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Notizie 1-15 ottobre 2022



Individuo e società (4)

di Marcello Cicchese

Nel seno di Maria, resa incinta dallo Spirito Santo, Dio si è fatto ebreo. Il Figlio di Dio è entrato, come uomo, nel popolo eletto, e lasciandosi battezzare da Giovanni Battista ha mostrato di voler essere parte del residuo fedele d’Israele, costituito da coloro che, come Daniele, riconoscono i loro peccati e quelli del popolo. A differenza però degli altri penitenti, Gesù non ha dovuto confessare i suoi peccati personali, perché non ne aveva. Il suo compito era, da una parte, rendersi responsabile oggettivo dei peccati del popolo; dall’altra, essere lo strumento attraverso cui i peccati vengono tolti, cioè l’agnello di Dio che si offre come vittima senza macchia per i peccati di Israele innanzi tutto e poi di tutto il mondo. 
  Si pone allora una domanda: se nel corso dei secoli non è mai mancato un nucleo di israeliti ubbidienti a Dio, dov’era e da chi era formato il residuo fedele d’Israele nel momento in cui Gesù pendeva sulla croce? Essere fedeli a Dio nel tempo in cui il Messia era presente sulla terra significava ascoltare le sue parole e rimanere uniti a Lui. Dio l’aveva detto esplicitamente a Pietro, Giacomo e Giovanni nell’episodio della trasfigurazione:

    “Mentre egli parlava ancora, una nuvola luminosa li coprì con la sua ombra, ed ecco una voce dalla nuvola che diceva: «Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo».” (Matteo 17:5).

Ma chi ha seguito Gesù fin sulla croce? Teoricamente sarebbe potuto accadere. I suoi discepoli avrebbero potuto rimanere vicini a Lui fino all’ultimo, essere considerati solidali con Lui e subirne di conseguenza la medesima sorte: essere crocifissi insieme a Gesù. Ma questo non è avvenuto, né poteva avvenire. Gesù l’aveva predetto:

    “Dopo che ebbero cantato gli inni, uscirono per andare al monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Voi tutti sarete scandalizzati perché è scritto: “Io percoterò il pastore e le pecore saranno disperse” (Marco 14:26-27).

L’apostolo Pietro però non si lasciò spaventare dalle parole di Gesù, perché era sicuro di potergli rimanere fedele fino alla morte:

    “Allora Pietro gli disse: «Quand’anche tutti fossero scandalizzati, io però non lo sarò!»” (Marco 14:29).
    “Pietro gli disse: «Signore, sono pronto ad andare con te in prigione e alla morte».” (Luca 22:33).

Ma Gesù l’aveva avvertito:

    “Simon Pietro gli domandò: «Signore, dove vai?» Gesù rispose: «Dove vado io, non puoi seguirmi per ora; ma mi seguirai più tardi». Pietro gli disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!» Gesù gli rispose: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico che il gallo non canterà che già tu non mi abbia rinnegato tre volte.” (Giovanni 13:36-38).

E’ commovente lo slancio di Simon Pietro: era pronto a dare la sua vita per Gesù, e non aveva capito invece che Gesù stava per dare la sua vita per lui. Quello che gli accadrà in seguito gli farà capire che ne aveva assolutamente bisogno. 
  Il cammino di Gesù verso la croce è un cammino verso la solitudine:

    “L’ora viene, anzi è venuta, che sarete dispersi, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me.” (Giovanni 16:32).

Naturalmente questa parola di Gesù si avvera:

    “Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei dodici, e insieme a lui una gran folla con spade e bastoni, da parte dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo. Colui che lo tradiva, aveva dato loro un segnale, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; prendetelo». E in quell’istante, avvicinatosi a Gesù, gli disse: «Ti saluto, Maestro!» e gli diede un lungo bacio. Ma Gesù gli disse: «Amico, che cosa sei venuto a fare?» Allora, avvicinatisi, gli misero le mani addosso e lo presero. Ed ecco, uno di quelli che erano con lui, stesa la mano, prese la spada, la sfoderò e, colpito il servo del sommo sacerdote, gli recise l’orecchio. Allora Gesù gli disse: «Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada. Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli? Come dunque si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che così avvenga?» In quel momento Gesù disse alla folla: «Voi siete usciti con spade e bastoni, come contro un brigante, per prendermi. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare e voi non mi avete preso; ma tutto questo è avvenuto affinché si adempissero le Scritture dei profeti». Allora tutti i discepoli l’abbandonarono e fuggirono.” (Matteo 26:47-56).

E’ importante notare che i discepoli non fuggirono alla vista della gran folla con spade e bastoni. Anzi, quando qualcuno osò mettere le mani addosso a Gesù l’apostolo Pietro (Giovanni 26:10) sfoderò la spada e cercò di spaccare la testa al servo del sommo sacerdote, riuscendo soltanto a staccargli un orecchio. Era dunque veramente disposto a seguire Gesù fino alla morte, che poteva considerarsi sicura dopo la sua reazione violenta di fronte a una folla così armata e determinata. “Io posso anche essere ucciso - avrà pensato Pietro, - ma Gesù no, perché Lui è il Messia mandato da Dio per liberarci dalle mani dei nostri nemici. Certamente li sconfiggerà, chiamando magari in soccorso una legione di angeli, e dopo averli sconfitti mi farà risorgere. Non ha forse mostrato di poterlo fare soltanto pochi giorni fa, risuscitando Lazzaro?” Era questa probabilmente la “fede” che Pietro – e con lui gli altri discepoli – aveva in Gesù. Forse si aspettava qualche parola di approvazione per il suo gesto audace, e invece Gesù lo riprende e pubblicamente lo sconfessa. Il rapporto con il Maestro si rompe; i discepoli scappano; Gesù resta solo. Da quel momento Gesù rimane l’unico israelita, e quindi l’unico uomo sulla terra, ubbidiente a Dio. Il residuo fedele d’Israele si concentra tutto in Lui. Gesù è il residuo, e il residuo rappresenta l’Israele che trova giustizia davanti a Dio, non perché è senza peccato, ma perché Dio stesso s’incarica di togliere il peccato. Ed è sulla croce che avviene l’opera di giustificazione. Gesù si fa uno col suo popolo e si carica così della responsabilità dei suoi peccati. Ma Gesù è personalmente senza peccato, e può quindi occupare il posto della vittima innocente su cui si scarica la giustizia punitiva di Dio e attraverso cui si compie l’opera di espiazione. “Giustizia è fatta!” si potrebbe esclamare davanti all’esecuzione del rappresentante di un popolo peccatore. Ma poiché il rappresentante era personalmente innocente, la medesima giustizia di Dio richiedeva che non rimanesse nella morte:

    “… ma Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto” (Atti 2:24).
    “… per noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Romani 4:24-25).

Sulla croce avviene dunque l’espiazione dei peccati del popolo d’Israele, e di conseguenza di tutto il mondo, perché Gesù rappresenta Israele, e Israele rappresenta il mondo. Vale infatti una specie di equivalenza spirituale: Gesù sta a Israele come Israele sta al resto del mondo. Voler saltare direttamente da Gesù al mondo senza passare per Israele porta a quella fatale distorsione che genera l’antisemitismo cristiano. Si afferma con sicurezza che“Dio ha tanto amato il mondo”, e nel retroterra del pensiero qualcuno aggiunge: “e ha tanto odiato Israele”. Non è possibile credere che “Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo” (2Corinzi 5:19) e pensare che Dio sia rimasto in lite con il suo popolo. E’ chiaro che quando si parla di “mondo” si intende una realtà collettiva. Dire che il mondo è riconciliato con Dio non significa che tutti gli uomini sono o saranno salvati. La stessa cosa vale per Israele. Come realtà collettiva Israele è un popolo riconciliato con Dio, ma questo non significa che tutti gli ebrei sono o saranno salvati.
  Due distinzioni devono sempre essere tenute presenti nel considerare i fatti biblici: la distinzione sociale individuo-società e la distinzione temporale presente-futuro. Dire che Israele e mondo sono riconciliati con Dio è vero come fatto sociale e come realtà futura, mentre non è vero come fatto individuale e come realtà presente. E’ questo che vuol dire l’evangelista Giovanni nel suo prologo quando afferma che né Israele, né mondo hanno accettato la persona di Gesù. Parlando di Israele dice:“E’ venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto” (Giovanni 1:11), ma dice anche: “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l’ha conosciuto” (Giovanni 1:10). Il mondo che non ha conosciuto la Parola di Dio non è la gente che oggi non crede alla predicazione del Vangelo, perché prima della Pentecoste i pagani non sapevano nulla di Gesù. Il mondo di Giovanni che non ha conosciuto il Messia è la realtà storico-politica dell’Impero romano rappresentata da Pilato, che non ha capito quello che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi, non ha capito le parole di Gesù che gli parlava di verità e ha manifestato il suo disprezzo per il popolo eletto esigendo che sulla croce fosse scritto in modo chiaro e pubblico che lì veniva crocifisso “il Re dei Giudei”. Israele e mondo, come realtà politiche, hanno respinto entrambe, ciascuna a suo modo, la Parola di Dio fatta carne. Entrambe hanno rifiutato di sottomettersi a Dio, ed è per questo che la manifestazione della sovranità di Dio, nella sua opera di giudizio, di ricostituzione della nazione di Israele e di salvezza storico-politica del mondo, non è oggi una realtà presente ma è annunciata per un tempo futuro. Oggi è il tempo della grazia come possibilità di salvezza individuale. Infatti Giovanni, dopo aver dichiarato che sul piano politico nessuno ha riconosciuto in Gesù la luce del mondo, aggiunge: “.. ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventar figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome” (Giovanni 1:12). 
  L’insieme di tutti coloro che individualmente, siano essi ebrei o gentili, dal tempo della Pentecoste in poi, accolgono Gesù nella predicazione del Vangelo, costituiscono una nuova realtà sociale che la Scrittura chiama “chiesa”. In nessun senso essa sostituisce Israele e compie le promesse che Dio ha fatto al suo popolo che Egli ha tratto dalla schiavitù d’Egitto. Il fatto che la chiesa sia l’oggetto dell’insegnamento fornito da quasi tutto il Nuovo Testamento, a partire dalla lettera ai Romani in poi, non significa che il tema Israele sia stato abbandonato, ma è dovuto soltanto alla particolarità di questo periodo della storia della salvezza, compreso tra la prima e la seconda venuta del Messia. Ma anche nel Nuovo Testamento, anche nelle lettere dell’apostolo Paolo, e in particolare nei capitoli da 9 a 11 della lettera ai Romani, ci sono indicazioni sufficienti a far capire che la funzione di Israele nel programma storico-salvifico di Dio è stata soltanto rinviata e non lasciata cadere.

(4. fine)




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Tappa in Israele per “Linea Verde Life”

Linea Verde Life
Marcello Masi e Daniela Ferolla, con la partecipazione di Federica De Denaro, racconteranno ai telespettatori la nazione delle start up, Israele, nella puntata di “Linea Verde Life”, in onda sabato 15 ottobre alle 12.25 su Rai 1. Un viaggio insolito alla scoperta di un territorio unico al mondo, crocevia di culture. Gerusalemme, la Città Sacra, sarà il punto di partenza del racconto, i due conduttori attraverseranno poi l’intera regione per narrare i luoghi imperdibili di questo Paese. Dal Mar Morto, per sperimentare gli effetti benefici della sua acqua, passando per il deserto del Negev dove si studia e si coltiva la vite, fino a raggiungere Tel Aviv, città dell’innovazione tecnologica e la zona di Haifa, dove si sperimenta un fotovoltaico flottante di ultima generazione. Non mancherà, poi, l’occasione di conoscere i sapori di questa terra tra cucine e street food, spezie e colori.

(SMS News, 15 ottobre 2022)

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L’accordo su gas e confini marittimi tra Israele e Libano è storico

I due paesi sono ancora formalmente in guerra ma grazie alla mediazione degli Usa hanno raggiunto un'intesa fondamentale per lo sfruttamento dei giacimenti nell'area interessata.

di Amedeo Lascaris

Tra venti di guerra su vasta scala e i timori di confronto nucleare tra grandi potenze, l’accordo faticosamente raggiunto tra Israele e Libano per la demarcazione dei confini marittimi rappresenta uno spiraglio di luce in una regione che da sempre è considerata foriera di conflitti. L’accordo, che deve essere ancora firmato dai rispettivi governi, è stato mediato dagli Stati Uniti e favorito dalla Francia che ha sfruttato la sua influenza sulla leadership sunnita libanese.

• Dall’accordo nessun vantaggio per Hezbollah
  L’intesa deve essere ancora approvata formalmente, ma il benestare alla proposta estesa dal mediatore e inviato speciale statunitense, Amos Hochstein, da parte del presidente libanese Michel Aoun e del premier israeliano, Yair Lapid, blocca sul nascere un potenziale nuovo conflitto nell’area tra Israele e il movimento sciita filo-iraniano Hezbollah. L’accordo apre inoltre le porte all’esplorazione e alla perforazione dei giacimenti del Mediterraneo orientale, offrendo un potenziale sollievo al Libano, che sta patendo la più grave crisi economica della sua storia, e potenziali nuove opportunità anche per i paesi europei alla disperata ricerca di risorse alternative al gas fornito dalla Russia.
  I principali detrattori dell’accordo, tra cui spicca l’ex premier israeliano e leader del partito Likud, Benjamin Netanyahu, sostengono che l’intesa creerà problemi a Israele, offrendo potenziali benefici e risorse economiche ad Hezbollah. Il primo ministro Lapid e il consigliere per la sicurezza nazionale Eyal Hulata hanno affermato che qualsiasi entrata per il Libano da parte dello sfruttamento delle potenziali risorse di gas offshore non andrà a Hezbollah.

• La contesa tra Israele e Libano
  Israele e Libano non hanno rapporti diplomatici e sono formalmente ancora in guerra dal 1982. Dopo il ritiro di Israele dal sud del Libano nel 2000, non esiste un confine terrestre definito e riconosciuto, ma solo una linea di demarcazione, la cosiddetta “linea blu” presidiata dalla Missione di interposizione in Libano delle Nazioni Unite (Unifil). Tale situazione ha ripercussioni anche sulle acque considerato che ad oggi vi è una demarcazione fisica, la cosiddetta “linea delle boe” che prosegue dalla costa per soli cinque chilometri, rendendo impossibile stabilire confini marittimi territoriali e Zone economiche esclusive. L’area di 860 chilometri quadrati del Mediterraneo orientale su cui insiste l’accordo ospita potenzialmente petrolio e gas per un valore di miliardi di dollari. Sono state infatti le scoperte fatte da Israele negli ultimi anni a sollevare in Libano la necessità di una risoluzione della disputa con l’avvio nel 2020 dei primi negoziati indiretti ospitati dall’Unifil e mediati dagli Stati Uniti, più volte rinviati e bloccati.
  Le tensioni sono peggiorate con l’invio nel mese di giugno della piattaforma petrolifera della compagnia Energean incaricata da Israele di effettuare perforazioni nel giacimento di Karish, la cui parte settentrionale rientra nell’area contesa. L’arrivo della piattaforma ha spinto il gruppo sciita Hezbollah ad alzare i toni della disputa minacciando di colpire con missili balistici e droni Israele e le eventuali infrastrutture per l’estrazione di gas. Solo cinque giorni prima dell’annuncio del raggiungimento di un accordo, il 6 ottobre, il ministro della Difesa Benny Gantz aveva ordinato alle truppe israeliane di stare in allerta nel nord del paese, temendo un’eventuale escalation, mentre circolavano voci di un rifiuto da parte del Libano della proposta estesa da Israele al testo di accordo del mediatore Hochstein.

• I termini dell’accordo
  Il testo ufficiale dell’accordo è ancora formalmente segreto, ma il testo è trapelato sui principali media israeliani. Il documento ha la data del 10 ottobre e si presenta come uno scambio di lettere tra il mediatore Usa e le due parti, che non avendo rapporti diplomatici non possono avere contatti diretti, ma che possono, secondo il diritto internazionale, vedere riconosciuto un accordo tramite lo scambio di missive. Nel preambolo si può leggere: «Gli Stati Uniti comprendono che (Libano/Israele) è pronto a stabilire il proprio confine marittimo permanente e a concludere una risoluzione permanente ed equa in merito alla sua disputa marittima con (Israele/Libano)».
  L’accordo presenta anche le coordinate precise dei confini marittimi che confermano che l’intero triangolo di Mediterraneo conteso di 860 chilometri quadrati ricade nelle acque economiche libanesi, con il confine che sarà sulla cosiddetta linea 23, che di fatto esclude il giacimento Karish dalle acque rivendicate da Beirut. Secondo il consigliere per la sicurezza nazionale Hulata Israele avrebbe quindi concesso circa un chilometro quadrato delle sue acque territoriali. La contropartita per le concessioni fornite dallo Stato ebraico sarebbe la possibilità di ottenere royalties dalla compagnia francese Total Energies che guida il consorzio incaricato di avviare le perforazioni nei Blocchi 4 e 9 nelle acque libanesi, di cui fanno parte anche l’italiana Eni e lo Stato libanese (che ha rilevato di recente la partecipazione della russa Novatek).

• Anche Hamas appoggia l’intesa
  Mentre in Cisgiordania il nuovo gruppo armato palestinese Lion’s den sta colpendo duro contro le forze di sicurezza israeliane, lo storico nemico dello Stato di Israele, Hamas, ha accolto con favore l’accordo. Il gruppo palestinese ha diramato un comunicato stampa dove «loda la posizione coraggiosa assunta dal governo libanese» che ha portato al raggiungimento dell’intesa con «l’entità sionista», la quale cerca di «prendere il controllo delle risorse della regione».
  La mossa del Libano, secondo il movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza, è un «passo verso il raggiungimento di una soluzione» a fronte dei tentativi di alimentare «sedizione» e «odio tra i popoli della regione».
  Hamas ha espresso apprezzamento per la «politica saggia» e la «lungimiranza» mostrata dal segretario generale del movimento libanese filoiraniano Hezbollah, Hassan Nasrallah, il quale avrebbe il merito non aver fatto scivolare la regione verso un «conflitto inutile».

(Tempi, 15 ottobre 2022)

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Nuovo cinema ebraico e israeliano 15

A Milano dal 23 al 27 ottobre

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Torna a Milano dal 23 al 27 ottobre 2022 la Rassegna Nuovo Cinema Ebraico e Israeliano organizzata dalla Fondazione CDEC in collaborazione con Fondazione Cineteca Italiana. La Rassegna, giunta alla 15a edizione, quest'anno si svolgerà al Cinema Arlecchino in via San Pietro all'Orto 9.
   Le pellicole selezionate sono tredici e saranno introdotte da Sara Ferrari, Direttrice Scientifica del progetto. Tra le tematiche principali di questa edizione: la questione ambientale con il documentario Dead Sea Guardians, il tema della parità di genere con Women of Valor e quello dell'integrazione con The Dinner. Un altro tema importante riguarda il racconto della vita comunitaria in città diverse: Piazza di Karen Di Porto documenta la vita della comunità ebraica di Roma, mentre il regista Ruggero Gabbai presenterà Du TGM au TGV, documentario che racconta le vicissitudini della comunità ebraica di Tunisi, in larga parte costretta a emigrare in Francia.
  L'evento inaugurale sarà dedicato al tema della Resistenza con la proiezione del documentario Four Winters: A story of Jewish Partisan Resistance and Bravery in WW2 di Julia Mintz, seguito da un dibattito tra la regista e la storica Liliana Picciotto.
  Infine, quest'anno verrà presentata una miniserie legata all'intreccio tra il linguaggio audiovisivo e quello letterario: nel pomeriggio di lunedì 24 ottobre, verranno proiettati tre documentari dedicati a Abraham Yehoshua, David Grossmann e Amos Oz, protagonisti della letteratura israeliana contemporanea.

(cinemaitaliano.info, 15 ottobre 2022)

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Giornata Mondiale dell’Osteoporosi, visite gratuite all’Ospedale Israelitico di Roma

ROMA – In occasione della Giornata Mondiale dell’Osteoporosi, in programma il 20 ottobre, l’Ospedale Israelitico aderisce alla settima edizione dell’(H)Open Day promosso da Fondazione Onda, Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere. Il network ospedaliero, già premiato con due Bollini Rosa per la cura e l’attenzione per la medicina di genere, dedicherà la giornata di giovedì 20 ottobre 2022 alla salute delle ossa, con colloqui e visite ambulatoriali gratuite, questionari e diffusione di materiale informativo sulla cura e la prevenzione di questa patologia.
  L’osteoporosi è una malattia che interessa tutto lo scheletro. Si distingue per il silente deterioramento dell’architettura ossea ed è caratterizzata dalla lenta riduzione della sua massa minerale. Ciò comporta inevitabilmente la fragilità dell’osso e un conseguente aumento del rischio di fratture. Oggi, grazie ai progressi della tecnologia, l’osteoporosi può essere facilmente diagnosticata attraverso esami strumentali che misurano la densità minerale ossea e soprattutto può essere prevenuta.
  Per questo, grazie al supporto del team di geriatri, guidati dal Dott. Stefano Ronzoni, Responsabile dell’UOC di Geriatria dell’Ospedale Israelitico, e alle innovative tecnologie in dotazione presso il nosocomio ebraico, sarà possibile valutare il rischio di frattura mediante l’algoritmo DEFRA CALC e analizzare la forza muscolare del paziente. Inoltre, verrà somministrato il questionario SARC-F, utile per la valutazione della sarcopenia.
  “Il nostro Ospedale è da sempre attento al ruolo della prevenzione e all’importanza della sensibilizzazione – dichiara la dott.ssa Gabriella Ergasti, Direttore Sanitario dell’Ospedale Israelitico – essere presenti anche quest’anno con la nostra attività ambulatoriale, di consulenze e informazione è motivo di orgoglio e soddisfazione. E dunque, è con piacere che prendiamo parte a questa importante manifestazione al fianco della Fondazione Onda”.
  L’appuntamento è per giovedì 20 ottobre 2022, dalle 9.00 alle 13.00, presso la sede di Piazza S. Bartolomeo all’Isola, 21. L’accesso alle visite sarà gratuito. Per info e registrazioni è sufficiente contattare il numero 3311424439 o consultare il sito internet Ospedale Israelitico

(in salute, 14 ottobre 2022)

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L’APT Polonium prende di mira Israele con Creepy backdoor grazie ai servizi cloud

di Livio Varriale

I ricercatori di ESET hanno recentemente analizzato backdoor personalizzate e strumenti di cyberespionaggio precedentemente non documentati, distribuiti in Israele dal gruppo APT POLONIUM. ESET ha chiamato le cinque backdoor non documentate in precedenza con il suffisso “-Creep”. Secondo la telemetria di ESET, POLONIUM ha preso di mira più di una dozzina di organizzazioni in Israele almeno dal settembre 2021, e le azioni più recenti del gruppo sono state osservate nel settembre 2022. I settori verticali presi di mira da questo gruppo includono ingegneria, informatica, legge, comunicazioni, branding e marketing, media, assicurazioni e servizi sociali. POLONIUM è un gruppo di cyber-spionaggio documentato per la prima volta da Microsoft nel giugno 2022. Secondo Microsoft, il gruppo ha sede in Libano e coordina le proprie attività con altri soggetti affiliati al Ministero dell’Intelligence e della Sicurezza iraniano.
  Secondo ESET Research, POLONIUM è un attore di minacce molto attivo con un vasto arsenale di strumenti di malware, che modifica costantemente e ne sviluppa di nuovi. Una caratteristica comune a diversi strumenti del gruppo è l’abuso di servizi cloud come Dropbox, Mega e OneDrive per le comunicazioni di comando e controllo (C&C). Le informazioni e i rapporti pubblici su POLONIUM sono molto scarsi e limitati, probabilmente perché gli attacchi del gruppo sono altamente mirati e il vettore di compromissione iniziale non è noto. “Le numerose versioni e modifiche introdotte da POLONIUM nei suoi strumenti personalizzati mostrano uno sforzo continuo e a lungo termine per spiare gli obiettivi del gruppo. ESET può dedurre dal loro set di strumenti che sono interessati a raccogliere dati riservati dai loro obiettivi. Il gruppo non sembra impegnato in azioni di sabotaggio o ransomware”, afferma Matías Porolli, ricercatore ESET che ha analizzato il malware.
  Il set di strumenti di POLONIUM consiste in sette backdoor personalizzate: CreepyDrive, che sfrutta i servizi cloud OneDrive e Dropbox per il C&C; CreepySnail, che esegue i comandi ricevuti dall’infrastruttura degli aggressori; DeepCreep e MegaCreep, che utilizzano rispettivamente i servizi di archiviazione file Dropbox e Mega; e FlipCreep, TechnoCreep e PapaCreep, che ricevono i comandi dai server degli aggressori. Il gruppo ha anche sviluppato diversi moduli personalizzati per spiare i propri bersagli, scattando screenshot, registrando i tasti premuti, spiando la webcam, aprendo shell inverse, esfiltrare file e altro ancora. “La maggior parte dei moduli dannosi del gruppo sono piccoli e con funzionalità limitate. In un caso, gli aggressori hanno utilizzato un modulo per scattare screenshot e un altro per caricarli sul server C&C. In modo simile, amano dividere il codice delle loro backdoor, distribuendo le funzionalità dannose in varie DLL di piccole dimensioni, forse pensando che i difensori o i ricercatori non osserveranno la catena di attacco completa”, spiega Porolli.

(Matrice Digitale, 14 ottobre 2022)

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Vaccini e green pass: cosa si è dimenticata di dire Liliana Segre

Il discorso della senatrice a vita è stato accolto dagli applausi ma è mancato qualcosa.

di Claudio Romiti

Con il massimo rispetto per le opinioni dell’illustre Liliana Segre, vorrei associarmi a quanto espresso su La Verità da Daniele Capezzone, il quale ha sostanzialmente definito in gran parte inappropriato l’intervento della veneranda senatrice. Un intervento che, come ha sottolineato Capezzone, è andato ben oltre il tradizionale discorso di benvenuto che il senatore anziano rivolge ai colleghi appena insediati, toccando un ampio ventaglio di tematiche di natura storica, politica e costituzionale. Ed è proprio in merito a quest’ultimo aspetto che vorrei mi consentisse di aggiungere molto sinteticamente un paio di rilievi critici.
  Ora, assai correttamente la Segre ha sostenuto che “in Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la Costituzione repubblicana.” Il popolo italiano – ha poi aggiunto – ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica. In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché da essi si sono sentiti difesi”. Ebbene, valutando ciò che è accaduto nei lunghi e inquietanti anni della pandemia, nei quali la stessa “Costituzione più bella del mondo” è stata costantemente violata a colpi di decreti, di atti amministrativi, se non di semplici circolari ministeriali, come possiamo oggi ignorare tutto questo, magari spiegandolo con le ragioni supreme della guerra ad un virus a bassa letalità?
  Come possiamo ignorare la violazione sistematica dell’articolo 32 della Carta, quando siamo arrivati a stabilire per legge un obbligo vaccinale senza precedenti, facendo firmare nel contempo un consenso informati ai destinatari di tale obbligo? E come possiamo ignorare la clamorosa violazione dell’articolo 3, posto a tutela di ogni forma di discriminazione, quando, caso unico nelle democrazie liberali, è stato imposto l’abominevole green pass, il quale di fatto ha creato una vera e propria apartheid tra cittadini vaccinati e cittadini renitenti al vaccino?
  Da questo punto di vista, mi permetto di ricordare alla senatrice Segre, il rispetto di qualunque Costituzione si misura proprio nei momenti difficili, e non solamente nelle occasioni celebrative e negli importanti appuntamenti istituzionali. Le stesse Costituzioni, oltre a stabilire molti principi legati al diritto positivo, sono nate in primo luogo per limitare i poteri del sovrano. Poteri che in una democrazia liberale vengono sostanzialmente esercitati, in nome e per conto del popolo, dai vari esecutivi, sotto il controllo del Parlamento. Ebbene, come disse Alessandro Meluzzi all’inizio della pandemia di Covid-19, nemmeno 20 milioni di morti potrebbero giustificare il gravissimo vulnus arrecato alla nostra Legge suprema.
  In tal senso, da semplice cittadino, io mi chiedo: i sinistri soloni che oggi applaudono entusiasti ai richiami della signora Segre erano forse dentro una cassa di limoni, quando siamo stati rinchiusi per mesi agli arresti domiciliari, quando abbiamo subito obblighi di ogni tipo, dai vaccini alle mascherine, fino al coprifuoco notturno, e quando ci è stato imposto un lasciapassare sanitario che neppure la perversa fantasia di Iosif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin, avrebbe mai immaginato?

(Nicola Porro, 15 ottobre 2022)
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Dispiace dirlo, ma il mondo ebraico italiano, che avrebbe dovuto essere particolarmente sensibile e reattivo davanti al riapparire di certe inaccettabili forme di emarginazione, si è piattamente adeguato alla prevaricante politica governativa, appoggiata da un'informazione in gran parte collusa, e si è comodamente ritrovato sotto l'icona di Liliana Segre. Affinché non si dica "non sapevo", si propone di scaricare il file qui indicato, di leggerlo attentamente, farlo conoscere e invitare a dire chiaramente se sono stati rispettati non solo i dettami della Costituzione ma anche i semplici diritti umani. E qualcuno lo chieda anche alla senatrice Liliana Segre. M.C.

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Sta scoppiando “un’intifada” nell’Autorità Palestinese? Probabilmente no, ecco perché

di Ugo Volli

• I fatti più recenti
  Due militari assassinati con spari a tradimento nello scorso weekend. Minacce di morte esplicite ai fedeli che volevano andare a pregare per Sukkot alla Tomba di Giuseppe a Shechem, un pellegrinaggio che è esplicitamente garantito dagli accordi di Oslo; i pochi che sono riusciti ad arrivarci l’hanno fatto solo per la scorta dell’esercito. La scoperta di una cellula terrorista in Samaria legata ad Hamas che progettava attentati clamorosi sotto la guida di Bilal Basharat, un terrorista condannato e scarcerato nello scambio per la liberazione di Gilad Shalit. Un carico di armi di contrabbando sequestrato nella valle del Giordano l’altro ieri. Gravi torbidi nella parte araba di Gerusalemme, soprattutto nei quartieri di Wadi Joz and Ras al-Amud, con lanci di pietre, di bombe molotov e fuochi artificiali usati come armi. Il tentativo di linciaggio di una famiglia ebraica sempre a Gerusalemme a Beit Hanina. La chiusura parziale delle uscite dalla città araba di Nablus, con l’istituzione di posti di blocco che chiedono i documenti e perquisiscono tutti coloro che ne escono. Centinaia di arabi che assaltano e cercando di bruciare l’avamposto Eish Kodesh vicino a Shilo nel territorio di Binjamin, vicino a Gerusalemme. Agguati con sassi alle macchine che entrano al villaggio ebraico di Yitzhar, operati dagli abitanti del vicino villaggio arabo di Huwara, che hanno portato a un confronto fisico generale fra le due popolazioni, sedato a stento dall’esercito. Sono solo alcuni degli episodi più recenti dell’ondata di violenza di cui è protagonista la popolazione araba dei sobborghi di Gerusalemme e della Samaria, la regione a nord della capitale.

• Perché le violenze?
  È difficile individuare un episodio che abbia fatto da miccia all’incendio. È in corso il ciclo delle feste ebraiche autunnali, che comporta una grande frequenza al Muro Occidentale e un certo numero di pellegrinaggi al Monte del Tempio, alle Tombe dei Patriarchi a Hebron, alla Tomba di Giuseppe a Shehem e a quella di Rachel fuori Betlemme; ma questo accade tutti gli anni. Non vi sono stati all’inizio di questo ciclo particolari momenti di scontri fra comunità e nuovi provvedimenti. Del resto il filo degli attentati continua fra alti e bassi da molti mesi e ha un’unità soprattutto geografica: la maggior parte dei terroristi attivi in questa lunga ondata viene da Jenin e Shechem (in arabo Nablus); se ci si aggiungono i sobborghi arabi di Gerusalemme e un paio di altri luoghi abbiamo definito la provenienza di tre quarti degli attentatori. Il meccanismo della violenza spesso si auto-perpetua: da una località parte un attentatore, le forze di sicurezza vengono ad arrestare complici e mandanti, essi e il loro ambiente resistono con le armi all’arresto, sono feriti o eliminati, parte un altro attentato e il meccanismo riparte. Bisogna aggiungere che questi luoghi sono lasciati in uno stato di anarchia, con frequenti scontri tribali o fra gruppi criminali. Il che non significa che non ci sia responsabilità dell’Autorità Palestinese se non altro per il fatto che i gruppi terroristi che vi agiscono sono spesso composti o almeno guidati da membri delle sue forze di sicurezza, che hanno evidentemente una via libera per la violenza contro Israele, confermata da propaganda, stipendi, glorificazione dei morti in queste attività criminali e delle loro famiglie.

• La radice è politica
  Le ragioni vanno cercate nella politica. L’Autorità Palestinese è tutta impegnata a mostrare che esiste ancora, che gli accordi di Abramo non hanno superato la vecchia ricetta delle trattative con concessioni solo dalla parte israeliana. È aiutata in questo dall’amministrazione Biden, dall’Unione Europea e dalla volontà del governo di minoranza attuale di Israele di essere accondiscendente nei confronti di questi ultimi. Dunque un certo tasso di terrorismo sta bene a Mohamed Abbas (ma anche a Biden e all’UE), perché indebolisce Israele anche nei confronti dell’Iran. D’altro canto Abbas ha ottantasette anni, è notoriamente affetto da uno stato di salute precario e non gli rimane molto tempo di comando e di vita. Non ha un erede indiscusso. Tutto quel che avviene in campo palestinista dev’essere dunque visto alla luce per la lotta per la sua successione. Infine, il governo israeliano è debole, si è dimesso dopo aver perso la maggioranza alla Knesset, e fino a un paio di mesi dopo le elezioni del 1° novembre non ce ne sarà uno capace di funzionare a pieno titolo. È vero che i servizi di sicurezza funzionano sempre e sono relativamente autonomi dal vertice politico; ma è chiaro che la risposta israeliana in queste condizioni può essere solo quella ordinaria, senza un progetto strategico.

• Una nuova intifada?
  Ogni volta che il terrorismo arabo cresce in Israele, qualcuno parla di “intifada”. Si tratta di un termine arabo che vuol dire letteralmente “sussulto”, “scrollone” e che da qui ha preso il significato di ribellione generale e intensa contro Israele, sull’esempio delle ondate del 1987-93 e 2000-2002. Vi è anche nell’uso europeo di questa parola una connotazione sgradevole di eroismo, entusiasmo, rivoluzione, assai poco adatto al terrorismo vigliacco che caratterizzava già quei momenti ed è chiarissimo oggi. Nessuno può essere profeta in queste cose, ma oggi appare difficile immaginare l’evoluzione di questa ondata di violenza e terrorismo in una vera e propria sollevazione. L’origine locale, le ragioni politiche transitorie appena accennate, lo scarso entusiasmo di una popolazione che, al di là della propaganda verbale, non appare molto disponibile a sacrificare nella lotta la vita e anche il relativo benessere di cui gode (certamente inferiore a quello degli arabi israeliani, ma comunque molto migliore di quello dei paesi confinanti), l’esempio delle terribili conseguenze dell’anarchia in posti come Libano, Siria, Iraq, Yemen, sembrano ostacoli sufficienti allo scoppio di un’esplosione generalizzata di violenza, nonostante l’azione di Hamas, dell’Iran e degli altri terroristi che soffiano sul fuoco. Bisogna forse rassegnarsi a resistere a questa ondata di terrorismo a media intensità, che ormai comprende anche l’uso delle armi da fuoco.

(Shalom, 14 ottobre 2022)

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Il Cairo vuole sviluppare gas offshore a Gaza

L’Egitto punta a sviluppare il giacimento di gas naturale offshore di Gaza, dando così impulso allo sviluppo economico palestinese. È quanto hanno riferito alla Reuters funzionari egiziani e palestinesi riguardo al giacimento Gaza Marine, situato a circa 30 chilometri dalla costa di Gaza, non sfruttato a causa di controversie politiche e conflitti con Israele, oltre che per fattori economici. Dopo l’uscita di scena del colosso Shell, nel 2018, i palestinesi hanno iniziato a cercare un nuovo partner straniero che potesse subentrare nell’operazione. Le aziende palestinesi manterrebbero almeno il 55% delle azioni, secondo una decisione del governo dell’epoca. I funzionari sentiti dalla Reuters hanno riferito di colloqui avviati lo scorso anno dall’azienda statale egiziana del gas Egas con il Palestine Investment Fund (Pif) e la Consolidated Contractors Company (Ccc), una coalizione di aziende autorizzate a sviluppare il settore. E un funzionario dell’intelligence egiziana ha sostenuto che Egas, in collaborazione con le autorità palestinesi, svilupperà il sito offshore. Il funzionario ha poi precisato che il Cairo è in trattative da circa due mesi con Israele che, insieme all’Egitto, mantiene un blocco su Gaza e dovrebbe dare il via libera al progetto.
  Contattato da Reuters, il ministero del Petrolio egiziano non ha risposto, mentre non è stato possibile contattare Egas. Da parte sua, il ministero dell’Energia israeliano ha detto di non essere a conoscenza di alcuna decisione in merito. Tuttavia, ricorda la Reuters, Israele in passato ha dichiarato di sostenere lo sviluppo del sito. “Questi colloqui stanno procedendo in modo positivo. Una volta raggiunto un accordo dettagliato e definitivo, verrà annunciato dopo aver ottenuto le approvazioni ufficiali secondo le regole stabilite”, ha detto un funzionario palestinese al corrente dei colloqui con gli egiziani.
  La Striscia di Gaza è gestita dal gruppo palestinese Hamas e la maggior parte dei suoi 2,3 milioni di abitanti vive in condizioni di povertà e tra blackout continui. Il gas di Gaza Marine aiuterebbe ad alimentare le centrali elettriche della Striscia e a rilanciare l’economia. Un secondo funzionario palestinese ha detto alla Reuters che Il Cairo ha avuto contatti con funzionari di Hamas per ottenere la loro approvazione: “Il ruolo strategico svolto da decenni dal Cairo come mediatore tra Israele e palestinesi facilita i colloqui. Lo sviluppo potrebbe richiedere del tempo per iniziare, una volta concluso un accordo. Il progetto sarebbe uno strumento vitale per migliorare l’economia palestinese”. Stando alle stime, il sito dovrebbe contenere oltre 1 trilione di piedi cubi di gas, molto più di quanto necessario per alimentare i Territori palestinesi, e potrebbe quindi essere esportato.

(InfoAfrica, 14 ottobre 2022)

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Sinagoga. Festa di Sukkot (capanne) alle 16 di domenica 16

Mara Cantoni consegnerà la sua Astro-Chanukkià per il Museo dei Lumi

Astro-Chanukkià
Domenica 16 alle 16 in Sinagoga si terrà la Festa di Sukkot (del raccolto o delle capanne). All’inizio  Mara Cantoni consegnerà la sua Astro-Chanukkià Daria Carmi sotto alla Sukkà per il Museo dei Lumi. A seguire ci sarà la consueta celebrazione della festa con benedizione del Lulav (ramo di palma) e merenda per tutti gli intervenuti.
  La Cantoni è di famiglia ebraica italiana, nata a Milano (1951), cresciuta tra musica, danza e filosofia,. Ha collaborato tanto con il mondo culturale istituzionale quanto con quello della produzione indipendente, attraversando le arti in una felice alternanza e molteplicità di ruoli, con una naturale propensione all’eclettismo. 
  Dopo un decennio nella musica popolare e leggera come chitarrista e cantautrice (Gruppo Folk Internazionale, canzoni per Milva) e un decennio nel teatro lirico dove si è divisa tra palcoscenico e scrittura critico-letteraria (Teatro alla Scala, Maggio Musicale Fiorentino, i libri Wagner - mito, racconto, musica, 1982, Norma - come nasce uno spettacolo, 1979, Lohengrin, 1979), ha concepito e realizzato un modello innovativo di teatro musicale, del quale è stata al tempo stesso drammaturga e regista, scenografa e coreografa (Dalla sabbia dal Tempo, 1987, Dybbuk, 1996, Ballata di fine millennio, 1996 - con Moni Ovadia)
  Ha in seguito privilegiato un minimalismo ricercato, che ha espresso tanto nella scrittura di poesie, aforismi e canzoni in lingua francese (Elles sont venues pour dire, 2012) quanto in performances, opere visive e installazioni (Bianco Nero Piano Forte, Palazzo Reale di Milano, 2019 - con Lelli e Masotti, fotografi, e Luigi Ceccarelli, compositore, N.°4, ADI Design Museum di Milano, 2021). 
  La Astro-Chanukkià si inserisce in questo contesto.

• LA FESTA  AGRICOLA DELL’AUTUNNO
  Nella Torah, Sukkot è chiamata Hag Haassif (festa del raccolto - Esodo).
  All’epoca biblica la sua importanza era tale da essere chiamata Hehag (la festa) per antonomasia (1 Re 23, 42). La festa è il ricordo di un importante evento storico, il cammino degli ebrei nel deserto verso la terra di Israele. 
  La Torah identifica la Sukkà (capanna) con le dimore temporanee degli israeliti durante questo viaggio nel deserto  da cui il nome di Sukkot: Hag haSukkot (letteralmente: festa delle capanne).
  Più delle altre feste di pellegrinaggio, Sukkot ha conservato un carattere agricolo ed è chiamata anche Hag Haassif (festa del raccolto) o Zeman simhatenu (momento della nostra gioia). L’attenzione posta sul raccolto e l’abbondanza portano un cambiamento radicale e benvenuto dopo l’austerità delle solenni feste di Rosh Ha-Shanah e di Yom Kippur. Tutte le feste di pellegrinaggio sono dei momenti di gioia, ma l’atmosfera di questa festa è particolarmente lieta (la gioia è proprio un elemento essenziale). 
  Tra il tetto della Sukkà e il cielo non deve esserci alcuna interruzione. Il tetto deve essere fatto di materiale vegetale staccato da terra (rami, foglie, cannucciati).  La Sukkà deve avere almeno tre pareti, che possono essere fatte con qualsiasi materiale (anche in muratura). 

(Il Monferrato, 14 ottobre 2022)

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KKL e riserve idriche: una lunga storia 

di Liri Eitan Drai*

Un paese desertico al 70% oggi genera il 20% di acqua in più rispetto al suo fabbisogno: Israele ha prodotto una ricchezza di innovazioni tecnologiche e infrastrutture per combattere l'inaridimento del Paese senza precedenti. La questione "siccità" e gestione delle risorse idriche in Israele ha una lunga storia. Nel 1964, fu realizzata la National Water Carrier, una rete di trasporto dell'acqua che partiva dal Lago Kinneret sino alle regioni meridionali; l'80% dell'acqua trasportata dalla rete, però, era destinata all'agricoltura e la rimanenza non era sufficiente per il fabbisogno degli abitanti. Nel 1959 Simcha Blass sviluppò la tecnologia di irrigazione goccia a goccia, che consiste nel versare l'acqua direttamente alle radici delle colture attraverso una rete di tubi e ne evita la dispersione. Nonostante i vantaggi della rete di trasporto e dell'irrigazione a goccia, l'acqua destinata all'uso domestico era ancora scarsa poiché entrambi i sistemi attingevano dalle fonti, limitate, d'acqua dolce. Gli ingegneri israeliani pensarono quindi di sfruttare le fonti considerate inutilizzabili, come le acque reflue municipali e quelle piovane. Nel 1985 Israele iniziò a raccogliere e trattare le acque reflue riducendo molto il divario tra la domanda e l'acqua disponibile. Il grande contributo del Keren Kayemeth Leisrael all'economia idrica d'Israele è stata la costruzione di 230 bacini, che servono per immagazzinare l'acqua reflua bonificata, pronta per l'uso agricolo. È recente la creazione del biofiltro, sistema per l'approvvigionamento idrico impiegato nelle aree urbane: questa tecnologia permette alle piante di rimuovere gli inquinanti dalle acque piovane e ottenere una fonte d'acqua aggiuntiva per irrigare le aree verdi municipali. Il KKL ha dovuto affrontare, in più di un secolo di attività, la desertificazione. Iniziò a piantare alberi studiando strategie di forestazione, come la "savanizzazione", una tecnica che consente di trattenere più umidità possibile per favorire la vegetazione con effetto benefico sul clima. Nell'ultimo decennio il KKL sostiene l'attività di molti Centri di Ricerca e Sviluppo in cui si studiano sementi idonee a sopravvivere in ambienti desertici. Nell'ambito delle ricerche sul riscaldamento globale, il KKL ha "adattato" le foreste al cambiamento climatico: i forestali hanno individuato alcune specie di piante resistenti al calore e alla siccità, come alcuni tipi di cipressi; le loro radici sono state coltivate presso la Facoltà di Agraria dell'Università Ebraica e poi ripiantate per creare un pool genetico nella foresta di Lavi e nella foresta di Ilanot. La stazione di monitoraggio di Yatir, creata dal KKL per studiare gli effetti della foresta sull'ambiente e sul clima, ha rivelato che l'area contrasta l'effetto serra. Il metodo di seminagione del KKL nelle regioni aride può aiutare a ridurre la quantità di gas serra nel mondo e contribuire alla lotta al riscaldamento globale. 

• LE COLLABORAZIONI INTERNAZIONALI
  Il KKL ha condiviso le conoscenze e l'esperienza acquisite con i Paesi che hanno un clima simile a quello israeliano. I rappresentanti di diversi Paesi asiatici e africani, infatti, hanno frequentato i corsi tenuti dagli esperti di forestazione del KKL. Un esempio è l'iniziativa Seeds of Hope, realizzata in collaborazione con la Haramaya University, una delle principali università agricole in Etiopia. Il progetto ha valutato l'idoneità delle varietà di pomodoro alle condizioni agro-climatiche della regione, la loro resistenza a parassiti e malattie e la loro predisposizione ai metodi di coltivazione degli agricoltori locali. Un altro intervento interessante del KKL è il Progetto Solchi nel Deserto condotto nell'arida regione del Turkana, in Kenya, in collaborazione con l'Istituto Arava per gli Studi Ambientali; Solchi nel Deserto è un esempio dell'uso agricolo delle tecniche israeliane nei Paesi in via di sviluppo al fine di migliorare la sicurezza nutrizionale dei residenti. Il KKL ha partecipato anche alle conferenze dell'ONU sui cambiamenti climatici, per avviare nuove collaborazioni. Nel 2019 a Cuba si è tenuta una conferenza dove Doron Markel, direttore della Ricerca del KKL, ha presentato il programma sul cambiamento climatico di Israele ai 400 partecipanti provenienti da 30 Paesi. In Italia, nel 2016, è nato un accordo tra il KKL e il Corpo forestale dello Stato, frutto di un intenso lavoro preparatorio durato quasi un anno. Lo scopo è promuovere nuove forme di cooperazione nel campo della gestione e della valorizzazione delle aree naturali protette, delle risorse ambientali e dell'applicazione delle convenzioni internazionali. Questa collaborazione è molto importante sul piano scientifico, tecnico e di pianificazione territoriale, per i progetti di ricerca per la salvaguardia della biodiversità e delle risorse forestali, insieme a programmi di formazione e di educazione ambientale. L'incontro più recente è di maggio 2022, in cui il KKL Italia è stato invitato a partecipare a Roma al convegno Nature in Mind organizzato dai Carabinieri in occasione della Giornata Mondiale della Biodiversità. La condivisione delle conoscenze è la nostra speranza di sviluppare nuove soluzioni per salvaguardare il nostro pianeta.
* Direttore Generale KKL Italia

ּּּ(Bollettino Comunità Ebraica di Milano, ottobre 2022)

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Egitto/Israele/Palestina: negoziati per lo sfruttamento del gas al largo di Gaza

Tra l'Egitto, i palestinesi e lo Stato ebraico sono in corso negoziati sullo sfruttamento degli idrocarburi nel Mediterraneo orientale.

Alla base dell’accordo annunciato da Libano e Israele sul confine marittimo, sono in corso negoziati sullo sfruttamento degli idrocarburi nel Mediterraneo orientale tra Egitto, Palestinesi e Stato ebraico e riguardano importanti giacimenti di gas al largo di Gaza.
  “Il nostro gas, il nostro diritto! Nella Striscia di Gaza sono apparsi di recente dei manifesti che esortano i vicini della regione a rilanciare un progetto rimasto inattivo per due decenni: lo sfruttamento del giacimento marino.
  Nel 1999, l’Autorità Palestinese ha incaricato British Gas di effettuare trivellazioni esplorative, prima che il gigante Shell ne assumesse la direzione nel 2016, per poi ritirarsi due anni dopo a causa delle obiezioni israeliane e di altri disaccordi.
  Da allora, l’Autorità palestinese è alla ricerca di un gruppo che investa nello sviluppo del giacimento, che si trova a circa 30 km al largo della costa di Gaza e le cui riserve sono stimate in circa 28 miliardi di m3 di gas naturale, una manna dal cielo per l’economia palestinese in difficoltà.
  Sporadici colloqui hanno luogo tra Israele e l’Autorità Palestinese (AP). L’unico problema è che Gaza non è controllata dall’AP, ma da Hamas, che sta cercando di trarre profitto dal giacimento, che si trova in un’area sottoposta a blocco israeliano da 15 anni.
  “Sono in corso serie discussioni per raggiungere un accordo quadro, che prevediamo di raggiungere entro la fine dell’anno”, ha dichiarato questa settimana all’AFP (Agence France-Presse) un alto funzionario dell’Autorità palestinese che ha richiesto l’anonimato.
  Si tratta della Palestinian Consolidated Contractors Company (CCC), del Palestinian Investment Fund (PIF), della Egyptian Natural Gas Holding Company (Egas) e di Israele.
  “Non appena l’accordo sarà firmato, la società egiziana Egas inizierà a lavorare per sviluppare i giacimenti Marine 1 e 2, con l’obiettivo di avviare la produzione entro due anni”, ha aggiunto.

– Con Hamas? –
  Una fonte egiziana ha dichiarato all’AFP che il Cairo è “in contatto con tutte le parti, compreso Israele, per sviluppare e beneficiare del giacimento di gas di Gaza, che sosterrebbe anche l’economia palestinese”.
  Interpellato dall’AFP, il ministero dell’Energia israeliano non ha voluto commentare.
  “L’approvazione israeliana è necessaria per iniziare i lavori ed espandere la rete di gasdotti”, ha dichiarato un altro funzionario dell’Autorità palestinese che ha familiarità con i colloqui.
  Sperava che l’Egitto riuscisse a convincere Israele e che gli Stati Uniti esercitassero pressioni, come hanno fatto per l’accordo negoziato da Washington con Libano e Israele per consentire l’estrazione di idrocarburi da parte di entrambi i Paesi.
  Esiste già un dialogo tra Israele, Egitto e Palestina dopo la creazione nel 2019 del Forum del gas del Mediterraneo orientale, che ha il compito di garantire il rispetto del diritto internazionale nella gestione delle risorse di gas e che comprende anche Giordania, Cipro, Grecia e Italia.
  D’altra parte, Egitto e Israele condividono un gasdotto sottomarino che passa al largo delle coste di Gaza e che permette al gas israeliano di essere trasportato in Egitto, dove sarà poi liquefatto per essere trasportato via nave in Europa, che sta cercando di diversificare le proprie forniture.

– Ostruzione –
  Nell’attuale contesto geopolitico ed energetico, Hamas sta diventando impaziente e sta organizzando manifestazioni per insistere sui diritti palestinesi alle risorse di gas al largo dell’enclave di Gaza bloccata da Israele.
  “Mettiamo in guardia l’occupazione (Israele) dal modificare il nostro diritto alle risorse marittime, in particolare il gas naturale al largo delle nostre coste”, ha dichiarato Suhail al-Hindi, il funzionario di Hamas responsabile delle risorse naturali.
  “Da un punto di vista legale, Hamas non ha nulla a che fare con il gas di Gaza, ma poiché controlla l’enclave può facilmente ostacolarlo. Ma credo che l’Egitto possa risolvere il problema facendo pressione su Hamas”, ha dichiarato all’AFP Mazen Al-Ajla, professore di economia all’Università islamica di Gaza. “Israele insiste sul fatto che Hamas non debba beneficiare del gas di Gaza come condizione per qualsiasi accordo.

(Agence France-Presse, 14 ottobre 2022)


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La politica libanese si gode l’accordo. Ma la soluzione alla crisi è lontana

LIBANO. Dopo il raggiungimento dell'intesa con Israele su confini marittimi e sfruttamento dei giacimenti di gas, ogni fazione usa il patto per mandare messaggi alla propria base. Unifil: «Ospiteremo la firma a Naqora» 

di Pasquale Porciello, 

BEIRUT - Un «accordo storico» è la definizione che entrambe le parti, Libano e Israele, utilizzano per parlare del patto sulla linea di demarcazione marittima, oggetto di una lunga ed estenuante disputa e mediato dagli Stati uniti.
  Tentato inutilmente per oltre una decade, l’accordo formalizzerebbe la suddivisione dei giacimenti di gas a largo delle coste libano-israeliane: quello di Karish andrebbe interamente a Israele, mentre quello di Qana (ancora da esplorare) andrebbe sotto il controllo libanese e Israele riceverebbe una quota dei futuri ricavi. Alla francese Total la licenza di estrarre.
  ANCHE SE NEI FATTI l’accordo potrebbe segnare l’inizio di un processo di normalizzazione dei rapporti tra i due paesi, entrambe ci tengono a far sapere che non è così. Il presidente della repubblica libanese Aoun ha ribadito che Libano e Israele sono tecnicamente in guerra e che l’accordo non sarà l’inizio di una «partnership», bensì il riconoscimento del diritto libanese a utilizzare i propri giacimenti di gas.
  La data è ancora da definire, ma non il luogo. Unifil (la missione Onu in Libano) ospiterà le delegazioni dei due paesi a Naqora, sulla Linea Blu che separa i due Stati e dove prova a mantenere un precario equilibrio da oltre 40 anni, assieme a quella americana e Unscol.
  «Abbiamo poche notizie dell’accordo in sé, di cosa comporterà a livello politico: avverrà sotto l’ombrello Onu, ci occuperemo della logistica e di garantirne lo svolgimento in sicurezza, ma sono stati gli americani a mediare e a definirne i dettagli. Le parti non si incontreranno: la delegazione americana, assieme a Unscol, incontrerà separatamente quella israeliana e quella libanese. In un primo momento si era pensato al 20 ottobre, ma i tempi sono un po’ stretti», ci spiegano fonti interne a Unifil.
  Anche per il primo ministro israeliano Lapid, che vorrebbe chiudere la partita prima della fine del suo mandato il primo novembre e che ha fortemente spinto per l’accordo tra dissapori interni, specie quelli dell’ex premier e candidato alle prossime elezioni Netanyahu, i tempi sono stretti.
  IL LEADER DI HEZBOLLAH Nasrallah ha più volte rivendicato l’accordo come un successo del partito nell’ultimo dei frequenti discorsi pubblici. «In effetti – confermano da Unifil – queste ultime settimane sono state particolarmente tranquille e c’è grande attenzione da entrambe le parti, mentre la tensione prima di questo storico evento era molto più alta».
  Al momento sono tutte premature le supposizioni sulla valenza geopolitica di questa firma, sul significato del via libera del Partito di Dio, sul fatto che questo sia un accordo strettamente economico che la crisi libanese ha solo accelerato o parte di una logica di riassetto di equilibri dell’area (in cui c’entrerebbe anche l’Iran e in prospettiva l’accordo sul nucleare, l’influenza delle sue tensioni interne).
  Certamente l’accordo e quello che gli gira intorno è sfruttato dai singoli partiti per mandare ciascuno un messaggio alla propria base. Il Kataeb (destra conservatrice cristiana), uscito non benissimo dalle elezioni di maggio, chiede al presidente un passaggio parlamentare di una valenza più politica che legale. Lo stesso Hezbollah, non mettendosi di traverso e anzi attribuendosi non poco merito, vuole rassicurare la propria base anch’essa colpita dalla crisi e far sapere che il partito lavora per la risolverla.
  AOUN, ALLA FINE del suo mandato, uno degli sconfitti morali delle elezioni, cerca un colpo di coda che lo legittimi nuovamente. Il genero Bassil, che guida il suo partito, è stato il bersaglio numero uno della rivolta anti-sistema di tre anni fa, quando la crisi è iniziata.
  Nonostante i tecnici parlino di almeno tre anni di tempo per cominciare a sfruttare i giacimenti, l’accordo può segnare un cambio di passo. La lira libanese è passata in tre anni da 1507,05 per un dollaro a 40mila. Mentre il mercato è totalmente dollarizzato e i prezzi sono gli stessi di prima della crisi, gli stipendi hanno subito solo leggeri aumenti.
  Le fasce di povertà si allargano vertiginosamente e la classe media è stata spazzata via. Sono ormai all’ordine del giorno partenze di migranti che spesso si trasformano in tragedia; poche settimane fa sono morte oltre 100 persone dopo che un’imbarcazione di disperati partita da Tripoli è affondata a largo delle coste siriane. E quotidiani sono anche gli assalti alle banche per riprendersi i propri risparmi congelati dal 2019. E quest’accordo può essere tanto uno spiraglio quanto l’ennesima illusione per un popolo martoriato.

(il manifesto, 13 ottobre 2022)

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Dedichiamo gli articoli di oggi allo smascheramento dell'imbroglio vaccinale che ha instupidito intere popolazioni e arricchito i mercanti di vaccini. Israele, che ha voluto assumersi il ruolo di "leader mondiale nella vicenda", occupa tuttora un posto di grave responsabilità verso il mondo. Resta dunque di attualità, anche in collegamento a Israele, la "Dichiarazione di obiezione di coscienza" indicata in alto.
Per inquadrare meglio la vicenda ripresentiamo un articolo del marzo 1921 e uno del gennaio 2022.

Pfizer ammette che il vaccino non evita il contagio

di Aldo Rocco Vitale

“Il Green pass è una misura con cui i cittadini possono continuare a svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”.
  Così il presidente del Consiglio Mario Draghi ebbe a dichiarare, come si avrà modo di ricordare anche da parte dei più distratti e smemorati, nella celebre conferenza stampa del 23 luglio 2021 nella quale si annunciava l’approvazione del Decreto che introduceva il green pass a far data dalla sua entrata in vigore nel successivo 6 agosto 2021.
  Tenendo presenti le suddette dichiarazioni di Draghi occorre riflettere sul gravissimo fatto, riportato da molte testate giornalistiche, secondo cui la portavoce della Pfizer ha esplicitamente e pubblicamente ammesso che il vaccino anti-Covid non è stato testato per prevenire l’infezione e i contagi.
  Dinnanzi a tali rivelazioni, sebbene gli studi, la realtà, l’evidenza e il buon senso già da mesi avevano indicato inequivocabilmente l’impotenza del vaccino nel bloccare i contagi – e per questo la necessità del richiamo, del booster, della “ventordicesima” dose ecc. – crolla senza alcun dubbio la fondabilità scientifica di quella sconcezza giuridico-amministrativa che è il green pass.
  Il green pass, infatti, è stato basato sulla presunta affidabilità – accertata più in modo ideologico che realmente scientifico – del vaccino di impedire i contagi, per cui se il vaccino non è in grado di impedire l’infezione il green pass non è in grado di garantire alcunché se non la violazione delle più elementari regole del diritto, cominciando dal principio del neminem laedere e dai principi di prudenza e precauzione.
  Fin dall’inizio della campagna vaccinale, infatti, è stato chiaro – almeno per coloro che non si sono piegati al pensiero unico del pandemisticamente corretto – che i contagi aumentavano lo stesso, che si susseguivano le nuove ondate, che anche i vaccinati si ammalavano e che perfino si poteva essere contagiati venendo a contatto con i vaccinati medesimi.
  Ovviamente chi si limitava a denunciare che “il re era nudo” veniva subito aggredito verbalmente da chi tra parenti, amici, colleghi e conoscenti gli stava intorno, e veniva subito etichettato come ignorante, terrapiattista, antiscientifico, oscurantista, retrogrado, pazzo, no-vax, no-pass ecc., poiché, con le parole di Jerzy Lec, la “gente ama pensieri che non obbligano a pensare”.
  Adesso che la stessa Pfizer ammette che il vaccino non è stato testato per la prevenzione del contagio, tuttavia, sarebbe opportuno smettere di portare il cervello all’ammasso del pandemisticamente corretto e cominciare a ragionare, poiché neanche la stupidità di massa può esentare dal pensiero.
  In primo luogo: si dovrebbe davvero cominciare a riflettere sulla possibilità che vengano riconosciute le pesantissime responsabilità giuridiche della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero della Salute, specialmente nelle persone di Mario Draghi e Roberto Speranza, nonché del Cts e di tutti i suoi componenti e dei membri dell’Iss, sul fatto che non soltanto si è taciuta alla popolazione una così importante informazione – cioè che il vaccino non bloccava il contagio – ma, anzi, che si sia pubblicamente affermato il contrario e che sulla base di tale palese menzogna siano stati compressi e spesso soppressi i diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti (come lavoro, circolazione, istruzione, ecc,) di milioni di cittadini italiani.
  In secondo luogo: la rivelazione della portavoce della Pfizer dimostra che quelle certezze incrollabili che per mesi si sono ideologicamente propugnate sulla presunta assoluta infallibilità dei ritrovati vaccinali contro il Covid, così certe non sono, anzi! Se, infatti, i vaccini non sono stati testati per prevenire infezioni e contagi, dati i ristrettissimi tempi con cui sono stati messi a punto, vien da chiedersi ancora per cos’altro non sono stati testati.
  In terzo luogo: emerge con sempre maggior chiarezza il groviglio di problemi giuridici afferenti al consenso informato che è stato fatto sottoscrivere obbligatoriamente a milioni di soggetti inconsapevoli: se, infatti, si sapeva fin dall’inizio che il vaccino non bloccava il contagio, ma la popolazione non è stata avvisata il consenso informato sottoscritto è quanto meno nullo; se, invece, si è appreso successivamente che il vaccino non bloccava il contagio, e la popolazione è stata avvisata di una tale contro-indicazione soltanto dopo, il consenso informato è del tutto inesistente poiché informazioni così essenziali non sono state adeguatamente portate a conoscenza dei sottoscrittori. In entrambi i casi è doveroso accertare la responsabilità civile e penale di quanti hanno indotto direttamente o indirettamente la popolazione a sottoscrivere un consenso informato carente di quelle informazioni necessarie e sufficienti per renderlo davvero consensuale e davvero informato.
  In quarto luogo: implode su se stesso il ragionamento – dalla dubbia profondità giuridica – posto a sostegno della celebre e controversa sentenza del Consiglio di Stato n. 7045/2021 con cui si è ritenuto legittimo l’obbligo vaccinale indiscriminato a carico del personale sanitario sull’assunto – oramai palesemente falso e appena smentito dalla stessa Pfizer – che la somministrazione vaccinale obbligatoria fosse indiscutibilmente legittima poiché per un verso “è doveroso per l’ordinamento pretendere che il personale medico od infermieristico non diventi esso stesso veicolo di contagio, pur sussistendo un rimedio, efficace e sicuro, per prevenire questo rischio connesso all’erogazione della prestazione sanitaria” (pag. 50), e poiché per altro verso “le censure degli appellanti muovono da un presupposto scientifico errato, secondo cui le vaccinazioni non sarebbero efficaci e sicure, mentre, come si è visto, esse sono state autorizzate all’esito di procedure rigorose e di sperimentazioni solide e, come dimostrano i dati più recenti e la comparazione delle diverse evidenze della malattia tra soggetti vaccinati e non vaccinati, si stanno dimostrando efficaci sia nel contenimento della malattia, quanto ai sintomi più gravi, che nella diffusione del contagio” (pag. 67).
  Alla luce delle rivelazioni della stessa Pfizer, dunque, se qualcosa vi è stato di scientificamente errato è stato l’assunto ideologico, e come tale ben poco scientifico e ancor meno giuridico, del Consiglio di Stato che ha incautamente piegato alla ragion sanitaria la ragione del diritto e il diritto della ragione.
  In conclusione: la rivelazione della Pfizer secondo cui il vaccino non è stato testato per prevenire il contagio dimostra quanta poca scienza e anche quanto poco diritto abbiano contraddistinto la gestione della pandemia, dovendosi esigere, da adesso, una maggior prudenza da parte di tutti coloro che sono stati pandemisticamente entusiasti sostenendo senza alcuno spirito critico tutte le misure adottate nell’ultimo triennio e dovendosi augurare che le loro responsabilità giuridiche gravissime ed evidenti siano accertate quanto prima in ossequio dei morti e dei vivi, e per rispetto della vera scienza, del vero diritto e della persona che sono state le tre principali vittime dell’ultimo triennio di delirante gestione pandemica.

(l'Opinione, 13 ottobre 2022)


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Israele festeggia la sconfitta del virus

di Fiamma Nirenstein [Il risalto è di redazione]

Il miracolo della vaccinazione, come nella storia ha eliminato il vaiolo, la difterite, il tetano, la polio, porterà alla liberazione dal Covid.
   Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo. Israele ha perso 6mila persone; da un picco di 79 perdite al giorno a gennaio adesso siamo a 16 morti al giorno. Non è finita, ma cala ogni giorno. Da dicembre, accolti dal primo ministro letteralmente trepidante, gli aerei di Pfizer e Moderna hanno portato i flaconi gelati all'aeroporto Ben Gurion e subito una macchina determinata, inventiva, si è messa in moto fra errori e stalli (le celebrazioni dei religiosi, il sospetto dei villaggi arabi). Ma come durante la guerra dei Sei Giorni, Israele ha colpito per primo e ha vinto l'esercito composito del terribile nemico: «Trenta volte mi ha chiamato, sì, letteralmente. Mi ha travolto il suo atteggiamento ossessivo», sorride il ceo Pfizer Albert Bourla. «Una volta gli ho detto Primo ministro sono le tre di notte. Mi ha spiegato - dice Bourla - perché Israele era il Paese più adatto per la missione del vaccino: né grande né piccolo, 9 milioni di abitanti, servizi sanitari capillari, organizzazione ferrea, deciso alla sopravvivenza». Gliel'ha spiegato Benjamin Netanyahu stesso, mentre dalla tv mostrava come si indossa la maschera, come ci si lava le mani, implorando di rimanere a casa per tre lockdown.
   Israele è stata ossessiva negli ordini e nelle multe anche se le manifestazioni si sono moltiplicate, il personale incaricato ha agito come una madre italiana, l'esercito ha mobilitato le reclute. Nel distribuire le dosi, dopo la scala per età, si rispondeva sempre «sì». E così oggi Tel Aviv balla per le strade, va al ristorante e al teatro con la patente verde. Esagera, anche se la prudenza è ancora indispensabile. Già si progetta l'eliminazione delle maschere ed è permesso, all'aperto, riunire cento persone. Al ristorante e al teatro si progetta la verifica rapida per chi non ha patente. Gli aeroporti sono ancora semichiusi, ma in Grecia, a Cipro e in Georgia si può andare in vacanza...
   Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria del vaccino. Giorno dopo giorno, dal 20 di dicembre si è vaccinato il 90% degli ultra cinquantenni, il 51 fra i 16 e i 19 (gli allievi delle scuole), il 69 fra i 20 e i 29, il 46 fra i 30 e i 39 e l'81 fra i 40 e i 49. Sono 4,2 milioni che hanno ricevuto ambedue i vaccini, 5,1 milioni la prima dose. L'Rt è sceso allo 0,76 e il tasso di positività è caduto al 2,4%.
   Funzionerà? Dipende dal buon senso oltre che dalle varianti: il carattere israeliano ha più inventiva e chutzpa, la speciale impudenza per cui Netanyahu chiamava Bourla alle 3 di notte. Ma Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media; l'alleanza con vari stati europei per progettare una strategia futura; la distribuzioni dei propri vaccini in altri Paesi; i vaccini ai palestinesi. Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza. Che sia subito anche in Italia.

(il Giornale, 16 marzo 2021)
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  • Il miracolo della vaccinazione ... porterà alla liberazione dal Covid.
  • Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo.
  • Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria del vaccino.
  • Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media
  • Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza.
Dichiarazioni altisonanti, quasi di tono biblico, quelle di Fiamma Nirenstein nell'articolo che precede. E' un inno alla capacità dell'uomo di pervenire alla "comune costruzione della salvezza" accettando il ruolo di Israele come "leader mondiale nella vicenda" dopo che si è compiuto sulla sua terra "il miracolo della vaccinazione" che profeticamente "porterà alla liberazione dal Covid". Il senso della "missione storica" di Israele è stato "avvertito in modo molto diretto" dalla giornalista nell'ambulatorio il giorno del suo vaccino. Si proclama dunque, in un linguaggio profetico, la leadership di Israele nella guerra, dichiarata fin d'ora vittoriosa, che attualmente coinvolge l'intero pianeta. M.C.


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Sui vaccini hanno sempre mentito

Sapevano dal primo momento che il farmaco anti Covid non impediva il contagio. Eppure su questo falso pilastro hanno costruito l'infernale sistema delle imposizioni e del green pass. Hanno perseguitato milioni di persone. Le hanno private del lavoro e della libertà. Sulla base di una bufala gli italiani sono stati trattati come un gregge.

di Maurizio Belpietro

Lo so, c'è il governo da fare e dunque non conviene distrarsi, perché in gioco ci sono le bollette, gli aiuti alle famiglie e alle aziende in difficoltà, oltre alla strategia per finire una guerra che non abbiamo voluto, ma di cui paghiamo le conseguenze. Tuttavia, pur essendo consapevole di che cosa ci sia in ballo e delle prove che il nuovo esecutivo a breve sarà chiamato ad affrontare, mi permetto di richiamare l'attenzione di tutti i lettori su un'audizione del Parlamento europeo che è passata quasi inosservata.

Con due anni di ritardo abbiamo la prova che gli abusi e la cancellazione dei diritti sono avvenuti a causa di un presupposto oggettivamente falso
Si tratta della deposizione di Janine Small, presidente dei mercati internazionali della Pfizer, cioè un pezzo grosso del gigante farmaceutico americano. Gli eurodeputati hanno voluto ascoltarla dopo che il suo capo Albert Bourla ha poco cortesemente declinato l'invito a partecipare a una seduta della Commissione parlamentare che indaga sul Covid 19. In pratica, dal signor 25 milioni di dollari - tale è stato il suo stipendio lo scorso anno grazie al vaccino anti-coronavirus - gli onorevoli di stanza a Bruxelles volevano conoscere il contenuto dei negoziati confidenziali intercorsi tra la presidente della commissione Ue e i vertici della multinazionale del farmaco. In particolare, da Bourla si attendevano la consegna degli sms che lui e Ursula von der Leyen si sono scambiati durante le trattative per la fornitura di un lotto da 1,8 miliardi di dosi vaccinali e che la presidente Ue dice di aver - guarda caso - inavvertitamente cancellato. Vi chiedete perché gli eurodeputati vogliono ficcare il naso nella corrispondenza privata tra il manager multimilionario e la presidente Ue? A causa della secretazione degli atti della maxi-fornitura.
  Già, il colossale affare gestito dalla Ue è coperto da segreto e dunque l'unico modo per conoscere che cosa sia stato pattuito è scoprirlo tramite i messaggi riservati che il vertice della multinazionale si è scambiato con quello dell'Unione. Però, come detto, il numero uno della Pfizer si è sfilato con una scusa, declinando l'invito a sedersi sulla poltrona scottante in veste di «audito», evidentemente per evitare domande scomode. Dunque, per non dare la sensazione di avere molto da nascondere, Bourla ha mandato una sua sottoposta, appunto Janine Small che, per dirla tutta, è la capa dell'area commerciale di Pfizer e non proprio l'usciere della casa farmaceutica, ma per lo meno non scambia sms con la von der Leyen. Ma, venendo al dunque, che cosa ha detto la top manager?
  Incalzata da Rob Roos, onorevole olandese che fa parte del gruppo conservatore del parlamento europeo, la vice Bourla si è lasciata sfuggire che il vaccino non è mai stato testato come strumento per impedire la trasmissione del virus. Il deputato, a un certo punto della deposizione, le ha fatto una domanda precisa che non lasciava scappatoie, chiedendole se il siero fosse stato sperimentato, e dunque ritenuto efficace, per fermare la trasmissione del Covid prima della sua immissione sul mercato.
Il popolo è stato trattato come un gregge, costretto a porgere il braccio con l'uso della forza e di una menzogna avallata da politici, scienziati e istituzioni

  La Small, in chiara difficoltà, ha ammesso con un secco no, che nessun test era stato effettuato in tal senso e poi, dopo aver ridacchiato, si è giustificata dicendo che «noi», cioè la Pfizer, «dovevamo muoverci alla velocità della scienza», intendendo forse che la multinazionale del farmaco non poteva andarci troppo per il sottile con le verifiche, perché c'era il vaccino da immettere sul mercato. In pratica, con un solo no, Small ha spazzato via la cosiddetta legislazione d'emergenza adottata da molti governi, primo tra tutti quello italiano, per contenere l'epidemia di coronavirus. Infatti, spiegando che il siero non era stato testato per scoprire l'efficacia contro la diffusione del contagio, la dirigente della multinazionale americana ha implicitamente ammesso che il green pass adottato da alcuni Paesi, e divenuto in Italia strumento senza il quale non si poteva lavorare (e ancora in qualche caso non si può), viaggiare e nemmeno accedere a locali pubblici, non aveva alcuna efficacia, in quanto chi ne era in possesso non era sicuro di «non contagiare», come ebbe a dire in una conferenza stampa il presidente del Consiglio Mario Draghi, e nemmeno di essere tra persone che non si contagiano.
  In pratica, il tesserino verde che attestava l'avvenuta vaccinazione non garantiva una cippa, se non di aver offerto il braccio alla patria nell'illusione che questo servisse a evitare la diffusione del virus. Sì, insomma, con due anni di ritardo abbiamo la prova, non solo che i vaccinati potevano infettare proprio come i non vaccinati (cosa che abbiamo scoperto fin da subito sulla nostra pelle), ma che milioni di persone sono state private della libertà di scelta, di lavoro, di libera circolazione - tutte cose sacrosante tutelate dalla Costituzione - sulla base di una bufala. Oggi diremmo che siamo stati vittima di una gigantesca fake news, ma sulla base di questa bugia colossale, avallata da politici, scienziati e istituzioni si è perpetrato un abuso. Il nostro parlamento si occupa spesso delle discriminazioni delle minoranze. Ma quale discriminazione può essere più grave della privazione di tutti i diritti - lavoro, vita sociale, uso dei mezzi pubblici - sulla base di un presupposto oggettivamente falso? Chi non si è vaccinato è stato trattato alla stregua di un untore e intorno a lui è stato steso un cordone sanitario che lo ha isolato e lasciato in qualche caso senza i mezzi di sostentamento. Ma il comportamento del governo e delle istituzioni non aveva e non ha alcuna giustificazione. Milioni di italiani sono stati messi all'indice e alla gogna senza motivo, perché l'untore poteva essere chiunque fosse entrato in contatto con il virus. Non c'era alcuna immunità di gregge da costituire, perché questa - come abbiamo appreso in seguito - non si poteva raggiungere. Dunque, qualcuno si è arrogato il potere di trattare gli italiani come un gregge, costringendoli a vaccinarsi e a vaccinare i loro figli, con l'uso della forza e della bugia. Oggi, quello che molti di noi avevano compreso, è messo agli atti in un'audizione parlamentare. Ciò che manca, sono le scuse di chi ha imposto certe decisioni e la revoca dei provvedimenti di sospensione di chi non si è vaccinato.

(La Verità, 13 ottobre 2022)


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Pfizer sapeva che i vaccini non fermano la trasmissione. «Mai fatti test sui contagi»

Bourla, che doveva dar conto degli sms con Ursula, evita l'Europarlamento. Ma la sua manager confessa: nessun trial sulla prevenzione dell'infezione è mai stato richiesto.

di Maddalena Loy

«Cosa aspetta la magistratura ad intervenìre?», La domanda del professor Giovanni Frajese, sospeso dal lavoro e dallo stipendio insieme con altre centinaia di migliaia di cittadini italiani, è senza risposta da un anno. Oggi si fa ancora più urgente dopo la clamorosa quanto disinvolta ammissione della rappresentante di Pfizer, Janine Small, alla commissione Covid del Parlamento europeo. Small è una figura commerciale apicale nell'azienda farmaceutica guidata da Albert Bourla: è la manager che si occupa del marketing Pfizer nei mercati esteri. L'eurodeputato Rob Roos, del partito conservatore Ere (European conservatives and reformists, cui fanno parte anche i deputati guidati da Giorgia Meloni) le ha rivolto una domanda secca: «Il vaccino Pfizer contro il Covid, prima di essere immesso sul mercato, è stato testato sulla prevenzione non soltanto della malattia ma anche della trasmissione del virus? Sì o no?», Janine Small ha candidamente replicato, quasi stupita, concedendosi anche una risata beffarda: «Mi chiede se sapevamo se il vaccino interrompesse o no la trasmissione, prima di immetterlo sul mercato? Ma no (risata)! Sa, dovevamo davvero muoverci alla velocità della scienza!».
  «La confessione di Small è di una gravità inaudita» dichiara Roos alla Verità-perché per la prima volta si è ammesso che le istituzioni hanno formalmente discriminato senza alcuna base scientifica. I nostri governi hanno perpetrato abusi e sottratto i mezzi di sostentamento ai cittadini, privandoli anche della loro vita di comunità, sulla base di questo assunto». «Questa è la dimostrazione che il mondo intero è stato sottoposto a un'incredibile campagna di disinformazione - aggiunge l'eurodeputato dell'Erc Cristian Terhe" - e Pfizer, insieme con i governi nazionali, ha mentito su ciò che questi prodotti medici possono fare e realmente fanno. Ma noi continuiamo a vigilare».
  Secondo Roos, le responsabilità sono condivise: «Da un lato, Pfizer ha guadagnato cifre enormi, soldi dei contribuenti, approfittando della situazione. Ovviamente hanno sempre saputo che non c'erano evidenze che il vaccino prevenisse anche l'infezione: non sono stati trasparenti. Dall'altro lato, però, i governi hanno agito come se queste evidenze ci fossero e hanno diffuso disinformazione istituzionale vessando i cittadini. Le vessazioni non sono colpa di Pfizer, ma dei governi».
  A cominciare da quello italiano: il presidente del Consiglio Mario Draghi, nell'annunciare il provvedimento, aveva assicurato che il green pass non era «un arbitrio», per carità, ma una misura attraverso la quale, ipse dixit, ,«i cittadini possono continuare a svolgere attività, con la garanzia (sic) di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose».
  Francesca Donato, anch'essa membro della commissione Covid, racconta: «Siamo sorpresi che Janine Small ci abbia risposto perché quella domanda la avevamo posta decine di volte. Da queste dichiarazioni si capisce che ab origine c'era la perfetta consapevolezza che questo vaccino non prevenisse il contagio. Quindi tutta la comunicazione e lo stigma morale riverberato con violenza sui cittadini attraverso i media è stata una gigantesca truffa, che non ha precedenti storici».
  Draghi non è stato l'unico capo di governo a condannare i cittadini dissidenti: sulla stessa scia anche Emmanuel Macron, che con pregevole eleganza disse di voler «far incazzare i non vaccinati» e Joe Biden, che cristallizzò lo stigma con la famosa definizione di «pandemia dei non vaccinati». Nei loro Paesi, però, non è stato impedito ai cittadini di lavorare. E soltanto da noi le misure vessatorie hanno colpito anche i minori, evocando proprio quella «protezione dal contagio» come fine ultimo delle misure adottate: il decreto 52 che ha istituito il green pass ha posto come obiettivo quello di «contenere e contrastare l'emergenza epidemiologica da Covid-19», mentre il dl 44/2021 ha decretato l' obbligo vaccinale per favorire la «prevenzione del contagio da Covid-19»,
  «Con questa confessione», secondo Rob Roos, «i cittadini devono ricorrere in tribunale e dire: ho perso il mio lavoro a causa di una legge che non poggia su basi scientifiche». «I cittadini italiani e di tutti gli altri Paesi - rincara Terhe - devono ritenere i loro rappresentanti eletti i primi responsabili di ciò che è stato fatto loro. Le persone sono state discriminate, molte adesso stanno subendo gravi effetti avversi, alcune sono morte. Questi politici che hanno giocato con la vita delle persone non devono mai più essere eletti in alcuna carica pubblica». «Che il vaccino non prevenisse il contagio tecnicamente è una non-notizia - precisa Francesca Donato - perché è una evidenza scientifica ed empirica che tutti conoscevano, e noi al Parlamento europeo lo diciamo da più di un anno. Formalmente, però, ha un peso enorme perché sulla base di questa confessione ogni obbligo deve essere tolto seduta stante».
  Sono parecchi mesi che gli europarlamentari di questa commissione attendono di poter incontrare i rappresentanti delle case farmaceutiche. L'assenza di Albert Bourla, su cui Janine Small ha glissato, è stata duramente contestata dai deputati, che l'hanno interrogata anche sulla questione degli sms scambiati tra Ursula von der Leyen e il ceo di Pfizer: «Durante la pandemia lavoravamo tutti da casa - si è giustificata Small - il dottor Bourla ha dato il suo numero a tutti i leader europei, e l'ho fatto anche io. Nego però categoricamente che ci sia stato un negoziato sui contratti tramite sms. Le procedure in Pfizer, e anche nelle istituzioni Ue, sono complesse, non è possibile negoziarle per sms. Non ho idea di quanti sms siano stati scambiati, non li ho mai contati».
  «Ursula von der Leyen si è perfino rifiutata di consegnarli alla Mediatrice europea - racconta Francesca Donato - che come lei rappresenta le istituzioni, sostenendo che non erano documenti ufficiali. Quest'interpretazione è stata definita dalla stessa mediatrice "arbitraria"».
  Come tutta la gestione della pandemia, insomma.

(La Verità, 13 ottobre 2022)


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Ora sparisca l'obbligo per i sanitari e l'Ordine risarcisca i sospesi

Infermieri e medici, me compresa, sono ancora privati del lavoro per aver rifiutato un'inoculazione che non immunizza. Adesso è tempo di rimborsare loro e tutte le vittime degli effetti avversi.

di Silvana De Mari

  • «Campi di sterminio per chi non si vaccina», Giuseppe Gigantino, cardiologo.
  • «Se fosse per me costruirei anche due camere a gas», Marianna Rubino, medico.
  • «I cani possono sempre entrare. Solo voi, come è giusto, resterete fuori», Sebastiano Messina, giornalista.
  • «Vagoni separati per non vaccinati», Mauro Felicori, assessore.
  • «Potrebbe essere utile che quelli che scelgono di non vaccinarsi andassero in giro con un cartello al collo»,
  • «Verranno messi agli arresti domiciliari, chiusi in casa come dei sorci», Roberto Burioni, virologo.
  • «I loro inviti a non vaccinarsi sono inviti a morire», Mario Draghi, presidente del Consiglio.
  • «Gli bucherò una decina di volte la solita vena facendo finta di non prenderla», Francesca Bertellotti, infermiera.
  • «Se riempiranno le terapie intensive mi impegnerò per staccare la spina», Carlotta Saporetti, infermiera.
  • «È giusto lasciarli morire per strada», Umberto Tognolli, medico.
  • «Sono dei criminali, vanno perseguitati come si fa con i mafiosi», Matteo Bassetti, infettivologo.

Queste sono solo alcune delle dichiarazioni contro i non vaccinati fatte dalle anime belle che solitamente squittiscono contro l'odio.
  Se non ti vaccini se un antisociale, metti a rischio tutti gli altri, soprattutto gli anziani e i fragili.
  Non ti vaccini per te stesso, ma per amore degli altri. Un amore imposto si chiama stupro. Addirittura i massimi responsabili della Chiesa cattolica hanno affermato che sarebbe stato un gesto d'amore farsi inoculare farmaci sperimentali con effetti collaterali sconosciuti e gravi, fabbricati usando cellule ottenute con sofferenze atroci e la morte di due bimbi partoriti al quinto mese di gravidanza. In realtà non c'era alcun lavoro né alcuna evidenza che questi farmaci avessero un qualche effetto nell'evitare la trasmissione della malattia. Lunedì scorso tutto questo è stato ufficialmente detto in una audizione al Parlamento europeo da una responsabile della Pfizer.
  La stessa cosa era stata detta da Bill Gates a Davos. Lo stesso Gates aveva affermato che tutta la giurisprudenza basata sulla cosiddetta vaccinazione era priva di senso in quanto i farmaci non immunizzano.
  In realtà lo stesso concetto si poteva evincere dai pochi dati a disposizione, degli articoli di Peter Doshi, dai dati statistici e dallo studio dell'andamento epidemiologo. E c'è di peggio, gli inoculati oltre che innumerevoli effetti collaterali, mostrano anche un affaticamento grave del sistema immunitario e un rischio di fenomeno ADE, per cui gli inoculati possono stare peggio se contraggono la malattia Covid 19.
  Chiunque avesse la capacità di sommare due più due poteva notare che i dati dell'epidemia erano di gran lunga peggiori nelle nazioni più vaccinate. Un esempio tragico è Israele. Un esempio tragico è Italia. Un altro esempio l'Ucraina, dove gli inoculati sono solamente il 35% della popolazione e nella maggioranza dei casi si tratta di persone che non sono arrivate alla terza inoculazione. Eppure la Sars 2 Covid-19 non è un loro problema.
  Io continuo a non poter esercitare il mio lavoro. Ho ricevuto una missiva ridicola firmata dal dottor Giustetto, presidente dell'Ordine dei medici di Torino, dove mi parlava pomposamente di farmaci immunizzati contro il Covid 19. Mi chiedeva conto del fatto di non essermi fatta inoculare farmaci che avrebbero bloccato la possibilità di trasmissione del Covid. Peccato che questi farmaci non esistano. Peccato che il dottor Giustetto si sia rifiutato di rispondere alle mail in cui chiedevo conto di quelle sue affermazioni azzardate e fantasiose.
  Peccato che molti colleghi siano morti o rimasti invalidi a seguito di inoculazione di farmaci che non avevano alcuna capacità di bloccare la malattia. Per inciso: chi pagherà i risarcimenti? Nel caso dei medici, il presidente dell'Ordine dei medici che si è assunto la responsabilità di costringere i colleghi all'inoculazione pena la sospensione, potrebbe essere ritenuto responsabile?
  li premio Nobel, perlomeno quello per la pace, è ogni anno più ridicolo. Io lo avrei dato al giornalìsta Assange, in prigione da anni, perché tutte le guerre degli ultimi tempi sono nate dalla disinformazione giornalistica, perché la pace nasce dalla verità, perché quella che è stata fatta al popolo è una guerra, una guerra che ha lasciato morti e feriti e sono stati molti morti e feriti gravi.
  Un enorme numero di morti per malori improvvisi, un enorme numero di ragazzini che non possono più correre dalla miocardite, oppure la pericardite, oppure la degenerazione muscolare, un enorme numero dì trombosi, un quantitativo tale di herpes che non riusciamo più a contarlo.
  «Se non ti vaccini muori e fai morire», Queste parole sono ripugnanti. La pandemia Covid è stato un problema politico, non sanitario.

(La Verità, 13 ottobre 2022)


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Ma non ci sono soltanto virologi e politici tra coloro che i sono scagliati contro i "no vax". Ci sono anche persone da cui non sarebbe stato normale aspettarsi certe esternazioni. Ripresentiamo un articolo del gennaio scorso, sperando che l'autrice, ripensando anche alle proprie origini, trovi il modo di vergognarsene.

L'internazionale del complotto

di Fiamma Nirenstein

I movimenti No Vax contengono un elemento esplosivo di portata internazionale, perché popolano le più svariate parti del mondo e sono formati da persone normali pronte a immaginare che il mondo sia diviso in due parti. Una che intenzionalmente è devota a compiere azioni malvage, perché interferiscono sulla loro salute, violano la libertà a proprio vantaggio, approfittano del loro potere. Una posizione che, stimolata da un feroce incitamento continuo sui promotori della politica pro vaccini, possiede gli elementi per spingere alla violenza, persino al terrorismo, mentre crea dei propri «martiri». Invece, affrontare il Covid richiede soprattutto una quieta dose di buon senso, ignota ai No Vax che si ergono a pilastri di una logica ripetitiva fino alla nausea: ma come, non era il vaccino la soluzione di tutti i mali? Invece, non vedi quanti infettati? Allora il vaccino non è buono? Ammetti, chi ha interesse a mentire? E il green pass dovrebbe salvarci? Tutte scuse, pure fake news ...
  E così sullo sfondo, sventola lo stendardo affaticato della libertà. Nessuno toccherà la mia, dice il No Vax, io sono un uomo libero, che difende la libertà anche tua, e tu povero idiota non ti accorgi che ti riempiono di balle. Il No Vax varia dall'arrabbiatissimo selvaggio, al vicino di casa civile e pratico, uno sospettoso di ciò che il «potere» intende propinargli con chiacchiere, bollette, aumenti inaspettati, politici che fanno i loro interessi. E c'è anche il vicino artistico e colto, anticonformista di stirpe sessantottina. Anche di lui scoprirai che ritiene tutti cretini e si è vaccinato per forza. In genere che il vicino sia No Vax si capisce dopo un poco, e quindi devi stare attento a moderare il linguaggio; d'un tratto scopri che vicino a te è qualcuno, che non ti eri immaginato: hai un nuovo vicino, non è di destra né di sinistra, ma è una pentola in ebollizione anti istituzionale e disfunzionale.
  Il No Vax è un giudice severo, un democratico il cui cervello compie svarioni e salti illogici che lo portano ad abbandonare lo scenario della realtà e a mettersi improvvisamente a fantasticare congiure. Gli estremisti certo sono così, quando dicono Covid dicono anche Cina, o persino «potenze ebraiche» ( sì quelle che hanno organizzato l'attacco delle Twin Towers, che ora possiedono sette compagnie internazionali che profittano sugli infettati), o «antenne 5G nelle iniezioni». Ma non tutti sono pazzi: la mancanza di buon senso è più comune, ma si trasforma presto in rabbia. L'internazionale No Vax è robusta, pronta a diventare un movimento «intersezionale», a unirsi agli «oppressi». Può essere ecologico, arcobaleno, rosa, colorarsi di nero-nazi come in Germania, diventare antisemita come in Belgio e Francia, o comunista. Non è necessariamente di destra, tanto che Orban o Morawiecki lo combattono; né è di sinistra.
  È una creatura a parte, un mostro potenziale che ha radici nella libertà di essere ignoranti della nostra epoca, ma anche nel narcisismo, nell'impazienza, nella prosopopea, nella diffusione iperveloce sui social. Fa parte di quei manicheismi molto comuni oggi che vedono tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra; il nemico è un mostro; i suoi uomini sono pronti a immolarsi per restare No Vax. Proprio a causa della mostrificazione dell'avversario hanno un potenziale di violenza sconfinato, possono diventare terroristi come gli animalisti, gli wheaterman, i ragazzi della rivoluzione sociale e sessuale, i movimenti del terzo mondo. Tutti in lotta per la libertà: solo che non avevano capito come James Fitzjames Stephen, uno dei teorici vittoriani liberali più noti, che «gli effetti dei luoghi comuni sulla libertà hanno avuto il risultato di indurre a obbedire alla prima persona che richiede la loro obbedienza con enfasi senza chiedersi: libertà di fare cosa? E da quale giogo, in cambio, sono stato liberato?».

(il Giornale, 10 gennaio 2022)


Tra vicini:
- L'hai visto il nuovo vicino del terzo piano?
- Sì, perché?
- Sembra uno normale, come tutti noi, e invece...
- E invece?
- Invece è un no vax!
- Ma no!
- Sì, sì, è un no vax, te l'assicuro, l'ho sentito parlare con un altro vicino. Ma tu, se l'incontri, sta' attenta a come gli parli, perché sai, quelli lì sono strani. Sì, è vero, non sono tutti pazzi, ma la mancanza di buon senso è cosa comune fra di loro e si trasforma presto in rabbia. Quando l'incontri, quindi, ricordatelo: non è come uno di noi, è una creatura a parte, un mostro potenziale.»
A una scena come questa deve aver pensato l'autrice quando ha scritto, oltre a tutto il resto: "In genere che il vicino sia No Vax si capisce dopo un poco, e quindi devi stare attento a moderare il linguaggio; d'un tratto scopri che vicino a te è qualcuno, che non ti eri immaginato: hai un nuovo vicino, non è di destra né di sinistra, ma è una pentola in ebollizione anti istituzionale e disfunzionale".
Sinceramente, non si pensava che Fiamma Nirenstein potesse arrivare a questo punto. M.C.

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Israele blocca l'accesso a Nablus dopo attacchi palestinesi

Gerusalemme, polizia in allerta per le preghiere al Muro del Pianto

TEL AVIV - In seguito ad una serie di attacchi armati rivendicati dalla milizia palestinese denominata 'Fossa dei Leoni' l'esercito israeliano ha bloccato quasi tutte le vie di accesso a Nablus (Cisgiordania). Nelle strade rimaste aperte tutti i veicoli palestinesi sono perquisiti da militari israeliani. Lo ha riferito la radio pubblica Kan.
  Ieri la 'Fossa dei Leoni' ha rivendicato la paternità di un attacco, partito da Nablus, in cui un soldato israeliano è rimasto ucciso. Secondo i media anche il presidente palestinese Abu Mazen è preoccupato per le attività armate della 'Fossa dei Leoni' e ha ordinato ad un suo generale di aver ragione di quel gruppo, possibilmente con un'opera di persuasione. Stanotte intanto l'esercito israeliano scorterà a Nablus una comitiva di ebrei ortodossi che intendono pregare nel santuario noto come 'Tomba di Giuseppe' in occasione del Sukkot, la festa delle capanne.
  Tensione elevata oggi anche a Gerusalemme dove migliaia di fedeli si accingono a raccogliersi al Muro del Pianto per ricevere, in occasione di Sukkot, la tradizionale benedizione rabbinica. La polizia ha messo a punto strette misure di sicurezza.

(ANSAmed, 12 ottobre 2022)

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È storica. Intesa Israele-Libano: si firma l’accordo su confini e risorse energetiche

Il 20 ottobre verrà siglato il documento che chiude una lunga controversia sui bacini davanti alle coste dei due Paesi. Aoun: «Preservati i nostri diritti». Lapid: «Rafforzerà la sicurezza».

di Camille Eid

C’è l’accordo tra Libano e Israele per la demarcazione della frontiera marittima e la conseguente spartizione delle risorse energetiche al largo delle rispettive coste. Un passo che apre le porte allo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale. Il presidente libanese Michel Aoun ha giudicato «soddisfacente» la bozza dell’accordo, raggiunto grazie al mediatore statunitense Amos Hochstein che ha fatto diverse volte la spola tra Beirut e Tel Aviv.
  «La presidenza libanese – si legge in un comunicato – ritiene che la formula finale abbia preservato i diritti del Libano sulle sue ricchezze naturali, in un momento importante per la popolazione». Soddisfazione espressa anche dal premier israeliano uscente Yair Lapid, che ha parlato di «accordo storico» e ha convocato per oggi una riunione del gabinetto politico di sicurezza per approvarlo.
  «Il progetto di accordo – ha twittato Lapid – è pienamente conforme ai principi presentati da Israele in materia di sicurezza ed economia. Questo è un risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, porterà miliardi nell’economia israeliana e garantirà stabilità al confine settentrionale». Anche il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha giudicato il nuovo accordo «giusto e positivo per entrambe le parti», confermando che l’intesa risponde a tutti i bisogni di sicurezza di Israele.
  L’unica nota dissonante è arrivata dal capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu, che ha definito l’accordo «una resa storica» agli Hezbollah. «Per oltre un decennio – ha detto Netanyahu – il mio governo non si è piegato alle minacce degli Hezbollah e non abbiamo avuto guerra. Poi – ha proseguito – è arrivato Lapid e in tre mesi si è arreso completamente a tutte le richieste».
  Al centro della disputa tra i due Paesi, formalmente in stato di armistizio dal 1948, un braccio di mare di alcune centinaia di chilometri quadrati e due giacimenti di gas naturale già noti, Karish e Qana. Per gli israeliani la priorità è sempre stata quella di poter iniziare l’estrazione dal campo di Karish senza il rischio di escalation: Hezbollah aveva infatti ripetutamente minacciato di condurre un’operazione militare contro il sito se le operazioni di estrazione fossero iniziate prima che il Libano potesse fare la stessa cosa nel giacimento di Qana, rivendicato dal Libano nella sua totalità all’interno della propria zona economica esclusiva.
  Negli ultimi giorni, la Francia ha svolto un’intesa azione diplomatica per superare l’impasse dopo che Israele aveva respinto le ultime osservazioni formulate dal Libano, soprattutto per quanto riguarda la quota israeliana dal giacimento di Qana. In pratica, sarà la compagnia francese TotalEnergies – cui è affidata l’esplorazione del gas nelle acque libanesi – e non il governo libanese a versare a Israele una quota dei propri proventi. Gli israeliani richiedevano un compenso a titolo di risarcimento per la concessione dell’esclusiva sul giacimento in questione. Inoltre, il mediatore Hochstein ha risolto il nodo relativo all’ambiguità tra due espressioni-chiave («status quo» e «fatto compiuto») circa la cosiddetta linea dei galleggianti.
  L’intesa sarà siglata il 20 ottobre, pochi giorni prima della scadenza del mandato presidenziale di Aoun, ma anche in vista delle elezioni israeliane del primo novembre. La firma offre al Libano, in piena bancarotta economica e affamato di elettricità, una buona opportunità. E soprattutto una riappacificazione – accettata da Hezbollah – ai suoi confini meridionali. Le tensioni tra i due Paesi vicini si erano inasprite nel giugno scorso quando tre droni del Partito di Dio, privi di armi, erano stati inviati nella zona della piattaforma di Karish in una sorta di avvertimento.

(Avvenire, 12 ottobre 2022)


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Israele. 11 ottobre: una data da non dimenticare

di Emanuel Segre Amar

Per comprendere quanto è successo l’11 ottobre in Israele, bisogna risalire alla visita di Biden a Gerusalemme allorquando il premier Lapid, il 14 luglio, accettò tutte le condizioni imposte dal presidente USA prima di ricevere un sonoro ceffone il giorno successivo accettando che, per la prima volta, un presidente USA si recasse, senza nessun accompagnatore israeliano, nel settore est di Gerusalemme.
  Dopo quella visita l’amministrazione Biden non perse nessuna occasione per rimproverare l’esercito di Israele “colpevole” di difendersi dai terroristi, nonostante l’IDF sia unanimemente considerato l’esercito più morale al mondo.
  La conseguenza di questa accettazione dei diktat da chi dimostra, da sempre, di non comprendere la mentalità del Medio Oriente, la si è vista in questi ultimi giorni molto tristi per il popolo israeliano.
  La morte della giovanissima poliziotta Noa Lazar risale a sabato scorso e, mentre il suo commilitone Haim Morale, colpito alla testa, versa tuttora in condizioni gravissime, oggi è stato ucciso un altro giovane soldato, Ido Baruch. In entrambi gli episodi i video fanno vedere che tutti i militari si fanno sorprendere dai terroristi che sparano per poi fuggire senza essere fermati dai soldati che preferiscono non sparare piuttosto che essere poi, magari, sottoposti a lunghi processi; e purtroppo le istruzioni che vengono date adesso ai soldati durante l’addestramento sono in linea con quanto il mondo pretende da Israele (dove non c’è più un Ben Gurion capace di infischiarsi della volontà del mondo intero).
  Il problema, purtroppo, non è nato solo oggi, ma ultimamente la situazione è di gran lunga peggiorata, e non sono rari i casi di giovani che, durante l’addestramento, sono a tal punto condizionati da non ritrovarsi nemmeno più in sintonia con la propria famiglia, convinti dai loro superiori che non esista un nemico, ma solo un partner per la pace.
  Non è poi del tutto casuale se nella stessa giornata del secondo grave incidente ad un check point il premier dimissionario Lapid ha annunciato di aver raggiunto un accordo col Libano riguardante i confini marittimi. Biden e Lapid si sono complimentati e ringraziati a vicenda, ma questo accordo è, esso pure, il frutto di un diktat giudicato inaccettabile da molti commentatori israeliani; basti qui ricordare, come molto opportunamente fa Caroline Glick, che la linea di confine marittimo rivendicata da Israele corrispondeva esattamente agli accordi firmati tra il Libano e Cipro e successivamente sottoposta da Gerusalemme alle Nazioni Unite facendo riferimento agli accordi Cipro-Libanesi.
  Come ha dichiarato Eugene Kontorovich, esperto di Diritto Marittimo Internazionale e direttore di Diritto Internazionale al Kohelet Policy Forum di Gerusalemme, è la prima volta che un governo israeliano cede parte del proprio territorio senza l’accordo della Knesset, il Parlamento, ed è la prima volta che un simile atto è compiuto da un governo minoritario; ma Lapid si illude, in tal modo, di evitare una guerra con Hezbollah.
  Pia illusione, come la storia del Medio Oriente avrebbe dovuto insegnargli.
  Il ministro della Difesa, Gantz, ha dichiarato di “non aver ceduto un millimetro di territorio che potesse servire per la difesa di Israele”, convinto di aver operato per il meglio “nonostante il tentativo di Hezbollah di distruggere questo accordo”. Ma Nasrallah ha già fatto sapere che, essendo firmato dal presidente libanese Aoun, non lo terrà in considerazione dopo la scadenza del suo mandato, il prossimo 31 ottobre.
  Nessuno stato parlamentare e democratico può cedere una parte del proprio territorio senza l’approvazione del proprio Parlamento, ma Lapid e Gantz cercano di farlo per paura di una guerra con Hezbollah (che, in tal modo, ha già vinto la prima battaglia contro la democrazia israeliana). È ben vero che bisogna adesso aspettare alcuni giorni per vedere se la Corte Suprema non bloccherà Lapid, ma intanto Israele si è dimostrato debole, peccato questo gravissimo in Medio Oriente dove si finisce poi sempre per pagarne le conseguenze.
  Questo accordo, come scrive Caroline Glick, rinforza Hezbollah economicamente e strategicamente, a spese di Israele e delle cessioni volute da Lapid e da Gantz.
  Ma Lapid si sarà sentito onorato dalle parole di Biden che gli ha detto “You are making history”; speriamo soltanto che Israele riesca a riprendersi in fretta la propria storia, così piena di successi, e che impari a non fidarsi di un alleato che si limita a garantire solo a parole la “Israel security and regional sability”, minandone in realtà le basi.

(Shalom, 12 ottobre 2022)


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Perché l’intesa tra Israele e Libano sul gas ci deve interessare

L’accordo sulle estrazioni di gas tra Gerusalemme e Beirut riguarda anche l’Italia, Eni e l’EastMed. Fatti, numeri, scenari 

di Mauro Giansante

Un piccolo passo avanti ma intanto un passo. Israele e Libano hanno raggiunto un’intesa sulle estrazioni di gas decidendo di comune accordo la delineazione dei confini marittimi. I dubbi sono tanti, non sull’accordo in sé bensì sulle fragilità possibili legate da rapporti comunque difficili tra i due Paesi. Il paese con capitale Beirut vive una crisi progressiva legata, da ultimo, all’esplosione del porto avvenuta due anni fa. La minaccia di Hezbollah è ancora viva, ci sono gli Stati Uniti a cercare di guidare i negoziati lontano da Iran e Russia.
  Torniamo alla questione energetica. L’area copre oltre 860 chilometri quadrati nel Mediterraneo, inclusi i giacimenti di gas di Karish e Qana. Il primo, in particolare, può risultare fondamentale per Gerusalemme e Energean – proprietario del territorio di estrazione – ha già spedito in loco la sua unità galleggiante di stoccaggio e scarico “Energean Power”. A Qana, invece, il Libano opera in tandem con TotalEnergies e le operazioni che partiranno sono importanti per il futuro, non per l’emergenza attuale.

• QUANTO CONTA L’ACCORDO SULLE ESTRAZIONI DI GAS
  L’accordo, dunque, è importante. Varrà otto miliardi di metri cubi annui. Ma è pur sempre tra due paesi in guerra. Sfruttare senza ostilità le risorse del Bacino del Levante resta il vero passo in avanti sin qui registrato. “L’energia, in particolare nel Mediterraneo Orientale, dovrebbe servire come strumento di cooperazione, stabilità, sicurezza e prosperità”, ha detto la Casa Bianca felicitandosi per quanto raggiunto.
  Per il premier israeliano Lapid l’accordo è storico e “inietterà miliardi nell’economia del Paese”. E ancora: “Non ci opponiamo allo sviluppo di un ulteriore giacimento di gas libanese, dal quale riceveremo naturalmente la quota che ci spetta”. In risposta, un portavoce del presidente libanese Michel Aoun ha detto che Beirut con quest’accordo mantiene “i diritti sulle sue ricchezze naturali”.
  Israele, intanto, pensa all’ennesimo appuntamento elettorale. Si andrà alle urne il primo novembre. L’intesa con il Libano verrà formalizzata in Parlamento.

• COSA C’ENTRANO ITALIA ED ENI
  Relazioni energetiche significa interconnessione, geopolitica. Perché l’accordo tra Israele e Libano dovrebbe interessarci? Anzitutto, Eni è presente a Beirut con una partecipazione del 40% in due blocchi offshore insieme a Total e Novatek. Gli accordi furono firmati quattro anni fa e i blocchi sono contigui alla zona interessata dall’accordo tra i due paesi in guerra.
  Di più. L’intesa israelo-libanese potrebbe dare nuova linfa al progetto del gasdotto EastMed di Igi Poseidon che arriverebbe in Italia, sulle coste pugliesi. Eppure, come raccontato su questo giornale, c’è e ci sarà sempre da fare i conti (tra l’altro) con la Turchia. Che ha sfidato ancora la Grecia (ma anche Eni e Total, quindi Italia e Francia) accordandosi con uno dei governi di Tripoli in Libia per nuove esplorazioni energetiche in acque mediterranee contese. Il fronte, insomma, è piuttosto caldo e intricato.

(Energia Oltre, 12 ottobre 2022)

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Il Lodo Moro e l’impunità dei terroristi palestinesi

di Elisabetta Fiorito

Sono gli anni costellati da terrorismo, inflazione galoppante, dipendenza dal petrolio. È in questo contesto che si sviluppa il cosiddetto Lodo Moro, il presunto, ma non troppo, scambio tra il governo italiano e i vari gruppi armati palestinesi, Olp e Flpl in primis. Il patto nasce nel 1969 da un’idea dell’allora Ministro degli Esteri del governo Rumor I, Aldo Moro, come scrive Valentine Lomellini nel suo libro intitolato appunto “Il Lodo Moro, Terrorismo e ragion di Stato”, Edizioni Laterza. La miccia è l’attentato alle Olimpiadi di Monaco del ’72. L’Italia e altri stati europei, tra cui la Francia, pensano a come evitare gli attentati. La chiave può essere una sorta di immunità a chi agisce sul territorio nazionale nell’illusione di una tregua.
  Giugno 1973. Un ordigno esplode in Piazza Barberini a bordo di una Mercedes ferendo un cittadino giordano e uno siriano. È un incidente, i due stanno fabbricando una bomba. Vengono scarcerati il 13 agosto dello stesso anno.
  Settembre 1973. Cinque terroristi arabi vengono trovati in possesso di lanciamissili di fabbricazione sovietica grazie a un’operazione congiunta tra SID e Mossad ad Ostia. L’intento è abbattere un aereo civile israeliano in partenza dall’aeroporto di Fiumicino in occasione della visita della premier Golda Meir. Hanno tra i 20 e i 30 anni e sono di varie nazionalità, c’è anche un libico, Atef Bseiso. A seguito di contatti con Kamal, rappresentante dell’Olp in Egitto, si richiede la liberazione dei terroristi. I cinque vengono tenuti in custodia a Viterbo, ma a distanza di due mesi, due di loro, tra cui Bseiso, vengono rimessi in libertà provvisoria e accompagnati in Libia sulla base di indicazioni del governo Rumor IV, ministro degli esteri Aldo Moro.
  17 dicembre 1973. Due commandos di terroristi palestinesi, con l’appoggio della Libia di Gheddafi, attaccano l’aeroporto di Fiumicino in cui sono coinvolti tre aerei Air France, Lufthansa, Pan Am. Un commando raggiunge l’aereo Pan Am, lancia alcune bombe al suo interno, uccide 29 persone. La guardia di Finanza Antonio Zara viene trucidata nel tentativo di opporsi. L’altro commando si impossessa dell’aereo tedesco imbarcando alcuni ostaggi italiani, greci, tedeschi, francesi. L’aereo prosegue per Atene dove viene ucciso un ostaggio italiano, Domenico Ippoliti, poi per Kuwait City, gli ostaggi vengono liberati e, dopo pochi giorni, i dirottatori non vengono processati.
  1974-1981. L’Italia beneficia di una tregua a seguito di molte intercessioni del governo con la Libia e con le varie frange palestinesi. Il lodo sopravvive al suo inventore e sembra arginare il terrorismo negli anni dello shock petrolifero (nel 1973 i paesi dell’Opec decidono di innalzare del 70 per cento il prezzo del greggio), il nostro paese dipende sempre più energeticamente dalla Libia di Gheddafi che supporta il terrorismo palestinese. Le autorità italiane chiudono un occhio e si trova il modo di rimettere in libertà chi viene arrestato perché in possesso di armi, alle volte missili.
  9 ottobre 1982. Un commando di terroristi palestinesi attacca la Sinagoga di Roma dove viene ucciso Stefano Gaj Taché e ferite 37 persone. L’ex ministro dell’Interno ed ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga rivela il 3 ottobre del 2008 al quotidiano israeliano Yediot Aharonot l’accordo segreto tra Italia e terrorismo palestinese. “Vi abbiamo venduti”, la frase di Cossiga. “Lo chiamavano Accordo Moro e la formula era semplice: l’Italia non si intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi italiani”. Ma, a quanto pare, gli ebrei non sono inclusi nell’accordo. “Ero convinto che la notizia pubblicata in agosto avrebbe risvegliato i media, che magistrati avrebbero cominciato ad indagare, che sarebbero cominciati gli interrogatori dei coinvolti. Invece c’è stato il silenzio assoluto”, commenterà amaramente Cossiga in seguito.
  7 ottobre 1985. Quattro terroristi palestinesi dirottano la nave Achille Lauro prendendo in ostaggio 511 persone e uccidendo l’americano Leon Klinghoffer, ebreo e disabile. Dopo la liberazione della nave al Cairo, i quattro dirottatori più il negoziatore Abu Abbas, rappresentante dell’Olp, vengono scortati a Sigonella con braccio di ferro dell’allora presidente del consiglio Bettino Craxi, appoggiato dal democristiano Giulio Andreotti, e del presidente americano Ronald Regan che pretende di avere in consegna tutti i terroristi, incluso Abu Abbas ritenuto da Washington parte del commando. Abbas riesce a fuggire e trova rifugio a Belgrado, verrà poi catturato nel 2003 dagli americani.
  27 dicembre 1985. Il terrorismo palestinese mette a segno in contemporanea un attacco all’aeroporto di Fiumicino e a quello di Vienna. In Italia le vittime sono 13, 65 i feriti, i terroristi lanciano bombe e sparano raffiche di mitra davanti al check-in dell’El Al. Tre vengono freddati dalle guardie di sicurezza israeliane, un quarto viene arrestato.
  Lo scacchiere internazionale sta cambiando e il lodo sembra perdere consistenza. “La ragion di Stato aveva reso necessario il lodo violando tuttavia il diritto dei cittadini italiani alla giustizia”, spiega Lomellini nel suo libro.
  Colpisce, però, la dicotomia italiana di questi anni con al centro sempre la figura di Aldo Moro. Da una parte la disponibilità dello Stato al dialogo con i terroristi palestinesi, dall’altra l’estrema rigidità sul fronte interno con le Br durante la prigionia dello statista che colpisce lo stesso Moro. Dalla sua prigione scrive: “In moltissimi altri paesi civili si hanno scambi e compensazioni e in Italia stessa per i casi dei Palestinesi ci siamo comportati in tutt’altro modo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della Dc che moltissimi scambi sono stati fatti in passato per salvaguardare ostaggi o per salvare vittime innocenti”. Moro non sarà salvato dalle Br, Craxi e Andreotti dalla storia.

(Shalom, 12 ottobre 2022)

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Il mondo è in rapida evoluzione. Ma l’attenzione verso ebrei e Israele è macchiata dallo stesso sentimento: l’antisemitismo

Il mondo sta cambiando. Velocemente. Se soltanto pensiamo a dove eravamo un anno fa, prima che la guerra tornasse a insanguinare l’Europa, è facile rendersi conto di come la Storia abbia deciso di rimettersi in marcia.

di Paolo Salom

Difficile dire verso dove, al momento: tutto può accadere. Tuttavia, c’è un aspetto della vita nel lontano Occidente che sembra immune a qualunque cambiamento: il rapporto con Israele e, più in generale, con gli ebrei della diaspora. Avrete notato come invettive e promesse – a seconda delle parti politiche – abbiano colorato la campagna elettorale italiana appena terminata. Chi ha usato il conflitto con i palestinesi per attaccare Israele (e raccogliere i voti di una parte) e chi si è lanciato in promesse ardite (“se vinciamo riconosceremo Gerusalemme capitale”) per acchiappare la simpatia dell’altra parte.
  Considerando le statistiche demografiche, direi che chi attacca gli ebrei ha buone probabilità di ottenere più voti, generalmente. Ma in verità il punto è un altro. E cioè: perché mai gli ebrei dovrebbero essere chiamati in causa a proposito di elezioni, in Italia (ma non solo), che certamente hanno ben altre priorità? E, per tornare al mondo che cambia: perché l’atteggiamento nei confronti dello Stato ebraico è sempre caratterizzato da ostilità, richieste che non si farebbero a nessun’altra nazione, invettive, accuse? La Russia invade l’Ucraina, Israele (piccolo Stato del Medio Oriente che certo non ha influenza o possibilità di avere un ruolo) è messo con le spalle al muro soltanto perché prova a starne fuori (e che altro potrebbe fare?). Una giornalista palestinese di Al Jazeera, Shirin Abu Aqleh, resta uccisa durante uno scontro tra soldati israeliani e miliziani palestinesi, a Jenin, e il mondo insorge contro i “perfidi ebrei”. Che magari – ammissione di Tsahal – possono aver colpito per errore la poveretta ma soltanto perché rispondevano al fuoco scriteriato dei nemici. Negli ultimi anni, dodici reporter di Al Jazeera sono stati uccisi in aree di conflitto mediorientali, dalla Siria all’Iraq: Shirin Abu Aqleh è l’ultima a cadere, qualcuno ricorda i nomi degli altri undici? Per non parlare dei giornalisti, ucraini e non soltanto, morti mentre cercavano di raccontare la guerra scatenata da Vladimir Putin.
  Insomma, l’equilibrio seguito alla Seconda guerra mondiale è messo in discussione, con le armi, da una grande Potenza, la Russia, ma gli strepiti intorno al piccolo Israele restano identici. Ora, la domanda che occorre fare è questa: perché energie e atteggiamenti impositivi non vengono diretti contro la parte che alimenta il conflitto (gli arabi palestinesi)? Perché Israele è definito dalle principali organizzazioni umanitarie (difficile definirle tali, lo riconosco) uno Stato di apartheid quando la verità è esattamente l’opposto? Provate a entrare, da israeliani, nei Territori palestinesi, provate a proporre un futuro Stato arabo palestinese che comprenda anche quei nostri fratelli che hanno casa in Giudea e in Samaria… Ricordate le parole di Abu Mazen? “Non un solo ebreo calpesterà con i suoi luridi piedi il sacro suolo di Palestina”.
  Non so voi, ma io sono stanco di tutto questo teatro. È ora di guardare la realtà per quello che è. La pace non è cosa che si fa da soli. Soprattutto, non è nemmeno pensabile raggiungerla se l’avversario ritiene di avere dalla sua il “sentimento del mondo”. Che in questo caso si chiama antisemitismo ed è il veleno più antico e pervicace che alberga nelle vene del lontano Occidente.

(Bet Magazine Mosaico, 12 ottobre 2022)

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Libano-Israele, c'è accordo sui confini marittimi: via libera allo sfruttamento dei giacimenti di gas

L'intesa tra i due paesei che sono ancora formalmente "in guerra" dovrebbe essere firmata il 20 ottobre

BEIRUT - Il Libano ha visto riconosciuti tutti i suoi diritti e "tutte le osservazioni sono state prese in considerazione", nella bozza finale dell'accordo sulla delimitazione del suo confine marittimo con Israele, presentata dal mediatore americano. Lo ha annunciato il vicepresidente del Parlamento libanese Elias Bou Saab, principale negoziatore di Beirut al tavolo con Israele su un accordo che rimuoverà gli ostacoli allo sfruttamento dei giacimenti di gas nel Mediterraneo e l'ufficio del presidente Aoun ha fatto sapere che il capo dello Stato ha dato il suo assenso.
  Secondo media internazionali, l'intesa - e va ricordato che Libano e Israele non hanno rapporti diplomatici e sono ancora formalmente in stato di guerra - potrebbe essere siglata tra le parti il prossimo 20 ottobre. Ieri il presidente Michel Aoun aveva confermato lo sblocco dell'impasse dando per risolti i problemi per i quali Beirut, nei giorni scorsi, aveva rallentato l'esito favorevole dell'accordo.
  Alle richieste di cambiamento avanzate dal Libano, Israele aveva irrigidito la propria posizione respingendo ogni modifica del testo base messo appunto dal mediatore Usa Amos Hochstein. Per quanto riguarda Israele va detto che l'intesa è stata contestata dall'ex premier Benyamin Netanyahu che ha accusato il premier Lapid e il suo governo di aver ceduto "ai ricatti" degli Hezbollah.

(la Repubblica, 11 ottobre 2022)


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Israele-Libano: il mediatore americano ha consegnato la bozza dell’accordo sui confini marittimi

Il primo ministro di Israele, Yair Lapid, dovrebbe convocare una riunione ristretta del governo per approvarla

Le modifiche richieste da Israele alla bozza dell’accordo per la delimitazione del confine marittimo con il Libano sono state accettate. Lo ha dichiarato il capo del Consiglio nazionale di sicurezza di Israele, Eyal Hulata, in una nota stampa. “Tutte le nostre richieste sono state accettate, i cambiamenti che abbiamo chiesto sono stati fatti. Abbiamo preservato gli interessi per la sicurezza di Israele, siamo sulla strada per un accordo storico”, ha affermato Hulata. In precedenza il vicepresidente del parlamento del Libano, Elias Bou Saab, incaricato dal presidente Michel Aoun di monitorare il dossier relativo ai confini marittimi, aveva riferito di aver ricevuto la bozza finale dell’accordo. “Se tutto va bene, gli sforzi di Amos Hochstein (mediatore Usa incaricato dei negoziati) potrebbero portare a un accordo storico”, ha aggiunto Bou Saab pochi minuti dopo aver ricevuto la bozza.
  La bozza della proposta per la demarcazione marittima, ricevuta ieri sera dalle autorità libanesi prima della mezzanotte, verrà consegnata stamane alle massime autorità dello Stato. Il mediatore Hochstein ha informato la parte libanese che l’ultimo nodo relativo al giacimento di Qana è stato risolto, oltre all’ambiguità tra le espressioni “status quo” e “fatto compiuto”. Nel testo si sottolinea che il Libano considera la cosiddetta linea dei galleggianti un “fatto compiuto”. Una copia della bozza finale è stata anche inviata alle autorità israeliane. Il primo ministro di Israele, Yair Lapid, dovrebbe convocare una riunione ristretta del governo per approvarla.
  Negli ultimi giorni, la Francia ha svolto un’intesa azione diplomatica dopo che Israele aveva rifiutato le ultime osservazioni formulate dal Libano, con l’obiettivo di ridurre le divergenze e aumentare le possibilità di accordo tra Israele e Libano, soprattutto per quanto riguarda la quota israeliana dal giacimento di Qana. La Francia, con garanzie statunitensi, ha ribadito che le attività di Total verranno avviate non appena sarà firmato l’accordo e non sono collegate con l’accordo concluso a latere tra Total e Israele. In vista della scadenze elettorali in entrambi i Paesi, l’accordo dovrebbe essere firmato entro il 30 ottobre. Il 31 ottobre, infatti, scade il mandato del presidente della Repubblica libanese, Michel Aoun, mentre il primo novembre si svolgeranno le elezioni parlamentari in Israele, dove non è scontata la riconferma dell’attuale esecutivo. In Libano, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha già fatto sapere che i poteri conferiti ad Aoun in merito al fascicolo per la delimitazione del confine non saranno mantenuti dopo la fine del mandato dell’attuale presidente.

(Nova News, 11 ottobre 2022)
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Non sono attualmente noti i dettagli degli accordi firmati dal presidente libanese e dal premier israeliano.
C’è tuttavia da chiedersi se tali accordi avranno vita lunga, o non saranno oggetto di nuovi scontri (speriamo solo verbali); infatti Nasrallah ha già fatto capire che, dopo la fine del mandato del presidente libanese, il 31 ottobre, non avranno più valore per Hezbollah, il premier alternato Bennett, così come il capo dell’opposizione Netanyahu, si è dichiarato contrario a questi accordi, l’ambasciatore USA a Gerusalemme li sostiene contraddicendo totalmente quanto dichiarato dal suo predecessore (che aveva dichiarato che, alla fine, Israele, rispetto al 45/55% in discussione in precedenza, ha ceduto il 100% dei suoi potenziali diritti).
Insomma, chissà se questo accordo avrà vita breve o lunga tra due nazioni tra le quali la pace non esiste dal giorno della dichiarazione di indipendenza di Israele. Emanuel Segre Amar

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La rotta del terrore: i 123 treni che dal Friuli portarono gli ebrei nei lager d’Europa

Luciano Patat racconta la deportazione dal carcere di Gorizia. Nel saggio oltre tremila schede biografiche delle vittime.

Il Litorale Adriatico, cioè la zona di operazioni che comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume fu, tra settembre 1943 e maggio 1945, di fatto, annessa al Terzo Reich. Vi si pianificò quel sistema di repressione e deportazione che il Nuovo Ordine hitleriano sperimentava in tutta Europa, e di cui i campi di concentramento, lavoro e sterminio erano i gangli nodali, i vettori erano i treni di deportazione e i luoghi decentrati di raccolta erano le carceri. Lo storico Luciano Patat ha ricostruito tale filiera del terrore a partire da uno dei suoi terminali periferici, il carcere di Gorizia, e i 123 convogli che, partendo da Trieste e passando anche per Udine, portarono detenute e detenuti nell’Europa centrale. Il suo I treni per il lager. La deportazione dal carcere di Gorizia, recentemente edito dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione (che sarà presentato domani alle 18.30, all’auditorium di Ronchi dei Legionari) è una ricostruzione puntigliosa e dunque agghiacciante di questo sistema. Un lavoro minuzioso di ricostruzione storica durato anni, condotto su fonti di prima mano: una vera e propria «anagrafe della deportazione», così Mimmo Franzinelli nell’Introduzione, che restituisce un nome, una carta di identità e una storia a migliaia di vittime.
  Dal 1° settembre 1943 al 30 aprile 1945 vennero rinchiuse nel carcere di Gorizia 7.061 persone, nella grande maggioranza arrestate per motivi “di sicurezza”. Ad operare gli arresti furono quasi sempre gli uomini del Servizio di Sicurezza delle SS, oppure gli agenti della Questura e i carabinieri, o ancora le formazioni collaborazioniste quali la X Mas. Furono ad esempio i poliziotti ad effettuare i primi arresti tra i 27 ebrei goriziani che saranno prima incarcerati e poi deportati nel dicembre 1943 ad Auschwitz, dove in larga parte non passeranno la prima selezione e verranno immediatamente avviati alle camere a gas.
  Circa la metà degli arrestati fu tradotta in Germania, in maggioranza nei campi di concentramento, ma in buona parte anche alle destinazioni di lavoro coatto. Provenivano per due terzi dai Comuni oggi appartenenti alla Repubblica di Slovenia, dove il movimento resistenziale aveva preso corpo quasi subito dopo l’annessione all’Italia della Provincia di Lubiana, e dove la repressione nazi-fascista fu feroce. Per il resto, dalle tre province del Friuli Venezia Giulia. Bastava che fosse ritrovata una minima traccia di collegamento ad un partigiano per essere rinchiusi nel carcere di via Barzellini, quindi brutalmente interrogati se non torturati, e infine avviati verso Dachau, Buchenwald, Mathausen e Flossenbürg, gli uomini, mentre le donne ad Auschwitz, Ravensbrück e Bergen Belsen.
  Ma diciotto detenuti furono trasferiti nel campo di detenzione di polizia della Risiera di San Sabba, dove furono uccisi e bruciati nel forno crematorio, e 55 condannati a morte e direttamente fucilati. Si trattava di partigiani della Garibaldi, dell’Esercito di liberazione jugoslavo, e di tre disertori “mongoli”, cioè collaborazionisti caucasici. Un altro piccolo gruppo fu tradotto nelle carceri di rigore tedesche: tra di essi due studenti friulani, Arturo Toso e Loris Fortuna.
  L’aspetto meno noto del sistema della deportazione è quello del supporto alla produzione, che il libro mette in risalto. Gli internati nei Lager, finché erano in grado di reggersi in piedi, erano impiegati in fabbriche, miniere e lavorazioni diverse. Poi vi era la galassia del lavoro coatto. Caricati sugli stessi treni diretti ai campi di concentramento, uomini e donne precedentemente selezionati venivano impiegati in centinaia di aziende agricole e industriali carinziane e bavaresi, in condizioni di lavoro e vita assai dure, e con il pericolo di essere in ogni momento trasferiti in un Lager.
  La puntuale ricostruzione del sistema che partiva dal carcere di Gorizia è corredata da una trentina di testimonianze dirette di internati e lavoratori coatti che restituiscono, a fianco della dimensione anagrafica e numerica della deportazione, il suo dramma umano.
  Oltre alla ricostruzione cronologica mensile della deportazione, il volume assegna, in oltre tremila schede biografiche, un nome e un’identità alle vittime di questo sistema. Un libro che è «il più efficace antidoto alle riaffioranti tendenze negazioniste o minimaliste sui crimini del nazifascismo».

(Il Messaggero, 11 ottobre 2022)

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Israele rende omaggio postumo a un cardinale che difese gli Ebrei nella II Guerra Mondiale

Il cardinale olandese Johannes de Jong ha ricevuto dal Governo israeliano il titolo di “Giusto tra le Nazioni”.

di Francisco Vêneto

Lo Stato di Israele ha reso omaggio postumo al cardinale olandese Johannes de Jong (1885-1955) per aver difeso gli Ebrei dalla persecuzione nazista durante la II Guerra Mondiale. Il porporato ha ricevuto dal Governo israeliano il titolo di “Giusto tra le Nazioni”.
  Il riconoscimento è una delle più alte onorificenze concesse dallo Stato di Israele a non Ebrei che hanno affrontato il rischio della morte per difendere il popolo ebraico dagli orrori dell’Olocausto.
  In questo caso, trattandosi di un omaggio postumo, l’ambasciatore di Israele in Olanda, Modi Efraim, ha consegnato il certificato e la medaglia alla famiglia de Jong.
  Il cardinale, che era arcivescovo di Utrecht, è stato un critico deciso e contundente del nazismo, e ha esercitato una forte leadership nella resistenza della Chiesa cattolica al regime criminale e genocida di Adolf Hitler.
  Oltre ad aiutare direttamente le famiglie perseguitate, nascondeva anche negli archivi dell’arcidiocesi informazioni crittografate sull’ubicazione dei figli degli Ebrei per proteggerli dal regime.
  De Jong ha ricevuto il cardinalato nel 1946 in segno di riconoscimento da parte della Santa Sede del contributo fondamentale che ha dato a Papa Pio XII nella difesa degli Ebrei perseguitati.
  Una delle sue coraggiose misure pubbliche è stata la diffusione di una lettera pastorale, scritta insieme ad altri vescovi, per denunciare i crimini della Germania nazista. I critici della Chiesa cattolica hanno ritenuto la misura temeraria e le hanno attribuito un certo peso nell’inasprimento della persecuzione degli Ebrei in Olanda.
  Nel Paese sono stati molti gli Ebrei arrestati e assassinati – tra i quali Edith Stein, che si era convertita al cattolicesimo ed era entrata come monaca tra le Carmelitane Scalze. Martirizzata, è stata canonizzata come Santa Teresa Benedetta della Croce, il suo nome religioso.

(Aleteia, 11 ottobre 2022)

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Dentro e fuori dai ghetti, la secolare sfida di dialogare col potere

La terza grande mostra del Meis di Ferrara

Dall'emblematico dipinto ''Ester al cospetto di Assuero'' al quadro, mai esposto prima, “Il rapimento di Edgardo Mortara·”. Dalle chiavi del ghetto di Ferrara alla rara tavola decorata della sukkah di Praglia. Testimonianze di valore storico e artistico, ma anche chiavi per raccontare e comprendere secoli di storia dell'ebraismo italiano. sono le opere protagoniste della terza grande mostra del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara Oltre il ghetto. Dentro&Fuori a cura di Andreina contessa, Simonetta Della seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel. Allestita dallo Studio CTRF Giovanni Tortelli Roberto Frassoni, l'esposizione inaugurata a fine ottobre si presenta come un complesso racconto dell'esperienza degli ebrei italiani dall'epoca dei ghetti (a partire dal 1516 con l'istituzione del primo, quello di Venezia) fino allo scoppio della Prima guerra mondiale. ''La mostra rappresenta una straordinaria occasione per vedere riunite al Meis opere di grande valore artistico” ha sottolineato il presidente del Meis Dario Disegni nel suo intervento inaugurale, evidenziando come nell'esposizione siano raccolte le esperienze e i vissuti di tutta l'Italia ebraica. Da Torino a Roma, da casale Monferrato a Padova. “Questa mostra è pensata per accogliere chiunque - le parole del direttore del Meis rav Amedeo Spagnoletto - ma la nostra sfida principale sarà quella di raggiungere gli studenti di tutta Italia e far loro vivere l'esperienza di una visita al Meis. Il tema del ghetto, i concetti di inclusione ed esclusione, di integrazione e scambio culturale, non sono solo una pagina ingiallita della storia, ma risultano di stringente attualità per le nuove generazioni''.
  Sia Disegni che rav Spagnoletto si sono soffermati “sullo straordinario lavoro portato avanti dalle nostre quattro curatrici''. Sono state proprio loro a spiegare il filo conduttore della mostra, quel dentro e fuori - da i ghetti e non solo - rappresentazione del complesso rapporto tra minoranza ebraica e maggioranza, tra ebrei e società civile e religiosa. “Quello che è accaduto agli ebrei, resistere e crescere dentro una propria cultura cercando sempre di dialogare con quella circostante, anche quando essa ha posto dei limiti e perfino delle barriere, è oggi un percorso comune”, la loro introduzione al percorso intrapreso. “I dilemmi dei ghetti tornano, e anche quelli dell'integrazione. Al Meis pensiamo che molte storie vissute dagli ebrei italiani, e più in generale europei, trasmettano valori universali e offrano strumenti per l'oggi. Da questa riflessione, che è uno dei cardini della missione del museo, nasce lo spirito con il quale è stata organizzata la mostra''. “Dentro & Fuori: un concetto, uno stato dell'anima che resta di grande attualità'' rileva Simonetta Della seta, già direttrice del Meis. La bimillenaria esperienza ebraica, quindi, come punto di partenza per una riflessione di tipo universale. ''Per parlarne non c'è luogo più adatto del Meis: una realtà che porto nel cuore ed è come se non avessi mai lasciato''. Con la terza grande mostra si va adesso “a completare il percorso cronologico avviato con l'allestimento che affronta la storia più importante e ricca di snodi fondamentali: non una semplice esposizione di oggetti, piuttosto un racconto fatto di racconti''.

(Pagine Ebraiche, ottobre 2022)

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L’UE riannoda il dialogo pubblico con Israele

Il 5 ottobre 2022 il Consiglio d’Associazione Unione Europea-Israele si è riunito a Bruxelles per la prima volta dopo dieci anni. La delegazione dello Stato ebraico era guidata da Elazar Stern, ministro dell’Intelligence. Il primo ministro Yair Lapid vi ha partecipato in videoconferenza da Tel Aviv.
  La partecipazione di Israele alla Comunità Politica Europea, in un primo tempo annunciata, alla fine è stata annullata, non perché gli organizzatori francesi non ritenessero Israele uno Stato europeo, ma perché la partecipazione di Lapid avrebbe indotto parecchi Stati a declinare l’invito. Il primo ministro ceco Petr Fiala ha tentato fino all’ultimo di convincere tutti dell’importanza di Israele. Tel Aviv ha preferito non insistere, sapendo che l’attuale governo israeliano sostiene Kiev a parole e Mosca nei fatti.
  Il dialogo fra Israele e Unione Europea è stato rilanciato con la stipula di un accordo di fornitura di gas israeliano all’Europa attraverso l’Egitto. La produzione di gas di Israele dovrebbe rapidamente aumentare in seguito all’accordo con il Libano sui confini delle acque territoriali, che probabilmente sarà firmato entro la fine di ottobre.

(Rete Voltaire, 10 ottobre 2022)

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Contesa marittima con Beirut: al via i test israeliani per estrazione gas da Karish

I vertici dei servizi di sicurezza hanno dato il nulla osta alla società Energean per la sperimentazione. Il ministro israeliano della Difesa annuncia una “risposta risoluta” in caso di attacco da parte di Hezbollah e non esclude un “conflitto più ampio”. Il movimento sciita libanese ha minacciato rappresaglie in caso di estrazione senza accordo.

TEL AVIV - Israele ha avviato i test per l’estrazione di gas dal controverso giacimento di Karish, rivendicato dal Libano in una annosa disputa sui confini marittimi nel Mediterraneo. Secondo quanto ha riferito ieri l’emittente Channel 12, i vertici dei servizi di sicurezza dello Stato ebraico hanno dato il via libera alla società internazionale di perforazione (con sede a Londra) Energean per avviare le sperimentazioni. Un passo che potrebbe inasprire la tensione con Beirut e far naufragare la via diplomatica per un accordo, oltre a innescare la risposta militare di Hezbollah col timore di una nuova guerra regionale.
  In una nota la società si è detta “lieta” di confermare un “passo importante nel processo” di “commissioning” (attività di verifica sulle prestazioni) dell’unità galleggiante di “produzione, stoccaggio e scarico” di Energean Power. Ottenuto il via libera dal ministero israeliano dell’Energia, la società ha avviato le procedure per i test con il flusso di gas dal sottosuolo.
  L’emittente pubblica Kan ha aggiunto che le operazioni di pompaggio dal sito in un regime di piena operatività potrebbero essere definite entro poche settimane dall’avvio dei test. Nei giorni scorsi il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz ha dichiarato che il proprio Paese andrà avanti con l’estrazione del gas dal campo di Karish, incurante delle minacce di Hezbollah e la possibile escalation militare. Egli ha annunciato una “risposta risoluta” in caso di attacchi “per via aerea, marittima o terrestre”. E se lo scontro dovesse trasformarsi in un “conflitto più ampio, faremo a pezzi il Libano, e questo sarebbe un vero peccato”.
  Il 6 ottobre scorso Israele ha respinto la revisione della bozza di accordo con Beirut, elaborata dall’inviato speciale Usa Amos Hochstein, e che dovrebbe mettere la parola fine alla contesa sui confini marittimi tra i due Paesi. Inoltre, una possibile vittoria alle urne dell’ex premier Benjamin Netanyahu - che ha ne ha già criticato i termini considerandolo nullo - alle elezioni del primo novembre potrebbe mettere la parola fine alla già difficile opera di mediazione.
  Libano e Israele sono in disputa per un’area marittima di 860 chilometri quadrati (332 miglia quadrate), secondo le mappe inviate dai rispettivi governi alle Nazioni Unite nel 2011. La zona è ricca di gas naturale e petrolio. A partire dal 2020, si sono tenute cinque sessioni di negoziati indiretti sulla questione sotto l’egida dell'Onu e la mediazione degli Stati Uniti, con l’ultimo round svoltosi nel maggio 2021.

(AsiaNews, 10 ottobre 2022)

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Israele presenta Iron Beam alla AUSA 2022

di Francesco Bussoletti

Israele presenta Iron Beam alla AUSA 2022. E’ un sistema laser ad alta energia (HELWS) da 100 kW, sviluppato dalla Rafael, nato per intercettare un’ampia gamma di minacce come RAM e UAV da varie distanze

Iron Beam, il sistema laser ad alta energia (HELWS, High Energy Laser Weapon System), sarà presentato per la prima volta da Israele al meeting ed esposizione annuale dell’Associazione dell’Esercito USA, AUSA 2022, a Washington dal 10 al 12 ottobre. L’HELWS, sviluppato dalla Rafael e che ha una potenza di 100 kW, è progettato per intercettare un’ampia gamma di minacce come RAM e UAV, da una distanza di poche centinaia di metri fino a diversi chilometri. L’HELWS può essere integrato su più piattaforme e può essere un intercettore HEL, complementare a qualsiasi array di difesa multistrato. Peraltro, dovrebbe essere incorporato all’interno del sistema di difesa anti-aerea israeliano Iron Dome entro due o tre anni. Iron Beam, infatti, è stato già testato con successo ad aprile e mostrato al presidente USA, Joe Biden, nel corso della sua visita nel Paese Ebraico.

(Difesa & Sicurezza, 10 ottobre 2022)

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Da Israele accuse di antisemitismo alla scrittrice premio Nobel Annie Ernaux

Secondo il quotidiano israeliano Jerusalem Post, Ernaux sarebbe da tempo una sostenitrice del movimento "Boycott, divest and sanction" (Bds) che promuove campagne globali di boicottaggio contro lo Stato di Israele.

Accuse di antisemitismo per la scrittrice francese Annie Ernaux, 82 anni, che giovedì scorso ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura 2022. L'artista, autrice di libri intimi e autobiografici come "Gli anni" e "Memoria di ragazza" (la sua opera in Italia è pubblicata dalla casa editrice "L'Orma"), sarebbe una sostenitrice del movimento Bds, che promuove campagne globali di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. A riferirlo è il quotidiano israeliano Jerusalem Post, che riporta una serie di episodi giudicati "antisemiti" di cui la scrittrice è stata protagonista.

• Le posizioni di Ernaux su Gaza
  Nel 2021 Ernaux ha criticato la politica di Israele a Gaza firmando un appello intitolata "Lettera contro l'apartheid". In quel testo si parla di attacchi agli arabi e ai palestinesi, nonché dei raid israeliani a Gaza, senza tuttavia menzionare le manifestazioni degli arabi israeliani che protestavano contro il lancio di razzi dalla Striscia, si legge sul Jerusalem Post.

• Il boicottaggio dell'Eurovision
  Ernaux aveva anche firmato una lettera nel maggio 2019, insieme ad oltre cento altri artisti francesi, in cui si chiedeva di boicottare l'Eurovision Song Contest, che si è tenuto a Tel Aviv. I firmatari dell'appello avevano chiesto alla televisione francese di non trasmettere l'evento.
  Il Jerusalem Post ricorda anche che nel 2018 Ernaux aveva firmato una lettera, insieme a circa 80 altri operatori culturali, indignati per il fatto che l'immagine dello Stato di Israele venisse "sbiancata" in Francia, ossia dipinta in termini positivi senza menzionare le politiche dello Stato ebraico verso i palestinesi. Un'altra lettera chiedeva il rilascio dell'attivista libanese Georges Abdallah.

• Cosa vuole Bds
  Il movimento Bds mira a isolare economicamente, politicamente e culturalmente lo Stato di Israele, perché considerato "uno Stato coloniale, l'ultimo bastione della lunga serie di potenze eurocentriche". Nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione che giudica il movimento Bds antisemita: da allora, gli individui o i gruppi simpatizzanti del Bds in Germania non possono ricevere spazio o finanziamenti statali.

upday, 10 ottobre 2022)

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Il saluto del rabbino capo Riccardo Di Segni al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Signor Presidente, autorità, amici,
  Il cuore di ogni sinagoga, la casa ebraica di preghiera, è l’Aròn, l’armadio che poco fa abbiamo aperto e chiuso, e nel quale sono riposti i rotoli della Torà. La Torà scritta è il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia, scritto a mano da un esperto calligrafo su rotoli di pergamena. È un oggetto prezioso che custodiamo e trattiamo con la massima cura e attenzione, e orniamo di tessuti e metalli preziosi, in ogni luogo secondo la propria tradizione, una tradizione che in questa comunità, nel corso dei secoli, ha raggiunto vertici artistici unici. La Torà è l’essenza della nostra storia, della nostra vita e della nostra fede. Si dice che ogni lettera, ogni spazio vuoto, ogni vocale anche non scritta in quel rotolo rappresenti un singolo individuo della comunità. Siamo tutti presenti, singolarmente e collettivamente in quel testo. La Torà non rimane chiusa nell’armadio. Viene periodicamente estratta, portata in mezzo al pubblico con solennità, aperta, esposta, letta e spiegata. È al centro delle nostre liturgie.
  Proprio l’altra settimana abbiamo letto dall’ultimo libro della Torà (Deut. 31:19) una frase dettata da Mosè poco prima di morire: “e ora scrivetevi questa cantica”. Nella interpretazione dei Maestri la cantica è l’intera Torà e questa frase è un precetto rivolto a ogni ebreo: scriversi una nuova copia della Torà. Anche se qualcuno la copia ce l’ha già, per esempio l’ha ricevuta in eredità, deve scriversene un’altra, nuova. C’è un motivo tecnico dietro a questa regola: i libri si logorano nel tempo, le pergamene si consumano, le scritte si cancellano e per questi vanno sostituiti con copie nuove, mentre i vecchi vengono riposti e sepolti. Ma il motivo più importante è un altro. Il testo è sempre lo stesso, ma deve essere continuamente rinnovato da ciascuno di noi in ogni generazione e ognuno se lo deve sentire suo. Per questo agli ebrei non piace chiamare la Torà con il nome di Antico testamento. Perché se è vero che è antico, anzi antichissimo, è anche sempre nuovo, vitale e attuale. Un tempo i libri si copiavano a mano, poi c’è stata l’invenzione della stampa, e gli ebrei romani hanno il vanto di essere stati i primi nella storia a stampare un libro ebraico, per poi vederselo bruciato in Capo de’ Fiori: perché se si vuole colpire gli ebrei ancora prima delle persone si tenta di bruciarne l’anima. Ma non ci si riesce, perché se la carta brucia le lettere volano via. Dai tempi della stampa per osservare l’antica regola basta acquistare un libro nuovo stampato. Ma il modo originale di osservanza resta valido e importante. Perché il libro della Torà scritto a mano su pergamena è insostituibile per la liturgia ed è il testimone della sacralità della tradizione. Per questo è molto meritorio commissionare la scrittura di un nuovo rotolo e donarlo alla Sinagoga; è un segno di continuità, fedeltà e vitalità.
  Nella circostanza che ricordiamo oggi, il dono di un nuovo rotolo della Torà a questa Sinagoga dedicato alla piccola vittima dell’attentato si arricchisce di significati. Ricordando il terribile insulto di 40 anni fa noi vogliamo affermare il nostro legame con i valori rappresentati da quel libro, la costruzione contro la distruzione, la civiltà contro la barbarie, la legge contro la sopraffazione, il rispetto contro l’offesa, la speranza contro la disperazione, la vita contro la morte.
  Signor Presidente
  In altre circostanze ho ricordato una scena tristissima a cui ho assistito personalmente il giorno dei funerali del piccolo Stefano. Stavo con altri rabbini nella camera mortuaria davanti alla bara bianca, quando arrivò il presidente Pertini che scoppiò in un pianto a dirotto. Ho commentato altrove questa scena. La cito qui, perché questa è una casa di preghiera e desidero esprimere una preghiera in cui tutti ci identifichiamo.
  Che il presidente della Repubblica non debba più piangere per una giovane vita spezzata. Che il presidente possa invece poter piangere di gioia o sorridere vedendo bambini come quelli che l’hanno accolto qui con calore, bambini che crescono serenamente, educati su valori positivi, speranza per il nostro futuro.

(Shalom, 9 ottobre 2022)

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Antisemitismo allarmante nei campus statunitensi: chiarimenti sulle zone “judenfrei”

di Sofia Tranchina

In seguito a recenti provocazioni antisioniste lanciate da nove gruppi studenteschi della facoltà di giurisprudenza di UC Berkeley, è nata una tempesta mediatica che riporta informazioni non poco allarmanti su zone “libere da ebrei” all’interno dei campus dell’università. È necessario, tuttavia, fare chiarezza su cosa stia effettivamente accadendo nell’università californiana e su quanto grave sia la situazione.

• COSA STA ACCADENDO A BERKELEY
  Tutto è iniziato quando in agosto un’organizzazione filo-palestinese, Studenti per la Giustizia in Palestina, ha annunciato un nuovo regolamento volto a bandire ufficialmente gli oratori che sostengono l’esistenza di Israele.
  Ad adottare il nuovo statuto sono stati poi altri nove gruppi studenteschi (sul totale dei cento gruppi del campus): Donne di Berkeley Law, Collettiva Donne di Colore, Studenti di Legge di Origine Africana, Associazione di Studenti dell’Asia e dell’America del Pacifico, Caucus Queer, Progetto di Difesa Comunitaria, Associazione degli Studenti di Legge del Medio Oriente e del Nord Africa, Associazione Studentesca Musulmana di Berkeley Law e Berkeley Law per la Palestina.
  Lo statuto comprendeva anche altre misure marcatamente anti-israeliane, tra cui l’adesione al movimento globale per il boicottaggio di Israele BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).
  Ventisei altre organizzazioni hanno quindi risposto in una lettera aperta pubblicata il 3 ottobre sul Jewish Journal condannando il «tentativo feroce di emarginare e stigmatizzare la comunità ebraica e israeliana», che nasconde – e neanche tanto – uno «sfacciato antisemitismo», il quale diventa tanto più preoccupante se si considera che le organizzazioni che hanno già adottato questo punto di vista «lavoreranno per persuadere le altre a fare lo stesso».

• ANTISIONISMO E ANTISEMITISMO
  «Così come lo Shabbat e le leggi alimentari kosher, il sionismo è vitale per la coscienza di molti, se non della maggior parte, degli ebrei», e lo statuto normalizzerebbe la richiesta implicita agli ebrei di «nascondere o alterare un aspetto fondamentale della loro identità per essere pienamente accettati», si legge nella lettera.
  Il provvedimento, infatti, come notato dal decano Erwin Chemerinsky, impedirebbe al 90% degli studenti ebrei di parlare agli eventi ospitati da queste organizzazioni, impedendo qualsiasi dialogo tra punti di vista diversi. Questo, tra l’altro, è in profonda contraddizione con la libertà di parola tanto inneggiata in America dalle stesse associazioni filo-palestinesi che incitano all’odio.
  Va ricordato che soltanto due anni fa uno studio statistico del Pew Research Center ha evidenziato pubblicamente che «otto ebrei statunitensi su dieci affermano che prendersi cura di Israele è una parte essenziale o importante di ciò che significa per loro essere ebrei».
  La lettera delle organizzazioni si chiude quindi con un appello a prendere provvedimenti in merito:
  «Chiediamo quindi a Berkeley Law di adottare immediatamente tutte le misure legittime e necessarie per garantire che nessuna delle sue organizzazioni studentesche sia autorizzata a discriminare gli ebrei sulla base di qualsiasi aspetto della loro identità ebraica, compreso il loro sionismo. Come primo passo, le nove organizzazioni studentesche dovrebbero revocare le nuove disposizioni discriminatorie dai loro statuti o affrontare sanzioni adeguate».
  Inoltre, 150 gruppi studenteschi ebraici di tutte le università statunitensi hanno firmato un’altra lettera aperta di condanna alle nove organizzazioni che hanno adottato lo statuto, un «tentativo deliberato di escludere gli studenti ebrei dalla comunità del campus della UC Berkeley».
  «Il conflitto israelo-palestinese è una questione profondamente complessa che ha propagato per decenni intensi attriti morali e politici. Il sionismo è l’idea che il popolo ebraico ha diritto all’autodeterminazione nella sua patria ancestrale, un’idea che esiste da molto tempo prima di questo conflitto. Più del 95% degli ebrei americani sostiene lo Stato di Israele. Impedire agli studenti ebrei di partecipare alle organizzazioni studentesche a meno che non rinuncino al principio centrale della loro identità etnoculturale è un atto di discriminazione inconcepibile. Una connessione con la propria eredità e patria non dovrebbe essere un reato punibile. Abbiamo tutti lo stesso diritto di essere presenti in questo campus e di esercitare i nostri diritti indipendentemente dalla discriminazione».
  Per spiegare e condannare pubblicamente le dannose conseguenze delle prese di posizione antisioniste all’interno delle università, Kenneth L. Marcus – fondatore del Brandeis Center che ha guidato la battaglia legale contro l’antisemitismo nei campus universitari – ha pubblicato sul Jewish Journal un editoriale in cui, inoltre, ha spiegato che questi eventi si inseriscono in un contesto di continue esclusioni dalla vita nei campus statunitensi perpetuate nei confronti degli studenti ebrei.
  L’antisionismo è decisamente antisemita. Usare “sionista” come eufemismo per ebreo non è altro che un trucco per la fiducia. Come altre forme di giudeofobia, è un’ideologia dell’odio, che tratta Israele come un “ebreo collettivo” e diffama lo stato ebraico con diffamazioni simili a quelle usate per secoli per diffamare i singoli ebrei.
  […] Questi gruppi stanno limitando ai loro successori la cooperazione con oratori e gruppi filo-israeliani. In questo modo, gli statuti di esclusione operano come patti razziali restrittivi, precludendo la partecipazione delle minoranze in perpetuo».
  Inoltre, Kenneth L. Marcus risponde al decano Erwin Chemerinsky, il quale ha tentato di difendere l’immagine pubblica della facoltà notando che solo nove su cento dei gruppi studenteschi ha aderito allo statuto:
  «Andrebbe bene se solo il 5% o il 10% del campus fosse segregato? Quale percentuale del campus di Berkeley dovrebbe essere aperta a tutti? Non dovrebbe essere al 100%? E qual è il numero giusto di porte che dovrebbero essere chiuse agli studenti di qualsiasi razza o etnia: non è zero?».

• IL DISGUIDO SULLE ZONE JUDENFREI
  Il disguido relativo all’accaduto, che ha dato adito a una serie di articoli e polemiche fuorvianti, nasce dal titolo che accompagna l’editoriale di Kenneth L. Marcus: Berkeley Develops Jewish-Free Zones (“Berkeley sviluppa zone libere da ebrei”).
  Due professori ebrei del campus, Ron E. Hassner e Ethan B. Katz, hanno quindi pubblicato un chiarimento su The Jewish News of Northern California:
  «L’idea che la facoltà di giurisprudenza di Berkeley abbia “zone libere dagli ebrei” è assurda. Il panico intorno all’antisionismo nei campus statunitensi non ha alcuno scopo, se non quello di offrire pubblicità gratuita per idee estremiste e di erodere inutilmente il senso di sicurezza e protezione di base degli ebrei nei luoghi in cui la vita ebraica è effettivamente fiorente.
  La decisione di una piccola coorte di gruppi studenteschi di respingere i “relatori sionisti” dai loro eventi è un oltraggio. È palesemente discriminatorio ed è destinato a far sentire esclusi gli studenti ebrei.
  […] Ma piuttosto che aggredire l’amministrazione per le decisioni prese dai gruppi di studenti, il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di educare gli studenti a fare meglio.
  […] Comprendiamo l’allarme che gli incidenti provocatori possono generare e accogliamo con favore il sostegno della più ampia comunità ebraica. Ma se si vuole sostenere gli ebrei a Berkeley, il modo migliore per farlo è non fare affermazioni stravaganti».

• ANTISEMITISMO NEI CAMPUS STUDENTESCHI AMERICANI
  Si nota tuttavia che il tumulto di Berkeley è solo il più recente di una serie di importanti controversie sull’antisemitismo nei campus statunitensi. Dal 1979 l’Anti-Defamation League svolge un audit annuale nazionale sugli incidenti antisemiti, e nel 2021 ha riportato un triste record assoluto da quando è stato istituito: gli incidenti antisemiti hanno raggiunto il massimo storico, con un totale di 2.717 episodi di aggressione, molestie e vandalismo.
  Le aggressioni – che implicano violenze fisiche da persona a persona innescate da ostilità antisemita – sono aumentate del 167%. Gli episodi di molestie sono aumentati del 43% e gli atti di vandalismo antisemita sono aumentati del 14%. Gli attacchi contro le istituzioni ebraiche, inclusi i centri della comunità ebraica (JCC) e le sinagoghe, sono aumentati del 61%, gli incidenti nelle scuole K-12 sono aumentati del 106% e gli incidenti nei campus universitari sono aumentati del 21%.
  L’iniziativa Amcha – un’organizzazione dedicata a indagare, documentare, educare e combattere l’antisemitismo negli istituti di istruzione superiore in America, per proteggere gli studenti ebrei dall’assalto e dalla paura sia diretti che indiretti mentre frequentano college e università – elenca 851 casi di “attività antisemita” nei campus universitari degli Stati Uniti nel solo 2021. Amcha (che in ebraico significa “il tuo popolo”) utilizza i risultati della sua ricerca e analisi per informare gli amministratori universitari e il pubblico sugli incidenti antisemiti, sugli individui e sui gruppi che li stanno perpetrando e per fare pressione sui leader universitari affinché agiscano.
  «Negli ultimi 18 mesi, un rotolo della Torah è stato profanato durante un’irruzione in una confraternita ebraica della George Washington University, i neonazisti hanno picchiato uno studente ebreo dell’Università della Florida centrale, un partecipante a una manifestazione di Studenti per la giustizia in Palestina ha lanciato pietre verso i contromanifestanti fuori dall’Università dell’Illinois Hillel», si legge in un articolo pubblicato da Tablet, che nota peraltro che «la mancanza di interesse per l’antisemitismo da parte dei regimi del Campus DEI rende evidente che gli ebrei non sono visti come parte della missione di giustizia sociale dell’università».
  «Una serie di attacchi antisemiti ha colpito i campus statunitensi durante le vacanze di Rosh Hashanah la scorsa settimana. Una confraternita ebraica della Rutgers University del New Jersey è stata coinvolta nel quarto incidente antisemita nell’edificio negli ultimi 18 mesi, incluso uno nel giorno della memoria dell’Olocausto; volantini antisemiti sono stati distribuiti all’Università del Michigan; una svastica era scarabocchiata sul soffitto di un bagno all’American University; una mezuzah è stata strappata da un ingresso in un dormitorio della Stanford University; e una svastica è stata disegnata nel campus della California State University, Sacramento, per la terza volta dall’inizio dell’anno scolastico», elenca il Times of Israel.
  E ancora, «alla State University di New York a New Paltz, gli attivisti hanno cacciato due vittime di aggressioni sessuali da un gruppo di sopravvissuti perché sionisti. All’Università della California meridionale, hanno cacciato dal suo incarico il vicepresidente del governo studentesco ebraico Rose Ritch, minacciando di “mettere sotto accusa il [suo] culo sionista”. A Tufts, hanno cercato di estromettere il membro del comitato giudiziario studentesco Max Price dal comitato giudiziario del governo studentesco a causa del suo sostegno a Israele», scrive Kenneth L. Marcus, che mette in guardia l’amministrazione nella sua ultima lettera di risposta:
  «Quando la temperatura dell’acqua aumenta lentamente, la rana si adatta al disagio fino a quando non è troppo tardi. […] È richiesta la responsabilità pubblica. Ed è necessario prima che l’acqua inizi a bollire».

(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2022)

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Individuo e società (3)

di Marcello Cicchese

Dio è amore, su questo tutti sono d’accordo. Purtroppo però di solito si parte dal presupposto umano di sapere che cos’è l’amore e questa conoscenza dovrebbe gettare luce sulla persona di Dio. E’ vero il contrario. Soltanto la conoscenza di Dio può far capire che cos’è l’amore, e a questa conoscenza non si può arrivare per riflessione o esperienza, ma soltanto per rivelazione. Dio è amore, ma manifesta questa sua natura sempre attraverso la parola e nella forma di un patto. L’amore di Dio non è mai semplice effusione di sentimenti affettuosi o prestazione di servizi pratici: Dio parla, si rivolge all’uomo con ordini e promesse, vincolandosi a lui con la sua parola ed esigendo da lui fiducia ubbidiente. Questa forma di rapporto amorevole tra Dio e l’uomo nella Bibbia si chiama patto. E da Abramo in poi Dio ha stipulato i suoi patti d’amore sempre e soltanto con il popolo d’Israele. Parlando dei suoi parenti secondo la carne, l’apostolo Paolo si esprime in questo modo:

    “… gli Israeliti, ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen!” (Romani 9:4-5).

E rivolgendosi ai gentili dice invece:

    “Perciò, ricordatevi che un tempo voi, Gentili di nascita, chiamati i non circoncisi da quelli che si dicono i circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, non avendo speranza, ed essendo senza Dio nel mondo” (Efesini 2:11-12).

Il nuovo patto annunciato da Gesù nell’ultima cena è certamente quello con la casa d’Israele e con la casa di Giuda promesso dal profeta Geremia, ed è nuovo rispetto al patto con Mosè, ma non rispetto al patto con Abraamo, di cui invece è un’articolazione, una precisazione e un compimento, come viene chiaramente espresso in un famoso cantico del Vangelo di Luca:

    “Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetizzò, dicendo: «Benedetto sia il Signore, il Dio d’Israele, perché ha visitato e riscattato il suo popolo, e ci ha suscitato un potente Salvatore nella casa di Davide suo servo, come aveva promesso da tempo per bocca dei suoi profeti; uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano. Egli usa così misericordia verso i nostri padri e si ricorda del suo santo patto, del giuramento che fece ad Abraamo nostro padre, di concederci che, liberati dalla mano dei nostri nemici, lo serviamo senza paura, in santità e giustizia, alla sua presenza, tutti i giorni della nostra vita. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai davanti al Signore per preparare le sue vie, per dare al suo popolo conoscenza della salvezza mediante il perdono dei loro peccati, grazie ai sentimenti di misericordia del nostro Dio; per i quali l’Aurora dall’alto ci visiterà per risplendere su quelli che giacciono in tenebre e in ombra di morte, per guidare i nostri passi verso la via della pace»” (Luca 1:67-79).

Come nel caso della liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto, la venuta del Messia è vista come un intervento di Dio in favore del suo popolo motivato dal fatto che Dio “si ricorda” del suo patto con Abraamo (Esodo 2:24, Luca 1:72).
  Ma come si devono intendere le parole di Zaccaria quando dice, sotto l’impulso dello Spirito Santo, che il Dio d’Israele ha visitato e riscattato il popolo? In un commentario esegetico pratico della casa editrice Claudiana viene data la seguente spiegazione:

    “Le vedute di Zaccaria intorno a questo avere «Iddio ha visitato e riscattato il suo popolo» dovevano essere molto indistinte e imperfette. E’ probabile che partecipasse alle idee prevalenti tra i suoi compatrioti intorno al regno terreno del Messia, e alla liberazione dai loro nemici con la spada e con la lancia; ma nel mentre le parole messegli in bocca dallo Spirito di Dio, avrebbero potuto naturalmente risvegliare tali immagini terrene nella mente d’un Giudeo dominato da siffatti pregiudizi, erano egualmente adatte ad esprimere i concetti più spirituali della redenzione che è in Cristo Gesù. Tale è il senso che noi dobbiamo dare al linguaggio di Zaccaria, sebbene possa darsi che egli non comprendesse appieno il significato delle parole che gli dettava lo Spirito Santo.”

E chi sono i nemici da cui Dio promette di liberare il suo popolo? Lo stesso commentario risponde in questo modo:

    Che Zaccaria avesse, come pensano alcuni, o non avesse, in vista nemici temporali, quali erano stati in passato i Macedoni sotto Antioco, ed erano ai suoi giorni i Romani, è certo che lo Spirito d’ispirazione ci insegna in questi versetti che la principale benedizione contemplata nel patto con Abraamo non era il potere o lo splendore temporale dei suoi discendenti secondo la carne, ma, come si è detto, la liberazione della sua progenie da tutti i nemici spirituali; la salvazione dal peccato e dalla sua potenza.

Queste parole, scritte nei primi anni del secolo scorso, prima delle due guerre mondiali e dell’orrore dell’Olocausto, sono un esempio eloquente di quella “superbia dei gentili” che costituisce il tema del presente libro. I “compatrioti” di Zaccaria avrebbero avuto il torto, non solo secondo l’autore del commentario, ma anche secondo l’opinione “cristiana” più diffusa nei secoli, di aspettarsi un regno messianico “terreno”, mentre non avevano capito che il regno che avrebbe instaurato il Messia era di natura “spirituale”. E questo naturalmente perché la mente dei giudei era “dominata da siffatti pregiudizi”. Zaccaria dunque non avrebbe nemmeno capito quello che diceva, perché i concetti espressi nel suo cantico erano prettamente spirituali, cosa che gliene rendeva difficile una piena comprensione perché la sua mente di giudeo era piena di immagini terrene. Anche i nemici, naturalmente, erano spirituali e non temporali, e lui non l’aveva capito.
  Non a tutti forse appare chiara la gravità delle conseguenze teologiche e politiche di una simile “spiritualizzazione” del messaggio evangelico. Nel sinistro linguaggio dei nazisti questa operazione potrebbe anche essere chiamata “Entjudung” (degiudaizzazione). Perché per molti una caratteristica tipica degli ebrei è proprio quella di essere un popolo materialista, attaccato alla terra, privo di autentici interessi spirituali superiori.

    “No, l’ebreo non possiede nessuna forza creativa, poiché egli è privo di quell’idealismo senza il quale non è possibile uno sviluppo dell’umanità verso l’alto.”
    “… dalla sua natura fondamentale l’ebreo non poteva trarre istituzioni religiose, ché gli manca completamente ogni forma di idealismo, e perciò ogni fede nell’aldilà”.

Sono considerazioni espresse da Adolf Hitler nel suo “Mein Kampf”.
  La prima domanda da porre a chi rimprovera agli ebrei il loro materialismo è questa: da quali passi della Sacra Scrittura gli ebrei del tempo di Gesù avrebbero dovuto capire che il regno messianico è di natura puramente spirituale? In realtà, i profeti dell’Antico Testamento parlano sempre di un regno anche politico, in cui il Messia governerà come Re d’Israele su un popolo liberato dalla mano dei suoi nemici. Parlando della Gerusalemme dei tempi messianici, il profeta Isaia si esprime in questo modo:

    “«Sorgi, risplendi, poiché la tua luce è giunta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te! Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscurità avvolge i popoli; ma su di te sorge il Signore e la sua gloria appare su di te. Le nazioni cammineranno alla tua luce, i re allo splendore della tua aurora. Alza gli occhi e guàrdati attorno; tutti si radunano e vengono da te; i tuoi figli giungono da lontano, arrivano le tue figlie, portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, il tuo cuore palpiterà forte e si allargherà, poiché l’abbondanza del mare si volgerà verso di te, la ricchezza delle nazioni verrà da te. Una moltitudine di cammelli ti coprirà, dromedari di Madian e di Efa; quelli di Seba verranno tutti, portando oro e incenso, e proclamando le lodi del Signore. Tutte le greggi di Chedar si raduneranno presso di te, i montoni di Nebaiot saranno al tuo servizio; saliranno sul mio altare come offerta gradita, e io onorerò la mia casa gloriosa. Chi mai sono costoro che volano come una nuvola, come colombi verso le loro colombaie? Sono le isole che spereranno in me e avranno alla loro testa le navi di Tarsis, per ricondurre i tuoi figli da lontano con argento e con oro, per onorare il nome del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti avrà glorificata. I figli dello straniero ricostruiranno le tue mura, i loro re saranno al tuo servizio; poiché io ti ho colpita nel mio sdegno, ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te. Le tue porte saranno sempre aperte; non saranno chiuse né giorno né notte, per lasciar entrare in te la ricchezza delle nazioni e i loro re in corteo. Poiché la nazione e il regno che non vorranno servirti, periranno; quelle nazioni saranno completamente distrutte. La gloria del Libano verrà a te, il cipresso, il platano e il larice verranno assieme per ornare il luogo del mio santuario, e io renderò glorioso il luogo dove posano i miei piedi. I figli di quelli che ti avranno oppressa verranno da te, abbassandosi; tutti quelli che ti avranno disprezzata si prostreranno fino alla pianta dei tuoi piedi e ti chiameranno la città del Signore, la Sion del Santo d’Israele. Invece di essere abbandonata, odiata, al punto che anima viva più non passava da te, io farò di te il vanto dei secoli, la gioia di tutte le epoche. Tu popperai il latte delle nazioni, popperai al seno dei re, e riconoscerai che io, il Signore, sono il tuo salvatore, io, il Potente di Giacobbe, sono il tuo redentore. Invece di rame, farò affluire oro; invece di ferro, farò affluire argento; invece di legno, rame; invece di pietre, ferro; io ti darò per magistrato la pace, per governatore la giustizia. Non si udrà più parlare di violenza nel tuo paese, di devastazione e di rovina entro i tuoi confini; ma chiamerai le tue mura: Salvezza, e le tue porte: Lode.” (Isaia 60:1-18).

Questo è soltanto uno dei moltissimi passi profetici che parlano di un regno messianico di natura anche politica. Chi vuole “spiritualizzarli” fa violenza al testo e non prende in seria considerazione la Scrittura.
  Anche per quanto riguarda i nemici di Israele, non è assolutamente possibile spiritualizzare tutti i passi che evocano “il giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Celebrando il Messia come uno che ci salverà dai nostri nemici e dalle mani di tutti quelli che ci odiano, Zaccaria poteva avere in mente un passo come questo:

    “«Ma tu, Israele, mio servo, Giacobbe che io ho scelto, discendenza di Abraamo, l’amico mio, tu che ho preso dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote di essa, a cui ho detto: «Tu sei il mio servo, ti ho scelto e non ti ho rigettato, tu, non temere, perché io sono con te; non ti smarrire, perché io sono il tuo Dio; io ti fortifico, io ti soccorro, io ti sostengo con la destra della mia giustizia. Ecco, tutti quelli che si sono infiammati contro di te saranno svergognati e confusi; i tuoi avversari saranno ridotti a nulla e periranno; tu li cercherai e non li troverai più. Quelli che litigavano con te, quelli che ti facevano guerra, saranno come nulla, come cosa che più non è; perché io, il Signore, il tuo Dio, fortifico la tua mano destra e ti dico: Non temere, io ti aiuto!” (Isaia 41:8-13).

Quello che gli ebrei del tempo di Gesù, ivi compresi i suoi discepoli, non avevano capito, perché non avevano voluto capire, non era il carattere “spirituale” del regno, ma il fatto che il Messia avrebbe dovuto soffrire prima di entrare nella gloria del suo regno. Questo però era stato chiaramente preannunciato dai profeti (Luca 24:25-26). La difficoltà di comprensione per gli ebrei di allora e di oggi non sta dunque nella “spiritualità” del regno, ma nello scandalo della croce.
  Non capire il posto e l’importanza della croce non significa però sottovalutare la gravità del peccato e ignorare la necessità del perdono. Nessun popolo ha un così forte senso del peccato come il popolo ebraico. L’accorrere dei giudei al fiume Giordano per confessare i loro peccati ed essere battezzati da Giovanni Battista (Matteo 3:5-6) è una conferma del fatto che al tempo di Gesù gli israeliti non aspettavano soltanto una redenzione politica dai loro nemici, ma aspiravano anche ad una liberazione spirituale dal peso dei loro peccati. Ancora oggi, nel laico Stato d’Israele, la quasi totalità della popolazione celebra la ricorrenza religiosa di Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, con un’astinenza totale da ogni forma di attività lavorativa o di partecipazione alla gioia per concentrarsi sui propri peccati e implorare il perdono di Dio. Il pio israelita del tempo di Gesù e l’ebreo ortodosso di oggi hanno in comune la convinzione che le sofferenze di Israele, anche se provocate dall’odio e dalla crudeltà dei suoi nemici, sono direttamente dipendenti dal peccato del popolo verso il suo Dio. Il paese sarà liberato dalla schiavitù dei suoi nemici quando Israele sarà tutto un popolo di giusti:

    “Il tuo popolo sarà tutto un popolo di giusti; essi possederanno il paese per sempre; essi, che sono il germoglio da me piantato, l’opera delle mie mani, per manifestare la mia gloria.” (Isaia 60:21).

Per manifestare la gloria di Dio al mondo, per essere luce delle nazioni e per annunciare la giustizia ai popoli, Israele doveva diventare dunque uno strumento perfetto nelle mani di Dio. Ma come è possibile questo, se il popolo era in grave debito con Dio a causa dei suoi peccati? Anche a questo avevano già risposto i profeti, annunciando che Dio stesso avrebbe tolto l’iniquità del popolo.

    “Io, io sono; per amor di me stesso cancello le tue trasgressioni e non mi ricorderò più dei tuoi peccati.” (Isaia 43:25).
    “Io ho fatto sparire le tue trasgressioni come una densa nube, e i tuoi peccati, come una nuvola; torna a me, perché io ti ho riscattato.” (Isaia 44:22).
    “Nel Signore sarà giustificata e si glorierà tutta la discendenza d’Israele.” (Isaia 45:25).

Per questo Gesù, dopo aver annunciato il regno di Dio e aver invitato al ravvedimento e alla fede, si è presentato a Israele come Colui che può rimettere i peccati (Matteo 9:1-8, 7:48). Ma il popolo non lo ha accolto. Singoli israeliti hanno creduto in Lui, anche senza capirlo pienamente, ma la nazione come tale, rappresentata dalle sue guide religiose, lo ha respinto. Attribuendo a Gesù il potere di cacciare i demoni per l’aiuto del principe dei demoni, i capi di quella generazione hanno bestemmiato contro lo Spirito Santo: un peccato che non sarà loro perdonato “né in questo mondo né in quello avvenire” (Matteo 12:32). Il Messia d’Israele è stato dunque consegnato nelle mani dei pagani per essere crocifisso. Ma proprio questo fatto, lungi dal vanificare le profezie, le ha compiute, anche se solo in parte. Nella croce di Gesù si sono compiute le profezie riguardanti il Messia sofferente, dato per i peccati del popolo (Isaia 53:1-12), ma restano ancora da compiersi le profezie riguardanti il Messia trionfante che libererà Israele dalle mani dei suoi nemici.
  Quello che si fa fatica a capire è la differenza tra personalità individuale di un singolo e personalità corporativa di un popolo. Distinzione che invece il profeta Daniele mostra di saper fare quando si rivolge in preghiera a Dio:

    “Io parlavo, pregando e confessando il mio peccato e il peccato del mio popolo Israele, e presentavo la mia supplica al Signore, al mio Dio, per il monte santo del mio Dio.” (Daniele 9:20).

Daniele sa distinguere tra il suo peccato personale e il peccato del suo popolo. Non si accontenta di cercare “pace con Dio” chiedendo soltanto per sé il perdono dei peccati, ma eleva la sua supplica per il monte santo del mio Dio, cioè per il monte Sion, che esprime la nazione d’Israele. In tutto l’Antico Testamento l’interlocutore di Dio è il popolo d’Israele nella sua unità di nazione, non una somma di singoli individui. Certo, Dio sceglie uomini particolari, soprattutto profeti o re, a cui rivolgere la sua parola, ma il contenuto del messaggio che consegna riguarda sempre il popolo nella sua unità. Quanto ai singoli israeliti, la sorte personale di ciascuno dipende da come si pone nei confronti del messaggio che Dio ha fatto pervenire al popolo. Non esiste, né nell’Antico né nel Nuovo Testamento, una via puramente individuale di accesso a Dio. Gli ebrei lo sanno da sempre; i cristiani gentili molto meno. Come in tutte le nazioni, la personalità corporativa di Israele è espressa dalle sue autorità rappresentative: re, sacerdoti, guide religiose. Quando queste peccano nell’esercizio delle loro funzioni, tutto il popolo pecca, e il suo cammino s’indirizza sulle vie della disubbidienza. Il singolo però può decidere di dissociarsi e di restare fedele, per quello che gli è possibile, alla parola che Dio ha rivolto al popolo, anche se in molti casi deve condividerne le sorti politiche. L’insieme di questi membri fedeli al Signore viene a costituire, all’interno del popolo, un’altra realtà corporativa, un residuo fedele a cui Dio guarda con misericordia per poter continuare a mantenere le promesse di grazia fatte al popolo.

    “Ma io lascerò in Israele un residuo di settemila uomini, tutti quelli il cui ginocchio non s’è piegato davanti a Baal, e la cui bocca non l’ha baciato».” (1 Re 19:18).
    “Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato un piccolo residuo, saremmo come Sodoma, somiglieremmo a Gomorra.” (Isaia 1:9).
    “Un residuo, il residuo di Giacobbe, tornerà al Dio potente. Infatti, anche se il tuo popolo, o Israele, fosse come la sabbia del mare, un residuo soltanto ne tornerà; uno sterminio è decretato, che farà traboccare la giustizia.” (Isaia 10:21-22).
    “Dio non ha ripudiato il suo popolo, che ha riconosciuto già da prima. Non sapete ciò che la Scrittura dice a proposito di Elia? Come si rivolse a Dio contro Israele, dicendo: «Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno demolito i tuoi altari, io sono rimasto solo e vogliono la mia vita»? Ma che cosa gli rispose la voce divina? «Mi sono riservato settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal». Così anche al presente, c’è un residuo eletto per grazia. Ma se è per grazia, non è più per opere; altrimenti, la grazia non è più grazia.” (Romani 11:2-6).

Gli appartenenti al residuo sono israeliti circoncisi non solo nella carne, ma anche nel cuore; sono figli di Abraamo non solo perché appartenenti alla stirpe genealogica del patriarca, ma anche perché hanno la fede di Abraamo.

    “… infatti non tutti i discendenti d’Israele sono Israele; né per il fatto di essere stirpe d’Abraamo, sono tutti figli d’Abraamo” (Romani 9:6-7).

Ai figli di Abraamo, e soltanto a loro, Dio conta la fede come giustizia. Questo significa che anche loro, pur vivendo prima della venuta del Messia, sono salvati per grazia mediante la fede, e non per opere. L’apostolo Paolo parla infatti di un residuo eletto per grazia, perché “mediante le opere della legge nessuno sarà giustificato” (Romani 3:20).
  Esiste dunque una distinzione tra l’Israele etnico e l’Israele spirituale, che però non porta ad una scissione definitiva tra le due parti, né, tanto meno, ad una trasformazione della parte fedele in qualcosa di diverso chiamato “chiesa”. La sussistenza storica del residuo fedele è pegno e garanzia del fatto che un giorno tutto Israele sarà salvato (Romani 11:26), perché Dio si ricorderà delle sue promesse e rivolgerà di nuovo il suo volto misericordioso e potente verso tutto il suo popolo.
  Nel corso dei secoli il residuo fedele d’Israele può essere stato più o meno grande, ma non è mai mancato, appunto perché è un residuo eletto per grazia.
  Quando il Messia è arrivato in Israele nella persona di Gesù, ha trovato un “piccolo gregge” (Luca 12:32) che lo ha accolto. I quattro vangeli, soprattutto quelli di Luca e di Giovanni, si preoccupano di mettere in evidenza questo fatto. Zaccaria, Elisabetta, Maria, Anna, Simeone (capp. 1-3 di Luca), Giovanni Battista, Andrea, Simon Pietro, Filippo, Natanaele (capp. 1-2 di Giovanni) sono presentati come persone che accolgono in Gesù il Messia d’Israele. Andrea lo annuncia con parole esplicite al fratello Pietro: “Abbiamo trovato il Messia” (Giovanni 1:41); e Natanaele dichiara solennemente a Gesù: “«Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele»” (Giovanni 1:49). Sappiamo poi che più avanti l’apostolo Pietro farà di fronte a Gesù la solenne dichiarazione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (matteo 16:16). Quando si dice allora che “Israele ha respinto il Messia”, è necessario precisare, perché se da un certo punto di vista l’affermazione è vera, dall’altra non è completa, e quindi può trarre in inganno, come di fatto è accaduto ed accade ancora. Se davvero in qualche momento della storia fosse venuto a mancare un residuo d’Israele fedele al suo Signore, il mondo non avrebbe potuto essere raggiunto dalla parola di salvezza, perché “la salvezza viene dai giudei” (Giovanni 4:22). Chi invece fin dal primo momento ha respinto e tentato di uccidere il Re d’Israele è stato un potente della terra non giudeo: Erode. La cosiddetta “strage degli innocenti” (Matteo 2:13-18) può essere assunta come paradigma esplicativo dei comportamenti tenuti in seguito da tanti altri potenti della terra gentili nei confronti degli ebrei: accanendosi a colpire quella che pensavano essere una popolazione scomoda e nefasta, in realtà hanno respinto il Re d’Israele, che non ha mai dichiarato di voler rinunciare alla signoria sul suo popolo, e di conseguenza su tutto il mondo.

(3. continua)




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Aaron Fait: «Un mondo che ha sete ha bisogno di seguire l’esempio di Israele»

Lotta allo spreco idrico, desalinizzazione dell’acqua marina, recupero e riciclo delle acque reflue per l’irrigazione. Alla Giornata Europea della Cultura ebraica, dedicata al concetto di Rinnovamento, si è parlato anche dei traguardi raggiunti da Israele nel settore dell’innovazione nel comparto agro-alimentare e nella gestione delle risorse idriche. Da Israele un esempio e una speranza per tutto il pianeta.

di Paolo Castellano

Che l’acqua sia una risorsa preziosa per il Medio Oriente lo si comprende benissimo anche attraverso la letteratura israeliana. Quattordici anni fa lo scrittore Assaf Gavron nel suo libro Idromania (pubblicato in Italia da Giuntina) ha creato una storia in cui Israele e il mondo sono in preda a una irreversibile siccità dove le multinazionali hanno il completo controllo delle sorgenti e della distribuzione dell’acqua fresca. Per Gavron questa emergenza ambientale può essere mitigata soltanto dall’ingegno dell’uomo, capace di sfruttare la sua intelligenza per creare nuove tecnologie in grado di dissetare un pianeta allo stremo. Uscendo dalla fiction e tornando alla realtà di oggi, non soltanto israeliana ma anche italiana, a inizio settembre il Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione europea ha dichiarato che la stagione estiva del 2022 è stata la più siccitosa dal 1450. La siccità ha colpito duramente l’Italia causando 6 miliardi di danni all’agricoltura nazionale, a cui si aggiungono gli effetti catastrofici legati alla mancanza d’acqua, alla diffusione degli incendi, allo scioglimento dei ghiacciai. Se c’è un Paese al mondo che sin dalla sua fondazione ha dovuto affrontare e adattarsi a questi fenomeni è sicuramente lo Stato di Israele, che negli ultimi anni ha persino iniziato a desalinizzare il mare per produrre acqua potabile.
  Per questa ragione Mosaico Bet Magazine ha deciso di intervistare Aaron Fait, biochimico e docente alla Ben Gurion University del Negev (che di questi temi ha parlato alla Giornata europea della Cultura ebraica a Milano) per comprendere quali siano le attuali politiche israeliane nella gestione delle risorse idriche.

- Quali sono gli strumenti che Israele ha messo in campo per limitare lo spreco dell’acqua?
  Rispetto all’Italia, in Israele si investe molto nelle campagne di sensibilizzazione per rimarcare il valore dell’acqua. Si comincia con i più giovani negli asili e nelle scuole; si insegna loro a evitare sprechi quando ci si fa la doccia e ci si lava i denti. Questa consapevolezza ha la stessa importanza delle ricerche universitarie e dell’invenzione di nuove tecnologie. Per esempio, un’altra differenza tra Italia e Israele sulla gestione idrica è il controllo delle tubature. Se un tubo israeliano ha un problema l’amministrazione municipale o privata lo ripara subito. Tale coscienza permette un risparmio enorme di acqua potabile su tutto il territorio nazionale di Israele.
  Inoltre, mi ricordo che durante i difficili anni di siccità, dal 2005 al 2009, per le strade erano comparsi dei cartelloni pubblicitari in cui si utilizzava il fotomontaggio di una modella che si sgretolava con la frase “Israele si asciuga”. In quel periodo le campagne di sensibilizzazione erano davvero martellanti e avevano come obiettivo quello di stimolare condotte responsabili per affrontare una situazione già esistente. Grazie a quegli sforzi, costati anni e anni di lavoro, oggi in Israele non si spreca quasi più acqua e questo tema è molto sentito sul piano sociale.
  Purtroppo, al contrario di Israele mi sembra che l’Italia non stia adottando efficaci precauzioni su questo problema. A livello nazionale, la rete idrica italiana ha una percentuale media di perdita del 39%, 39 litri d’acqua ogni 100 litri immessi nei tubi. Sicuramente si dovrebbe incominciare subito a migliorare queste infrastrutture idriche.

- In concreto quali sono le politiche dell’attuale amministrazione israeliana riguardo la gestione delle risorse idriche?
  Per molti anni in Israele si è discusso sulla politica riguardante la desalinizzazione del mare per produrre acqua potabile. Questa soluzione è abbastanza recente ed è stata impiegata
  per attingere risorse idriche dal Lago di Tiberiade e da altri bacini acquiferi della costa e della zona montuosa che attraversa il Nord e Sud di Gerusalemme. A parte ciò, Israele è il primo Stato al mondo nel riutilizzo delle acque reflue. Certamente, lo si fa anche in Europa – la Spagna è molto migliorata su questo tema – ma non a livello dello Stato ebraico. Israele riutilizza l’86% delle sue acque di scarto domestiche e le ricicla per uso agricolo. Tempo fa, l’agricoltura israeliana si basava su acquiferi, acqua piovana e acqua dolce ma oggi non è più così. Questo cambio di tendenza ha scongiurato ulteriori competizioni e conflitti sullo sfruttamento delle risorse idriche: nel 1967 c’è stata una guerra per l’utilizzo delle sorgenti del Giordano tra Libano e Israele. Tuttavia, in agricoltura si effettua un uso dell’acqua a vari livelli. La si può desalinizzare quasi completamente – il procedimento è costoso e lo si fa per la coltivazione della vite – oppure lasciare una certa quantità di salinità nel liquido per le coltivazioni che la tollerano. In passato, la desalinizzazione è stata molto criticata ma poi si è diffusa grazie al mercato privato trainato da compagnie francesi del settore. La desalinizzazione del mare è sicuramente una delle tecnologie che saranno più sfruttate in futuro. Fortunatamente abbiamo delle alternative più sostenibili economicamente. Come è noto, l’agricoltura è in crisi in tutto il mondo e gli agricoltori rischiano di indebitarsi se il costo dell’acqua dovesse aumentare vertiginosamente. Certamente, sono convinto che con il passare del tempo la tecnologia di desalinizzazione diventerà più abbordabile da un punto di vista economico: ci saranno più impianti e probabilmente più competizione.

- Israele è anche leader al mondo nelle tecnologie d’irrigazione…
  Le tecnologie vengono impiegate sia per l’irrigazione sia per ottenere delle coltivazioni più tolleranti alla siccità. Una delle società più famose al mondo in questo campo è la multinazionale israeliana Netafim. In origine era un kibbutz che aveva esportato le sue innovative tecniche d’irrigazione a goccia in tutto il mondo. L’attuale livello tecnologico è molto lontano dal rudimentale tubo con i buchi che era utilizzato inizialmente. Oggi sono stati progettati dei piccoli rubinetti che si posizionano vicino a ogni pianta. All’interno ci sono dei filtri o una specie di labirinto che facilita la fuoriuscita dell’acqua, evitando blocchi. Inoltre, i rubinetti sono persino supportati da sensori presenti in vari punti delle tubature. I tubi possono essere interrati con degli specifici rubinetti da interramento: il terreno di fatto non li ostruisce e riescono a mantenersi in funzione. Se succede qualcosa, in maniera automatizzata viene segnalato in che punto del campo si ha un problema di blocco dell’irrigazione: l’agricoltore riceve una notifica e si reca nella zona segnalata. Tra le strategie sull’acqua l’irrigazione è sicuramente la carta vincente per Israele. Inoltre, con l’evolversi della tecnologia nascono metodi innovativi di monitoraggio che ottimizzano il funzionamento dei sensori da campo. Molto spesso, vengono impiegati droni per avere una mappatura di tutta la coltivazione e individuare le zone che soffrono per la siccità: le camere fotografiche raccolgono dati sulla temperatura delle piante che si surriscaldano. Ciò aiuta a identificare quelle piante che non crescono al ritmo a cui dovrebbero crescere rispetto alla media.

- Oltre alla gestione responsabile dell’acqua ci sono altre metodologie per “far fiorire il deserto”?
  Per quanto concerne la ricerca scientifica, oggigiorno si utilizzano piante tolleranti alla salinità. Uno dei pionieri di questo approccio è Yoel De Malach, un ebreo italiano che si chiamava Yoel De Angelis, che al kibbutz di Revivim utilizzava l’acqua salina presente nella zona. Il kibbutz è ubicato su un bacino di acqua salina nel deserto del Negev che veniva portata in superficie per irrigare campi di cipolle, meloni, peperoni e per una serie di coltivazioni che sono più resistenti alla salinità. La loro qualità sul mercato ne ha guadagnato perché la pianta produce un frutto un po’ più compatto ma più dolce per una semplice risposta a una pressione osmotica che comunica al vegetale che c’è poca disponibilità d’acqua e di conseguenza i frutti più piccoli utilizzano più molecole come gli zuccheri per evitare la fuoriuscita dell’acqua dalle cellule.
  L’impiego di specifiche coltivazioni più resistenti a un determinato tipo di acqua è iniziata 60 anni fa. Attualmente, si tende a un utilizzo di piante ibrido e di portainnesto perché sono più tolleranti a un ambiente siccitoso o più salino. Ci sono infatti popolazioni di pomodori che sono state sviluppate alla facoltà di agricoltura con diversi tratti derivanti da un pomodoro selvatico: con una serie di interventi di pulizia genetica sono state create linee che comprendono le caratteristiche del pomodoro da coltivazione unite a una piccola parte del genoma proveniente appunto da questo pomodoro selvatico. Tali porzioni di genoma consentono al normale pomodoro di coltivazione di produrre più sostanze nutrienti o una maggiore tolleranza alla siccità, riuscendo a mantenere per più tempo la sua freschezza al supermercato. Inoltre, attraverso questi incroci tra antenati si recupera anche una parte del gusto che si era persa durante la “domesticazione”. Per di più, dagli incroci di antenati si può arrivare anche a nuove coltivazioni. Il Ramat Negev Research and Development ha un dipartimento che insieme ai ricercatori della nostra università Ben Gurion University sta lavorando a nuove coltivazioni non tipiche di Israele o del Mediterraneo che possono adattarsi molto bene a un ambiente siccitoso. Per esempio, si sta scommettendo su piante di tipo cactus come la pitaya: questa tipologia di cactus, anche detta “frutto del drago”, è parecchio gustosa se presenta poca colorazione. Poi ci sarebbe anche la salicornia che è un vegetale commestibile, succulento e alofitico, sia utilizzata in cucina sia in forma essiccata con il sale sia fresca come insalata. La salicornia è importante per la salute in virtù delle sue proprietà nutrizionali tra cui vitamine, sali minerali e acidi grassi.

- Professore, è possibile combattere il cambiamento climatico o è solo questione di adattamento?
  Il cambiamento climatico e il conse­guente aumento di temperatura è un fenomeno col quale non si può combattere ma con cui bisogna convivere. Dobbiamo adattarci senza peggiorarlo. Il riadattamento punta su soluzioni che passano dall’educazione fino alla tecnologia scientifica più avanzata.
  Per queste ragioni dobbiamo riuscire a pensare diversamente, a cambiare punto di vista. In Italia si va molto fieri delle tradizioni agricole, è giustissimo. Tuttavia, la tradizione è anche qualcosa che ci può bloccare se la consideriamo come una scatola da cui non si può evadere. Dobbiamo prendere esempio dal pensiero rabbinico che insegna a mettere in dubbio qualsiasi cosa. Credo che la società israeliana abbia adottato questo schema anche a livello scientifico. Evitare di rimanere fermi e bloccati, tentando qualsiasi strada per migliorare la vita, l’agricoltura e la qualità dei prodotti agricoli.

(Bet Magazine Mosaico, 7 ottobre 2022)

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L'attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre '82

Le indagini, il processo e la riapertura del caso. “Un difficile cammino verso la verità”

di Ariela Piattelli

Gli avvocati Cesare Del Monte e Joseph Di Porto hanno studiato pagine e pagine di documenti sull’attentato alla Sinagoga di Roma. Prima per verificare, per conto della Comunità Ebraica di Roma, se fosse ancora valido il mandato di estradizione di Abdel Al Zomar, l’unico terrorista identificato e condannato in contumacia per l’attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nel 9 ottobre ’82. Poi per comprendere una storia intricata, fatta di indagini, testimonianze, un processo e un percorso, che non ha mai portato alla verità e alla giustizia, disseminato di rivoli. Shalom ha chiesto a Del Monte e Di Porto di ricostruire gli eventi,dalle indagini alla vicenda processuale, sino alla riapertura del caso. 

- Come è stato individuato Al Zomar e che ruolo ha avuto nell’attacco terroristico?
  Le indagini, attraverso i rilievi tecnici e fotografici sullo stato dei luoghi e l’ascolto dei feriti e dei testimoni oculari non diedero alcun risultato significativo e risentirono della mancanza delle forze dell’ordine non solo davanti alla Sinagoga ma anche in tutta la zona circostante che permise ai terroristi di compiere il loro gesto criminoso senza trovare alcun ostacolo e darsi liberamente alla fuga. La svolta ci fu con l’arresto in data 20 novembre 1982 da parte delle autorità greche del giordano Osama Abdel Al Zomar, residente da alcuni anni in Italia (prima a Perugia ed infine a Bari) il quale, venne fermato su un traghetto al confine tra la Turchia e la Grecia e diretto in Italia, dove viaggiava con la propria Mercedes targata Bari all’interno della quale vennero rinvenuti circa 60 kg di esplosivo, 5 detonatori e 3 metri di miccia.
  Le autorità italiane – che ancora non sapevano del coinvolgimento di Al Zomar nell’attentato alla Sinagoga – ascoltarono la sua fidanzata, che rivelò i motivi del viaggio di Al Zomar ed il suo diretto coinvolgimento nell’attentato al Tempio, specificando che il fidanzato, militante dell’OLP e già presidente del GUPS (General Union of Palestine Students), con il quale aveva avuto una discussione proprio la sera del 9 ottobre vedendo le immagini dell’attentato ai telegiornali, le aveva confidato che l’attentato era stato eseguito da due persone non residenti in Italia sotto la diretta direzione dell’OLP, da lui istruiti su tempi e modalità di esecuzione avendo svolto diversi sopralluoghi davanti la Sinagoga a fine settembre.

- Che peso hanno avuto le varie testimonianze del processo?
  Molte delle dichiarazioni rese dalla ex fidanzata di Al Zomar – confermate nella fase dibattimentale – trovarono riscontro in una pluralità di altri elementi investigativi, tra i quali il ritrovamento di un verbale di contestazione per violazione del codice della strada  del 27 settembre 1982 che confermò la presenza di Al Zomar a Roma nei giorni precedenti l’attentato, la testimonianza di un portiere di uno stabile in Via del Tempio, il quale riferì di aver visto nella seconda metà di settembre nella stessa via una Mercedes modello vecchio targata Bari e di aver riconosciuto nelle foto di Al Zomar un giovane che si aggirava assieme ad atre persone nei pressi della Sinagoga, ed infine, dalle testimonianze di alcuni addetti alla sicurezza della Comunità che nei giorni precedenti l’attentato videro diversi mediorientali aggirarsi attorno alla Sinagoga, due dei quali vennero fatti fermare dai carabinieri nei pressi di Monte Caprino in data 20 settembre 1982 e successivamente rivisti il 4 ottobre in Via Arenula all’altezza dei giardini di Piazza Cairoli.
  Anche l’indicazione del numero degli esecutori della strage corrisponde a quanto constatato sulla scorta delle testimonianze e delle verifiche balistiche che accertarono che i 32 colpi sparati provenivano da due distinte pistole mitragliatrici e che le cinque bombe vennero lanciate da due individui, seppur si ritiene che il commando fosse composto da almeno altri due soggetti, probabilmente con la funzione di copertura dei primi.

- Quando è iniziato il processo e come si è svolto?
  La fase dibattimentale si aprì davanti alla V Sez. della Corte d’Assise di Roma solamente il 18 marzo del 1989 al termine della fase istruttoria, rallentata dal rifiuto delle autorità elleniche di estradare Al Zomar che ne impedirono l’interrogatorio, si concluse con l’Ordinanza di rinvio a giudizio emessa dal Giudice istruttore Luigi Gennaro in data 15 giugno 1988.
  La Sentenza della Corte d’Assise, presieduta da Francesco Amato, con la quale Al Zomar venne riconosciuto responsabile dell’attentato alla Sinagoga di Roma e condannato all’ergastolo, venne pronunciata il 23 maggio 1989 e divenne irrevocabile per inammissibilità del proposto appello in data 11 maggio 1990.
  Nonostante le rivelazioni della ex compagna di Al Zomar sul coinvolgimento dell’OLP nell’attentato di Roma, nelle motivazioni della Sentenza della Corte d’Assise si legge che: “La strage davanti alla Sinagoga romana è un episodio della campagna terroristica scatenata da una organizzazione politico-militare contro le comunità ebraiche europee e contro i rappresentanti moderati dell’OLP…. Si è indicata tale organizzazione in quella denominata “Al Asifa” facente capo a Sabri Al Bann, più conosciuto come Abu Nidal”.
  Da questo passaggio della sentenza emerge con tutta chiarezza quale era il clima ideologico di quegli anni, si mettevano sullo stesso piano le vere vittime degli attentati, i fedeli ebrei all’uscita di una Sinagoga o all’interno di un ristorante, con le presunte lotte intestine tra gruppi palestinesi, senza considerare che l’OLP non era altro che l’ombrello sotto al quale si riparavano ed agivano le diverse organizzazioni terroristiche palestinesi, ivi inclusa quella di Abu Nidal, perseguendo un medesimo disegno criminoso, quello della distruzione dello Stato d’Israele e dell’uccisione indiscriminata degli ebrei ovunque risiedessero, in Israele così come in Europa.

- Cosa sappiamo degli altri responsabili oltre ad Al Zomar?
  Praticamente nulla. Nelle indagini che hanno preceduto l’unico processo sin qui celebrato, sono comparsi numerosi soggetti che avrebbero meritato una maggiore attenzione ma che non sono stati indagati in maniera approfondita. Alcuni di questi risultavano essere legati al FPLP, altri al GUPS, altri ancora avevano radicati legami con il gruppo di Abu Nidal, e uno di questi, Al AwadYousif con il quale Al Zomar partì da Bari il 20 ottobre 1982, si rese responsabile in Portogallo - ad aprile del 1983 - dell’omicidio di un dirigente palestinese ritenuto troppo moderato. Forse, all’epoca, tutti questi soggetti, così come la presenza di almeno un soggetto dai tratti somatici occidentali tra gli esecutori dell’attentato, avrebbero meritato maggiore approfondimento investigativo.

- Quali passi, dopo il processo, sono stati fatti per identificare gli altri responsabili?
  Dopo la sentenza di primo grado, confermata in appello, non furono svolte altre indagini o, almeno, allo stato non risulta che siano state effettuate.
  Nel 2020 il nuovo procuratore della Repubblica di Roma, il Dott. Michele Prestipino Giarritta, dispose la riapertura delle indagini relative ad alcuni coldcases e, fra questi, anche di quelle relative l’attentato di Roma del 9 ottobre. Ci risulta essere stata la prima volta che si è tornato ad indagare per identificare i complici dell’Al Zomar.

- Dopo le rivelazioni di febbraio scorso, il Copasir ha aperto un’indagine conoscitiva e la procura di Roma un nuovo fascicolo d’inchiesta. Mentre una svolta alle indagini potrebbe arrivare da Parigi. Dopo 40 anni, da un punto di vista giudiziario, credete ci sia la speranza di avere giustizia?
  Occorre distinguere l’oggetto delle indagini della procura da quelle del Copasir. Le prime sono finalizzate, come detto, all’individuazione degli altri componenti del commando che colpì a Roma e/o degli eventuali complici nell’organizzazione e nella pianificazione dell’attentato. Quelle del Copasir, invece, riguardano eventuali complicità politiche e la valutazione dell'efficienza dei mezzi di prevenzione adottate all'epoca dal Ministero e dalle Forze dell’Ordine.
  Per quanto riguarda le indagini del Copasir va detto che anche dagli atti del processo emergono molti spunti di riflessione.
  Ad esempio si è sostenuto, sia in sede parlamentare, a pochi giorni dall’attentato, sia nelle relazioni di servizio degli investigatori inviate al Giudice Istruttore, che l’Unione delle Comunità Israelitiche non aveva richiesto per la data del 9 ottobre alcuna cautela ulteriore. Questo, però, contrasta con quanto si legge nella comunicazione ufficiale inviata dall’UCII nell’agosto del 1982 ove era indicata specificamente anche quella data. A fronte di questo, risulta molto difficile spiegare le ragioni dell’assenza dell’auto delle Forze dell’Ordine quel giorno innanzi al Tempio. E ancora più difficile risulta comprendere perché, anche dopo l’attentato si è continuato ad affermare che non vi era stata la segnalazione.
  Questo elemento non può non esser letto unitamente alle 17 segnalazioni – inspiegabilmente secretate - che dal 18 giugno al 2 ottobre del 1982, i Servizi avevano inviato agli organi di Polizia e al Ministero degli Interni di "possibili attentati a obiettivi israeliani o ebraici in Europa”. Tra queste, quella del 25 settembre, dove l’allora direttore del Sisde, Prefetto Emanuele De Francesco, scriveva “Fonte abitualmente attendibile ha riferito che organizzazione di Abu Nidal intenderebbe compiere simultaneamente attentati contro obiettivi sionisti in Belgio, Francia e Italia, prima durante o subito dopo lo Yom Kippur” indicando tra i probabili obiettivi proprio la Sinagoga di Roma.
  Per quanto riguarda le notizie provenienti da Parigi, la Procura di Roma è molto cauta e, a detta del PM designato per le indagini, non sono molto utili. Sembrerebbe, anzi, che gli Inquirenti parigini più che offrire informazioni ne chiedano. Questo, va detto, comprime di molto le speranze che si riapra il processo e che si arrivi all’individuazione ed alla condanna dei complici. Tuttavia, bisogna mantenere viva la speranza e continuare a supportare la Procura nel difficile compito di arrivare alla verità 40 anni dopo gli eventi.

(Shalom, 7 ottobre 2022)

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Strage di Bologna e Ustica, Giovanardi rende note per la prima volta le carte segrete

'Adesso le carte sono pubbliche e non esiste più quella 'ragion di Stato' che ha indotto troppi e per troppo tempo a voltarsi da un'altra parte'.

L'episodio del sequestro ad Ortona di missili terra-aria dei palestinesi, per cui nel novembre del 1979 furono arrestati tre esponenti del Collettivo di via dei Volsci, 'mise in discussione il cosiddetto 'Lodo Moro', pattuito proprio all'indomani della strage causata da terroristi palestinesi all'aeroporto di Fiumicino, che il 17 dicembre 1973 provocò ben 34 morti e 15 feriti'. Lo sottolinea Carlo Giovanardi (Popolari Liberali) secondo il quale ciò si evince dai documenti, 'ora declassificati', che a suo tempo ha potuto 'consultare come membro della Commissione parlamentare sulla morte di Aldo Moro'.
  'I documenti, tenuti ancora segreti dal governo Conte, relativi agli anni 1979-1982 sono stati finalmente declassificati dal governo Draghi e consegnati all'Archivio Centrale dello Stato - riferisce Giovanardi - Trentadue di questi documenti sono stati significativamente uniti in un fascicolo intestato 'Ustica' e fanno riferimento al carteggio tra i Servizi italiani e la nostra ambasciata a Beirut' ossia con l'ex capocentro del Sismi a Beirut, colonnello 'Giovannone, dal momento del sequestro agli autonomi di Daniele Pifano dei missili terra-aria ad Ortona'. 'Adesso posso finalmente rendere pubblici gli appunti sui documenti che ho potuto a suo tempo consultare come membro della Commissione parlamentare sulla morte di Aldo Moro, che il governo Conte mi aveva diffidato dal diffondere', continua Giovanardi precisando di fare accenno soltanto a documenti 'che sono stati certamente depositati'.
  'Il 16 novembre 1979 - rivela Giovanardi - si afferma che Arafat ha compreso che l'episodio di Ortona costituisce la prova, sino ad allora mancante, della collusione tra palestinesi e terrorismo internazionale, che potrebbe coinvolgerli in corresponsabilità per operazioni più efferate degli anni precedenti, tra cui la stessa vicenda di Aldo Moro; il 12 maggio 1980 si fa presente - rivela Giovanardi - che il 18 sarebbe scaduto l'ultimatum quale termine ultimo per la risposta da parte delle autorità italiane alla richiesta del fronte di scarcerare Saleh (referente dell'Fplp in Italia, finito in carcere proprio per i missili di Ortona ndr), notando che 'in caso di risposta negativa la maggioranza della dirigenza e la base del Fronte popolare liberazione Palestina intende riprendere - dopo 7 anni - la propria libertà di azione nei confronti dell'Italia, dei suoi cittadini e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti. L'interlocutore ha lasciato capire che il ricorso all'azione violenta sarebbe la conseguenza di istigazione della Libia, diventata principale sponsor del Fplp, ha affermato che nessuna operazione avrà luogo prima della fine di maggio e probabilmente senza che vadano date specifiche comunicazioni''.
  Giovanardi riferisce di un altro documento del 27 giugno 1980 alle ore 10 secondo cui 'l'Fplp avrebbe deciso di riprendere totale libertà di azione senza dare corso ad ulteriori contatti a seguito del mancato accoglimento del sollecito del nuovo spostamento del processo. Se il processo dovesse aver luogo e concludersi in senso sfavorevole mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto l'Fplp ritiene essere stato ingannato e non garantisco sicurezza personale ambasciata Beirut'. Secondo Giovanardi 'da questi documenti e da quelli non ancora depositati si evince che l'episodio di Ortona mise in discussione il cosiddetto 'Lodo Moro'. Secondo quell'accordo i palestinesi potevano far passare liberamente armi ed esplosivo sul nostro territorio in cambio di una moratoria sugli attentati terroristici in Italia', continua Giovanardi per il quale 'ancora più inquietante risulta la presenza a Bologna il primo ed il due agosto del 1980', ossia il giorno prima e il giorno dopo la strage della stazione, 'del terrorista tedesco Thomas Kram, altro stretto collaboratore di Carlos'.
  'Non si può poi non ricordare che domenica sarà l'anniversario dell'attacco terroristico di quattro palestinesi davanti alla sinagoga di Roma, tre dei quali mai identificati ed un quarto arrestato in Grecia e poi fatto fuggire, possibilità di attentato che i Servizi avevano segnalato, mentre quel mattino misteriosamente non c'era nessun servizio di vigilanza pubblica per proteggere la comunità ebraica. E' una lunga scia di sangue quella che connota i tre anni che vanno dal 1980 al 1982, sui quali gli storici dovrebbero riflettere ma soprattutto i magistrati continuare ad indagare - conclude l'ex ministro - adesso che le carte sono pubbliche e non esiste più quella 'ragion di Stato' che ha indotto troppi e per troppo tempo a voltarsi da un'altra parte o addirittura a mettere in atto pacchiani tentativi di depistaggio'.

(La Pressa, 7 ottobre 2022)

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Accordi Abramo e Medio Oriente. A Roma, la NATO Foundation accende i riflettori

L'Europa a distanza 0. Notizie di cronaca e molto altro

di Giuseppe Morabito

ROMA – Sono passati poco più di due anni dalla firma degli Accordi di Abraham, che hanno “normalizzato” le relazioni diplomatiche tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e, potenzialmente, il Sudan, il 15 settembre 2020. Questo grande successo dell’amministrazione Trump ha ottenuto risultati contrastanti nel progresso dello sviluppo delle relazioni. L’attesa normalizzazione ha aperto nuove opportunità per la cooperazione in materia di difesa e sicurezza, in particolare tra Israele, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, che condividono una prospettiva comune sulla minaccia alla sicurezza rappresentata dall’Iran.
  In queste ore proprio l’Iran attraversa una crisi profonda per le proteste portate avanti per contrastare la vergognosa condizione in cui “sopravvivono” le donne iraniane. Siamo ora nella terza settimana consecutiva di estese manifestazioni a livello nazionale e proteste degli iraniani in tutto il mondo contro la legittimità politica della Repubblica Islamica in Iran. In questo momento le manifestazioni si stanno rapidamente trasformando in rivolte radicali contro l’esistenza stessa del governo con i manifestanti che cantano “questa non è più una protesta, è l’inizio di una rivoluzione”. È ancora troppo presto per dire a cosa porteranno queste proteste o se avranno successo, ma sono già le più lunghe in termini di durata e le più grandi in termini di partecipazione popolare che si sono mai viste nel Paese a guide sciita. Dal punto di vista israeliano, potrebbero essere sufficienti miglioramenti incrementali nei suoi legami con gli stati del Golfo Arabo.
  Nonostante la loro espressa adesione all’API, i sauditi sono stati disposti ad adottare misure di normalizzazione lente e su piccola scala prima che ci sia una piena risoluzione della questione israelo-palestinese. Come notato sopra, la cooperazione in materia di sicurezza nel Mar Rosso è un’area in cui i sauditi hanno dimostrato la volontà di lavorare con Israele. E gli accordi sauditi che consentono il sorvolo del suo spazio aereo per l’aviazione civile israeliana e accettano viaggi diretti per i pellegrini dell’Hajj provenienti da Israele sono ulteriori indicatori di una posizione saudita più rilassata sulla cooperazione con Israele.
  Tel Aviv potrebbe anche considerare la possibilità di sviluppare relazioni con l’Arabia Saudita al di fuori degli accordi di Abraham a allo stesso modo, sia l’Oman sia il Qatar hanno continuato il loro impegno pratico di lunga data con Israele. Sebbene Doha abbia criticato gli Accordi di Abraham e ribadito il suo sostegno all’API, il governo del Qatar ha mantenuto i suoi “rapporti di lavoro” con Israele. Da parte sua, l’Oman ha mantenuto tranquille relazioni con Israele per quasi 50 anni, forse la più antica relazione di questo tipo tra Israele e uno stato del Golfo. La buona predisposizione omanita è caratterizzata in particolare dalla partecipazione israeliana al centro di ricerca sulla desalinizzazione del Medio Oriente con sede a Muscat.

(Kmetro0, 7 ottobre 2022)

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Sospeso l’accordo marittimo fra Israele e Libano, timori di escalation militare

In gioco lo sfruttamento di importanti giacimenti di gas in territori contesi fra i due Paesi. Il premier Mikati aveva parlato di “successo diplomatico” che evita un nuovo conflitto. Alcuni dettagli controversi fra cui la “linea delle boe” hanno congelato la partita. Le mire di Hezbollah e l’ombra del voto israeliano, col possibile ritorno di Netanyahu. 

di Fady Noun

BEIRUT - Alcuni dettagli dell’ultima ora hanno sospeso l’accordo sulla delimitazione delle frontiere marittime fra Israele e Libano e lo sfruttamento dei giacimenti di gas offshore ai margini dei due Paesi. Una firma che dopo lunghe trattative sembrava essere cosa fatta, con soddisfazione di entrambe le parti e che invece appare congelata. Il primo ministro ad interim Nagib Mikati si era persino congratulato, durante una visita il 5 ottobre scorso al patriarcato maronita, di questo “successo diplomatico” che avrebbe permesso “di evitare una nuova guerra nella regione”. Ma la sera stessa, il rischio è tornato di drammatica attualità con il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz che rivolgendosi all’esercito ha paventato il pericolo di una possibile escalation nel Nord, in vista della quale bisogna farsi trovare preparati.  
  Al centro della questione, in questa brutale interruzione dei colloqui, vi sono alcuni emendamenti introdotti dal Libano, durante la riunione di finalizzazione dell’accordo che si era tenuta il 4 ottobre al palazzo del capo dello Stato a Baabda. Questi emendamenti sono stati peraltro presentati come “dettagli” e “chiarimenti” dal vicepresidente del Parlamento, Élias Bou Saab, incaricato dal presidente della Repubblica Michel Aoun di seguire i negoziati.
  Il nodo centrale che sembra aver compromesso la sottoscrizione dell’accordo, secondo i media libanesi, verte attorno alla cosiddetta “linea delle boe”. Di cosa si tratta? Piazzata all’indomani del ritiro israeliano dalla striscia di confine occupata all’epoca (siamo nel maggio del 2000), la “linea delle boe” si estende per circa 6 km, partendo da Ras Naqoura, sul lato israeliano. Nella proposta del mediatore Usa, il confine che delimita la Zona economica esclusiva (Zee) dei due Paesi segue il tracciato della linea delle boe per questi 6 chilometri, prima di raggiungere la linea 23 adottata come confine marittimo meridionale.
  Tuttavia, su insistenza di Hezbollah, il Libano si rifiuta di riconoscere questa linea e chiede che venga riferita nel testo come imposta “di fatto”. Secondo i media israeliani, nel testo di Amos Hochstein questa delimitazione era descritta come parte dello “status quo”. Questo semplice “dettaglio” sembra essere stato percepito dalla parte israeliana come volontà di mettere in discussione l’esistenza di questa linea, in un futuro più o meno remoto. “Hezbollah non vuole sentirne parlare”, afferma una fonte coinvolta nei negoziati. E anche Israele non sembra più disposta a fare concessioni sulla questione. 
  Inoltre, secondo il sito Ici-Beyrouth anche Israele avrebbe rifiutato la richiesta di Beirut che la società francese Total, chiamata a sfruttare il campo di Cana, possa disporre di totale libertà di movimento in questo settore senza un previo accordo con il governo israeliano. Nel frattempo il congelamento dei colloqui ha sollevato un’ondata di pessimismo nella regione, anche se il principale negoziatore, Amos Hochstein, ha dichiarato che non vi è nulla di insormontabile nelle difficoltà emerse.
  La mancanza di un accordo potrebbe comportare, come conseguenza negativa nell’immediato futuro, il congelamento dei negoziati almeno fino alle elezioni in Israele in programma il primo di novembre, anche se l’auspicio era di chiudere la partita prima della scadenza elettorale. Ciò significherebbe che, in caso di vittoria di Benjamin Netanyahu alle elezioni, l’intero quadro possa essere messo in discussione e con questo il rischio di un’escalation o, addirittura, del pericolo reale di una guerra aperta.
  In effetti, per gli israeliani la priorità resta quella di poter iniziare l’estrazione del gas nel campo di Karish senza il rischio di escalation. Hezbollah ha infatti ripetutamente minacciato di condurre una operazione militare contro il sito se le operazioni di estrazione iniziassero prima che il Libano possa fare lo stesso nella sua zona economica esclusiva. La proposta di Hochstein concede al Libano un’area delimitata dalla linea 23 - la sua rivendicazione ufficiale - ma che include anche il campo di Cana, parte del quale si riversa verso sud. Netanyahu, che cerca di tornare alla guida del governo israeliano, ha accusato Lapid di “cedere” un “territorio sovrano di Israele” o addirittura di aver “capitolato” di fronte alle minacce di Hassan Nasrallah.

(AsiaNews, 7 ottobre 2022)

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Spagna: il governo riconosce la natura discriminatoria del movimento BDS

La lotta della Spagna per sradicare l’antisemitismo ha ottenuto due vittorie legali significative questa settimana. Lunedì, la Corte Suprema di Spagna ha stabilito che il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) nei confronti di Israele è discriminatorio, confermando una decisione del tribunale di grado inferiore su un caso promosso dall’Azione e comunicazione sul Medio Oriente (ACOM) per annullare l'”Apartheid Free Zones” istituita nel 2016 dal Comune di Reinosa in Cantabria quando ha approvato il BDS. Lo riporta il sito The Algemeiner.
  Mercoledì, il Congresso dei deputati, la camera bassa del parlamento spagnolo, ha avanzato una legislazione che vieterebbe alle organizzazioni impegnate in attività antisemite come definito dalla definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) di ricevere sovvenzioni pubbliche e contratti e sussidi governativi. La definizione IHRA include esempi di antisionismo tra i suoi esempi. Se approvato dal Senato, il disegno di legge, proposto per la prima volta dall’Assemblea di Madrid, impedirà di fatto ai gruppi pro-BDS di ricevere sostegno statale.
  “Siamo lieti della decisione del parlamento spagnolo di prendere una posizione ferma contro il BDS e dichiarare le sue attività come antisemite”, ha affermato il presidente dell’ACOM Angel Mas in una dichiarazione rilasciata giovedì. “Inoltre, insieme alla decisione della Corte Suprema, è stato lanciato un forte messaggio che il BDS è discriminatorio e antisemita. Non sono sicuro che ci sia stata una reazione legislativa e giudiziaria più energica contro il BDS in qualsiasi parte del mondo in cui esiste questo movimento antisemita”.
  La mossa arriva dopo che il capo del governo cittadino della capitale spagnola, Madrid, Isabel Díaz Ayuso, ha sollecitato a luglio che la promozione della campagna di boicottaggio contro Israele fosse considerata un crimine d’odio.
  Secondo El País, i membri del partito di sinistra, Unidas Podemos (United We Can), si sono ampiamente opposti al disegno di legge, con 33 voti contrari e 7 astenuti. I membri di altri tre partiti, Esquerra Republicana (sinistra repubblicana della Catalogna), EH Bildu (Basque County Unite) e BNG (Galician Nationalist Bloc) si sono rifiutati di votare.
  A giugno, il parlamento della regione spagnola della Catalogna ha votato a favore di una risoluzione che denuncia Israele come stato di “apartheid” e di sanzioni internazionali urgenti contro Gerusalemme.
  “Questa iniziativa parla perversamente della volontà esplicita di censurare le ONG e le amministrazioni”, ha affermato il vice di Unidas Podemos Antoni Gomez-Reino dopo la sua approvazione. Accusando Israele di “violare i diritti umani”, ha chiesto che fosse sanzionato.
  In risposta, il deputato del Partito popolare Pilar Marcos ha affermato il ruolo della misura nella “strategia contro l’antisemitismo”, un’iniziativa motivata dall’invito dell’Unione europea a tutti i paesi membri ad adottare la definizione IHRA. “L’antisemitismo oggi si nasconde sotto il mantello dell’antisionismo e della negazione dell’esistenza dello Stato di Israele”, ha detto Marcos.
  Giovedì l’ACOM ha elogiato i gruppi parlamentari che hanno votato a favore del disegno di legge per “aver mostrato una bussola morale nell’impegno contro l’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni”.
  “Ci auguriamo che questo grande passo compiuto in tutto il mondo contro l’antisemitismo impedisca a queste associazioni e attività di esclusione di ricevere sussidi e aiuti pubblici”, ha affermato. “A tal fine, è imperativo che nella prossima fase parlamentare… questo slancio contro l’antisemitismo non venga ritardato con emendamenti che diluiscano un problema reale e unico”.

(Bet Magazine Mosaico, 7 ottobre 2022)

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Ebrei internati in Provincia di Pesaro

Il 1° giugno 1940 il capo della provincia invia al Ministero dell’Interno l’elenco dei comuni in cui “potranno essere internati stranieri o connazionali che debbono essere allontanati dalle loro abituali residenze”. La lista comprende dodici sedi, per ognuna delle quali è indicato il numero di internati compatibili, da un minimo di cinque a un massimo di quindici. Questi i loro nomi: Apecchio, Borgopace, Macerata Feltria, Mercatino Conca, Pennabilli, Piandimeleto, Piobbico, Sant’Agata Feltria, Sant’Angelo in Vado, San Leo, Sassocorvaro e Tavoleto. In luglio viene aggiunto il comune di Fano, dopodiché il numero non varia fino a dicembre ’41 quando sarà incluso Fermignano.
  Nel ’42 la rosa si allarga alle altre sette sedi seguenti: Colbordolo, Isola del Piano, Montebaroccio (o Mombaroccio), Saltara, San Costanzo, Sant’Ippolito, Urbania.
  Tale lista di ventun paesi resterà tale per tutto il ’43, mentre nell’ultimo biennio di guerra per far fronte ai crescenti arrivi e al movimento massiccio degli sfollati, saranno predisposti altri cinque centri – Cagli, Cantiano, Mondavio, Pergola e Sant’Angelo in Lizzola – per un totale di ventisei località disponibili.
  I primi cittadini internati in Provincia di Pesaro sono i fratelli Leardo e Lilio Saralvo di Ferrara, inviati a Sant’Angelo in Vado il 28 giugno ‘40. Alla fine, nei 26 comuni indicati vengono segregate 257 persone. Tale numero è suscettibile di rettifiche, sia perché al suo interno sono presenti casi incerti dove la determinazione di appartenenza razziale non è univoca nelle fonti consultate, sia per nominativi che possono essere sfuggiti.
  Seppure accomunati da un analogo destino, gli ebrei stranieri internati in Provincia di Pesaro appartengono a tipologie diverse: di emigrati prima, di perseguitati poi. Molti di loro erano in fuga dai paesi d’origine per sottrarsi alle persecuzioni razziali, altri si trovavano in Italia per ragioni di studio, di lavoro o di turismo. Una componente particolare è quella dei medici, con una significativa presenza nel nostro territorio. Si tratta di cittadini ungheresi o polacchi che hanno conseguito laurea e perfezionamento in Italia a causa delle restrizioni presenti nelle loro università nei confronti degli ebrei, ai quali vengono riservate quote d’iscrizione di gran lunga inferiori a quelle degli “ariani”.
  Il quadro complessivo degli ebrei internati è un primo risultato della nostra ricerca. Di alcuni di essi presso l’Archivio di Stato di Pesaro non c’è fascicolo ma esistono riferimenti in altre ricerche, pubblicazioni e fonti, compresi gli archivi comunali. Laddove si disponeva di un ricco materiale si è abbozzata una biografia più dettagliata, in altri casi ci si è limitati a pochi cenni. Oltre agli studi già disponibili sul tema, e di cui si fa menzione nelle fonti pubblicate, per gli ebrei stranieri si è fatto costante riferimento ai lavori di Anna Pizzuti e di Francesca Cappella risultanti nei siti APz e CDEC. Si tenga presente che nella lista di Pizzuti gli internati nel nostro territorio sono individuabili sia alla voce “Pesaro” che a quella “Pesaro/Urbino”.
  Gli italiani verranno liberati in vari momenti. I proscioglimenti iniziano fin dal ’41 per “atto di clemenza del Duce” con motivazioni prevalentemente di ordine sanitario o famigliare. Dopo il 25 luglio, con le misure del Governo Badoglio, la maggioranza di essi ottiene la revoca, anche se le leggi razziali restano in vigore. Degli stranieri ci si ricorderà con un provvedimento tardivo, quello del 10 settembre ’43, ma ormai l’esercito tedesco ha occupato il territorio. In Provincia di Pesaro a questa data sono un centinaio gli ebrei stranieri ancora presenti dopo movimenti in entrata e in uscita da altre province.
  Nei giorni successivi all’armistizio si vivono momenti di grande incertezza e sbandamento. Nuovi arrivi si profilano, in prevalenza fuggiaschi italiani e stranieri che non riescono a raggiungere il Sud. I tentativi di fuga scattano anche nella nostra provincia e il fenomeno diventa più evidente ai primi di dicembre ’43 non appena la notizia dell’ordine di cattura generalizzato per la deportazione viene diffusa attraverso la radio. Seppure controllata, questa infatti riesce ancora a informare.
  In quelle ore molti ebrei si rendono irreperibili, spesso con l’aiuto di cittadini del posto, di religiosi o di partigiani presenti nei dintorni, una rete più fitta di quanto non sospettino le autorità e le forze dell’ordine. La corsa a volte si ferma subito e ne consegue un nuovo internamento, magari nel paese vicino.
  E qui è doverosa una riflessione sulla condotta delle autorità provinciali di Pesaro, questura e prefettura. Come si legge in atti del ’42 riportati anche da Klaus Voigt, inizialmente il capo della provincia si tutela rispetto a possibili rilievi del Ministero dell’Interno facendo partecipe il partito fascista della sorveglianza sugli internati. Poi quando viene diramato l’ordine di cattura per la deportazione, la strategia adottata è quella di affidare la sorte – teorica – degli ebrei fermati, al medico: i reclusi vengono sottoposti a visita fiscale per decidere se siano o meno idonei al campo di concentramento.
  Nel caso di coppie, spesso il dottor Marco De Marco riconosce la non idoneità ad almeno un componente familiare in modo da giustificare la scarcerazione dell’altro per l’assistenza al congiunto, e allora al carcere segue l’internamento di entrambi nel precedente comune o in altra sede. Se si tratta di singoli, la diagnosi frequentemente è favorevole al perseguitato, anche se non mancano drammatici esempi di accanimento.
  Questo sembra di poter ricavare dall’esame dei casi, a volte purtroppo lacunosi. E non vanno dimenticate vicende inquietanti di arresti – a volte persino in ospedale – che si concludono tragicamente, una per tutte la strage di Forlì del settembre ’44, per la quale sicuramente esiste una responsabilità anche da parte italiana.
  Infine, la creazione di un campo di concentramento in provincia, come da applicazione dell’ordinanza di Buffarini Guidi, fallisce per mancanza di mezzi finanziari; il progetto riguardava “Villa Labor” di Pugliano.

(Archivio Maggioli Mazzoni, 7 ottobre 2022)

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La straordinaria storia di Nereo Musante e di quel libro che gli salvò la vita

di Ugo Volli

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Esistono oggetti che hanno il potere di parlare. La loro potenza cattura lo sguardo, ma è la storia che si cela dietro di essi che conquista. Il Museo Ebraico di Roma è stato creato con questo intento: custodire, raccogliere e conservare oggetti che narrano secoli di storia della Comunità Ebraica di Roma, e che al contempo attraverso la loro esposizione riescono a dialogare con i visitatori di tutto il mondo. All'interno della sala del Novecento, che narra di un secolo pregno di eventi che segnarono in maniera indelebile la Comunità romana, è custodito un libro di preghiera. Non è un testo qualsiasi, ma è un libro salvifico non tanto per il testo scritto al suo interno, ma perché fu proprio quel libro a salvare la vita di Nereo Musante.
  Nereo Musante nacque a Livorno il 16 maggio 1921 da una famiglia cattolica. Qualche tempo dopo la nascita del giovane Nereo i genitori decidono di traslocare trasferendosi nel palazzo appartenente alla Comunità Ebraica livornese: è proprio lì che una serie di casi fortuiti del destino portano Nereo a conoscere il futuro Rabbino Capo di Roma Rav Elio Toaff Z"L. I due si incontreranno di nuovo durante gli anni degli studi, questa volta a Pisa. Fu proprio quel doppio incontro che cambiò la vita di Nereo, portandolo ad alimentare ancor di più l'interesse per la religione ebraica. Successivamente la famiglia di Musante decise di spostarsi nuovamente, stavolta verso la Capitale. Negli anni terribili della guerra Nereo conobbe la moglie e mise al mondo i suoi tre figli. L'ebraismo per Musante fu sempre qualcosa di potente che sentiva in maniera viva dentro di sé. Questo lo porterà a seguire alcuni corsi di studio e diventare un assiduo frequentatore del Tempio Maggiore di Roma.
  La tragica mattina di Sheminì Atzeret del 9 ottobre 1982 un commando terroristico dell’Olp attacca il Tempio Maggiore di Roma. Il commando di terroristi palestinesi lancia bombe a mano e spara raffiche di mitra sui fedeli in uscita dalla funzione. Tra loro c’è anche Nereo Musante, che dall'attentato rimane ferito gravemente. A salvarlo fu un Siddur, un libro di preghiere, che Musante teneva stretto nella tasca della sua giacca. Un oggetto spiritualmente importante come un libro di preghiere lo salva attutendo i colpi sparati dai terroristi. Quello stesso Siddur ancora oggi contiene all'interno delle pagine ingiallite, schegge di bombe che salvarono la vita di Nereo. Il libro è conservato oggi presso il Museo Ebraico di Roma in una teca assieme ai suoi occhiali. Il tutto venne donato dallo stesso Musante nel 2011 affinché visitatori, scolaresche e nuove generazioni potessero apprendere il miracolo che avvenne durante quella giornata terribile.
  Ma l’attentato per Nereo segnò un vero punto di svolta nella sua vita. Non solo per le ferite riportate sia all’interno che all’esterno del suo corpo. Proprio in seguito all’attacco, l’allora Rabbino Capo Elio Toaff, dopo un lungo percorso di Ghiur (Conversione), decide di convertire Nereo vedendo nello straordinario salvataggio una sorta di segno divino. Così nel 1984 Musante si converte all’ebraismo cambiando nome Israel Ben Avraham. Nereo Musante dopo aver vissuto tutta la sua vita nel nome dell’ebraismo, diventando un personaggio importante e apprezzato nella Comunità Ebraica di Roma, si è spento lo scorso gennaio all’età di cento anni. Tuttavia, la sua straordinaria storia è ancora conservata all’interno di una teca nel Museo Ebraico di Roma.

(Shalom, 7 ottobre 2022)

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Festival del cinema di Haifa, l'Italia presenta dieci film

ROMA - Rassegna di dieci film italiani al Festival Internazionale del Cinema di Haifa, uno dei più importanti appuntamenti in Israele per appassionati e addetti ai lavori, organizzata in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura di Haifa e Cinecittà e in programma tra l'8 e il 17 ottobre. L'Italia si presenta alla manifestazione con alcune delle pellicole più recenti che hanno ottenuto un vasto successo di pubblico e di critica.
Questi i film in programma:
  • "Le otto montagne" (2022) di Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, basato sul romanzo omonimo dello scrittore italiano Paolo Cognetti;
  • "Nostalgia" (2022), di Mario Martone, scelto per rappresentare l'Italia alla 95/a edizione degli Academy Awards nella selezione della categoria International Feature Film Award;
  • "Leonora Addio" (2022), di Paolo Taviani, vincitore del Premio FIPRESCI al Festival di Berlino 2022 e in concorso al Festival di Haifa nella sezione Carmel International Competition;
  • "Delta" (2022), di Michele Vannucci, in concorso al Festival di Haifa nella sezione Golden Anchor Competition;
  • "Princess" (2022), di Roberto De Paolis, che ha aperto la sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2022.
    Saranno inoltre proiettati i documentari
  • "Sergio Leone, l'italiano che inventò l'America" (2022), di Francesco Zippel;
  • "Marcia su Roma" (2022) di Mark Cousins e
  • "The matchmaker" (2022) di Benedetta Argentieri.
    In programma al Festival anche
  • "Occhiali neri" (2022), l'ultimo film di Dario Argento, e
  • "Kaos" (1984), di Paolo e Vittorio Taviani, nella sezione Haifa Classics.
    Tutti i film sono proiettati in lingua originale con sottotitoli in inglese e in ebraico.

    (ANSAmed, 7 ottobre 2022)

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    La cosa più difficile è essere ascoltati

    Anna Berest il 9 presenta il suo libro “La Cartolina” alle gallerie d’Italia

    Le Edizioni E/O sono ospiti d’onore di Portici di Carta 2022, per l’occasione il 9 ottobre alle Gallerie d’Italia in piazza San Carlo 156 alle ore 17 portano Anna Berest per presentare il suo libro “La Cartolina” in dialogo con Eleonora Quirico.

    - Su quel documento postale ci sono solo quattro nomi e un mistero che affonda le sue radici nelle deportazioni naziste. Da cosa nasce l’idea?
      «Un giorno mia figlia di sei anni, tornando da scuola mi ha detto: "In classe alle persone non piacciono troppo gli ebrei". Per me è stato uno shock terribile, non pensavo che un giorno in Francia avremmo sentito di nuovo queste parole. La mia reazione è stata quella di immergermi nella storia della mia famiglia e di trovare l'autore della cartolina anonima, ricevuta qualche anno prima».

    - Quanto peso hanno avuto la sua biografia e la ricerca storica?
      «Il mio libro è interamente autobiografico. È "un vero romanzo", nel senso che tutti gli eventi che racconto sono "veri", li ho vissuti, la mia famiglia li ha vissuti, ma li scrivo con un linguaggio letterario. La vita è spesso più sorprendente della finzione. Le cose che mi sono successe mentre facevo la mia indagine sono così sbalorditive che potrebbero sembrare inventate. Eppure no».

    - Qual è la storia familiare che narra?
      «Parto da mia figlia e ripercorro tutto l’albero genealogico fino alla nonna di mia nonna! Il lettore scopre la saga della famiglia Rabinovitch nell'arco di un secolo, dal 1919 al 2019, e attraversa la Russia, la Francia, passando per la Lettonia e la Palestina. Volevo ricostruire la storia in un'Europa in cui l'antisemitismo sta diventando ovunque una piaga. E volevo capire come un Paese, il mio, la Francia, fosse gradualmente caduto nell’abominio».

    - A questo proposito lei appartiene alla generazione di coloro che deve raccontare la Shoah e trasmettere la sua memoria, quali sono i punti più difficili di questo compito?
      «In Francia nessuno voleva parlare dopo la guerra. Ma quando la generazione precedente alla mia ha iniziato ad invecchiare, a sentire che un giorno sarebbe scomparsa con i suoi silenzi, allora si è messa a tramandare. A chi? Principalmente ai suoi figli. Simone Veil ha detto: "Non c'è alcun dovere di memoria, ma c'è il dovere della sua trasmissione". La nostra difficoltà è quella essere ascoltati”.

    - E’ d’accordo con chi ha definito il suo libro un giallo?
      «Ci sono tutti gli elementi del giallo: un detective privato, un grafologo specializzato in lettere anonime - il suo nome è Gesù e non l’ho inventato- e vicini di casa che bisogna sospettare ma, a differenza di un giallo, mentre lo scrivevo non ne potevo conoscere la fine».

    - Parla del significato di essere ebreo, cosa può insegnarci? 
      «Non sono credente né religiosa. Ciò nonostante sono ebrea. Volevo spiegarne semplicemente il perché. E cosa vuol dire "essere ebrei" in una vita laica».

    (La Stampa, 7 ottobre 2022)

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    Legge del ritorno, Israele valuta estensione a quarta generazione di ebrei russi

    Un provvedimento per scongiurare la chiamata alle armi di Putin nella guerra all’Ucraina. La proposta formulata da Avigodor Lieberman, come “misura temporanea” e al vaglio del governo. Ma fra i parlamentari vi è chi si oppone e accusa il ministro delle Finanze di “distruggere” l’identità ebraica.

    GERUSALEMME - Il governo israeliano sta valutando l’estensione della Legge del ritorno, che andrebbe allargata fino a comprendere i discendenti di quarta generazione degli ebrei russi che cercano di fuggire in massa dalla chiamata alle armi di Vladimir Putin nella guerra all’Ucraina. Il ministro delle Finanze Avigdor Lieberman ha confermato che la proposta è al vaglio della compagine di governo, che potrebbe adottarla come “misura temporanea”.
      Secondo quanto riferisce il Times of Israel, Lieberman ha sollevato la questione in un primo momento durante la riunione settimanale dell’esecutivo il 2 ottobre scorso sostenendo che questa “quarta generazione” possa avere in qualche modo diritto alla cittadinanza. Il primo ministro Yair Lapid ha preso tempo rispondendo che la questione andrà approfondita all’interno di un confronto serrato fra ministeri sulla sua opportunità. 
      L’obiettivo, spiega lo stesso Lieberman in un messaggio sui social, non è quello della “estensione automatica” della cittadinanza, quanto piuttosto di trattare [gli ebrei russi] secondo “il nostro obbligo storico” verso i “valori umanitari ed ebraici”. “Al popolo ebraico - aggiunge - non sono mancate tragedie e miseria nella Seconda guerra mondiale, un momento storico in cui nessun Paese accoglieva rifugiati ebrei. Questa è la quarta generazione, la progenie degli ebrei che hanno un chiaro legame con l’ebraismo e una parentela diretta con le loro famiglie che vivono in Israele”.
      La legge del ritorno è una norma promulgata dalla Knesset (il Parlamento israeliano) il 5 luglio 1950, assieme alla legge sulla cittadinanza. Essa ha abrogato le norme fissate dal cosiddetto “Libro Bianco” e garantisce la cittadinanza a quanti, di discendenza ebraica nel mondo, intendano trasferirsi in Israele con il proposito di viverci. La permanenza è anche legata, se in età, al compimento del servizio militare della durata di tre anni per i maschi e due per le femmine.
      La proposta del ministro delle Finanze trova però l’opposizione di una parte della Knesset. Fra questi il parlamentare di ispirazione sionista Simcha Rothman, secondo cui “la Legge del ritorno è stata emanata affinché Israele fosse uno Stato ebraico”, mentre Lieberman “sta lavorando per distruggere questa identità ebraica”.
      Per beneficiare della norma bisogna avere almeno un nonno ebreo. Secondo una fonte israeliana interpellata dal Jerusalem Post vi sarebbero almeno 55mila ebrei russi coi requisiti per immigrare in Israele e in attesa del via libera per lasciare la Russia. Di questi circa 40mila di questi hanno ricevuto il visto per immigrare, altri 15mila hanno avviato il processo. Poi se ne devono aggiungere altri 70mila di ebrei russi che hanno i requisiti per immigrare secondo la Legge del ritorno e vivono attualmente in condizioni di estrema difficoltà negli Stati che “circondano la Russia” ma che al momento “non sono in contatto con le autorità israeliane”. Nei mesi scorsi la questione si era presentata anche per i profughi ucraini e le possibili ripercussioni sulla “identità ebraica” dello Stato di Israele.

    (AsiaNews, 6 ottobre 2022)

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    Nobel per la chimica per lo scopritore dei “quasi cristalli”

    Shechtman, nato a Tel Aviv nel 1941, si è laureato nel 1972 nell’Istituto di Tecnologia Technion
    «Una scoperta impossibile»: era stata liquidata così la struttura regolare ma che non si ripeteva mai che la mattina dell’8 aprile 1982 Daniel Shechtman aveva osservato al microscopio elettronico. Ci sono voluti almeno dieci anni perché la comunità scientifica si accorgesse che si trattava di qualcosa di nuovo e rivoluzionario e quasi 30 perché quell’osservazione bollata come stravagante venisse riconosciuta con il Nobel.
      Esperto di Scienza dei materiali, Shechtman è nato in Israele, a Tel Aviv, nel 1941 e si è laureato nel 1972 nell’Istituto di Tecnologia Technion, dove insegna attualmente. È stato il protagonista di una vera e propria battaglia scientifica perché, come spesso è accaduto nella storia della scienza, Shechtman ha dovuto scontrarsi contro idee ormai consolidate da decenni. Il dogma che il ricercatore premiato oggi ha dovuto combattere era quello secondo cui i cristalli sono tali perché la loro struttura si ripete regolarmente e sempre uguale a se stessa. Nel microscopio elettronico di Shechtman aveva invece preso forma un’immagine che andava contro ogni legge naturale: nella materia solida gli atomi sono incastonati secondo modelli estremamente rigidi e regolari, che si ripetono periodicamente e sui quali la simmetria regna sovrana. Infografica del Nobel per la chimica
      Chiunque, nel mondo scientifico, era assolutamente convinto che un cristallo potesse esistere esclusivamente grazie a questa continua ripetizione dello stesso modello. L’immagine che osservava Shechtman era invece completamente diversa perché i “suoi” cristalli erano ordinati, ma non si ripetevano. Era una cosa considerata impossibile dai suoi colleghi e da ricercatori del calibro di Linus Pauling, due volte Nobel. La reazione è stata talmente aggressiva da costringere Shechtman a tornare in Israele. Qui ha continuato a lavorare alla sua scoperta insieme ai colleghi Ilan Blech e Denis Gratias, con i quali ha pubblicato sulla rivista Physical Review Letters l’articolo nel quale descriveva le strutture singolari che aveva visto, i quasi-cristalli.
      L’effetto è stato dirompente e il successo tale da costringere l’Unione Internazionale di Cristallografia a modificare la definizione di cristallo. I quasi-cristalli hanno anche attratto i matematici, che hanno collegato queste strutture ad una costante irrazionale come la sezione aurea. Dal momento in cui i quasi-cristalli sono stati riconosciuti come una realtà si è acceso anche l’interesse da parte dell’industria. Hanno infatti caratteristiche interessanti per applicazioni in numerosi campi, primo fra tutti la messa a punto di dispositivi di nuova generazione per il risparmio energetico. Sono infatti degli ottimi conduttori di calore e alcune sperimentazioni in corso li stanno utilizzando come rivestimento per le padelle, oppure per realizzare diodi luminosi (Led) che consumino meno energia.

    (Il Secolo XIX, 6 ottobre 2022)

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    Nell'ora di Ne'ilà 5783: il discorso di Rav Riccardo Di Segni

    Il discorso del Rabbino Capo di Roma pronunciato nell’ora di Nei’la al Tempio Maggiore

    Sappiamo tutti quanto drammatico sia stato per New York e per il mondo intero l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre del 2001. Ci si sarebbe aspettati, anche quest’anno, che nel giorno dell’anniversario il principale giornale di New York, il famoso New York Times, aprisse l’edizione di quel giorno con un ricordo. Invece, con una scelta sorprendente, la prima pagina dell’11 settembre è stata dedicata a qualcos’altro: un fortissimo attacco, con una grande foto e un articolo a più colonne al sistema educativo delle scuole chasidiche della città. In queste scuole studiano migliaia di bambini e adolescenti e l’accusa, basata su un’inchiesta approfondita, diceva che non era tollerabile che con i fondi pubblici si finanziassero scuole dove si fanno solo studi religiosi e se ne esce parlando un inglese stentato e senza nozioni elementari di matematica. A questo attacco americano ha fatto eco una polemica in Israele, dove esistono problemi analoghi, con implicazioni elettorali, e se ne è parlato anche altrove nel mondo, poco in Italia, dove l’interesse per certe notizie è minimo. Per spiegare le cose, e perché tutto questo invece ci dovrebbe interessare, proprio in questo momento solenne, c’è bisogno di qualche chiarimento. In luoghi di grandi concentrazioni di ebrei ortodossi chasidici, come negli USA e in Israele, esistono dei sistemi scolastici autonomi e impermeabili, alcuni dei quali sono incentrati quasi esclusivamente su materie tradizionali, con minima attenzione alle materie che fanno parte di un normale percorso educativo nei paesi occidentali. La seconda cosa da spiegare è questo modello educativo, che potremmo definire di totale chiusura non è quello della nostra tradizione italiana. Dove per “nostra” non intendo le scelte fatte dall’emancipazione in poi, di scuole ebraiche con un po’ di ebraismo, ma le formule precedenti, che prevedevano la prevalenza degli studi tradizionali ma non hanno mai escluso le altre materie. Sappiamo quanto i grandi maestri dell’ebraismo italiano eccellessero non solo nella Torà ma anche per le loro conoscenze linguistiche, storiche, filosofiche e scientifiche. Quindi il modello di quelle scuole chasidiche non è il nostro, ma il problema è un altro. Come hanno scritto alcuni tra cui Liel Leibovitz, la discussione deve andare oltre il confronto tra programmi scolastici, perché il tema vero è quello del confronto tra progetti educativi e di vita. Ogni progetto rispecchia un’idea del mondo e mira a dei risultati. E se i risultati non sono soddisfacenti, i progetti andrebbero rivisti. Ma spesso non si ha l’umiltà di vedere i risultati che possono essere disastrosi e si preferisce attaccare coloro che non condividono gli stessi progetti e la stessa visione del mondo. È un po’ quello che succede ora in questa polemica. I gruppi chasidici di cui parliamo non sono perfetti, hanno come ogni altro i loro problemi sociali, ma sono persone che hanno una scala di valori e di priorità differenti, vivono in un ambiente protettivo e affettuoso, facendo le cose che amano e che per loro sono più importanti. E questo produce un risultato che altrove è sempre più difficile trovare: un grado elevato di soddisfazione della vita.
      Il problema è quello di che cosa noi vogliamo per il nostro futuro, per i nostri figli e nipoti. Vorremmo tutti che la scuola dia loro gli strumenti di crescita per entrare nel mondo del lavoro e per farne dei buoni cittadini. Ma vorremmo anche – o forse non lo vogliamo più – che siano persone oneste e rispettabili, che si preoccupino di chi è meno fortunato, che costruiscano famiglie stabili, che siano mariti e mogli, padri e madri, figli e figlie affettuosi e rispettosi, che abbiano fiducia in loro stessi, che diano un senso alla loro vita, che abbiano fiducia nella vita, che siano felici. I risultati in questo senso nella società americana in generale sono deludenti, se si considera la solitudine delle persone, la diffusione delle droghe, dell’alcolismo, dei suicidi. Cifre ancora lontane da quello che succede qui, ma queste ondate negative si estendono da una parte all’altra del mondo. Così come in direzione opposta arriva ora in America l’ondata negativa italiana della contrazione delle nascite. Un altro segno della sfiducia nella vita. Non è una cosa che non ci riguarda. Nella nostra comunità quest’anno i morti sono stati quasi il doppio dei nati.
      Se da una parte il progetto educativo delle scuole chasidiche è carente per certi aspetti, quello della società in generale è carente per molti altri. Non riesce più a dare dei valori fondamentali come il senso di comunità, la responsabilità sociale, la gioia della vita, la speranza. Qualcuno ha suggerito che invece di mandare ispettori governativi a controllare le scuole chasidiche sarebbe più utile mandare direttori di queste scuole come consulenti nelle scuole pubbliche.
      Non sto facendo una lode sperticata di un sistema che in ogni caso è lontano dalla nostra mentalità e dalle nostre istituzioni. Sto piuttosto segnalando la necessità di non adagiarsi o continuare a farlo acriticamente sui modelli di educazione e di vita che la società in generale ci propone. Sono modelli in parte antagonisti ai nostri, che sono rischiosi per la tenuta delle nostre istituzioni sociali. Dobbiamo essere critici e resistenti. E invece i primi a cascare in questa rete, pensando di seguire fantastiche e necessarie novità, sono proprio i nostri giovani.
      Kippùr è l’occasione in cui bisogna riflettere sulla nostra vita e le nostre scelte, sia a livello individuale che collettivo. È il giorno in cui riscopriamo il senso dello stare insieme nella condivisione di un messaggio antico e attualissimo. Il giorno in cui dobbiamo decidere se farci sommergere da modelli distruttivi o scegliere la vita. A Kippùr abbiano la certezza di poter mettere le cose a posto, in cui non c’è stato bisogno di bussare per entrare perché la porta era aperta. Ora a Ne’ilà, come dice la parola, le porte in cielo si stanno chiudendo, ma facciamo ancora a tempo in queste ultime due ore, a decidere per la vita.
      Facciamo nostra questa speranza, resistendo e scegliendo, raccogliamo tutte le nostre energie positive e investiamole in un futuro migliore.

    (Shalom, 6 ottobre 2022)

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    Opposti estremismi: l’antisionismo ebraico in Italia, tra marxismo e fascismo

    Quando nacque, il sionismo ebbe una tiepida accoglienza da parte degli ebrei italiani. Ma con la nascita di Israele e il conflitto con i palestinesi, non sono mancati quelli che si sono schierati apertamente contro lo Stato ebraico.

    di Nathan Greppi

    “Due ebrei, tre opinioni”: questo detto la dice lunga su quanto le comunità ebraiche, lungi dall’essere entità monolitiche, da sempre ospitano al loro interno idee e correnti di pensiero politiche e religiose diametralmente opposte tra loro, che possono arrivare anche a scontri molto accesi. Ciò si vede anche nell’appoggio dato dagli ebrei della diaspora all’esistenza d’Israele che, seppur condiviso dalla stragrande maggioranza, in rari casi viene invece osteggiato.
      Per quanto riguarda l’ebraismo italiano, questo fenomeno presenta delle peculiarità: a differenza di quanto avviene in Israele o negli Stati Uniti, da noi i gruppi ortodossi e chasidici che si oppongono a Israele per motivi religiosi, come i Satmar e i Neturei Karta, sono quasi completamente assenti. In compenso, oltre ai casi di ebrei di estrema sinistra che avversano Israele per ragioni politiche, in Italia in passato erano presenti dei loro equivalenti anche nell’estrema destra.

    • Periodo pre-indipendenza
      Quando il sionismo nacque, alla fine dell’800, nei primi tempi ricevette una tiepida accoglienza da parte degli ebrei italiani. Questi, a differenza delle loro controparti nell’Europa orientale, erano molto più integrati nel tessuto sociale del loro paese, ed erano meno esposti alla minaccia dell’antisemitismo. Per questo, fatta eccezione per alcuni intellettuali come Dante Lattes che esprimevano un interesse positivo per le idee di Theodor Herzl, almeno fino all’introduzione delle Leggi Razziali nel ’38 la maggior parte di loro non sentiva il bisogno di uno Stato-nazione ebraico.
      In questo contesto, fu soprattutto durante il periodo fascista precedente al 1938 che alcuni ebrei italiani si distinsero per un’ostilità feroce nei confronti del movimento sionista: questo perché molti di loro erano essi stessi fascisti, e in quanto tali cercavano di dimostrare una fedeltà assoluta allo Stato italiano. Tra i loro esponenti di spicco vi era il banchiere torinese Ettore Ovazza (tra l’altro zio del giornalista Alain Elkann, che gli ha dedicato il suo romanzo del 1985 Piazza Carignano), che nel 1934 fondò la rivista La Nostra Bandiera, che inveiva pesantemente contro i sionisti e gli ebrei che non erano abbastanza leali verso il regime. La testata venne chiusa con l’avvento delle Leggi Razziali e Ovazza, pur avendo cercato fino all’ultimo di mostrarsi fedele a Mussolini, nel 1943 venne ucciso dalle SS assieme alla moglie e ai figli, a Intra.

    • Dopoguerra e conflitti arabo-israeliani
      Dopo il 1948, e in particolare dopo la Guerra dei sei giorni, se l’antisionismo ebraico di matrice fascista era definitivamente scomparso, quello successivo si è basato principalmente sul modo in cui il conflitto tra Israele e i palestinesi veniva visto e interpretato da comunisti e socialisti.
      Un ambito che da sempre, seppur schierato prevalentemente dalla parte d’Israele, ospita a più riprese anche eccezioni, è quello dei movimenti giovanili: già negli anni ’50, sulla rivista ufficiale HaTikwa dell’allora FGEI (Federazione Giovanile Ebraica d’Italia, ribattezzata UGEI nel 1995) era possibile imbattersi occasionalmente in firme di estrema sinistra che prendevano le parti degli arabi, che nel corso del tempo sono diminuite fino a scomparire.
      È in seno alla FGEI che nel 1955 venne fondato il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (oggi Fondazione CDEC). Lo storico Guido Valabrega, che fu segretario del CDEC dal 1959 al 1963 ed è scomparso nel 2000, a partire dal ’67 divenne un acceso oppositore d’Israele, nonostante il suo passato di sostenitore del partito socialista israeliano Mapam. Membro in Italia prima del PCI e in seguito di Rifondazione Comunista, scrisse diversi saggi di storia del Medio Oriente da una prospettiva antisionista e filopalestinese.
      Non sono mancati casi analoghi neanche negli anni ’80 quando, dopo i massacri di Sabra e Chatila, la scrittrice Natalia Ginzburg pubblicò sull’Unità numerosi editoriali contro le politiche israeliane. Proprio nel 1982, durante la Guerra in Libano, diversi ebrei firmarono un manifesto intitolato Perché Israele si ritiri, che riportava come prima firma quella di Primo Levi, e tra le altre anche quella della giornalista Fiamma Nirenstein. Tuttavia, dopo l’attentato alla Sinagoga di Roma il 9 ottobre di quell’anno, diversi ebrei di sinistra come le già citate Ginzburg e Nirenstein (quest’ultima anni dopo passò dalla parte del centrodestra di Berlusconi) fecero marcia indietro, schierandosi con Israele e le loro comunità contro i loro detrattori.

    • Ultimo ventennio
      Anche dopo la fine della Guerra Fredda e la sconfitta del comunismo, non sono mancati casi di ebrei legati a quell’area politica che hanno preso posizione contro Israele, sempre da una prospettiva terzomondista e antioccidentale: il caso più famoso è quello dell’attore teatrale Moni Ovadia, che nel 2013 lasciò la Comunità Ebraica di Milano in polemica con il sostegno a Israele della maggioranza dei suoi membri. Intervenendo spesso anche nei talk show televisivi, Ovadia è diventato uno dei portavoce in Italia dei movimenti filopalestinesi e del BDS, prendendo parte a diverse iniziative per boicottare Israele.
      Anche tra i rappresentanti dei partiti eredi del PCI e della sinistra extraparlamentare non mancano casi simili: Barbara Spinelli, giornalista e già eurodeputata dal 2014 al 2019 per la coalizione “L’Altra Europa con Tsipras”, pur essendo di madre ebrea già nei primi anni 2000 attaccava Israele sulle pagine de La Stampa, dove nel gennaio 2005 scriveva che l’antisemitismo contro gli ebrei della diaspora era stato dilatato dalle “condotte coloniali dello Stato Ebraico”. Mentre nel gennaio 2020, su Il Fatto Quotidiano, paragonava Israele all’Apartheid in Sudafrica e i palestinesi ai nativi americani nelle riserve.
      Mentre nei paesi anglosassoni i gruppi ebraici antisraeliani sono molto attivi, in Italia l’unico degno di nota è la Rete ECO (Ebrei contro l’occupazione), fondata nel 2001 e vicina al BDS. In alcuni casi hanno anche giustificato attacchi contro le comunità ebraiche italiane: lo fecero dopo il luglio 2014, quando due ragazzi affissero uno striscione sulla cancellata della Sinagoga di Vercelli con scritto “Stop bombing Gaza, Free Palestine, Israele assassino”. In tale occasione, la Rete ECO giustificò il gesto dei due, esultando quando nel maggio 2017 vennero assolti dall’accusa di istigazione all’odio razziale. Tra i loro affiliati vi erano alcuni dei 350 accademici che, nel 2016, firmarono una petizione contro gli scambi tra le università italiane e il Technion di Haifa.
      Parallelamente a questi casi, se ne può citare almeno uno in cui l’ostilità nei confronti d’Israele sconfina in quello che il filosofo tedesco Theodor Lessing definiva “ebreo che odia se stesso”: il giornalista Massimo Fini, in passato firma importante di quotidiani come Il Giorno e oggi editorialista de Il Fatto Quotidiano. Nonostante sia figlio di un’ebrea russa, Fini, per il quale destra e sinistra non esistono più, ha spesso attaccato non solo Israele ma anche l’ebraismo, affermando in un articolo del 2005 sul giornale veneziano Il Gazzettino che “non mi sento ebreo […] perché vedo nel monoteismo la radice dell’intolleranza e del totalitarismo. Ancor meno mi piace che un popolo si consideri ‘eletto da Dio’ perché vi trovo, in nuce, le radici di quel razzismo di cui poi proprio gli ebrei sarebbero stati così atrocemente vittime”. Un anno dopo, intervistato dal quotidiano leghista La Padania, attribuiva a Israele il rifiuto di dialogare con Hamas.
      È chiaro che l’ostilità verso Israele e il sionismo da parte di ebrei riguarda principalmente chi si colloca agli estremi dello spettro politico, soprattutto a sinistra ma a volte anche a destra. Comunisti e fascisti, terzomondisti e nazionalisti, sempre schierati dalla parte sbagliata della storia. In un certo senso, questo fenomeno ha anticipato il modo in cui la guerra in Ucraina è stata recepita in Italia, dove posizioni filorusse e anti-NATO sono state espresse sia a destra che a sinistra.
      Non a caso Moni Ovadia, ospite ai primi di maggio ad un evento di Michele Santoro, dipinse l’Ucraina come un paese nazista citando come riferimento la giornalista americana Lara Logan, vicina alla destra radicale e licenziata da Fox News per le sue esternazioni antisemite: a marzo diceva che Charles Darwin era stato pagato dalla famiglia di banchieri ebrei Rothschild per inventare la teoria dell’evoluzione. Mentre nel novembre 2021, paragonò l’immunologo americano Anthony Fauci allo scienziato nazista Josef Mengele. Questo è ciò che succede quando gli estremi si toccano.

    (Bet Magazine Mosaico, 6 ottobre 2022)

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    Alessia Piperno detenuta in Iran: contatti tra i ministri di Roma e Teheran

    Una telefonata tra il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, e quello italiano, Luigi Di Maio, è stata ieri il primo passo formale del lavoro per la liberazione di Alessia Piperno, la ragazza italiana arrestata una settimana fa in Iran. Nelle scorse ore l'ambasciata aveva avuto interlocuzioni ad alto livello per provare a trovare una via di uscita a una situazione che ora dopo ora diventa sempre più delicata. Ieri è arrivato il passo della politica, letto dagli osservatori come molto importante: gli iraniani stanno dimostrando infatti di voler collaborare, seppur al momento manchino alcuni tasselli fondamentali per ricostruire la vicenda. Nessun nostro diplomatico è riuscito a parlare con Alessia che è rinchiusa nel carcere di Evin, quello dei prigionieri politici.
      Non ci sono state ancora notificate le accuse che l'Iran muove alla travel blogger romana. Benché in maniera informale, è stato comunicato all'Italia che la ragazza avrebbe partecipato ad alcune delle manifestazioni che stanno attraversando il paese.
      "Un equivoco" dicono i nostri 007, visto che Alessia, viaggiatrice esperta, è sempre stata lontana dalle manifestazioni di piazza. Ma stava banalmente festeggiando il suo compleanno con un gruppo di ragazzi, per lo più europei, che dormivano nel suo stesso ostello fuori Teheran. Ed è proprio in quell'ostello che potrebbe essere nato l'arresto di Alessia, scambiata per qualcosa che invece non era. "L'Iran ha detto di aver fermato nove stranieri che avrebbero preso parte alle manifestazioni.
      Se questa fosse l'accusa anche per Alessia, sarebbe del tutto ingiustificata", spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty. Nella telefonata con Amirabdollahian, Di Maio ha chiaramente chiesto di Alessia. E gli è stato assicurato che a breve arriveranno notizie ufficiali. Sul tavolo, come lo stesso governo iraniano ha poi comunicato ai media, l'Iran ha messo però altro: ha chiesto all'Italia un impegno diretto per revocare le sanzioni e ristabilire un rapporto bilaterale corretto con il nostro Paese e l'Europa. Ed è questa la paura. Che sul tavolo della scarcerazione di Alessia qualcuno a Teheran possa giocare partite diverse. Ingiocabili.

    (la Repubblica, 6 ottobre 2022)

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    Il sistema antiaereo laser israeliano Iron Beam potrebbe entrare in servizio in meno di 3 anni

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    Lo scorso aprile, squadre dell'industriale Rafael e dell'esercito israeliano hanno effettuato un primo test "a grandezza naturale" del sistema antiaereo Iron Beam, un dispositivo di difesa basato su un laser ad alta energia con una potenza di oltre 100 Kw. Durante queste prove, Iron Beam ha dimostrato la sua capacità di intercettare e distruggere non solo droni leggeri, ma anche razzi di artiglieria e proiettili di mortaio con precisione, efficienza e velocità. Questi successi hanno apparentemente finito di convincere le forze armate israeliane, che ora intendono dotarsi di questo sistema in un futuro sorprendentemente prossimo, tra due e tre anni, in modo da completare le capacità dell'Iron Dome ad alte prestazioni, ma anche molto costoso sistema che protegge le città e le installazioni strategiche del paese da potenziali attacchi massicci di saturazione effettuati dagli Hezbollah palestinesi e dai loro sostenitori iraniani.
      Secondo Rafael, tutte le questioni tecnologiche sono già state risolte e ora sorgono solo domande puramente industriali, e quindi di bilancio, per fornire alla difesa israeliana questo sistema. Va detto che per Gerusalemme la posta in gioco è alta. Infatti, mentre Iron Dome ha dimostrato al di là di ogni dubbio la sua efficacia durante gli attentati compiuti da Hezbollah nel 2021, contenendo la minaccia contro raggiunge il picco di oltre 2500 attacchi missilistici al giorno in ottobre, anche il sistema antiaereo e antimissilistico israeliano ha mostrato i suoi maggiori punti deboli in questo tipo di ingaggio, vale a dire i costi associati a ciascuna intercettazione con un missile il cui prezzo supera i $ 50.000 e i ritardi nel rifornimento di questi missili per far fronte a massicci attacchi diffuso nel tempo. È proprio in queste due aree che Iron Beam intende fornire una risposta critica alla difesa israeliana.
      In effetti, il costo dell'utilizzo dell'Iron Beam è molto inferiore a quello dei missili Iron Dome. Secondo Rafael, un colpo del suo nuovo sistema costerebbe $ 3,5, che è il prezzo dell'energia necessaria al sistema per produrre il laser ad alta energia. Un tale costo di utilizzo e di proprietà è ovviamente da prendere con grande cautela, perché trasmesso dallo stesso produttore, secondo criteri che solo lui conosce. Pertanto, non è noto quali livelli di manutenzione siano necessari per mantenere in funzione il sistema, o semplicemente quale sia il tasso di usura dell'apparecchiatura nel tempo quando deve essere utilizzata. Mentre questi costi per un sistema missilistico come Iron Dome si basano soprattutto sul prezzo delle munizioni stesse con un possesso relativamente ridotto e vincoli di utilizzo proporzionalmente fintanto che i missili sono disponibili, non vi è alcuna garanzia che un sistema laser ad alta energia può anche essere modellato su un tale modello.

    (Meta-Défense.fr, 5 ottobre 2022)

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    La premier britannica Truss si definisce una "sionista"

    Come sapete, sono una grande sionista e una grande sostenitrice di Israele...

    "Sono un grande sionista", ha dichiarato la premier del Regno Unito Liz Truss ad un evento del suo partito.
    Nelle immagini condivise sui social media, si vede Liz Truss che tiene un discorso ad un evento del gruppo chiamato “Amici conservatori di Israele” (CFI), tenutosi nell'ambito di una conferenza del partito Conservatore al potere, di cui è il leader, nella città di Birmingham.
    Truss esprimendo la soddisfazione di partecipare per la prima volta all'evento “Amici conservatori di Israele” come primo ministro del Regno Unito, ha affermato:
    "Come sapete, sono una grande sionista e una grande sostenitrice di Israele. So che possiamo rafforzare le relazioni tra Israele e il Regno Unito".
    Mentre l'ambasciatore di Israele a Londra, Tzipi Hotovely, che ha partecipato all'evento, ha condiviso un post su Twitter, in cui ha scritto:
    "Premier (Truss), grazie per aver dichiarato con orgoglio di essere una sionista e per essere così buoni amici di Israele."

    (TRT italiano, 5 ottobre 2022)

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    Juventus-Maccabi, i giocatori ebrei a rischio: a digiuno per lo Yom Kippur

    Al tramonto di oggi si concluderà il digiuno imposto nella giornata più importante del calendario ebraico. Almeno 4 i giocatori israeliani che potrebbero non giocare stasera
      Non solo Ramadan. Il mese di digiuno per gli islamici (che il prossimo anno cadrà tra marzo e aprile), rispettato anche da tanti calciatori, non è l’unico precetto religioso che impone il digiuno. In questi giorni ricorre anche lo Yom Kippur, una delle feste più importanti per la religione ebraica, un giorno dedicato alla penitenza ed è considerato il giorno ebraico più santo e solenne dell’anno in cui si espiano i peccati. Cominciato ieri, si concluderà al tramonto di oggi, un’ora e mezza prima del fischio d’inizio di Maccabi Haifa-Juventus, la terza partita del girone di Champions League dei bianconeri.
      Per questa ragione, diversi giocatori della squadra israeliana potrebbero non essere disponibili, come confermato dallo stesso tecnico (che osserverà il digiuno) Barak Bakhar: «Anche alcuni giocatori lo rispetteranno, ma non escludo che ci sia chi vorrà giocare lo stesso. Si tratta di una ricorrenza importante per l’ebraismo che finirà un’ora e mezza prima dell’inizio del match e magari qualcuno riuscirà comunque a nutrirsi in modo sufficiente. In ogni caso — conclude — chi scenderà in campo sarà pronto, abbiamo una rosa ampia e potrò fare conto sugli stranieri, che non seguono la religione ebraica». Uno dei più a rischio è il capocannoniere del Maccabi, Omer Atzili, esterno 29enne arrivato ad Haifa a gennaio 2021. In dubbio anche il capitano Lavi, l’altro centrocampista Haziza e l’attaccante David.
      Il Maccabi non è l’unica squadra che deve far fronte a questa concomitanza. Il Celtic, che alle 21 affronterà il Lipsia, per esempio, non potrà contare per la stessa ragione su Liel Abada, 21enne esterno destro israeliano autore finora di 6 gol e un assist nelle 8 partite disputate nella Premiership scozzese. Abada aveva già saltato anche l’anno scorso la sfida di Europa League con il Betis Siviglia (persa 4-3 dagli scozzesi) che, nei fatti, si rivelò determinante nella mancata qualificazione ai sedicesimi di finale.

    (Corriere della Sera, 5 ottobre 2022)

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    Dal “free speech” al “Jews free”. Lo strano destino del campus di Berkeley

    Nell’ateneo simbolo della libertà di parola si bannano i sionisti

    di Giulio Meotti

    ROMA - Se non fosse un dramma si potrebbe discutere dell’ironia dei campus che si sforzano di segnalare la virtù progressista dell’“inclusione” in ogni modo, anche il più grottesco, ma che impediscono ai sostenitori dell’unica democrazia del medio oriente di parlare.
      Eppure è quello che succede a Berkeley, dove nacque il Free Speech Movement nel 1964. Nove diversi gruppi di studenti di giurisprudenza dell’Università della California hanno iniziato il nuovo anno accademico modificando il regolamento per assicurarsi che non saranno mai invitati “oratori che sostengano Israele o il sionismo”. E questi non sono gruppi che rappresentano solo una piccola percentuale della popolazione studentesca.
      Tra questi ci sono Women of Berkeley Law, Asian Pacific American Law Students Association, Middle Eastern and North African Law Students Association, Law Students of African Descent e Queer Caucus. Il decano della Berkeley Law, Erwin Chemerinsky, un sionista progressista, ha osservato che lui stesso sarebbe stato bandito secondo questo standard, così come il novanta per cento degli studenti ebrei. Gli studenti di giurisprudenza di Berkeley non sono i primi a escludere i sionisti. Alla State University di New York a New Paltz, gli attivisti hanno cacciato due vittime di aggressioni sessuali da un gruppo di sopravvissuti perché “sioniste”. All’Università della California meridionale hanno cacciato dal suo incarico il vicepresidente del consiglio studentesco ebraico Rose Ritch, minacciando di “mettere sotto accusa il suo culo sionista”. A Tufts, hanno cercato di estromettere il membro del comitato giudiziario del governo studentesco Max Price a causa del suo sostegno a Israele. Più della metà degli studenti americani è favorevole al boicottaggio di Israele, rivela un sondaggio del ministero degli Esteri israeliano. “Quand’è che l’antisionismo sfocia in generale antisemitismo?”. La domanda è stata posta su Twitter sabato scorso dalla cantante e attrice americana Barbra Streisand che reagiva alla decisione di diversi gruppi studenteschi dell’Università della California di bandire dal campus i “conferenzieri sionisti”. L’antisemitismo attecchisce come una pianta malefica nella Ivy League – la lega dell’edera delle otto più prestigiose università americane – e nei laboratori delle “equal opportunities” e del ricatto delle minoranze etniche o sessuali. Dopo l’ultimo conflitto a Gaza a Berkeley sono apparse sui muri del campus le scritte “Morte a Israele” e “Uccidiamo tutti gli ebrei”. Poi un altro slogan: “I sionisti dovrebbero essere mandati nelle camere a gas”.
      “L’apartheid è un crimine contro l’umanità e come leader studenteschi alla Berkeley Law crediamo di avere l’obbligo di agire”, afferma la dichiarazione approvata questa settimana. “Lo stato di Israele è uno stato di apartheid”. Mohammad è il nome più popolare in assoluto dato ai neonati in Israele nell’ultimo anno. Alla faccia del “genocidio palestinese”.

    Il Foglio, 5 ottobre 2022)

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    Accordo Libano – Israele: Netanyahu Accusa Lapid Di “Cedere Territorio Israeliano A Hezbollah”

    Nuovo scontro tra Netanyahu e Lapid sul potenziale accordo tra Libano e Israele per lo sfruttamento dei giacimenti di gas

    di Carrie Keller-Lynn

    Lunedì il leader del Likud, Benjamin Netanyahu, ha accusato il Primo Ministro Yair Lapid di aver contrattato il “territorio sovrano” di Israele in un potenziale accordo per risolvere la lunga disputa sui confini marittimi con il Libano.
    Lapid, rispondendo all’accusa, ha affermato che il leader dell’opposizione è amareggiato per non aver raggiunto un accordo quando era premier.
    Parlando con i giornalisti a Tel Aviv, Netanyahu ha ribadito la sua posizione secondo cui l’accordo “è illegale e non saremo obbligati a rispettarlo”, qualora dovesse tornare al potere dopo le elezioni del 1° novembre
    Il capo del Likud ha affermato che se l’accordo – i cui dettagli completi non sono stati resi pubblici – verrà firmato, il gruppo terroristico libanese Hezbollah “riceverà il territorio sovrano di Israele e un giacimento di gas del valore di miliardi di dollari”.
    Sostenendo che l’accordo comporta il trasferimento di un territorio sovrano, Netanyahu ha affermato che per essere valido dovrebbe essere approvato da almeno 80 membri della Knesset o da un referendum. Lapid e il Ministero degli Esteri hanno affermato che l’accordo riguarda solo il territorio nella sfera economica di Israele, non le acque territoriali, e quindi non richiede l’approvazione della Knesset o un referendum nazionale
    La questione dell’approvazione sarà probabilmente decisa dai tribunali, con l’Alta Corte di Giustizia che lunedì sera ha chiesto al governo di rispondere alla petizione di un gruppo di destra che cerca di bloccare l’attuazione dell’accordo da parte del governo ad interim senza il via libera del Parlamento.
    Nelle sue ultime frecciate al leader del Likud, Lapid lunedì ha accusato Netanyahu di sfogare le sue frustrazioni “per non aver raggiunto un accordo durante i suoi 10 anni di mandato” condividendo la propaganda del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah.
    Attraverso un intermediario americano, Israele sta negoziando da tempo per risolvere la disputa sui confini marittimi con il Libano. La maggior parte di questi negoziati si è svolta sotto Netanyahu, che è stato primo ministro dal 2009 al 2021.
    Commentando le clausole riportate nell’accordo, Netanyahu ha affermato che non riconoscerà la sovranità libanese sul giacimento di gas di Qana.
    “Non avevo intenzione di rinunciarvi. [Lapid] invece è arrivato e ci ha rinunciato, ha preso la nostra terra sovrana e l’ha data via. Io non l’avrei fatto”, ha dichiarato il leader del Likud al Times of Israel.
    “Non mi piego a richieste o minacce, e non mi piego a una richiesta americana”, ha continuato.
    Con l’obiettivo di risolvere una disputa marittima che riguarda i giacimenti di gas di Karish e Qana, Lapid ha dichiarato che l’accordo cederà Qana al Libano, ma consegnerà a Israele una percentuale ancora da definire dei proventi del gas.
    Il primo ministro ha sottolineato che Israele manterrà il pieno controllo del giacimento di Karish e delle sue entrate. Karish è stato minacciato da Hezbollah nei mesi precedenti l’inizio della produzione prevista per le prossime settimane.
    Domenica scorsa durante un briefing un alto funzionario israeliano ha sostenuto che l’accordo è una vittoria diplomatica e di sicurezza per Israele, dato il confine marittimo de facto con il Libano, creato da una linea di boe posizionate.
    Senza approfondire, Lapid ha detto che grazie all’accordo “Israele riceverà il 100% delle nostre esigenze di sicurezza”.
    Il primo ministro ha affermato che Netanyahu e i suoi alleati hanno attaccato l’accordo “senza nemmeno vederlo o senza sapere cosa contiene”.
    Netanyahu, tuttavia, ha ribadito che l’accordo di Lapid ha fortemente sfavorito Israele.
    “L’ex ambasciatore statunitense in Israele David Friedman ha detto oggi che Hezbollah ha ottenuto il 100% e Israele lo 0% e ha ragione. Lapid ha dato loro la torta e ci ha lasciato appena le briciole”, ha detto Netanyahu.
    Friedman, che è stato ambasciatore durante il periodo in cui gli Stati Uniti hanno mediato la disputa marittima tra Israele e Libano, ha twittato di ritenere che Israele non avrebbe ricevuto nulla nell’accordo.
    “Nessuno allora immaginava il 100% al Libano e lo 0% a Israele. Mi piacerebbe capire come siamo arrivati a questo punto”, ha scritto Friedman. In seguito ha twittato che “potrei sbagliarmi, [ma] credo che Israele riceva zero”.
    Il legislatore del Likud ed ex ministro dell’Energia Yuval Steinitz – che in passato ha preso parte ai negoziati – ha affermato che l’attuale accordo è “un ricatto”, citandone i termini. Ha anche inveito contro la tempistica, dichiarando a Radio 103FM che l’approvazione di un tale accordo da parte di un governo provvisorio prima delle elezioni è simile a un “rapimento”.
    Ad agosto, Steinitz ha dichiarato al sito gemello del Times of Israel, Zman Yisrael, che un accordo con il Libano non avrebbe avuto bisogno di essere portato alla Knesset o a un referendum per essere approvato.
    “Non accetto questa affermazione, che si tratti di una rinuncia alla sovranità”, ha dichiarato Steinitz in una conversazione con Zman Israel. “Le acque economiche non sono acque sovrane, perché altri Paesi, compresi quelli nemici, possono navigare nelle acque economiche o sorvolarle. L’affermazione che si tratta di una rinuncia alla sovranità è infondata in termini di diritto internazionale”.
    La sovranità marittima è regolata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, secondo la quale gli Stati costieri – come Israele e Libano – hanno 12 miglia nautiche di acque territoriali sovrane e una zona economica esclusiva di 200 miglia nautiche, che include diritti economici sovrani per le risorse naturali.
    Inoltre, Steinitz ha dichiarato che “quando ho gestito i negoziati tra Israele e Libano, non avevo alcuna intenzione di sottoporre un accordo all’approvazione della Knesset o a un referendum”.
    Alla domanda su come conciliare la sua posizione con Steinitz e l’UNCLOS, Netanyahu ha risposto che “ha sempre pensato che questa cosa debba essere portata all’approvazione della Knesset” se il territorio viene “effettivamente” trasferito.
    Oltre ad attaccare Lapid per aver “ceduto” il giacimento di gas, Netanyahu ha sostenuto che “consegnare” l’asset strategico ha il potenziale di riempire le tasche di Hezbollah.
    “C’è il pericolo che Hezbollah si armi, al momento è diventato più grande. Hezbollah riceverebbe miliardi per armarsi contro di noi”, ha dichiarato al Times of Israel.
    “Questa è una vergognosa resa sotto la minaccia del terrorismo che non ci farà comprare il terrorismo, ma piuttosto una guerra in condizioni molto più dure”, ha aggiunto nelle sue osservazioni. “Siamo in un periodo pericoloso”.
    Israele ha combattuto l’ultima volta contro Hezbollah nella sanguinosa Seconda guerra del Libano del 2006 e l’organizzazione sostenuta dall’Iran è considerata il gruppo terroristico meglio armato e organizzato ai confini dello Stato ebraico.
    Lapid è diventato premier a luglio, prendendo le redini dell’ex primo ministro Naftali Bennett quando la loro coalizione di condivisione del potere è crollata. Bennett starebbe valutando la sua opinione sull’accordo con il Libano, che secondo quanto riportato lunedì da Channel 13 è diverso da quello che si aspettava.
    Secondo Channel 12, se l’accordo venisse portato al voto del governo, Bennett avrebbe il potere di porre il veto.

    (Rights Reporter, 4 ottobre 2022)

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    Il discorso di Rav A.S. Toaff z.l. nel sessantesimo anniversario della nuova Sinagoga di Livorno

    di Gadi Polacco

    Or sono sessant'anni, il 24 Elul 5722- 23 settembre 1962 (92° della Breccia di Porta Pia in data ebraica...), veniva inaugurato il nuovo Tempio di Livorno, opera dell'Architetto Angelo Di Castro, con solenne cerimonia condotta dal Rabbino Capo Alfredo Shabbetai Toaff, coadiuvato dai Rabbini Elio Toaff e Bruno Ghereshon Polacco.
      In occasione del primo Kippur celebrato in quella sede, ove prima sorgeva l'imponente e famosa antica Sinagoga, venne stampato e diffuso un discorso di quello che è un Maestro fondamentale e di riferimento, anche storico e per il minagh, il rito, peculiare livornese che era appunto Rav A.S.Toaff.
      Succedette ad un altro grande ed amato Maestro, il Rabbino Samuele Colombo, assumendo ufficialmente la guida della Comunità nel 1924.
      Tra i suoi Maestri nomi quali Elia Benamozegh che gli conferì il primo titolo rabbinico (Maskìl) quando Toaff era appena diciottenne: ottenne il massimo titolo rabbinico (hakham) nel 1903, esaminato da una commissione presieduta da Rav Samuele Colombo e della quale facevano parte Cesare Shealtiel Fiano, altro Rabbino livornese, e Donato Camerini, Rabbino di Parma.
      Divenne poi anche Direttore del Collegio Rabbinico Italiano ed insegnò in ambito pubblico, anche universitario (tra i suoi maestri Giovanni Pascoli): sionista, non aderì mai al partito fascista e, per queste sue caratteristiche, unite all'essere ebreo e Rabbino, venne “osservato” dal regime.
      Autore di numerosi saggi, traduttore e appunto insegnante, in parallelo ovviamente con l'attività rabbinica, è stato testimone del drammatico passaggio storico determinato dalle persecuzioni e dalla guerra.
      Profondamente legato alla città e dalla città stimato, quando mancò terrenamente, il 18 novembre 1963, l’allora Vescovo, Emilio Guano, dette ordine di suonare a lutto le campane delle chiese di tutta la città.
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    Kippur 5723
    L’inizio delle regolari ufficiature in questo nuovo Tempio sia di auspicio di vita, salute, felicità alla Comunità intera come dal profondo del cuore augura
    il Rabbino Capo
    A.S.Toaff
    Si legge nel Talmud (Sanhedrin 22°): “Diceva R. Hanà Bar Biznà in nome di R. Simon il Pio: Chi prega bisogna che tenga presente che la divinità gli sta dinanzi, secondo è scritto nel salmo (XVI9: Io pongo il Signore dinanzi a me continuamente”.
    Quanta compostezza, quanto raccoglimento, quanta devozione porremmo nella preghiera se pensassimo che con essa ci rivolgiamo direttamente a Lui, che Gli parliamo in seconda persona come si parla a chi ci sta di fronte, che ci inchiniamo a Lui come ci stesse dappresso faccia a faccia, secondo che esprime il nome quanto mai significativo di Shehinà, che la teologia e la ritualistica nostra, considerandolo sotto questo rispetto, gli hanno dato.
    Noi per contro ci siamo abituati a trattarlo, absit injuria verbis, con troppa familiarità non mantenendo la compostezza e la devozione che si richiederebbero, neanche nei momenti più salienti della preghiera, nella Musaf, nella Neilà, che è la conclusione e costituisce la raccomandazione suprema alla sua infinita bontà. Alla sua indulgenza senza limiti.
    Nella Musaf e nella Neilà abbiamo, non sembri irriverente la espressione, una corsa alla berahà, come se essa rappresentasse la massima, l’unica nostra aspirazione. Su di essa voglio richiamare la vostra attenzione, invitandovi ad una riflessione ponderata e spassionata.
    Nel 4° libro del Pentateuco (Numeri VI 22-27) si legge: “Il Signore rivolto a Mosè disse. ‘Parla ad Aaron e ai suoi figli in questi termini: Così benedirete i figli i Israele dicendo loro Ti benedica il Signore e ti protegga. Faccia risplendere il Signore il Suo volto su di te e ti conceda grazia. Volga il Signore la sua faccia verso di te e ti conceda la pace. Essi (i sacerdoti) porranno il mio nome sui figli di Israele e io li benedirò. È questa una delle pochissime formule di preghiere e di benedizioni di cui il Pentateuco ci offre il testo. Tale formula detta berahà meshulleshet “benedizione triplice” perché consta di tre parti distinte, proviene dunque direttamente da Dio e appunto per la grande importanza che la sua origine le conferisce non si può recitare, come non si recitano il qaddish, la qedushà, il barechù che nella preghiera pubblica e con minian, quando cioè siano presenti non meno di dieci uomini di età maggiore, ed è stata inserita nella ripetizione della ’amidà, prima della benedizione ultima. Eccezion fatta per i digiuni, non si deve dire nelle preghiere pomeridiane perché talvolta che la recita potrebbe, dopo il pasto, non mettervi tutta l’attenzione e la devozione che essa esige. Così la birchat cohanim figura nel nostro rituale nella ‘amidà della mattina dei giorni feriali, del sabato, dei capi di mese, e, in altri giorni segnalati, anche nella musaf. Generalmente la dice l’ufficiante: nei giorni festivi e in Rosh ha -Shanà, l’ufficiante la recita soltanto a Shachrith mentre a Musad e nel giorno di Kippur anche a Neilà, se ci sono uno o più Cohanim presenti nel Tempio debbono in quanto discendenti degli Aronidi, recitarla essi stessi. Ma perché la berachà abbia in questi giorni una importanza maggiore, ma perché, nelle feste, verso la dine della preghiera, i Cohanim compresi dalla gioia di essere liberi per poterla recitare, come si deve, pronunciano la benedizione in una disposizione d’animo tale che la rende più accetta. Da ciò, e dal fatto che i Cohanim dicono essi la berahcà dall’Aron anziché dalla tevà, dopo essersi tolti le scarpe, è nata nel pubblico la convinzione che essa abbia una importanza superiore al consueto, e si è generalizzata l’abitudine che alcuni conservano anche nei sabati normali che i genitori aggiungono alla benedizione che i Cohanim danno alla collettività la loro personale. È un uso buono simpatico, commendevole, una prova d’affetto ma che non va esagerato come da qualche anno avviene qui da noi. Le donne per rigorosa prescrizione ebraica non possono stare nel Beth ha-keneseth frammiste agli uomini. Da che esiste il Tempio, anzi, da che esisteva il Beth ha-miqdash, il Santuario nazionale in Jerushalajim, dove le donne avevano il loro post, la ‘azarath ha-nashim, distinto e ben separato da quello degli uomini, la ‘azarath Israel, in tutte le sinagoghe della golà, grandi o piccole, antiche e moderne, alle signore è destinato il loro posto. Le ragioni della separazione essendo ovvie e facilmente comprensibili da chi conosce i principi elementari dell’ebraismo, mi dispenso dall’enumerarle. La nostra ritualistica che si occupa soltanto dei casi verificabili, non accenna nemmeno lontanamente alla possibilità che le donne si trovino nella sala degli uomini durante le ufficiature, e tanto meno nell’ora della birchat Cohanim. Oggi invece, noi siamo arrivati al punto che il primo giorno di Pesach, il primo di Rosh ha Shanà e il giorno di Kippur, i giorni dell’anno in cui il Tempio è più frequentato, molto tempo prima della birchat Cohanim, nella sala riservata agli uomini si riversa un numeroso elemento femminile. Le donne diano la berachà (adotto in mancanza di una migliore, questa espressione impropria) alle donne, nell’ambiente a loro riservato: le mamma alle figlie, le nonne alle nipoti, le suocere alle nuore, le sorelle maggiori alle minori, ma si eviti nell’intenzione di fare una cosa buona, una sconvenienza, La berachà che danno i Cohanim è valida per tutti i presenti, per gli uomini come per le donne, in qualunque parte del Tempio si trovino, né perde niente del suo valore se le donne non abbiano sul capo e sulle spalle il taleth o la mano del babbo, del marito, del nonno o del suocero.
    Parecchi anni or sono, quando nel nostro tempio monumentale durante la birchat Cohanim gli spostamenti non avvenivano, una vedova profondamente religiosa domandò al mio venerato predecessore se come potesse esser vicina all’unico figlio, orfano del padre che non aveva altri parenti. L’autorizzazione fu concessa purché madre e figlio rimanessero nell’atrio. Quantunque si trattasse di un caso eccezionale, l’accesso di una donna dove stanno gli uomini o viceversa non fu consentito. Mentre oggi vediamo donne invadere persino lo spazio destinato agli uomini, disturbando profondamente, in modo particolare finita la beracà il decoro e il prestigio delle ufficiature e la tranquillità che l’ufficiante deve avere. Non so se queste mie parole franche, ispirate dal desiderio che le sacre solenne riunioni si svolgano secondo le norme che la tradizione prescrive troveranno tutti voi disposti ad uniformarvisi. La mancanza di sorveglianti che persuadano le signore ad allontanarsi specie dai posti dove è meno indicata la loro presenza, mi consigliano di affidarmi esclusivamente alla vostra comprensione, che mi auguro vogliate dimostrare. (…)
    I fatti sui quali ho richiamato la vostra attenzione non sono i soli che dimostrano il nostro allontanamento dalle pure fonti della Torah. Ognuno di noi, non sempre scientemente e per deliberato proposito, ma talora soltanto per ignoranza, ha passato nel dimenticatoio precetti, osservanze, buone usanze che, per dirlo con parole di Mosè, dovrebbero costituire agli occhi degli altri popoli la prova della sapienza e dell’intelligenza nostre. Una introspezione sincera, spassionata, s’impone e tanto più indicata e utile quando accompagni la preghiera. Facciamo che non abbiano a verificarsi le parole che il Salmista (Salmo LXXXIII,5) pone nella bocca dei nemici d’Israele:“ Venite, annientiamolo, si che più non sia nazione, e nome d’Israele non venga ancora ricordato” Dio alla cui bontà, oggi più che mai facciamo ricorso, vorrà perdonarci e iscriverci nel libro della vita, amen.”

    (Shalom, 4 ottobre 2022)

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    Israele si ferma da stasera per lo Yom Kippur

    Chiusi i Territori Palestinesi, resta stato di allerta

    TEL AVIV - Dal tardo pomeriggio di oggi fino a domani sera Israele si fermerà per 25 ore in occasione di Yom Kippur (Giorno dell'espiazione), la maggiore ricorrenza religiosa del calendario ebraico che prevede il digiuno e la riflessione. Chiusi anche l'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv dalle 14 di oggi (fino alla sera di domani) e tutte le attività del Paese, trasporti urbani inclusi. Nello stesso arco di tempo - come di consueto - saranno fermati gli ingressi e le uscite dai Territori Palestinesi, Gaza compresa. Le forze di sicurezza restano tuttavia in allerta vista nelle ultime settimane la situazione di tensione, con numerosi attacchi ad obiettivi israeliani, nei Territori e gli avvisi dell'intelligence di possibili ulteriori attentati in occasione delle festività ebraiche che, dopo Kippur, proseguiranno con Sukkot (la Festa delle capanne, 9-16 ottobre) per chiudersi con Simchat Torah il 17. Come sempre, per tutta la durata di Kippur sarà interrotta la normale programmazione radio tv che riprenderà solo al termine della ricorrenza. Fermo anche ogni trasporto (compreso quello privato) con strade e autostrade invase da pedoni e da amanti della bicicletta. Il Waqf - l'ente religioso islamico - ha protestato oggi a Gerusalemme, secondo quanto riporta l'agenzia palestinese Wafa, per quello che ha definito "un assalto dei coloni protetti dalla polizia israeliana" questa mattina alla Spianata delle Moschee, il Monte del Tempio per gli ebrei.

    (ANSA, 4 ottobre 2022)

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    L’attentato alla Sinagoga di Roma, 40 anni fa: era il 9 ottobre 1982

    Nell’attacco morì un bambino di 2 anni e vi furono 40 feriti

    di Paolo Trapani

    Sabato 9 ottobre 1982, ore 12: presso la sinagoga di Roma volge al termine una celebrazione religiosa. La comunità ebraica festeggia contemporaneamente lo shabbat (festa del riposo), il bar mitzvah (di alcune decine di adolescenti) e lo Shemini Atzeret, a chiusura della festa di Sukkot. Nel tempio sono presenti almeno 300 persone (tra le quali 50 minorenni). In pochi minuti avviene l’incredibile e si scatena l’inferno. 

    • Attentato terroristico
      Cinque terroristi, vestiti in maniera elegante, entrano in azione. Tre si dispongono in modo da bloccare le potenziali vie di fuga di Via Catalana, su cui c’è l’uscita posteriore della Sinagoga. Altri due terroristi si posizionano davanti all’ingresso principale dell’edificio, posto su via del Tempio. I terroristi iniziano a lanciare bombe a mano e aprono il fuoco con i mitra sulla folla. L’attacco dura cinque minuti circa, poi il commando fugge a bordo di una Volkswagen rossa e di una Austin bianca.

    • Le vittime
      Le vittime dell’attacco sono 40 feriti e 1 morto: si tratta di un bimbo di 2 anni, Stefano Gaj Taché, che viene colpito da una scheggia di una bomba a mano. Tra i feriti ci sono anche i suoi genitori e il fratello, Gadiel Gaj Taché (4 anni). Oggi a Stefano è dedicato il piazzale adiacente la sinagoga. 

    • Indagini e rivendicazione
      Dopo l’attentato, secondo le indagini, l’azione venne attribuita al Consiglio rivoluzionario di al-Fath, fazione palestinese guidata da Abu Nidal, tra i responsabili di numerosi attentati contro obiettivi ebraici in Italia e in Europa negli anni ottanta.
      In 40 anni dal quel tragico sabato dell’82, i colpevoli dell’attentato antisemita, ritenuto il più grave in Italia dopo la seconda guerra mondiale, non sono stati mai rintracciati. Si è scoperta solo l’identità di uno dei cinque attentatori: Osama Abdel Al Zomar, arrestato il 20 novembre 1982 mentre cercava di passare il confine fra Grecia e Turchia. I riscontri della polizia e la testimonianza della sua fidanzata italiana portarono a identificarlo come uno dei componenti del commando.
      In 40 anni, nonostante numerose richieste di estradizione in Italia, Al Zomar non è stato mai assicurato alla giustizia del nostro Paese. La sua condanna definitiva è avvenuta in contumacia nel 1991. 

    • Polemiche sulla sicurezza
      L’attentato dell’ottobre 1982 per molti fu solo il culmine di un clima di odio feroce verso gli ebrei che si era sviluppato rapidamente in Europa come in Italia. La comunità ebraica levo’ subito fortissime le sue proteste contro le autorità di pubblica sicurezza italiane ritenute responsabili di aver sottovalutato i rischi che correvano gli ebrei nel pessimo contesto di quegli anni. 

    • Lodo Moro? 
      In Italia per anni si è discusso, dibattuto e polemizzato sul famigerato accordo segreto che le nostre autorità politiche avevano siglato negli anni ’70 con i combattenti arabi e palestinesi. La regia politica dell’accordo segreto si ritiene sia stata di Aldo Moro e in concreto il patto prevedeva che estremisti arabi e palestinesi potessero circolare liberamente in Italia, spostando armi e utilizzando i nostri confini, strategici nel Mediterraneo, come base logistica. Tutto ciò sarebbe avvenuto a fronte dell’impegno dei combattenti arabi di non compiere attentati terroristici contro i nostri concittadini. Sempre nel patto segreto si sarebbe prevista la totale impunità di tutti quei terroristi eventualmente fermati sul nostro territorio in quella fase storica. 

    • Le rivelazioni di Cossiga
      In un’intervista rilasciata il 3 ottobre 2008 al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga rivelò che lo Stato italiano aveva di fatto permesso ai terroristi di agire indisturbati per colpire la sinagoga. 
      A dicembre 2021 un’inchiesta del quotidiano Il Riformista ha svelato, basandosi su alcuni  documenti segreti, che vi era stata l’effettiva complicità delle nostre autorità politiche nel non fermare l’attacco.
      Cossiga, nella sua intervista, aveva spiegato che l’Italia aveva permesso al terrorismo palestinese di colpire obiettivi ebraici sul territorio italiano (il riferimento diretto fu proprio al ‘lodo Moro’). Queste le parole dell’ex Capo dello Stato: “In cambio di una ‘mano libera’ in Italia, i palestinesi avevano assicurato la sicurezza del nostro Stato e di obiettivi italiani al di fuori del Paese. Almeno fino al punto che gli obiettivi stessi non collaborassero con lo Stato d’Israele”. 

    • Allarmi del Sisde ignorati
      Nelle settimane precedenti il sanguinoso attacco alla sinagoga di Roma, i servizi di sicurezza italiani (Sisde in primis) avevano più volte segnalato i rischi per la comunità ebraica. Nonostante gli avvertimenti, la sinagoga non venne presidiata. Non solo non fu aumentata la sorveglianza, ma il 9 ottobre non era presente neppure la macchina della polizia che stazionava lì nelle occasioni più importanti. La sorveglianza sulla sinagoga e sul ghetto era stata predisposta solo dalle ore 19 di sera alle 7 della mattina seguente. Anche le indagini avviate subito dopo l’attacco non furono molto efficaci, tanto che non portarono risultati. L’attacco alla sinagoga di Roma rientra purtroppo nel lungo elenco dei misteri d’Italia. 

    (la Redazione, 4 ottobre 2022)


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    Ebrei: visita del presidente della Repubblica Mattarella al Tempio Maggiore di Roma domenica 9 ottobre

    In occasione del 40° anniversario dell’attentato al Tempio Maggiore di Roma del 9 ottobre 1982, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parteciperà alla cerimonia di donazione del Sefer Torà (rotolo della Torah) dedicato alla memoria di Stefano Gaj Taché, il bambino di due anni ucciso dai terroristi palestinesi nell’attacco alla sinagoga. Lo fa sapere oggi la Comunità ebraica di Roma. “La cerimonia di introduzione di un nuovo rotolo della Torà, in virtù della sacralità dell’oggetto – si legge in una nota -, rappresenta un’occasione di festa per la Comunità Ebraica. Lo svolgimento di questa cerimonia gioiosa in un anniversario così doloroso vuole rappresentare una dichiarazione di vita, pace e speranza nel futuro. Un segno opposto alla morte, alla guerra e al terrore che il 9 ottobre ricordiamo, e che è insito nell’atto stesso di introdurre un nuovo libro della Torà, emblema della vitalità e della continuità della vita ebraica”. La cerimonia religiosa si terrà domenica 9 ottobre alle ore 10.00 presso il Tempio Maggiore di Roma.

    (SIR, 4 ottobre 2022)

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    La disputa marittima col Libano forse risolta in una maniera inaccettabile per l’opposizione israeliana

    di Ugo Volli

    • Il problema geografico
      Un nuovo delicatissimo tema politico/giuridico entra nella campagna elettorale israeliana. È quello della delimitazione delle acque territoriali e delle conseguenti più ampie “zone di interesse economico esclusivo” fra Israele e il Libano. Si tratta di un problema di grande importanza strategica ed economica perché nelle acque del Mediterraneo antistanti la costa israeliana, a una trentina di chilometri da terra, sono state scoperti da un paio di decenni e sono sfruttati da qualche anno alcuni grandi giacimenti di gas, che si chiamano Tamar, Leviathan, Karish. La ricerca prosegue e i nuovi giacimenti da sviluppare si trovano nelle acque settentrionali di Israele, al largo di Haifa e di Acco. Per questa ragione da qualche anno è diventato importante delimitare esattamente il confine marittimo fra Israele e Libano, che prima non importava molto. A seconda di come si stabilisce il confine, infatti, almeno un giacimento, Karish, potrebbe cambiare proprietario fra i due paesi. La legge internazionale è apparentemente chiarissima: i confini fra le acque territoriali di due paesi contigui sono costituiti dalla perpendicolare alla linea della costa nella zona della frontiera terrestre. Ma le coste sono spesso frastagliate e certamente lo sono nella zona di Rosh Hanikrà, che anche gli israeliani spesso conoscono per le scogliere bianche e le grandi grotte che si possono visitare. Si tratta di un promontorio; a seconda dei punti di riferimento che vi si scelgono, la direzione della linea di costa può variare di qualche grado, e con essa anche la perpendicolare, cioè il confine marittimo.

    • La disputa
      Ma a distanza di trenta chilometri e passa, qualche grado vuol dire un bel po’ di mare, e soprattutto una grande area dei fondali, preziosi per il gas che contengono. Dunque da una decina d’anni si è aperto un contenzioso fra Libano e Israele. All’inizio Israele ha proposto una certa linea, più inclinata verso nord, il Libano un’altra, volta più a sud; ma quando Israele è sembrato disponibile ad accettarla, il governo libanese ha rilanciato esigendone una terza, ancora più meridionale, che comprende anche il giacimento di Karish, che Israele considera suo, tanto da averne già aggiudicato lo sfruttamento e di aver annunciato che una nave attrezzata inizierà il lavoro fra qualche settimana. Il problema dei confini marittimi non è inconsueto, anche l’Italia l’ha avuto con Francia e Spagna al largo della Sardegna e con Croazia e Slovenia nell’Alto Adriatico. Ma in questo caso vi sono diversi fattori che lo aggravano: il fatto che fra Israele e Libano in teoria vi è ancora uno stato di guerra, la terribile crisi economica del Libano, la presenza di un gruppo terrorista come Hezbollah che ne controlla i gangli centrali di quello stato, l’interesse spasmodico dell’Europa per la diversificazione delle forniture di gas.

    • Le trattative
      Da diversi anni vi sono trattative indirette fra Israele e Libano, attraverso una mediazione americana. Negli ultimi mesi la crisi si è aggravata per le minacce sempre più violente di Hezbollah, che ha dichiarato di voler bombardare coi missili le piattaforme israeliane di estrazione e addirittura di essere disposto a scatenare una guerra, se le pretese libanesi non fossero state accolte. Vi sono stati diversi scambi di proposte e una fitta azione diplomatica americana. Fino a qualche mese fa il problema era che Israele era disposto a un compromesso, ma non oltre la linea che era già stata proposta dal Libano ed era stata sancita anche dall’Onu, che però esclude il controllo libanese dal giacimento di Karish. Negli ultimi mesi però si sono succeduti gli annunci di un prossimo accordo e qualche giorno fa gli americani hanno consegnato ufficialmente alle due parti uno schema di soluzione, che sembra abbia raggiunto il consenso delle due parti.

    • L’accordo controverso
      Di questo accordo, che ancora è segreto, non si conoscono i dettagli, ma dalla reazioni degli interessati (per esempio dalla piena soddisfazione di Hezbollah e dalle parole con cui il primo ministro Lapid l’ha annunciato al consiglio dei ministri di domenica), sembra che la sostanza sia che Israele cambia posizione e accetta le richieste libanesi, cedendo quindi una zona consistente di territorio marittimo, in cambio del fatto che il Libano paghi a Israele una certa percentuale dei redditi derivanti dallo sfruttamento del giacimento conteso. Di fronte a un annuncio che sembra preludere a una firma imminente, l’opposizione è insorta. L’accordo infatti sarebbe concluso senza un voto parlamentare da un governo provvisorio privo di maggioranza, che non ha altri poteri legali oltre all’ordinaria amministrazione. Netanyahu l’ha denunciato molto duramente, dicendo che se dalle elezioni uscisse una suo governo (cosa abbastanza probabile) esso non si sentirebbe vincolato a un accordo concluso senza sanzione parlamentare. Ha anche ricordato che vi è una “legge fondamentale” (una cioè di quelle norma generali approvate con procedura speciale, che nel sistema politico israeliano tengono il posto della costituzione), che impone, nel caso di cessioni territoriali, oltre al voto della Knesset anche un referendum confermativo. Lapid ha replicato che l’accordo è urgentissimo e va nell’interesse del paese, perché rende il Libano meno dipendente dall’Iran; ma l’approvazione degli Hezbollah, che dall’Iran dipendono completamente, mostra che a Teheran l’accordo sta bene.

    • Una decisione importante
      Siamo in piena campagna elettorale e dunque la disputa diverrà certamente molto aspra ed andrà alla Corte Suprema, che già ha bloccato un paio di settimane fa il tentativo di Lapid di dare un incarico decennale a un nuovo presidente della commissione che sovraintende alla selezione degli altissimi incarichi statali. La Corte ha ricordato a tutti i limiti dei governi provvisori, annullando l’approvazione che alla nomina aveva dato il procuratore generale che sovraintende preventivamente alla legalità degli atti di governo. È una situazione che potrebbe ripetersi. Al di là della questione dei confini col Libano, certamente importantissima, la decisione è essenziale perché la procedura che vorrebbe adottare Lapid escludendo il voto parlamentare e quello popolare, potrebbe costituire un precedente per cessioni di territori nel Golan o in Giudea e Samaria, abrogando di fatto una norma di garanzia sul consenso popolare agli accordi di pace.

    (Shalom, 4 ottobre 2022)

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    Sondaggio antisemitismo in Francia: gli ebrei si sentono sempre meno sicuri

    di Paolo Castellano

    Il 29 settembre è stato rilasciato un nuovo studio sul livello di sicurezza percepito dagli ebrei che vivono in Francia. Circa la metà è preoccupata per la sicurezza dei propri figli tanto da chiedere loro di celare la propria identità ebraica quando sono fuori casa.
      Lo studio de l’Istituto Politico del Popolo Ebraico (JPPI) ha scoperto che il 45% degli ebrei francesi preferisce che i loro figli non rivelino in pubblico che sono ebrei. Ciò corrisponde a un incremento dell’antisemitismo in tutto il mondo, particolarmente in Francia e Germania.
      Come riporta Israel National News, il sondaggio ha rilevato che il 20% degli ebrei francesi è stato vittima di un’aggressione fisica antisemita. Il 37% ha detto che di frequente o regolarmente non si sente al sicuro nel vivere in Francia come ebreo.
      Un’ampia percentuale (45%) sostiene di aver detto ai figli di non rivelare la loro religione. Considerati i risultati dello studio, il JPPI ha richiesto con urgenza al governo israeliano di combattere la crescita dell’antisemitismo a livello globale attraverso il rafforzamento del rapporto tra Israele e gli ebrei della diaspora.

    (Bet Magazine Mosaico, 3 ottobre 2022)

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    Contratti sui vaccini: il presidente di Pfizer rifiuta di comparire al Parlamento europeo

    di Giorgia Audiello

    Il presidente di Pfizer, Albert Bourla, ha fatto sapere che non comparirà all’audizione presso il Parlamento europeo prevista il prossimo 10 ottobre e indetta dalla Commissione speciale europea che sta indagando sulla trasparenza delle procedure contrattuali inerenti ai vaccini anti-Covid 19. Bourla non ha fornito dettagli sulla sua scelta di non presentarsi in audizione: quello che si sa è che avrebbe dovuto rispondere a domande scomode riguardo alle modalità di stipulazione dei contratti. Nella vicenda risulta coinvolta anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che, insieme al numero uno di Pfizer, sembrerebbe non avere rispettato le procedure negoziali standard adottate per la stipula di altri accordi. Il che ha attirato l’attenzione di due organi di vigilanza che stanno indagando sui fatti: l’Ombudsman europeo, guidato da Emily O’Reilly, e la Corte dei conti Ue.
      Il rapporto della Corte dei conti europea ha rilevato, infatti, che la von der Leyen sarebbe stata coinvolta direttamente nei negoziati preliminari per il più grande contratto europeo sui vaccini anti-Covid 19, il quale prevedeva la fornitura di 1,8 miliardi di dosi, mentre la procedura negoziale generalmente seguita prevede colloqui esplorativi condotti da una squadra negoziale congiunta composta da funzionari della Commissione e dei Paesi membri. Oltre a ciò, la Commissione ha rifiutato di fornire le prove delle trattative con Pfizer, tra cui i verbali e, soprattutto, i messaggi di testo scambiati tra la von der Leyen e Bourla in vista del terzo contratto da 1,8 miliardi di dosi. La Commissione ha detto di non poterli consegnare al comitato d’inchiesta, in quanto sarebbero stati cancellati.
      La questione degli sms era stata sollevata nell’aprile del 2021, quando il New York Times aveva riferito lo scambio di messaggi tra la von der Leyen e Bourla e la relativa richiesta di renderli pubblici. Quando Bruxelles ha fatto sapere di non poterli rendere accessibili poiché non erano stati conservati, è stata effettuata una denuncia presso il mediatore europeo, giustificata dal fatto che gli sms rientrano nel concetto di “documento”, previsto dal regolamento 104/2001. Nell’audizione prevista il prossimo 10 ottobre, dunque, il presidente di Pfizer avrebbe dovuto chiarire questo e altri aspetti, ma il portavoce dell’azienda farmaceutica ha fatto sapere che al suo posto interverrà Janine Small, responsabile del gruppo per lo sviluppo dei mercati internazionali. Tuttavia, non sarà la stessa cosa, dal momento che solo Bourla può fare chiarezza sui messaggi privati ricevuti da von der Leyen. Anche quest’ultima, del resto, non si è espressa sull’argomento, trincerandosi dietro un sospetto “silenzio stampa”, nonostante il mediatore europeo, Emily ÒReilly, abbia fatto pressione per avere chiarimenti in merito.
      Dal canto suo, la belga Kathleen Van Brempt, presidente della commissione speciale che indaga sugli acquisti dei vaccini anti-Covid, ha riferito a Politico di essere «profondamente rammaricata» per la decisione di Bourla di non testimoniare in Parlamento europeo. Ancora una volta, dunque, non ci sarà probabilmente la possibilità di fare luce su una questione della massima importanza che riguarda tutti i cittadini europei e che rischia di trasformarsi in una valanga per gli attori direttamente coinvolti nella vicenda, i quali sembrano voler sfuggire alle loro responsabilità, rendendo così ancora più grave e sospetta la loro posizione.

    (L'Indipendente, 3 ottobre 2022)
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    Dunque Albert Bourla, il Presidente di Pfizer che Netanyahu svegliava alle tre di notte implorandolo di fargli arrivare al più presto vagonate di vaccini, rifiuta di dare spiegazioni sui suoi traffici commerciali. Probabilmente pensa di non essere obbligato, nella sua posizione, a rendere conto pubblico dei suoi atti. La questione vaccinale antipandemica si rivelerà forse un giorno una delle più losche e immorali manovre di speculazione sulla salute delle persone. Qualcosa si sta muovendo, ma poiché si cercherà di graduare l'apertura degli occhi da parte della gente, riportiamo due articoli presentati l'anno scorso su queste pagine. M.C.

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    Il malaffare farmaceutico. Parla l'ex vicepresidente di Pfizer

    Abbiamo trovato in rete un video del dr. Peter Rost, ex vicepresidente di Pfizer. E' datato 3 marzo 2017, dunque quando non c'erano ancora i "no-vax". Sotto il video compare un solo breve commento, segno che non è stato molto visitato, e forse è stato "dimenticato" in rete. Ha la sottoscritta in italiano, ma riportiamo comunque il testo per esteso. Dice cose che sono note o facilmente immaginabili, ma poiché è considerato immorale chi resiste ai vaccini, è bene che si sappia qual è la base morale che spinge le multinazionali farmaceutiche a promuovere il mercato dei vaccini: i soldi. Soltanto i soldi. Il dio Mammona.

    «Le università, le istituzioni sanitarie e tutti coloro che ho incontrato quand'ero a capo di una casa farmaceutica, tutti vogliono soldi. Nessuno ha soldi e tutti ne hanno bisogno. Il governo non ha soldi e le università non ne hanno. Le uniche coi soldi sono le grandi multinazionali, e loro ne hanno tanto, e lo usano per esercitare influenza. Il modo in cui viene fatto è il seguente: dai a queste istituzioni e organizzazioni delle donazioni per ricerche contro il cancro, per fare insieme delle ricerche, sviluppi delle amicizie, ti assicuri che queste istituzioni siano in debito con te. Paghi i professori, i ricercatori e i dottori direttamente, oppure li fai andare in giro per il paese come speaker, per parlare in conferenze, e li paghi 1000, 2000 dollari al giorno, a volte di più... Dai dei soldi che vanno in programmi educativi dai quali queste istituzioni ricavano guadagni, e questi programmi dovrebbero essere indipendenti dall'organizzazione che li ha sponsorizzati. Ma noi sappiamo bene che chi lavora con un badget promozionale di una multinazionale, probabilmente darà quei soldi alle università che fanno programmi che sostengono l'uso del medicinale prodotto da quella multinazionale. E coloro che non lo fanno o che in qualche modo lo criticano non ricevono soldi. Sappiamo tutti che è così che funziona e questo significa che anche se ufficialmente diciamo: "Noi non influenziamo quello che fanno, noi abbiamo solo donato dei soldi, possono fare quello che vogliono", la realtà è che non continueranno a ricevere soldi a meno che non dicano quello che desideriamo. Loro lo sanno, tu lo sai e forse è solo il pubblico che non lo sa. Ed è così che si influenza la classe medica: coi soldi, semplicemente.»

    Si noti in particolare come opera una casa farmaceutica con le istituzioni a cui fa "donazioni": "... ti assicuri che queste istituzioni siano in debito con te". E' la tecnica dello strozzino: spendi pure i soldi che ti ho prestato, quando non sarai più in grado di restituirmeli, sarai costretto a fare quello che ti dico io. Tra le istituzioni a cui le multinazionali farmaceutiche fanno "donazioni" ci sono intere nazioni, che poi devono sottoporsi agli obblighi imposti dai creditori. Ma non è tirannia sanitaria, è soltanto mercato internazionale, così come è stato sempre inteso. Il mercato del dio Mammona. M.C.

    (Notizie su Israele, 8 settembre 2021)


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    Le industrie farmaceutiche «inventano le malattie», il vecchio documentario Rai diventa un caso

    «Mi chiamo Peter Rost, sono un medico, e ho lavorato per circa vent’anni nel settore farmaceutico, in ultimo alla Pfizer come vicepresidente del settore marketing, e dopo essermene andato dalla Pfizer per aver denunciato pubblicamente alcune pratiche illegali, ho lavorato come scrittore, giornalista e consulente negli Stati Uniti. Ho definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”.

    Dopo il servizio sui coronavirus dei pipistrelli studiati in Cina, un altro vecchio servizio Rai – ora a quanto sembra non visionabile sul sito dell’azienda ma comunque presente nell’archivio – sta circolando sul web e, in piena pandemia, si può facilmente intuire il perché. Il titolo è «Inventori di malattie» ed è un’inchiesta del giornalista, scomparso di recente, Silvestro Montanaro. Il documentario contiene tra le altre un’intervista al medico ‘insider’ Peter Rost, che ha lavorato per anni ai vertici di importanti case farmaceutiche, in ultimo alla Pfizer (come noto, una delle aziende distributrici di vaccini per il Covid-19 o Virus del Pcc). Quest’ultima è con molta probabilità tra le ragioni ultime per cui il video è diventato virale, ma c’è dell’altro.
      Nell’inchiesta del 2009 del programma Rai "C’era una volta", condotto allora da Montanaro, veniva messo in luce infatti come l’industria farmaceutica sia in qualche modo costretta a ‘creare’ sempre nuove malattie per continuare a generare profitti sempre più grandi. In particolare verrebbero messe in atto strategie con cui si ‘inventano’ malattie già anni prima dell’uscita di un certo farmaco, così da assicurarsi poi i profitti delle vendite di quest’ultimo, dopo un periodo adeguato di marketing e pubblicità. Insomma, niente altro che «farmaci per gente sana». Questo quindi ha portato in molti, soprattutto chi nega l’esistenza del virus Covid-19 (o comunque chi mette in discussione la sua reale pericolosità o gravità, o chi critica le misure di lockdown), a ricollegare l’attuale pandemia alle dinamiche illustrate nel documentario.
      Il fenomeno viene descritto nel video come noto e diffuso e prende il nome di ‘disease mongering’, ovvero la commercializzazione delle malattie. In pratica significa che portando agli estremi la definizione di malattia, si possono produrre altre e nuove malattie, facendo rientrare tra i segnali di queste ultime dei sintomi molto confondibili e/o diverse sensazioni comuni e spesso normali che le persone hanno.
      Il punto sottolineato dal documentario ad ogni modo, non è che non esista alcuna patologia e che tutti i farmaci siano quindi inutili per tutti, ma che spesso e volentieri, in maniera scorretta o per esigenze di mercato, si tende a far leva sulle emozioni di panico e sulla paura per dei sintomi lievi o comunque sopportabili e forse destinati a passare da soli, al fine così di creare una domanda di farmaco più estesa per quella determinata malattia e vendere così più farmaci di quanti realmente ne servirebbero. E questa strategia sembra avere enormemente successo a volte, tanto da generare ingenti guadagni, ma allo stesso tempo anche molti danni. Quegli stessi farmaci potrebbero infatti generare a loro volta nuovi sintomi o effetti collaterali che richiedono nuove cure e quindi nuovi farmaci da poter vendere.
      Tuttavia oltre che a estendere notevolmente la domanda dei farmaci per le malattie già esistenti, si spiega nell’inchiesta, le case farmaceutiche riuscirebbero a creare persino malattie che non esistono pur di vendere un farmaco. Potrebbe sembrare che questo passaggio nel video avalli quindi le idee di quelli che sostengono che il Covid-19 non esista per nulla: ma nell’inchiesta, a tal riguardo, si prendono come riferimenti condizioni di partenza molto diverse dalle dinamiche dei virus, come timidezza, menopausa e invecchiamento, e non si fa riferimento ai virus. Ad ogni modo si dà comunque ampio spazio alla strategia della paura adottata dalle industrie farmaceutiche. Per tale ragione, inevitabilmente e di questi tempi, il video è diventato virale.
      Nell’inchiesta il medico ‘insider’ Peter Rost esordisce così, entrando a gamba tesa contro il settore farmaceutico: «Mi chiamo Peter Rost, sono un medico, e ho lavorato per circa vent’anni nel settore farmaceutico, in ultimo alla Pfizer come vicepresidente del settore marketing, e dopo essermene andato dalla Pfizer per aver denunciato pubblicamente alcune pratiche illegali, ho lavorato come scrittore, giornalista e consulente negli Stati Uniti. Ho definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”. E intendevo dire che – esattamente come il crimine organizzato – il settore farmaceutico è stato dichiarato colpevole di reati molto grossi, e ha pagato multe di miliardi di dollari; è molto potente, e se qualcuno prova a parlare apertamente di quello che succede in quel mondo, viene letteralmente mandato via a calci. E quindi, il settore farmaceutico si comporta e ha un potere sulla politica molto simile alla mafia».
      Poi continua, rincarando la dose e mettendo in risalto la connessione tra case farmaceutiche, business e borsa a livello mondiale: «A Wall Street non importa quanti soldi fai o quali sono gli utili che riesci a ottenere, l’unica cosa che interessa a Wall Street è quanti utili in più farai l’anno successivo. Perciò si instaura una specie di circolo vizioso, per cui i tuoi successi passati, l’enorme successo ottenuto con un farmaco importante significano che devi fare ancora meglio con i nuovi farmaci anche se non hai niente in cantiere, e ciò spinge le aziende a fare cose illegali, cose che non dovrebbero fare».

    (Epoch Times, 16 febbraio 2021)


    Domanda: le affermazioni di Peter Rost sono tutte false e tendenziose? sono del tutto incredibili? sono espressioni "deliranti" di un incorreggibile no-vax? Se uno risponde Sì, è meglio lasciarlo stare: dorme sonni tranquilli e nel breve tempo non si può fare molto per recuperarlo. La maggioranza invece risponderà No, ma è proprio per questo che si fa di tutto per discreditare e mettere a tacere non solo chi presenta prove documentabili di "malaffare farmaceutico", ma anche chi soltanto osa fare di questo argomento oggetto di discussione. Non si deve discutere, si deve ubbidire. Punto e basta. Si deve innalzare il venerando motto dell'Arma dei Carabinieri: "Usi a ubbidir tacendo e tacendo morir". Anche se di prima dose. O di seconda, o di terza, o di quarta, che importanza ha? Purché finché si resta in vita si possa girare il mondo col Green Pass in tasca. L'asservimento è bello. L'asservimento protegge. Viva la socioservitù! M.C.

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    Nella campagna elettorale israeliana forse iniziano a emergere i veri temi politici

    di Ugo Volli

    • Finalmente le elezioni
      Fra poco meno di un mese, il prossimo 1° novembre, in Israele si vota per la Knesset, il parlamento monocamerale. È la quinta consultazione politica in tre anni ae mezzo, perché da tutti i parlamenti eletti in questi anni non si è riusciti a formare un governo stabile. Ci sono certamente molte ragioni per lamentarsi di questa instabilità, che lascia la guida del paese a governi privi di maggioranza e dunque non legittimati a prendere decisioni di lungo periodo; ma è certamente meglio per un paese avere elezioni frequenti e dal risultato non precostituito, come accade a Israele, che non averle affatto, come succede nell’Autorità Palestinese, o averne regolari ma col risultato precostituito, come in Iran o in Russia. La democrazia israeliana non riesce a formare governi, perché l’opinione pubblica è divisa e il meccanismo elettorale è concepito piuttosto per rispecchiare la pluralità del paese che per garantire governabilità, come fa invece il sistema vigente in Italia; ma resta una democrazia vivace, partecipata e liberale.

    • Una campagna regolare
      E’ degno di nota che la campagna elettorale si sta svolgendo nella massima regolarità, nonostante l’intensificarsi del terrorismo palestinista, che è riuscito per esempio a creare situazioni molto difficili riproducendosi in centri come Jenin. I partiti hanno preso atto rapidamente della crisi della maggioranza e hanno cercato di rinnovare la loro offerta politica, ci sono stati diversi cambiamenti degli schieramenti elettorali, sono state presentate le liste dopo consultazioni interne con molte sorprese, si sono svolti incontri elettorali, dibattiti, anche polemiche molto dure, ma sempre nella massima regolarità. Non è banale poterlo dire per un paese in guerra, con un forte nemico esterno (l’Iran) e molte organizzazioni terroristiche che lo attaccano sul suo stesso territorio.

    • La frattura politica
      La ragione per cui si sono moltiplicate le elezioni è che esistono due blocchi consolidati con quasi lo stesso peso: da un lato vi è chi vuole un governo di centro-destra guidato da Netanyahu: il Likud, i gruppi religiosi, i nazionalisti, cui questa volta i sondaggi attribuiscono un risultato fra i 59 e i 61 seggi (sui 120 della Knesset). Nelle ultime quattro elezioni passate i risultati erano fra i 54 e i 59. Dall’altro vi è un’alleanza unita solo dal rifiuto di Netanyahu, composto dalla sinistra estrema di Meretz (e anche dei laburisti, sempre più simili a loro, anche se i due partiti si ostinano a non fondersi) e da alcuni partiti personali: a centrosinistra quello di Lapid e quello di Gantz (che comprende diversi ex alti ufficiali). A destra quelli dei transfughi per odio nei confronti di Netanyahu: il partito di Lieberman, nelle ultime elezioni anche quelli di Sa’ar (ora fuso con Gantz) e di Bennett (ora in via di sparizione dopo il fallimento del suo leader come primo ministro e il suo ritiro dalla politica). Dopo le precedenti elezioni si è unito a loro anche un partito arabo legato alla fratellanza musulmana, Ra’am, arrivando così a una maggioranza di 61 seggi. Era chiaro fin dall’inizio che una coalizione così eterogenea non poteva reggere e infatti si è dissolta dopo meno di un anno. 

    • I partiti arabi
      Un altro gruppo arabo, la “lista unita” rimase fuori dal gioco. Ora da questa lista si è staccato il più velenoso partito antisionista, Balad, di cui un leader è da anni in fuga, dopo essere stato condannato per spionaggio. La lista che resta sarà probabilmente più debole, ma potrebbe decidersi a entrare in una maggioranza anti-Netanyahu, come ha fatto Ra’am un anno fa, dandole i voti che le mancano per pareggiare la maggioranza di centrodestra. Ma come si è visto già con l’ultimo governo, questo appoggio di partiti antisionisti costa caro e soprattutto produce tensioni insuperabili con i sionisti della coalizione.

    • La dichiarazione di Lapid
      Parlando all’assemblea generale dell’Onu il primo ministro provvisorio Yair Lapid ha riproposto la vecchia politica dei due stati o dello scambio di terra in cambio di pace con annesse “sincere” trattative, che è il cavallo di battaglia delle sinistre in Europa e negli Usa e che era stata rifiutata dall’elettorato israeliano e resa obsoleta dai rapporti che Israele è riuscito a stringere con gli stati arabi. Naturalmente si tratta di un’opinione legittima, anche se certamente distruttiva per Israele: perché accettare la costituzione di un altro stato come Gaza in Giudea e Samaria, magari con una parte di Gerusalemme come capitale? Ma l’uscita di Lapid può essere molto positiva, perché potrebbe riorientare il dibattito elettorale dalle persone ai programmi e alle scelte politiche decisive che il nuovo governo dovrà compiere: che fare con un Iran sempre più interventista anche se minato dalla rivolta interna, che ormai è diventato uno stato quasi-atomico? Che fare con il terrorismo palestinese e i movimenti che lo appoggiano, inclusa l’Autorità Palestinese? Come schierarsi nel conflitto fra Russia e occidente? Se le elezioni si svolgeranno su questi temi e gli altri decisivi in materia economica, sui problemi della giustizia ecc., è possibile che ne esca una maggioranza abbastanza compatta da reggere nel tempo e guidare Israele verso una direzione precisa.

    (Shalom, 3 ottobre 2022)

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    Tutte le manovre russe dietro l’accordo Hamas-Siria

    Che cosa cela l’accordo Hamas-Siria.

    di Giuseppe Gagliano

    Hamas, grazie alla fondamentale mediazione di Mosca, ha posto in essere un accordo fondamentale – ufficializzato il 16 settembre – con il regime siriano.
      Questo accordo ha richiesto mesi di lavori posti in essere sia a livello diplomatico che a livello di intelligence. Vediamo di ricostruire alcune fasi che hanno portato al suo raggiungimento.
      Già durante il mese di luglio Hamas era in una ottima posizione rispetto al Fatah. Infatti il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, aveva visitato Beirut dal 19 al 26 giugno nel tentativo di avere il sostegno siriano e tracciare una strada verso Damasco. Vista l’importanza dell’accordo – che poi di fatto si è realizzato -, a giugno Ismail Haniyeh è andato insieme ai suoi collaboratori più stretti, e cioè Khalil al-Haya, Moussa Abou Marzouk e Saleh al-Arouri, che è responsabile del ramo di Istanbul di Hamas e ha svolto un ruolo fondamentale nel rafforzamento del partito in Cisgiordania.
      Nello specifico, il 26 febbraio al-Arouri era riuscito a garantire un incontro con Haniyeh per una possibile riconciliazione di Hamas con Damasco. Ma anche Hasan Nasr Allah, segretario del partito sciita Hezbollah, ha svolto un ruolo importante per concretizzare l’accordo del 16 settembre: Nasrallah è stato incaricato di negoziare il ritorno dei membri del partito nelle aree siriane controllate dalle forze di Bashar al-Assad – incluso il campo profughi palestinese di al-Yarmouk – nonché la riapertura di un ufficio di partito nella capitale.
      Ritornando all’accordo del 16 settembre, un ruolo importante è stato svolto anche dall’Iran. Entriamo nei dettagli: il 13 settembre Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, è andato a Mosca su invito del Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov. L’oggetto della discussione è stata naturalmente la necessità di riconciliarsi con la Siria. Sempre a Mosca Haniyeh ha incontrato anche l’ambasciatore iraniano Qassem Galili. Questo incontro ha consentito all’Iran di svolgere un ruolo rilevante per riaprire le relazioni diplomatiche con la Siria.
      In altri termini l’accordo ufficializzato il 16 settembre, se rappresenta un successo per Hamas, rappresenta al contrario un fallimento per il partito rivale e cioè Fatah, guidato da Mahmoud Abbas, nonostante il fatto che proprio Fatah avesse cercato di stabilire buoni rapporti con la Siria.
      Questo ruolo di mediazione era stato svolto da Samir Al Rifai, inviato dell’Autorità palestinese a Damasco. Lo stesso aveva incontrato il 21 giugno il vice ministro degli Esteri siriano, ora ambasciatore a Mosca, Bashar Jaafari.

    (Start Magazine, 3 ottobre 2022)

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    Gas. Nel Mediterraneo: Imminente accordo tra Libano e Israele

    Sarebbe imminente un accordo tra Libano e Israele per lo sfruttamento degli enormi giacimenti di gas scoperti di fronte alle coste dei due paesi confinanti ma ancora formalmente in guerra. Proteste di Netanyahu.

    L’imminente accordo sul confine marittimo israeliano con il Libano è una vittoria per la sicurezza di Israele, ha sostenuto domenica sera un alto funzionario israeliano.
      “Gli interessi di sicurezza di Israele sono ancorati nell’accordo”, ha dichiarato il funzionario, indicando la linea di boe marittime israeliane che si estende per cinque chilometri (circa tre miglia) nel Mediterraneo da Rosh Hanikra.
      “La linea di boe è un’importante linea di sicurezza israeliana, che non è mai stata approvata da nessun attore esterno”, ha detto il funzionario durante un briefing telefonico con i giornalisti israeliani. “Questo permetterà a Israele di trattarla come il suo confine territoriale settentrionale”.
      Israele ha dispiegato le boe dopo il ritiro dal Libano del maggio 2000. Il confine segnava i limiti di dove Israele opera unilateralmente con piena libertà di azione.
      La linea sarà il limite settentrionale delle acque israeliane per i primi cinque chilometri dalla costa, dopodiché il confine seguirà il margine meridionale dell’area contesa, noto come Linea 23.
      L’accordo serve anche gli interessi economici dei libanesi, che godranno di diritti economici nell’area delimitata dalla linea 23 a sud.
      Il funzionario ha negato con forza che Israele abbia ceduto a tutte le richieste libanesi – come ha accusato il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu – sottolineando il fatto che Beirut aveva chiesto che la linea 29 fosse il confine più a sud. Questo avrebbe dato al Libano parti del giacimento di gas di Karish.
      Ci sarà una compensazione per Israele per aver rinunciato ai diritti sul giacimento di gas di Qana, una parte del quale si trova nelle acque israeliane.
      “Stiamo ancora lavorando sui dettagli di questo accordo con la Total”, ha detto il funzionario, riferendosi alla multinazionale francese dell’energia TotalEnergies. Non si tratta di un accordo tra Israele e Libano, ma tra Israele e il consorzio”.
      Se entrambe le parti approveranno l’accordo, questo sarà vincolante e ancorato al diritto internazionale, ha dichiarato l’alto funzionario.
      L’accordo include una sezione che prevede una sorta di evento congiunto con una rappresentanza israeliana e libanese per celebrare l’accordo. “Lo consideriamo molto importante”, ha detto il funzionario.
      Non si sa ancora dove si svolgerà la cerimonia e chi rappresenterà la parte israeliana.
      Israele deve ancora approvare ufficialmente il piano, anche se il Primo Ministro Yair Lapid e il Ministro della Difesa Benny Gantz hanno risposto positivamente. Il funzionario ha detto che i ministri dovrebbero votare su questo piano durante una riunione di gabinetto giovedì, anche se il procuratore generale deve ancora emettere una questione legale sulla questione.
      “C’è l’urgenza e la necessità di raggiungere un accordo nel prossimo futuro e senza ritardi, al fine di prevenire un’escalation di pericoli per la sicurezza, che è altamente probabile, e di utilizzare la finestra unica di opportunità per raggiungere un accordo”, ha spiegato un funzionario dell’IDF, secondo quanto riportato da Channel 12.
      “È ancora possibile che il Libano ritratti l’accordo”, ha dichiarato l’alto funzionario governativo, sottolineando che Israele inizierà a estrarre gas da Karish indipendentemente dallo status dell’accordo.
      “Hezbollah non è direttamente parte di questo accordo”, ha detto il funzionario. “I leader tengono conto della posizione di Nasrallah, ma lui non è un negoziatore diretto”.
      Lapid ha confermato domenica che Israele ha ricevuto la proposta degli Stati Uniti, a lungo negoziata, per risolvere la disputa sui confini marittimi con il Libano e ha affermato che il piano preserva gli interessi regionali di Israele.
      Gli Stati Uniti hanno consegnato il piano scritto al presidente libanese Michel Aoun sabato.
      “Stiamo discutendo gli ultimi dettagli”, ha dichiarato Lapid, avvertendo che è ancora troppo presto per considerare l’accordo completato.
      “Non ci opponiamo allo sviluppo di un ulteriore giacimento di gas libanese, dal quale riceveremo ovviamente la quota che ci spetta”, ha detto Lapid.
      “Tale giacimento indebolirà la dipendenza del Libano dall’Iran, frenerà Hezbollah e promuoverà la stabilità regionale”.
      Ma ha insistito sul fatto che “come abbiamo chiesto fin dal primo giorno, la proposta preserva pienamente gli interessi diplomatici e di sicurezza di Israele, così come i nostri interessi economici”.
      “Per più di 10 anni, Israele ha cercato di raggiungere questo accordo, che rafforza la sicurezza e l’economia israeliana”, ha dichiarato Lapid.
      Sabato Aoun ha incontrato l’ambasciatore statunitense in Libano Dorothy Shea e ha ricevuto la proposta scritta del mediatore statunitense Amos Hochstein per la demarcazione del confine marittimo con Israele.
      I media statali libanesi hanno dichiarato che il governo sta lavorando rapidamente per formulare una risposta al piano.
      Il testo della proposta non è stato reso pubblico.
      La disputa marittima riguarda circa 860 chilometri quadrati del Mar Mediterraneo, che comprendono lucrosi giacimenti di gas offshore.
      I colloqui sui diritti dell’area, mediati dagli Stati Uniti e oggetto di lunghe ma indirette trattative tra Gerusalemme e Beirut e di ripetute minacce da parte del gruppo terroristico Hezbollah, hanno fatto progressi nelle ultime settimane.
      Le discussioni sono iniziate sotto gli auspici del precedente governo, guidato dall’allora primo ministro Benjamin Netanyahu.
      Domenica Netanyahu ha affermato che “Lapid non ha il mandato di consegnare a uno Stato nemico territori sovrani e beni sovrani che appartengono a tutti noi”.
      Netanyahu ha anche detto che Lapid si è “arreso alle minacce di Hezbollah” e che se dovesse formare un governo dopo le elezioni del 1° novembre, non sarebbe vincolato dall’accordo.
      Lapid ha risposto con un tweet rivolgendosi direttamente a Netanyahu: “Per 10 anni hai fallito nel tentativo di portare avanti questo accordo, almeno non danneggiare gli interessi di sicurezza di Israele e non aiutare Hezbollah con messaggi irresponsabili”.
      Anche il ministro della Difesa Benny Gantz è intervenuto sui commenti di Netanyahu, accusando il leader dell’opposizione di essere guidato da “considerazioni politiche irresponsabili”.
      “Continueremo a curare gli interessi politici, di sicurezza ed economici dello Stato di Israele con responsabilità e senso dello Stato”, ha twittato.
      Le tensioni sono aumentate dopo che, all’inizio dell’anno, Israele ha spostato una nave per l’esplorazione del gas nel campo di gas conteso di Karish e ha recentemente dichiarato che inizierà a estrarre dal sito. Il mese scorso il capo di Hezbollah Hassan Nasrallah ha minacciato che i missili della sua organizzazione terroristica sostenuta dall’Iran erano “agganciati” a Karish.
      Tuttavia, in un intervento televisivo di sabato, Nasrallah ha affermato che la bozza di accordo statunitense apre “nuovi e promettenti orizzonti per il popolo libanese, salvando il Paese dalla crisi in cui è caduto”.
      Il Libano sostiene che il giacimento di gas di Karish si trova in territorio conteso, mentre Israele afferma che si trova nelle sue acque economiche riconosciute a livello internazionale.
      Il mese scorso, l’ufficio di Lapid ha giurato che Israele procederà all’estrazione del gas da Karish con o senza un accordo sul confine marittimo con il Libano.

    (Rights Reporter, 3 ottobre 2022)

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    Il campo di battaglia in tasca. Migliaia di nuovi sistemi tattici di Orion per l'esercito israeliano

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    Orion (o Olar/Amud, come viene chiamato in AOI) è un sistema di fanteria mobile forte e protetto per le dimensioni dello smartphone. Lavorando sulla piattaforma Android, Orion fornisce la pianificazione della missione, la navigazione, il posizionamento e la migliore consapevolezza situazionale con il database GIS e la realtà aumentata (AR).
      Lo sviluppatore israeliano e produttore di soluzioni tattiche per la difesa, la sicurezza e il doppio uso delle tecnologie ASIO hanno annunciato di aver recentemente completato l'offerta di migliaia di sistemi Orion per l'esercito di difesa israeliano. Orion Systems ASIO Technologies sono già in rapido uso dell'esercito israeliano. Focus ha tradotto il nuovo testo di Eyal Boguslavsky, dedicato al nuovo sistema tattico dell'esercito israeliano.
      ASIO afferma che Orion, creato sulla base dell'esperienza operativa, consente alle missioni digitali che utilizzano GIS, 3D e AR. È una soluzione di rete scalabile, multi -livello, di consapevolezza situazionale con un'interfaccia altamente intuitiva e interattiva. Orion serve singoli soldati o comandanti fino al livello del battaglione, sia online che offline, permettendo loro di ricevere forze fresche e ostili, nonché altre informazioni importanti per la missione, per portarli in tempo reale.
      Il sistema può interagire con altre soluzioni tattiche ASIO Technologies, come un sistema portatile tattico di lynx di osservazione diurna/notte e un'ora intelligente Rigel. Sì, si scopre una tuta da combattimento tattica completamente integrata per i fanti. ASIO Technologies prenderà parte al Uvid Dronetech 2022, il più grande evento UAV in Israele, che si svolgerà il 9 novembre a Expo Tel Aviv e il 10 novembre a Yeruham.

    (NewsUkraine, 3 ottobre 2022)

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    Kippur e Succot con i Samaritani

    Ottocento persone in tutto appartengono alla comunità samaritana, probabilmente la più piccola realtà religiosa al mondo.

    di Giordana Moscati Mascetti

    La comunità samaritana durante i festeggiamenti di Shavuot sul Monte Gerizim
    Parlare dei Samaritani può sembrare quasi anacronistico, come evocare un popolo vissuto ai tempi della Bibbia e dei Vangeli, che appartiene ad un passato remoto e ormai scomparso da secoli. Invece no, non solo la comunità samaritana ancora esiste ai nostri giorni, ma conoscere i loro usi e costumi ci permette in un certo senso di rivivere da vicino tradizioni che l’ebraismo rabbinico ha abbandonato in seguito alla distruzione del Santuario di Gerusalemme. Chi si reca sul monte Garizim vicino a Nablus puo’ visitare il museo, passeggiare nel quartiere dove abita la comunità e soprattutto può trovare l’affascinante sito archeologico dove sorgeva il Santuario samaritano e dove si trovano i resti di una chiesa bizantina – oggi  sotto la gestione dei parchi nazionali israeliani.
      Ma cominciamo dall’inizio: quali sono le origini dei Samaritani? Questa è forse una delle domande più controverse, in quanto ogni risposta include in sé una determinata narrativa. Secondo la prospettiva ebraica si tratterebbe dei “Kutim”: un popolo portato forzatamente in Erez Israel dagli Assiri nell’ 8 sec. a. C. per mescolare la popolazione locale ed evitare eventuali rivolte nel paese.
      Secondo l’ottica samaritana invece, essi si ritengono i discendenti dei due figli di Giuseppe- Efraim e Menashe e dei sacerdoti Leviti, che a differenza degli ebrei esiliati in Babilonia dopo la distruzione del primo Santuario, rimasero in Erez Israel (da qui il loro nome proveniente dalla radice ebraica s.m.r.- “custodire” [la Legge]). Oggi la comunità si divide in cinque famiglie che conservano le tradizioni delle rispettive tribù di discendenza.
      Ovviamente c’è anche una spiegazione scientifica: secondo dei ricercatori di genetica, questa popolazione avrebbe origini miste, sia autoctone che allogene. Ad ogni modo, i Samaritani oggi contano poco piu’ di 800 appartenenti – quindi è forse fra le comunità religiose più piccole al mondo! Vivono in Israele fra Holon e il monte Gerizim vicino a Nablus, credono solo nella Torà scritta e seguono cinqu principi fondamentali: la fede nel Dio unico, l’importanza del profeta Mosè, la centralità del Monte Garizim, la santità della Torà di Mosè, e la fede nel giorno del Giudizio.
      La controversia fra ebraismo rabbinico e Samaritani non si limita solo alle origini: esistono circa 6000 differenze di argomenti fra la Torà ebraica e quella samaritana; ma forse, il contrasto maggiore parte proprio dall’episodio biblico che abbiamo ricordato durante la preghiera di Rosh HaShanà: l’identificazione del luogo del sacrificio di Isacco. Come è noto la tradizione ebraica lo colloca a Gerusalemme sul monte Moriah, mentre per i Samaritani la prova di fede a cui fu posto il patriarca Abramo avvenne sul Monte Garizim. La tensione religiosa fra questi due Santuari e la domanda intrinseca di chi detenesse la vera Torà, il vero luogo sacro, i veri sacerdoti e fossero parte quindi del vero ebraismo, ha fatto sì che samaritani ed ebrei della Giudea fossero per secoli acerrimi nemici.
      Anche dal punto di vista delle usanze samaritane esistono numerose differenze rispetto all’ebraismo rabbinico: i Samaritani circoncidono i propri figli, ma non festeggiano il bar/ bat mizwa, in quanto ogni Samaritano è obbligato a rispettare le regole della Torà già dalla nascita. Rispettano lo Shabat, ma festeggiano esclusivamente le feste citate nella Torà secondo il calendario samaritano (diverso da quello ebraico): Pesach (il 14 del mese di Nissan col sacrificio pasquale), la festa delle Azzime (7 giorni dopo Pesach), Shavuot (50 giorni dopo il sabato di Pesach), il primo giorno del settimo mese- “il giorno del suono” (chiamato erroneamente anche da molti Samaritani “Rosh HaShanà”), Kippur (dopo i dieci giorni di penitenza dal primo giorno del settimo mese), Succoth, Shemini Atzeret. Il capodanno samaritano cade l’1 di Nissan, considerato il primo mese dell’anno.
      In occasione delle feste dei tre pellegrinaggi ossia Pesach, Shavuot e Succoth, la comunità Samaritana prega fino all’alba per poi recarsi sul Monte Garizim: è qui che, a Pesach, i sacerdoti vestiti di bianco sacrificano il korban Pesach di cui solo gli appartenenti alla comunità potranno poi mangiarne. Il più anziano della famiglia “Levi” funge da Sommo Sacerdote: la funzione più importante e di onore, che insieme agli altri cinque rappresentati di ogni famiglia forma la leadership.
      Una delle usanze samaritane forse più particolari per gli osservatori esterni è il digiuno di Kippur: la Torà parla dell’obbligo del digiuno per “qualunque persona” (Levitico, 23:29), e per l’interpretazione samaritana, vanno dunque inclusi anche i bambini; perciò tutti coloro che non abbiano problemi di salute sono obbligati a rispettare il digiuno (vengono esclusi solo i lattanti).
      Il fatto che i samaritani siano stati perseguitati a lungo è causa anche di un’altra usanza particolare: quella di costruire la succah dentro la casa e non al di fuori, sotto il cielo. Fino al sedicesimo secolo anche i samaritani costruivano la succah sotto il cielo stellato, ma le loro capanne venivano continuamente distrutte o perfino incendiate, così si trovarono costretti a costruirle all’interno della casa pur di adempiere a questa legge. La succah samaritana è davvero una piccola opera d’arte: le quattro specie vegetali vengono intrecciate a una rete in fil di ferro attaccata al soffitto di casa e sorretta da quattro pali. La frutta di stagione completa l’opera, una meravigliosa e profumata opera d’arte. Alla domanda sul perché non costruiscono la succah all’aperto, rispondono con una punta di sarcasmo: “Non che sia vietato costruirla esternamente, ma neanche è scritto nella Torà che debba essere fuori; soprattutto a noi non piace sedere al freddo o sotto la pioggia!” Come non dargli ragione? Che sia un buon anno per tutti, shanà tovà!

    (JoiMag, 3 ottobre 2022)

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    Sono 55.000 gli ebrei russi che si preparano a emigrare in Israele

    di Francesco Paolo La Bionda

    Decine di migliaia di ebrei russi si apprestano a lasciare il paese alla volta di Israele. Secondo fonti riportate dal Jerusalem Post, ben 40.000 avrebbero già ottenuto il visto necessario per compiere l’aliyah, mentre altri 15.000 avrebbero già avviato le pratiche. 
      L’arrivo di questi emigranti nello Stato ebraico potrebbe tuttavia richiedere un lungo periodo, a causa del numero limitato di voli tra la Russia e Israele, a oggi appena sette a settimana. Inoltre, resta l’incognita delle sorti dell’Agenzia ebraica in Russia, l’organizzazione che si occupa di facilitare il processo di emigrazione, la cui chiusura richiesta dal governo russo è ora al vaglio dei tribunali.  
      Il ministero delle Finanze israeliano ha intanto stanziato una cifra pari a 25 milioni di euro per sostenere le prime necessità degli ebrei russi che sbarcheranno in Israele nel corso dei prossimi mesi, andando ad aggiungersi ai 19.000 già arrivati tra l’inizio della guerra in Ucraina a febbraio e luglio.
      L’imponente esodo sta riducendo già significativamente la comunità ebraica russa, la cui consistenza era stimata prima della guerra in Ucraina intorno alle 150.000 unità, sebbene su base etnica e non religiosa. Sono invece circa 1.300.000 gli israeliani di origini russe, arrivati nel paese per la maggior parte dopo il crollo dell’Unione Sovietica. 

    (Bet Magazine Mosaico, 3 ottobre 2022)

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    Campagna, il sindaco Monaco partecipa al Capodanno ebraico di Tarsia

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    La cerimonia, presieduta dal Rabbi Barbara Aiello (Sinagoga Ner Tamid del Sud), ha rievocato l’esperienza dell'ultimo Rosh Hashanah nel campo di Ferramonti (79 anni fa), eseguendo uno Shofar and Song che ha coinvolto ed emozionato tutti i presenti
      Dopo il protocollo d'intesa tra i due musei, siglato il 10 agosto scorso, una delegazione della città di Campagna ha partecipato alla Celebrazione del Rosh HaShanah, il Capodanno ebraico, che si è svolta nel Museo della Memoria di Ferramonti di Tarsia.
      Per il comune di Campagna erano presenti: il sindaco Roberto Monaco, Antonio Caponigro, Marcello Naimoli, Cristian D'ambrosio, Francesco Vitale, Rossella Elefante e Antonino Mirra.

    (Salerno Today, 3 ottobre 2022)

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    Individuo e società (2)

    di Marcello Cicchese

    Nel “Credo apostolico”, e nella religiosità popolare vagamente cristiana, si passa direttamente dall’annuncio della “progenie” vittoriosa della donna nella Genesi al parto di Maria nei Vangeli. E’ come se tutto ciò che è avvenuto nei secoli che stanno in mezzo avesse un valore del tutto marginale, inessenziale: il cristianesimo come nuova religione comincia a Natale, tutto il resto è preistoria. Anche quando si parla di “incarnazione di Dio” (espressione non presente nella Bibbia), si pensa soltanto alla discesa dello Spirito Santo nella persona di Maria, considerata come individuo eccezionale, senza dare importanza alla società in cui è inserita e di cui diventa rappresentante: Israele.
      Ma se è vero che Cristo è la progenie della donna che schiaccerà il capo del serpente, è vero anche che Cristo è progenie d’Abraamo:

      “Le promesse furono fatte ad Abraamo e alla sua progenie. Non dice: «E alle progenie», come se si trattasse di molte; ma, come parlando di una sola, dice: «E alla tua progenie», che è Cristo.” (Galati 3:16)

    Si può quindi dire, usando un modo di esprimersi biblico (Ebrei 7:9-11), che Maria, e quindi anche Gesù in quanto uomo, “era nei lombi di Abraamo”. “Dio si è fatto uomo”, affermano giustamente i cristiani, e la cosa non provoca scandalo, neppure tra chi non ci crede. Ma se qualcuno dicesse: “Dio si è fatto ebreo”, quali potrebbero essere le reazioni, anche fra i cristiani?
      La difficoltà che hanno molti cristiani ad inserire correttamente il popolo d’Israele nella loro comprensione del Vangelo dipende dal fatto che gran parte dell’insegnamento ricevuto è centrato sulla salvezza individuale e sulla santificazione personale. Al centro dell’interesse ci sono io, la mia felicità eterna e il mio benessere temporale. La dimensione sociale e storica dell’opera di salvezza di Dio non è tenuta in considerazione perché non interessa, dal momento che non corrisponde a quella richiesta di felicità individuale che è la ragione di vita di quasi tutti, ivi compresi molti cristiani.
      Quanto agli ebrei invece, si può dire che se non si fanno riferimenti al loro popolo e alla loro storia, non esistono. Tutti i tentativi di presentare, in modo generalmente dispregiativo, i caratteri antropologici tipici dell’individuo ebreo si sono rivelati vani. Il singolo ebreo non ha niente di particolare, né nel bene, né nel male. Gli ebrei esistono nella loro specificità in quanto sono un popolo, e il popolo esiste in quanto ha una storia. Ed è una storia che non si è arrestata nel passato, ma inaspettatamente continua ancora nel presente e, secondo la convinzione di molti ebrei e non ebrei, e, soprattutto, secondo quanto sta scritto nella Bibbia, continuerà ancora nel futuro. La storia di Israele come popolo e nazione ha a che fare direttamente con la volontà di Dio. Chi trascura o interpreta in modo distorto questa volontà, sia egli ebreo o non ebreo, si pone in rotta di collisione con Dio stesso.
      Per salvare il mondo Dio prese la decisione di scendere nell’umanità, senza naturalmente perdere la sua divinità, nella persona del suo Figlio. Ma dopo il diluvio la società universale umana si era suddivisa in tante sottosocietà che Dio stesso aveva chiamato “nazioni”. Prima ancora di scegliere una donna in cui far scendere il suo Spirito Santo, Dio avrebbe dunque dovuto scegliere la nazione a cui questa donna avrebbe dovuto appartenere. Ma, se così si può dire, tra le nazioni che si erano sparse sulla terra dopo il diluvio Dio non ne trovò alcuna. Decise allora di formarsene una sua propria, di “generarla” come si genera un figlio.
      Il modo in cui avvenne questo particolare parto è di importanza fondamentale per la comprensione della successiva opera di salvezza compiuta da Dio nella storia. Dio chiamò un uomo ad uscire dalla sua nazione, a rompere i legami affettivi con il suo paese e i suoi familiari, e a recarsi in un paese a lui sconosciuto.

      “Il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò».” (Genesi 12:1)

    Fu dunque un ordine, con aspetti indubbiamente laceranti e spaventosi, ma accompagnato da una precisa promessa:

      “Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».” (Genesi 12:2-3)

    Per creare una nuova nazione Dio avrebbe potuto procedere in molti modi. Avrebbe potuto, per esempio, scegliere tra le varie nazioni un certo numero di persone particolarmente dotate, insegnare loro una nuova lingua, stabilire una gerarchia di autorità, consegnare una legislazione per regolare i rapporti fra di loro. In questo modo sarebbe stato esaltato l’aspetto sociale della nazione, la struttura comunitaria a cui tutti i singoli cittadini avrebbero dovuto conformarsi. Nel continuo gioco tra individuo e società si pone sempre di nuovo la domanda: quale dei due termini ha la priorità? E’ il singolo che deve essere pronto a sacrificare il proprio interesse personale per il bene comune, o è la società che deve mettersi al servizio dei singoli per offrire a ciascun membro il massimo conforto? E’ evidente che nell’attuale società occidentale è vero il secondo caso. Ma non è sempre stato così. La Germania nazista offre un esempio recente di società in cui era stato inculcato ed accettato il principio secondo cui “il singolo è nulla, la nazione è tutto”. L’attuazione di un principio simile porta inevitabilmente alla costruzione di un idolo, che prima o poi richiede il compimento di sacrifici umani, come sempre è avvenuto nella storia.
      Dio invece comincia sempre dall’individuo. Il Dio che si rivela nella Bibbia non è un brillante organizzatore di esseri a lui sottoposti, ma è innanzitutto un Dio che parla. E quando decide di parlare agli uomini non raduna intorno a Sé le folle per arringarle come fanno i tribuni, ma sceglie tra tutti un particolare interlocutore, un uomo fatto a sua immagine e somiglianza, gli rivolge la parola e gli affida un messaggio che contiene due tipi di ingredienti: ordini e promesse. Nel suo rapporto con gli uomini, Dio fa sempre precedere la parola all’azione. Dio parla all’uomo che ha scelto, aspetta la sua risposta, e in conformità di questa risposta agisce, manifestando la sua sovranità e la sua fedeltà. Da quel momento, l’interlocutore a cui Dio si è rivolto diventa il rappresentante della società che nasce da questo rapporto tra Dio e l’uomo. Prima di Abraamo, questo era già avvenuto nel rapporto di Dio con Adamo e con Noè. Adamo è diventato il rappresentante di tutta l’umanità peccatrice, e Noè è diventato il rappresentante di tutta l’umanità che, pur essendo peccatrice, si trova sotto la paziente misericordia di Dio che tollera la presenza del peccato in vista dell’opera di salvezza che ha progettato fin dall’eternità.
      Anche Abraamo è stato scelto da Dio come interlocutore, ma, al contrario di Adamo e Noè, non diventerà il rappresentante di tutta l’umanità. Storicamente, attraverso il segno della circoncisione, Abraamo diventerà rappresentante della nazione d’Israele e, spiritualmente, di tutti coloro che credono nella Parola salvifica di Dio.
      Anche ad Abraamo Dio diede ordini e promesse. Il primo ordine era di lasciare la nazione in cui era nato e cresciuto, e che era quindi diventata parte della sua identità. La prima promessa, che sembra quasi la contropartita dell’ordine, fu espressa con queste parole: “Io farò di te una grande nazione”. Ad Abraamo Dio dunque non disse: “Io ti inserirò in un’altra nazione più adatta che ho già preparata per te”, ma gli promise che da lui sarebbe nata una nuova, grande nazione. Si può dire allora che nella relazione verbale di Dio con Abraamo fu concepita la nazione d’Israele.
      La nazione però non nacque subito. Abraamo non conobbe il calore di una comunità nazionale con cui condividere gioie e dolori. Con lui Dio aveva fatto un patto solenne contenente grandiosi promesse che parlavano di nazione e di terra, ma nella sua vita terrena non vide compiersi le parole di quel patto. E tuttavia è scritto che “credette al Signore, che gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:6).

      “Per fede Abraamo, quando fu chiamato, ubbidì, per andarsene in un luogo che egli doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andava. Per fede soggiornò nella terra promessa come in terra straniera, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, eredi con lui della stessa promessa, perché aspettava la città che ha le vere fondamenta e il cui architetto e costruttore è Dio. Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare. Tutti costoro sono morti nella fede, senza ricevere le cose promesse, ma le hanno vedute e salutate da lontano, confessando di essere forestieri e pellegrini sulla terra.” (Ebrei 11:8-13)

    La nazione d’Israele, il popolo eletto di Dio, nacque dunque come conseguenza della fede ubbidiente di un singolo uomo. Dio aveva proposto ad Abraamo un patto che aveva come unica clausola l’ubbidienza a un ordine: “Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò”. E la risposta fu: “Abramo partì, come il Signore gli aveva detto” (Genesi 12:4). Da quel momento Dio si considerò impegnato a mantenere tutte le promesse contenute nel patto che aveva fatto con Abraamo.
      Continuando nell’immagine della nascita della nazione d’Israele come parto, si può che dire che il tempo dei patriarchi, da Abraamo fino a Giuseppe, corrisponde al concepimento, il periodo dei quattrocento anni trascorsi nella “casa di schiavitù” (Esodo 20:2) dell’Egitto, alla gravidanza, e l’uscita traumatica per mano di Mosè dal paese del Faraone, al momento del parto vero e proprio, preceduto dalle doglie delle dieci piaghe. Il ventre che conteneva il futuro popolo d’Israele apparteneva dunque a un popolo pagano, e poiché il suo capo, il Faraone, sembrava deciso a impedire la nascita del “figlio di Dio”, intervenne direttamente il Signore,:

      “Tu dirai al faraone: “Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito, e io ti dico: «Lascia andare mio figlio, perché mi serva; se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito».” (Esodo 4:22-23)

    Sorge subito la domanda: perché questa preferenza? La venuta al mondo di questa nuova nazione significa forse che Dio voleva salvare soltanto gli israeliti e condannare tutti gli altri? Sono interrogativi che si pongono coloro che sanno ragionare soltanto in termini di salvezza individuale e non percepiscono gli aspetti storici dell’opera di Dio. Dicendo: “Io farò di te una grande nazione” , Dio costituisce Abraamo come capostipite e rappresentante della nazione storica d’Israele; e dicendo: “… in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”, Dio si propone, attraverso la scelta di Abraamo e della sua progenie, di compiere un’opera di salvezza universale. Questo però non significa che un giorno tutte le differenze tra le nazioni saranno annullate. Se Dio parla di famiglie della terra, vuol dire che il suo proposito non è di far diventare tutti una grande famiglia. Le differenze tra le famiglie rimarranno, ma il punto di riferimento delle nazioni (non dei singoli) davanti a Dio, e il metro di giudizio con cui saranno valutate, sarà Israele, il popolo che Dio “si è formato” (2 Samuele 7:23, Isaia 43:21). Le nazioni sono sorte come conseguenza di un’azione di giudizio di Dio contro un peccato “sociale” degli uomini, cioè contro il loro tentativo di crearsi una società che fosse a loro propria gloria e potesse fare a meno di Dio, ma nel momento stesso in cui furono stabilite era già presente nella mente di Dio il progetto di una nazione che pensava di creare non come espressione di giudizio, ma come volontà di grazia: Israele.
      Prima di morire Mosè rivolse al suo popolo queste parole:

      “Ricòrdati dei giorni antichi, considera gli anni delle età passate, interroga tuo padre ed egli te lo farà conoscere, i tuoi vecchi ed essi te lo diranno. Quando l’Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d’Israele. Poiché la parte del Signore è il suo popolo, Giacobbe è la porzione della sua eredità.” (Deuteronomio 32:7-9)

    Dopo l’esperienza della torre di Babele, Dio dunque fissò i confini dei popoli, cioè permise a ciascuno di loro di attribuirsi una parte di terra da considerare come loro eredità. Ma nel fare questo pensò anche alla porzione della sua eredità: Giacobbe. La Bibbia non dice in quale senso Dio tenne conto del numero dei figli d’Israele, ma in ogni caso è chiaro che dal momento in cui la nazione d’Israele venne al mondo, uscendo dalla casa di schiavitù d’Egitto, le altre nazioni sono state destinate a tener conto del popolo che il Signore ha scelto come “sua parte”. E un giorno dovranno anche risponderne, perché prima ancora che fosse annunciata la benedizione in Abraamo per tutte le genti, Dio aveva avvertito:

      “Benedirò chi ti benedirà e maledirò chi ti maledirà.” (Genesi 12:3)

    Nella storia di Abraamo, come del resto in tutta la Bibbia, sono presenti aspetti individuali e aspetti sociali che bisogna sapere distinguere e ben collegare fra di loro. La fede con cui Abraamo ubbidisce alla Parola di Dio è certamente un fatto individuale:

      “Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare». E soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che gli contò questo come giustizia.” (Genesi 15:5-6)

    E’ scritto che Abraamo credette al Signore, ed è questa la prima volta che nella Bibbia si usa il verbo credere. Dio “gli contò questo come giustizia” (Genesi 15:6): Abraamo dunque fu giustificato per fede, e questa fu la prima e più importante forma in cui Dio lo benedisse. Il Signore però aveva anche promesso: … in te saranno benedette tutte le famiglie della terra; questo significa che con Abraamo sono destinati ad essere benedetti, e quindi giustificati, tutti coloro che crederanno in Dio con una fede personale simile a quella di Abraamo.

      “Così Abraamo «credette a Dio, e ciò gli fu messo in conto di giustizia»; sappiate pure che coloro che sono dalla fede sono figli di Abraamo. E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato le nazioni mediante la fede, diede prima ad Abraamo una buona notizia: «Tutte le nazioni saranno benedette in te». Perciò coloro che si fondano sulla fede sono benedetti col fedele Abraamo.” (Galati 3:6-9)
      “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo diventato maledizione per noi (poiché sta scritto: «Maledetto chiunque è appeso al legno»), affinché la benedizione di Abraamo pervenisse ai gentili in Cristo Gesù, perché noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede.” (Galati 3:13-14)
    La fede personale di Abraamo gli ha permesso di ricevere per grazia la giustizia che viene da Dio e lo ha fatto diventare il padre spirituale di tutti coloro che credono con una fede simile alla sua. La benedizione che in Abraamo giunge a tutte le famiglie della terra è la possibilità individuale di ricevere per grazia mediante la fede il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo promesso a Israele (Ezechiele 36:26-27) ma destinato, dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù, a spandersi su tutti coloro che avrebbero creduto alla predicazione del Vangelo (Atti 10:44-47). Per ricevere questa benedizione non ha alcuna importanza l’essere circonciso o incirconciso, perché Abraamo fu giustificato quando era ancora incirconciso.

      “Che diremo dunque che il nostro antenato Abraamo abbia ottenuto secondo la carne? Poiché se Abraamo fosse stato giustificato per le opere, egli avrebbe di che vantarsi; ma non davanti a Dio; infatti, che dice la Scrittura? «Abraamo credette a Dio e ciò gli fu messo in conto come giustizia». Ora a chi opera, il salario non è messo in conto come grazia, ma come debito; mentre a chi non opera ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede è messa in conto come giustizia. Così pure Davide proclama la beatitudine dell’uomo al quale Dio mette in conto la giustizia senza opere, dicendo: «Beati quelli le cui iniquità sono perdonate e i cui peccati sono coperti. Beato l’uomo al quale il Signore non addebita affatto il peccato». Questa beatitudine è soltanto per i circoncisi o anche per gl’incirconcisi? Infatti diciamo che la fede fu messa in conto ad Abraamo come giustizia. In quale circostanza dunque gli fu messa in conto? Quando era circonciso, o quando era incirconciso? Non quando era circonciso, ma quando era incirconciso; poi ricevette il segno della circoncisione, quale sigillo della giustizia ottenuta per la fede che aveva quando era incirconciso, affinché fosse padre di tutti gl’incirconcisi che credono, in modo che anche a loro fosse messa in conto la giustizia; e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo sono circoncisi ma seguono anche le orme della fede del nostro padre Abraamo quand’era ancora incirconciso. Infatti la promessa di essere erede del mondo non fu fatta ad Abraamo o alla sua discendenza in base alla legge, ma in base alla giustizia che viene dalla fede. Perché, se diventano eredi quelli che si fondano sulla legge, la fede è resa vana e la promessa è annullata; poiché la legge produce ira; ma dove non c’è legge, non c’è neppure trasgressione. Perciò l’eredità è per fede, affinché sia per grazia; in modo che la promessa sia sicura per tutta la discendenza; non soltanto per quella che è sotto la legge, ma anche per quella che discende dalla fede d’Abraamo. Egli è padre di noi tutti (com’è scritto: «Io ti ho costituito padre di molte nazioni») davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all’esistenza le cose che non sono. Egli, sperando contro speranza, credette, per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza»." (Romani 4:1-18)

    La promessa fatta ad Abraamo di essere erede del mondo ha carattere universale, perché l’ingresso personale nel nuovo mondo riconciliato con Dio, e da Lui benedetto, non avviene sulla base dell’appartenenza a una particolare nazione o dell’osservanza di una legge morale, ma sulla base della fede personale nella Parola rivolta da Dio agli uomini nelle varie epoche della storia. E’ chiaro allora che per l’apostolo Paolo la Parola che Dio rivolgeva agli uomini al suo tempo, e rivolge ancora oggi, è l’invito a ravvedersi e a credere in Gesù come Figlio di Dio, Messia d’Israele, Signore e Salvatore di tutti gli uomini. Dio ha chiamato Abraamo padre di molte nazioni perché sapeva che in tutte le parti del mondo il patriarca avrebbe avuto dei figli spirituali, cioè delle persone a cui la fede sarebbe stata imputata come giustizia.
      Ma ad Abraamo Dio aveva anche promesso di diventare una grande nazione, e questa nazione è Israele, un ben preciso popolo storico, diverso dagli altri non per le qualità peculiari dei suoi membri, ma per la scelta fatta da Dio in vista di un incarico che era ed è chiamato a svolgere tra le nazioni. E’ vero che il compito principale del popolo eletto era certamente quello di “generare” ed accogliere, dal punto di vista umano, il “Salvatore del mondo” (Giovanni 4:42), ma il suo incarico non si esaurisce in questo puro fatto genetico. Se così fosse, effettivamente dopo la venuta di Gesù su questa terra e il suo ritorno al Padre in cielo la presenza nel mondo del popolo d’Israele non avrebbe più alcun senso. Ma non è così. “La salvezza viene dai Giudei” (Giovanni 4:22) non soltanto perché – come qualcuno ha detto – Gesù è nato ebreo. Il significato di quella dichiarazione è molto più profondo e ricco di implicazioni: in essa in sostanza si avverte che chiunque riceve individualmente il perdono dei peccati deve ricordarsi che la salvezza che ottiene per grazia non gli piove in testa direttamente dal cielo, ma gli arriva attraverso un percorso storico che ha nel popolo d’Israele un passaggio ineliminabile. La sua salvezza individuale è conseguenza di un patto che Dio ha fatto “con la casa d’Israele e con la casa di Giuda” (Geremia 31:31), cioè con una realtà sociale che ha un posto unico e insostituibile nell’opera di “riconciliazione del mondo” (Romani 11:5) con Dio.
      Quando la chiesa locale si riunisce per celebrare la Cena del Signore istituita da Gesù, molto spesso si leggono queste parole dell’apostolo Paolo:

      “Poiché ho ricevuto dal Signore quello che vi ho anche trasmesso; cioè, che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga».” (1Corinzi 11:23-26)

    Si tratta certamente di un memoriale, e non di un sacrificio. I credenti riuniti ricordano Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra, esaltandolo come Colui “che ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Apocalisse 1:5). Spesso però si dimentica che il vino simboleggiante il “sangue dell’aspersione che parla meglio del sangue d’Abele” (Ebrei 12:24) è contenuto in un calice che rappresenta il “nuovo patto con la casa d’Israele e con la casa di Giuda” (Geremia 31:31). Il memoriale di Gesù è dunque sempre, anche, un memoriale d’Israele, affinché si ricordi che la persona di Gesù è inscindibile dal suo popolo. Chi ha stabilito un rapporto individuale con Dio tramite Gesù deve sapere che nello stesso tempo ha stabilito un rapporto sociale con Israele. Che lo sappia o no, che lo voglia o no.

    (2. continua)




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    Il nuovo software di intelligenza artificiale collegherà la polizia israeliana, l’ambulanza, i vigili del fuoco 

    di Lee Michaelis 

    I sistemi di spedizione dei tre servizi di soccorso israeliani sono ora collegati, consentendo a qualsiasi agenzia – polizia israeliana, servizi di soccorso e antincendio israeliani e Magen David Adom (MDA) – di inviarsi automaticamente a vicenda in caso di emergenza anziché contattarli manualmente, come è stato precedentemente richiesto.
      L’interconnessione, creata dall’unità di programmazione interna dell’MDA, il servizio medico di emergenza israeliano, accelererà il flusso di informazioni tra tutti e tre i servizi di soccorso, risparmiando potenzialmente tempo e vite nelle emergenze che richiedono la risposta di diverse agenzie.
      Gli israeliani attualmente compongono diversi numeri di emergenza per polizia, ambulanze e vigili del fuoco (rispettivamente 100, 101 e 102). Il vantaggio di tale approccio è che i chiamanti non devono prima parlare con un operatore dei servizi di emergenza sanitaria, come fanno negli Stati Uniti, il che può essere un processo che richiede tempo e può ritardare una risposta di pochi minuti.
      Mentre i chiamanti in Israele devono solo comporre un numero in caso di emergenza, era responsabilità della polizia, dei vigili del fuoco o dell’MDA chiamare o chiamare via radio le altre agenzie se l’emergenza richiedeva la loro assistenza.
      Questa nuova connessione a tre vie elimina la necessità di quella chiamata, consentendo all’intelligenza artificiale di MDA e al sistema MDA stabilito per i servizi antincendio e di soccorso di richiamare automaticamente le risorse necessarie, anche quelle di altre agenzie.
      Il post Il nuovo software di intelligenza artificiale collegherà la polizia israeliana, l’ambulanza, i vigili del fuoco apparso per primo è JNS.org.

    (GAMINGDEPUTY ITALY, 1 ottobre 2022)

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    Beirut, un Parlamento diviso costretto all’intesa sul presidente della Repubblica

    di Fady Noun

    Ieri, con ampio ritardo, si è tenuta la prima votazione per la scelta del successore di Aoun. Un passaggio che ha sancito le spaccature (su Hezbollah) e spinto il presidente della Camera a forzare la mano verso un accordo. Il rischio di stallo e la doppia vacanza governativa e presidenziale. Le pressioni della comunità internazionale.

    BEIRUT - “Se volete che questo Parlamento e anche il Libano, continuino a esistere, dovete trovare un’intesa!”. Con queste parole il presidente della Camera, lo sciita Nabih Berry, ha concluso la votazione di ieri dedicata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, chiamato a succedere a Michel Aoun, il cui mandato scade il 31 ottobre. Berry ha aggiunto che intende fissare la data della prossima sessione di voto in funzione dei progressi che verranno compiuti riguardo proprio a questa intesa fra le parti. 
      Convocato con ampio ritardo, alla fine del primo dei due mesi (settembre e ottobre) previsti dalla Costituzione, il Parlamento ha fallito, in occasione della prima tornata di votazioni, a eleggere il nuovo capo dello Stato. Il fallimento era atteso, vista la composizione della Camera, divisa in due parti attorno al tema delle armi a Hezbollah, annosa fonte di scontro. Nessuno dei due settori possiede una maggioranza assoluta di voti (la metà più uno, ovvero 65), e ancor meno i due terzi dei seggi necessari per eleggere un candidato al primo turno (86 voti).
      Di 122 su 128 deputati che compongono la Camera presenti al voto (sei le assenze), 63 hanno lasciato scheda bianca: si tratta di quelli del tandem sciita (Amal e Hezbollah), del Cpl di Gebran Bassil e di alcuni indipendenti e loro alleati. Di contro, il fronte sovranista ostile alle armi a Hezbollah (il cui nucleo è formato dalle Forze libanesi, dal partito Kataëb e dal blocco druso di Walid Joumblatt) ha votato a favore di Michel Moawad, figlio dell’ex presidente René Moawad assassinato nel 1989, il quale ha ottenuto 36 voti. I deputati della “contestazione” (in rappresentanza del movimento di protesta dell’ottobre 2019) hanno virato senza spiegazioni su Sélim Eddé (13 voti), brillante uomo d’affari che non è però candidato, dopo essersi visti rifiutare la nomina del giurista ed ex deputato Salah Honein.
      Sparigliato dal ritiro del suo leader Saad Hariri dalla vita politica, a inizio anno, il campo sunnita è riuscito all’ultimo a formare un gruppo di una decina di deputati i quali hanno scritto sulle loro schede elettorali una sola parola: Libano.
      Nel campo delle “schede bianche”, i deputati sciiti favorevoli in linea di principio alla candidatura del leader nordista Sleiman Frangié non potevano esprimere la preferenza in suo favore senza essere abbandonati alla loro sorte dal presidente del Cpl Bassil, rivale di Frangié.  Senza rappresentanti di peso delle comunità sunnite e druse, questo campo non può sperare di far eleggere un capo di Stato figlio di una “intesa”. Lo stesso ragionamento vale anche per il campo sovranista, privo di personalità autorevoli delle comunità sunnita e sciita. Come sottolinea Berry, entrambe le parti sono condannate ad andare d’accordo e trovare un’intesa, perché ciascuna delle due dispone dell’arma del quorum per impedire all’altra di vincere le elezioni ed eleggere un proprio candidato.
      Questa “prima votazione” ha convinto i deputati presenti in aula della necessità assoluta di un confronto fra le parti, a fronte del pericolo di ritrovarsi di nuovo per mesi senza presidente della Repubblica alla scadenza del mandato di Aoun a fine ottobre. Una replica di quanto era già successo nel 2016, quando il Paese dei cedri è rimasto senza capo dello Stato per oltre due anni.
      E questo accordo è tanto più necessario visto che anche la nazione si trova a vivere una impasse politica riguardo alla formazione di un nuovo governo, a causa di un profondo disaccordo sulla questione fra lo stesso presidente Aoun e il primo ministro dimissionario Nagib Mikati. L’articolo 75 della Costituzione prevede che, in caso di vacanza presidenziale, le prerogative del capo dello Stato siano assunte in via provvisoria dal Consiglio dei ministri. Tuttavia, Aoun si rifiuta di trasmettere le sue prerogative a un governo dimissionario e minaccia di non lasciare il palazzo presidenziale se non viene formato un nuovo governo favorevole al proprio campo di appartenenza.
      Per scongiurare al Libano una prospettiva distruttrice determinata da una doppia vacanza a livello governativo e presidenziale, Francia, Arabia Saudita e Stati Uniti hanno pubblicato, la scorsa settimana, una dichiarazione congiunta che esorta i deputati a “eleggere un presidente che possa unire il popolo libanese”. Una unità tanto più indispensabile in quanto il Paese è in crisi economica, con sofferenze e tensioni a livello sociale. Il Fondo monetario internazionale ha condizionato un aiuto di circa tre miliardi di euro all’attuazione di riforme legate al buon funzionamento delle istituzioni.

    (AsiaNews, 1 ottobre 2022)

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