglie di Peleg) e un cittadino israeliano che ha condotto in auto Shmuel e Eitan da Pavia a Lugano, da dove è partito il jet privato affittato dal nonno per condurre il nipotino in Israele, all'insaputa della tutrice legale Aya Biran. Shmuel Peleg è stato interrogato il 14 settembre dalla polizia di Tel Aviv e trattenuto ai domiciliari per cinque giorni. Un portavoce della polizia conferma a Repubblica che il nonno materno verrà sentito nuovamente dalla polizia, a seguito della testimonianza di Aya. Fino al completamento delle indagini, non gli è consentito lasciare il Paese. In attesa della sentenza, che potrebbe arrivare nelle prossime due settimane secondo fonti legali, la giudice aveva stabilito il 23 settembre che Eitan trascorrerà le sue giornate in Israele diviso tra le due famiglie. Nel frattempo, anche Or Nirko, il marito di Aya, è giunto nei giorni scorsi in Israele con le due figlie piccole. Dopo l'udienza preliminare la giudice ha imposto un rigido silenzio stampa riguardo alle condizioni fisiche e psicologiche del bambino. Il bambino avrebbe dovuto iniziare a settembre la prima elementare a Pavia. La giudice ha respinto la richiesta del ramo materno di iscriverlo nel frattempo a una scuola israeliana. L'udienza è durata da ore. L'atmosfera nell'aula era descritta come molto tesa. Il polso del clima infiammabile si ha nel pomeriggio quando Esther Cohen, la nonna materna, arriva improvvisamente in tribunale, molto agitata. Non le è consentito entrare nell'aula. Incrociando Avi Himi, uno dei legali dei Biran, Esther lo attacca: "Sapete perché ero seduta fuori? Mi hanno equiparato al console italiano che non hanno fatto entrare. Ma io sono la nonna! Io ho perso cinque persone! Nessuno infangherà il nome di mia figlia, né qui né in Italia e voi lo avete fatto. Non mi fanno entrare nell'aula, in Italia non mi hanno dato spazio, nemmeno qui? Eravamo 4 generazioni, tre se ne sono andate. Dovete ricordarvi, non si tratta di una coppia divorziata ma di una famiglia colpita dal lutto, abbiamo perso 5 membri della famiglia. L'Italia ha ucciso mio padre, mia figlia e mio nipote, cosa mi rimane? Non possono togliermi anche Eitan". Le udienze riprenderanno domani sera, sabato, alla fine del riposo ebraico. Gli avvocati di entrambe le parti, al termine della sessione di oggi, non hanno voluto rilasciare alcun commento.
(la Repubblica online, 8 ottobre 2021)
Pfizer: nessuno si aspettava una confessione dall’amministratore delegato
di Osvaldo Lasperini
Continua la campagna vaccinale in Italia cercando di raggiungere quota 80% di soggetti protetti. A circa nove mesi dal suo inizio, nessuno avrebbe mai pensato che l’amministratore delegato di Pfizer avrebbe parlato. È arrivata inaspettata la sua confessione sul vaccino anti Covid-19 Comirnaty. Parole importanti e di un certo peso hanno ammesso clamorosamente la durata e l’efficacia dell’antidoto più inoculato in Italia. Scopriamo insieme tutti i dettagli.
• Pfizer: ecco la verità sul vaccino anti Covid-19 Comirnaty
Tuonano le parole di Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer, azienda produttrice – insieme a BioNTech – del vaccino anti Covid-19 Comirnaty. Un’ammissione inaspettata che però conferma quanto detto in merito alla durata e all’efficacia dell’antidoto:
Il nostro vaccino protegge molto bene contro malattie gravi e contro il ricovero durante i primi 6 mesi. Dopo c’è una diminuzione dell’immunità. Il declino inizia sempre con una lieve infezione, e poi cala anche la protezione contro infezioni gravi e la protezione dai ricoveri ospedalieri e purtroppo anche la protezione dalla morte“.
Questi dati non sono stati rilevati solo da Pfizer, ma anche dal Ministero della Salute Israeliano che aveva condotto precisi esperimenti, monitorando costantemente il vaccino. Grazie al lavoro certosino di Israele, oggi abbiamo accesso a dati importantissimi visto anche il loro vantaggio, sulla campagna vaccinale, rispetto all’America di circa tre mesi. Ecco cosa ha ancora dichiarato Bourla in merito al vaccino anti Covid-19 di Pfizer proprio legato a Israele che lo ha testato in maniera più completa con un discreto anticipo:
Israele aveva un vantaggio di 3 mesi sugli Usa nella campagna vaccinazioni e soprattutto ha un sistema di cartelle cliniche sanitarie molto completo e del tutto digitalizzato. Per questo è in grado di elaborare dati con rapidità. Il loro sequenziamento dei pazienti vaccinati ha indicato una chiara caduta della protezione. Prima con infezioni asintomatiche, poi con malattia lieve. E subito dopo ricoveri e infezioni gravi. È stato lì che Israele ha deciso di dare la terza dose prima agli over 65, poi sopra i 50 anni, sopra i 40 e ora credo dai 16 in su“.
Vi ricordiamo che queste dichiarazioni arrivano dopo la confessione di BioNTech su Pfizer. Insomma, ora si capisce il perché sia necessaria la terza dose di vaccino anti Covid-19.
(tecnoandroid, 9 ottobre 2021)
Certo che si capisce perché è necessario che molti si lascino inoculare la terza dose di vaccino anti Covid: perché i ricercatori di Pfizer hanno bisogno di altri dati sperimentali per vedere quanto dureranno i suoi effetti in modo da preparare una quarta dose per quando questi finiranno. E poi dicono che questi vaccini non sono sperimentali! E che i vaccinati non sono trattati come cavie. Ma intanto le multinazionali farmaceutiche fanno soldi. E se la pandemia è considerata come una guerra, perché a sinistra non c'è nessuno che prova a parlare di "mercanti di vaccini" come una volta si parlava di "mercanti di cannoni"? M.C.
“Il reato di paura”
di Lorenza Morello
Il diritto, lo sa bene chi lo ha studiato, ha tra le proprie caratteristiche quello di giungere sempre dopo i fatti. In altre parole, il diritto non è (quasi) mai anticipatorio della realtà ma altro non fa che disciplinare e codificare ciò che nella vita quotidiana si è già verificato in modo tanto ripetuto e diffuso da necessitare, appunto, di essere regolato. Ecco, in qualità di giurista credo sia giunto il momento di prendere atto dell’introduzione da parte di vari governi (ma del nostro in particolare) di una nuova fattispecie di reato, il “reato di paura”. I fatti parlano chiaro, chiunque nel nostro staterello, manifesti timore nei confronti di quello che volgarmente è conosciuto con il nome “vaccino” deve essere punito. E le punizioni passano dalla sospensione del diritto al lavoro, al divieto dell’esercizio di vari diritti tra i quali: il diritto di manifestare; la libertà di espressione; il diritto allo studio; il diritto di disporre del proprio corpo e molti altri ancora. Ma il reato di paura non si integra in tutte le fattispecie, laddove infatti questa paura abbia come oggetto il virus del Covid a questo timore pone rimedio il buon sovrano che, nella propria magnanimità, provvede a lenire i timori di una malattia non - come sarebbe logico pensare - rassicurando il popolo dicendo che la stessa uccide lo 0,01 dei contagiati (che è cosa ben diversa dallo 0,01 della popolazione mondiale che sarebbe comunque un dato ben inferiore rispetto altre malattie alla lotta delle quali nessuno stato si è mai prodigato con solerzia nemmeno paragonabile) ma bensì dispensando gratuitamente i famosi vaccini (quelli verso i quali è reato provare timore). E come si chiama uno Stato che decide per noi cosa dobbiamo temere e cosa dobbiamo bramare se non stato totalitario? L’analfabetismo funzionale è poi l’anello di congiunzione che fa funzionare il meccanismo perché, come spiegava Hannah Arendt, il suddito ideale di un regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più. D’altronde quando un presidente del consiglio afferma che: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente: non ti vaccini, ti ammali e muori. Oppure, fai morire: non ti vaccini, contagi, lui o lei muore’. L’assioma ‘non ti vaccini, fai morire’, peraltro contraddetto, per come formulato, dalla scienza stessa che oggi dice che anche i vaccinati possono trasmettere il virus perché questo vaccino non crea immunità ma solo attenuazione dei rischi di morte (che peraltro con le cure domiciliari sarebbero ridotti a zero), è stato subito politicizzato, snaturato quindi di ogni veste ‘neutrale’ - ammesso la avesse per il presidente del Consiglio - e applaudito dalla maggioranza che oggi governa il Paese. Non solo: ha immediatamente spalancato le porte alla rabbia più profonda e viscerale che da sempre alberga nell’animo umano, poi amplificata nei gruppi organizzati. ‘I non vaccinati fanno morire!’ Questo terribile dogma, apodittico in base alle conoscenze scientifiche per le quali chiunque (magari in forma minore ma non nulla, come dimostra la quotidiana necessità per i vaccinati di fare il tampone per salire su un aereo o molte altre attività), può trasmettere il virus, ha aperto un mondo. Quella frase, al di là di come legittimamente la si pensi sui vaccini, al di là della decisione di sottoporsi o meno alla puntura, ha legittimato di fatto la caccia al nemico, rappresentato appunto dal non vaccinato. E a poco pare essere servito aver ascoltato le parole di pensatori autorevoli come il premio Nobel Montagnier o il filosofo Agamben, recentemente ascoltato dalla prima commissione affari costituzionali del senato (che a ragion veduta pare avergli dato la parola proprio perché “così non possono dire che non lo abbiamo fatto”) laddove invece le decisioni sul da farsi da molto tempo vengono prese molto lontano dal parlamento. E quindi le parole dei pensatori resteranno ad epigrafe della cronaca di troppe morti già annunciate. Perché, vedete, l’assurdità di ogni regime sta nel fatto che ciò che non si piega alla sua volontà viene direttamente etichettato come “Male”. Ma solo la storia a distanza di secoli dimostra che ogni tentativo di coercizione ha sempre avuto fini e metodi deplorevoli. Un esempio? Nel XVII secolo Parigi vedeva i poveri spaccati in due -guarda un po’- dal regime sanitario che all’epoca aveva diviso i poveri in “poveri buoni” e “poveri cattivi”. A quel tempo, la Francia cercava di risolvere il problema dei mendicanti fondando un sistema di strutture che avevano come scopo quello di internare con la forza i poveri che comportavano un rischio di rivolta per la borghesia. Si tratta de “La strana repubblica del bene che è imposta - con la forza - a tutti quelli sospettati di appartenere al male” narrata magistralmente da Foucault. L’Ospedale Generale aveva quindi creato due opposte fazioni che servivano entrambe il medesimo scopo: l’internamento. Da una parte c’erano i poveri buoni: “Pazienti, umili, modesti, contenti del loro stato e degli aiuti che l’amministrazione elargisce loro.”, coloro che accettavano spontaneamente le misure discutibili di queste strutture d’internamento; dall’altra i poveri cattivi definiti: “Nemici del buon ordine”, coloro che lottando per i propri diritti non sopportavano l’idea di dover essere letteralmente imprigionati, e rappresentavano una minaccia per nobili e borghesi. Questo modus operandi aveva una duplice funzione: da un lato offriva un (almeno apparente)”beneficio”, dall’altro reprimeva e puniva. In entrambe i casi, comunque, i poveri venivano internati. “Se si è riusciti a mettere al giogo taluni animali feroci, non si deve disperare di correggere l’uomo che si è fuorviato “recitava il motto dell’Ospedale d’Internamento di Mainz. Potrebbero essere quasi le parole di Mario Draghi a Confindustria, senza nemmeno sforzare troppo l’immaginazione.
(Il Paragone, 9 ottobre 2021)
“Evitare allenamenti e attività fisica dopo vaccino”. Israele: “Si rischia la miocardite”
Visti alcuni casi di miocardite collegati al vaccino anti covid, il ministero della salute israeliano starebbe pensando di chiede di non svolgere attività fisica intensa nella settimana successiva.
Il ministero della salute israeliano starebbe pensando di chiedere ai nuovi vaccinati di evitare di allenarsi, quindi di fare palestra e uno sforzo fisico importante, per almeno una settimana dopo aver ricevuto il vaccino. Stando a quanto riferisce il Jerusalem Post, la proposta sarebbe da associare ad un piccolo numero di casi di miocardite comparsi appunto subito dopo la somministrazione del siero anti covid, e che rischierebbe di creare problemi seri se associati ad un’attività fisica intensa. Secondo un documento redatto dal ministero, alcuni funzionari sanitari Divisione di epidemiologia del Ministero della Salute, una sorta di nostro Comitato tecnico scientifico, avrebbero raccomando alle persone di evitare “attività faticose per una settimana dopo la loro seconda dose di i vaccini mRNA COVID-19”. Sarebbero accettabili lavorare stando in piedi, fare i mestieri domestici, camminare e fare stretching, ma se lo sforzo fisico aumenta allora in quel caso sarebbe meglio evitarlo. La raccomandazione della Salute israeliana giunge a seguito di uno studio che è stato pubblicato mercoledì scorso, 6 ottobre 2021, e che mostra come una dose di vaccino Pfizer aumenti il rischio di infiammazione cardiaca, anche se i casi emersi sono stati molto pochi, e tutti riguardanti giovani maschi. “Raccomandiamo a tutti – si legge ancora nel documento del Ministero – in particolare agli adolescenti e ai giovani di età inferiore ai 30 anni, di evitare attività faticose, come l’esercizio fisico intenso, per una settimana dopo la prima e la seconda dose”. Nel documento viene inoltre specificato che gli atleti professionisti potrebbero pensare di “ridurre il loro livello di esercizio” durante la settimana successiva il vaccino, considerando esercizi di bassa intensità. In ogni caso, un membro della Divisione di epidemiologia del Ministero della Salute ha spiegato che la maggior parte dei colleghi del comitato risulta contraria a questo divieto, di conseguenza è probabile che questa raccomandazione possa non trovare applicazione concreta.
(ilsussidiario.net, 9 ottobre 2021)
Operatrice vaccinata contagia 14 disabili: tutti asintomatici e in quarantena
Un focolaio Covid è scoppiato alla Residenza sanitaria per disabili San Germano di Varzi. Una operatrice, nonostante fosse stata vaccinata nella primavera scorsa, ha contagiato quattordici ospiti disabili di età compresa tra 18 e 50 anni. Anche costoro tutti vaccinati. Ad oggi la dipendente Asa si trova a casa in quarantena e gli ospiti, tutti asintomatici, sono isolati all’interno della struttura. Ats, che ha avviato l’indagine epidemiologica, sta monitorando la situazione di giorno in giorno. Quello della residenza per disabili San Germano, che assiste 40 persone e si aggiunge alla casa di riposo, che conta 107 anziani, è uno dei tre focolai che hanno colpito la provincia di Pavia. Gli altri due 2 si trovano in due imprese lavorative. Il numero complessivo di casi associati ai tre focolai è 23 (minimo di 4 e massimo 15).
• La dipendente positiva al virus
Non aveva sintomi l’operatrice Asa (che fa assistenza agli disabili) in forza alla Residenza San Germano di Varzi. Ha scoperto di essere positiva al virus in seguito a un controllo come tanti, che la Rsd promuove puntualmente. «Facciamo screening quotidiani, sia al personale che agli ospiti – spiega Nicoletta Marenzi, direttrice della struttura –. Anche in questo caso la dipendente è stata sottoposta a tampone rapido, materiale che ci viene fornito da Ats anche per i ricoverati e, con sua sorpresa, è risultata contagiata dal Covid. L’operatrice era stata vaccinata nel marzo scorso, quindi il virus l’ha colpita in modo lieve. Il vaccino si è rivelato comunque importante, se non indispensabile per evitare una situazione ben peggiore».
• Tamponi a tappeto
Non appena è arrivato il risultato del test sulla operatrice Asa, la struttura ha provveduto a sottoporre a tampone (che attraverso un apposito processore può comunicare subito l’esito) tutti gli ospiti disabili. E 14 sono risultati contagiati. Si tratta di persone di età tra 18 e 50 anni, ma prevalentemente ragazzi: tutti vaccinati e asintomatici. Al tampone rapido è seguito quello molecolare, che ha confermato la diagnosi. La situazione è stata subito comunicata ad Ats, che ha avviato l’indagine epidemiologica. La dipendente è stata mandata a casa, dove si trova tuttora in quarantena (fra 10 giorni dovrà ripetere il tampone), mentre le persone contagiate sono state isolate in un’ala della struttura, pure loro in quarantena.
«La situazione è sotto controllo: ad oggi facciamo tamponi quotidiani sia al personale che alle persone a cui garantiamo assistenza – assicura Marenzi –. Gli ospiti non corrono alcun rischio. Fortunatamente, grazie al vaccino, a cui sono stati sottoposti tutti quanti, possiamo sentirci tutelati da un eventuale aggravamento delle condizioni. Se sottoporremo alla terza dose i nostri ricoverati e sanitari? Certamente, ma non prima di averne valutato il titolo anticorpale».
(la Provincia Pavese, 8 ottobre 2021)
Conclusione: i vaccinati possono contagiare ed essere contagiati. Secondo la direttrice (e non solo) il beneficio del vaccino sarebbe che senza di esso la situazione dei contagiati sarebbe stata "ben peggiore". Ma questo è tutto da dimostrare. Soprattutto pochi giorni dopo che è stato riscontrato il contagio. Potrebbe anche essere che i vaccinati siano stati contagiati da una vaccinata proprio perché anche loro erano vaccinati. Per "simpatia" tra vaccini. Chi può "scientificamente" escluderlo? Tra le congetture degne di una scienza sperimentale che si rispetti c'è anche quella che un non vaccinato avrebbe potuto non essere contagiato. M.C.
Lo strano caso dei “malori improvvisi
di Paolo Becchi e Giovanni Zibordi
Oggi Svezia e Danimarca hanno fermato la vaccinazione con Moderna dei giovani a causa del numero e gravità dei “casi avversi”. Evidentemente la” correlazione” tra i problemi cardiaci dei giovani e i vaccini Covid nei paesi scandinavi esiste per davvero e viene presa sul serio. Anche l’Irlanda in agosto aveva fermato la vaccinazione con Johnson & Johnson lo stesso giorno in cui un noto calciatore, Roy Butler, era morto improvvisamente 4 giorni dopo l’iniezione. Nel caso di Butler si era trattato di una emorragia cerebrale. Nel caso della studentessa ligure Camilla Canepa
(diciotto anni) l’autopsia ha stabilito che la causa era una emorragia cerebrale. Ogni giorno ci sono nel mondo e anche in Italia se uno spulcia le cronache locali, casi di giovani sani morti per “malore improvviso”, spesso in casa o anche nel sonno. Nel caso del giovane di Biella di 17 anni morto nel sonno, il magistrato di turno prima ha ordinato una autopsia e poi l’ha cancellata perché il malore era “compatibile con le condizioni di vita del ragazzo.
Si tratta di morti improvvise di giovani privi di patologie, che hanno in comune una cosa sola: si erano vaccinati negli ultimi due mesi. E se allarghiamo ai 30enni, 40enni e 50enni la lista è molto più lunga, ogni singolo giorno nei puoi trovare. Non c’è correlazione? La “correlazione” esiste innanzitutto statisticamente, perché non è mai successo che si vedessero dozzine di morti per “malore improvviso”. In UK è possibile trovare una statistica dei morti sotto i 19 anni nel 2021 e sono maggiori di circa 150 rispetto al 2020. In un precedente su questo sito abbiamo evidenziato che a livello europeo secondo EuroMoMo (osservatorio europeo) la mortalità sotto i 60 anni è maggiore di quasi 16mila decessi rispetto al 2020. Ci sono famiglie che pubblicano l’epitaffio online e citano espressamente la vaccinazione come causa di morte, come nel caso della trentenne Jessica Berg Wilson, di cui si è parlato online perché era una donna che si era espressa contro il vaccino, è stata obbligata a farlo per lavoro ed è morta subito dopo.
(nicolaporro.it, 8 ottobre 2021)
Hamas pensa a cosa fare "quando Israele sparisce"
Una conferenza di Hamas a Gaza per decidere cosa fare con gli ebrei "dopo la vittoria".
di Daniele Raineri
ROMA - Alla fine di settembre c'è stata a Gaza una conferenza sponsorizzata dal gruppo palestinese Hamas per parlare di "cosa fare quando Israele sparirà". La conferenza ha pubblicato un documento finale per spiegare con una lista di punti che è necessario prepararsi alla fine dell'esistenza di Israele sotto l'aspetto pratico e amministrativo.
Alcuni dei punti riguardano la moneta corrente, che sostituirà quella israeliana, i trattati internazionali con i vicini come Egitto e Giordania, che per qualche tempo non saranno modificati perché è più comodo lasciarli cosi come sono, e i criteri per ridistribuire edifici, case e proprietà fra i palestinesi. Una dichiarazione, dice il testo che riassume i lavori della Conferenza, sarà inviata alle Nazioni Unite per annunciare che lo stato palestinese prende il posto di Israele secondo la Convenzione di Vienna del 1978 che regola la successione degli stati.
Altri punti della lista riguardano cosa fare con gli ebrei e distingue tra quelli che devono essere uccisi e quelli che non devono essere uccisi. Gli ebrei che combattono devono essere uccisi. Quelli che non combattono e fuggono possono essere lasciati in vita per poi se è il caso essere perseguiti con accuse penali. Gli ebrei pacifici che si consegnano di loro spontanea volontà possono restare e integrarsi oppure possono godere di un po' di tempo per lasciare il paese. Non tutti però, perché, come dice il testo finale della Conferenza: "Gli ebrei istruiti e gli esperti in medicina, ingegneria, tecnologia e industria civile e militare devono essere trattenuti in Palestina per qualche tempo e non gli si può permettere di partire e di portare con sé la competenza e l'esperienza che hanno acquisito mentre vivevano nella nostra terra".
Il documento continua: "Nel minuto stesso del collasso di Israele, gli apparati di sicurezza ad interim devono mettere le mani sui dati.
Quelli che riguardano gli agenti dell'occupazione in Palestina, nella regione e in tutto il mondo, e scoprire i nomi dei reclutatori, ebrei e non ebrei, nel paese e all'estero. Queste informazioni preziose non devono essere perse, per ripulire le terre palestinesi, arabe e musulmane da questa schiuma che sparge corruzione". In breve: gli organizzatori della Conferenza raccomandano di impadronirsi dei dati e degli archivi dell'intelligence israeliana, che interessano a molti. Se si considera che Hamas riceve finanziamenti diretti da parte dell'Iran, è facile vedere perché si allarga il discorso "a tutte le terre musulmane". E' molto probabile che a ispirare la Conferenza ci sia anche il collasso brutale dell'Afghanistan, dove il governo è scappato ed è stato rimpiazzato dai tal ebani - collasso che del resto Hamas ha celebrato con messaggi di congratulazioni. Tuttavia questa conferenza è organizzata da un istituto "per il dopo Israele" di Gaza che è stato fondato nel 2014.
La dichiarazione finale è un evento interessante perché di Hamas si parla soltanto durante gli occasionali round di guerra, ma questo concetto - che non c'è da negoziare con Israele perché sarà distrutto dalla guerra - è il pilastro ideologico del gruppo. Secondo i sondaggi, Hamas in alcune aree palestinesi gode di un buon consenso fra gli elettori in caso di voto.
Il Foglio, 8 ottobre 2021)
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Così Hamas si prepara alla distruzione di Israele: "Questi ebrei andranno uccisi, quelli possono rimanere"
Il 30 settembre a Gaza una Conferenza per pianificare i passi da compiere dopo la "conquista" dei territori israeliani. Chi non ha combattuto potrà lasciare il paese, "ma gli esperti in medicina, ingegneria, tecnologia e industria civile devono rimanere in Palestina e non può essere permesso loro di partire portando con sé le competenze che hanno acquisito mentre vivevano nei nostri territori”.
di Sharon Nizza
GERUSALEMME - Il 30 settembre a Gaza c’è stata una conferenza organizzata con la sponsorizzazione di Hamas, “La promessa dell’Aldilà – La Palestina dopo la liberazione”. Il tema era prepararsi al momento in cui Israele sparirà perché evidentemente la lotta armata condotta dalla stessa organizzazione avrà avuto la meglio. La conferenza ha pubblicato poi un lungo elenco di atti e passi da compiere, una guida al mondo post-Israele. I lavori hanno definito anche una agghiacciante lista dei comportamenti da tenere con i cittadini di Israele, “cosa fare con gli ebrei”: quelli che hanno combattuto devono essere uccisi. Quelli che non combattono e scappano via possono essere lasciati in vita, magari in un secondo momento andranno processati. Infine, quelli pacifici che si arrendono possono rimanere nei territori conquistati da Hamas e integrarsi, oppure attendere del tempo e lasciare poi il paese. Ci saranno però alcuni ebrei che saranno costretti a restare, perché utili al governo del territorio, “gli ebrei esperti in medicina, ingegneria, tecnologia e industria civile: devono rimanere in Palestina e non può essere permesso loro di partire portando con sé le competenze che hanno acquisito mentre vivevano nei nostri territori”. Issam Adwan, il presidente del comitato che ha preparato la conferenza, ha detto che le conclusioni della conferenza verranno presentate alla leadership di Hamas. E uno dei leader di Hamas, ha portato ai lavori il saluto di Yahia Sinwar, capo del movimento nella Striscia di Gaza. “Noi sosteniamo questa conferenza perché è in linea con le nostre valutazioni secondo cui la vittoria è vicina, la liberazione totale della Palestina dal mare al fiume (dal Mediterraneo al fiume Giordano, ndr) è al centro della visione strategica di Hamas.” Al punto 18 dei 20 punti che riassumono le conclusioni finali della conferenza, ci sono anche le istruzioni su come comportarsi “nel momento in cui Israele collassa”: l’idea è che “dobbiamo mettere le mani sui dati degli agenti dell’Occupazione in Palestina, nella regione e in tutto il mondo, dobbiamo scoprire i nomi dei reclutatori, ebrei e non-ebrei, nel paese e nella regione. Queste informazioni essenziali non devono essere perdute, per ripulire la Palestina e il mondo arabo e il mondo islamico dalla schiuma ipocrita che ha diffuso corruzione nella nostra terra”. I ricercatori di Memri, il centro israeliano che esamina i documenti prodotti nel mondo arabo e palestinese, fanno notare anche che Mahmoud al Zahar, membro dell’ufficio politico di Hamas, in una intervista al quotidiano Filastin ha ripetuto che “il popolo palestinese e l’intera nazione islamica sono alla vigilia della battaglia finale in cui Libano, Siria e Giordania dovranno partecipare. La loro partecipazione metterà fine all’occupazione in un solo giorno. Il contrasto con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas e Fatah è che loro vogliono un accordo con la parte occidentale della Palestina per gli ebrei e quella orientale per i palestinesi. Noi non vogliamo cedere un solo centimetro della nostra terra”. Un’ennesima conferma del fatto che Hamas continua a mantenere nei suoi piani la distruzione dello Stato di Israele come obiettivo strategico.
(la Repubblica, 8 ottobre 2021)
Israele, cluster in corsia: il 95% era vaccinato
Il contagio, partito da un paziente, ha coinvolto 41 persone. Cinque i ricoverati morti. I fatti risalgono a luglio. Asintomatici gli operatori sanitari.
di Sarina Biraghi
C'è un caso emblematico che conferma come, malgrado vaccino e mascherina, il Covid possa essere contagioso addirittura in ospedale. E accaduto lo scorso luglio al Meir MedicaI Center di Kfar Saba, in Israele dove un paziente in dialisi ha dato il via a un focolaio che ha coinvolto 41 persone, tra pazienti, personale ospedalìero (che indossava la mascherina) e familiari. Ben 39 dei contagiati (il 95%) erano completamente vaccinati, tutti da oltre cinque mesi. Soltanto tre non erano stati inoculati. Gli operatori sanitari sono rimasti asintomatici mentre cinque pazienti con malattie pregresse sono morti. L'ospedale israeliano dispone di 780 posti letto e la maggior parte delle stanze può ospitare tre o quattro pazienti.
Da marzo del 2020, ai pazienti è stato suggerito di indossare la mascherina chirurgica e, benché non tutti lo abbiano fatto, durante le visite mediche era obbligatorio sia per il paziente che per il personale medico. Infatti nei reparti Covid i sanitari hanno sempre indossato mascherine N-95, visiera, camice, guanti e copertura per capelli. A raccontare quanto è successo nel Meier Medicai Center uno studio pubblicato su Eurosurveillance. La rivista europea sulla sorveglianza, l'epidemiologia, la prevenzione e il controllo delle malattie infettive. Secondo l'analisi, non significa che i vaccini non funzionano ma è evidente che a soffrire di più sono stati i pazienti anziani, ospedalizzati e con malattie pregresse, mentre medici e infermieri, più giovani, sono rimasti per lo più asintomatici. Lo studio spiega nel dettaglio come è stata condotta l'indagine epidemiologica per identificare il caso indice e le altre persone rimaste contagiate dopo che un operatore sanitario era risultato positivo. Il caso indice era un paziente in emodialisi completamente vaccinato di 70 anni ricoverato a metà luglio con febbre e tosse, ospitato in una stanza con altri tre pazienti.
«Nonostante la popolazione esposta al virus fosse altamente vaccinata, l'infezione si è diffusa molto rapidamente e molti casi sono diventati sintomatici entro due giorni dall'esposizione, con carica virale elevata» scrivono gli autori dello studio che confermano come il vaccino sia meno efficace contro l'infezione da Delta e l'immunità cali nel tempo, arrivando a smentire che il mix tra vaccini e mascherine possa bastare per proteggerli dal Covid. «Non possiamo escludere che le misure di protezione non siano state indossate in modo ottimale, tuttavia, la trasmissibilità nell'estate 2021 differisce dalle nostre esperienze nei 18 mesi precedenti» aggiungono gli autori, che concludono: «I dati provenienti da Israele segnalano che la ragione principale dell'aumento dei casi di Covid-19 in estate può essere attribuito alla diminuzione dell'immunità e una terza dose di vaccino, cinque mesi dopo la seconda dose, potrebbe comportare un'inversione di tendenza in particolare negli individui con fattori di rischio grave».
(La Verità, 8 ottobre 2021)
Israele, Ministero Salute ai neo vaccinati: “Non fate attività fisica”. Sono a rischio miocardite
Nelle ultime ore, il Jerusalem Post ha riportato che, a causa dell’aumento del rischio miocardite dopo la vaccinazione mRna, il Ministero della Salute israeliano potrebbe chiedere ai neo vaccinati di non praticare attività sportiva ed esercizi faticosi per almeno una settimana. Dopo l’ultimo studio, pubblicato mercoledì sera, sull’aumento del rischio miocardite dopo la vaccinazione Pfizer, infatti, alcuni funzionari sanitari della Divisione di epidemiologia del Ministero della Salute ritengono sia opportuno raccomandare che le persone “evitino attività faticose per una settimana dopo la loro seconda dose di vaccini COVID19”.
Secondo l’orientamento dei funzionari del comitato consultivo ministeriale, sarebbero invece ammesse attività non troppo faticose come camminare, fare stretching, lavorare in piedi e i lavori domestici. La proposta verrà esaminata nella prossima riunione del comitato consultivo ministeriale.
(stopcensura.online, 8 ottobre 2021)
L'Ucraina ricorda la "Shoah dei proiettili", 100mila ebrei e oppositori politici massacrati dai nazisti
A mezz'ora da Kiev c'è la più grande fossa comune d'Europa, testimonianza di una delle pagine più nere del genocidio nazista nell'Europa dell'Est che i sovietici fecero di tutto per tenere nascosto. "Siamo qui per ricordare non solo il crimine del massacro, ma anche quello dell'obliterazione della memoria", dice il presidente israeliano Herzog nella cerimonia per l'ottantesimo anniversario del massacro.
di Sharon Nizza
KIEV - "Ci hanno portato in una zona fuori Kiev, un viaggio di circa mezz'ora. Ho notato enormi pile di vestiti. Siamo scesi e ci hanno fatto bere alcol. Poi ho visto un gigantesco fossato, sembrava un fiume prosciugato, in cui giacevano diversi strati di cadaveri. Gli ebrei si dovevano sdraiare sui cadaveri e li fucilavamo alla nuca. Io sono stato di turno cinque o sei volte, ogni volta per dieci minuti. Siamo andati avanti fino alle 15:00, poi siamo stati riportati ai nostri alloggi e abbiamo pranzato. È possibile che quel giorno abbia sparato a circa 150, 250 ebrei. L'intera sparatoria si è svolta senza incidenti. Gli ebrei erano rassegnati al loro destino come agnelli". Le parole sono di Viktor Trill, membro cecoslovacco della Gestapo, durante il processo per crimini di guerra a Darmstadt, Germania Ovest, nel 1967.
- L'eccidio alla vigilia dello Yom Kippur Assolto, come quasi tutti tra i pochi nazisti che vennero portati in giudizio per il loro ruolo nella "Shoah dei proiettili". Padre Patrick Desbois ha così rinominato la pagina nera del genocidio nazista che ha sterminato 2,5 milioni di ebrei nell'Est Europa e con i suoi studi ha documentato anche "la partecipazione di soldati italiani, accanto alla Wermacht, alle fucilazioni di ebrei in Ucraina orientale. Alcuni tra questi soldati furono poi fucilati dai nazisti dopo il '43 e dimenticati in fosse comuni". Il presbitero francese è il direttore accademico del Memoriale della Shoah che sta prendendo forma a Babij Jar, in quello stesso fossato della morte descritto da Trill, una delle testimonianze scoperte da Desbois in un lavoro trentennale volto a dare un nome e un viso a migliaia di vittime mai identificate e ai loro carnefici. La più grande fossa comune d'Europa oggi è un parco in un'area residenziale della Kiev moderna, luogo di svago per i locali, risultato dell'operazione sovietica di annichilimento della memoria della Shoah. Un doppio crimine che mercoledì è stato al centro di una cerimonia senza precedenti sul suolo ucraino, alla simbolica presenza dei presidenti ucraino, israeliano e tedesco, nel ricorrere degli 80 anni dall'eccidio. Era il 29 settembre 1941, vigilia dello Yom Kippur, quando i nazisti - da poco occupata Kiev, già abbandonata da 100,000 ebrei con l'inizio dell'operazione Barbarossa - massacrarono nell'arco di 48 ore, scandite da fucilazioni senza sosta, 33,771 ebrei. Un numero che emerge dai rapporti nazisti che con burocrazia maniacale registravano i propri crimini e che rappresenta l'inizio della fase attuativa della soluzione finale. In tre anni, a Babij Jar furono fucilate altre 70mila vittime: ebrei, oppositori politici, zingari e disabili. Poi, il silenzio. "Siamo qui per ricordare non solo il crimine del massacro, ma anche quello dell'obliterazione della memoria", ha detto il neopresidente israeliano Itzhak Herzog, che ha scelto Kiev per la sua prima missione estera. "Sono nato e cresciuto a un miglio da questa enorme fossa comune, di cui non sapevamo nulla. Venivamo qui a giocare", testimonia Natan Sharansky, direttore del board del Memoriale, nove anni recluso in un gulag da dissidente politico nell'Urss. A rompere il codice del silenzio nel 1961 il poema - subito censurato dai sovietici - di Yevgeny Yevtushenko (Non c'è nessun monumento a Babij Jar), tradotto poco dopo da Dmitri Shostakovich della Sinfonia n. 13, sulle cui note si è aperta la cerimonia. "Questo luogo più di ogni altro simboleggia lo sforzo sovietico di cancellare l'identità ebraica. Ma dopo Yevtushenko, mio padre mi disse: "finalmente posso raccontarti'", continua Sharansky. Il suo primo arresto avvenne proprio mentre si stava recando a Babij Jar per una commemorazione clandestina organizzata da giovani sionisti.
- La cancellazione sovietica dell'identità ebraica Il silenzio è il tema ricorrente nei racconti di tanti presenti alla cerimonia. Rimma Kushnir accende in un angolo una candela commemorativa davanti ai ritratti dei suoi bisnonni. "Una volta all'anno vengo a Babij Jar a ricordare la mia famiglia. In genere c'è gente che fa yoga, jogging, nessuno sa cosa è accaduto qui. Ma le cose stanno cambiando. Questo evento è incredibile, mi commuove nel profondo". Marina Elgart Vorobeichik è nata a Kiev e in età adulta si è trasferita in Israele. Suo padre Ilia (all'epoca 6 anni) e sua nonna Nadia furono tra i pochissimi superstiti (se ne contano meno di 30) dell'eccidio di Babij Jar. La loro testimonianza è riportata ne Il Libro nero in cui Vasilij Grossman documentò le atrocità dei nazisti e dei collaborazionisti dopo l'invasione dell'Unione Sovietica - che ne vietò subito la pubblicazione. Il proiettile li schivò e nella notte trovarono la forza di riemergere dalla massa di cadaveri - tra cui 26 membri della loro famiglia - sotto cui erano sepolti. "Da bambina non sapevo nulla, mio padre ci portava a Babij Jar per i grandi eventi. Ho una foto di mia sorella in abito da sposa poco prima della cerimonia. Solo più tardi ho capito che era la sua vittoria sui nazisti". A piazza Maidan, simbolo della rivoluzione arancione, c'è in questi giorni una piccola mostra che racconta l'orrore di Babij Jar. Anche se in pochi si soffermano, Marina non nasconde le lacrime. "Pannelli del genere nel centro di Kiev? È un evento senza precedenti". Sullo sfondo della commozione, un altro silenzio, sul ruolo dei collaborazionisti e dei delatori ucraini, che per ora resta un tabù. "Il fatto che l'Ucraina incoraggi la memoria della Shoah non è scontato", ci dice Dani Dayan, presidente di Yad Vashem. "L'Ucraina è entrata 30 anni fa nella famiglia delle democrazie. Ma uno dei principi di una democrazia fervente è guardare al proprio passato con consapevolezza e senza sconti e su questo fronte c'è ancora strada da fare. L'Ucraina non è l'unica".
(la Repubblica, 8 ottobre 2021)
Condannata per frode e falso Hanin Zoabi, la pasionaria anti-israeliana della Knesset
di Ugo Volli
Chi segue un po’ la politica israeliana certamente si ricorda di Hanin Zoabi, che è stata per una decina d’anni, dal 2009 al 2019, la più nota deputata alla Knesset del partito arabo Balad, nazionalista di sinistra, dal 2015 confluito nella lista araba unitaria. Laureata all’Università di Gerusalemme in comunicazione, la Zoabi ha sfruttato la sua competenza sui media per richiamare l’attenzione su di sé e sulla propaganda antisraeliana che le interessava. Ha più volte fatto scandalo, sostenendo l’armamento nucleare iraniano, incontrandosi pubblicamente con le famiglie dei terroristi, dando la sua approvazione del rapimento dei tre studenti del 2014, che poi si concluse con la loro uccisione. Il suo gesto più clamoroso fu la partecipazione nel 2010 alla flottiglia turca che cercò di forzare il blocco navale di Gaza, proprio sulla nave “Mavi Marmora” che fu teatro del tentativo di linciaggio dei militari israeliani saliti a bordo per prenderne il controllo secondo la legge internazionale. Le sue provocazioni portarono due o tre volte a un voto della commissione di controllo delle candidature alla Kneset che decise di escluderla dalle liste elettorali secondo la legge, in quanto legata al terrorismo; ma poi questa decisione venne sempre annullata dalla Corte Suprema. Alla fine Zoabi non venne più ripresentata dal suo partito nelle elezioni dell’aprile del 2019, né a quelle successive. Molti se ne chiesero la ragione, senza che emergesse una risposta precisa.
Adesso però la storia si è chiarita. Zoabi e altri 12 imputati, alcuni dei quali ex alti funzionari del partito Balad, sono stati condannati lunedì dalla corte distrettuale di Nazareth per reati di frode e falso, relativamente ai finanziamenti elettorali della loro lista.. La condanna è il risultato di un patteggiamento in cui gli imputati si sono dichiarati colpevoli dei reati loro contestati e accettando condanne concordate con l’accusa, comprese pene detentive che saranno eseguite nei servizi sociali, libertà vigilata e sanzioni pecuniarie varie. Le accuse di corruzione si riferiscono ad azioni fraudolente commesse durante la campagna elettorale del partito politico arabo-israeliano del 2013, dopo la quale i fondi raccolti dal partito sono stati riportati in maniera scorretta.
Il partito Balad è stato riconosciuto colpevole di aver riferito che poco meno dell’equivalente di un milione di euro era stati donati da centinaia di donatori in Israele, quando in realtà i fondi vennero ricevuti da altre fonti, sia in Israele che all'estero, compresi dei paesi arabi. Il tribunale non ha reso pubblici quali siano questi stati, ma è facile immaginarlo: un leader precedente del partito e deputato alla Knesset, Azmi Bishara, cui Zoabi è molto legata, indagato per spionaggio fuggì da Israele ed è vissuto fra Siria e Qatar. Secondo la condanna, i funzionari del partito hanno falsificato migliaia di ricevute e fabbricato un elenco di donatori inesistenti per rispettare le leggi finanziarie elettorali. La maggior parte delle attività fraudolente ha avuto luogo nel 2013, ma la contraffazione è continuata per tutto il 2016.Oltre alla violazione della legge elettorale, i membri del Balad hanno commesso una serie di reati finanziari, tra cui riciclaggio di denaro, false segnalazioni, contraffazione, e numerose violazioni della legge sul finanziamento dei partiti politici. Altri 35 funzionari sono stati arrestati e interrogati in relazione al caso di corruzione.
(Shalom, 8 ottobre 2021)
La missione di mettere ordine: l’imitatio dei del Nobel Giorgio Parisi
di Rav Scialom Bahbout
Le polemiche che hanno accompagnato la pandemia e poi la somministrazione dei vari vaccini prodotti da vari centri di ricerca e l’attribuzione del Nobel per la Fisica a Parisi hanno nuovamente rilanciato la riflessione su quale debba o possa essere la relazione tra Ebraismo e Scienza. Per quanto riguarda l’ultimo premio Nobel per la Fisica, mi sembra che l’argomento che lo ha appassionato sia nell’alveo di quella che possiamo considerare una tradizione ebraica. Scrive Giorgio Parisi, che ebbi la ventura di incrociare anni fa nei miei studi alla Facoltà di Fisica di Roma, che “la passione della mia vita è stata mettere ordine nel caos”. Da qui la passione per la ricerca. Proprio in queste settimane abbiamo appena letto nel testo biblico “ la terra era tohu vavohu”, cioè un caos. Viene quindi da pensare che l’uomo, la cui creazione a “immagine divina” viene narrata successivamente abbia tra l’altro tra i propri compiti anche che quello di mettere ordine nella natura. Questo vale per il mondo fisico, ma anche per quello della società dove ci sono spesso cellule impazzite che creano disordine. L’interesse dell’ebraismo per la scienza è dovuto proprio alla missione iniziale assegnata all’uomo: penso che la presenza di molti ebrei tra i vincitori del premio Nobel, specie nel campo della Fisica, sia in parte dovuta a una delle caratteristiche fondamentali della tradizione ebraica: lo studio della Torà come prioritario rispetto a molti altri precetti.
E’ innegabile che l’uscita dai Ghetti sia stata vissuta come una opportunità proprio per entrare a pieno titolo nel mondo in generale e in quello della scienza in particolare. Il fatto di porre lo studio al centro della vita quotidiana ha fatto sì che l’applicazione continua allo studio influisse nelle scelte e poi nei successi delle persone che si sono dedicate alle scienze. Quando si parla di studio tuttavia la domanda che si pongono i Maestri è se si debba intendere solo “studio della Torà” o anche studio delle altre materie e in particolare delle scienze e delle arti che non sono immediatamente riconducibili alla Torà. Il dibattito su questo tema è sempre stato molto ampio e dura tuttora.
Già Rabbi Ishmael e Rabbi Shimon Bar Yochai discutono (Talmud Berakhot 35b) su questo tema ed esprimono due posizioni contrastanti: il primo sostiene che lo studio della Torà debba essere accompagnato anche dalle attività “profane” per le quali bisogna comunque avere acquisto le capacità tecniche necessarie per avere successo; il secondo ritiene che se l’uomo dedicasse tutto il proprio tempo al soddisfacimento delle esigenze mondane, non gli rimarrebbe tempo per lo studio della Torà. La conclusione del Talmud è che comunque poche sono le persone che hanno seguito l’insegnamento di Rabbi Shimon Bar Yochai e che abbiano avuto successo nella propria vita: mentre per la maggior parte delle persone lo studio deve essere accompagnato sempre da un’attività e quindi dallo studio necessario per poterla applicare. Questa divisione in due settori dello studio e della sua applicazione non può essere giustificata da chi ritiene invece che la Torà debba dare risposte a tutti gli aspetti dell’esistenza. Questa è un’altra faccia di quella che viene considerata la distinzione tra cioè che è considerato kòdesh (sacro) e ciò che definiamo per comodità chol (mondano, profano). Tutti i settori della vita ebraica che trovano espressione nella Halakhà necessitano di una conoscenza ampia in tutte le direzioni e per questo lo stesso Sinedrio doveva conoscere tutte le scienze per poter prendere la decisione giusta caso per caso. La conoscenza dei principi della Fisica è necessaria per decidere se e a quali condizioni determinati strumenti che funzionano utilizzando l’energia elettrica, possono essere usati di shabbat. Quindi anche oggi un Posèk, un Maestro che risponde a quesiti di Halakhà, per dare un parere su questioni che riguardano la fisica, l’astronomia, la botanica, ecc, si rivolge ad esperti, che è opportuno siano ebrei e osservanti, in quanto più consapevoli e sensibili alle decisioni che verranno assunte. Tutto ciò che viene classificato come chol, in realtà è una manifestazione a un livello diverso di santità e sta all’uomo elevarlo. Dedicare il proprio tempo a quelle che la tradizione classifica come Hochmòth hizzoniòt (sapienze esterne) sarebbe quindi non solo legittimo ma doveroso. Lo studio delle leggi che regolano la natura è quindi essenziale per creare le condizioni necessarie per garantire un miglioramento delle condizioni di vita, secondo quanto è scritto nella Genesi “Dio li benedisse e disse loro prolificate e moltiplicatevi, riempite la terra e conquistatela.” Questa ultima operazione è possibile solo se si è in grado di conoscere le leggi che regolano il creato e la possibilità di riprodurle. Dedicare il proprio tempo allo studio e allo sviluppo delle scienze è in ultima analisi una forma di Kiddush Hashem, santificazione del Nome, in quanto è proprio ciò che Hashem si aspetta dall’umanità.
(Kolòt, 7 ottobre 2021)
Nella molto discussa relazione tra Torà e scienza in campo ebraico, e tra fede e scienza in campo cristiano, il problema si pone quando si presenta la cosiddetta "scienza" (nome che pronunciato da solo può dare l'idea di un'entità sovrumana) come se fosse il sostituto di Dio, anzi come l'unico vero dio a cui sottostare. L'idolatria ha molte forme. M.C.
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Se i razzisti, quelli veri, parlano da antirazzisti
Nirenstein smonta le tesi di chi alimenta l'odio per gli ebrei in nome dei diritti umani.
di Alessandro Gnocchi
L'accusa di razzismo è forse la più infamante e comporta l'esclusione dal dibattito pubblico. Ma... Un tempo l'antirazzismo era la sacrosanta protezione delle razze perseguitate. Ora ha cambiato direzione, si è espanso, ha conquistato territori sempre più ampi e dai confini generici. I razzisti veri parlano oggi la lingua degli antirazzisti (falsi). In nome dei diritti umani, gli antirazzisti falsi si comportano proprio come i razzisti veri più violenti: linciaggi mediatici, cause giudiziarie, distruzione della libertà d'espressione... Per questo è così difficile combattere il razzismo, specie l'antisemitismo. Nella agenda dei falsi antirazzisti, è razzista rifiutare il burkini, è razzista chiedersi quali siano i benefici dell'immigrazione, è razzista difendere il diritto alla continuità storica per l'Italia e l'Europa. Tutti argomenti sui quali si può (si deve) dibattere senza correre il rischio di essere squalificati come razzisti.
\ Gli antisemiti oggi si nascondono dietro all'antirazzismo. Ci dicono: Israele è razzista nei confronti dei palestinesi. Israele è lo Stato degli ebrei. Quindi gli ebrei sono razzisti ed eredi del vecchio colonialismo europeo. È un falso sillogismo. Ma funziona e scatena l'antisemitismo. Così l'Europa diventa un posto sempre meno sicuro per gli ebrei, un posto dove sedicenti associazioni per la pace bruciano la bandiera di Israele nelle piazze. Nel frattempo, in America, movimenti come Black Lives Matter, partendo da una giusta rivendicazione, deragliano nell'odio per il bianco e non ripudiano certo le maniere spicce.
In Francia, autori come Pascal Bruckner, Pierre-André Taguieff e Alain Finkielkraut, figlio di sopravvissuti alla Shoah, ma comunque accusato di sionismo razzista, hanno cercato di smontare questo micidiale meccanismo linguistico, costruito per celare, appunto, il vero razzismo dietro alle litanie sui diritti umani. Ad esempio, Taguieff ha detto a questo giornale parole illuminanti: «Essere antirazzista nella vita sociale ordinaria significa prendere posizione contro gli incitamenti all'odio, al disprezzo, all'esclusione o alla violenza nei confronti di certe persone, a causa delle loro appartenenze o delle loro origini. Ma il presunto nuovo antirazzismo, chiamato anche antirazzismo politico dagli ideologi del decolonialismo, non è altro che una macchina da guerra contro i bianchi e la società bianca». L'antirazzismo politico esercita una critica radicale ma suicida contro l'Occidente. È erede di Karl Marx, non di Martin Luther King, perfino quando crede il contrario.
Ora anche l'Italia, finalmente, porta un contributo al dibattito con il prezioso libro di Fiamma Nirenstein, Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo (Giuntina, pagg. 126, euro 10). Non è una difesa d'ufficio di Israele, semmai è una difesa ben argomentata, passo dopo passo, data dopo data, guerra dopo guerra. Terminata la lettura, non si possono mettere in discussione l'esistenza di Israele e il suo diritto a difendersi, anche con la deterrenza. Il libro va ben oltre, alla radice del problema. Come è possibile che gli ebrei siano accusati di razzismo, dopo aver subito l'oltraggio della Shoah? Spiega Nirenstein: «Molte delle manifestazioni di odio antiisraeliano che hanno un evidente aspetto antisemita hanno il loro motivo nel fatto che i movimenti filopalestinesi odierni hanno trovato, specie in America ma anche in Francia tramite il nesso islamico, un legame concettuale col tema dell'ingiustizia razziale, del razzismo coloniale, della persecuzione dei neri e delle donne nella storia. Per quanto gli ebrei solo da un osservatore molto distratto e manipolatore possano essere identificati con l'oppressore bianco o maschio, questo è proprio ciò che è accaduto. È stata la cosiddetta intersezionalità per i diritti umani il concime dell'ondata di antisemitismo attuale». Ecco qua, la saldatura errata, il trucco linguistico, la confusione lessicale fra il biasimo verso gli ebrei e l'esaltazione dei diritti umani: in un battibaleno i veri razzisti si camuffano da (falsi) antirazzisti. In realtà, per trovare un desiderio esplicito di genocidio, non si deve cercare in Israele ma tra i suoi nemici. Il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha condannato Israele in totale 95 volte. Uguale attenzione non è stata riservata all'abuso dei diritti, all'oppressione islamista, allo Statuto di Hamas, che invita a spazzare via Israele, prima tappa per soggiogare l'Occidente. Cosa sarebbe oggi la Striscia di Gaza se i leader politico-religiosi, invece di comprare missili, avessero investito nello sviluppo le centinaia di milioni di aiuti internazionali?
Il libro di Nirenstein è anche rivolto agli amici, che tentennano di fronte al pericolo di essere indicati come fiancheggiatori di uno Stato accusato di non rispettare i diritti umani. Sono amici di destra e di sinistra, a ulteriore riprova che antichi schemi sono saltati. Ma il problema è ancora vivo e non riguarda soltanto gli ebrei e il risorgere dell'antisemitismo. La battaglia culturale, per i veri diritti umani, riguarda tutto l'Occidente.
(il Giornale, 7 ottobre 2021)
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Quei combattenti per i diritti umani che vogliono la distruzione di Israele
“Jewish Lives Matter”, il nuovo libro di Fiamma Nirenstein
di Nicoletta Tiliacos
Nella lunga storia dell’antisemitismo sta accadendo qualcosa di nuovo. L’ostilità verso Israele (non verso la sua politica che, come tutte le politiche, può essere aspramente criticata, ma verso l’esistenza stessa di Israele come stato che ha diritto di figurare tra le nazioni del mondo e di difendersi e difendere i propri cittadini) coinvolge apertamente anche chi mai avremmo immaginato. Gli anni appena trascorsi sono stati quelli “in cui l’antisemitismo sarebbe dovuto sparire, e invece è cresciuto e si è fatto esplicito. Abbiamo fallito”. Parte da questa amara constatazione l’ultimo libro di Fiamma Nirenstein, Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo (Giuntina). Poco più di cento pagine, una sorta di lettera aperta a chiunque voglia ascoltare, in cui della nuova “Israelofobia”, professata senza imbarazzo o vergogna in occidente si spiegano radici, motivazioni, fenomenologia e soprattutto esiti, che ci riguardano tutti. Il libro è dedicato “a chi combatte davvero per i diritti umani, senza farsi imbrogliare”. Perché – è questa la novità – sono ora gli strenui lottatori per i diritti umani, i benintenzionati, i combattenti dell’antirazzismo alla “Black lives matter”, a gareggiare con l’Iran degli ayatollah nel giudicare Israele come “una radice ammarcita che deve sparire”. Sono loro a trovarsi in stupefacente assonanza con il ministro degli Esteri nordcoreano, quando definisce lo Stato ebraico “sponsor del terrorismo che cerca di obliterare altre nazioni” (gran pulpito, non c’è che dire). Israele terrorista, razzista, che pratica l’apartheid? Bisogna davvero arrampicarsi sugli specchi, per associare all’apartheid la circostanza che del collegio che ha giudicato e condannato per crimini sessuali un ex presidente di Israele faccia parte un giudice arabo, o che arabi siedano alla Knesset, regolarmente eletti e votanti. Ma nulla ferma lo zelo del nuovo antisemita che nega di esserlo, perché ottime sono le sue intenzioni. A scandire “dal mare al fiume la Palestina sarà libera” nelle manifestazioni a Londra, a New York, a Parigi, vediamo campioni dei diritti umani di cui sopra. Chissà, si chiede Fiamma Nirenstein, se chi urla quello slogan sa di inneggiare alla realizzazione del sogno di Hamas, predicato fin dai libri di scuola per i piccoli palestinesi: la cancellazione di Israele, dal Mediterraneo al Giordano. Il nuovo antisemitismo non trova contraddittorio commuoversi per la Shoah o indignarsi per la leggenda nera dei Protocolli dei Savi di Sion, e sostenere allo stesso tempo che difendersi con il sistema antimissilistico Iron Dome dai lanci di razzi, pianificati a freddo da Hamas, fa di Israele uno stato terrorista. Nel caso di Israele, la legittima difesa è sempre una colpa, e la colpa è quella di esistere. Jewish Lives Matter parte dalla guerra dello scorso maggio, l’Operazione guardiano delle mura, per descrivere l’ondata antisraeliana che, come sempre è accaduto per analoghi momenti di conflitto, ha “assordato di cacofonie e dissonanze l’informazione e le piazze”. Ma questa volta, come non mai e senza alcun ritegno, “ha avuto un carattere specificamente antisemita”. Ebrei con la kippà sono stati aggrediti in America e in Canada, nella progressista New York e nella multietnica Toronto, mentre a Londra, nei quartieri abitati da ebrei, manifestanti urlavano al megafono “fuck the Jews, scopa le loro mogli, violenta le loro figlie e libera la Palestina”. “Nella cultura occidentale odierna – scrive Fiamma Nirenstein – l’antisemitismo più estremo, ovvero il desiderio di veder sparire gli ebrei dal mondo, trova le sue ragioni in un castello di menzogne costruite intorno alla figura dell’ebreo come oppressore. E’ il modo postmoderno di giustificare l’odio più antico. E’ la nuova versione dell’antisemitismo, che si arrampica fino all’identificazione dell’ebreo col ‘suprematista bianco’”. Pazienza per gli ebrei etiopi o yemeniti, suprematisti bianchi pure loro. Precariamente aggiornata, dilaga nuovamente tra di noi l’antica leggenda della sete di dominio che anima “ontologicamente” l’ebreo, a prescindere dalla sua storia, dalle sue azioni, da ciò che concretamente è. Nel suo libro, Fiamma Nirenstein condensa e fa dialogare la sua lunga esperienza di giornalista che segue sul campo, da decenni, le vicende di Israele e del conflitto con i palestinesi, con quella di attenta studiosa dell’antisemitismo per come si è storicamente espresso dall’antichità fino ai nostri giorni. E quando afferma che “l’odio per Israele getta il mondo nel caos”, che è poi la tesi centrale di Jewish Lives Matter, non pensa solo alla tragedia passata del nazismo, che ha devastato l’Europa pur di perseguire l’annientamento degli ebrei. Pensa anche al presente e al futuro, perché la logica “su cui poggia l’attuale insorgenza ideologica contro lo stato degli ebrei è una spaventevole destrutturazione della nostra stessa natura democratica e antifascista, ed è una logica suicida, perché oblitera il senso critico su cui si è costruita l’etica democratica”. Quando questo accade, nessuno è più al sicuro.
Il Foglio, 7 ottobre 2021)
Perché gli arabi non si fidano più dei Fratelli Musulmani
Le popolazioni di Egitto, Tunisia, Marocco e Sudan, che hanno offerto ai Fratelli Musulmani la possibilità di governare, hanno scoperto che l'organizzazione è corrotta e incompetente quanto i regimi laici e i capi di Stato arabi. Questo mese, il Partito islamista per la Giustizia e lo Sviluppo al governo in Marocco ha subito una schiacciante sconfitta alle elezioni parlamentari.
di Khaled Abu Toameh*
Fin dalla loro fondazione nel 1928, il principale motto dei Fratelli Musulmani è stato "l'Islam è la soluzione" (a tutti i problemi). I seguaci dell'organizzazione hanno usato questo slogan negli ultimi dieci anni per salire al potere in un certo numero di Paesi, tra cui Egitto, Tunisia, Marocco e Sudan.
Queste ultime settimane, tuttavia, hanno dimostrato che molti arabi e musulmani non credono più nella capacità di governare dei Fratelli Musulmani o nello slogan "l'Islam è la soluzione". Saeed Nashed, uno scrittore marocchino, ha affermato che "i Fratelli Musulmani hanno portato il Marocco in un decennio di oscurità". Le popolazioni di Egitto, Tunisia, Marocco e Sudan, che hanno offerto ai Fratelli Musulmani la possibilità di governare, hanno scoperto che l'organizzazione è corrotta e incompetente quanto i regimi laici e i capi di Stato arabi. Negli ultimi ì mesi, i Fratelli Musulmani hanno subito due gravi battute d'arresto, prima in Tunisia e più recentemente, in Marocco. L'estromissione di luglio del Partito tunisino Ennahda, movimento islamista moderato, è stata accolta con favore non solo dai tunisini, ma anche da molti altri arabi che hanno accusato gli islamisti, in particolare i Fratelli Musulmani, di diffondere caos e instabilità nel mondo arabo. A settembre, il Partito islamista per la Giustizia e lo Sviluppo (PJD) al governo in Marocco ha subito una schiacciante sconfitta alle elezioni parlamentari. Il PJD, che era stato un partner della coalizione nei due precedenti governi, ha ottenuto solo 12 dei 395 seggi del Parlamento. Per gli islamisti è stata una sconfitta umiliante perché il numero dei loro seggi è sceso da 125 a 12. Come per gli islamisti in Tunisia, numerosi arabi marocchini celebrano la caduta del partito affiliato ai Fratelli Musulmani. Gli arabi affermano che gli islamisti non hanno portato altro che corruzione e miseria nei Paesi da loro governati e che non si fideranno più degli islamisti e dei loro "slogan vuoti". L'entità di questa sconfitta mostra che gli islamisti che hanno governato dopo la cosiddetta "Primavera araba" hanno fallito, offrendo soltanto slogan e dichiarazioni religiose. Sami Brahem, un ricercatore islamico tunisino, ha commentato che i partiti affiliati ai Fratelli Musulmani non sono riusciti a produrre programmi e progetti per la loro gente. "Hanno fallito a tutti i livelli", ha dichiarato Brahem. "Questo è anche un fallimento politico e morale. Si sono associati a partiti corrotti". L'analista politica libanese Hoda Rizk ha sottolineato che i Fratelli Musulmani hanno cercato di dimostrare ai decisori a Washington che solo loro, in quanto organizzazione politica moderata, sono in grado di affrontare il mondo della politica con pragmatismo ed efficacia. "Sapevano che Washington era più preoccupata della questione della sicurezza che della democrazia nei Paesi arabi, specialmente durante il governo del presidente Obama", ha dichiarato la Rizk. Ha aggiunto che gli islamisti in Tunisia e Marocco hanno mostrato molto pragmatismo e flessibilità, che li hanno aiutati a diventare una componente più integrata dei sistemi politici nei loro Paesi. "L'era dell'Islam politico è finita nei Paesi arabi, 10 anni dopo la Primavera Araba?" si è chiesta l'analista. "Indubbiamente le ragioni che hanno portato al fallimento sono state dovute all'inerzia e a una reale riluttanza a prendere il potere". Amr Al-Shobaki, ricercatore dell'Egyptian Al-Ahram Center for Studies, ritiene che non sia possibile riunire tutte le esperienze dell'Islam politico in un unico paniere, anche se ci sono denominatori comuni per il fallimento della loro esperienza nei Paesi arabi. Al-Shobaki ha detto ad Al-Hurra TV che uno dei principali motivi della caduta dei Fratelli Musulmani è legato alla componente ideologica dei gruppi dell'organizzazione, compresa la mancanza di separazione tra religione e politica, il loro presunto monopolio sulla verità assoluta e la loro pretesa di rappresentare il vero Islam. Secondo al-Shobaki, gli arabi "hanno rigettato l'idea di essere custodi che cercavano di imporre loro in nome della religione e hanno iniziato a distinguere tra la religione sacra e i programmi dei partiti politici e la loro capacità di perseguire i loro obiettivi". Secondo il ricercatore egiziano, uno dei motivi del fallimento degli islamisti era dovuto al fatto che, sulla scia della cosiddetta Primavera araba, dicevano alla gente che dopo il fallimento del sistema socialista e capitalista era ora il momento di attuare il progetto islamico per risolvere tutti i problemi. "Ma dopo 10 anni il progetto [islamico] è fallito e non sono riusciti a risolvere i problemi economici e sociali delle persone", ha aggiunto al-Shobaki. Marwan Shehadeh, un esperto giordano di gruppi islamici, è stato citato da Al-Hurra TV per aver detto che la ragione del fallimento degli islamisti è la mancanza di esperienza politica e l'incapacità di passare all'opposizione al governo. Shehadeh ha aggiunto che gli islamisti hanno fallito perché hanno adottato le stesse politiche e tattiche dei governi e dei regimi che hanno rimpiazzato.
"I gruppi e i partiti [islamisti] sono stati infettati dagli stessi mali di cui soffrivano altri partiti, in particolare la corruzione (...) Non sono riusciti a gestire gli affari dei loro Paesi né a risolvere i problemi e nemmeno a fornire alle persone ciò di cui avevano diritto. Inoltre, non hanno preparato quadri adatti al lavoro dello Stato".
Amin Sossi Alawi, ricercatore marocchino di geopolitica, ha descritto la sconfitta degli islamisti in Marocco come "un terremoto che spezzerà la schiena dei Fratelli Musulmani nel mondo islamico".
Dieci anni di governo islamista in Marocco, ha affermato Alawi, ha alla fine permesso alla popolazione di "scoprire la falsità degli slogan populisti che il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo ha sfruttato per infiltrarsi nel governo". Lo scrittore libico Milad Omer Mezoghi ha scritto che gli arabi che in passato hanno votato per i partiti affiliati ai Fratelli Musulmani possono aver commesso un errore, ma "hanno saputo punire coloro che li hanno delusi".
"I Fratelli Musulmani in Nord Africa non si sono presi cura della loro gente. Hanno compiuto gli atti più atroci, hanno legato il destino del loro popolo alla Turchia, importato tutto da essa per rilanciare la sua economia (turca) e, di conseguenza, svuotato le casse dei loro Paesi e impoverito la loro gente, portando a un'impennata della disoccupazione e della criminalità. (...) Le persone a volte commettono errori nelle loro scelte a causa della mancanza di chiarezza di visione, e i candidati forniscono informazioni false, ma sicuramente faranno correggere il loro errore alla prima occasione. Le elezioni parlamentari marocchine hanno mostrato con franchezza che l'opinione pubblica marocchina aveva rinunciato ai Fratelli Musulmani. I Fratelli Musulmani sono una pianta malvagia che è stata mangiata dall'oscenità".
Lo scrittore e analista politico saudita Fahd Al-Shoqiran ha affermato che la caduta dei Fratelli Musulmani in Marocco è attribuita "all'oltraggiosa diffusione della corruzione, che ha scatenato la rabbia popolare". Al-Shoqiran ha sottolineato che molti elettori in Marocco considerano i Fratelli Musulmani un'organizzazione opportunista che si apre una strada verso il potere con l'aiuto di molti slogan vuoti.
"Ciò era evidente nel massiccio livello di corruzione, nell'incapacità di combattere la disoccupazione e nella mancanza di una strategia per combattere la povertà. È risaputo che l'organizzazione dei Fratelli Musulmani riesce quando è all'opposizione, ma fallisce sempre al governo. Sono bravi a distruggere, ma falliscono nel costruire."
Osservando che gli islamisti hanno fallito in un certo numero di Paesi arabi, lo scrittore ha avvertito che se i musulmani non imparano dalle "esperienze mortali" dei Fratelli Musulmani, l'esperienza del fallimento si ripeterà ogni pochi decenni. Al-Shoqiran ha proseguito dicendo:
"Dopo un decennio di dominio degli islamisti in Tunisia e Marocco, i Fratelli Musulmani hanno solo contribuito alla diffusione della corruzione, al disprezzo per lo Stato e per le sue istituzioni e al furto della vita e del denaro delle persone".
Nadim Koteish, un importante scrittore e personaggio mediatico libanese, ha affermato che gli islamisti del Marocco sono stati duramente puniti dopo aver trascorso 10 anni nel governo senza produrre cose buone per il loro popolo. "I marocchini hanno votato per il successo, non per la retorica", ha scritto. "Le recenti elezioni in Marocco offrono a questo Paese l'opportunità di liberarsi dall'estorsione islamista". Anche il direttore di giornale palestinese ed editorialista Hafez Barghouti si è pronunciato sulla caduta dei Fratelli Musulmani in Marocco.
"I partiti dei Fratelli Musulmani hanno sempre sostenuto di non avere la possibilità di governare per attuare i loro programmi. Ma sono stati al potere in Marocco per dieci anni e non hanno fatto nulla per i marocchini, che sono stati solo ingannati da slogan religiosi".
Secondo Barghouti, "l'esperienza dimostra che i partiti dei Fratelli Musulmani sono abili nel demolire, non nel costruire, e la prova è data dal fatto che governano senza fornire alla popolazione altri servizi che non siano vittorie illusorie e corruzione". L'editorialista palestinese ha affermato che la Tunisia si è sbarazzata degli islamisti perché hanno distrutto l'economia e "rubato i soldi della gente". In Marocco, ha aggiunto, i Fratelli Musulmani sono al potere da molti anni, facendo precipitare il Paese in una crisi economica e sociale. I partiti islamisti, ha scritto Barghouti, pensano che il loro governo durerà fino a quando brandiranno slogan religiosi. "Ma prima si concentrano sui loro interessi di parte e soddisfano solo i loro sostenitori", ha dichiarato l'editorialista. "Questo è il motivo della rapida caduta dei Fratelli Musulmani, un gruppo senza una storia di costruzione e tolleranza". Mounir Adib, un esperto egiziano di gruppi islamici, ha affermato che la caduta degli islamisti in Marocco è un riflesso del crollo dell'organizzazione in Egitto, Tunisia e altri Paesi arabi.
"Questa caduta non è politica, ma piuttosto è il crollo dell'ideologia del gruppo, che è diventata indesiderabile nei Paesi arabi. La grande caduta dei Fratelli Musulmani, sia a livello politico sia intellettuale, è iniziata in Egitto, per poi proseguire in Sudan, in Tunisia e infine in Marocco. A causa del loro spettacolare fallimento in quei Paesi, si prevede che cadranno anche in Libia durante le prossime elezioni legislative e presidenziali".
La caduta dei Fratelli Musulmani in alcuni Paesi arabi non significa che l'organizzazione rischia di scomparire presto. Tuttavia, gli arabi in questi Paesi dicono di averne abbastanza degli islamisti, che hanno dimostrato di essere incapaci di curare gli interessi della loro popolazione. La domanda, quindi, rimane: in Occidente, anche i sostenitori degli islamisti si renderanno conto di questo fatto e smetteranno di trattarli come se fossero bravi ragazzi che cercano di migliorare le condizioni di vita di arabi e musulmani?
* Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.
(Gatestone Institute, 6 ottobre 2021 - trad. di Angelita La Spada)
La preghiera ebraica è legale sul Monte del Tempio, decide un giudice di Gerusalemme
di Ugo Volli
Una sentenza della corte distrettuale di Gerusalemme ha stabilito che non vi è nessuna legge o regolamento che impedisca a un ebreo di pregare in maniera tranquilla e senza ostentazione sul Monte del Tempio. Sembra una cosa ovvia, un diritto umano elementare: in uno stato democratico come Israele chiunque ha diritto pregare civilmente dappertutto. A maggior ragione per un ebreo sul luogo più sacro della sua religione. E però qualche giornale ha definito questa decisione giudiziaria una “notizia bomba” che potrebbe portare alla caduta del governo.
Ecco il perché. Alla preghiera ebraica sul Monte del Tempio si oppongono due ostacoli principali. Uno è il fatto che numerose autorità rabbiniche vi si oppongono, perché ritengono che non sia possibile ai fedeli garantirsi il grado di purezza rituale necessario per accedere sul Monte e inoltre che vi possa essere un dubbio sulla collocazione delle aree più sacre del Santuario che vi era edificato, il cui accesso è ritualmente limitato. Ma vi sono altre autorità che invece ritengono che questi spazi siano abbastanza noti per essere evitati e che la preghiera vicino al luogo dove sorgeva il Tempio sia permessa, anzi doverosa. Dunque su questo punto vi è incertezza e ognuno deve regolarsi secondo i suoi riferimenti religiosi.
Il secondo punto è politico. I musulmani ritengono di avere il monopolio di quell’area che chiamano “spianata delle moschee” e cercano con determinazione e spesso con violenza di impedire ogni altra presenza religiosa. Questo monopolio è stato rivendicato ufficialmente dalla Giordania, a una cui fondazione Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni e la liberazione della città vecchia lasciò la gestione amministrativa del Monte (senza però mai rinunciare alla sua sovranità, che è segnata anche dalla presenza di una stazione di polizia). Questo è un compromesso deciso da Moshè Dayan, nella speranza di trovare un accordo col mondo islamico. La teoria, certamente intollerante, del monopolio musulmano sul Monte è sostenuta anche dalla forza politica araba che è determinante per la maggioranza del governo attuale; è oggetto di incitamento da parte dei predicatori islamici che gestiscono al moschea di Al Aqsa costruita nell’ottavo secolo sulla sezione più meridionale del Monte; ha provocato in passato vere e proprie sommosse da parte dei fedeli, ed è difesa con occhiuta sorveglianza da parte delle guardie della fondazione giordana. Tutti ricordano come l’ondata terroristica del 2000-2002, già programmata da Arafat, fu lanciata dall’Autorità Palestinese, prendendo a pretesto una visita di Ariel Sharon sul Monte del Tempio. Come se in Italia un primo ministro non potesse venire in visita alla Piazza del Ghetto di Roma, perché cattolico.
Per decenni questa politica discriminatoria è andata avanti con poche eccezioni. Era la polizia israeliana ad arrestare e espellere i pochi coraggiosi che provavano ad sostenere la libertà di religione nell’area del Monte. E poi magari costoro erano oggetto di vendette terroristiche, come il rabbino Yehudah Joshua Glick, molte volte fermato e poi anche vittima di un attentato che quasi lo uccise. E’ dal 2018 che la pratica di salire al Monte del Tempio per le feste o anche tutti i giorni si è molto allargata, coinvolgendo migliaia di persone. La polizia è più tollerante, ma cerca di impedire violenze e spesso ancora ferma i fedeli. Ad aprile ci fu una sentenza che annullò il bando amministrativo dall’area inflitto a tre ragazzi sorpresi a pregare. Ora c’è stata una sentenza più importante. Il rabbino Aryeh Lippo ha sporto un reclamo giudiziario contro l’allontanamento stabilito dalla polizia, chiedendo alla giustizia di stabilire il suo diritto di pregare tranquillamente sul Monte ed è stato accontentato. Nel sistema della common law, in vigore in Israele, una sentenza del genere fa precedente e vale fino a nuovo ordine. Bisognerà ora vedere come reagiranno i difensori del monopolio islamico: alla Knesset, in piazza e nella diplomazia.
(Shalom, 6 ottobre 2021)
La guerra segreta tra Israele e Iran fatta di spionaggio e colpi proibiti
Lo scontro a distanza tra Israele e Iran si è arricchito di un nuovo capitolo: il premier Naftali Bennett ha rivelato in Parlamento che agenti del Mossad hanno preso parte “a una coraggiosa missione per raccogliere informazioni su Ron Arad“, il navigatore israeliano sconfitto nei cieli libanesi nel 1986 e da allora ufficialmente disperso. Il leader ultra-nazionalista non ha fornito particolari sull’operazione ma secondo il quotidiano in lingua araba Rai al-Youm, gli 007 dello Stato ebraico il mese scorso hanno rapito un generale iraniano in Siria per cercare di ottenere informazioni proprio su Arad, ritenuto deceduto da oltre trent’anni. L’uomo di Teheran sarebbe stato portato in un Paese africano e interrogato prima di essere liberato. Il sequestro sarebbe legato alle recenti notizie provenienti da Cipro: lo Stato ebraico lunedì ha denunciato che è stato sventato un complotto iraniano volto a colpire uomini d’affari israeliani sull’isola; secondo il quotidiano arabo, il piano potrebbe essere una ritorsione della Repubblica islamica per l’operazione del Mossad. Da anni, gli 007 israeliani lavorano per avere informazioni sulle sorti di Arad ma né la cattura di miliziani di Hezbollah né una ricompensa di 10 milioni di dollari sono mai riusciti a portare risultati. Sia l’intelligence che le forze armate ritengono che il navigatore sia deceduto nel 1988, due anni dopo la sua cattura. Ma lo scontro tra Israele e Iran si sta consumando anche su un altro teatro: venerdì scorso le forze armate della Repubblica islamica hanno tenuto esercitazioni militari su larga scala vicino alla frontiera con l’Azerbaigian, Paese musulmano a stragrande maggioranza sciita ma alleato di Ankara, Washington e Tel Aviv. Israele è tra i principali fornitori di armi al regime di Baku, in particolare droni, ampiamente utilizzati nella guerra dello scorso anno in Nagorno-Karabakh contro l’Armenia. Secondo funzionari iraniani, Teheran con le esercitazioni ha voluto “mandare un messaggio” a Israele, lasciando intendere di essere pronta ad agire, se necessario, per difendere i suoi confini. Lo stesso nome in codice delle operazioni – “i Conquistatori di Khaybar” – è un segnale: rimanda alla memoria la battaglia di Khaybar del 628 d.C. quando i musulmani, guidati da Maometto, presero il controllo dell’oasi a nord di Medina, abitata prevalentemente da ebrei, e imposero loro un tributo. Avvertimenti nei confronti di “interferenze straniere” nella regione sono stati lanciati dall’ayatollah Ali Khamenei, che ha esortato i Paesi vicini a evitare il ricorso a forze militari estere. “Non tolleriamo presenza e attività del regime sionista vicino ai nostri confini”, ha ribadito da parte sua il ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian. Nei giorni scorsi il presidente azero, Ilham Aliyev, ha negato la presenza di militari israeliani vicino al confine durante le esercitazioni iraniane; tuttavia, di fronte all’aumentare delle tensioni, si è fatto ritrarre in posa accanto a un drone israeliano Harop. Non hanno contribuito a rasserenare gli animi le misure adottate da Baku contro i camion iraniani che percorrono l’unica strada che collega l’Armenia alla Repubblica islamica, protettrice di Erevan. Infine, l’ultimo ‘sgarbo’ nei confronti di Teheran martedì, all’indomani della rivelazione del complotto a Cipro: secondo media israeliani, le autorità azere hanno lanciato un’operazione contro esponenti filo-iraniani nel Paese caucasico, chiudendo uffici e una moschea legati alla Guida Suprema.
(AGI, 6 ottobre 2021)
L’Onu impedisce a Israele di mostrare il post filo-Hitler di un’insegnante Unrwa
L’ambasciatore Erdan: “Un precedente molto pericoloso che pregiudica la libertà di espressione e nasconde la verità agli occhi dell’Assemblea Generale".
All’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Gilad Erdan è stato impedito, lunedì, da funzionari Onu di portare in Assemblea Generale un pannello illustrativo che documentava come un’insegnante di Gaza dipendente dell’Unrwa abbia espresso on-line posizioni antisemite ed esaltato il dittatore nazista Adolf Hitler.
L’ambasciatore Erdan intendeva mostrare il cartello durante il suo intervento a un dibattito sull’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, allo scopo di evidenziare il problema dell’istigazione all’odio verso Israele ed ebrei nelle scuole palestinesi gestite dalle Nazioni Unite.
(israele.net, 6 ottobre 2021)
Israele inasprisce le regole del “corridoio verde” per COVID-19
Ordina una dose di richiamo Pfizer, scatenando la protesta
di Arrigo Cafaro
Israele ha aggiornato i suoi requisiti per la carta verde COVID-19 per consentire solo a coloro che hanno ricevuto una dose di richiamo del vaccino, o recentemente guariti dal coronavirus, di entrare in spazi chiusi.
I punti principali:
- Il Ministero della Salute israeliano ha alzato il livello di quella che considera vaccinazione completa
- I cittadini dovranno ottenere una dose di richiamo da Pfizer per poter beneficiare di una “carta verde”
- Negli ultimi mesi, i casi di COVID-19 sono aumentati tra la popolazione non vaccinata in Israele
I nuovi standard significano che gli attuali passaporti vaccinali saranno disabilitati per quasi due milioni di persone nei prossimi giorni.
Israele è il primo paese a rendere il vaccino di richiamo un requisito per un passaporto di vaccinazione digitale, per incoraggiare la vaccinazione di richiamo tra coloro che non hanno ancora ricevuto una terza dose. Secondo le nuove linee guida, le persone devono aver ricevuto una dose di richiamo per poter beneficiare del green pass. Coloro che hanno ricevuto due dosi del vaccino e coloro che si sono ripresi dal coronavirus riceveranno permessi di ingresso validi per sei mesi dalla data della terza iniezione di richiamo o del recupero. A partire da questa settimana, i proprietari di negozi e gli organizzatori di eventi saranno tenuti a scansionare il codice a barre digitale di un cliente prima di concedere l’ammissione, ma musei e biblioteche sono tra i pochi esentati. Israele si è precipitato fuori dal cancello all’inizio di quest’anno per vaccinare la maggior parte della sua popolazione adulta dopo aver stretto un accordo con Pfizer per condividere dati medici in cambio di una fornitura costante di dosi. È stata anche una delle prime ad adottare i colpi di richiamo Pfizer COVID-19 e li ha dati ai membri dei gruppi a rischio a luglio e a chiunque abbia più di 12 anni entro la fine di agosto. Oltre il 60% della popolazione israeliana ha ricevuto due dosi del vaccino Pfizer COVID-19 e quasi 3,5 milioni dei 9,3 milioni di cittadini israeliani hanno ricevuto una dose di richiamo del vaccino. Ma almeno due milioni di persone hanno ricevuto solo due dosi e molti perderanno i vantaggi conferiti dal Corridoio Verde. Problemi tecnici hanno ostacolato la pubblicazione da parte del Ministero della Sanità della carta verde aggiornata, poiché milioni di israeliani hanno tentato di ristampare i propri documenti digitali. Decine di israeliani hanno organizzato manifestazioni in tutto il paese contro il sistema dei corridoi verdi, con i convogli di auto intasati al mattino mentre molti israeliani tornavano al lavoro. Gli oppositori del regime hanno affermato che si trattava di una forma di vaccinazione forzata. Quest’estate, Israele ha lanciato una vigorosa campagna di promozione per aumentare l’efficacia del vaccino tra la sua popolazione. Negli ultimi mesi, i casi di COVID-19 sono aumentati in Israele, con oltre il 70% dei 588 casi critici di persone non vaccinate. Il comitato consultivo del governo sul coronavirus si riunirà questa settimana per discutere le attuali restrizioni e linee guida.
(NbaRevolution, 6 ottobre 2021)
La Ue lancia un piano contro l’antisemitismo: “La lotta è un dovere”
di Claudio Tito
BRUXELLES - Un piano contro l'antisemitismo. Un progetto per difendere e promuovere la vita ebraica in Europa. È in assoluto la prima volta che l'Unione europea mette in campo un'azione esplicita e formale per fermare e contrastare uno dei fenomeni più aberranti che si siano mai verificati nel nostro continente.
L'operazione è stata presentata ieri da Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione con delega allo stile di vita europeo. L'esponente greco dell'esecutivo comunitario ha spiegato che troppo spesso nell'Unione si assiste a un incredibile rigurgito di antisemitismo. "Non voglio più vedere sinagoghe in Europa sorvegliate dalla polizia. L'antisemitismo non è un problema degli ebrei ma degli antisemiti. L'antisemitismo è incompatibile con tutto ciò che rappresenta l'Unione europea. Prendiamo l'impegno di combatterlo in tutte le occasioni". Come dice la presidente della Commissione europea, Ursula Von Der Leyen, "oggi ci impegniamo a promuovere la vita ebraica in Europa in tutta la sua diversità. Vogliamo che la vita ebraica torni a prosperare nel cuore delle nostre comunità. L'Europa può prosperare soltanto se le comunità ebraiche si sentono sicure".
La storia, del resto, è per gli europei un monito perenne. E anche solo la percezione di certe derive si trasforma in un elemento inaccettabile per la democrazia continentale. Ci sono alcuni dati che, secondo il governo europeo, parlano da soli. "Durante la pandemia - ha osservato ancora Schinas - si è assistito all'insorgenza di teorie cospirative antisemite. Nove ebrei su 10 considerano l'antisemitismo in crescita e il 78% pensa di emigrare perché non si considera sicuro nell'Ue". Percentuali che richiamano alla memoria epoche che nessuno vorrebbe più rivivere. Timori non compatibili con le fondamenta democratiche dell'Unione e con il suo passato: "La linea rossa dell'antisemitismo è oltrepassata quando si mette in discussione il diritto allo Stato di Israele di esistere. È il capitolo più buio nel libro di storia europea".
L'obiettivo della Commissione è dunque quello di lavorare con le comunità ebraiche costruendo una rete di tutti i luoghi legati a quella cultura. Superando l'idea che la memoria si possa fondare solo ed esclusivamente sui campi di concentramento. E nello stesso tempo combattere contro tutte le forme di discriminazione, in particolare quelle online che frequentemente prendono la forma torbida degli hater, degli odiatori. Di chi incita all'odio anche attraverso la vendita di oggetti, simboli o richiami all'ignominia del nazismo.
Nel piano, dunque, si prevedono 24 milioni per la protezione degli spazi pubblici e di quelli per i fedeli. Uno degli obiettivi, ad esempio, è tutelare i cimiteri ebraici in Europa, creare un polo di ricerca europeo e istituire una rete di giovani ambasciatori europei incaricati di promuovere la memoria dell'Olocausto.
L'iniziativa della commissione ha trovato la risposta positiva del Congresso ebraico europeo: "Questo - ha detto Moshe Kantor, presidente del Congresso - è un documento vitale e senza precedenti che fungerà da tabella di marcia per ridurre significativamente l'antisemitismo in Europa e oltre. Siamo pronti ad aiutare in qualsiasi modo per l'attuazione di questa importante strategia".
(la Repubblica, 6 ottobre 2021)
Graffiti antisemiti trovati ad Auschwitz, dice il museo
di Tacito Udinese
Vandalismo, in parte antisemita, è stato spruzzato sia in inglese che in tedesco su nove baracche di legno in Auschwitz-Birkenau Posizione. È stato scoperto martedì e segnalato alla polizia. Nella sua dichiarazione pubblicata su Twitter, il museo ha affermato che sono in fase di analisi anche le riprese delle telecamere di sorveglianza. “Un tale incidente – un crimine contro il memoriale – è, soprattutto, un oltraggioso attacco a un simbolo di una delle più grandi tragedie della storia umana e un colpo molto doloroso alla memoria di tutte le vittime di Auschwitz Birkenau, il campo nazista tedesco.” “Speriamo che la persona o le persone che hanno commesso questo atto atroce vengano trovate e punite”, continua la dichiarazione, insieme a un appello affinché i testimoni oculari condividano le informazioni. Auschwitz-Birkenau, fondato nella Polonia occupata dai nazisti, era il più grande campo di concentramento gestito dal regime di Hitler. Più di 1,1 milioni di uomini, donne e bambini sono stati sistematicamente assassinati lì, molti nelle camere a gas del campo. Circa 6 milioni di ebrei furono uccisi nell’Olocausto. Il museo ha affermato che la sicurezza nel sito di 170 ettari viene ampliata “continuamente”, ma è finanziata dal budget del museo, che è stato colpito dalla pandemia di coronavirus. Deutsche Welle ha riferito a febbraio che il numero di incidenti antisemiti in Germania è in costante aumento negli ultimi anni. Ha sottolineato che ci sono stati almeno 2.275 crimini antisemiti nei 12 mesi fino alla fine di gennaio 2021, di cui 55 erano crimini violenti. In tutta Europa, gli attacchi antisemiti sono stati in aumento da anni. I cimiteri ebraici dalla Francia alla Polonia vengono regolarmente profanati e nove ebrei europei su dieci ritengono che l’antisemitismo sia in aumento, secondo un sondaggio della Commissione europea.
(sdionline, 6 ottobre 2021)
Delegazione ufficiale del Bahrein in visita a Yad Vashem
Per la prima volta, una delegazione ufficiale composta esclusivamente da cittadini del Bahrein ha visitato martedì Yad Vashem, l’istituto israeliano per la memoria della Shoà a Gerusalemme.
Secondo un portavoce di Yad Vashem il gruppo, che includeva influencer del Bahrain nonché un rappresentante del Ministero dell’Istruzione del paese del Golfo, ha seguito una visita guidata del museo in arabo. La visita è stata organizzata da Sharaka, una partnership Golfo-Israele per l’imprenditoria sociale.
Il presidente di Yad Vashem, Dani Dayan, ha twittato che questa è stata la prima visita di un’intera delegazione del Bahrein, anche se singoli cittadini del Bahrein avevano visitato il centro in precedenza insieme a cittadini degli Emirati Arabi Uniti. Alla fine del 2020, il King Hamad Global Center for Peaceful Coexistence del Bahrain ha firmato un Memorandum d’intesa con gli Stati Uniti in cui si è impegnato a “operare congiuntamente per condividere e promuovere le migliori pratiche volte a combattere tutte le forme di antisemitismo, compreso l’anti-sionismo e la delegittimazione dello stato di Israele”.
(israele.net, 6 ottobre 2021)
Un nuovo corso tra Israele e il mondo islamico
"La contrapposizione israelo-palestinese non si è mai realmente attenuata. È in tale realtà deludente e pericolosa che questa intesa è il vero game changer; un paradigma completamente nuovo se si guarda a quanto avvenuto da quarant'anni a oggi”.
di Giulio Terzi di Sant'Agata*
Gli accordi di Abramo sono importanti perché raggruppano un insieme di Stati che hanno il forte interesse per un impegno a cooperare a tutto campo nei settori più rilevanti, anche strategicamente, dell'lntelligence, dello sviluppo economico-scientifico, agricolo e delle risorse idriche. Israele ribadisce così il proprio ruolo fondamentale nella regione del Grande Mediterraneo e del Medio Oriente (BMena) e rafforza i collegamenti con le monarchie del Golfo minacciate dall'Iran Dalla creazione dello Stato di Israele, la causa palestinese e lo spirito di rivalsa per le sconfitte subite nei quattro maggiori conflitti contro Israele - e in numerosi altri attacchi di natura terrorista dal Libano e da Gaza - ha sempre alimentato un "fronte panarabo", nonostante controversie e rivalità tra molti dei Paesi che ne facevano parte. Nel 1979, l'Iran di Khomeini ha trovato nell'odio antisemita contro Israele una ragione per inserirsi in questa lotta, così da affermare la sua leadership sul mondo musulmano. La contrapposizione israelo-palestinese non si è mai realmente attenuata. È in questa realtà deludente e pericolosa che gli accordi di Abramo sono il vero game changer; un paradigma completamente nuovo se si guarda a quanto avvenuto da quarant'anni a oggi. Di più, gli accordi di Abramo non sono la conclusione di un conflitto - come quello dello Yom Kippur, del 1973 - ma di un'azione straordinaria di soft power e di capacità diplomatica americana, israeliana, emiratina e sudanese, con l'Arabia Saudita in posizione riservatamente collaborativa, ma attendista. Alcuni Paesi vicini a Israele si sono dichiarati assolutamente contrari all'intesa: tra questi spiccano, oltre all'Autorità nazionale palestinese, l'Iran e il suo "suddito" siriano. Con riguardo all'Iran, la propaganda anti-israeliana e antisemita del Paese è stata da anni appannaggio dell'attuale presidente della Repubblica islamica, Ebrahim Raisi. Basata su di una strategia mediatica, violentemente antisemita, la propaganda iraniana ha rappresentato il leit-motiv che ha preceduto e preparato gli attacchi sferrati da Gaza contro la popolazione civile di Israele. Anche in relazione a questi recenti sviluppi, è chiaro che gli accordi di Abramo sono importanti perché raggruppano un insieme di Stati che hanno il forte interesse per un impegno a cooperare a tutto campo nei settori più rilevanti, anche strategicamente, dell'Intelligence, dello sviluppo economico-scientifico, agricolo e delle risorse idriche. Israele ribadisce così un proprio ruolo fondamentale nella intera regione del Grande Mediterraneo e del Medio Oriente (BMena) e rafforza i collegamenti con le monarchie del Golfo (Eau, Bahrain e Arabia Saudita) minacciate dall'Iran. Il presidente Biden, d'altra parte, ha sin dall'inizio del suo mandato rimosso i dubbi che si erano affacciati sulla priorità che l'amministrazione democratica avrebbe riservato a questa così importante svolta impressa da Trump. In Afghanistan, inoltre, l'insediarsi di un governo con molti dei suoi principali membri sanzionati quali pericolosissimi terroristi dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sono un grave problema per un Paese, Israele, che si sente minacciato dal radicalismo jihadista, sia sunnita sia sciita. Il precipitoso ritiro americano da Kabul ha dato occasione all'ex presidente israeliano Netanyahu di rivendicare la necessità per Israele di decidere in modo autonomo della propria sicurezza regionale. La presa di potere dei talebani in Afghanistan apre nuovi spazi a Cina, Iran, Turchia, Qatar, Pakistan e anche alla Russia, nonostante le ferite del passato. Tutto ciò si riflette quindi sugli interessi regionali dei Paesi membri dei patti di Abramo, come si sta vedendo anche nei contatti, diretti o mediati, tra alcuni di loro - e Arabia Saudita - con l'Iran. La normalizzazione dei quattro Paesi arabi con Israele nasce da una visione condivisa di valori, di interessi nazionali e di sicurezza contrapposti all'aggressività esasperata del regime iraniano: aggressività di natura ideologico-religiosa, militare, che fa ampio ricorso al terrorismo. L'onda lunga degli accordi di Abramo favorisce - ed è questa una grande opportunità per l'Italia - un netto salto di qualità nella collaborazione scientifica e industriale nelle alte tecnologie. È passato solo un anno da questa straordinaria svolta geopolitica; le iniziative a essa riconducibili, non solo sul piano politico e della sicurezza, ma anche e soprattutto di natura scientifica, economica e culturale, si dimostrano già senza precedenti nel contesto regionale. L'Unione europea farebbe bene a riservare a questi accordi un'attenzione e una priorità assai più marcata di quanto non sia per ora sembrato.
* Presidente del Comitato Globale per lo Stato di Diritto "Marco Pannella"
(Formiche.net, 6 ottobre 2021)
Un programma televisivo per raccontare Israele in modo originale ed inaspettato
Giovedì 14 ottobre alle ore 22.30 andrà in onda sui canali Lombardia 119 e 634 e Veneto 91 e sul canale 2 una speciale trasmissione dedicata a Israele, che ha recentemente annunciato l’apertura al turismo organizzato. Durante il programma, della durata di un’ora, verranno messi in luce tutti gli aspetti della destinazione, dalla cucina alle più recenti innovazioni in ambito medico. Ad introdurre l’evento, Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, che presenterà il nuovo video promozionale incentrato sulla variegata offerta turistica del paese. A seguire il cooking show della chef Daniela Di Veroli, esperta di cucina e vini israeliani, che cucinerà la shakshuka, piatto tipico a base di uova, pomodoro e peperoni, spiegando come realizzarlo al meglio a casa.
Il programma Inizierà con una panoramica sul turismo in Israele da parte di Ivan Pertusi Sturniolo, esperto viaggiatore, che racconterà una Tel Aviv ‘pet e LGBTQ+ friendly’, mentre Mariagrazia Falcone, Direttrice Ufficio Stampa & Pr dell’Ente, presenterà il turismo spirituale e archeologico, due pilastri importanti della destinazione.
Dopo un piccolo break dedicato alla creazione e presentazione del cocktail SABABA Tel Aviv da parte di Alejandro Daniel Mazza, Spirits & Mixology expert, sarà il turno della dottoressa Hen Ifrach, medico chirurgo israeliano, che illustrerà dettagliatamente l’efficacia di un soggiorno sul Mar Morto, tanto per la cura di disturbi cutanei e reumatici, quanto indirizzati ad accrescere il benessere delle persone.
Chiuderà il programma Kalanit Goren Perry con un saluto e un invito a visitare Israele per scoprire una destinazione vivace e dinamica, sotto ogni punto di vista.
Supervisione del programma e regia della trasmissione a cura di Pietro de Arena, Direttore Marketing, Ufficio Nazionale israeliano del Turismo.
“Volevamo sperimentare un modo diretto per avvicinarci al nostro pubblico. Abbiamo messo in campo tutte le nostre competenze e la oltre ventennale esperienza di tutto lo staff sulla destinazione. Abbiamo ricercato contenuti originali e speriamo di essere riusciti a comunicarli con leggerezza, ingolosendo lo spettatore, tenendo vivo il desiderio di viaggiare” ha dichiarato Kalanit.
Il programma, di produzione Daninvest, avrà poi successive 10 repliche nelle regioni Lombardia, Emilia Romagna, Veneto.
(Travelnostop.com, 6 ottobre 2021)
Il mistero di Ron Arad e ciò che ci insegna sul Medio Oriente
di Ugo Volli
È tornata d’attualità la vicenda di Ron Arad, un ufficiale di volo dell’aviazione israeliana nato nel 1958, studente di ingegneria chimica al Technion di Haifa, sposato e padre di una figlia, Yuval, perduto in azione. Nel 1986, durante una missione sul cielo del Libano, Ron Arad fu costretto a eiettarsi dal suo aereo danneggiato dall’esplosione prematura di una bomba, insieme al suo pilota Yishai Aviram. Mentre un elicottero israeliano riuscì a recuperare quest’ultimo sotto il fuoco nemico, Arad fu catturato dal gruppo terrorista sciita Amal.
A quanto pare fu Arad ceduto da Amal a Hezbollah, portato in Iran e poi riportato in Libano. Fino al maggio del 1988 i suoi sequestratori fecero pervenire in Israele alcune lettere e fotografie, nel tentativo di ottenere un cospicuo riscatto. Da quella data invece di Arad non si sa più nulla. Da tempo le autorità israeliane ritengono che Arad sia morto molti anni fa, probabilmente già nel 1988, sebbene i rapporti dell'intelligence differiscano per quanto riguarda le circostanze, i tempi e il luogo della sua morte. Nel 2016, un rapporto indicava che Arad era stato torturato a morte e sepolto nel 1988 vicino a Beirut. Ma una commissione dell'esercito israeliano del 2004 ha concluso che Arad era morto negli anni '90 dopo che, ammalato o ferito, gli erano state negate le cure mediche. Nel 2006, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha detto che il suo gruppo, sotto forte pressione internazionale per rivelare che cosa avesse fatto del militare in suo possesso, credeva che Arad fosse morto e il suo luogo di sepoltura sconosciuto. Nel 2008, il negoziatore tedesco Gerhard Konrad disse a Israele che Hezbollah gli aveva detto che Arad era morto durante un tentativo di fuga del 1988.
In questi decenni si sono succeduti molti tentativi israeliani di ottenere e magari di comprare informazioni su quel che era successo ad Arad e di recuperare la sua salma, ma senza successo. L’ultimo di questi tentativi è stato rivelato tre giorni fa dal primo ministro Bennett alla Knesset: “una vasta, coraggiosa e complessa operazione del Mossad”, che però non ha ottenuto il suo scopo, come ha spiegato il direttore dell’agenzia di informazione David Barnea, evidentemente scontento che il tentativo fosse stato divulgato al pubblico. Ci sono delle indiscrezioni che dicono che addirittura il Mossad “abbia rapito un generale iraniano dalla Siria, secondo quanto riportato dai media arabi a-Rai al-Yom Hapoel a Londra. Secondo il rapporto, il generale è stato trasferito in un Paese africano, dove è stato interrogato e poi rilasciato.”
La partita non è chiusa, sicuramente Israele cercherà ancora di scoprire la sorte del suo ufficiale e magari di recuperare qualche sua traccia, come di recente è riemerso, a quanto pare con l’aiuto dei russi, l’orologio di Eli Cohen, la spia israeliana che fu impiccata a Damasco nel 1965 e le cui spoglie non sono mai state recuperate.
Al di là della cronaca di questi tentativi, che potrebbero ispirare un romanzo di spionaggio, riemergono ancora una volta due dati che dovrebbero far riflettere. Il primo è questo: i nemici di Israele, che si tratti di stati o movimenti terroristi, hanno spesso l’obiettivo di rapire gli israeliani, soldati e civili, o anche solo le loro salme. Ricordiamo tutti il caso di Gilad Shalit, tenuto prigioniero fra il 2006 e il 2011 da Hamas. Lo stesso gruppo oggi detiene due civili israeliani probabilmente con difficoltà mentali, che hanno superato la barriera di separazione e non sono mai stati rilasciati e processati, ma anche i resti di due soldati uccisi nella guerra del 2014, Hadar Goldin e Oron Shaul. Da anni cerca di farne commercio per ottenere in cambio la liberazione di migliaia di terroristi detenuti.
Si tratta di un’evidente, programmatica e diffusa violazione della convenzione di Ginevra del 1949 sui prigionieri di guerra; ma né il tribunale dell’Aja né l’Onu né tutti quelli che amano condannare Israele per violazione dei diritti umani se ne sono mai occupati.
Il secondo è che Israele sente l’imperativo etico e religioso di recuperare quasi a ogni costo i suoi prigionieri e i corpi dei suoi caduti. Questa missione spesso è difficile e può produrre difficoltà e portare anche alla liberazione di terroristi criminali, ma è un dovere che tutti gli israeliani condividono e che segna la differenza fra uno stato civile e la barbarie così diffusa in Medio Oriente.
(Shalom, 6 ottobre 2021)
“Hezbollah, Hamas e Jihad Islamica palestinese sono eserciti iraniani”
Lo ha detto un alto generale iraniano spiegando che Teheran ha creato un corridoio militare che si estende fino alle coste del Mediterraneo.
In un comizio trasmesso dalla televisione iraniana IRINN lo scorso 25 settembre, il generale Gholam Ali Rashid, capo del quartier generale delle forze armate iraniane Khatam al-Anbiyah, ha esplicitamente affermato che l’Iran ha creato “sei eserciti” al di fuori dei confini del paese, tra cui Hamas e Jihad Islamica palestinese oltre a Hezbollah, pronti a combattere per suo conto in un “corridoio” che si estende dall’Iran fino al mar Mediterraneo.
Generale Gholam Ali Rashid: “Negli anni ’80 [durante la guerra Iran-Iraq] non avevamo alleanze di difesa e sicurezza con altri governi e paesi. Ora questo lo abbiamo cambiato collegandoci con altre nazioni e alcuni governi e creando in questo modo forze regionali popolari religiosamente devote. Che Dio abbia misericordia del martire Hajj Qasem Soleimani [ucciso in un attacco Usa in Iraq nel gennaio 2020]. Tre mesi prima del suo martirio, in una riunione del quartier generale Khatam Al-Alanbiya con i comandanti delle forze armate, Soleimani disse: miei cari, con il sostegno del comando dell’IRGC [Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica], del Comando dell’esercito, del Comando generale delle forze armate e del Ministero della Difesa, ho assemblato per voi sei eserciti al di fuori del territorio iraniano, e ho creato un corridoio lungo 1.500 km e largo 1.000 km che si estende fino alle coste del mar Mediterraneo. In questo corridoio ci sono sei divisioni popolari religiosamente devote. Qualsiasi nemico che decidesse di combattere contro la Rivoluzione Islamica, e contro il sacro regime della Repubblica Islamica d’Iran, dovrà passare attraverso questi sei eserciti. Non sarà in grado di farlo. Un esercito è in Libano. Si chiama Hezbollah. Un altro esercito è in Palestina, e si chiama Hamas e Jihad Islamica. Un esercito è in Siria. Un altro esercito è in Iraq, e si chiama PMU [Unità di Mobilitazione Popolare], e un altro esercito è nello Yemen e si chiama Ansar Allah [Houthi]. Ciò ha creato deterrenza al servizio del nostro amato Iran. La rabbia dei violatori americani e del regime sionista per il potere regionale iraniano deriva dalla loro consapevolezza che la Repubblica Islamica d’Iran possiede due elementi di potere: il primo è una potente forza armata pronta alla battaglia e pronta a difendersi dall’interno del territorio iraniano contro qualsiasi invasore straniero, e la seconda è una forza regionale al di fuori del territorio iraniano”.
(israele.net, 5 ottobre 2021)
Gerusalemme, trovato un gabinetto di 2700 anni fa
Era in un cubicolo, con vicino una fossa settica e alberi profumati
Un elegante gabinetto privato risalente a 2700 anni fa è stato scoperto da archeologi israeliani a Gerusalemme. Era situato dentro a un cubicolo che faceva parte di un lussuoso edificio eretto nel tardo periodo dei re di Giudea su un'elevazione da dove si ammirava la vista del Monte del Tempio. Lo ha reso noto la Autorità israeliana per le antichità (Iaa) che presenterà domani al pubblico il raro reperto, venuto alla luce due anni fa.
Il gabinetto aveva al centro un foro e nelle sue immediate vicinanze c'era un giardino con alberi da frutta e piante acquatiche. In un livello sottostante è stata trovata una profonda fossa settica al cui interno c'erano cocci di ceramica e ossa di animali.
Il terreno sarà sottoposto ad analisi nella speranza di ricavare informazioni addizionali sulla dieta dell'epoca o su eventuali malattie. Fra gli studiosi la scoperta ha destato emozione: «Un cubicolo con un gabinetto privato - ha notato il direttore degli scavi, Yaakov Billig - era molto raro nell'antichità. Finora ne abbiamo trovati solo alcuni. Solo persone molto ricche potevano permettersi un lusso simile».
(La Stampa, 5 ottobre 2021)
Israele, da giovedì al via nuovo green pass
di Michelle Zarfati
L'applicazione dei nuovi Green Pass entrerà in vigore questo giovedì, lo ha deciso domenica il Governo, mentre Israele intensifica gli sforzi per frenare la diffusione del virus e delle sue varianti.
La necessità di un nuovo Green Pass è stata largamente discussa e decisa domenica. Il Governo, tuttavia, ha posticipato l'applicazione della legge, dopo che il sistema online del Ministero della Salute è andato in crash a causa dell'elevata domanda, impedendo a molti di ottenere i nuovi Pass.
Il Ministero della Salute ha spiegato che, a causa delle difficoltà tecniche i vecchi Green Pass, revocati da giovedì, potranno essere utilizzati ancora per qualche giorno.
Come parte delle nuove restrizioni, i locali al chiuso e le aziende che richiedono il Green Pass per l'ingresso dovranno scansionarlo attraverso un QR code. Sebbene questa modalità di scansione già esisteva dal primo modello dei Green Pass, le autorità si auspicano di garantire in maniera più severa l’osservanza delle regole e dei requisiti necessari.
Il codice QR di ogni titolare del Green Pass dovrà essere scansionato utilizzando un'app del Ministero della Salute e confrontato con i propri documenti per verificare l’accesso. Il codice ha lo scopo di rendere i passaggi più difficili da falsificare.
Le persone non ancora vaccinate, potranno ottenere un Green Pass temporaneo se presenteranno un test negativo, valido per 72 ore. Tale test deve essere pagato privatamente e non è a carico del datore di lavoro.
Tra i provvedimenti del Ministero della Salute, si è inoltre deciso che gli studenti che visitano musei attraverso le uscite didattiche organizzate, non avranno bisogno di alcun Green Pass. Anche le biblioteche comunali saranno esentate dall'obbligo del Green Pass per l'ingresso.
Durante l'incontro di domenica, i funzionari del Ministero della Salute hanno presentato i dati sull'attuale situazione legata al Covid-19 in Israele, sottolineando la morbilità nelle comunità arabe. È stato presentato anche un piano d'azione per affrontare l'argomento, lo ha condiviso in una nota il Ministero.
Venerdì, il numero di israeliani ricoverati in gravi condizioni a causa del Covid-19 è sceso sotto i 600 per la prima volta dal 17 agosto, secondo i dati rilasciati dal Ministero della Salute. Lunedì mattina il numero è ulteriormente sceso a 564. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei pazienti in condizioni più gravi risultano essere non vaccinati.
Secondo i dati del Ministero della Salute, oltre 6 milioni di israeliani hanno ricevuto almeno una dose del vaccino Covid. 5,6 milioni hanno ricevuto due dosi e oltre 3,5 milioni hanno ricevuto una vaccinazione di richiamo. Tuttavia, sembrerebbe ci siano ancora circa 800mila israeliani non vaccinati.
(Shalom, 5 ottobre 2021)
Sarà anche vero che "la stragrande maggioranza dei pazienti in condizioni più gravi risultano essere non vaccinati", ma è anche vero che una minoranza di vaccinati si ritrova oggi a trascorrere il resto della vita con le conseguenze disastrose provocate dalla loro vaccinazione. Ma sembra che di questa minoranza non si voglia parlare e non si voglia dar loro diritto di parola. E quanto alla maggioranza dei vaccinati che si sentono "in sicurezza" per l'inoculazione subita, qualcuno dovrà pur dire loro che nessuno potrà mai "scientificamente" liberarli dal timore che una di queste disastrose conseguenze un giorno possa colpire anche loro. E anche questo dovrebbe pur essere detto dalle autorità premurose del bene dei cittadini. Estremamente significativo è invece uno degli obblighi imposti dalle autorità: "Il codice QR di ogni titolare del Green Pass dovrà essere scansionato utilizzando un'app del Ministero della Salute e confrontato con i propri documenti per verificare l’accesso. Il codice ha lo scopo di rendere i passaggi più difficili da falsificare." Chiaro, no? Col Green Pass potrai liberamente andare al cinema o allo stadio, dove vuoi, ma dovrai farlo sapere al "Ministero della Salute", che tramite un efficientissimo sistema di schedatura di tutti i vaccinati e dei loro movimenti, te ne darà il permesso. E naturalmente riporterà il tuo passaggio sui suoi registri e ne manterrà per sempre la traccia a futura memoria. Non a caso si chiama il "Ministero della Salute", perché veglia notte e giorno sulla tua salute e quella di tutti i cittadini. Israele forse presto potrà vantarsi di essere stata la prima nazione a passare da una società della disciplina a una società del controllo. Un controllo che per sua natura dovrà inevitabilmente subire la spinta interna a diventare un controllo totale. Libertà? Ma quale libertà? l'importante è la salute. Quando c'è la salute c'è tutto. M.C.
Piero Stanig e Gianmarco Daniele: «Che errore chiuderci tutti a casa»
di Fabio Dragoni
Due professori della Bocconi contro il lockdown: «Nessun piano pandemico prevedeva la reclusione. Era noto che favorisse il virus e i precedenti erano falliti. I colpevoli? Politici e media guidati dal panico».
Piero Stanig, politologo, si occupa di sistemi comparati, opinione pubblica e comportamento di voto nelle economie avanzate. Gianmarco Daniele - economista - di selezione e performance della classe politica, criminalità organizzata ed economia pubblica. I due docenti universitari hanno scritto un saggio per Egea Uni-Bocconi. Titolo e sommario parlano da soli: Fallimento Lockdown. Come una politica senza idee ci ha privati della libertà senza proteggerci dal virus.
- Libro controverso! Stanig: «In realtà analizziamo queste politiche partendo dalla nostra competenza accademica e professionale. L'emergenza è stata gestita male».
- Eravamo impreparati? S: «Fosse stata un'invasione di dinosauri replicanti creati in laboratorio, sì! Ma tutti i Paesi erano preparati a una pandemia. Dopo la Sars, l'Oms aveva dato un forte impulso alla preparazione di piani pandemici nazionali».
- E ve li siete letti tutti. S: «Fatti molto bene. Improntati a criteri di razionalità, flessibilità e proporzionalità negli interventi; con analisi costi-benefici e soluzioni suggerite o sconsigliate in base alla possibile gravità degli scenari».
- È stato scritto che il piano italiano non fosse aggiornato con tanto di inchieste giudiziarie. S: «No. L'errore è stato piuttosto non aver seguito il piano gettandolo nel cestino. In preda al panico i nostri politici non lo hanno letto ed hanno semplicemente improvvisato».
- In tutto il mondo si è fatto così. S: «"La Cina è un regime comunista, ci siamo detti. Non avremmo mai potuto chiudere l'economia. Poi lo ha fatto l'Italia e ci siamo resi conto che potevamo farlo anche noi". Sono parole di Neil Ferguson, influente epidemiologo inglese che ha avuto un forte peso nella gestione della pandemia. "Le scelte italiane hanno pesato moltissimo nel portare le altre democrazie occidentali ad adottare queste politiche". Lo conferma il filosofo australiano Godfrey Smith».
- Mi faccia capire. I piani pandemici che non abbiamo seguito non prevedevano le chiusure? «È una crisi economica senza precedenti nella storia recente. Una recessione causata in gran parte da decisioni prese consapevolmente dai governi». Parole di Mario Draghi. S: «È proprio questo il punto. In tutti i piani pandemici la chiusura non era mai contemplata come scelta deliberata ma come conseguenza della pandemia. I documenti descrivevano programmi operativi volti ad assicurare la continuità della vita economica e sociale anche in presenza di tante persone ammalate e impossibilitate a lavorare. Si prevedevano interventi straordinari volti a non "a chiudere l'economia" ma "ad aprirla nonostante il virus". La filosofia di fondo non era "fermare il virus ad ogni costo" bensì "che la vita continui" nonostante il virus».
- Magari l'effettiva gravità della pandemia ha reso quei piani impraticabili. S: «No. Tutti i piani prevedevano diversi livelli di gravità in base ai decessi. Il Covid è una malattia terribile. Ma il livello di gravità effettivamente registrato ex post è sempre stato inferiore a quello massimo previsto. L'Irlanda, ad esempio, è arrivata al secondo dei tre livelli previsti. La Spagna al secondo di cinque. I piani cioè erano stati ancor più prudenziali nelle previsioni». Gianmarco Daniele: «Da nessuna parte mai si prevede di ordinare alla gente di stare "in" casa e non uscire se non per motivi di necessità e urgenza. Mai. La bizzarra idea del lockdown era stata precedentemente sperimentata per pochi giorni e due sole volte durante l'epidemia di Ebola in Sierra Leone (2014 e 2015). Esperienze duramente criticate. Medici senza frontiere dichiarava che un lockdown "distruggerebbe il rapporto di fiducia tra medici e popolazione aiutando la diffusione della malattia". E i mezzi di informazione ci hanno messo del loro».
- Mettiamoli sul banco degli imputati. A lei la parola. D: «Ci hanno più o meno consapevolmente preparati al panico. Ricorderà i primi video amatoriali cinesi a fine 2019: persone in giacca e cravatta che stramazzavano a terra. Se c'è una cosa che abbiamo appreso è che di Covid si muore soffocati e dopo lunghe sofferenze respiratorie, non certo per fulminanti arresti cardiaci».
- Su questo hanno forse più responsabilità i social network. D: «Le responsabilità nello stravolgimento del messaggio da parte dei media mainstream sono devastanti. Lo stare "a" casa diventa stare "in" casa. L'esaltazione della clausura quando invece vi è un ampio consenso scientifico sul fatto che stare all'aperto è la cosa da fare. Il piano pandemico giapponese evidenziava con tre C gli errori da non commettere in pandemia: evitare "closed spaces" (luoghi chiusi), "crowded places" (spazi affollati) e "close contacts" (contatti ravvicinati). Ha mai riflettuto sul perché in estate ci si ammala di meno?».
- Ehm sì ... ma lo dica lei. D: «La letteratura scientifica in proposito è sterminata. L'abbiamo presa a riferimento. Ci si ammala di meno perché si fanno molte più cose all'aperto. Gli studiosi di tubercolosi lo sanno fin dalla fine dell'Ottocento. Chicago rimase praticamente indenne nella seconda ondata dalla fine dell'Ottocento. Chicago rimase praticamente indenne nella seconda ondata di spagnola del 1918 grazie a tutta una serie di accorgimenti: ovunque finestre aperte anche se l'inverno lì è rigido. Gli abitanti indossavano panni molto caldi. I locali dovevano essere ben riscaldati proprio perché le finestre erano spalancate e con molta meno energia di noi oggi. Non sarebbe affatto un'idea bislacca far viaggiare i mezzi pubblici in superficie con i finestrini aperti».
- Come aveva ipotizzato la ministra De Micheli. Pensavo fosse una sciocchezza. D: «E un'opzione intelligente. Invece si sperperano montagne di risorse in rituali rassicuranti, forse, ma senza senso. Atm a Milano impiega 400 persone per la sanificazione - anzi san(t)ificazione - di bus, tram e vagoni due volte al giorno. Uno dei candidati a sindaco vorrebbe estenderle addirittura a cinque. Non mi fraintenda. A tutti piace stare in ambienti puliti. Ma questo non sconfigge il virus. Meglio i finestrini aperti. Cosa peraltro complicata nei mezzi di ultima generazione».
- Allora domando ... perché i politici fanno cose senza senso? Se fossero in buona fede sarebbero degli incapaci. Ma non credo siano stupidi. Quindi dico che sono in malafede e vado di complottismo. Stanig: «Sa perché non siamo complottisti e lo spieghiamo - credo bene - nel nostro libro? Perché essere complottisti significa sopravvalutare la classe dirigente ritenendola capace di pensare e soprattutto realizzare piani sofisticati. Insomma, dei geni del male. Sia chiaro. La tentazione di utilizzare scientemente la pandemia per ridurre gli spazi di libertà è forte. In un paper uscito sul British Medicai Journal la tesi di fondo è che la democrazia sia incompatibile con l'eradicazione del virus e quindi occorre superarla affidando pieni poteri a un organismo tecnocratico (nazionale o addirittura sovranazionale) con facoltà di reprimere gli spazi di libertà. Ma al netto di tali deliri, vi è un numero straordinario di incentivi che inducono i politici a fare cose senza senso. Perché incapaci più che malvagi». Daniele: «Più semplicemente, e lo spieghiamo in dettaglio, una volta che l'informazione ha alimentato il panico nella gente, il politico ha tutto l'interesse a fare cose. A mostrare i muscoli. Non pagherà pegno per scelte draconiane. Si parla di salute. E se c'è la salute c'è tutto. Mettere l'esercito per strada o il coprifuoco sono azioni che non costano nulla anche se senza alcun razionale scientifico. Ma il consenso per chi governa in quel momento aumenta fisiologicamente qualunque cosa straordinaria faccia. Anzi, più grossa la si fa, e meglio è. Sarebbe stato più saggio, ad esempio, individuare i luoghi dove il virus si propaga con grande facilità facendo danni e regolarsi di conseguenza. Ad esempio le Rsa. Ma era più teatrale chiudere le scuole invocando un malinteso senso di precauzione. Senza alcuna idea dei danni attuali e prospettici sulle abilità cognitive dei nostri giovani. A questo si aggiunga una crassa ignoranza. Ha presente la demenziale sanificazione delle spiagge. Pure lì si fa vedere alla gente che si sta "facendo qualcosa". Poi la popolarità televisiva dei monsignori virologi. Perché privarli di questa ebbrezza? Infine, come avete dato conto su questo giornale, con l'emergenza arrivano faccendieri senza scrupoli capaci di lucrare su commesse e appalti. Per controllare servono dati. Ma questi devono essere prodotti in tempo reale e con sufficiente grado di dettaglio. Un database rilevante è stato consegnato all'Accademia dei Lincei che però si è rifiutata di renderlo pubblico».
- Con quale motivazione? S: «Archivio troppo pesante a loro dire. Per la cronaca, era un giga. Nella mia cartella Dropbox ne gestisco 700».
- Il green pass è arrivato quando il vostro libro era in stampa. Ma siete stati quasi profeti nel prevedere un'assuefazione a metodi autoritari. Paventate in futuro «nuove tipologie di punizione» per «supposte ragioni di salute pubblica» e che diventano «tecniche di coercizione per orientare le decisioni delle persone», S: «Esatto. E premetto che non sono in linea di principio contrario all'obbligo vaccinale. Ma la Costituzione è chiara. "In nessun caso", dice la Carta, deve venire meno il "rispetto per la persona umana". Più semplicemente significa che un vaccino non può essere imposto a categorie di persone che non corrono alcun rischio e quindi non trarrebbero alcun beneficio. È il caso dei più giovani. Mentre il green pass impone un obbligo surrettizio anche e soprattutto in capo a loro».
(La Verità, 4 ottobre 2021)
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Mental danger!
Mi sia concessa, dopo la lettura dell'articolo che precede, una divagazione di carattere personale. Ho vissuto il tempo degli "arresti domiciliari" pandemici in modo tutto sommato confortevole. Ho potuto fare con mia moglie piccole passeggiate quasi giornaliere lungo una piccola via di campagna senza sbocco, poco lontana da casa nostra, chiusa alla fine da una graziosa fattoria. Soltanto una volta, nelle prime settimane, ci è venuto incontro un energumeno gridando a tutta voce: "State a casa! ma state a casa! la gente muore! E voi siete pure senza mascherina!". Incurante del fatto che non era un poliziotto, che anche lui in quel momento era fuori casa, che anche lui era come noi senza mascherina (cosa che cortesemente gli ho fatto notare), ci ha inseguiti vociando per qualche metro poi ci ha lasciati andare. Ma al ritorno l'abbiamo di nuovo incontrato; ci ha gridato dietro ancora qualcosa, ma in tono meno esaltato.
Ed è lì che ho cominciato a riflettere e mi son detto: "Ma questa pandemia sta mandando le persone fuori di testa!" Il guaio grosso però è venuto quando ho cominciato a sospettare che ad andare fuori testa fossero per prime le nostre autorità. A un certo punto, quando si è cominciato a parlare di quanti metri si potevano fare fuori di casa; e quanti chilometri si potevano fare con la macchina; e se il comune di arrivo era più o meno grande di quello di partenza; e se per andare nella seconda casa si potevano portare amici o solo parenti; e se si potevano portare fuori i bambini e in quale ore e quanti; e a quale distanza da casa si potevano portare a passeggio i cani; e altri simili premurosi precetti sanitari di governo, mi sono detto costernato: "Ma qui stiamo rimbecillendo tutti!" E allora, più che cercare di non essere contagiato dal virus ho cominciato a cercare di non essere contagiato dal rimbecillimento. E ho messo alcuni fermi paletti mentali. Va bene - mi son detto - indossare la mascherina in luogo pubblico chiuso; va bene calcolare la distanza massima a cui il prossimo ti si può avvicinare; va bene essere esortati ad aprire ogni tanto le finestre in casa, ma quanto al resto, evita di pensare troppo intensamente ai motivi che ti presentano per convincerti perché c'è il rischio che arrivi a pensare che siano ragionevoli. E questo sarebbe il primo segnale che stai uscendo fuori di testa.
Mi sembra di essere riuscito a scansare il pericolo. Ma resta lo sconforto di dover prendere atto che tutto questo era non solo inutile, ma addirittura nocivo. E in più adesso c'è il campanello del mental danger che si è rimesso a vibrare con la venuta del green pass. Qui lo sforzo interpretativo richiesto dalle norme governative per capire non tanto la portata pratica della loro applicazione quanto la ragionevolezza della loro motivazione, può essere fatale per qualche mente non bene attrezzata. Forse qualcuno si ribella proprio a questo: che prima ancora di costringerti ad agire in un certo modo, vogliono costringerti a pensare in un certo modo. E se ci riescono, la cosa si fa seria. M.C
(Notizie su Israele, 4 ottobre 2021)
Bici e Jazz, Giornata ebraica nel segno dei dialoghi
Il 10 ottobre in 108 città, Padova capofila. Ebraismo non è solo shoah.
di Silvia Lambertucci
ROMA - A Bova Marina, in provincia di Reggio Calabria, si potrà andare alla scoperta della più antica Sinagoga calabra, datata tra il IV e il V secolo d.C; nella romagnola Cesena, invece, irrompe il ritmo irresistibile del Jewish Jazz, mentre a Roma la visita al quartiere ebraico è l'occasione per una passeggiata in bici. Torna il 10 ottobre la Giornata Europea della cultura ebraica, con eventi di ogni tipo organizzati quest'anno in 16 regioni e ben 108 città italiane, capofila Padova. Storia e memoria, certo, ma anche tanta vivace cultura: musica, dibattiti, presentazioni, mostre, persino incontri dove si parlerà delle serie tv cult, da Shtisel a Unorthodox. Per spiegare ai tanti che si avvicineranno che l'ebraismo "non è solo Shoah", dolore, segregazioni. Ma anche per incentivare la conoscenza reciproca e quindi il dialogo, anzi "i dialoghi", che è appunto il tema scelto per l'edizione 2021.
"Accanto alle diaspore forzate , ai secoli di discriminazione e subalternità, all'Inquisizione, ai ghetti, all'antisemitismo moderno e alle sue tragiche conseguenze nella prima metà del 900 - sottolinea la presidente Ucei Noemi Di Segni - è sempre esistito un fiume carsico di dialogo e di scambio con le altre religioni e con l'intera società, che ha portato anche a luminosi esempi di convivenza". La storia del popolo ebraico, dice, "è anche la storia di uno scambio costante e fluido con il mondo circostante". Ed ecco quindi che in tempi "non facili, ma ricchi di possibilità e di opportunità" come quelli che stiamo vivendo, prosegue la presidente delle Comunità Ebraiche Italiane citando il dramma dell'Afghanistan ma anche la sentenza della magistratura italiana contro l'ex sindaco Lucano e la sua politica per i migranti a Riace, "la grande sfida è trovare modalità di convivenza nella diversità". Il dialogo ancora di più nella sua accezione corale, spiega, servono proprio a questo, a conoscere l'altro da sé per accettarlo e conviverci.
Scelta come città capofila, Padova, racconta Gina Cavalieri, vicepresidente in città, conta oggi una comunità piccola ma assai bene integrata nel tessuto sociale della città. Qui le origini della convivenza risalgono almeno al 1200 e "l'integrazione è stata fortissima e continua anche nei momenti di segregazione". Un grande peso lo ha avuto in questo senso anche la presenza dell'Università (di cui proprio quest'anno ricorrono gli 800 anni) con tanti professori ebrei che ne hanno segnato la storia. E non solo: è stato un giovane avvocato ebreo, Giacomo Levi Civita (1846-1922) a salvare dalla distruzione nel 1879 la Cappella degli Scrovegni, oggi Patrimonio dell'Umanità, escogitando un cavillo per salvarla dalla speculazione dei privati e consegnarla alla città. Tant'è, domenica a Padova si potranno visitare tutti i luoghi della cultura ebraica, dalla sinagoga al museo ai due cimiteri, ma anche partecipare - dopo l'inaugurazione nazionale della Giornata alle 10 con le autorità - ai tantissimi eventi organizzati per l'occasione. Tra questi, alle 16 nell'auditorium San Gaetano, anche un interessante dibattito sull'Importanza del dialogo tra uomo e donna nell'ebraismo con Nathania Zevi che ne parla con Gheula Canarutto Nemni, scaturito, spiega Cavalieri, proprio dalle tante domande e curiosità aperte dalle fortunate serie tv.
Il ministro della Cultura Franceschini applaude, ricorda anche l'esempio di Ferrara, sua città natale "dove la comunità ebraica è da sempre molto forte e integrata nel tessuto sociale", invita a partecipare alla visita guidata del Meis, il nuovo museo dell'ebraismo ormai in dirittura d'arrivo. "La globalizzazione ha portato tante paure e a far spavento è soprattutto la diversità", ribadisce il ministro che cita Umberto Eco e torna a battere sull'importanza della cultura: "Il riconoscimento della diversità è il fondamento per un dialogo reciproco importante per tutto il Paese".
(ANSAmed, 5 ottobre 2021)
Per Hamas la kefìah non è più di moda
di Fabio Scuto
E' negli Anni Trenta che la kefiah - il copricapo dei contadini arabi - diventa un simbolo del patriottismo palestinese. I britannici durante il loro mandato -scaduto nel 1948 - cercarono di vietarla nella città di Jenin in Cisgiordania. Più tardi, negli Anni Sessanta diventò il simbolo di "al Fatah", la più vasta organizzazione della galassia palestinese fondata da Yasser Arafat. Il leader dell'Olp la portò alla ribalta mondiale indossandola anche quando pronunciò il celebre discorso all'Onu a New York nel 1974. Arafat aveva un modo tutto suo di piegarla: visto di spalle i lembi della sua kefiah disegnavano la Palestina mandataria che all'epoca l'Olp rivendicava come propria terra. Dagli Anni Ottanta a ogni scontro con le forze israeliane in Cisgiordania o a Gerusalemme è sempre sventolata come una bandiera, il vessillo di uno Stato che non c'è. Oggi solo una vecchia fabbrica a Hebron tesse ancora kefieh, il resto nei suk è tutto Made in China. Ma nonostante ciò per la gente di Fatah è sempre un simbolo intoccabile.
E questo ad Hamas - che governa Gaza - non piace. La scorsa settimana a Gaza le forze di sicurezza di Hamas hanno malmenato studenti e personale universitario che indossavano la kefiah all'Università Al-Azhar. L'attacco ha scatenato violenti scontri tra poliziotti di Hamas e studenti. L'ateneo, fondato nel 1991, è una delle maggiori università palestinesi pienamente affiliate al movimento Fatah, il principale rivale di Hamas. I sostenitori di Fatah mandano i loro figli all'Al-Azhar per il sostegno finanziario che ricevono, come sovvenzioni e prestiti. Il presidente del CdA dell'ateneo è nominato dal presidente Abu Mazen.
Il Centro per i diritti umani "Al Mezan" ha denunciato la messa al bando della kefiah da parte della polizia di Hamas, l'assalto all'ateneo e il pestaggio degli studenti. Hamas - che controlla la Striscia dal 2006 - in un comunicato ha negato i fatti, attribuendoli a coloro che vogliono discreditare il governo della Striscia. Resta il fatto che, adesso, portare la kefiah a Gaza è diventata anche una sfida ad Hamas.
(il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2021)
«Stermina gli israeliani». Gerusalemme si infuria per il videogame jihadista
Il protagonista è un terrorista palestinese che vuole vendicare la famiglia uccisa dai bombardamenti
L'autore è figlio di un militante di Al Fatah fuggito in Brasile dopo la guerra in Libano
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Gli appelli al governo perché intervenga Il centro Wiesenthal chiede il boicottaggio
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di Raffaele Genah
ROMA Non ci sono possibilità di equivoci né di ammiccamenti. Tutto è esplicito. Fin troppo. A partire dalla copertina che raffigura un palestinese inginocchiato col volto coperto dalla kefia che impugna un mitra sullo sfondo della Moschea di Aqsa. E' l'ultimo videogame che sta per approdare (uscirà a dicembre) sulla più grande piattaforma mondiale di giochi in streaming, Steam. Un concentrato di odio, violenza e propaganda, che in Israele è diventato un caso. Vince, naturalmente, chi uccide il maggior numero di soldati israeliani. Lo ha realizzato in quasi dieci anni di lavoro, Nidal Nijm, uno sviluppatore brasiliano, figlio di un ex militante di Al Fatah riparato nel Paese sudamericano dopo la guerra del Libano nel 1982.
• LA STORIA Protagonista del gioco da cui tutto parte è un giovane, chiamato Ahmad al Falastini che dopo 5 anni di carcere e annesse torture vuole vendicarsi della morte dei propri familiari sotto un bombardamento dell'esercito israeliano. Da qui si dipana tutta una gamma di possibili esiti, a cominciare dall'arma usata: non solo fucili a ripetizione, ma anche coltelli, granate, razzi, con il grido in sottofondo di "Allahu akbar" con cui solitamente i terroristi accompagnano le loro azioni. Ma anche l'esito dell'operazione non è sempre lo stesso: si va dai colpi che riescono a raggiungere la testa del bersaglio, cui fanno seguito messaggi di congratulazioni, per arrivare anche al fallimento della stessa operazione. In questo caso si apre una schermata, sempre nel medesimo stile, che presenta una mano insanguinata, una pistola e un coltello sulla bandiera palestinese e la didascalia che con toni oltre il limite dell'entusiasmo annuncia: "Sei diventato un Martire. Rallegrati o madre del martire, prepara tuo figlio per il matrimonio (in paradiso), diffondi la rabbia contro l'oppressore; la sua ingiustizia deve essere fermata". Per l'inventore, il gioco si prefigge di consentire a chi prenda in mano il joystick il ruolo di combattente per la libertà rimuovendo in questo modo- a suo dire- lo stereotipo che vuole gli arabi rappresentati come terroristi. E a sostegno di questa acrobatica affermazione arriva la prova inoppugnabile: «Il gioco non è in alcun modo discriminatorio o antisemita, in questo gioco non si spara a civili, a donne o bambini, anziani ma solo ai soldati. La trama di questo gioco è una storia fittizia ispirata a fatti reali. Contiene - conclude - soltanto la rappresentazione virtuale del movimento di resistenza palestinese contro l'occupazione».
• LE POSIZIONI
Se questo gioco tra qualche settimana dilagherà sulle consolle e andrà ad infoltire la schiera già nutrita dei video che trasudano violenza, alimentando ulteriormente il dibattito infinito sulle possibili ricadute sulle menti più fragili, in Israele la vicenda è diventata un caso e da più parti si sollevano allarmi e polemiche da parte di chi coglie anche il rischio che questo nuovo mezzo possa alimentare un clima già altamente infiammabile. Basti pensare che nel passato i giochi di ruolo sul conflitto israelo-palestinese, come "Peace maker" si limitavano a simulare strategie in cui i giocatori cercavano di raggiungere la soluzione pacifica dei "due Stati" gestendo decisioni sociali, politiche e militari. E altri piccoli giochi che incitavano alla violenza, durante la guerra di Gaza nel 2014, erano invece rapidamente abortiti. I commenti non mancano. Il deputato della destra estrema Ben Gvir chiede al governo di costringere le autorità brasiliane a bloccare il gioco, mentre il noto sviluppatore di videogames Luc Bernard sentenzia senza appello: «Incoraggia la violenza, noi siamo il pilastro dell'industria dell'intrattenimento e dunque responsabili di ciò che potrebbe ispirare una ricaduta nel mondo reale». Il Simon Wiesenthal Center, un gruppo di controllo dell'antisemitismo, ha chiesto il boicottaggio di Steam.
(Il Messaggero, 4 ottobre 2021)
Israele inasprisce le regole del “corridoio verde” per COVID-19
Ordina una dose di richiamo Pfizer, scatenando la protesta
di Arrigo Cafaro
Israele ha aggiornato i suoi requisiti per la carta verde COVID-19 per consentire solo a coloro che hanno ricevuto una dose di richiamo del vaccino, o recentemente guariti dal coronavirus, di entrare in spazi chiusi.
I punti principali:
- Il Ministero della Salute israeliano ha alzato il livello di quella che considera vaccinazione completa
- I cittadini dovranno ottenere una dose di richiamo da Pfizer per poter beneficiare di una “carta verde”
- Negli ultimi mesi, i casi di COVID-19 sono aumentati tra la popolazione non vaccinata in Israele
I nuovi standard significano che gli attuali passaporti vaccinali saranno disabilitati per quasi due milioni di persone nei prossimi giorni.
Israele è il primo paese a rendere il vaccino di richiamo un requisito per un passaporto di vaccinazione digitale, per incoraggiare la vaccinazione di richiamo tra coloro che non hanno ancora ricevuto una terza dose.
Secondo le nuove linee guida, le persone devono aver ricevuto una dose di richiamo per poter beneficiare del green pass.
(Nba Revolution, 4 ottobre 2021)
Suggestiva la metafora del corridoio. Una volta gli uomini si muovevano e andavano dove volevano; ma poi è arrivato lui, il malefico virus. E all'improvviso tutti fermi, tutti a casa. Ma Israele, geniale e determinato come sempre, ha trovato il rimedio: ha costruito un corridoio. Un corridoio magico. Di color verde, il colore della speranza, E dice a tutti che se vogliono rientrare a vivere in società devono passare prima per quel corridoio. Non è un obbligo, ma un'opzione, dicono. Chi vuole continuare a vivere ci entra, gli altri no. E il mondo, ammirato, imita. Il primato di Israele. M.C.
Giappichelli 100 anni
"Cerchiamo i libri bruciati dei nostri autori ebrei cacciati dall'Università"
Siamo la più antica casa editrice torinese ancora di proprietà della stessa famiglia. Niente instant book, la nuova sfida è l'istruzione digitale
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Tra i titoli icona c'è "Teoria generale del diritto" di Bobbio tradotta in spagnolo e portoghese. Abbiamo cinquemila volumi in commercio
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di Nicola Gallino
La Giappichelli compie cent'anni. Oggi è probabilmente la più antica casa editrice torinese ancora di proprietà della famiglia fondatrice. E in Italia una fra le pochissime rimaste indipendenti, in un mondo come l'editoria universitaria dominato dalle multinazionali. I portafortuna che l'hanno accompagnata a questo traguardo sono almeno due: il numero 21 e la lettera G. Ventuno è l'anno del Novecento in cui il 5 ottobre alza la serranda su via Vasco la cartolibreria che Modesto, bidello dell'Università stimato dai professori e amico di Luigi Einaudi, apre per il figlio Giuseppe. Ventuno è il civico di via Po dove hanno sede da sempre gli uffici. E Ventuno - anzi, giappichelliventunoit - è il portale online da cui il prossimo 5 ottobre parte l'avventura multimediale di Giappichelli Edu. La G invece è l'iniziale di Giuseppe. Quel "G. Giappichelli" che campeggia sulle migliaia di copertine e sull'insegna nera e oro della libreria, ormai chiusa ma ancora lì. Da cent'anni l'hanno scelta come iniziale dei nomi di famiglia, così la ragione sociale funziona sempre. A Giuseppe succede nel 1968 il figlio Giorgio. Dal 1983 il figlio di questi, Giuliano, attuale ad e anima dell'impresa assieme alla moglie Rosalba. E ora Giulia, la loro figlia trentenne che ha appena lasciato l'incarico di direttore generale per costruire la nuova creatura digitale.
- Giulia Giappichelli, dalle dispense affidate al bidello a leader nell'editoria di diritto ed economia. Quali sono stati i passaggi?
«Numerosi. Giorgio ha dovuto affrontare il Sessantotto, gli anni della contestazione e la crisi dell'Università. Con l'ingresso di Giuliano nel 1983 abbiamo riconsiderato la strategia. Volevamo restare sul territorio, editrice di riferimento dell'Università di Torino, oppure crescere su scala nazionale? Di qui la virata. Abbiamo abbandonato le materie umanistiche per concentrarci su quelle giuridiche e le scienze sociali, e conquistando il piano nazionale. Altre riflessioni sono venute con la riforma "triennio più biennio". E ora l'istruzione digitale pone nuove sfide. Di sicuro continueremo nella nostra tradizione di serietà e approfondimento affidandoci a luminari delle materie. Non ci dedicheremo mai agli "instant book'».
- È vero che in catalogo avete diecimila autori e cinquemila volumi?
«Questi sono solo quelli disponibili in commercio! Se consideriamo i titoli storici sono molti di più ... Ogni anno sono 300mila i nostri libri acquistati da studenti, avvocati, magistrati, professionisti. Molti sono "long seller'' continuamente aggiornati e ristampati. Fra i titoli icona c'è senza dubbio la ''Teoria generale del diritto" di Norberto Bobbio, tradotta anche in spagnolo e portoghese e adottata in America Latina. Il "Diritto processuale civile" di Crisanto Mandrioli, arrivato alla ventisettesima edizione. E decine di manuali diventati classici come il "Diritto Costituzionale" di Giovanni Pìtruzzella».
- Specializzati ma con un sacco di autori superstar: Sabino Cassese, Elsa Fomero, Raffaele Cantone ...
«La ministra Marta Cartabia cura per noi la collana intitolata "Per una Koiné Costituzionale". E Giuseppe Conte ha pubblicato con noi una raccolta di saggi. È una lunga tradizione iniziata fin dagli inizi con Luigi Einaudi, Gioele Solari, Francesco Ruffini e proseguita in tempi più recenti con Massimo Mila e Gianni Vattimo».
- Ci sono però state anche pagine drammatiche.
«La memoria storica è affidata a mia nonna Olimpia, 94 anni, moglie di Giorgio. Molti studiosi di diritto ed economia erano ebrei. Attilio Cabiati, Roberto Bachi, Gino Olivetti hanno scritto per noi negli anni 1936-38. Nel 1939 con le leggi razziali sono stati costretti a dimettersi dall'Università. I loro libri non sono solo stati ritirati dal commercio ma anche dati alle fiamme. Mandati letteralmente al rogo. Di alcuni non se n'è conservata nemmeno più una copia nel nostro archivio. Ci piacerebbe poterli rintracciare e ristampare come testimonianza, oltre che per il loro valore».
- Didattica online, esami da remoto. li Covid sta cambiando anche l'editoria universitaria?
«Ha fatto soprattutto emergere problematiche e vuoti del sistema, come l'ancora insufficiente capacità dell'Università a fornire allo studente non solo conoscenze ma soprattutto competenze. Per questo ci siamo affidati per la prima volta a un direttore generale esterno, Antonio Macrillò, che proviene dalle multinazionali del largo consumo. Per noi è un arricchimento nel coniugare cultura manageriale e tradizione familiare. Per la stessa sfida è nato il progetto Giappichelli Edu, che ambisce a sintetizzare i contenuti con gli strumenti più idonei a veicolarli. Test cognitivi dimostrano che le informazioni apprese sul cartaceo restano più di quelle digitali. Forniremo un servizio che integra video, app e digitale ma sempre a supporto di un testo scritto. Restiamo convinti che il testo non sia obsoleto, che svolga una funzione ancora primaria».
(la Repubblica - Torino, 4 ottobre 2021)
In Israele scoperti i cunicoli dell’ultimo assedio ai Templari
L'ultimo lembo della Terrasanta latina e cristiana giace alcuni metri sotto il manto stradale di un quartiere di Acco, in Israele, vicino al porto e a quel mare da cui i Franchi - come li chiamava all'epoca la popolazione locale - erano giunti molto tempo prima a portar la guerra nel nome di Cristo. Acco è l'attuale nome di San Giovanni d'Acri, che a sua volta fu l'ultima città crociata a capitolare, cent'anni di resistenza dopo la caduta di Gerusalemme, sotto la spada dell'Islam. E cedette, notano come se fosse scritto nel grande libro del Destino gli storici arabi di quei tempi, proprio nello stesso giorno in cui era andata perduta nelle mani degli infedeli, venerdì 17 del mese di giumada secondo. Dimostrazione più grande della grandezza del Compassionevole e Misericordioso non poteva esservi. Da mesi una spedizione del National Geografic è andata scandagliando quei luoghi, dove una volta sorgevano i quartieri dei pisani e dei genovesi, noti per attaccar briga fra di loro e infiammare il resto della città, ma anche i fortilizi dei monaci guerrieri che della difesa dei santi luoghi avevano fatto la propria ragion d'essere.
Ecco allora che i raggi infrarossi dei ricercatori americani - usati come principale metodo di scavo perché la città israeliana ha necessità di continuare a vivere, anche a dispetto della sua stessa storia - hanno individuato un groviglio di passaggi e cunicoli scavati nella pietra locale dai colori caldi: partono dal molo e arrivano, sorpresa ma non più di tanto, alla base ormai sepolta di un gran torrione. E qui inizia un'altra storia. Quei cunicoli, quel torrione infatti fecero da teatro all'ultimo, grande assedio all'estrema fortezza cristiana d'Oltremare, che si concluse tragicamente ma non senza gloria. Ma gloria che non spetta ai rissosi italiani delle città di mare, quanto semmai ai monaci guerrieri del santo Tempio di Re Salomone. I Templari: che qui scrissero letteralmente con il sangue, sulle pareti di pietra viva, il loro motto: Non nobis Domine. Da quei passaggi, per i mesi dell'assedio, passarono alla parte della città che resisteva all'assedio i viveri e gli uomini di rinforzo. Sempre meno, perché i Re di Gerusalemme ormai stabiliti a Cipro davano la partita per perduta.
Quando si capì che anche la speranza era disperata si decise lo sgombero della popolazione civile, e fu una scena da tregenda. Le gallerie, spesso dei veri e propri budelli, si riempirono di vecchi donne e bambini, ricchi mercanti e avventurieri che cercavano una sola cosa: salire sulle navi ancora alla fonda nel porto. Navi italiane, si', ma anche navi templari perché l'Ordine aveva la sua flotta personale e sapeva come farne uso. Anche troppo, se e' vero quel che si disse in quei giorni, e cioè che ci fu un capitano templare, tale Giovanni da Fiore, che avrebbe permesso l'imbarco solo a chi aveva i soldi per pagare, e per questo fu dichiarato rinnegato. Avrebbe finito la sua carriera e la sua vita come primo dei grandi capitani di ventura, alla corte di Bisanzio. Le navi partirono, lasciando sulle banchine di San Giovanni d'Acri un piccolo popolo di gente senza futuro. Tornarono, per quelle gallerie, alla fortezza che, si sapeva, prima o poi avrebbe ceduto. Ed ecco che, dopo la pagina della vergogna, si apre la pagina della gloria. Secondo le ricostruzioni che circolano in queste settimane, il bastione identificato con gli infrarossi sarebbe la Torre del Tesoro, dove il Tempio manteneva intatte le sue cospicue sostanze.
Tesi fascinosa, ma che non regge all'esame se non altro perché il loro tesoro i Templari, nel 1291, lo avevano da tempo trasferito a Parigi, in un'altra torre detta del Tempio, ed è lì infatti che Filippo il Bello avrebbe allungato le mani dopo aver fatto arrestare il Gran Maestro e i suoi confratelli. Più facile che il torrione di Acri sia, piuttosto, un'altra fortificazione. Quella che i cronisti dell'epoca chiamavano, quasi profetizzando, la Torre Maledetta. Fu infatti, secondo alcune ricostruzioni, nella Torre Maledetta che l'ultimo gruppo di templari, con quanti non erano riusciti a imbarcarsi, si asserragliarono pronti a vender cara la vita. E siccome in fatto d'armi avevano pochi in grado di far loro da maestri, resistettero più a lungo di ogni previsione. Il Sultano, al-Ashraf, forse ricordando che il Saladino stesso aveva promesso e accordato clemenza alla popolazione di Gerusalemme, mandò i suoi ambasciatori a trattare. Ma questi si dettero piuttosto a molestare donne e ragazzi, e non senza gagliardia i templari li rimandarono dal loro padrone per le spicce: giù dal torrione con la gola tagliata. Non ci sarebbe stato più scampo per nessuno.
Così fu: se la conquista con le armi fallì, riuscì il tradimento: una seconda offerta di pietà venne questa volta accolta, ma a salvarsi alla fine furono solo le donne e i bambini (ottimi per il mercato degli schiavi). Gli uomini tutti passati per le armi, a cominciare dai monaci del Tempio. Del resto anche Saladino, nei loro confronti, aveva fatto sempre un'eccezione alla sua proverbiale clemenza. Ma quando i vincitori, terminato il macello, salirono su per la torre magari anche loro in cerca di un tesoro già nascosto a Parigi, questa d'improvviso scricchiolo', tremo' e crollo' su se' stessa portandosi dietro nella rovina, essa stessa, un migliaio di nemici. Terribile rivincita di quella maledetta torre. O forse solo il segno che anche il cuore più misericordioso era stanco di tanta carneficina.
(La Stampa, 3 ottobre 2021)
Ivrea, la gioia di un Bar Mitzvah
Sei anni fa la sezione di Ivrea della Comunità ebraica di Torino ha celebrato l’ingresso di un nuovo Sefer Torah in Sinagoga, un Sefer restaurato grazie a una donazione di Omer Goldstein, medico israeliano, che ad Ivrea ha risieduto durante l’infanzia insieme alla sua famiglia e che ora abita in Israele.
Fu una cerimonia per il piccolo nucleo di ebrei di Ivrea molto significativa. Ora la famiglia Goldstein è tornata da Israele nella città piemontese per un’altra cerimonia dal grande valore simbolico: il Bar Mitzvah di Raz, figlio di Imanuel, fratello di Omer Goldstein.
I festeggiamenti sono iniziati nella sinagoga di Torino, per la cerimonia della Hanachat Tefillin, guidata da rav Ariel Di Porto, e sono proseguiti durante lo Shabbat per il Bar Mitzvah, celebrato nel Tempio piccolo di Ivrea.
Erano davvero in molti a voler partecipare (in trenta venuti appositamente da Israele e diversi ebrei di Ivrea), tanto che si sarebbe reso necessario aprire la Sinagoga grande sita a fianco del Tempio piccolo, al momento inagibile, ma la funzione si è svolta nel migliore dei modi.
È stato così ancora una volta rinsaldato un legame antico della famiglia Goldstein con la comunità ebraica di Ivrea, iniziato negli anni ‘70, quando il nonno di Raz, Doron Goldstein, venne chiamato a lavorare alla Olivetti. Un legame mai più spezzato tra una grande famiglia israeliana e una piccola comunità ebraica italiana: i Goldstein ritornano periodicamente in Piemonte e hanno deciso di festeggiare proprio qui, nell’antico Beth haKnesset di Ivrea, il Bar Mitzvah di Raz.
“Noi Ebrei di Ivrea – ha dichiarato Guido Rietti, delegato della Sezione di Ivrea – siamo onorati della stima e perdurante amicizia della famiglia Goldstein, che con generosità e affetto ci ha permesso di tenere vivo il rituale ebraico e, collegando a noi anche le nuove generazioni, ci sosterrà nelle future sfide.”
(moked, 3 ottobre 2021)
Per la prima volta un aereo della EgyptAir atterrerà a Tel Aviv, in Israele
Per la prima volta un aereo della compagnia di bandiera egiziana EgyptAir atterrerà oggi a Tel Aviv, in Israele. E’ quanto appreso “Agenzia Nova” da fonti al Cairo. I voli diretti tra Egitto e Israele, in verità, ci sono sempre stati dopo la firma del Trattato di pace del 1979, ma gli aerei di proprietà dello Stato egiziano che volavano nello Stato ebraico si chiamavano Sinai Air per evitare un boicottaggio di EgyptAir da parte di altre nazioni arabe e islamiche. “L’Egitto ha deciso di operare voli per Tel Aviv perché altre compagnie concorrenti turche ed emiratine stavano raccogliendo grandi profitti, soprattutto dopo la firma dei recenti Accordi di Abramo”, aggiungono le fonti.
(Nuova News, 3 ottobre 2021)
All'ebraismo italiano serve un nuovo modello
Rav Michel Ascoli incoraggia a guardare ai maestri e a quello che avviene in tutto il mondo ebraico, per trovare le risposte al nostro futuro. Senza paure.
di Massimiliano Boni
- Rav Ascoli, cosa fai oggi in Israele?
Sono un ebreo romano, vissuto a Roma fino a 33 anni, quando poi ho deciso, insieme a mia moglie, di venire in Israele. La mia formazione rabbinica è perciò italiana: ho preso la Semichà a Roma nel 2004. Subito dopo sono andato in Israele per tre anni, per poi tornarci dal 2010. Nella mia vita professionale sono infatti un ingegnere meccanico: ho lavorato in Italia per 8 anni, adesso sono Projects manager in un’azienda israeliana. Questa oggi è la mia attività lavorativa principale, come del resto è quasi sempre stato da che mi sono laureato, nel 1996.
- A Roma hai lavorato anche come rabbino.
Sì, dal 2007 al 2010. Ho avuto l’opportunità, in quei tre anni, di lavorare all’ufficio rabbinico, come assistente del rabbino capo. L’esperienza è nata dalla considerazione che dopo i primi anni in Israele, volevo svolgere un ruolo attivo per la mia comunità. Quando poi ho deciso di tornare in Israele è perché è stato più forte il bisogno di vivere là, altrimenti avrei proseguito, perché lavorare al fianco del rav è stato interessante e appassionante. È prevalsa però in me la componente sionista.
- Però non hai interrotto i rapporti col mondo ebraico italiano
Certo che no! Ancora oggi sono infatti legato all’ebraismo italiano: collaboro tra le altre cose al Progetto Talmud, insegno a distanza al corso di laurea in studi ebraici.
- Visto da Israele, che ti sembra dell’ebraismo italiano?
Adesso lo vedo a distanza, non solo perché sono in Israele, ma anche perché, rispetto ai tanti ebrei italiani in Israele, io ho una posizione defilata. Vivo infatti ad Haifa, dove la presenza italiana è scarsa. Detto questo, la mia impressione è che dobbiamo metterci d’accordo su cosa s’intende quando parliamo di ebraismo italiano. Nel corso della storia la definizione è infatti cambiata.
- Che intendi dire?
Spesso siamo portati a pensare che noi ebrei italiani rappresentiamo una realtà particolare e differente da tutti gli altri; io invece credo che siamo dentro l’ebraismo mondiale, come una sua espressione. Abbiamo tratti peculiari? Sì, certo, non solo in riferimento a minaghim e tefillot, ma probabilmente e soprattutto per un certo modo di affrontare e di vivere l’ebraismo e di affrontare i problemi della nostra esistenza. Tuttavia credo che dovremmo riscoprire quelle correnti dell’ebraismo italiano che ci mettono in contatto con quello che succede oltre confini.
- A che modello ti riferisci?
Personalmente penso a una delle possibili espressioni dell’ebraismo italiano, quella che riconduco a Shadal, ossia Shmuel David Luzzatto, fondatore nella seconda metà dell’Ottocento del Collegio rabbinico, quello in cui, oltre un secolo dopo, mi sono formato. Tale modello ha un approccio col mondo, non è affatto chiuso e referenziale. Mi riferisco a un modello che guarda sia all’ebraismo europeo, sia al mondo fuori dell’ebraismo. È un modello che non ignora le sfide della critica e della scienza, pur rimanendo bene ancorato alla tradizione.
- Cosa si ricava da questo modello?
Questo modello è oggi poco rappresentato in quello che definiamo l’ebraismo italiano. Io credo che invece dovremmo riscoprirlo, e che ci dovremmo spingere a unirci più verso quello che a livello mondiale si definisce modern orthodox. Mi riferisco al mondo dell’ortodossia moderna, che fa capo a istituzioni come la Yeshiva University americana, o si richiama a rabbanim come rav Soloveitchik, o rav Lichtenstein. Oppure pensiamo a una figura come quella di rav Sacks. Questi sono tutti modelli differenti da quelli del rabbinato israeliano.
- Eppure mi sembra che, oggi, l’ebraismo italiano, e in particolare il rabbinato, perlomeno quello istituzionale, guardi più a Israele che all’Europa o agli Stati Uniti.
È vero, perché siamo un ebraismo diasporico, fatto di piccoli numeri, e invece che guardare all’Europa tendiamo a seguire il modello israeliano. Eppure il rabbinato israeliano non è corpo monolitico, ha tante sfumature; noi conosciamo solo i rabbanim più politicizzati, che però non necessariamente sono quelli più significativi.
- E allora cosa bisognerebbe fare?
Io parlo facile, perché non ho incarichi ufficiali. Capisco perciò la possibile critica alle mie parole, vista ad esempio la difficoltà poi di farsi riconoscere i ghiurim da un’autorità israeliana. Eppure la mia posizione è un po’ differente da quella oggi preponderate nel rabbinato italiano. È una posizione, quella del rabbinato italiano, che deriva da un atteggiamento di chiusura, di protezione. Si teme cioè di perdere il riconoscimento del rabbinato centrale israeliano, essenziale per una comunità ebraica italiana che purtroppo sta perdendo peso, almeno numerico. Detto questo, penso però che si dovrebbe prestare più attenzione per movimenti come Tzohar, che sta pienamente nell’ortodossia avendo un’apertura maggiore verso il mondo non osservante, o per figure come rav Lichtenstein z”l, assolutamente sconosciuto in Italia, o rav Benny Lau, con il suo progetto 929. Ci sono cioè modelli alternativi dentro l’ebraismo religioso ortodosso, che non sono sufficientemente considerati nell’ebraismo italiano e dal rabbinato europeo in generale.
- Insomma che destino ha l’ebraismo italiano secondo te?
Criticare il rabbinato italiano dall’esterno è troppo semplice, me ne rendo conto. In realtà, ripeto, siamo condizionati da un problema numerico. Se i nostri numeri fossero diversi, probabilmente avremmo più coraggio nel prendere posizione. Abbiamo quindi bisogno di fare più figli, di mandarne di più alle scuole ebraiche, ma anche di avviare più ebrei agli studi rabbinici; non necessariamente con la finalità di farne rabbini, ma per aumentarne la cultura e la consapevolezza. Dobbiamo allora rafforzare il movimento dei gruppi di studio di Torà per adulti. Dobbiamo proporre un modello per cui lo studio di Torà va fatta in modo regolare. Non solo: dobbiamo dare opportunità ai ragazzi, che studiano l’università, di affinare lo studio della Torà. Dobbiamo leggere, studiare, tradurre di più. Questo potrebbe portare a migliorare la quantità di persone competenti, nonché poi di rabbini, che può anche consentire di avere più coraggio e autonomia.
- Quanto siamo lontani dal modello che auspichi?
Oggi è già un miracolo se si riesce a coprire i buchi che abbiamo. Ti faccio un esempio: anni fa c’era stato un certo interesse rispetto alla riscoperta delle presunte radici ebraiche del sud Italia. Oggi vedo che questa è una cosa tralasciata completamente, credo perché non si hanno le forze per seguire queste strade. Ci sono cioè dei potenziali che non vengono sfruttati; non gli viene data una possibilità perché non ce la facciamo ad arrivare fin lì, e così poi lì arrivano altri, che intercettano quella domanda, pur non avendo alcun ruolo nelle istituzioni ufficiali dell’ebraismo italiano.
- In questo percorso, pensi che l’ebraismo italiano debba confrontarsi anche con il movimento reform?
Non saprei rispondere in termini politici, non sono sufficientemente al dentro delle dinamiche interne all’UCEI né conosco abbastanza la situazione sul territorio. A prescindere dal merito del rapporto con il movimento reform, una cosa mi sento di dirla: non consentiamo alla politica di distrarci rispetto al nostro obiettivo. Abbiamo in Italia un problema di numeri, gli sforzi perciò vanno rivolti nella direzione di avvicinare le persone lontane, di rafforzare la presenza e la partecipazione degli ebrei vicini, di far crescere il numero degli ebrei italiani.
- Da dove dobbiamo cominciare per ottenere questi risultati?
C’è molto da fare. Per esempio, nelle città universitarie non ci sono punti di ritrovo per i nostri studenti, non ci sono pasti kasher, non ci sono attività ebraiche che li coinvolgano lì dove loro si trovano. Potremmo poi pensare a sviluppare il confronto tra di noi. Abbiamo visto in questi due anni, con zoom, le potenzialità della tecnologia. Potremmo rafforzare allora il dialogo con Israele e tra ebrei italiani e israeliani; produrre delle occasioni di incontro, scambio di idee, di discussione. Rav Laras aveva a cuore questo aspetto, lo disse nel suo ultimo intervento pubblico, quasi un testamento spirituale. Oggi abbiamo un numero significativo di sinagoghe di rito italiano in Israele, abbiamo il dovere di includerle in un sistema unico dell’ebraismo italiano. Pensa a quanto potremmo a rafforzare i nostri giovani se si organizzassero scambi tra Ugei, Ugn e la giovane kheillà che c’è in Israele. Sono tutti modi che potrebbero rafforzare la nostra comunità ebraica italiana.
- Quali sono allora le priorità della prossima Ucei?
Dobbiamo mettere la cultura e la conoscenza avanti alle divisioni politiche, rafforzarla a tutti i livelli. Deve crescere la nostra conoscenza della Torà. Dobbiamo fare tanti sforzi in questa direzione, specie adesso che cominciamo ad avere i mezzi: la traduzione del Talmud – di cui ho curato il Trattano Ta’anit – deve essere uno strumento per avvicinarsi al testo. Il mio sogno è di ricevere domande e obiezioni su quello che ho scritto. Occorre dialogare intorno al testo. Dobbiamo innalzare il livello dello studio, dalla scuola agli adulti. E poi dobbiamo rafforzare il rapporto e i legami, già presenti a livello viscerale, tra chi vive in Israele e chi vive in Italia. Inoltre dobbiamo cercare gli ebrei che ci perdiamo, che sono lontani. So che è difficile trovare la soluzione, però dobbiamo raggiungerli e coinvolgerli. Abbiamo bisogno di una gran quantità di energie vive, perfino a scapito dell’attività politica, come i rapporti con l’esterno, che certo sono importanti, ma secondari. Se dobbiamo scegliere, dico, come ci insegnano i maestri: “i tuoi poveri hanno la precedenza”, in termini reali e spirituali.
(Riflessi Menorah, 3 ottobre 2021)
Expo Dubai, Sgarbi: “Italia che oscura David umiliazione inaudita, inaccettabile, intollerabile”
“L’Italia oscura il David di Michelangelo a Dubai in ossequio alla tradizione islamica: un’umiliazione inaudita, inaccettabile, intollerabile. Lo Stato italiano umiliato e l’arte italiana mortificata. Un vero e proprio schifo”. E’ la ‘stroncatura’ netta di Vittorio Sgarbi che all’Adnkronos commenta così la vicenda del David di Michelangelo all’Expo di Dubai dove l’iconica riproduzione in grandezza naturale del capolavoro è presentata in modo tale da non mostrare le parti intime della statua.
“Ci troviamo di fronte all’umiliazione dell’arte italiana. La prova del fallimento dell’Italia all’Expo, dopo che Di Maio era andato qualche mese fa a dire che era un capolavoro”, affonda il critico d’arte. Che incalza: “O tu dici che è un problema tecnico per spendere, di meno, o altrimenti è come quando Renzi fece coprire le sculture per la venuta di Rouhani dall’Iran, mentre Rouhani è persona raffinatissima e sa distinguere fra arte e pornografia. E’ ridicolo”.
“Si tratta di un tema biblico: è un tema biblico, non è un tema pagano. Pertanto, ‘cancellare’ una parte del David di Michelangelo al Padiglione Italia dell’Expo di Dubai è proprio piegare la testa alla religione e alla loro cultura”, prosegue Sgarbi. “Grottesco e ridicolo - aggiunge Sgarbi - Questo è un tema vero su cui pronunciarsi. Non certo quello della Spigolatrice di Sapri, che è una donna e fa parte della scultura italiana, in cui ci sono i nudi, c’è Canova, c’è Botticelli, e non c’è nulla da dire”.
(Entilocali-online, 2 ottobre 2021)
Forse tra i meno scontenti di vedere un David di Michelangelo con le pudenda coperte ci sono proprio gli ebrei. Perché Michelangelo sembra essersi dimenticato che Davide è ebreo, e presentarlo al pubblico come incirconciso (come si vede nella statua) è come dire al mondo che il re d'Israele non è ebreo. Strano che un filologo d'arte come Sgarbi non l'abbia sottolineato. M.C.
I media statali israeliani ammettono: il vaccino contro il Covid non ne riduce la diffusione
di David Sidman
ISRAELE - Giovedì 26 settembre il rapporto sanitario di Kan 11 News, Nov Reuveny, ha rilasciato quella che molti definiscono una "bomba". Secondo il rapporto, i vaccinati possono diffondere e prendere il covid con lo stesso livello di rischio dei non vaccinati.
Kan News è l'emittente pubblica israeliana, e questo rende la cosa ancora più sorprendente, perché il governo sta promuovendo una delle campagne di vaccinazione più aggressive del mondo.
Secondo il rapporto, su 279 casi Covid di coloro che hanno 60 anni e oltre, 250 di loro erano completamente vaccinati o parzialmente vaccinati. Questo significa che il 90% era completamente vaccinato, mentre solo il 10% era non vaccinato o parzialmente vaccinato. La conclusione di Reuveny è che "non c'è stata praticamente alcuna differenza tra farsi vaccinare e non farsi vaccinare. In tutti i casi si hanno le stesse probabilità di contrarre il virus”.
Reuveny ha anche citato un rapporto del Center for Disease Control (CDC) secondo il quale, per quanto riguarda la variante Delta, i vaccinati non sono stati più protetti dei non vaccinati.
“In poche parole: coloro che sono stati vaccinati possono diffondere il virus allo stesso modo di coloro che non sono stati vaccinati”.
Reuveny ha anche criticato la politica israeliana di esentare dalla quarantena coloro che hanno ricevuto la terza dose di richiamo, e l'ha definita "strana".
Ha comunque detto che i tassi di vaccinazione dovrebbero rimanere alti perché riducono la gravità della carica virale, e ha chiesto di riesaminare l'autoquarantena.
All'inizio di settembre, Israel365 News ha riferito che, nonostante i dati presentati dal Ministero della Salute israeliano, la FDA non ha appoggiato la raccomandazione di vaccinare tutti i bambini di 12 anni e oltre con il richiamo di Covid.
(Israel365 News, settembre 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
«L’obbligo ostacola noi carabinieri e aiuta i ladri: sicurezza a rischio»
Antonio Nicolosi, segretario del sindacato Unarma: «Con una lettera a Draghi e all'Ue chiediamo la revoca della carta verde e tamponi gratis. È una legge incostituzionale e molti potrebbero seguire l'esempio del vicequestore Schilirò».
di Federico Novella
«Siamo usi a obbedir tacendo e tacendo morir, ma a tutto c'è un limite. Viviamo pur sempre in una democrazia». Antonio Nicolosi è il segretario generale dell'Unarma, la più antica associazione sindacale dei carabinieri. In anteprima rivela alla Verità i contenuti della lettera che in queste ore è stata spedita a Mario Draghi e alla Corte europea dei diritti dell'uomo. «Il green pass è un provvedimento discriminatorio, la sicurezza del Paese non è mai stata così a rischio». Nella lettera si chiedono tamponi gratuiti per i militari dell'Arma; si parla di vaccinazione come «scelta personale che in quanto tale va rispettata e tutelata», in mancanza di un obbligo vaccinale erga omnes.
- Nicolosi, nei secoli fedeli ma non al green pass?
«Siamo e resteremo fedeli alla Costituzione, ma quella sul green pass è una legge inaccettabile e incostituzionale».
- Perché questa lettera?
«Chiediamo la revoca del provvedimento, o perlomeno un confronto. Siamo assolutamente favorevoli ai vaccini, che hanno ridotto i casi gravi e decongestionato gli ospedali, e questo sindacato ha sempre appoggiato fin dall'inizio la campagna vaccinale. Ma dal 15 ottobre il decreto sul pass causerà problemi enormi».
- Parla del divieto di accedere al lavoro per chi non ha il lasciapassare?
«Ci saranno paradossi assurdi. Un esempio? Al carabiniere non vaccinato è vietato mangiare in mensa con i vaccinati, però può dormire nella stessa stanza in caserma, e condividere lo stesso bagno. Così com'è scritto, riteniamo che questo strumento, oltre che insensato, non sia in grado di garantire la sicurezza sanitaria dei cittadini. Prima di parlare abbiamo investito del tempo a informarci. Nella nostra lettera citiamo le evidenze scientifiche maturate con la sperimentazione: esse mostrano chiaramente e in maniera inoppugnabile che anche i vaccinati possono contrarre il virus e trasmetterlo».
- Quanti sono i carabinieri non vaccinati?
«In base a quanto ci risulta sono 15.000, circa il 14% del totale. Considerando polizia, forze armate di pattuglia in città e vigili urbani, possiamo arrivare fino a 70.000 uomini e donne non vaccinati. Ma al ministero non vogliono fare uscire ufficialmente numeri chiari. Hanno paura. Quei numeri potrebbero alimentare dubbi e proteste».
- Perché una parte delle forze dell'ordine non si vaccina?
«I più anziani, che spesso soffrono di patologie cardiache, non possono. Gli altri hanno liberamente deciso di non farlo, opzione consentita dalla legge».
- C'è sempre la possibilità del tampone, o no?
«Non è così semplice. Ci sono compiti che non si possono interrompere per eseguire il tampone. Se faccio il servizio radiomobile per 48 ore no stop, non posso certo fermarmi. Come devo comportarmi se la validità del tampone è scaduta? Come posso interrompere il lavoro sul territorio? Nessuno ce lo ha spiegato. Anzi, spesso siamo percepiti come un fastidio. Ogni tanto arriva qualche circolare ministeriale che sollecita la vaccinazione, ma nulla più. E poi c'è il discorso del prezzo».
- Il prezzo del tampone?
«Leggo che i parlamentari avranno accesso ai tamponi gratis. Bene, allora qualcuno dovrebbe spiegarmi perché uomini dello Stato che rischiano ogni giorno la vita debbano pagarsi il tampone di tasca propria, intaccando il loro stipendio».
- Avrete problemi di organico?
«Sicuramente sì, visto che già siamo impegnati anche nel controllo dell'identità sul green pass. Ricordo a tutti che non siamo l'ufficio postale, dove alla peggio si forma un po' fila. Rischia di saltare l'intero sistema di sicurezza del Paese. Se in una stazione di provincia impediamo di lavorare a tre carabinieri su sei, come possiamo garantire il servizio? Il green pass rischia di essere un favore ai delinquenti, che sono gli unici a lavorare indisturbati anche senza lasciapassare. Ma le dirò di più».
- Cioè?
«Se l'organico entra sotto pressione non possiamo neanche garantire il servizio vigilanza al vaccino. Le forze dell'ordine si occupano anche del trasporto, e del pattugliamento nei centri vaccinali. Ci rendiamo conto?»,
- Ci saranno episodi di disobbedienza civile, come nel caso della vicequestore Schilirò?
«Non posso escluderlo. Del resto siamo esasperati. Il green pass fa sì che si viva uno contro l'altro: vaccinati contro non vaccinati. Quel vicequestore ha ragione quando parla di green pass, e comunque ha il diritto di esprimere la sua opinione nel rispetto di tutti».
- Il Viminale ha negato al sindacato di polizia Cosap di fare volantinaggio anti green pass davanti al ministero dell'Interno il prossimo 6 ottobre. I rappresentanti sindacali dei poliziotti dovranno spostarsi in un'altra piazza romana, e lamentano di non poter esprimere il loro dissenso davanti ai loro vertici. Solidale?
«Certamente, esprimo solidarietà. Bisognerà capire le motivazioni dietro al rifiuto della piazza, e mi auguro che siano ragionevoli. Spero non sia stata una lesione del diritto di manifestare, che spetta a tutti i cittadini, compresi i lavoratori della sicurezza».
- Che strumenti avete per protestare?
«Oltre alla famosa moral suasion, intende? Continueremo a scrivere a tutti i livelli, alle istituzioni europee, al comando generale. Sulla direttiva del ministero della Salute riguardante le mense siamo pronti a sporgere denuncia all'autorità giudiziaria».
- In quanto forze dell'ordine, non dovreste obbedire e basta?
«Qualcuno concepisce ancora i carabinieri come se esistessero solo i generali. Questo è un modo di vedere le cose di stampo napoleonico. Ma in realtà i generali sono pochi e la truppa è vasta. E ammetto che farsi ascoltare è più complicato quando quasi tutti i partiti sono al governo, e praticamente non c'è opposizione».
(La Verità, 3 ottobre 2021)
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Conseguenze dell'adulterio
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 6.
- Figlio mio, osserva i precetti di tuo padre,
e non trascurare gli insegnamenti di tua madre;
- tienili sempre legati al cuore
e attaccati al collo.
- Quando camminerai, ti guideranno;
quando dormirai, ti proteggeranno;
quando ti risveglierai, ti parleranno.
- Il precetto è infatti una lampada, l’insegnamento una luce,
le correzioni della disciplina sono la via della vita,
- per guardarti dalla donna malvagia,
dalle parole seducenti della straniera.
- Non desiderare in cuor tuo la sua bellezza,
non ti lasciar prendere dalle sue palpebre;
- poiché per una donna corrotta uno si riduce a un pezzo di pane,
e la donna adultera sta in agguato contro una vita preziosa.
- Uno si metterà forse del fuoco in petto
senza che i suoi abiti si brucino?
- Camminerà forse sui carboni accesi
senza scottarsi i piedi?
- Così è di chi va dalla moglie del prossimo;
chi la tocca non rimarrà impunito.
- Non si disprezza il ladro che ruba
per saziarsi quando ha fame;
- se viene sorpreso, restituirà anche il settuplo,
darà tutti i beni della sua casa.
- Ma chi commette un adulterio è privo di senno;
chi fa questo vuol rovinare sé stesso.
- Troverà ferite e disonore,
la sua vergogna non sarà mai cancellata;
- perché la gelosia rende furioso il marito,
il quale sarà senza pietà nel giorno della vendetta;
- non avrà riguardo a riscatto di nessun tipo,
e anche se tu moltiplichi i regali, non sarà soddisfatto.
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Figlio mio, osserva i precetti di tuo padre,
e non trascurare gli insegnamenti di tua madre;
Il termine genitori non viene mai usato nei libri dell'Antico Testamento. Si parla invece, secondo lo stile pratico e concreto dell'ebraico, di padre e madre e, come in questo versetto, si usano termini diversi in relazione alle due figure: dal padre provengono precetti (lett. precetto), dalla madre insegnamenti (lett. insegnamento). Inoltre, come in 1.8, l'esortazione riferita al padre ha forma positiva (osserva), mentre quella riferita alla madre ha forma negativa (non trascurare). La molteplicità delle espressioni usate sottolinea la diversità dei ruoli dei due genitori e l'insostituibilità di ciascuno di essi. Il figlio saggio non si limiterà ad ascoltare le norme di vita trasmesse dal padre, ma si preoccuperà di metterle in pratica. E per quanto riguarda la madre, starà ben attento a non sottovalutare e trascurare le sue parole soltanto perché provengono dalla figura che, tra i due genitori, appare essere la più debole.
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tienili sempre legati al cuore
e attaccati al collo.
Tornano i riferimenti al cuore e al collo (cfr. 3.3). Non basta aver udito una volta gli insegnamenti giusti e averli anche approvati: è necessario che "non escano dal cuore" (Deuteronomio 4.9). Si deve dunque tenerli legati al cuore attraverso un continuo esercizio di memoria che viene facilitato dal portarli sempre attaccati al collo, cioè in bella vista e a portata di mano.
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Quando camminerai, ti guideranno;
quando dormirai, ti proteggeranno;
quando ti risveglierai, ti parleranno.
Alle esortazioni seguono, come sempre, le promesse. Vengono considerati tre momenti della vita di tutti i giorni: il tempo del lavoro (quando camminerai), il tempo del riposo (quando dormirai), il momento del risveglio (quando ti risveglierai). Per ognuno di questi momenti le parole di saggezza del maestro hanno una precisa promessa da trasmettere: ti guideranno durante il giorno nelle scelte che continuamente devi fare; ti proteggeranno durante la notte, quando il sonno ti rende debole e indifeso; ti parleranno nel momento in cui riaprirai gli occhi e ricomincerai a pensare, correndo il rischio di lasciarti prendere da inutili preoccupazioni.
-
Il precetto è infatti una lampada, l’insegnamento una luce,
le correzioni della disciplina sono la via della vita,
Al buio della notte segue la luce del giorno, e l'uomo riprende la sua vita attiva. Ma se la luce del sole serve a fugare le tenebre della notte fisica, per le tenebre morali è necessaria un'altra luce: quella della Parola di Dio (Salmo 119:105). La via della vita, della vera vita, quella che mantiene la creatura in comunione con il suo Creatore, è illuminata dal precetto e dall'insegnamento che provengono dalla sapienza di Dio. Le sue indicazioni possono anche essere correzioni che provengono da una severa disciplina, ma chi le osserva diligentemente non avrà mai da pentirsene. Leggere la Scrittura e pregare all'inizio della giornata significa permettere alla Parola di Dio di essere per la vita spirituale quello che il sole è per la vita fisica: una luce che fuga le tenebre.
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per guardarti dalla donna malvagia,
dalle parole seducenti della straniera.
La donna malvagia, la straniera che vuole invadere un focolare domestico non suo, per adescare la sua vittima non fa leva soltanto sull'attrazione sensuale del corpo, ma ricorre anche con maestria all'arma delle parole seducenti (cfr. 2.16, 5.3). A queste si può resistere soltanto se in precedenza si sono ascoltate le parole della sapienza di Dio. Come nel caso della salute corporale, le difese preventive sono le più efficaci, e in certi casi sono anche le uniche possibili.
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Non desiderare in cuor tuo la sua bellezza,
non ti lasciar prendere dalle sue palpebre;
L'originale del verbo desiderare è lo stesso compare nel decimo comandamento (Esodo 20.17, Deuteronomio 5.21). La donna straniera può essere veramente bella, come nel caso di Bat-Sceba (2 Samuele 11.2), e la bellezza è un dono di Dio. Ma davanti a questo fatto positivo, due cose sbagliate possono avvenire: 1) l'uomo può essere indotto a peccare desiderando in cuor suo un bene che non è destinato a lui (Matteo 5.28); 2) la donna può essere indotta a peccare usando maliziosamente il bene ricevuto attraverso l'uso accattivane delle palpebre (2 Re 9.30) per prendere, cioè legare a sé in modo illegittimo, un altro uomo. All'atteggiamento tipicamente maschile del desiderare corrisponde quello tipicamente femminile del farsi desiderare. Entrambi sono forme di peccato quando il desiderio, coltivato o sollecitato, è rivolto al di fuori del campo indicato dalla Parola di Dio.
poiché per una donna corrotta uno si riduce a un pezzo di pane,
e la donna adultera sta in agguato contro una vita preziosa.
Qualcuno ha voluto mettere in risalto la differenza tra la donna corrotta (una prostituta) e la donna adultera (una donna sposata). Ma fare una differenza tra le conseguenze che si possono avere dal rapporto peccaminoso con due diverse persone, stabilendo addirittura una gerarchia di gravità, non sembra essere in armonia con l'intero insegnamento di questo libro, che pone continuamente il discepolo davanti ad una scelta tra la vita e la morte. Come nel versetto precedente, lo sguardo si posa una volta su di lui e una volta su di lei. Il maestro sembra dire al discepolo: "Sta attento perché lei è in agguato contro la tua vita preziosa, e tu, per la tua insipienza e debolezza, corri il rischio di sciupare la tua vita per una donna corrotta".
Uno si metterà forse del fuoco in petto
senza che i suoi abiti si brucino?
Qualcuno potrebbe credere che chi ubbidisce al comandamento di Dio ottiene una medaglia e chi disubbidisce ottiene il piacere. Chi pensa così commette un errore mortale: non si tratta di scegliere tra l'onore e il piacere, ma tra la vita e la morte. E' vero, non sempre le conseguenze del peccato si avvertono immediatamente, ma proprio per questo è importante la parola d'avvertimento. Il fuoco potrebbe attrarre qualcuno e fargli credere che metterselo in petto gli procurerebbe piacere. Ma chi ha conoscenza avverte: "La realtà è un'altra: i tuoi abiti si bruceranno". Si tratta di fatti, non di opinioni.
Camminerà forse sui carboni accesi
senza scottarsi i piedi?
L'avvertimento continua con un altro esempio dello stesso tipo. Anche in questo caso si fa riferimento alla realtà. Si può liberamente decidere di camminare sui carboni accesi, ma non si è liberi di scegliersi le conseguenze. La frase è in forma ironica di domanda: "E' possibile farlo senza scottarsi i piedi?" Evidentemente no. La conclusione segue immediatamente dopo.
Così è di chi va dalla moglie del prossimo;
chi la tocca non rimarrà impunito.
Così è...": è importante sottolineare concretezza dell'espressione. La parola di Dio è una lampada (Salmo 119.105) che illumina la realtà. Si può decidere di chiudere gli occhi e credere che le cose stiano come si preferisce, ma è un'illusione mortale. L'avvertimento è questo: "Il matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adùlteri" (Ebrei 13.4). La punizione può cominciare già su questa terra attraverso l'ira del marito, ma certamente si compirà nel giorno del giudizio attraverso l'ira di Dio, su tutti coloro che non si saranno ravveduti.
Non si disprezza il ladro che ruba
per saziarsi quando ha fame;
Nei versetti che seguono si pone un confronto fra il ladro e l'adultero, sottolineando la maggiore gravità delle negative conseguenze che si abbatteranno sul secondo. Chi ruba per placare la sua fame non viene per questo disprezzato, perché le sue motivazioni gli fanno trovare comprensione. L'adultero invece quando viene scoperto perde anzitutto il suo onore, perché "la sua vergogna non sarà mai cancellata" (v.32). Si noti tuttavia che qui si parla di disprezzo, non di condanna. Il ladro che ruba perché ha fame sarà compreso, ma non assolto.
e viene sorpreso, restituirà anche il settuplo,
darà tutti i beni della sua casa.
Infatti in questo versetto si parla di una pena che il ladro dovrà subire. Per evitare contraddizione logiche, in alcune traduzioni compare un "ma" all'inizio della frase. Il senso potrebbe quindi essere questo: anche se il ladro affamato potrà trovare comprensione negli altri, dovrà tuttavia darsi da fare per un risarcimento del danno, arrivando fino al punto, se necessario, di vendere la sua casa. In questo modo, però, anche se a prezzo di grandi sacrifici, il danno potrà essere risarcito e la colpa rimossa. La stessa cosa non potrà avvenire per l'adultero, per il quale non sarà possibile nessuna forma di riscatto (v.35).
Ma chi commette un adulterio è privo di senno;
chi fa questo vuol rovinare sé stesso.
Proprio per questo al discepolo viene detto chiaramente che chi commette un adulterio è privo di senno. Se il ladro può arrivare a perdere la casa, l'adultero finirà per rovinare sé stesso; e solo un pazzo può comportarsi in questo modo. L'adulterio ha degli elementi di irreversibilità che lo fanno avvicinare a un suicidio.
Troverà ferite e disonore,
la sua vergogna non sarà mai cancellata;
La differenza tra il ladro e l'adultero sta soprattutto in questo: che il ladro sottrae al prossimo degli oggetti mentre l'adultero sottrae una persona. La punizione per l'adultero dovrà dunque arrivare a toccare la sua persona, sul piano corporale (le ferite) e su quello morale (il disonore). E mentre le ferite corporali dopo un certo tempo si rimarginano, la stessa cosa non accadrà per quelle morali. E' detto infatti che la sua vergogna non sarà mai cancellata.
perché la gelosia rende furioso il marito,
il quale sarà senza pietà nel giorno della vendetta;
L'adulterio è un fatto che non riguarda mai soltanto due persone. Il peccato dell'adultero lo fa entrare in una relazione irreversibile con il coniuge tradito. La gelosia e l'ira del marito sono reazioni giuste (27.4): l'amore autentico è sempre suggellato da un patto, e chi con la sua azione fa sì che questo patto venga infranto non può pensare di rimanere impunito. L'adultero non deve sperare in sentimenti di pietà da parte del marito: il giorno della vendetta arriverà.
non avrà riguardo a riscatto di nessun tipo,
e anche se tu moltiplichi i regali, non sarà soddisfatto.
In Israele il marito tradito non aveva l'autorità di perdonare l'adultero, perché l'adulterio compiuto introduceva un male nella società che doveva essere tolto con la morte dei colpevoli (Deuteronomio 22.22-24). Nessun riscatto materiale in forma di "risarcimento danni" poteva essere preso in considerazione; anche se avesse voluto, il marito non avrebbe dovuto accettare regali di nessun tipo. L'adulterio introduce la morte nella relazione vitale tra due coniugi, e ciò che distrugge la vita deve essere pagato con la vita. La severità della legge data da Dio al popolo di Israele deve quindi tanto più spingere gli uomini ad apprezzare la grandezza dell'opera compiuta dal Signore Gesù Cristo, che ha preso su di sé le conseguenze che spettano a chi trasgredisce la legge di Dio e ha offerto, anche per l'adultero pentito, una possibilità di riscatto che nessun altro uomo sulla terra avrebbe potuto offrire.
M.C.
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Expo Dubai 2020, Israele: “Un padiglione aperto in segno di speranza
Un simbolo di speranza verso un futuro unito e migliore. Questo è il Padiglione Israele a Expo Dubai 2020, raccontato da Menachim Gantz.
di Andrea Eusebio
Expo Dubai 2020 ha aperto le sue porte ieri, venerdì 1 ottobre, con un anno di ritardo a causa della pandemia da Covid-19. Ad accogliere i visitatori giunti per l’Esposizione Universale c’è anche il Padiglione Israele. Un simbolo di “speranza”, come ha raccontato Menachim Gantz, portavoce del Padiglione di Israele a Expo Dubai 2020. “È un padiglione aperto: immaginavamo ci sarebbe stato scetticismo da parte dei visitatori arabi verso la nostra presenza. Per questo motivo non ci saranno file per l’accesso né porte. Saremo uniti su una distesa di sabbia, laddove entrambi i nostri popoli, Ebrei e Musulmani, derivano“.
• Expo Dubai 2020, il messaggio del Padiglione di Israele Ognuno, quindi, può entrare e sedersi, come in una tenda, simbolo del Medio Oriente. Un luogo dove tutti sono benvenuti e possono sentirsi al sicuro. “Il messaggio è proprio questo: insieme si può creare un domani migliore“. Le aziende israeliane, come ha spiegato Gantz, non pensano di cambiare solo una realtà locale. L’obiettivo è quello di “rispondere a necessità globali”. “Si va verso un domani, come scritto nell’orizzonte nel padiglione in diverse lingue, per sottolineare quanto siamo simili e uniti“. Come raccontato dal portavoce del Padiglione di Israle questo è un “simbolo di speranza“. In questo modo chi arriverà a Expo Dubai 2020 potrà dire: “Se le persone si mettono insieme e trovano ciò che le unisce, il futuro veramente può essere migliore. Non è uno slogan poetico, è una dimostrazione reale e concreta di come l’unione può far crescere i popoli“.
• Gantz: “Dati pazzeschi, nonostante il Covid” Nonostante il Covid, ha raccontato Gantz, i dati sono stati pazzeschi. “Nell’ultimo anno 300mila israeliani hanno visitato gli Emirati. Con il commercio abbiamo raggiunto un miliardo di dollari di scambi commerciali“. “Spero che l’Expo sia un’occasione per andare nella direzione dell’unione. La diversità non è una cosa che ci fa paura, ma è una forza. Ognuno deve essere diverso dall’altro, l’importante è rimanere uniti per creare cose straordinarie“. Per quanto riguarda la pandemia, a Expo Dubai 2020 sono comunque attese moltissime persone da tutto il mondo. “Le questioni di salute ed epidemia saranno il centro dell’umanità. L’uomo non dovrà fermarsi, ma cercare di capire come vivere al fianco di queste sfide. Ad Expo Dubai 2020 ci sarà spazio anche per questo, perché dovremo essere responsabili, intelligenti e creare opportunità per andare avanti“.
(Newsby, 2 ottobre 2021)
Gli ebrei non hanno inventato il capitalismo ma la leggenda ha creato l'antisemitismo
Un'indagine sulla nascita dei due stereotipi - prestatori & mercanti - che hanno provocato danni immensi
Dare denaro a pegno era vietato ai cristiani e le comunità ebraiche facevano gioco
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In due testi del '600 un passaggio cruciale nella percezione della minoranza in Europa
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di Elena Loewenthal
Che cosa potrà mai tenere insieme la piattaforma Rousseau (nel senso di Casaleggio & Co.), un naufragio di massa nel golfo di Biscaglia a metà gennaio del 1627 ( due mercantili portoghesi e cinque galeoni armati di scorta), l'invenzione delle lettere di cambio e la numerosa, per quanto sottotraccia, comunità di conversos a Bordeaux, fra il XVI e il XVII secolo? Più che una domanda sembra un rompicapo, e forse lo è. Eppure Francesca Trivellato, Andrew W. Mellon Professor presso l'lnstitute for Advanced Studies di Princeton, docente e ricercatrice di storia economica in età moderna, allieva di Giovanni Levi, fondatore insieme a Carlo Ginzburg della microstoria nonché grande studioso di storia moderna, crea in questo suo libro, Ebrei e Capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata, un tessuto perfettamente coerente di tutto questo e tanto altro. E un saggio storico che si legge praticamente come un romanzo, che avvince e illumina - nel senso originario, quasi letterale della parola. L'obiettivo di questo saggio è, certo, quello di sfatare una leggenda tanto comune quanto scivolosa, che di fatto sta alla radice dell'antisemitismo moderno, secondo cui si attribuiscono ai figli d'Israele un uso morboso e malefico del denaro e l'invenzione del capitalismo più spregiudicato. Sta di fatto che, attraverso i lunghi secoli del Medioevo - età per molti versi tutt'altro che buia - il prestito su pegno o a interesse era vietato ai cristiani per il semplice motivo che si fondava, e si fonda, su un uso «economico» del tempo, che è Dio e non può per questo diventare profitto. Per questa ragione le comunità ebraiche facevano gioco, e a loro fu imposto l'esercizio di questa professione tanto sgradita quanto necessaria. Etienne Cleirac (1583-1657), autore di Us et coustumes de la mer, un trattato di diritto marittimo pubblicato a Bordeaux nel 164 7 che a suo tempo ebbe un gradissimo successo, offre a Trivellato lo specchio di un passaggio cruciale nella percezione della minoranza ebraica d'Europa, e dei danni immensi che questo passaggio provocò, pure a secoli di distanza. L'indagine di Trivellato si sofferma anche su un altro testo, di pochissimo più tardo: il Parfait négociant di Jacques Savary che, uscito nel 1675, costituisce un vero e proprio «manifesto della società mercantile francese del Seicento». Ebbene, il Parfait négociant riprende l'associazione negativa, di lunga data, tra ebrei e credito e la variante introdotta da Cleirac: la figura dell'ebreo prestatore su pegno lasciava ora il passo a quella dell'ebreo mercante internazionale con tentacoli dappertutto e capacità superiori. Di primo acchito i due archetipi sembrano l'uno opposto all'altro, in quanto il primo è legato a un'economia di scarsità e al credito al consumo, mentre il secondo all'abbondanza e al credito commerciale. In realtà, sia nella cultura alta che nell'immaginario comune, il concetto di «usura» era connaturato a entrambi gli stereotipi. Lungo un'indagine estremamente interessante che spazia sempre con grande acribia dalla filologia dei testi all'analisi dei dati, Trivellato conduce il lettore lungo la storia di questi due stereotipi, spiegandone per un verso l'eziologia, per l'altro le deleterie conseguenze sul piano sociale, culturale, materiale. In sostanza, non sono stati gli ebrei a inventare né l'usura né il credito, né tanto meno il capitalismo. Ma all'Europa ha fatto sempre molto comodo additare il «colpevole», tanto nefasto quanto necessario alle complesse dinamiche della storia. Ne risulta un saggio storico interessante per molti versi. In primo luogo perché sfata un pregiudizio. Poi perché lo fa con un'analisi tanto ampia quanto minuziosa: il lettore può a tratti avere l'impressione che questa disamina si concentri essenzialmente su un periodo storico molto preciso (la metà del Seicento) e un particolare contesto geografico e politico (Francia), ma in realtà non è affatto così perché gli orizzonti entro cui spazia l'indagine sono ben più ampi, nel tempo e nello spazio. E al di là di una doverosa «revisione» della storia europea in questo contesto, l'invito di Trivellato è anche quello di ripensare la vicenda ebraica per come è stata scritta e percepita dalla seconda metà del Novecento in poi. Tutto va insomma connesso con la disponibilità a rimettere in discussione i punti fermi, che per definizione stessa fanno molto in fretta a diventare luoghi comuni. Magari perniciosi.
(Corriere della Sera, 2 ottobre 2021)
Antisemitismo nel calcio, tifosi dell’Union Berlino insultano quelli del Maccabi Haifa
Quando nel calcio non si parla del risultato, qualcosa è andato storto. Se a interessare di più sono i comportamenti vergognosi di alcuni tifosi, a sgonfiarsi non è solo la credibilità del pallone, ma dell’intera società. Perché se a decenni di distanza, la Germania continua a essere teatro dell’antisemitismo, la storia sembrerebbe aver insegnato molto poco. Talmente poco che la partita tra Union Berlino e Maccabi Haifa verrà ricordata per gli ignobili insulti antisemiti di alcuni supporters tedeschi rivolti contro quelli israeliani. E pensare che questo secondo incontro di Conference League era stato presentato come un evento storico, visto che per la prima volta una squadra israeliana avrebbe giocato all’Olympiastadion di Berlino, chiamato “stadio di Hitler” e impianto che ospitò i Giochi Olimpici nel 1936, davanti a un soddisfatto Führer. E, invece, l’idiozia umana mischiata all’odio antiebraico ha fatto sì che alcuni tifosi tedeschi alzassero il braccio destro verso il settore ospite a suon di slogan antisemiti. “Fottuti ebrei, vi cancelleremo tutti” e ingiurie nei confronti dello Stato d’Israele hanno raggiunto il proprio culmine dopo il doppio vantaggio della squadra di casa, in particolare nei confronti del Gruppo Giovanile della Società Germanico-Israeliana, la “Deutsch-Israelische Gesellschaft”. Un tifoso dell’Union Berlino ha addirittura tentato di bruciare una bandiera israeliana, prima di esser bloccato dagli steward. Il club tedesco si è prontamente scusato per quanto accaduto e ha annunciato piena collaborazione possibile per aiutare la polizia a identificare i responsabili. Una presa di posizione netta, quella dell’Unione Berlino, che però non ha incontrato altrettanta prontezza nelle stanze del potere dell’Uefa, che al momento non ha proliferato parola su quanto successo. Molto strano, visto che il massimo organo calcistico europeo è noto per sua la campagna contro il razzismo. In attesa che il mancato intervento dell’Uefa sia solo in ritardo, dobbiamo registrare la vittoria per 3-0 dell’Union Berlino contro il Maccabi Haifa. Sul campo, perché sugli spalti il risultato è stato ben diverso.
(Progetto Dreyfus, 1 ottobre 2021)
Bahrein: la comunità ebraica accoglie con favore la visita del ministro degli Esteri israeliano
ABU DHABI - La comunità ebraica del Bahrein ha incontrato ieri il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, a un anno di distanza dalla sigla degli Accordi di Abramo che ha normalizzato i rapporti tra i due Paesi. I membri della comunità ebraica hanno partecipato anche all’inaugurazione dell’ambasciata israeliana nella capitale Manama. Al termine della cerimonia, fa sapere l’emittente televisiva emiratina “Al Arabiya”, la comunità ha donato al ministro israeliano una mezuzah, una pergamena su cui sono riportati passi della Torah, che è stata poi posizionata all’entrata dell’ambasciata dello Stato ebraico. “Oggi è un giorno storico per il Bahrein e Israele e un momento importante per la nostra comunità ebraica”, ha dichiarato Ebrahim Daoud Nonoo, capo della comunità ebraica del Bahrein. La comunità ebraica bahreinita è l’unica autoctona nella regione e la sua presenza nel Paese risale al 1880.
(Agenzia Nova, 1 ottobre 2021)
Bennett, Herzog e partito Ra’am: le scelte “distensive” di Israele
A un anno dagli accordi di Abramo prosegue la normalizzazione dei rapporti di Israele con i paesi arabi. Ci sono segnali positivi anche rispetto ai palestinesi.
di Caleb J. Wulff
Il 15 settembre dell’anno scorso venivano firmati gli Accordi di Abramo, il trattato promosso da Donald Trump che normalizzava le relazioni di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e Bahrein. I risvolti positivi di questi accordi si cominciano a notare anche sotto gli aspetti economici, in particolare con gli Eau. Come riporta The Jerusalem Post, questi accordi stanno portando a un forte sviluppo delle relazioni commerciali tra i due Paesi, delineando anche una strategia di più ampio respiro. Per Israele, gli Emirati rappresentano una rilevante porta di ingresso verso gli altri Paesi del Golfo e i mercati dell’Asia del Sud e dell’Africa Orientale; per gli Emirati, Israele rappresenta un utile canale per raggiungere più efficacemente l’esteso mercato statunitense. Il nuovo governo israeliano, succeduto nello scorso giugno ai dodici anni di Benjamin Netanyahu, sta cercando di ampliare ad altri Paesi arabi la stabilizzazione dei rapporti diplomatici e commerciali. Gli Accordi sono stati firmati anche dal Sudan, con sviluppi limitati anche per la critica situazione interna del Paese, e con il Marocco. Le buone relazioni instaurate con Rabat hanno però comportato la rottura con l’Algeria, che ha accusato Israele di appoggiare il Marocco nella controversia per la sovranità sul Sahara Occidentale, regione contesa anche dal Fronte Polisario che ne ha proclamato l’indipendenza. Yair Lapid, ministro degli Esteri israeliano, durante la sua recente visita in Marocco, ha a sua volta accusato l’Algeria di essersi sempre più avvicinata all’Iran. La situazione non semplice del Medio Oriente e del Nord Africa pone quindi all’allargamento degli Accordi di Abramo diversi problemi, e uno dei maggiori rimane la irrisolta questione palestinese. Non a caso, i palestinesi hanno accettato piuttosto male gli Accordi , ritenendoli un tradimento della loro causa. La questione palestinese rimane tuttora un problema anche per la politica interna israeliana, particolarmente per un governo complesso come l’attuale, esito di quattro elezioni generali in poco più di due anni, e costituito da 8 partiti che vanno dalla destra alla sinistra. L’inclusione nel governo, per la prima volta nella storia di Israele, anche di un partito degli arabi-israeliani, il Ra’am, ha portato in un certo senso la questione palestinese all’interno del governo stesso. Gli arabi rappresentano più del 20% della popolazione israeliana e si sentono messi da parte dalla politica del Paese, invisi alle destre e loro stessi divisi nei confronti della questione palestinese. L’inclusione di uno dei loro partiti nel governo è un segnale di distensione, ma ha provocato ulteriori opposizioni nella destra e tra gli elettori di Yamina, il partito del primo ministro Naftali Bennett. La perdita di consenso di cui sta soffrendo Bennett è probabilmente una concausa della sua rigida posizione, che lo ha portato a rifiutare la soluzione dei due Stati. Bennett ha affermato che uno Stato palestinese rischierebbe di trasformare anche la Cisgiordania in una nuova Gaza, rendendo impossibile la vita in Israele. Si è anche rifiutato di parlare con il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, accusandolo di fiancheggiare i terroristi, ma ha offerto aiuto economico per sollevare le condizioni di vita dei palestinesi. Isaac Herzog, il laburista capo dello Stato da questo giugno, ha tenuto invece un atteggiamento completamente diverso, con un paio di cordiali colloqui telefonici con Abbas. Anche Benny Gantz, ministro della Difesa, ha incontrato Abbas alla fine di agosto a Ramallah, promettendo le misure di aiuto economico poi fatte proprie anche da Bennett. Da notare che in queste proposte economiche è compresa anche Gaza. Non è da escludere che si tratti di una politica tesa a portare avanti una comune strategia di stabilizzazione dei rapporti interni ed esterni, cercando di “tener buoni”, per così dire, i rispettivi elettorati. D’altra parte, se cade questo governo diventano molto probabili nuove elezioni, per la quinta volta dall’aprile del 2019. Tutti e tre gli autorevoli politici, Herzog, Bennett e Gantz, hanno invece avuto contatti diretti con il re di Giordania, Abdullah, pur avvolti in un certo alone di segretezza. Appare comunque chiaro l’intento di ristabilire relazioni positive con un Paese molto importante nella questione palestinese e con il quale esistono rapporti diplomatici dal 1994. Le relazioni con Amman si erano deteriorate con il governo di Netanyahu e la situazione era precipitata all’inizio di quest’anno con gli ostacoli posti da Netanyahu alla visita del principe ereditario di Giordania alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Per quanto riguarda invece l’Egitto, primo firmatario di un trattato di pace con Israele nel 1979, i rapporti sempre costanti con Israele hanno avuto un rafforzamento nel recente incontro di Bennett con Al Sisi. I due Paesi collaborano nella lotta alle organizzazioni islamiste nel Sinai e hanno un comune interesse a normalizzare la situazione nella Striscia di Gaza, combattendone le fazioni più estremiste. Sotto il profilo economico, importanti sono le esportazioni di gas da Israele verso l’Egitto e, per quest’ultimo, è rilevante l’afflusso di turisti israeliani. Rimane quindi confermato che, piaccia o meno, Israele rimane un punto centrale per ogni sviluppo nella regione e che la sua stabilità interna e la normalizzazione dei rapporti con gli Stati vicini sono nell’interesse di tutti.
(ilsussidiario.net, 1 ottobre 2021)
Razzismo e insulti antisemiti a Berlino e Praga
Nella serata di Conference League e Europa League
Il razzismo non è un problema esclusivamente italiano. L’ennesima dimostrazione è arrivata dalla seconda giornata di Conference League e di Europa League, competizioni macchiate da inquietantissimi episodi sugli spalti. A dimostrazione di quanto lavoro ancora ci sia da fare per non cadere in gravissimi e tragici errori del passato.
Il più clamoroso, almeno mediaticamente parlando, è quello accaduto nel corso del match di Conference tra Union Berlino e Maccabi Haifa. Una gara che già alla vigilia era stata presentata come storica, essendo la prima di una squadra dello Stato d’Israele all’interno dell’Olympiastadion, da molti ritenuto lo ‘stadio di Hitler’, quello che ospitò gli storici giochi olimpici del 1936, diventati leggenda grazie a Jesse Owen.
Sul terreno di gioco la partita non è stata equilibrata. I padroni di casa si sono imposti con un nettissimo 3-0. Ma a fare tantissimo rumore non è quanto accaduto in campo, bensì quanto successo sugli spalti. I tifosi dell’Union hanno infatti salutato i rivali del Maccabi con il braccio teso, ricoprendoli d’insulti da brividi.
Dopo la seconda rete, in particolare, sarebbero volati diversi oggetti verso gli appartenenti al Gruppo Giovanile della Società Germanico-Israeliana, accompagnati da questi cori: “Fottuti ebrei, vi cancelleremo tutti“. Un tifoso dell’Union avrebbe tentato anche di bruciare una bandiera israeliana, prima di essere bloccato dagli steward. Episodi gravissimi, che potrebbero portare a un intervento da parte dell’Uefa. Che intanto, però, deve osservare anche quanto accaduto in un altro stadio…
Non meno grave quanto avvenuto durante il confronto di Europa League tra Sparta Praga e Glasgow Rangers. Qui non si è trattato d’insulti antisemiti, ma di un altro episodio di razzismo preoccupante. Vittima nell’occasione Glen Kamara, nazionale finlandese originario della Sierra Leone, insultato con ululati per buona parte del match.
Purtroppo una triste abitudine da parte di alcune tifoserie. Ma qui c’è un’aggravante. Il settore che ha lanciato gli ululati era infatti occupato da 10mila bambini e adolescenti di massimo 14 anni, in quanto chiuso ai tifosi abituali per precedenti episodi di discriminazione durante una gara col Monaco. Deluso l’allenatore dei Rangers, Steven Gerrard: “Abbiamo giocato a porte apparentemente chiuse per una ragione. Non è la prima volta che succedono queste cose qui, ma non è stato fatto abbastanza“. Difficile dargli torto.
(Udinese Blog, 1 ottobre 2021)
Il caso del piccolo Eitan: a che punto siamo e cosa si dice in Israele
Il bambino di sei anni è l'unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone dello scorso 23 maggio. Circa tre settimane fa il nonno materno l'ha portato in Israele senza avvisare il resto della famiglia paterna che aveva in custodia il piccolo e da allora è iniziato un caso diplomatico e mediatico, soprattutto in Italia. Vediamo però come la storia viene raccontata in Israele.
• La situazione attuale
C'è stata una prima udienza in Israele per decidere sulla custodia del bambino e giudicare il nonno materno Shmuel Peleg accusato di aver rapito Eitan. Durante questa udienza, hanno comunicato i legali delle parti, è stata raggiunta un'intesa provvisoria per la gestione condivisa del piccolo che resterà in Israele almeno fino alla seconda udienza, prevista per l'8 ottobre.
Secondo quanto stabilito Eitan starà tre giorni con una parte della famiglia e tre giorni con l'altra.
• La narrativa in Israele è diversa, dice il Times of Israel
Una ''tragedia straziante'' che più di altre ''sembra aver toccato una corda particolarmente profonda''. E che allo stesso tempo ''mette in evidenza questioni che sono al centro delle interpretazioni nazionali di Israele e dell'Italia''. Perché ''è difficile far capire agli italiani'' che la ''casa è l'unico luogo a cui appartieni veramente e dove puoi essere certo di mantenere una piena identità ebraica''. Così il Times of Israel torna sul caso del piccolo Eitan Biran, il bambino di sei anni unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone del maggio scorso dove perse i genitori, il fratellino e i bisnonni. Con doppia cittadinanza italiana e israeliana, dopo la tragedia del maggio scorso il piccolo è stato accolto da una ''maternità nazionale'' in Italia e riconosciuto pubblicamente come ''il piccolo Eitan'', scrive il giornale israeliano. Dal giorno dello schianto della funivia allo stato di salute in ospedale, fino al suo ritorno a casa, la vicenda di Eitan è stata una notizia da prima pagina nei giornali italiani. Vicenda alla quale si è poi aggiunta la battaglia legale tra due famiglie per la sua custodia e che, ''con le sue profonde basi emotive, ha affascinato l'opinione pubblica in entrambi i paesi''.
Il Times of Israel afferma quindi che si è ''creata una sorta di soap opera nella vita reale'' con ''l'opinione pubblica italiana che chiaramente ha simpatie per la zia che vive in Italia'' e che ''è stata in grado di comunicare la sua posizione in un italiano fluente'' e senza usare toni accusatori nei confronti delle autorità locali. ''L'indignazione pubblica è aumentata'' in Italia con il trasferimento in Israele di Eitan per opera del nonno materno, Shmuel Peleg, ''vista come un rapimento'' scrive il giornale, ma anche come un affronto alla ''sovranità legale italiana''. La vicenda ha tenuto banco ''nei talk show e in apertura dei telegiornali'', ma ''qui in Israele la narrativa è molto diversa'', spiega.
• "Difficile far capire in Italia il senso di identità ebraica"
Citando il messaggio inviato dal nonno alla zia paterna Aya in Italia all'arrivo a Tel Aviv, ''Eitan è a casa'', il Times of Israel afferma che ''quella nozione di patria ebraica, e il senso di sicurezza che offre, è infatti difficile da afferrare per molti italiani'' perché ''casa è intesa non solo come il luogo in cui risiedi, ma anche come l'unico luogo a cui appartieni veramente e dove puoi essere certo di mantenere una piena identità ebraica''. Anche sulla stampa ebraica sono state espresse posizioni diverse, ma ''molti israeliani possono quantomeno simpatizzare con il nonno, che in Italia è visto in gran parte con occhio critico. Dopotutto, la paura dell'assimilazione è reale, e Peleg ha sottolineato più volte che Eitan avrebbe frequentato una scuola cattolica a Pavia''.
Con il progredire della saga, il Times of Israel spiega che sono stati invocati riferimenti al racconto biblico del 'Giudizio di Salomone' ''in cui il saggio re d'Israele discerneva quale delle due donne che gli stavano davanti fosse la vera madre di un bambino suggerendo che il ragazzo venga tagliato a metà. A differenza di quella storia qui non c'è nessun impostore'', ma ''due parti afflitte, con eguali pretese familiari su Eitan'', ma che partono da ''principi diversi che li portano a concezioni diametralmente opposte di ciò che è nel suo migliore interesse''.
(News UK, 1 ottobre 2021)
No comment.
Vaccino Covid. Perché i media italiani hanno nascosto il venerdì nero di Big Pharma?
Negli Usa c’è stato un duro braccio di ferro sui vaccini tra lobby farmaceutiche e agenzie federali taciuto dai media nostrani, puntualmente allineati.
di Alberto Contri
Se gettiamo lo sguardo di là dall’oceano, scopriamo che in questi ultimi giorni sul fronte dei vaccini stanno accadendo cose piuttosto interessanti. Mentre in Italia giornalisti, conduttori tv, virologi, ministri, politici sembrano diventati tutti rappresentanti di un’unica azienda farmaceutica, negli Stati Uniti si stanno raccogliendo venti che potrebbero alimentare un tifone. Ho letto questo post sul social network Linkedin: “È un segnale: una brezza da ovest può diventare una tempesta se si incontra con correnti del nord”.
- A cosa si riferisce?
Al “venerdì nero” (il 15 scorso, per i superstiziosi) che ha sconvolto le aspettative di Biden e di Big Pharma. Per rispondere alla richiesta del presidente americano di fare una terza dose di vaccino a tutta la popolazione, la Fda ha convocato la Commissione consultiva, come da prassi per decisioni così importanti. A differenza delle misteriose riunioni delle istituzioni sanitarie italiane, la riunione era pubblica.
- In sintesi, cosa è successo?
Che durante il dibattito sono emersi molti elementi in grado di avallare l’ipotesi che l’aumento degli effetti indesiderati sia dose-dipendente: per cui un soggetto esposto a ulteriori inoculazioni rispetto alle due previste, può vedere aumentare significativamente gli effetti collaterali. Sicché alla fine, dopo ore di accesa discussione, la Commissione ha votato “no” alla richiesta di Biden con 16 voti contro 2, consentendo la terza dose solo agli ultra 65enni e agli individui ad alto rischio di contrarre l’infezione. Scatenando il panico nelle istituzioni, per il diniego a dare seguito alle richieste di Biden, mentre la bocciatura ha provocato cali in borsa delle aziende coinvolte, ma non così forti come si poteva immaginare, semplicemente perché i contratti di vendita erano già stati firmati da tempo. Ma la pressione di Big Pharma non ha mollato, e venerdì 24, fatto davvero inconsueto, il Cdc, l’agenzia federale gemella della Fda, ne ha sovvertito le decisioni con uno stratagemma: ha deciso che potranno ricevere la terza dose le persone sopra i 18 anni a rischio di infettarsi per motivi di lavoro. Il che significa tutti coloro che sono a contatto con il pubblico o con i clienti; quindi quasi tutta la popolazione che lavora. Mentre si svolge il braccio di ferro tra lobby e agenzie federali, la comunità scientifica seria ha preso in grande considerazione le affermazioni di alcuni esperti convocati. Durante l’udienza della Commissione consultiva, il prof. Steve Kirsch, direttore del Covid-19 Early Treatment Fund, ha affermato che le iniezioni stanno uccidendo più persone di quante ne stiano salvando: “Oggi concentrerò le mie osservazioni sull’elefante nella stanza che nessuno vuole vedere: parliamo sempre di vite salvate e di efficacia dei vaccini perché abbiamo voluto credere che i vaccini fossero completamente sicuri, e questo non è vero per niente … il Vaers (il sistema di rilevazione passiva di effetti collaterali, nda) mostra che gli attacchi di cuore si sono verificati 71 volte più spesso a seguito di questi vaccini rispetto a qualsiasi altro vaccino. Più in generale possiamo dire che abbiamo ucciso due persone per salvare una vita”. Ora, si tratta indubbiamente di affermazioni molto gravi, che però circolano già da tempo nella comunità scientifica non solo americana. Con una sola differenza rispetto all’Italia: una simile presa di posizione negli States viene discussa, e i suoi sostenitori invitati a partecipare alla Commissione consultiva dell’Fda. Da noi i medici che osano esporsi pubblicamente con dubbi sui vaccini molto meno gravi di questi, vengono sospesi o addirittura radiati. Mentre i medici delle terapie domiciliari stanno aspettando da un anno di essere ricevuti dal ministro Speranza, che ha fatto ricorso al Consiglio di Stato per far confermare il suo assurdo protocollo “Paracetamolo e vigile attesa”, unanimemente stroncato dalla letteratura scientifica internazionale, dai medici sul campo, e in Italia messo fortemente in dubbio anche dal prof. Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico dell’Istituto Mario Negri. A proposito del Mario Negri, con un commento che ha fatto molto rumore, il suo presidente, il prof. Silvio Garattini, in una trasmissione televisiva ha dichiarato che al momento l’unico vantaggio della terza dose è per i fatturati delle aziende farmaceutiche. Tornando alla riunione della Commissione consultiva della Fda, l’immunologa e biologa Jessica Rose ha osservato che, sulla base dei dati Vaers, “i rischi del vaccino superano i benefici nei giovani, e in particolare nei bambini, a causa di un aumento di mille volte delle reazioni avverse all’iniezione nel 2021 rispetto agli ultimi decenni. C’è un aumento di oltre il 1000% nel numero totale di eventi avversi per il 2021 (nei bambini per i vaccini nel loro complesso) e il 2021 non è ancora finito”, ha detto Rose. Chi avesse voglia e tempo, e conosce bene l’inglese, può guardarsi l’intera registrazione di 8 ore dell’evento. Personalmente suggerirei in primis al ministro della Salute, ai vertici del Cts, ai giornalisti scientifici e a quelli generalisti che scrivono di virus senza adeguato background, ai virologi televisivi e ai conduttori di talk show così fermamente convinti dell’efficacia e sicurezza di questi vaccini, a guardarsi almeno tre volte di fila questo video. Perché ci impongono da mesi l’ascolto del loro disco rotto, che contiene delle vere e proprie falsità: “questi vaccini non sono più sperimentali perché sono già stati sperimentati su due miliardi e mezzo di persone. E sono efficaci e sicuri”. Ma se vengono “sperimentati” significa che sono sperimentali: o no? I documenti ufficiali parlano di autorizzazione condizionata fino alla fine della sperimentazione sul campo prevista per il 2023. Come si può affermare che non sono sperimentali? Sulla sicurezza, vedi sopra. Sull’efficacia, la stessa Pfizer ha dichiarato che essa già dopo 4-6 mesi può diminuire fortemente, fino a quasi scomparire dopo 7 o 8 mesi, mentre il green pass dura 12 mesi; ma allora, come la mettiamo? Ad un certo punto diventa una licenza di infettare? Senza dimenticare che oramai è accertato che i vaccinati possono anch’essi ammalarsi e contagiare. In particolare, i vertici delle istituzioni della salute dovrebbero mandare a memoria l’appello del dott. Robert Malone, lo scienziato che ha rivestito un ruolo chiave nella scoperta e nella realizzazione dei farmaci a Rna messaggero: “I medici sono sempre più scoraggiati dall’impegnarsi in un discorso professionale aperto e nello scambio di idee su malattie nuove ed emergenti, non solo mettendo in pericolo l’essenza della professione medica, ma soprattutto, più tragicamente, le vite dei pazienti. I medici e le persone di coscienza di tutto il mondo devono agire con una sola voce per fermare il comportamento autoritario diretto verso la professione medica”. Naturalmente di tutto questo in Italia i media non ci hanno fatto sapere quasi nulla, o al massimo qualche mezza verità, che è pure peggio. Il che dimostra che nel Belpaese vige un clima sempre più asfissiante, in quanto a una sorta di dogmatismo scientifico spinto più che altro dal marketing dei produttori, si aggiunge il dogmatismo mediatico favorito dai diffusi investimenti in pubbliche relazioni (è un eufemismo) messi in campo sempre dagli stessi produttori. Altro grave problema che riguarda gli onnipresenti virologi è che nessuno chiede mai loro di dichiarare eventuali conflitti di interesse, cosa che un tempo si faceva abitualmente. Il fondo lo si tocca poi con i cosiddetti siti di debunking, che guarda caso molto raramente entrano nel merito, preferendo concentrarsi sulla delegittimazione di chi sostiene tesi ritenute “pericolose”. Nel caso di Kirsch, uno di questi siti si è dilungato nel sostenere che non è affatto un membro dell’Fda. È vero, ma che importanza ha? È stato invitato a presentare le sue tesi alla Commissione consultiva dell’Fda. Pare poco? Mala tempora currunt. Perché il dogmatismo scientifico e mediatico ha convinto pure presidenti del Consiglio e della Repubblica a fare affermazioni talmente improponibili da essere imbarazzanti, oltre che a firmare decreti come quello che adotta o estende il green pass che non hanno decenti basi scientifiche. Nessuno si stupisce del fatto che la certificazione verde, oltre a Francia e Italia, non sia stata introdotta in nessun altro paese civile. Intanto, nonostante le dichiarazioni trionfalistiche, le vaccinazioni hanno di fatto cominciato a rallentare (lo dimostra il traguardo da raggiungere spostato sempre più avanti), probabilmente perché la gente comincia a rendersi conto che i vaccini “leaky” (imperfetti) come li ha definiti il presidente della Fondazione Hume, il sociologo Luca Ricolfi, rendono impossibile il raggiungimento di quell’immunità di gregge che sir Andrew Pollard (Head of Oxford Vaccine Group) ritiene semplicemente “un mito”. Mito con cui virologi, conduttori e giornalisti ci hanno riempito i tubi da molto tempo, come se fosse l’unica meta da raggiungere ad ogni costo. Ogni giorno sempre più autorevoli personalità del mondo scientifico internazionale esprimono dubbi sia su efficacia e sicurezza, sia sull’interpretazione delle statistiche sui morti. Qualche giorno fa Norman Fenton, matematico britannico, professore di gestione delle informazioni sui rischi presso la Queen Mary, Università di Londra, e, Martin Neil, docente in Informatica e Statistica presso la stessa Università, hanno affermato che i dati del governo del Regno Unito non supportano le affermazioni fatte riguardo all’efficacia e alla sicurezza del vaccino. E che facendo e rifacendo i calcoli, il tasso di mortalità risulta attualmente più alto tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati, come sta succedendo anche in Israele.
C’è anche il fatto che sempre più medici, sia pure sottovoce, parlano di crescenti effetti collaterali non ufficialmente dichiarati per il troppo lavoro burocratico ad essi correlato e per una assai sgradevole “moral dissuasion”. In tutta questa faccenda, è sempre più vero ciò che disse l’eroe di Chernobyl Valerij Alekseevič Legasov: “Ogni volta che si dice una menzogna, si contrae un debito con la verità. Prima o poi quel debito va saldato”.
(ilsussidiario.net, 1 ottobre 2021)
L'aspetto più evidente dell'asfissiante campagna di spinta alla vaccinazione universale è proprio la menzogna. Una menzogna presente in tutte le gradazioni, dalla più sfacciata alla più sfumata, ma soprattutto estesa, tenace, martellante, al punto da indurti a credere che se la metti in dubbio sei uno fuori di testa. E in qualche modo te lo suggeriscono. C'è qualcosa di diabolico in questo clima. Il primo obiettivo ad essere preso di mira è la mente. La Scrittura invita a rimanere attenti "affinché non siamo raggirati da Satana, perché non ignoriamo le sue macchinazioni" (2 Corinzi, 2:11). M.C.
Il ministro degli Esteri israeliano Lapid in Bahrain per inaugurare l'ambasciata
Dopo la firma degli Accordi di Abramo lo scorso anno. La compagnia Gulf Air inuagura il volo diretto tra Manama e Tel Aviv. Nei dintorni della capitale proteste e copertoni bruciati: "No ai sionisti".
di Sharon Nizza
GERUSALEMME - Dopo gli Emirati Arabi Uniti e il Marocco, oggi è il Bahrein a ospitare per la prima volta una visita ufficiale di un membro di governo israeliano, a un anno dalla firma degli Accordi di Abramo che hanno segnato la normalizzazione delle relazioni tra questi Paesi Arabi e lo Stato ebraico. Il ministro degli Esteri Yair Lapid è atterrato oggi a Manama per una fitta agenda di incontri nel corso di un’unica giornata. Lapid è stato ricevuto dall’omologo Abdullatif bin Rashid Al Zayani e ha incontrato il reggente del Regno del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa, nonché il principe ereditario e primo ministro Salman bin Hamad Al Khalifa. “Israele e Bahrein hanno tanti aspetti in comune: una storia antica e la capacità di adattarsi alla modernità con tecnologie all’avanguardia. Entrambi abbiamo fatto fiorire la vita nel cuore del deserto”, ha detto Lapid nel suo discorso davanti al monarca, che ha ringraziato per la sua “leadership e visione senza le quali non saremmo qui oggi”. Il piccolo e strategico arcipelago che si affaccia sul Golfo persico, ha aderito nell’agosto 2020 agli Accordi di Abramo, poco dopo l’annuncio fatto dall’allora presidente americano Donald Trump sull’avvio delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti. In agenda per Lapid anche l’inaugurazione dell’Ambasciata israeliana in Bahrein – operativa già da novembre – e un incontro con la comunità ebraica locale con radici centenarie nell’isola: oggi conta solo una quarantina di esponenti, ma dall’avvio relazioni con Israele sta vivendo un significativo revival. In parallelo, si è svolta all’aeroporto israeliano Ben Gurion una cerimonia ufficiale per l’inaugurazione della linea aerea diretta tra Manama e Tel Aviv, con il primo volo commerciale della Gulf Air atterrato oggi, che si aggiunge alle nuove rotte che nell’ultimo anno hanno creato nuovi collegamenti da Tel Aviv a Abu Dhabi, Dubai, Casablanca, Marrakesh e Rabat. L’arrivo del ministro israeliano ha suscitato alcune proteste a Manama: dei manifestanti hanno dato alle fiamme delle gomme e respinto la nuova alleanza sotto lo slogan “il Bahrein respinge i sionisti”, diventato anche un hashtag su Twitter. “Sono voci marginali che non riflettono l’opinione pubblica”, dice a Repubblica la giornalista Ahdeya Ahmed al-Sayed, già presidente dell’ordine dei giornalisti del Bahrein. “Il dibattito sui social media riflette invece la positività con cui è stata accolta la normalizzazione. È un percorso, ma è evidente da quanto abbiamo potuto vedere nell’ultimo anno che c’è sempre più consapevolezza che non si possa più ignorare la presenza di Israele, un Paese forte di questa regione e un legittimo membro delle Nazioni Unite”. Lapid ha siglato diversi accordi di cooperazione nei settori finanziario, turistico, agricolo. “Abbiamo opportunità in comune, così come minacce congiunte, non lontano da qui”, ha aggiunto il capo della diplomazia israeliana durante l’incontro con il Re Hamad bin Isa Al Khalifa - con un chiaro riferimento al dirimpettaio iraniano dall’altra parte del Golfo. Per Israele – e per l’area intera – il Bahrein ha una rilevanza strategica di primo piano per tutti gli attori in campo. Con una maggioranza della popolazione musulmana sciita, ma la casa reggente sunnita, è visto da Teheran come un Paese ribelle appartenente alla sua orbita, la “quattordicesima provincia”, come spesso vi si riferiscono i Pasdaran iraniani. “Il Bahrein è un altro snodo della battaglia tra estremisti e moderati”, dice a Repubblica Dore Gold, già ambasciatore israeliano all’Onu, presidente del think tank Jerusalem Center for Public Affairs, che di recente ha ospitato in Israele il centro studi Derasat del Bahrein con cui ha avviato una cooperazione accademica. Le mire dell’Iran su Manama sono chiare, spiega Gold, solo nel 2018 è stata sventata una cellula affiliata a Hezbollah che tentava di consolidarsi nel Paese. D’altro canto, dal 1995, Manama ospita il quartier generale della Quinta Flotta della marina militare Usa, che ha competenze strategiche che spaziano dall’Oceano indiano al Corno d’Africa, passando per l’intera arena mediorientale. Uno dei risultati più significativi degli Accordi di Abramo è stata l’inclusione d’Israele nell’area di competenza del CentCom, il comando centrale dell’esercito statunitense che opera dall’Egitto all’Afghanistan e di cui Manama costituisce una base di primo piano, soprattutto nella difesa delle rotte marittime che negli ultimi mesi sono state protagoniste di numerosi sabotaggi, uno dei fronti della guerra delle ombre tra Israele e Iran. “Il ritiro degli Usa dall’Afghanistan e il progressivo abbandono del Medioriente avranno conseguenze critiche per l’area”, continua Gold. “Ci sono voci negli Stati Uniti che chiedono il ritiro anche dal Bahrein e se questo dovesse accadere, sarebbe un regalo per le mire espansionistiche dell’Iran”. Anche rispetto all’opposizione al rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano Jcpoa Israele e Bahrein sono in sintonia, così come gli altri Paesi del Golfo. “Il Gcc (Consiglio di cooperazione del Golfo, ndr) ha espresso agli Usa la propria preoccupazione per il fatto che allo stato attuale il Jcpoa non faccia riferimento al programma balistico iraniano o altre condotte maligne nella regione”, ha detto al Jerusalem Post il sottosegretario agli Esteri del Bahrein, Abdullah bin Ahmed Al Khalifa, durante la sua missione in Israele ad agosto. “L’Iran ha superato tutte le linee rosse”, ha detto lunedì il premier israeliano Naftali Bennett nella sua prima apparizione di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. “Le parole non fermano le centrifughe. Israele non permetterà all’Iran di acquisire l’arma nucleare”. Fino a dove si spinge l’alleanza di Israele con i nuovi partner regionali è una domanda che rimane ancora aperta.
(la Repubblica, 1 ottobre 2021)
Ad 80 anni dal massacro di Babi Yar riemergono le immagini sconvolgenti
di Michelle Zarfati
Una serie di scatti inediti è riemersa prima dell'80° anniversario del massacro di Babi Yar. Immagini forti, che mostrano i primi sforzi degli attivisti negli anni '60 di identificare ossa e resti umani nel sito in cui quasi 35.000 ebrei furono assassinati in soli due giorni.
Tra il 29 e il 30 settembre 1941, i nazisti e i loro collaboratori uccisero decine di migliaia di ebrei nel burrone di Babi Yar, appena fuori Kiev. Nonostante l’evento rappresenti uno dei più grandi massacri della Shoah, il sito e la vicenda storica sono stati in gran parte ignorati per decenni. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, più di 100.000 persone furono infine uccise nella fossa.
Nel 1966, nel 25° anniversario del massacro, un gruppo di attivisti iniziò a lavorare per identificare le decine di migliaia di resti umani lasciati a Babi Yar, e per commemorare ufficialmente tutti coloro che furono uccisi lì. Spiega in una nota la Biblioteca Nazionale di Israele.
Gli sforzi di quei primi attivisti sono stati documentati da Joseph Schneider, un sopravvissuto alla Shoah e dissidente antisovietico. Le fotografie scattate da Schneider nel 1966 sono state trovate nell'Archivio Emmanuel (Amik) Diamant. Il materiale è stato a sua volta consegnato all'Archivio centrale della Biblioteca Nazionale di Israele e le foto sono così state pubblicate ora per la prima volta.
Negli ultimi decenni, gli attivisti hanno lavorato per portare in primo piano la storia di Babi Yar e per stabilire un ampio ed educativo centro commemorativo nel sito. L'ultima iniziativa, chiamata Babi Yar Holocaust Memorial Center, è guidata dal “Refusnik” e dall'ex politico israeliano Natan Sharansky.
Mercoledì, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha visitato il luogo del massacro di Babi Yar per celebrare il suo 80° anniversario. “La tragedia di Babi Yar non dovrebbe mai ripetersi", ha detto Zelensky - anch’esso ebreo - alla cerimonia di deposizione dei fiori. “Non in Ucraina. Non altrove in Europa. Da nessuna parte nel mondo", ha aggiunto.
Il presidente Isaac Herzog dovrebbe recarsi a Kiev la prossima settimana, nella sua prima visita di stato da quando è entrato in carica quest'estate, per prendere parte a una cerimonia di commemorazione che segna gli 80 anni dal massacro di quasi 35.000 ebrei
"È imperativo continuare a parlare di questo orribile evento e impararne le lezioni", ha condiviso Herzog in una dichiarazione martedì- Il Babi Yar Holocaust Memorial Center è un luogo importante per la commemorazione di questo doloroso ricordo e per dimostrare che dobbiamo continuare a lavorare insieme affinché non avvenga mai più”.
(Shalom, 1 ottobre 2021)
Le avventure di Moishe, il pirata ebreo
di Nathan Greppi
Tutti noi, da piccoli, abbiamo sognato almeno una volta di lasciare il luogo dove siamo cresciuti per vivere un’avventura che vada oltre la nostra immaginazione. Oggi magari sogniamo più di andare un giorno nello spazio, mentre secoli fa la massima aspirazione era quella di scoprire terre e mari inesplorati in quello che veniva chiamato il “Nuovo Mondo”. Questo sogno è alla base del romanzo Yiddish for Pirates, scritto dall’autore canadese Gary Barwin e pubblicato nel 2016 dalla Random House. La storia è ambientata intorno al 1492; mentre Cristoforo Colombo scopre l’America, la corona spagnola dà inizio alla cacciata e alla persecuzione degli ebrei nei suoi territori. Moishe è un giovane ebreo che un giorno decide di lasciare il suo shtetl nell’Europa orientale per diventare un marinaio; da qui, accompagnato dal vivace pappagallo Aaron, inizierà tutta una serie di avventure che lo porteranno a darsi alla pirateria, a innamorarsi della bella Sarah, e a cercare la leggendaria Fonte della giovinezza. La storia è narrata in prima persona proprio da Aaron, il cui racconto mescola un inglese gergale con parole tratte dallo yiddish: lo sentiamo così incitare a dare calci nei beizim (“uova” in ebraico e yiddish, un modo per dire i genitali), gridare oyvey come esclamazione di stupore, o chiamare il suo giovane amico boychik, come vezzeggiativo. Sebbene Barwin, nato a Belfast da genitori ashkenaziti e canadese d’adozione, si prenda molte libertà nel narrare il periodo storico in questione, vi è un fondo di verità nel suo racconto: come spiegava nel 2008 il saggio di Edward Kritzler Jewish Pirates of the Caribbean, nei secoli successivi alla cacciata degli ebrei dalla Spagna alcuni di questi, rifugiatisi nei regni musulmani e nelle colonie nel Nuovo Mondo, si diedero alla pirateria attaccando principalmente le navi spagnole, sia per il semplice desiderio di arricchirsi che per difendere la propria libertà. Non a caso, al termine del romanzo Barwin cita il libro di Kritzler tra le opere che lo hanno ispirato. Sebbene fuori dal suo paese sia poco conosciuto, in Canada Yiddish for Pirates è stato acclamato dalla critica e ha ricevuto numerosi premi, compreso il Canadian Jewish Book Award per la Narrativa.
(Bet Magazine Mosaico, 1 ottobre 2021)
La fuga in taxi (a 96 anni) della ex segretaria nazista
Amburgo, voleva evitare il processo per complicità nella morte di 11mila persone
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In aula ad attenderla anche 50 giornalisti. Arrestata dalla polizia dopo poche ore
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di Flaminia Bussotti
BERLINO L'ex segretaria di un campo di concentramento nazista, imputata in uno degli ultimi processi sul nazismo in Germania, è stata protagonista di un colpo di scena spettacolare al tribunale regionale di Itzehoe, nello Schleswig-Holstein, vicino Amburgo, dove avrebbe dovuto rispondere ieri dell'accusa di complicità in oltre 11.000 omicidi nel Lager di Stutthof presso Danzica, in Polonia. La donna, Irmgard Furchner, ex dattilografa e segretaria del comando del campo di concentramento, che ha oggi 96 anni, non si è presentata all'udienza ed è fuggita con un taxi in direzione di Amburgo. Qualche ora dopo la polizia l'ha rintracciata e fermata, secondo quanto reso noto dalla portavoce del tribunale, Frederike Milhoffer. In giornata sarebbe stata portata davanti alla sezione penale del tribunale che dovrà decidere se procedere all'arresto o soprassedere data la sua età. Un medico dovrà accertare se le sue condizioni sono compatibili con la detenzione.
• IL RINVIO Il processo è stato aggiornato al 19 ottobre. «Posso confermare che l'imputata è stata ritrovata, un medico stabilirà se può essere detenuta e la corte deciderà se il mandato di arresto può essere eseguito o le sarà risparmiato», ha detto la portavoce dopo la fuga rocambolesca e il ritrovamento della donna. Ha precisato inoltre che la donna, che vive in una casa per anziani, ha lasciato ieri fra le 06:00 e le 07:20 la sua residenza e ha preso un taxi diretto a una stazione della metropolitana di Norderstedt, alla periferia di Amburgo. Secondo Bild online, verso l'ora di pranzo, la polizia ha visto la donna che camminava lungo la Langenhorner Strasse ad Amburgo, si è insospettita e l'ha fermata. L'imputata deve rispondere dell'accusa di complicità nell'uccisione di oltre 11.000 prigionieri del campo di concentramento di Stutthof. In qualità di segretaria e dattilografa del comando del Lager, fra giugno 1943 e l'aprile 1945, avrebbe fornito aiuto ai responsabili del campo nelle operazioni di eliminazione sistematica dei detenuti. Secondo l'Ufficio Centrale di Ludwigsburg che indaga dall'inizio degli anni '60, con competenza per tutti i Lander, sui crimini nazisti, nel campo di concentramento di Stutthof, negli altri circostanti e nelle cosiddette marce della morte ordinate dai nazisti verso la fine della guerra sono morte circa 65.000 persone. All'inizio della guerra venivano internati a Stutthof civili polacchi. Dal 1942.vi arrivavano anche i trasporti dagli altri territori occupati dai nazisti e dal giugno 1944 dìvenne parte della macchina di stermino della "soluzione finale".
• LE DONNE EBREE Secondo il memoriale israeliano di Yad Vashem vi venivano deportate in prevalenza donne ebree dai Lager di lavoro nel Baltico e da Auschwitz. Le condizioni di detenzione erano terribili e simili a quelle dei campi di sterminio: i detenuti morivano di malattie, maltrattamenti, ma anche tramite fucilazioni, impiccagioni, camera a gas e iniezioni di fenolo al cuore. Trattandosi di uno degli ultimi a ex responsabili e complici dei crimini nazisti, il processo ha catalizzato molta attenzione di media e opinione pubblica e all'udienza di ieri nell'aula del tribunale ubicato nella sede dell'Industria c'erano oltre 50 fra giornalisti e pubblico, più 12 rappresentanti dei 30 avvocati di parte civile, della difesa, e collaboratori vari. Nel primo giorno del processo sarebbe stata data solo lettura dei capi di accusa.
• LA CONFERMA La portavoce Milhoffer ha confermato che prima dell'inizio del processo la 96/enne aveva indirizzato al tribunale una lettera in cui annunciava che non si sarebbe presentata in aula. Il giudice competente le aveva risposto informandola delle misure che sarebbero state prese in caso di non comparizione. «Contro una imputata assente non può notoriamente svolgersi un'udienza», ha detto il presidente del collegio dei giudici, Dominik Grofs, una ventina di minuti prima dell'inizio dell'udienza: «L'imputata è fuggita, nei suoi confronti è stato emesso un mandato di arresto». Processo rinviato. L'avvocato della difesa, Wolf Molkentin, era in aula ma non ha rilasciato dichiarazioni.
(Il Messaggero, 1 ottobre 2021)
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