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Notizie 1-15 settembre 2019


Gli ebrei religiosi e i palestinesi nodi degli equilibri demografici

Intervista a Sergio Della Pergola

di Vincenzo Pinto

Ottant'anni fa Vladimir Ze'ev Iabotinsky, leader del sionismo revisionista (padre spirituale del partito Likud), sosteneva di fronte alla Commissione britannica d'inchiesta Peel che gli ebrei dovessero continuare a immigrare liberamente in Palestina per crearvi uno Stato a maggioranza ebraica sulle due rive del Giordano e che, a tal fine, potessero difendersi in prima persona dalle aggressioni arabe con proprie forze militari o di polizia. Fonte della storica sofferenza ebraica non era solo l'antisemitismo ma, per Iabotinsky, la diaspora stessa, perché aveva fatto degli ebrei un'endemica minoranza «nazionale». Se oggi la componente religiosa sia il vero ago della bilancia demografica dei prossimi anni è questione chiave. «La Lettura» ne ha discusso con il demografo israeliano di origine triestina Sergio Della Pergola.

- È così importante che la maggioranza etnica dello Stato di Israele sia detenuta dagli ebrei?
  «Israele come tanti altri Paesi cerca di mantenere una propria identità di fronte ai flussi migratori e all'accrescimento naturale dei vari gruppi di popolazione. Israele nasceva dalla decisione dell'Assemblea dell'Onu del 29 novembre 1947 sulla spartizione del Mandato britannico in Palestina in due Stati: uno arabo e uno ebraico. Lo Stato arabo non venne mai proclamato, imperdonabile carenza della dirigenza palestinese e della politica internazionale. Lo Stato ebraico israeliano fu proclamato nel 1948 e oggi nei suoi confini riconosciuti include una minoranza araba del 21%. il carattere dominante della cultura e della vita pubblica viene determinato dalla maggioranza ebraica ma va attentamente tutelata la parità di diritti e di opportunità delle minoranze. Se Israele annettesse i territori palestinesi, la demografia finirebbe in pareggio, e l'obiettivo dello Stato nazionale degli ebrei svanirebbe. Manifestazioni di sovranismo esistono in tutti i Paesi e vanno denunciate e contrastate. Su questi temi, in Israele la Corte Suprema svolge un ruolo decisivo di garanzia».

- Anthony De Lannoy, economista del Fondo monetario internazionale, ha criticato il governo israeliano perché non farebbe abbastanza per integrare arabi ed ebrei ortodossi («haredim» ) in occupazioni «ad alto rendimento e produttìvìtà».
  «La critica è fondata su dati reali: permangono in Israele notevoli disuguaglianze interne fra i diversi gruppi di popolazione nei livelli di istruzione e reddito. Ma il discorso di De Lannoy è molto grezzo e superficiale: ignora le secolari radici culturali di tali differenze. Le occupazioni ad alto rendimento e produttività presuppongono una formazione accademica e tecnica, capacità individuali e un forte coinvolgimento mentale. In Israele nel mondo haredi è diffusa (anche se non unanime) una mentalità di rifiuto della modernità. il sistema scolastico differenziato consente a questo settore di approfondire gli studi biblici e talmudici ma a spese dell'inglese e della matematica. Solo un regime totalitario di tipo sovietico o cinese potrebbe imporre a tutti un corso di studi unitario, che tornerebbe a beneficio degli interessati ma a prezzo della libertà di fede. Una parte dei tradizionalisti capisce i rischi dell'autoisolamento e di un ciclo infinito di povertà e dipendenza dai sussidi di Stato e incoraggia una maggiore integrazione. Lenti movimenti di adeguamento coinvolgono una crescente partecipazione al servizio militare da cui i giovani haredim sarebbero esentati».

- Dopo le elezioni politiche del 17 settembre, lei ritiene fattibile un'alleanza tra forze laiche senza distinzione etnica (per esempio fra Kahol- Lavàn di Benny Gantz e le formazioni arabo-beduine)?
  «Dopo il 17, come in tutte le precedenti elezioni, nascerà fatalmente un governo di coalizione. Le ipotesi si giocano su pochissimi seggi: su chi sarà il partito maggiore - il sempre più nazionalista Likud di Benjamin Netanyahu o il centrista Kahòl-Lavàn - e sulla disponibilità o meno a formare una grande coalizione fra i due partiti maggiori senza haredim. Ma nel consentire una qualsiasi coalizione partiti religiosi-haredim restano decisivi. Per loro stare al governo è questione di vita o di morte per sussidiare i loro progetti scolastici e residenziali. I dirigenti del settore arabo hanno formato una lista unificata rivolgendosi a elettori molto diversi fra loro».

(Corriere della Sera, 15 settembre 2019)


I tesori e la memoria: in 88 città italiane si celebra la cultura ebraica

ROMA - È Parma la capofila delle città coinvolte nell'odierna XX Giornata europea della cultura ebraica, riconosciuta dal Consiglio d'Europa e patrocinata dai ministeri dell'Istruzione e dei Beni culturali e dall'associazione dei Comuni.
   Sede di una antica comunità ebraica nata nel XIV secolo, la città è stata scelta come ideale guida della rassegna nazionale. Apertura ufficiale alle 10 alla Biblioteca palatina dove è conservata una delle più importanti collezioni a livello mondiale di antichi manoscritti e libri a stampa ebraica, il fondo De Rossi. Una raccolta di Bibbie miniate, testi e commentari rabbinici, trattati di filosofia e medicina. il pubblico potrà vedere i pezzi principali. Alle 11.30 cerimonia in sinagoga per il rientro di un Sefer Torah, settecentesco Rotolo della Legge. Chiusura alle 21 al Teatro Farnese col recital «L'albero dei sogni», musiche originali di Riccardo Ioshua Moretti.
   il numero delle città partecipanti si allarga sempre più, quest'anno sono 88, con centinaia di eventi tra visite, concerti, aperture di musei, degustazioni e giochi per i bambini. Tema portante «I sogni, una scala verso il cielo».
   A Roma, il centro della Giornata è il Portico d'Ottavìa, l'antico Ghetto, ma sarà tra l'altro possibile, per chi vuole allontanarsi un po', riscoprire la sinagoga di epoca romana di Ostia Antica.
   A Milano conferenza-spettacolo di Gioele Dix nel tempio di Guastalla, a Torino la passeggiata dal ghetto alla Mole Antonelliana, nata come sinagoga. Una rappresentazione teatrale che ricorda gli ebrei di Libia, regia di Pamela Villoresi col sotto fondo di musiche nostalgiche è invece al centro del programma palermitano. A Bologna la mostra sul recente ritrovamento archeologico di un antico cimitero ebraico.
   Alla Giornata europea aderiscono 34 Paesi col coordinamento di Aepj, l'associazione per la tutela e la promozione della cultura e dell'eredità ebraica. I programmi sono consultabili su www.jewisheritage.org.

(Corriere della Sera, 15 settembre 2019)



Trump: negoziati con Israele per trattato di mutua difesa

In precedenza i media israeliani avevano riportato che Washington e Tel Aviv stavano valutando l'idea di una dichiarazione congiunta in merito ai loro piani per stipulare un patto di difesa in vista delle imminenti elezioni israeliane.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha confermato via Twitter di aver parlato con il premier israeliano Benjamin Netanyahu della prospettive di firmare un trattato di difesa reciproca.
  "Ho avuto una telefonata oggi con il premier Netanyahu per discutere la possibilità di portare avanti un trattato di difesa reciproca tra Usa e Israele che stabilizzerà ulteriormente la formidabile alleanza tra i nostri due Paesi. Sono impaziente di continuare queste discussioni dopo le elezioni israeliane, quando ci incontreremo all'Onu a fine mese!"- il tweet di Trump.
  I commenti di Trump seguono un articolo di Haaretz all'inizio di questo mese secondo cui i consiglieri del primo ministro israeliano avrebbero fatto pressioni sulle controparti statunitensi per convincere la Casa Bianca ad impegnarsi verbalmente a proteggere Israele da qualsiasi futura minaccia contro la sua esistenza prima di concludere formalmente un patto di difesa reciproca in un secondo momento.
  La scorsa settimana l'ex ministro della Difesa israeliano e leader della forza politica Blu e Bianco Benny Gantz ha respinto l'idea di un patto di difesa reciproca tra USA e Israele, affermando che sarebbe stato "un grave errore" che avrebbe potuto danneggiare la sicurezza dello Stato ebraico.

 Cooperazione tra Usa e Israele
  Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno siglato diversi patti di difesa reciproca, con Paesi inclusi all'interno della Nato, le Filippine, l'Australia, la Nuova Zelanda, il Giappone e la Corea del Sud. Tuttavia Israele e gli Stati Uniti non hanno formalmente un patto di mutua difesa, a dispetto della grande cooperazione economico-militare tra i due Paesi: Washington ha stanziato oltre 140 miliardi di dollari in aiuti principalmente militari dal Dopoguerra, al netto della cooperazione in settori come la ricerca e lo sviluppo militare.

(Sputnik Italia, 14 settembre 2019)


Germania ribadisce il no al BDS, ong pro-palestinesi escluse dal festival di Bonn

La Germania ribadisce il suo no al BDS. Dopo la condanna ufficiale del parlamento tedesco che nel maggio scorso l'aveva classificato come "razzista e antisemita", nel paese si è tornato a parlare del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele.
L'occasione è stata "Diversità", il festival interculturale in programma a Bonn, il cui comune ha vietato a quattro organizzazioni pro-palestinesi di partecipare all'evento che si terrà il 29 settembre prossimo.
La motivazione è da ricercare nel (presunto) sostegno di queste organizzazioni al movimento BDS. Tre organizzazioni su quattro sono ricorse a vie legali contro la decisione del Comune, sostenendo che violi il loro diritto di libertà di espressione.
Prima dell'estate, quando il parlamento tedesco si è espresso sul BDS, i principali partiti del consiglio di Bonn, l'Unione Democratica Cristiana, il Partito Verde, il Partito Socialdemocratico e il Partito Democratico Libero avevano affermato che:
"Le istituzioni della città di Bonn non devono fornire locali per la campagna BDS né sostenere eventi della campagna BDS o di gruppi che ne perseguano gli obiettivi".
Questo parte del testo del parlamento della Germania contro il BDS.
"La campagna di boicottaggio contro prodotti, artisti e beni culturali israeliani lanciata dal Bds ricorda in modo fatale il capitolo più terribile e scuro della storia tedesca, quando anche i nazisti incitarono la popolazione a non fare più la spesa nei negozi degli ebrei. Le argomentazioni e il linguaggio utilizzato dai militanti e simpatizzanti del movimento è molto simile a quello utilizzato a suo tempo dal regime nazista e discrimina l'intera comunità ebraica e i cittadini israeliani senza fare alcuna distinzione".

A Bonn nel caso specifico, ma in Germania in generale, si stanno stringendo le maglie attorno ad alcune ong e associazioni dalle attività sospette.
Come nel caso della Farben für Waisenkinder, associazione che raccoglieva soldi per un'organizzazione appartenente a Hezbollah, che ha portato la Corte Costituzionale Suprema della Germania a spezzare questa rete di finanziamento al gruppo terroristico del Libano.

(Progetto Dreyfus, 13 settembre 2019)



«Io sono il buon pastore»

In verità, in verità vi dico che chi non entra per la porta nell'ovile delle pecore, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Ma colui che entra per la porta è il pastore delle pecore. A lui apre il portinaio, e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori. Quando ha messo fuori tutte le sue pecore, va davanti a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Ma un estraneo non lo seguiranno; anzi, fuggiranno via da lui perché non conoscono la voce degli estranei». Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono quali fossero le cose che diceva loro.
Perciò Gesù di nuovo disse loro: «In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti quelli che sono venuti prima di me, sono stati ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta; se uno entra per me, sarà salvato, entrerà e uscirà, e troverà pastura. Il ladro non viene se non per rubare, ammazzare e distruggere; io son venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza.
Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga, e il lupo le rapisce e disperde. Il mercenario si dà alla fuga perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
Ho anche altre pecore, che non sono di quest'ovile; anche quelle devo raccogliere ed esse ascolteranno la mia voce, e vi sarà un solo gregge, un solo pastore. Per questo mi ama il Padre; perché io depongo la mia vita per riprenderla poi. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla. Quest'ordine ho ricevuto dal Padre mio.

Dal Vangelo di Giovanni, cap. 10


 


Israele si avvicina alle urne: ecco i possibili scenari post voto

di Mauro Indelicato

In Israele, come già spiegato nei giorni scorsi, si torna alle urne perché ad aprile all'interno della Knesset, il parlamento israeliano, non si trova una maggioranza in grado di dare vita ad un nuovo governo. Likud e Blu & Bianco, i due principali partiti, hanno ottenuto 35 seggi a testa e nessuno è riuscito a ottenere la forza per arrivare alla maggioranza assoluta. Netanyahu, in quanto leader del Likud (che ottiene, seppur per pochi voti, la maggioranza relativa), ha ottenuto l'incarico di formare un nuovo governo ma non è riuscito a mettere assieme una coalizione capace di assicurargli almeno 61 dei 120 seggi in parlamento. Prima ancora che l'incarico fosse assegnato a Gantz, leader di Blu & Bianco, la Knesset si è sciolta e ha determinato così le elezioni del prossimo 17 settembre. Ma quale può essere lo scenario a cui può andare incontro lo Stato ebraico dopo le consultazioni?

 Vittoria di Bianco & Blu e governo affidato a Gantz
  Secondo i sondaggi, Blu & Bianco è in testa alle intenzioni di voto e potrebbe ottenere dunque la maggioranza relativa all'interno della prossima Knesset. La lista nasce nello scorso mese di febbraio dall'unione della formazione guidata da Gantz e da quella guidata da Yair Lapid. Il nome scelto rievoca il colore della bandiera nazionale, sotto il profilo politico la lista viene considerata di centro e capace di attrarre anche un'eventuale maggioranza di centro - sinistra. La consuetudine in Israele prevede che il presidente della Repubblica affidi l'incarico di formare un esecutivo al leader del partito di maggioranza relativa. Per questo, all'indomani delle elezioni di giorno 17, Gantz potrebbe essere chiamato a dare vita ad una nuova compagine governativa. L'incognita riguarda però il risultato dei partiti potenzialmente alleati di Gantz.
  Blu & Bianco esclude infatti coalizioni con i partiti di destra, è possibile possa allearsi con quelli della destra religiosa, mentre da Meretz fino ai centristi di Kulanu, passando per il sempre più debole partito Laburista e per la lista che racchiude gli arabo israeliani, le formazioni di centro - sinistra sarebbero pronte a coalizzarsi con Gantz. Ad aprile però, una coalizione con i partiti sopra nominati non arriva alla soglia dei 61 seggi necessari per una maggioranza: ecco perché, per fare in modo che si verifichi il primo scenario qui descritto, è importante vedere la prestazione delle liste i cui deputati si siederanno nella parte sinistra della Knesset.

 Netanyahu rimane in sella
  Rimanendo per un attimo nell'ipotesi in cui Gantz riesce a vincere le elezioni, qualora il leader di Blu & Bianco non riesce a formare un governo allora per consuetudine l'incarico viene affidato al numero uno del partito piazzatosi secondo. Dunque, in questo modo l'incarico tornerebbe nelle mani di Netanyahu il quale proverebbe a bissare quanto fatto nel 2009. In quell'occasione infatti il suo Likud arriva secondo alle elezioni, ma una volta ottenuto l'incarico per via della defezione di Tzipi Lvini (arrivata prima con il suo Kadima) riesce a formare un governo con una coalizione che racchiude i partiti di destra e della destra religiosa.
  Ovviamente il secondo scenario prenderebbe sempre più piede se il Likud, smentendo i sondaggi, riesce ad ottenere la maggioranza relativa dei seggi. In questo caso, Netanyahu otterrebbe subito il nuovo incarico e proverebbe a rimettere in sesto una coalizione di centro - destra. Ago della bilancia è Avidgor Lieberman, il leader di Yisrael Beitenu. Vicino agli ambienti degli israeliani emigrati dalle zone ex sovietiche, il partito promuove l'annessione dei territori occupati e contende a Netanyahu i voti a destra. È Lieberman, con le sue dimissioni da ministro della difesa, a far cadere il governo a gennaio ed è il fallimento della trattativa con Yisrael Beitenu a determinare la mancata formazione di un governo ad aprile. Il premier uscente dunque vede in Lieberman lo scoglio più difficile da superare per arrivare ad un nuovo esecutivo.

 Una "Grande coalizione" Bianco & Blu - Likud
  Nel caso di nuova impasse, c'è chi da Tel Aviv parla di una possibile suggestione non così lontana dal realizzarsi: un accordo di legislatura tra i due principali partiti. Ovviamente senza però affidare il governo ad uno dei due leader. La possibilità è resa concreta dai malumori che si respirano all'interno della sezione moderata del Likud, sempre più insofferente alla leadership di Netanyahu.
  Se l'attuale premier israeliano dovesse uscire malconcio dalla consultazione, allora all'interno del Likud la parte più moderata riuscirebbe a prendere il sopravvento. Già ad aprile i dirigenti di Bianco & Blu fanno sapere di essere eventualmente disponibili ad una trattativa con un Likud senza Netanyahu. E dunque una "grossa coalizione" in salsa israeliana non è del tutto da escludersi.

(Inside Over, 14 settembre 2019)


Israele: a pochi giorni dalle elezioni Netanyahu preso tra più fuochi

È un Netanyahu stanco e apparentemente accerchiato quello che si avvia alle imminenti elezioni. Ma i leoni reagiscono sempre quando meno te lo aspetti

di Maurizia De Groot Vos

È volato in Russia per parlare con il Presidente Putin di Siria e lo hanno fatto aspettare tre ore per poi risolvere poco o niente. Alla Casa Bianca sembrano muoversi in direzione contraria agli interessi di Israele mentre sui fronti nord e sud la tensione si innalza ogni giorno di più. Non sembra essere un buon momento per Benjamin Netanyahu.
Ai giornalisti che erano sull'aereo di ritorno da Sochi, in Russia, dove aveva appena incontrato il Presidente russo Vladimir Putin (che gli aveva fatto fare una anticamera di tre ore), Netanyahu è apparso molto stanco e provato.
Ci sono troppe criticità da gestire nel mezzo di una campagna elettorale che lo potrebbe vedere anche sconfitto.
Ci sono gli Hezbollah a Nord, Hamas al sud, l'Iran in Siria che non vedono l'ora di menar le mani. Poi ci sono le accuse degli avversari politici che lo criticano per non aver risolto i problemi di sicurezza di Israele, soprattutto nel sud del Paese tenuto sotto costante tiro da Hamas.
Martedì prossimo Israele tornerà a votare e i sondaggi danno un testa a testa tra il Likud e il partito Blu e Bianco, guidato dall'ex capo di Stato maggiore Benny Gantz. Si prospetta una nuova ingovernabilità mentre tutto intorno al piccolo Stato Ebraico i nemici si organizzano.
Gli avversari politici, soprattutto Gantz, lo hanno accusato di essere troppo paziente con Hamas, di dare l'impressione di debolezza. Lo hanno persino offeso deridendolo per essere sceso dal palco durante un allarme rosso mentre teneva un comizio ad Ashdod.
«I cittadini israeliani sanno benissimo che agisco in modo responsabile e ragionevole, e inizieremo un'operazione contro Hamas solo al momento giusto» ha detto ieri sera Netanyahu rispondendo alle accuse degli avversar politici. «Non metto in pericolo i nostri soldati e i nostri civili per ottenere applausi».
Ma la sensazione di un Premier accerchiato rimane anche se mi piacerebbe sapere chi degli altri politici avrebbe avuto il coraggio di dare il via a grandi operazioni militari alla vigilia di elezioni, chi di loro avrebbe saputo far meglio di quello che ha fatto Netanyahu per sventare ogni rischio possibile senza tuttavia finire nel vortice di una guerra su larga scala con il paese nel pieno della campagna elettorale.

(Rights Reporters, 14 settembre 2019)


I secoli per nulla bui degli ebrei d'Italia

Nell'Alto Medioevo i rapporti con i cristiani seguirono pacifiche dinamiche locali: solo più tardi ci fu una generale marginalizzazione. Quando Dante parla ai primi del Trecento dell'ebreo «tra voi», esprime il sintomo di un'ormai matura, consapevole problematica.

di Franco Cardini

Nell'ormai sterminata biblioteca di libri che di continuo escono sugli ebrei e sull'ebraismo, dinanzi alla grande produzione di studi relativi alla Shoah e alla storia d'Israele e della questione israeliano-palestinese, e a parte gli studi specialisti di carattere storico-religioso o di filologia biblica, le ricerche riguardanti la storia delle comunità ebraiche - sia sotto il profilo socioeconomico o culturale, sia sul piano della vita quotidiana, delle tradizioni, delle dinamiche demografiche e via dicendo - sono relativamente non troppo abbondanti. E, nella complessità delle fonti e nell'intensità delle discussioni da esse originate, talvolta addirittura delle polemiche (non abbiamo ancora dimenticato, a diversi anni di distanza, quella involontariamente innescata da Ariel Toaff con il suo Pasque di sangue, con interventi illustri che andavano da Anna Foa a Carlo Ginzburg a Adriano Prosperi a Diego Quaglioni), la stragrande maggioranza di esse ha riguardato la lunga fase successiva all'incrudelirsi e al generalizzarsi della polemica antigiudaica ormai prossima a tradursi nella tragedia dell'antisemitismo o comunque nei suoi immediati precedenti, grosso modo a partire dagli anni del IV Concilio lateranense del 1215 e dall'istituzione del signum super vestem per gli ebrei obbligatorio, la fatidica rota gialla destinata a una nefasta storia. Sull'ebraismo antico, su quello dei tempi di Gesù e dell'età romana imperiale con la diaspora, su quello altomedievale, gli studi sono moltissimi ma l'impressione resta che molto vi sia ancora da fare e da dire; e così anche su quel periodo specie dell'Europa occidentale (ma anche orientale o musulmana) che dall'esplosione dei pogrom connessi con la prima crociata a attraverso la vicissitudini del culto eucaristico giunge appunto fino al IV Concilio. Studi generali e "classici", come quello monumentale di Norman Cohn sull'antisemitismo, sono ormai troppo invecchiati per consentire una loro rilettura che voglia tener conto dell'aggiornamento nella ricerca.
   È questo uno dei motivi, e non dei meno rilevanti, per i quali risulta provvidenziale la pubblicazione di uno studio agile e limpido, senza dubbio di sintesi ma tutt'altro che superficiale o impressionistico - anzi, scientificamente fondato e criticamente autorevole-, di Giacomo Todeschini: Gli ebrei nell'Italia medievale (Carocci, pagine 268, euro 24,00). Un lavoro che, in nove puntuali capitoli, segue le vicende del rapporto tra le varie comunità insediate nella penisola e la circostante società "italiana" tra quella che a ragione viene definita e descritta come «l'incerta cristianizzazione» tra IV e VIII secolo (e torna a mente il fortunato saggio di Marina Montesano, La cristianizzazione dell'Italia nel medioevo, del 1997) e il Quattrocento con l'avvio delle politiche di "marginalizzazione", esclusione e addirittura espulsione. E mostra un quadro molto diverso rispetto a quello al quale, per genericità o per pigrizia mentale siamo assuefatti.
   Gli ebrei che Todeschini ricostruisce alla luce di una documentazione tutto sommato abbondante, ma dispersa e ardua a comporre in un quadro coerente, non sono affatto quel che a lungo si è creduto, vale a dire tutti o prevalentemente prestatori di danaro e magari usurai: per quanto sia ben noto che tra loro esistevano anche accorti mercanti, valorosi artigiani e apprezzati professionisti (soprattutto medici, ma anche scrittori e giuristi). Il rapporto tra comunità cristiane e comunità ebree si differenziò nel tempo, ma anche nello spazio e nelle differenti situazioni socioeconomiche e sociodemografiche: dal Nord continentale al Mediterraneo, da Roma e dal Patrimonium beati Petri, dalle città ai centri minori e alle campagne. Quando Dante, in un paio di versetti enigmatici e tormentati, parla ai primi del Trecento dell'ebreo «tra voi», esprime evidentemente una problematica che può preludere alla marginalizzazione e all'esclusione ma che comunque è di per sé il sintomo di un'ormai matura, consapevole problematica.
   Giacomo Todeschini, a lungo docente di Storia medievale nell'Università di Trieste, è specialista finissimo delle questioni economiche, della banca e del credito. I suoi lavori indirizzati soprattutto alla questione della povertà francescana e delle sue caratteristiche in funzione dello sviluppo dell' attività creditizia al di là dei limiti dell'usura scolasticamente intesi gli hanno a suo tempo valso l'attenzione di Jacques Le Goff, con il quale egli ha impostato i termini di una garbatissima eppure serrata polemica. Un suo libro recente, La banca e il ghetto (Laterza 2016), rappresenta un contributo notevole alla storia dell'attività finanziario-economica degli ebrei in relazione al tema della loro segregazione urbana.

(Avvenire, 14 settembre 2019)


Un'estate straordinaria per il turismo verso Israele

L'ufficio Nazionale Israeliano del Turismo ha il piacere di condividere le ultime statistiche degli arrivi italiani in Israele con un focus particolare all'estate 2019.
Sorprendenti risultano i dati del mese di agosto!
Oltre 21.000 sono i turisti giunti in Israele dall'Italia con una crescita del 34% rispetto al 2018 e dell'84% rispetto al 2017.
L'Italia è il 5o mercato mondiale nel turismo verso Israele e da inizio anno alla fine di agosto sono 120.400 gli italiani che hanno deciso di scoprirne le bellezze.
"Continua a crescere l'interesse dei viaggiatori italiani verso Israele, attirati sempre di più da bellezze del posto, sport ed eventi oltre che da motivi di natura culturale. Il 2018 è stato un anno molto positivo per il turismo in Israele e l'Italia si è confermata un mercato chiave per la destinazione con 150.600 arrivi.
Il +32% dall'inizio dell'anno ad oggi risulta davvero un dato straordinario e il successo può essere attribuito anche alla massiccia campagna di comunicazione "Two sunny cities one break" che ha portato nelle case degli italiani delle immagini splendide di una destinazione che continua a stupire" ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
Sempre di grande interesse gli eventi culturali!
E' in corso di svolgimento in questi giorni a Gerusalemme fino al 21 settembre il Festival Mekudeshet. Il Mekudeshet Festival (il cui nome significa "sacro"), ospita una rassegna artistica sperimentale che unisce musica, danza e numerose esperienze culturali. Sempre a Gerusalemme è in corso al Bible Land Museum un'inedita mostra dedicata alle immagini e alle mappe dedicate alla Terra Santa dal XVI al XX secolo: per raccontare il sogno della Terra del latte e del miele.
Tel Aviv nel mese di settembre celebrerà i 100 anni del Bauhaus, tendenza artistica di matrice germanica che vide in Tel Aviv fin dai primi anni del 900 una originale rivitalizzazione. Tel Aviv Open House dal 19 al 21 settembre celebra questo evento con anche l'apertura del nuovo Bauhaus Center.
Dalla fine di ottobre una nuova rotta diretta renderà ancora più facile arrivare in Israele: agli 84 voli diretti alla settimana della stagione invernale si aggiunge una connessione da Bologna, il mercoledì e il sabato, realizzata dalla compagnia Ryanair.
Israele sempre più vicina per un citiesbreak indimenticabile!

(Italiavola, 14 settembre 2019)


Oltre i precetti. Gli animali nella tradizione ebraica

La tradizione ebraica considera gli animali esseri senzienti, dotati di un'anima. Perciò viene più volte riaffermato il principio di evitare, se possibile, di provocar loro dolore. I grandi leader biblici furono pastori e quella fu la loro "palestra" per guidare il popolo. La sfida è di confrontarsi con chi, umano o animale, non ha voce e non ha potere di opporsi.

di Ariel Di Porto*

Uno degli scopi fondamentali della Torah è quello di costruire un certo tipo di società. Si tratta di un processo estremamente lungo, che richiede più di una generazione, a volte secoli. Come in tutte le grandi imprese, serve progettualità e una direzione. Migliorare le cose, non renderle perfette da subito; trasmettere ai propri figli gli ideali, di modo che possano proseguire il viaggio.
Nella storia del pensiero l'atteggiamento dei filosofi nei confronti degli animali è stato ambivalente: alcuni erano convinti che gli animali non avessero un'anima, altri, sotto certi aspetti, si preoccupavano più degli animali che degli esseri umani. È difficile trovare un equilibrio fra questi due estremi. Sotto certi aspetti gli animali sono simili a noi, per altri irrimediabilmente diversi.

 Gli animali nella tradizione ebraica
  La tradizione ebraica, oggetto di un recente e corposo interesse da parte degli studiosi, considera gli animali come esseri senzienti, dotati di un'anima, che possono provare dolore. Con un'espressione densa e poetica il filosofo francese del XIV sec. Ibn Kaspi afferma che gli animali sono «come i nostri padri», che, in una visione pre-darwiniana dell'evoluzione, ci hanno preceduto nella creazione e sono sostanzialmente simili a noi.
  Nella tradizione biblica invero troviamo anche l'asina parlante di Bil'am, che ci mostra, nel nostro linguaggio, la visione del mondo degli animali. Nella Bibbia i grandi protagonisti e i destinatari sono gli uomini, ma alcuni brani, come questo, o gli ultimi capitoli del Libro di Giobbe, dove è D. stesso a parlare e dire la sua su questo mondo antropocentrico e popolato invece di creature maestose e sconosciute, ci forniscono spaccati di mondi inattingibili per noi. Proprio perché considerate creature senzienti, un principio importante che emerge all'interno della halakhà, e sovente riaffermato, è il tza'ar ba'alè chayim ("sofferenza degli esseri viventi"), che deve essere, per quanto possibile, evitato. Questo credo sia evidente a tutti.
  Per questo, ad esempio, la caccia sportiva non gode di una buona considerazione, così come i grandi cacciatori della Bibbia (Esav e Nimrod), disegnati dai Maestri della tradizione rabbinica con pennellate fosche.
  Passando a questioni meno ovvie, potremmo chiederci se scappare da un pollaio, come nel film d'animazione Galline in fuga, debba essere considerato puro istinto animale o piuttosto una fuga per la libertà? Gli animali sono dei soggetti morali, capaci di determinati comportamenti e di perseguire certe virtù, o la coscienza e la conseguente responsabilità sono prerogative esclusivamente umane, che conferiscono all'umanità il dominio sul mondo animale e la supervisione, con maestosità e umiltà sull'andamento dell'impresa? La questione è tutt'altro che semplice, in fondo condividiamo il 98% del nostro Dna con gli scimpanzé… Le fonti ebraiche, sconosciute ai più, forniscono molti spunti in merito, negli ambiti più disparati, ma non sarà possibile approfondirli in questa sede, dove affronteremo solo alcuni limitati aspetti della precettistica biblica.

 I precetti
  Tanti precetti riguardano infatti gli animali, anzitutto come oggetto di prescrizioni, in quanto parte fondamentale del nostro mondo. Riporto alcuni esempi e delle brevissime riflessioni:
  • «Ma il settimo giorno sarà giornata di cessazione dal lavoro dedicata al Signore D. tuo; non farai alcun lavoro né tu né tuo figlio né tua figlia né il tuo schiavo né la tua schiava né il tuo bestiame né il forestiero che si trova nelle tue città» (Es. 20,10); nel riposo sabbatico esseri umani e animali vengono accomunati, fatto notevole in un'epoca in cui l'imperialismo e lo schiavismo umano abbondavano;
  • «Se tu scorgi l'asino del tuo nemico soccombente sotto il proprio peso, guardati bene dall'abbandonarlo, al contrario lo aiuterai a scaricarlo» (Es. 23,5); l'ostilità fra gli uomini non deve danneggiare un povero asino;
  • «Non mettere la museruola al bue mentre trebbia» (Dt 25,4): così come avviene per gli esseri umani (che tuttavia risentono di un equilibrio più delicato nel rapporto fra datore di lavoro e l'operaio nell'articolazione di tali norme), impedire al bue di nutrirsi mentre lavora sarebbe crudele;
  • «Non arerai con un toro e un asino insieme aggiogati» (Dt 22,10): il toro è più forte dell'asino e pretendere da un asino che svolga il lavoro di un toro sarebbe ingiusto. Un tema fondamentale, che trova espressione in numerosi ambiti, è quello del rispetto della biodiversità e dell'integrità della creazione;
  • «Un animale bovino, o un animale ovino o caprino, lui e suo figlio, non li scannerete nello stesso giorno» (Lv 22,28); le ricerche sociologiche sul mondo animale hanno evidenziato molti aspetti che accostano gli animali agli uomini, la capacità di creare gruppi, l'altruismo reciproco all'interno del gruppo, la capacità di provare una vasta gamma di sentimenti. Il fortissimo legame fra madre e figlio non si sottrae a tale parallelismo.
  • «Qualora per caso ti capitasse davanti, per strada, il nido di un uccello, su qualsiasi albero oppure per terra e contenga pulcini o uova e la madre li stia covando, non devi prendere la madre da sopra i figli» (Dt 22,6); questo comandamento è stato preso in considerazione dalla Mishnà in due passi, secondo i quali un officiante che in preghiera affermi che «La tua misericordia giunge sino al nido dell'uccello viene messo a tacere».
I comandamenti sono anzitutto decreti divini. Se quello fosse il motivo dell'istituzione della norma, scrive Maimonide, anche il consumo di carne sarebbe stato proibito.
  Le varie dimensioni emerse non si escludono reciprocamente, ma si compenetrano. Lo scopo finale delle norme è quello della crescita morale del singolo individuo e della società in generale.

 I nostri doveri
  Non è possibile assumere un atteggiamento schizofrenico rispetto alla ricerca della virtù, mostrarsi gentili con gli esseri umani e crudeli con gli animali. Dobbiamo essere sensibili ai loro bisogni ed evitarne la sofferenza. Anche se volessimo discutere dei diritti degli animali, in un'epoca segnata a livello generalizzato dall'affermazione dei diritti, dovremmo, piuttosto che sospendere il giudizio per via della difficoltà della questione, concentrarci sui nostri doveri, che prevedono un'attenzione speciale nei confronti dei vari elementi del creato, in un costante, delicato, e a volte doloroso calcolo costi-benefici.
  Nel processo di crescita gli animali sono pienamente una componente del quadro, parte integrante della creazione divina. I grandi leader biblici, Abramo, Mosè, David, erano pastori, e quella fu la loro palestra per guidare il popolo. Rebecca fu scelta come moglie di Isacco perché abbeverò i cammelli del servo Eli'ezer, mostrando una compassione fuori dal comune, rivolta a chiunque avesse bisogno di sostegno.
  La sfida è sempre la stessa: confrontarsi con coloro che, siano essi umani o animali, non hanno voce e non hanno potere di opporsi. Non è ammissibile dire «non sapevo», tutt'al più «sono stato indifferente». Siamo in grado di raccogliere questa sfida?

* Rabbino capo della comunità ebraica di Torino.

(Confronti, settembre 2019]


Ebrei, critiche ai vertici: «Troppo pro governo»

Protestano sessanta personalità: «L'Unione non entri nella politica».

di Alberto Giannoni

MILANO - «L'Uceì ha il dovere preciso di astenersi da prese di posizione sul dibattito dei partiti e sulla formazione delle maggioranze parlamentari». Suona come un richiamo grave e severo la lettera indirizzata all'Ucei e firmata ad ora da una sessantina di intellettuali e personalità di peso dell'ebraismo. Ai vertici dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, e in particolare alla presidente Noemi Di Segni, i firmatari rimproverano le prese di posizione sulla crisi di governo e sulla sua soluzione. «L'Ucei - si legge - è l'organo rappresentativo di tutto l'ebraismo italiano. Deve quindi rispettare questa pluralità ed evitare di porsi sul terreno dei partiti e dei movimenti che li affiancano. Se lo fa, come è accaduto con ogni evidenza nei giorni scorsi, tradisce la sua missione». Sotto, nomi importanti: i presidenti emeriti della Comunità di Milano Raffaele Besso e Walker Meghnagi, l'ex assessore alla Cultura Davide Romano, l'editore Guido Guastalla, ex vicepresidente a Livorno, e tanti altri: intellettuali, imprenditori, figure di rilievo nelle comunità, fra cui Ugo Volli, Vittorio Robiati Bendaud, Maurizio Salom, Emanuele Segre Amar, Deborah Fait.
   Cosa contestano alla Di Segni? Un atteggiamento troppo benevolo nei confronti del nascente esecutivo, e non solo. Le voci parlano di vera a propria «esasperazione» per le uscite degli ultimi mesi, giudicate troppo schierate. «Niente di male a dare il benvenuto al governo spiega poi uno dei firmatari, Romano ma senza cancellare le criticità». E cita Luigi Di Maio agli Esteri e «il silenzio sul ministro Lorenzo Fioramonti» e sulle sue posizioni negative su Israele. «Non porre la questione dell'antisionismo al nuovo governo significa voltare le spalle ai nostri fratelli israeliani». «Chiudere gli occhi di fronte a tutto questo non è ebraico».

(il Giornale, 14 settembre 2019)


Stessi giocatori ma una partita diversa: Israele torna al voto, Netanyahu rischia

A 5 mesi dall'ultima consultazione, martedì il Paese va alle urne. Inseguito da tre processi e orfano dell'appoggio incondizionato di Trump, il premier arranca. Anche nel caso delle microspie E il rivale Benny Gantz si rafforza.

di Fiammetta Martegani

Ci risiamo. Secondo voto in cinque mesi: stessi giocatori, stesso schema, ma la partita è molto diversa. Benjamin Netanyahu, primo ministro in carica da dieci anni, per la prima volta si trova in gravi difficoltà: stanco, logorato da una campagna elettorale "solo contro tutti", gravato da tre processi penali in corso che, se non dovesse vincere le elezioni, rischiano di spedirlo presto in tribunale, vede pure allontanarsi il grande alleato, il presidente americano Donald Trump, che dopo due anni di appoggio incondizionato, sembra ora fare marcia indietro. Anche se ieri non gli ha negato un «non penso ci abbiano spiato» in risposta al caso sollevato da Politico sulle microspie «israeliane» trovate a Washington. L'avversario, dall'altra parte del campo, è molto forte: l'ex generale Benny Gantz, leader del partito centrista Blu Bianco (che ad aprile ha preso gli stessi seggi del Likud di Bibi Netanyahu), parte in ottima posizione e con le migliori credenziali. La sua campagna elettorale, pacata e rassicurante, è stata un forte segnale. In posizione "mediana" c'è Avigdor Lieberman, capo del partito ultranazionalista Yisrael Beitenu, che, di nuovo, potrà rivelarsi l'ago della bilancia. È stato proprio lui, titolare di pochi seggi strategici, a far saltare due volte di seguito il governo nei mesi scorsi, e ancora oggi non si capisce da che parte stia. Decisamente in difesa, invece, il premier Netanyahu: un ruolo a cui non è abituato, avendo sempre dimostrato, in questi dieci anni, di saper cadere ma, soprattutto, di sapersi rialzare. Però i tempi sono cambiati. Trump sembra temere che Bibi, pur di non finire in galera, possa puntare dritto a una guerra con l'Iran: prospettiva che il presidente americano vede come il fumo negli occhi. Nonostante i toni sempre accesi nei confronti di Teheran, svincolarsi dal trattato sul nucleare ha già rappresentato, per lui, una discreta rivalsa (soprattutto nei confronti del predecessore, Barack Obama). Le sanzioni fanno il "lavoro sporco", e l'inquilino della Casa Bianca può persino concedersi il lusso di proporre aperture al presidente iraniano Hassan Rohani. Altro che guerra.
   Netanyahu ha annusato l'aria di tempesta ma sembra aver perso la bussola. L'altro ieri si è recato a Sochi per incontrare il presidente russo Vladimir Putin: un chiaro messaggio a Washington, se solo qualcuno lo stesse ad ascoltare. Mentre sul fronte interno, Bibi alza il livello della minaccia. Sulla Cisgiordania, con il suo piano di annessioni, e su Gaza: ancora ieri ha ripetuto che un'operazione contro l'enclave palestinese «può essere lanciata in qualsiasi momento, anche quattro giorni prima delle elezioni». Di sicuro c'è che, quattro giorni prima delle elezioni, risulta molto complicato per il Likud arrivare alla maggioranza di 61 seggi (su 120 della Knesset) necessari per formare un governo. I sondaggi danno in lieve vantaggio il partito Blu Bianco, con 32 seggi, seguito dai 31 del Likud. La Lista unita dei partiti arabi, la nuova formazione di destra Yamina dell'ex Ministro di Giustizia Ayelet Shaked e Yisrael Beitenu sono sui 10 seggi. Previsti 7 seggi ciascuno per i partiti ultra-ortodossi Shas e United Torah Judaism e per Campo Democratico di Ehud Barak. I Laburisti non supererebbero i 6, seguiti dal partito di estrema destra Otza Yehudit con 4.

(Avvenire, 14 settembre 2019)


L'abate canavesano del Settecento che scovò i tesori della cultura ebraica

Parma e la sua Biblioteca Palatina al centro della giornata che si celebra domani

di Elena Loewenthal

Se la Giornata Europea della cultura ebraica, che domani vedrà la sua 20a edizione, ha per obiettivo primo la scoperta di una realtà storica, umana e culturale, la città di Parma, quest'anno capofila in Italia (con altri 88 luoghi coinvolti, in nome del «Piacere di conoscersi»), è davvero il luogo ideale di questo incontro. I grandi protagonisti della storia ebraica parmense sono infatti i libri, che rendono questa città un crocevia culturale unico al mondo. La splendida Biblioteca Palatina, fondata nel 1769 alla presenza dell'imperatore d'Austria Giuseppe II e da allora situata nel Palazzo della Pilotta, contiene uno dei fondi ebraici più importanti del mondo: oltre 1400 manoscritti, quasi 1500 antichi volumi a stampa.
Questo patrimonio davvero inestimabile tanto per il suo valore culturale e filologico quanto per la bellezza assoluta è il frutto di una vita e di una passione inestinguibile: quelle di Gian Bernardo De Rossi, un abate originario del Canavese. Nato nel 1742 a Villa Castelnuovo in una distinta famiglia di giuristi e prelati, De Rossi studia prima nel seminario vescovile di Ivrea e poi all'Università di Torino: è uno di quegli ecclesiastici più propensi a stare fra i libri che a fare il pastore di anime. Ben presto si butta nello studio dell'ebraico, e poi affronta tutta la ricca famiglia delle lingue semitiche. È un filologo talmente appassionato che poco dopo avere ottenuto la cattedra di lingue orientali presso l'Università di Parma, nel 1769, redige un carmen polyglottum per le nozze del duca Ferdinando I con Maria Amalia d'Asburgo Lorena, che è la prima opera uscita dalla tipografia di Bodoni a Parma.
   Dal 1775 De Rossi si dedica soltanto ai lavori di bibliografia ebraica e allo studio del testo biblico: «Il primo però di tutti i miei pensieri era sempre l'acquisto dei mss ebraici del sagro testo che tanto vivamente interessava la nuova mia collezione, e la mia serie, e spiegai in questa parte un' energia e una attività così grande, ch'io ebbi la soddisfazione di vederne un esito felicissimo». È così che si crea a poco a poco il fondo ebraico della Biblioteca Palatina: Bibbie intere o libri singoli, testi della tradizione, Qabbalah, filosofia, trattati vari, volumi liturgici. La sua biblioteca privata nel 1816 viene ceduta a quella di Parma in cambio di un vitalizio, e si trova ancora oggi fra quelle splendide sale dove le boiseries avvolgono i volumi - la biblioteca in sé è un'immensa opera d'arte.
   È pur vero che l'interesse degli intellettuali cristiani per la letteratura ebraica aveva, rispetto a De Rossi, illustri precedenti che passano per Pico della Mirandola. Gli ebraisti cristiani del Rinascimento avevano però spesso intenti apologetici, quando non malevoli, mentre l'abate piemontese era mosso da una autentica curiosità intellettuale; è questo che fa di lui e della sua collezione qualcosa di unico al mondo, tanto per ricchezza quanto per obiettivi.
E se domani, in occasione della Giornata della cultura ebraica con centinaia di eventi in tutta Italia - visite guidate a sinagoghe, incontri, mostre - Parma sarà il cuore di questo incontro, il merito va tutto ai libri, alla personalità e alla passione dell'abate De Rossi, ai suoi viaggi in giro per il mondo in cerca di quei Santi Graal che erano i libri ebraici: «E m'accadde anche per acquistare un solo articolo di fare un viaggio espresso, come feci per quel Pentateuco, e per l'Isaia e Geremia di Lisbona dello stesso anno, l'uno e l'altro di una rarità veramente estrema».

(La Stampa, 14 settembre 2019)


Dipartimento Tesoro Usa: Hezbollah riceve finanziamenti dal commercio della droga

WASHINGTON - Il dipartimento del Tesoro Usa ha accusato il movimento sciita libanese Hezbollah di ricevere finanziamenti dal riciclaggio di denaro e dal commercio di droga, aggiungendo che gli Stati Uniti considerano l'acquisto di petrolio iraniano come finanziamento del terrorismo. In una conferenza stampa l'assistente segretario per il finanziamento del terrorismo nel dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, Marshall Billingslea, ha dichiarato che Washington continuerà ad esercitare pressioni economiche sull'Iran e Hezbollah. Secondo Billingslea, attraverso alleanze politiche Hezbollah è stato in grado di imporsi sul governo libanese. Sempre nella nota, Billingslea ha riferito che gli Stati Uniti imporranno sanzioni a qualsiasi entità irachena che abbia a che fare con i Guardiani della rivoluzione iraniana, precisando che i paesi della Nato sostengono gli Stati Uniti e considerano l'Iran uno stato terroristico. Infine, Billingslea ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno informato i paesi europei che i loro rapporti con l'Iran avranno un impatto sul commercio.

(Agenzia Nova, 13 settembre 2019)


Netanyahu in Russia parla con Putin prima delle elezioni

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu è in Russia per incontrare il Presidente Vladimir Putin e il Governo prima delle elezioni in Israele. Voci di corridoio parlano di un Netanyahu che vorrebbe provare a trascinare Mosca nella lotta contro la "destabilizzazione" legata all'Iran.

Giovedì sera i due leader si sono incontrati nella città di villeggiatura russa di Sochi, nel Mar Nero. Ufficialmente, i colloqui sono stati delineati come una discussione sulle relazioni bilaterali e varie questioni di sicurezza - terrorismo internazionale e situazione in Siria. Putin ha affermato che sia la Russia che Israele sono "ben consapevoli" di cosa sia il terrorismo e ha affermato che la cooperazione è particolarmente importante per combatterlo.
   Netanyahu, da parte sua, ha puntato la questione sull'Iran, affermando che Tel Aviv "non tollererà le minacce di Teheran", accusando ancora una volta l'Iran di usare il territorio siriano per scatenare "aggressioni" contro Israele. Il Primo Ministro israeliano vorrebbe che Mosca condividesse tale posizione e alla fine vedesse la presenza iraniana estirpata dalla Siria, ha suggerito il portavoce di Netanyahu Evan Gary Cohen.
"Penso che la presenza iraniana in Siria sia qualcosa che sia russi che israeliani vorrebbero porre fine. E' qualcosa che entrambi desiderano", ha detto Cohen in un'intervista.
Questa opinione tuttavia sembra essere in netto contrasto con quella di Mosca, che è sempre stata impegnata nella cooperazione militare ed economica con Teheran, mentre ripetutamente ha criticato i tentativi di dipingere l'Iran come l'unica fonte di problemi in Medio Oriente. La Russia ha più volte condannato gli attacchi israeliani contro presunti obiettivi "iraniani collegati" in Siria. Uno di questi raid aveva comportato persino la perdita di un aereo da ricognizione russo e la morte di tutti e 15 i passeggeri a bordo, dopo essere stato accidentalmente abbattuto dalle difese aeree siriane per essere stato scambiato con un bombardiere israeliano.
   Parlando con i giornalisti giovedì, sia Putin che Netanyahu hanno sottolineato l'importanza della cooperazione tra le forze armate dei due Paesi, necessaria per prevenire eventuali incursioni tra di loro e per combattere il terrorismo. In vista dell'incontro con Putin, il Primo Ministro israeliano - che è anche ministro della Difesa ad interim dopo le dimissioni di Avigdor Lieberman - ha incontrato il suo omologo russo Sergei Shoigu.
   Netanyahu ha lodato la "connessione naturale" e un "ponte umano tra Israele e i paesi di lingua russa" e ha definito i colloqui con Shoigu "importanti". Ha, tuttavia, affermato che i militari israeliani devono mantenere la "libertà d'azione", che è essenziale per impedire all'Iran di radicarsi nella "nostra regione".
   Putin e Netanyahu hanno toccato un altro tema caldo: le imminenti elezioni parlamentari del 17 settembre in Israele. I critici del Primo Ministro israeliano hanno affermato che la visita di Netanyahu è stata una trovata pubblicitaria nel tentativo di assicurarsi la sua rielezione. Il portavoce di Netanyahu ha tuttavia negato con veemenza qualsiasi presunto legame tra le elezioni e i colloqui, insistendo sul fatto che si trattasse solo di sicurezza.
   Putin ha affermato che Mosca segue da vicino le elezioni, poiché Israele ospita oltre 1,5 milioni di persone che provenivano dall'ex Unione Sovietica.
"Li abbiamo sempre considerati come nostra gente, li chiamiamo compatrioti", ha detto Putin che non ha voluto esprimere alcun supporto esplicito per Netanyahu, limitandosi ad augurare che "politici responsabili" possano guidare la Knesset, il Parlamento israeliano.

(Sputnik Italia, 13 settembre 2019)


Europei di baseball: Israele batte la Francia a suon di fuoricampo

Tre homer mettono ko i transalpini, per la formazione rivelazione di questo campionato ora la sfida con l'Italia (Germania permettendo…)

   
 
Israele dopo la vittoria con la Francia
Israele batte la Francia (8-2) e si qualifica al turno successivo, dove salvo sorprese incontrerà l'Italia, stasera in campo contro la Germania. Al primo inning gli israeliani - una piacevole rivelazione di questo Europeo - mettono subito le cose in chiaro, segnando 3 punti, due dei quali grazie al fuoricampo del terza base Valencia. La prima segnatura, invece, era arrivata grazie a una base per ball e al successivo doppio. Israele che al terzo segna altri 2 punti: Valencia viene colpito e Rickles, il ricevitore, spedisce la pallina oltre la recinzione per il 5 a 0
Partita che è segnata, nei fatti, ma la Francia prova a dire la sua fino all'ultimo e soprattutto a non uscire per manifesta inferiorità. Alternando tre lanciatori (Ozanich il perdente, con 3 riprese sul monte) i transalpini limitano i danni ma Israele passa ancora al quarto grazie al "solo homer" di Paller, esterno sinistro, quindi a un singolo, seguito da errore, e un altro singolo: 7-0
La Francia segna 2 punti al sesto: due singoli, una palla mancata, una battuta sull'interbase per il 7-1 con avanzamento in terza del corridore che era in seconda e poi il 7-2 su un errore di tiro del ricevitore.
Al settimo Israele chiude i giochi, complici i lanciatori avversari: due basi di fila, poi due eliminati, ancora due basi e il punto forzato del punteggio definitivo. Lanciatore vincente David Sharabi, nel box oltre gli autori dei fuoricampo da segnalare il 3 su 4 dell'esterno destro Wolf, con un doppio.

(baseball.it, 13 settembre 2019)


Israele, tutte le incognite del voto

Nei sondaggi testa a testa tra Netanyahu e Gantz, ma c'è il rischio di un altro stallo

Affluenza e partecipazione degli elettori arabi saranno due dei fattori determinanti nelle elezioni israeliane di martedì, le seconde di quest'anno, dopo l'impasse politico generato da quelle dello scorso aprile.
   Secondo gli analisti israeliani, a correre i rischi maggiori di fronte ad una bassa affluenza (ad aprile fu del 68%) potrebbe essere proprio il Likud. Una bassa percentuale di votanti potrebbe indebolire il partito di Benjamin Netanyahu, a vantaggio delle formazioni minori. Negli ultimi sondaggi, il Likud è in media accreditato di 31-33 seggi, sui 120 che compongono la Knesset.
   Uno degli scenari più temuti dal partito del premier è quello nel quale il Blu e Bianco del rivale Benny Gantz risulti la formazione più votata. Per il presidente Reuven Rivlin sarebbe inevitabile assegnare all'ex generale l'incarico di formare il nuovo governo. Gantz potrebbe anche tentare di formare una coalizione col Likud, mettendo però Netanyahu di fronte a una serie di richieste impossibili da accettare. Altra insidia per il partito del premier è la partecipazione degli elettori arabi, che potrebbero andare a rafforzare l'opposizione.
   Anche il partito Blu e Bianco di Gantz punta a far crescere l'affluenza al voto. Gli attivisti del partito hanno annunciato che fino a martedì saranno moltiplicati gli sforzi per convincere gli elettori ancora incerti a presentarsi alle urne. Altra sfida per Gantz è superare l'isolamento dal resto del centro sinistra. Il messaggio da far passare è che il Blu e Bianco è l'unica vera alternativa a Netanyahu e che non andare a votare equivarrebbe ad un voto per il Likud. Anche per Gantz, i sondaggi indicano in media un risultato tra i 31 e i 33 seggi.
   Da tenere d'occhio, nel voto di martedì, il risultato di Yamina, l'alleanza di partiti di destra ed estrema destra, creata appositamente per queste elezioni, allo scopo di non disperdere voti e superare agevolmente la soglia di sbarramento del 3,25%, necessaria per accedere alla Knesset. L'alleanza, guidata dalla 43enne Ayelet Shaked, secondo i sondaggi è accreditata di 9-10 seggi, ma c'è il rischio che all'ultimo gli elettori di destra decidano di votare Likud, sgonfiando il risultato di Yamina. Altro rischio, i voti che potrebbero essere persi a vantaggio di Otzma Yehudit, il partitino dell'estrema destra che secondo alcuni sondaggi potrebbe non superare nemmeno la soglia di sbarramento.
   Altra incognita delle elezioni è quella rappresentata dalla Lista Unita, il cartello di partiti arabi, accreditato di un risultato che oscilla intorno ai 10 seggi, a patto che la partecipazione degli arabi israeliani si mantenga alta. Lista Unita si è rivolta anche all'elettorato ebraico di sinistra ed estrema sinistra, accreditandosi come l'unica formazione che punta a mettere fine all'occupazione in Cisgiordania.
   Ancora una volta, ago della bilancia per il blocco di destra potrebbe essere Yisrael Beytenu, il partito nazionalista laico dell'ex ministro degli Esteri e della Difesa, Avigdor Lieberman. Con una fortissima base elettorale tra gli israeliani di origine russa, Yisrael Beytenu ha determinato il fallimento del precedente tentativo di Netanyahu di formare una coalizione di destra attorno al Likud. Ostacolo insormontabile è stata la legge per imporre la leva obbligatoria anche agli ebrei ultraortodossi, caldeggiata da Lieberman e osteggiata dai partiti religiosi.
   L'alleanza di sinistra Unione Democratica, punta invece a differenziarsi dal blocco di centro sinistra e a convincere gli elettori di quell'area che l'unico voto utile per fermare Netanyahu non è per il Blu e Bianco, ma per il blocco in quanto tale. Negli ultimi sondaggi sono accreditati di 5 seggi. United Torah Judaism, l'alleanza ultraortodossa askenazita, fa invece leva sulla campagna anti religiosa lanciata da Ysrael Beytenu, per portare gli elettori alle urne. Il rischio è di sortire l'effetto opposto e spingere ad una maggiore partecipazione al voto l'elettorato laico.
   L'altro partito ultraortodosso, il sefardita Shas, grande alleato del Likud di Netanyahu, ha invece di fronte a sé, a schieramenti ribaltati, lo stesso problema dell'Unione Democratica: convincere gli elettori che quel che conta è la coalizione (in questo caso di centro destra) e non il partito principale. Negli ultimi sondaggi è accreditato di 7 seggi. Non andrebbe invece oltre i 4 seggi il cartello formato dai Laburisti e da Gesher, che fatica a differenziarsi dagli altri partiti di centro sinistra o ad attrarre voti a destra. Labour-Gesher punta anche al voto arabo e della comunità drusa.

(RaiNews, 13 settembre 2019)


Visita privata del neo ambasciatore israeliano nella comunità ebraica di Roma

di Giacomo Kahn

 
Si è trattato di una visita privata, di cortesia, quella effettuata giovedì dal neo ambasciatore israeliano designato in Italia, Dror Eydar, che ha incontrato il Consiglio della Comunità ebraica di Roma, nella prima riunione operativa, dopo le elezioni dello scorso giugno. L'occasione dell'incontro è stato lo scambio di auguri per l'inizio del nuovo anno ebraico 'Rosh Hashanà' che verrà festeggiato tra pochi giorni.
"Il privilegio di rappresentare lo Stato di Israele a Roma - ha sottolineato il neo ambasciatore - con tutto il bagaglio diplomatico, nazionale e religioso che lega i due popoli e che risale a migliaia di anni fa, assume un significato speciale. Cercherò di dedicare tutte le mie energie e conoscenze per rappresentare Israele fedelmente e con coraggio".
Dror Eydar - che sostituisce Ofer Sachs - non è un diplomatico di carriere: è stato giornalista, e ricercatore di storia e letteratura.
Al termine del breve incontro il neo diplomatico ha salutato i consiglieri con una doppia promessa: l'impegno ad incontrare in forma ufficiale tutta la Comunità ebraica e "di imparare presto e meglio la lingua italiana, una lingua che ho imparato a conoscere e ad amare".

(Shalom, 13 settembre 2019)


Ora Donald (senza Bolton) apre all'Iran

di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON - La diplomazia americana sta lavorando a un altro vertice storico, quello tra Donald Trump e il presidente iraniano Hassan Rouhani. L'occasione è propizia, in campo neutro: l'Assemblea generale dell'Onu che comincia il 23 settembre a New York. Secondo le ricostruzioni più quotate, John Bolton avrebbe deciso di lasciare il posto di Consigliere per la sicurezza nazionale perché decisamente contrario a questo passo, all'apertura del dialogo politico, senza precondizioni, con l'Iran. Bolton aveva fatto leva anche sull'opposizione del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Gli stessi ambienti da cui provengono il genero-consigliere di Trump, Jared Kushner e la famiglia Mercer, sostenitrice di Bolton e generosa finanziatrice del presidente. Ma né Bolton, né Kushner, né i Mercer e nemmeno i repubblicani più influenti, tra tutti il senatore Lindsay Graham, sono riusciti a frenare il leader della Casa Bianca, convinto di poter persuadere il finora riluttante Rouhani a posare davanti a telecamere e fotografi nel Palazzo di Vetro. Nel frattempo l'uscita di Bolton completa il processo di desertificazione a Washington. In due anni e mezzo, Trump ha liquidato prima i militanti-ideologi come Steve Bannon, poi i manager come Rex Tillerson e infine i generali, da Jim Mattis a Herbert Raymond McMaster. Bolton era rimasta l'unica personalità distinguibile in quella claque che è diventata la squadra di governo.
   Ora l'attenzione si concentra sul ruolo del Segretario di Stato, Mike Pompeo, 55 anni, al momento l'esegeta più efficace del volubile pragmatismo trumpiano. Il New York Times ipotizza per lui un doppio incarico: capo della diplomazia e nuovo consigliere per la Sicurezza. Il precedente storico è pesante: Henry Kissinger occupò le due caselle con Richard Nixon e con Gerald Ford. È probabile, però, che al posto di Bolton arrivi un uomo di fiducia di Pompeo: Stephen Biegun, 56 anni, uomo d'affari e inviato per la Corea del Nord; oppure Brian Hook, 50 anni, avvocato, inviato per l'Iran.

(Corriere della Sera, 13 settembre 2019)


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Lo sgambetto di Macron a Netanyahu. La Francia dietro l'incontro USA-Iran

Una politica smaccatamente anti-israeliana quella di Macron

 
Ci sarebbe lo zampino di Emmanuel Macron dietro l'organizzazione di un incontro tra il Presidente americano, Donald Trump, e quello Iraniano, Hassan Rouhani, previsto per il prossimo 23 settembre a New York.
Fonti vicine alla Casa Bianca confermano a Bloomberg che si sta preparando lo storico incontro a margine dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si terrà a fine mese a New York e che l'incontro sarebbe negoziato dalla Francia. Addirittura non si esclude la partecipazione del Presidente francese.
Sarebbe questo, sempre secondo Bloomberg, il motivo del licenziamento di John Bolton il quale non era assolutamente d'accordo all'incontro e, anzi, premeva per un allargamento delle sanzioni.

 Perplessità e stupore in Israele
  Ci sarebbe molta perplessità unita a stupore in Israele. Il premier Benjamin Netanyahu, che ieri è volato in Russia per discutere con Vladimir Putin per l'ennesima volta della presenza iraniana in Siria, ha rilasciato poche dichiarazioni prima di imbarcarsi per Sochi, tutte votate alla cautela.
«Credo che Trump continuerà con la politica della sanzioni verso l'Iran» ha detto Netanyahu alla radio israeliana poco prima di partire per la Russia. «Per quanto ne so, non alleggerirà le sanzioni» ha poi aggiunto il Premier israeliano. Ma l'imbarazzo era evidente.
Netanyahu non può permettersi il lusso di criticare la politica del "amico" Trump. È preso tra l'incudine e il martello e di certo queste voci non giovano alla sua campagna elettorale.
Poi ha ammesso che Israele non può dettare la politica agli Stati Uniti e che non può stabilire chi deve o non deve incontrare il Presidente Trump. «Quello che so» ha detto Netanyahu «è che fino ad ora nessuno ha fatto una politica anti-iraniana come il Presidente Trump» ha infine detto alla radio.

 Indispettiti per l'intromissione francese
  A Gerusalemme sono a dir poco indispettiti per l'intromissione della Francia nella questione iraniana.
Il Presidente Macron tifa apertamente per la fine delle sanzioni all'Iran. Ha già organizzato la comparsata del Ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, al recente G7 e adesso sta lavorando attivamente per organizzare l'incontro tra il Presidente americano e quello iraniano.
A Gerusalemme la politica francese viene vista come «smaccatamente ostile ad Israele», volta cioè a mettere in difficoltà non solo i rapporti tra lo Stato Ebraico e gli alleati americani, ma anche a limitare le azioni difensive israeliane finalizzate a impedire all'Iran di stanziarsi stabilmente in Siria e di rifornire di armi i gruppi terroristici.

(Rights Reporters, 13 settembre 2019)


Israele spiava i telefoni del presidente americano

di Giordano Stabile

Il Mossad spiava i cellulari di Donald Trump ed è stato scoperto. L'intrusione non ha suscitato reazioni particolari da parte della Casa Bianca, tanto che è emersa soltanto un anno dopo, con uno scoop del quotidiano «Politico». La notizia però piomba sulla campagna elettorale di Benjamin Netanyahu che martedì prossimo si gioca la sua carriera politica in una sfida all'ultimo voto. Il premier israeliano ha negato tutto da Sochi, dove ieri ha incontrato Vladimir Putin. Ma proprio i rapporti privilegiati con i leader americano e russo, una volta il suo punto di forza in politica estera, appaiono logorati.
   Nella ricostruzione di «Politico», il dipartimento per la Sicurezza interna ha scoperto nell'ottobre del 2018 dispositivi elettronici piazzati vicino alla Casa Bianca e in altri luoghi sensibili di Washington. Sono conosciuti come «StingRays» e hanno la capacità di ingannare i cellulari protetti perché emettono segnali identici a quelli delle antenne. L'obiettivo era spiare i telefoni usati da Trump e un alto funzionario dell'Intelligence ha rivelato al quotidiano che «è piuttosto chiara la responsabilità degli israeliani». Un sospetto confermato dalle indagini dell'Fbi.
   I dubbi nei confronti dello Stato ebraico erano emersi fra alti funzionari della Casa Bianca perché «talvolta gli israeliani usavano frasi o espressioni particolari, che erano apparse soltanto in bozze di discorsi mai resi pubblici». Per l'Intelligence Usa «gli israeliani sono parecchio aggressivi, proteggono la sicurezza del loro Paese e fanno qualsiasi cosa che ritengono indispensabile per raggiungere il loro obiettivo». E' probabile che cercassero di capire le mosse di Trump sui dossier mediorientali, soprattutto quello iraniano.
   Non è la prima volta che Paesi alleati si spiano fra loro. Clamoroso è stato il caso dei cellulari di Angela Merkel intercettati dall'Nsa americana. Trump non ha fatto trasparire irritazione. Netanyahu, dalla Russia, ha negato: «E' una sfrontata bugia. Abbiamo una direttiva: nessun spionaggio nei confronti degli Stati Uniti, senza eccezioni. E' una invenzione totale». Ma è chiaro che le rivelazioni saranno usate contro di lui in campagna elettorale. Il rapporto con "The Donald" non è più lo stesso da quando Trump ha deciso di dare una chance diplomatica all'Iran. E anche con Putin ci sono frizioni sulla presenza iraniana in Siria. Politica estera e sicurezza, una volta i punti forti di Netanyahu, ora l'azzoppano. Le immagini dell'altra sera, quando sul palco ad Ashdod è stato trascinato via dagli agenti di scorta perché arrivavano razzi da Gaza, sono state devastanti e potrebbero costargli la rielezione.

(La Stampa, 13 settembre 2019)


Certo che è uno strano paese, Israele

di Andrea Marcenaro

Il 17 si voterà e tra quattro giorni si saprà tutto. Certo che è uno strano paese, Israele. I suoi vicini aspettano serenamente il risultato della partita, l'Iran non muove foglia, perdura tutt'intorno al piccolo stato un civilissimo spirito sportivo, qualche drone armato da Gaza, un paio di coltellate alla cieca sui civili ebrei, ma non molte di più, qualche bomba sui kibbutz meridionali, una manata di migliaia di missili accumulati da Hezbollah sopra il confine nord, poi certo, ti spunta anche la Francia che fa l'occhietto ai pasdaran, ma insomma, tutto scorre liscio come nemmeno alle amministrative di Montecarrugolo. Solo che quel fascista di Netanyahu, il quale, chissà perché, si ostina a non voler perdere, usa espressioni di propaganda grassa capaci addirittura, questo dicono, di avvelenare il clima.

(Il Foglio, 13 settembre 2019)


Aleh: nel Negev un centro di riabilitazione all'avanguardia per disabili

Nel deserto del Negev, nella città meridionale di Ofakim, c'è un'importante struttura che offre servizi terapeutici, medici ed educativi a bambini e adulti con gravi disabilità fisiche e cognitive.
Si tratta del centro di riabilitazione ALEH Negev-Nahalat Eran 2007, istituito da Doron Almog dopo che al figlio Eran fu diagnosticato un grave autismo e disabilità nello sviluppo.
Almog ha deciso di fondare ALEH Negev per soddisfare le esigenze di persone come suo figlio, che purtroppo è morto all'età di 23 anni.
Presto sarà costruito un ospedale
All'interno del villaggio, costituito da un gruppo di edifici bassi, sta nascendo un ospedale di riabilitazione all'avanguardia che dovrà soddisfare le esigenze di centinaia di residenti del sud di Israele che attualmente hanno bisogno di recarsi a Tel Aviv per servizi di riabilitazione in ospedale a seguito di incidenti, lesioni, ictus.
Il complesso sarà composto da 108 posti letto, reparti di degenza ortopedica e neurologica, reparti di fisioterapia e terapia occupazionale, un centro sportivo, strutture per pazienti esterni e visitatori e un centro di ricerca e formazione. In caso di emergenza, tutti i pazienti possono essere trasferiti in una zona rinforzata e protetta.
Vicino al villaggio ALEH, come riporta The Times of Israel, sorgerà una nuova città, chiamata Daniel, che sarà abitata da medici e professionisti del settore medico che lavorano nel villaggio e nell'ospedale, studenti e giovani coppie, e persone che si sono sottoposti a trattamenti di riabilitazione e scelgono di rimanere vicino all'ospedale.

 Conclusione dei lavori
  La prima parte dell'ospedale - 72 posti letto in due reparti di degenza ortopedica e neurologica, con annessi reparti di fisioterapia e terapia occupazionale - dovrebbe essere aperta nel 2021.
L'ospedale lavorerà a stretto contatto con l'Università Ben-Gurion del Negev, che ha sede nella vicina Beersheba, sulla ricerca riabilitativa e sui nuovi programmi per i pazienti, comprese tecnologie come la realtà virtuale. L'ospedale ospiterà anche stagisti dell'università in modo che possano praticare le loro abilità mediche.
Attualmente circa 500 persone lavorano nel villaggio di riabilitazione ALEH Negev-Nahalat Eran. Altri 500 membri del personale medico, terapisti e amministrazione saranno impiegati nell'ospedale adiacente.
Lo studio di architettura di Ada Karmi-Melamede sta seguendo il progetto del nuovo ospedale, che sarà costituito da un edificio basso, con accesso per disabili.
Alcune delle attività di riabilitazione possono essere svolte sia all'esterno che all'interno, ha affermato Karmi. La piscina, la caffetteria e il palazzetto dello sport saranno aperti ai pazienti ospedalieri, agli abitanti del villaggio di ALEH Negev e agli abitanti locali, per incoraggiare l'interazione e aiutare a mitigare le problematiche legate alla disabilità mentale e fisica.

(SiliconWadi, 13 settembre 2019)


Divina alleanza in Palestina

I legami tra cristiani evangelici statunitensi e coloni israeliani sono molto forti. I due gruppi hanno ideali simili e interessi in comune.

di Judy Maltz

Quando circa dieci anni fa i primi volontari cristiani evangelici si presentarono nell'insediamento religioso di Har Brakha, in Cisgiordania, offrendosi di raccogliere gratis l'uva per i contadini ebrei del posto, non tutti li accolsero a braccia aperte. Dopotutto, per generazioni gli ebrei hanno imparato che quando i cristiani si dimostrano gentili probabilmente è perché in segreto stanno complottando per convertirli, quindi è meglio mantenere le distanze.
   Da allora molte cose sono cambiate. Ci sono ancora coloni ebrei non del tutto a proprio agio all'idea di cristiani che vivono in mezzo a loro e lavorano nei loro campi. Ma è raro che quei coloni protestino. Hayovel, l'organizzazione statunitense che porta i volontari ad Har Brakha, fa parte di una lista sempre più lunga di gruppi evangelici attivi nel cosiddetto "cuore delle terre bibliche". Negli ultimi dieci anni ha portato più di 1.700 volontari esclusivamente nelle colonie in Cisgiordania, perché per una questione di principio i partecipanti non assistono i contadini all'interno del territorio di Israele.
   Per spiegare l'attaccamento di Hayovel a queste terre contese, che la maggioranza della comunità internazionale non riconosce come parte di Israele, nel sito si legge; "Tutti i paesi del mondo hanno voltato le spalle alla Giudea e alla Samaria, il cuore di Israele, dove si sono svolti l'80 per cento dei fatti narrati nella Bibbia". Il riferimento è alle due regioni storiche citate nel testo sacro. Per anni Hayovel ha lavorato evitando di attirare l'attenzione, convinta che meno israeliani conoscevano la sua attività, meglio era.
   Oggi non è più così. L'organizzazione non profit è più che felice di ospitare giornalisti e curiosi nel suo campus principale, nella colonia di Har Brakha, con vista sulla città palestinese di Nablus. Questo desiderio di mostrare alla luce del sole le sue attività dimostra quanto le interazioni tra cristiani evangelici statunitensi e coloni ebrei siano diventate la norma.

 Quello che si aspettano
  The heart of lsrael (anche nota come Binyamin fund) è un'altra organizzazione caritatevole che trae beneficio da questi legami. Creata tre anni fa, raccoglie centinaia di migliaia di dollari all'anno destinati a progetti nelle colonie. Il suo fondatore Aaron Katsof, di origini statunitensi, sostiene che gli evangelici sono i donatori più numerosi, anche se contribuiscono per meno della metà del denaro. Katsof vive nella colonia di Shiloh, in Cisgiordania. Ha deciso di creare The heart of lsrael quando si è reso conto del forte desiderio degli evangelici di stabilire un legame con gli insediamenti; "Quando atterrano a Tel Aviv spesso mi dicono che non è così che immaginavano Israele. Ma quando arrivano negli insediamenti, dicono che è esattamente quello che si aspettavano". E aggiunge; "Sono i nostri migliori alleati".
   La sua non è l'unica organizzazione che cerca di trasformare in dollari l'ondata di sostegno evangelico al movimento dei coloni. Ma valutare la portata di questo sostegno è difficile, perché gli enti senza scopo di
lucro e le chiese registrate negli Stati Uniti non devono dichiarare le proprie fonti di finanziamento né specificare a chi danno i soldi. Inoltre, una parte della beneficenza assume una forma non monetaria, come le ore di lavoro gratuito o i servizi di promozione e vendita.
   Un rapporto del 2015 dell'istituto israeliano progressista Molad ha cercato di quantificare il denaro investito nelle colonie dalla comunità evangelica. Il documento conclude che è praticamente impossibile farlo, anche perché "molte ong israeliane attive in Giudea e Samaria non rispettano pienamente le regole di trasparenza e non dichiarano i bilanci all'ufficio competente, violando la legge".
   Tuttavia il rapporto afferma che una "quota notevole" degli investimenti evangelici in Israele finisce al di là della Linea verde (i confini israeliani precedenti al 1967) e che tra i beneficiari figurano consigli regionali, ong di destra, avamposti illegali, attività economiche e agenzie di viaggi specializzate in tour delle colonie. Un'analisi dei bilanci delle principali organizzazioni attive nella raccolta fondi tra gli evangelici per finanziare progetti negli insediamenti indica che in termini assoluti le cifre sono ancora relativamente piccole. Ma sembrano in crescita. Inoltre le iniziative di questo tipo si moltiplicano. In base a questa analisi e ai dati sui singoli progetti, il valore totale dei finanziamenti raccolti negli ultimi dieci anni si può stimare tra 50 e 65 milioni di dollari.
   Nelle colonie della Cisgiordania vivono circa 400mila ebrei, che costituiscono quasi il 6 per cento della popolazione ebraica di Israele e dei territori occupati. Si stima che due terzi di loro siano religiosi. Dato che tradizionalmente gli ebrei ortodossi sono più diffidenti dei laici nei confronti dei cristiani, il consolidamento dei rapporti con la comunità evangelica non era scontato. "C'era da aspettarsi che la comunità religiosa sarebbe stata l'ultima ad accogliere questo aiuto", dice il rabbino Tuly Weisz, editore di Israeljoj, una newsletter quotidiana inviata a 150mila evangelici nel mondo. "Ma credo che questa sia la relazione più logica", aggiunge. "I cristiani sostengono Israele in generale, e la Giudea e la Samaria in particolare, su basi bibliche. In questo gli ebrei religiosi possono certamente immedesimarsi".
   Come fa notare il rabbino, inoltre, gli evangelici che hanno sostenuto l'elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti in seguito hanno fatto pressioni perché adottasse politiche in linea con le posizioni del movimento dei coloni, come il trasferimento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme e il via libera alla costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania. "Per questo molti esponenti della comunità ebraica religiosa sono ben disposti ad accettare l'amicizia degli evangelici", spiega Weisz.
   Nel 2018 Hayovel ha raggiunto un importante risultato per ottenere legittimità in Israele: il ministero degli affari strategici israeliano ha stanziato una somma fissa da destinare ali' organizzazione. Non per il lavoro nei campi, ma per l'attività di promozione di Israele e del movimento dei coloni nelle comunità evangeliche all'estero. La cifra iniziale è di 16mila dollari all'anno, ma in futuro aumenterà.

 Lo stesso linguaggio
  In questo momento sembra che siano più le cose che uniscono la destra cristiana statunitense e la destra ebraica rispetto a quelle che le dividono. Tomer Persico, docente allo Shalom Hartman institute di San Francisco, nota che molti rabbini delle colonie hanno superato il loro rifiuto istintivo dei cristiani perché la comunità evangelica è stata di grande aiuto nel promuovere i loro interessi, e non solo sul piano politico. "Questa nuova cooperazione è basata sul comune rifiuto di un ritiro di Israele dalla Giudea e dalla Samaria, ma anche su una visione del mondo conservatrice per quanto riguarda le relazioni di genere, i diritti lgbt, i diritti delle minoranze, il ruolo della religione nella sfera pubblica e il nazionalismo", spiega Persico. Il docente nota che i conservatori religiosi da entrambe le parti hanno trovato un sostegno reciproco e un linguaggio comune: "Ormai i sionisti religiosi israeliani somigliano molto ai repubblicani evangelici statunitensi".
   Aaron Lipkin, portavoce della colonia di Ofra, osserva che molti dei rabbini ortodossi che erano contrari ai tentativi di avvicinamento dei cristiani oggi hanno abbassato i toni. E che dall'elezione di Trump l'atteggiamento sta cambiando anche tra la gente comune. Lipkin ha un'agenzia di viaggi specializzata in tour degli evangelici nelle colonie. È una nicchia, spiega, che si è dimostrata molto redditizia: "Questa gente è davvero appassionata alla Bibbia. Purtroppo, il 99 per cento dei turisti che visita questo paese non va dove sono avvenuti gli eventi biblici. Con il mio lavoro voglio cambiare questa situazione".
   La Christian friends of lsraeli communities (Cfoic) raccoglie ogni anno circa un milione di dollari per progetti nelle colonie, e quasi tutte le donazioni arrivano dagli evangelici. Creata nel 1995, la Cfoic è stata la prima organizzazione di beneficenza cristiana a occuparsi esclusivamente delle colonie. A gestire l'impresa è una statunitense originaria di Cleveland e residente nella colonia di Karnei Shomron. Sondra Baras spiega che l'idea di sostenere le colonie si fece strada quando il governo israeliano cominciò a concedere ai palestinesi la sovranità su alcune parti della Cisgiordania (che lei preferisce chiamare Giudea e Samaria) nell'ambito degli accordi di Oslo. I suoi amici evangelici erano così indignati da queste concessioni territoriali che Baras, ebrea ortodossa, propose di creare un'organizzazione che investisse solo nelle colonie.

 Via libera
  Tra i rabbini sionisti ortodossi, uno dei principali oppositori dei legami tra coloni ed evangelici è Shlomo Aviner, leader spirituale dell'insediamento di Beit El. In un manifesto pubblicato nell'aprile del 2017 Aviner definiva i cristiani amici di Israele "il più grande imbroglio del mondo". Secondo lui, tutte le forme di aiuto da parte dei cristiani hanno l'obiettivo di cancellare Israele "in un modo o nell'altro". Gli evangelici infatti, scriveva Aviner, sono i cristiani più pericolosi, perché considerano Israele una tappa necessaria al ritorno di Cristo e credono che alla fine dei tempi, quando la maggior parte degli ebrei sarà stata uccisa, quelli rimasti si convertiranno al cristianesimo:" Ecco perché ci riempiono di amore e denaro".
   Ma a quanto pare Aviner è sempre più in minoranza, soprattutto da quando il rabbino Eliezer Melamed, il leader spirituale di Har Brakha molto rispettato nella comunità sionista ortodossa, ha dichiarato pubblicamente che i cristiani possono lavorare nei campi dei contadini ebrei, purché non svolgano attività missionarie. Il suo giudizio è stato considerato un via libera per i coloni ad accettare l'aiuto degli evangelici statunitensi.
   Persico spiega perché gli evangelici sono dei sostenitori così accaniti dei coloni israeliani e delle rivendicazioni ebraiche su tutta la Cisgiordania:per loro "è essenziale che Israele controlli Gerusalemme e la terra promessa, per mettere in moto gli eventi descritti nell'Apocalisse. I coloni non credono a questa storia ma approfittano della fede degli evangelici".
   Sara Yael Hirschhorn, docente di studi israeliani alla Northwestern universìty, negli Stati Uniti, spiega che "in prima linea nel riavvicinamento tra ebrei ed evangelici" ci sono religiosi statunitensi come il rabbino Shlomo Riskin, fondatore della colonia di Efrat. Originario di New York, Riskin ha creato il Center for jewish-christian understanding and cooperation e collabora con la Christians united for Israel, un'organizzazione con quattro milioni di iscritti fondata da John Hagee, celebre telepredicatore statunitense e pastore di una grande congregazione evangelica.

 Minore resistenza
  La JH Israel, con sede in Alabama, assegna le sue donazioni quasi esclusivamente ad Ariel, una delle colonie più grandi della Cisgiordania. Heather e Bruce Johnston, che hanno fondato l'organizzazione, erano amici di Ron Nachman, il defunto sindaco di Ariel e tra i primi leader dei coloni a comprendere il potenziale della filantropia evangelica. Ariel è per lo più laica, al contrario di altre colonie in Cisgiordania, per questo c'è stata meno resistenza ad accogliere l'aiuto degli evangelici. Negli ultimi dieci anni la JH Israel ha quadruplicato i fondi per Ariel. Nel 2017 la cifra si aggirava intorno al milione di dollari. Nel tempo i Johnston hanno ospitato decine di allievi delle scuole della colonia di Ariel nel ritiro cristiano che gestiscono nella California del nord. Durante una di queste visite, circa dieci anni fa, fu deciso di creare una struttura di accoglienza simile ad Ariel. Oggi il complesso da due milioni di dollari costruito nella colonia (conosciuto come National leadership center) ospita ogni anno migliaia di studenti israeliani delle scuole superiori. Nel 2018 il ministero dell'istruzione israeliano ha deciso di destinare al centro circa 1 milione di shekel (245mila euro) all'anno. Questo dimostra che il governo usa i soldi dei contribuenti per rafforzare l'alleanza tra coloni ed evangelici.
   Tra le colonie Ariel è quella che usufruisce di più della beneficenza evangelica. Nel 2008 la chiesa di John Hagee ha investito otto milioni di dollari in W1 complesso sportivo nell'insediamento. Hagee ha anche donato quasi un milione di dollari al centro ebraico-cristiano di Riskin a Efrat. Anche se Friends of Ariel, il ramo statunitense della colonia, che si occupa dei finanziamenti, ha rapporti stretti con le chiese evangeliche, non è chiaro quanti dei suoi fondi arrivino dai cristiani.
   In un'intervista al quotidiano israeliano Maarivnel 2010, Nachman spiegava di essersi rivolto agli evangelici perché gli ebrei non gli davano soldi: "Le organizzazioni ebraiche all'estero mi boicottano. Preferiscono dare soldi a quei criminali del New lsrael fund", ha detto riferendosi all'organizzazione statunitense che sostiene le cause progressiste in Israele. Su questo aveva ragione: la maggior parte delle organizzazioni filantropiche ebraiche investe poco o nulla nelle colonie.
   Invece la International fellowship of christian and jews (Ifcj) e la Christians united for lsrael, due delle più note organizzazioni evangeliche di beneficenza impegnate in Israele, finanziano i progetti nelle colonie. Ma questa non è la loro missione prioritaria. Lo stesso vale per le principali organizzazioni evangeliche con sede in Israele, come Bridges for peace, International christian embassy e Christian for Israel. La Ifjc è la più grande organizzazione attiva in questo campo e raccoglie in media 140 milioni di dollari all'anno. Secondo il fondatore, il rabbino Yechiel Eckstein, solo l'1 per cento di questa cifra va negli insediamenti. "Dalle colonie arrivano soprattutto richieste di droni ", spiega.
   Ma per comprendere a pieno il sostegno delle comunità evangeliche alle colonie israeliane non basta sommare il denaro raccolto. Blessed buy Israel, per esempio, non distribuisce fondi, ma aiuta a promuovere le attività delle colonie negli Stati Uniti. Fondata da Steve e Doris Wearp, una coppia evangelica del Texas, Blessed buy lsrael vende nelle chiese e online i prodotti realizzati da una decina di aziende a conduzione familiare delle colonie. Nel 2017, il primo anno di attività, le vendite ammontavano a 50mila dollari.
   Hayovel ha dichiarato che durante la vendemmia del 2018 i suoi 175 volontari hanno raccolto 340 tonnellate di uva nelle colonie, lavorando per un totale di 4.930 ore. Considerando il salario minimo attuale, in tre mesi hanno fatto risparmiare agli agricoltori locali circa 40mila dollari.

 Ambasciatori nel mondo
  In un giorno di raccolta nei vigneti di Har Brakha, i volontari provenienti da Stati Uniti, Svezia, Norvegia, Hong Kong, Austria e Nuova Zelanda cantavano inni cristiani e alcune delle donne si spostavano lungo i filari portando i bambini sulla schiena. Quando abbiamo chiesto se i contadini si fossero offerti di condividere i profitti coni volontari, il portavoce di Hayovel, Luke Hilton, ha risposto: "Queste persone non sono ricche. Ogni dollaro che gli facciamo risparmiare, possono reinvestirlo nella terra. E noi vogliamo consentirgli di restare su questa terra".
   L'azienda vinicola Tura winery è di proprietà di Nir Lavie, nato in Israele ma cresciuto negli Stati Uniti, dove il padre lavorava come diplomatico. Vivendo all'estero, racconta, ha imparato che non c'è nulla da temere dai cristiani. Quando ha aperto la sua azienda vent'anni fa, nella prima annata ha prodotto tremila bottiglie di vino. Grazie all'aiuto dei volontari di Hayovel la produzione si è ingrandita e oggi arriva a 50mila bottiglie all'anno.
   Quando lo incalziamo per sapere quanto denaro ha risparmiato grazie all'aiuto dei volontari, si mette sulla difensiva: "E allora i kibbutz? Non risparmiavano con tutti i volontari dall'estero?". Ha ragione, certo, se non fosse che i volontari che andavano nei kibbutz di solito ricevevano vitto e alloggio in cambio del loro lavoro. I volontari di Hayovel, invece, devono coprire da soli tutte le spese.
   "La cosa importante", continua Lavie, "è che queste persone diventano ambasciatrici di Israele nel mondo. E anche loro ci guadagnano, perché fare questo lavoro le rende felici. Quindi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ringrazio Dio perché sono qui, e spero che continueranno a venire ancora per due o trecento anni".

(Internazionale, 13 settembre 2019)


Nell'articolo "Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora", presente nella rubrica Approfondimenti, abbiamo presentato una possibile lettura del “fenomeno” dei cristiani evangelici che aiutano Israele. In ogni caso, chi presenta questi fatti, oltre a descrivere come la prendono gli ebrei israeliani, dovrebbe saper capire e spiegare in modo un po’ meno superficiale i motivi che muovono i cristiani evangelici. Ma forse è chiedere troppo. M.C.


ONU condanna libri scolastici palestinesi: meglio tardi che mai

Finalmente emerge lo scandalo delle scuole e dei libri di testo palestinisti

La settimana scorsa è accaduto un episodio così ovvio ma insieme così improbabile da essere veramente rivoluzionario. Valeva la pena di darne notizia e vale la pena di ricordarlo, ma naturalmente i giornali italiani e in genere occidentali non ne hanno praticamente parlato e anche le fonti ebraiche, tranne Progetto Dreyfus e pochi altri, non l'hanno sottolineato a sufficienza, almeno secondo me. Il fatto è questo: l'Onu (l'ONU!) in particolare il suo comitato contro il razzismo, ha dato ragione a Israele e condannato l'Autorità Palestinese per i contenuti razzisti e di odio dei libri di testo che impone nelle sue scuole...

(Progetto Dreyfus, 12 settembre 2019)



Israele, il voto che l'America di Trump aspetta con ansia

Il ritorno alle urne martedì vede Netanyahu in difficoltà. Casa Bianca più defilata Il ruolo di Adelson, magnate dei casinò di Las Vegas, a sostegno del premier

di Roberto Bongiomi

Impossibile ignorarlo. L'enorme manifesto elettorale, che ricopre la facciata di un palazzo di 10 piani a Tel Aviv, racconta efficacemente lo stretto legame tra il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ed il presidente americano Donald Trump. Sorridenti, i due leader si stringono la mano.
   Ai ferri corti con Barack Obama, Bibi il falco, premier ininterrottamente dal 2009, ha trovato in Donald un grande sostenitore della sua linea politica. E Trump non si è mai curato di nasconderlo. Solo cinque mesi fa, salutò così la vittoria elettorale di Netanyahu: «Un grande alleato e un grande amico. Mi congratulo con lui». Al di là delle parole, il sostegno di Trump si era concretizzato in tre grandi regali che hanno agevolato la campagna elettorale del leader del partito conservatore Likud. Prima, nel dicembre del 2017, ha annunciato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. Poi, nel maggio del 2018, è statala volta della clamorosa uscita degli Usa dall'accordo sul nucleare iraniano, e la conseguente ripresa delle sanzioni contro Teheran. Infine, a sole a due settimane dal voto, ricevendo Bibi alla Casa Bianca, Trump ha firmato il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, il territorio strappato da Israele alla Siria nella guerra dei sei giorni (1967), ed annesso ufficialmente da Gerusalemme nel 1981 Tre decisioni che hanno profondamente irritato gran parte della Comunità internazionale, in prima linea Ue e Onu. Nessun presidente americano è mai stato tanto generoso con un premier israeliano. Raggiante, Netanyahu, in giugno ha cambiato il nome a un piccolo insediamento. Non più Bruchim, come si chiamava, bensì Ramat Trump, le Alture di Trump.
   Dopo soltanto cinque mesi, gli israeliani tomeranno nuovamente alle urne. In aprile Netanyahu ha vinto le elezioni, ma non è riuscito a formare una coalizione di maggioranza alla Knesset (almeno 61 seggi su 120). Stavolta la sfida tra il Likud e il partito centrista "Blu- Bianco", guidato dall'ex capo di stato maggiore Benny Gantz è ancor più serrata (i sondaggi danno in lieve vantaggio Gantz).
   Eppure , finora il silenzio di Trump è stato quasi assordante. Nessun regalo elettorale a Bibi, nessuna parola di incoraggiamento. Nessuno commento neanche all'estremo tentativo fatto martedì da Netanyahu per guadagnare consensi: l'annuncio di voler annettere la valle del Giordano (di cui 2/3 sono Territori palestinesi della Cisgiordania), e gli insediamenti a Israele. Netanyahu ha precisato di averlo concordato con la Casa Bianca.
   Sembra che Trump, a cui piace sostenere i cavalli vincenti, abbia subodorato che qualcosa potrebbe non andare come previsto. E cominci a prendere le distanze dall'amico Bibi. Il quale, se non vincesse le elezioni potrebbe presto essere incriminato per tre casi di corruzione. Su un altro strategico argomento - il dossier nucleare iraniano - Trump pare allontanarsi dall'oltranzismo di Bibi Quasi avesse compreso che un accordo con l'Iran è di gran lunga preferibile ad una grande guerra mediorientale. La disponibilità, di voler incontrare il presidente iraniano Hassan Rouhani, forse già tra pochi giorni all'Assemblea generale dell'Onu, è vissuta come un tradimento dall'entourage di Netanyahu. Al quale non ha fatto presumibilmente piacere un'altra mossa di Trump; il licenziamento del suo Consigliere alla sicurezza nazionale, John Bolton, l'uomo anti-Iran.
   Ben inteso. Trump non può fare a meno di Netanyahu. Per una serie di ragioni. La nuova politica americana in Medio Oriente, affidata da Trump a suo genero, Jared Kushner, 38 anni, ebreo conservatore molto vicino a Netanyahu, appare in linea con quella condivisa da Bibi: isolare l'Iran e creare un blocco di monarchie sunnite, guidato dai sauditi, da contrapporre a Teheran Scegliere i sauditi come partner strategici (in sicurezza ma anche in lucrosi affari con gli Usa), non sembra aver infastidito più di tanto Netanyahu. Trump ha bisogno di Bibi anche per ragioni squisitamente interne. Molti dei suoi finanziatori vedono di buon occhio un'altra conferma di Netanyahu. Primo fra tutti l'ebreo americano Sheldon Adelson. Il magnate dei casinò di Las Vegas, terzo uomo più ricco degli Stati Uniti, è uno stretto amico del premier israeliano nonché un sostenitore della sua linea politica. Senza Netanyahu il misterioso piano di pace che lo stesso Trump ama definire «l'accordo del secolo» rischia di naufragare. Se così accadesse, sarebbe uno schiaffo alla credibilità di Trump. Capace di riflettersi negativamente sulla sua imminente campagna elettorale.
   L'esito delle elezioni americane ha sempre avuto una grande influenza sulla politica israeliana. Basti pensare che uno dei candidati alle presidenziali del 2020 per il Partito Democratico, Bernie Sanders, ha aperto alla possibilità di tagliare gli aiuti militari americani a Israele, 3,8 miliardi di dollari all'anno, se dovesse vincere. Le elezioni della piccola Israele potrebbero avere un impatto anche su quelle del suo grande e potente alleato.

(Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2019)


I rabbini d'Israele innamorati della bella Ayelet

La Shaked, ex ministra con Netanyahu, ora guida la coalizione delle sigle più a destra. Che possono diventare decisive

di Daniel Mosseri

 
Ayelet Shaked
Se dici Israele e donna il pensiero non può che andare a Golda Meir: primo ministro dal 1969 al 1974, la donna di ferro della politica israeliana cresciuta fra kibbutz e sindacato era una socialista tutta di un pezzo. All'ala moderata del Likud, il partito conservatore dell'attuale premier Benjamin Netanyahu, apparteneva invece Tzipi Llvni. Coerente con il suo ruolo di "colomba", Livni ha lasciato nel 2005 il Likud per formare Kadima, partito centrista che l'ha portata a diventare la prima donna vicepremier in Israele.
   In un Paese dove i partiti ultraortodossi sono composti tutti da uomini, è forse naturale che le due più note politiche di professione provengano dalle principali formazioni non religiose.
   Questa regola non scritta, tuttavia, sta cambiando. Perché Israele ha una nuova Giovanna D'Arco, conservatrice, nazionalista, laica ma attentissima al rapporto con i religiosi. Si chiama Ayelet Shaked e il suo scopo è guastare la festa al centro e alla sinistra in Israele.
   Netanyahu la conosce bene. Fu lui nel 2006 a mettere Shaked, classe 1976, alla testa del proprio ufficio. Origini irachene, due diplomi universitari in tasca (elettrotecnica e informatica), un passato di istruttrice nella brigata Golani, Shaked milita per anni nella Casa Ebraica, formazione nazionalista, religiosa e pro insediamenti nei territori palestinesi. Con la Casa Ebraica, Shaked si candida nel 2013, diventando l'unica deputata laica del gruppo. Alle elezioni anticipate del 2015 Shaked è rieletta e Netanyahu la nomina ministro della Giustizia. La Guardasigilli si fa notare garantendo lo status giuridico degli insediamenti israeliani, e obbligando le Ong che ricevono la maggioranza dei propri finanziamenti dall'estero a dichiararlo. A firma Ayelet Shaked è anche una legge del 2016 che rafforza l'apparato anti-terrore in Israele con più misure amministrative, indagini e maggiori pene contro chi commette o supporta gli atti di terrore.
   Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha paragonato Shaked ad Adolf Hitler per aver detto «Chi è il nemico? I palestinesi. Perché? Chiedetelo a loro, hanno iniziato loro». Sposata a un pilota di caccia e madre di due figli, la bella ministra dai capelli neri e gli occhi di ghiaccio non teme le critiche. E quando le danno della fascista, non si scompone: anzi, lancia uno spot in bianco e nero in cui si spruzza il profumo "Fascism", elenca i provvedimenti da lei sostenuti e conclude con un «secondo me odora di democrazia». Fiera sostenitrice di una giustizia non schierata a sinistra, la laica Shaked nomina giudici conservatori; e un anno fa afferma: «Oggi la Corte è più rappresentativa, ma manca ancora un giudice ultraortodosso». Shaked continua a farsi notare sostenendo anche la recente legge che definisce Israele uno Stato ebraico. Da luglio 2019, guida un nuovo partito, Yamina ("A destra") e spera di diventare l'ago della bilancia della prossima legislatura. Se Netanyahu promette che annetterà parte della Cisgiordania, lei osserva: «Questo è un invito per Menachem Gantz (il principale oppositore di Netanyahu, ndr) e il suo partito che non sono contrari. Se noi avremo solo 5 o 6 seggi, Netanyahu aprirà a Gantz e ai laburisti». Da cui l'appello affinché Yamina ottenga almeno dieci deputati e salvi Israele da uno scivolamento a sinistra.

(Libero, 12 settembre 2019)


Trump flirta con talebani e ayatollah, il jihad mondiale fa festa

Israele freme su quattro fronti di guerra

di Giulio Meotti

ROMA - It could happen, ha risposto il presidente americano Donald Trump alla domanda su un suo possibile incontro con l'iraniano Hassan Rohani. Sarebbe la prima volta per i leader dei due paesi in aperta ostilità dalla presa dell'ambasciata americana a Teheran nel 1979. A Gerusalemme, l'enclave ebraica dove la vicenda ha ricadute più concrete di una photo opportunity, lo ritengono cosa fatta. "Questa è la conclusione dell'establishment di sicurezza di Israele dopo l'incontro a Londra del premier Benjamin Netanyahu con il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Mark Esper", rivela Haaretz. "Con un avvertimento: a meno che il membro meno prevedibile della coppia, Donald Trump, cambi idea all'ultimo minuto". A conferma anche il segretario di stato Mike Pompeo, che ha aggiunto che l'incontro potrebbe avvenire "senza precondizioni". E in questa chiave vanno lette le dimissioni di John Bolton.
   "Un fatto che delizia il nordcoreano Kim Jong Un, l'iraniano Hassan Rohani, il russo Vladimir Putin e il venezuelano Nicolàs Maduro" commenta il Wall Street Journal. Bolton si era opposto al mancato incontro fra Trump e i talebani a Camp David ed era un sostenitore del regime change a Teheran. Che Trump fosse disposto a incontrare i basisti di al Qaida nell'anniversario dell'11 settembre e il capo del regime islamista che in quarant'anni ha destabilizzato il medio oriente, finanziato tutto il terrorismo contro lo stato ebraico e tiranneggiato la propria popolazione, non è un bel segnale al jihad internazionale, di cui talebani e ayatollah sono fra i due poli maggiori. "Immaginate se, nel 2011, Barack Obama non solo avesse ritirato le forze statunitensi dall'Iraq, facilitando l'ascesa dello Stato islamico, ma avesse anche invitato i leader dello Stato islamico a Camp David" ha scritto ieri sul Washington Post Mare Thiessen, ex speechwriter di George W. Bush. "La decisione di Obama di ritirare le truppe americane fu catastrofica, ma neppure lui era abbastanza stupido da cercare una foto con i terroristi".
   Rohani non è un Kim Jong-un qualunque, il goffo satrapo di un regime fatiscente che si regge in piedi grazie alla Cina. Rohani è il presidente di una repubblica islamica e di una dittatura in turbante che quest'anno ha celebrato i trent'anni della fatwa contro Saiman Rushdie e che è già entrato nella "soglia" preatomica (e sarebbe la prima vera "bomba di Allah", se non contiamo il Pakistan in teoria alleato degli americani). Un regime, l'Iran, che già beneficia dell'appeasement della vecchia Europa. Se a questo si aggiungesse quello americano, caotico e trumpiano, potrebbe essere funesto, specie per quello stato ebraico la cui distruzione è considerata strategica nei piani iraniani di egemonia. Per questo a Gerusalemme in questi giorni si è, oltre che in quella elettorale, in ansia preatomica. "Immagina cosa avrebbe fatto Netanyahu in questo momento se Obama avesse espresso interesse a incontrare Rohani", ha detto ad al Monitor un dirigente del Likud.
   Israele è impegnato a bombardare le propaggini iraniane su ben quattro fronti: Gaza (Hamas), Libano (Hezbollah), Siria e Iraq (le milizie sciite). Identica la minaccia: iraniana. Due giorni fa, Netanyahu in conferenza stampa ha rivelato un'area vicino ad Abadeh, in Iran, e fotografata il 27 marzo scorso, in cui l'Iran "ha condotto esperimenti per sviluppare armi nucleari". Ieri, Netanyahu è stato portato via di corsa dal palco elettorale ad Ahdod, mentre suonava la sirena antimissili (missili iraniani). America e Israele, "grande e piccolo Satana" secondo gli ayatollah. Che guaio sarebbe se il grande lasciasse solo il piccolo a vedersela con i mullah, in uno scompiglio di appeasement da cui si rischia, come spesso accade, di uscire con una guerra.

(Il Foglio, 12 settembre 2019)


Conferenza "We love Israel", 13-15 Settembre 2019 - Firenze

Ospiti da tutta Italia e da Israele, per un viaggio alla scoperta di una terra e di una nazione sempre al centro delle cronache ma di cui, in fondo, si conosce troppo poco.

Uno sguardo a 360 gradi su cultura, arte, cinema, sicurezza e religione in Israele. Dal 13 al 15 Settembre va in scena la conferenza "We love Israel", organizzata dall'Associazione Onlus Fede Speranza Amore nella sua sede di via Empoli 15/2 a Firenze. Ingresso libero.
L'evento, in collaborazione con l'Associazione Italia-Israele di Firenze, è a carattere culturale ed è totalmente apolitico. «Non vogliamo prendere alcuna posizione sulle questioni politiche mediorientali, che coinvolgono anche Israele - precisa Lorenzo Lippi, presidente onorario dell'Associazione Onlus Fede Speranza Amore - L'appuntamento mira semplicemente a raccontare uno spaccato di questo Paese, ricco di storia e di tradizioni, ma anche all'avanguardia in diversi settori».
Comunicato Stampa

(Associazione Onlus Fede Speranza Amore, 12 settembre 2019)


Leggi della Torah e viti di 4 anni. Ecco il vino kosher

In Italia una trentina le cantine di Gavi e Montepulciano. Di Segni: "Può diventare una voce importante per l'export".

di Miriam Massone

Il grande romanzo dell'enologia comincia con Noè: la Bibbia fa risalire a lui la coltura della vite nel mondo, «il cui frutto rallegra il cuore dell'uomo». Da allora la storia del vino si intreccia con la religione ebraica. «Ha un importante ruolo liturgico - conferma Riccardo Shemuel Di Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma-: ad esempio la mensa del sabato si consacra recitando una formula sul vino».
  Rossi, bianchi, orange wine, rosati, spumanti e champagne devono però essere kosher, «cioè manipolati dalla spremitura alla mescita da personale ebreo osservante». Un processo disciplinato dalla Torah che impone scrupolose norme: l'uva, ad esempio, deve provenire da una vite con almeno quattro anni di età (i grappoli prodotti prima vanno distrutti), tutto il personale di cantina dev'essere ebreo osservante, gli strumenti vanno puliti e purificati, con 7 mila litri di acqua nelle vasche da lasciar riposare per 24 ore, e qualsiasi additivo dev'essere kosher. Il vino, infine, va pastorizzato (yayin mevushal), cioè portato a 90o e poi repentinamente a 4o per non compromettere profumo e aroma, e certificato. Insomma, chi decide di cimentarsi in questo settore, è consapevole dello sforzo, anche economico: «Per i mercati italiani credo sia una sfida positiva - dice Di Segni - il vino kosher può diventare una voce importante per l'export, ma l'impresa che lo produce dev'essere sufficientemente grande e avere un bacino d'utenza ampio per poter supportare i costi».
  Il mercato mondiale vale 28 milioni di dollari - 7 milioni di bottiglie- e a farla da padrone sono Francia, California e Italia: nel nostro Paese, secondo recenti studi della eia-Agricoltori italiani - le cantine sono una trentina, ma il numero è destinato a crescere (fino a qualche anno fa erano 15).

 Le bottiglie
  La «Vecchia Cantina di Montepulciano», cooperativa toscana di 400 soci nata nel 193 7, è stata tra le prime a investire sul kosher: «Abbiamo cominciato perché ce l'ha richiesto uno storico cliente» dice il presidente Andrea Rossi. Ogni anno, quindi, attendono il rabbino in vigna per la vendemmia del loro vino Nobile: «Per l'annata 2019, tra Nobile, Rosso di Montepulciano, Chianti e Toscanaigt, produrremo 120mila bottiglie».
  Anche per Andrea Spinola, titolare della cantina Marchese Luca Spinola, in Piemonte, l'idea di cimentarsi con il primo Gavi kosher (certificato Klbd da Londra) al mondo è arrivata dalla domanda «del mio importatore di NewYork, Ami Nahari». Ottimo, il feedback. «Lo facciamo dal 2016, circa tremila bottiglie l'anno, sono molto soddisfatto: il Gavi è un brand che funziona, conosciuto nel mondo, si abbina bene alla cucina ebraica e piace anche ai gentili, perché naturale, fermenta da solo, è un vino ancestrale dalle enormi potenzialità».
  E riesce a competere con l'offerta d'Israele, dove consumano soprattutto Cabernet Sauvignon e Merlot: «Anche lì la qualità sta migliorando - dice Di Segni -: 20 anni fa andava di moda un vino da uva americana, il Manischewitz, era il re della mensa, ma era molto dolce, poco affine ai palati europei». Il kosher italiano è dunque «esportato con successo all'estero, a conferma dell'importanza del vino sui mercati internazionali- dice Dino Scanavino, presidente Cia - e della necessità di nuovi negoziati come i recenti accordi europei del Ceta con il Canada e dello Jefta con il Giappone». La nuova sfida ora è aumentarne il consumo anche in Italia, non solo tra gli ebrei, e ampliare la produzione: oltre al Gavi e ai rossi di Montepulciano, promettono bene il Chianti Classico e l'Amarone.

(Stampa Tuttigusti, 12 settembre 2019)



Russia "preoccupata" dai piani di Israele sulla Valle del Giordano

Mosca è preoccupata dai piani di Israele di estendere la propria sovranità sulla Valle del Giordano perché potrebbero far aumentare le tensioni nella regione: lo riferisce il ministero degli Esteri russo, citato dall'agenzia Interfax. Giovedì a Sochi è in programma un incontro tra il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e l'argomento potrebbe essere affrontato durante il summit.

(TGCOM24, 11 settembre 2019)


La politica estera filo-iraniana e anti-israeliana della Germania

di Soeren Kern*

Un alto diplomatico tedesco incaricato di guidare un sistema dell'UE che prevede una sorta di baratto che consentirebbe alle aziende europee di eludere sanzioni statunitensi all'Iran si è dimesso dopo aver rilasciato un'intervista in cui criticava l'esistenza di Israele ed elogiava il programma di sviluppo di missili balistici di Teheran.
   L'episodio - l'ultimo di una serie di eventi che hanno messo a nudo il fondamento anti-israeliano della politica estera tedesca - è un'imbarazzante battuta d'arresto per il governo tedesco e complicherà i suoi sforzi per salvare l'accordo sul nucleare iraniano.
   Il 71enne Bernd Erbel, ex ambasciatore tedesco in Iraq e in Iran, ha dichiarato che non assumerà la leadership di Instex, un meccanismo di pagamento per agevolare gli scambi commerciali con Teheran, dopo che il quotidiano Bild, l'8 agosto, aveva pubblicato i contenuti di una lunga intervista rilasciata da Erbel a Ken Jebsen, un giornalista radiofonico tedesco di origine iraniana che lo ha definito un "teorico della cospirazione" e un "antisemita".
   Nell'intervista di due ore e mezza, Erbel ha detto che Israele è stato fondato "a spese di un altro popolo" e ha affermato che "i palestinesi sono vittime delle nostre vittime". Ha poi aggiunto che "se lo Stato ebraico fosse stato fondato in Prussia, allora il problema palestinese non sarebbe esistito".
   Secondo l'ex ambasciatore, lo Stato ebraico è "più che mai un corpo estraneo nella regione" e per motivi "psicologici" Israele è incapace di empatia.
   Nell'intervista, Erbel ha difeso l'Iran dichiarando che "l'ultima volta che le truppe iraniane attraversarono il confine con un altro paese a fini di aggressione" fu nel XVIII secolo, quando l'Iran invase l'India. E Bild ha osservato che
"Le truppe iraniane sono in guerra in Iraq dal 2003, e dal 2011 in Siria, sostenendo i miliziani Houthi in Yemen e a Gaza, Hamas, la Jihad islamica palestinese e Harakat al-Sabireen; le Guardie rivoluzionarie insieme a Hezbollah nel sud della Siria lanciano razzi contro Israele - tutte queste azioni militari offensive da parte delle truppe iraniane all'estero non vengono menzionate da Erbel".
L'alto diplomatico ha elogiato i successi ottenuti da Hezbollah con il sostegno di Teheran nella guerra del Libano del 2006:
"Diversi paesi arabi manifestarono un incredibile entusiasmo per il fatto che per la prima volta Israele venne davvero insidiato. Era qualcosa di molto, ma molto insolito, ma estremamente importante, a livello psicologico, vedere l'esistenza di forze che si oppongono con successo a Israele. Era qualcosa che, ad esempio, fu fonte di giubilo negli ambienti più borghesi in Egitto. Pertanto, fu una novità".
Erbel ha inoltre difeso il programma di sviluppo di missili balistici iraniano:
"Nel 2015, c'era una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che vietava all'Iran di testare i missili balistici. Dopo l'accordo sul nucleare, questa risoluzione venne modificata e si limita a chiedere che l'Iran eviti tali test se i missili possono essere dotati di testate nucleari. La richiesta può essere o meno ottemperata, dipende dalle condizioni generali, e le condizioni per l'Iran si sono notevolmente deteriorate dalla conclusione dell'accordo sul nucleare".
Dopo la pubblicazione dell'intervista rilasciata a Bild, un portavoce del ministero degli Esteri tedesco ha dichiarato che Erbel non avrebbe assunto la leadership di Instex per "motivi personali". Il portavoce ha aggiunto che il ministero degli Esteri "non era a conoscenza" delle interviste di Erbel e che le sue opinioni erano personali e non rappresentano la posizione del governo.
   La Germania, di fatto, è stata decisamente ostile a Israele negli ultimi anni. Nel 2018, ad esempio, su 21 risoluzioni delle Nazioni Unite contro Israele, la Germania ne ha approvate 16, astenendosi per quanto concerne le altre quattro. Nel maggio 2016, la Germania approvò una risoluzione dell'ONU particolarmente deplorevole, promossa dal gruppo dei Paesi arabi e dalla delegazione palestinese, che indicava Israele, in occasione dell'Assemblea annuale dell'Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), come unico violatore mondiale della "salute mentale, fisica e ambientale".
   In effetti, gran parte dell'establishment politico tedesco sembra essere fondamentalmente anti-israeliano. Nel marzo scorso, ad esempio, il Bundestag tedesco ha respinto in modo schiacciante una risoluzione presentata dal Partito Liberale Democratico (FDP) per spingere il governo della cancelliera Angela Merkel a ribaltare i precedenti delle votazioni contro Israele alle Nazioni Unite. Con 408 voti contrari, 155 favorevoli e 65 astensioni, il parlamento federale tedesco ha bocciato l'invito del FDP rivolto al governo di "prendere esplicitamente le distanze dalle iniziative unilaterali, motivate innanzitutto politicamente e dalle alleanze dei paesi membri delle Nazioni Unite contrari a Israele e proteggere Israele e i suoi legittimi interessi dalla condanna unilaterale".
   Nel giugno scorso, il Bundestag ha respinto una risoluzione non vincolante per mettere al bando Hezbollah, l'organizzazione appoggiata dall'Iran. La risoluzione, promossa dal partito conservatore Alternativa per la Germania (Afd), è stata respinta da tutti i partiti mainstream. L'autrice della risoluzione, la parlamentare dell'AfD Beatrix von Storch, ha dichiarato:
"Hezbollah è un'organizzazione terroristica. Il governo di Berlino afferma che è necessario distinguere tra un'ala politica e legittima di Hezbollah e una terrorista. Questo non ha senso per noi né per gli elettori.

"L'obiettivo di Hezbollah è la distruzione di Israele e degli ebrei, e non dovremmo offrire loro un rifugio sicuro per nascondersi in Germania e finanziare dal nostro paese la loro lotta armata in Libano contro Israele".
L'ala "militare" di Hezbollah è stata messa al bando in Germania nel 2013, ma alla sua ala "politica" è consentito di raccogliere fondi nel paese. Alcuni paesi, tra cui Israele, Gran Bretagna e Stati Uniti e diversi Stati arabi sunniti, non ravvisano alcuna distinzione tra l'ala militare e quella civile di Hezbollah e hanno accusato il gruppo di destabilizzare il Medio Oriente.
   Si ritiene che Hezbollah abbia più di mille operativi in Germania, secondo la BfV, l'agenzia di intelligence interna tedesca. Ma la Germania non dichiarerà il movimento di Hezbollah organizzazione terroristica perché, come asserito dal funzionario del ministero degli Esteri, Niels Annen, "ci concentriamo sul dialogo".
   A febbraio scorso, in occasione del 40o anniversario della Rivoluzione islamica, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier si è congratulato, "anche a nome dei miei compatrioti", con il regime iraniano, che cerca di distruggere Israele. La mossa, giustificata da gran parte dell'establishment tedesco come "usanza diplomatica", ha suscitato indignazione nell'opinione pubblica tedesca.
   Con l'hashtag "#non nel mio nome", il ricercatore esperto di islamismo Ahmad Mansour ha twittato:
"Lo stesso Steinmeier non si è rifiutato di congratularsi con Trump? Perché fissa standard diversi per l'Iran? L'Iran è il campione mondiale di esportazione dell'antisemitismo, è attivamente coinvolto nell'uccisione di ebrei, di migliaia di persone in Siria, e di omosessuali nel proprio paese".
Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei di Germania, ha osservato:
"Per quanto concerne il telegramma di congratulazioni del presidente tedesco per l'anniversario della rivoluzione iraniana, la diplomazia di routine sembra aver soppiantato il pensiero critico. (...) Se fosse necessario congratularsi per questo anniversario, il presidente avrebbe potuto almeno trovare parole di critica al regime".
Steinmeier si era già ingraziato i nemici di Israele. Nel gennaio del 2006, da ministro degli Esteri tedesco, sollecitò la formazione di un governo a Gaza guidato da Hamas. Nel giugno del 2008, presiedette una conferenza a Berlino che invocava la distruzione di Israele.
   Nel dicembre del 2016, Steinmeier appoggiò una risoluzione delle Nazioni Unite che invitava Israele a porre fine "immediatamente e completamente" a ogni attività concernente gli insediamenti "nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est". La risoluzione affermava che le Nazioni Unite non avrebbero accettato "alcuna modifica" rispetto alle linee del cessate il fuoco tracciate il 4 giugno 1967, "che includono Gerusalemme".
   Nel maggio del 2017, durante la prima visita di Steinmeier nello Stato ebraico da presidente tedesco, lo statista redarguì pubblicamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e in seguito depose una corona di fiori sulla tomba del defunto leader palestinese Yasser Arafat, acerrimo nemico di Israele.
   Nel settembre del 2018, dopo mesi di tentativi, l'ambasciatore degli Stati Uniti in Germania, Richard Grenell, riuscì a fare pressione su Berlino per impedire all'Iran di prelevare 300 milioni di euro in contanti dai conti bancari in Germania per compensare l'effetto delle sanzioni statunitensi. "L'Iran è il principale Stato sponsor del terrorismo a livello globale", ha dichiarato Grenell. "Dobbiamo essere vigili".
   Intanto, la Germania continua a erogare annualmente milioni di euro a organizzazioni che promuovono il movimento anti-israeliano (per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) BDS e le campagne "legali", l'antisionismo, l'antisemitismo e la violenza, secondo NGO Monitor.
   Nel 2008, la cancelliera tedesca Angela Merkel dichiarò che la sicurezza di Israele "non è negoziabile" e, nel 2018, il ministro degli Esteri Heiko Maas disse di essere entrato in politica "a causa di Auschwitz". In pratica, tuttavia, la Germania sembra costantemente dare priorità alle sue relazioni con i nemici di Israele.
   Instex (Strumento a sostegno degli scambi commerciali) è stato creato il 31 gennaio 2019 da Germania, Francia e Regno Unito per salvare il Piano Congiunto di Azione Globale (JCPOA), noto come accordo sul nucleare iraniano, dopo che gli Stati Uniti si sono ritirati dall'accordo e hanno reimposto le sanzioni a Teheran. Il presidente americano Donald J. Trump, criticando l'accordo sul nucleare, ha rilevato che "in pochissimi anni, saranno in grado di costruire armi nucleari".
   Instex, un'iniziativa del ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, consentirebbe il commercio europeo con l'Iran nonostante le sanzioni statunitensi. Agevolerebbe un sistema di scambio con l'Iran basato sul baratto di prodotti farmaceutici e alimentari, ma Teheran ha ribadito più volte che Instex deve includere il commercio del petrolio affinché il meccanismo abbia un senso economico.
   Sette mesi dopo la sua creazione, Instex rimane non operativo, in parte perché l'Iran non è ancora conforme agli standard giuridici internazionali per prevenire il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo.

* Soeren Kern è senior fellow al Gatestone Institute di New York.

(Gatestone Institute, 11 settembre 2019 - trad. Angelita La Spada)


Israele svela la presa in giro dell'Iran sull'accordo nucleare

di Michael Sfaradi

Sito atomico distrutto dopo la sua scoperta
Lunedì 9 settembre 2019, in una conferenza alla quale erano stati invitati i giornalisti accreditati, israeliani e stranieri, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha lanciato una vera bomba all'interno dell'arena politica internazionale, e lo ha fatto svelando al mondo un altro impianto, l'ennesimo, di sviluppo di armi nucleari che l'Iran ha gestito fino a tre mesi fa. La cosa sorprendente è che secondo i servizi segreti di diverse nazioni occidentali, sarebbe di Israele e del suo Premier Netanyahu, l'onere di dover fornire informazioni a dimostrazione che l'Iran ha effettivamente sviluppato, o ha provato a sviluppare, armi nucleari in quella struttura situata nella zona di Abadeh, sito poi recentemente distrutto dagli stessi iraniani in modo da cancellarne le tracce.
   Tutto questo ha il tragico sapore dell'assurdo visto che l'Iran degli Ayatollah e suoi fidi scudieri, Hamas ed Hezbollah, ogni giorno ricordano, a loro stessi e al mondo intero, che la distruzione dello Stato Ebraico è la prima delle priorità da raggiungere. Ma non è tutto, sono mesi che è in corso una guerra non dichiarata fra Israele e l'Iran, guerra nella quale Teheran fa i miracoli per armare i suoi alleati e portare lo scontro ai confini Nord e Sud di Israele (Libano, Siria e Striscia di Gaza). Israele, secondo la dottrina dello Stato Maggiore dell'esercito, esegue attacchi preventivi bombardando i depositi di armi che i Pasdaran iraniani stanno costruendo a pelle di leopardo in tutto il Medioriente: Siria, Libano e Iraq, e i convogli che trasportano armi ed esplosivi sulla direttiva che passando per l'Iraq collega l'Iran alla Siria e al Libano.
   Le immagini satellitari del sito di Abadeh, prima e del dopo la sua distruzione, non sono bastate a convincere i funzionari dell'UE, né la Russia né la Cina, e anche l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica delle Nazioni Unite (AIEA) non ha voluto, o non è stata in grado, di verificare la veridicità e l'affidabilità dell'esposizione israeliana esclusivamente sulla base delle fotografie aeree. Gli iraniani negano mentre gli ispettori dell'AIEA si trovano ora nella complicata situazione di dover fornire informazioni per confermare o smentire le affermazioni israeliane.
   Questa, oggettivamente, è una situazione difficile perché se dopo una smentita Israele dovesse fornire ulteriori prove per obbligare l'AIEA di avviare un'indagine, e l'AIEA teme che Israele abbia già queste prove nel cassetto e che aspetti solo il momento per fare scacco, metterebbe, in uno scenario credibile, un po' tutti in imbarazzo dimostrando al mondo, sempre che il mondo abbia voglia di stare a sentire, che l'Agenzia Onu non è in grado di garantire gli scopi per cui è stata creata.
   Inoltre metterebbe in imbarazzo l'Iran davanti ai paesi che hanno firmato l'accordo sul nucleare e in imbarazzo i paesi che l'hanno firmato credendo nella buona fede degli iraniani e nell'efficienza dell'AIEA. Per non parlare della misera figura che tutti insieme farebbero davanti all'intera comunità internazionale. Una situazione che se confermata si trasformerebbe nella classica pistola fumante dove l'Iran non ha solo violato l'accordo nucleare firmato a Ginevra nel luglio 2015, ma ha anche il Trattato di non proliferazione nucleare.
   In questi casi tutto dipende dall'AIEA che se non fosse bloccata dai laccetti politici tipici dell'ONU, aprirebbe il caso e i suoi ispettori, sfruttando il diritto di ispezione con breve avviso, potrebbero controllare cosa è veramente successo ad Abadeh, ma questo, ovviamente, è difficile che accada perché, probabilmente, i risultati sarebbero disastrosi sia per l'Iran che per i suoi sponsor. Non sia mai dovesse ripresentarsi ad Abadeh una situazione simile o uguale a quella Turkuabad, altra struttura dove sicuramente c'era un'attività nucleare vietata visto che al suo esterno sono state trovate chiare tracce di radioattività.
   
(Nicola Porro, 11 settembre 2019)


Libano: proteste contro il capo di Hezbollah. «Non siamo una provincia iraniana»

Il capo di Hezbollah chiede ai libanesi di riconoscere la leadership di Ali Khamenei e di combattere contro Israele.

 
Hanno scatenato proteste le dichiarazione fatte ieri sera da Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, il quale in un discorso televisivo ha detto che «il Libano è parte importante della resistenza contro Israele» e che non deve temere una guerra contro lo Stato Ebraico.
Parlando in occasione dell'ultimo giorno delle commemorazioni sciite della Ashoura, il leader di Hezbollah ha paragonato il Libano a una specie di provincia dell'impero persiano invitando il Paese a riconoscere la leadership di Ali Khamenei e ha detto che i libanesi non devono temere un confronto armato con Israele.
Quasi immediate le reazioni da parte di molti politici libanesi. L'ex ministro Mohammed Abdul Hamid Baydoun ha detto che Nasrallah non ha niente a che vedere con il Libano ma, al contrario, ha molto a che vedere con l'Iran, quindi non può parlare per il Libano.
«Per Nasrallah il Libano è solo una parola nel dizionario» ha detto l'ex ministro libanese. «Per lui le istituzioni libanesi non sono altro che decorazioni» ha poi aggiunto.
Baydoun ha affermato anche che «Hezbollah è una delle principali cause del collasso economico in Libano».
Facendo riferimento alle osservazioni di Nasrallah su Khamenei, definito dal capo di Hezbollah alla stregua di un padre della patria, l'ex deputato Fares Soaid ha detto che «nulla nella costituzione del Libano, né nelle risoluzioni 1559 e 1701 menziona di combattere sotto la bandiera di Khamenei».
Lokman Slim, attivista politico e condirettore di UMAM Documentation and Research, uno sciita contrario a Hezbollah, ha affermato che Nasrallah «ammette di occupare il Libano in nome di Ali Khamenei e che il Libano è tenuto in ostaggio dal suo leader. Di fronte a questa realtà, non possiamo parlare di sovranità in un paese occupato dall'Iran».
Proteste anche sui social libanesi dove in molti hanno chiesto di mettere fine alla occupazione del Libano da parte di Hezbollah. «Non siamo una provincia iraniana» hanno detto moltissimi utenti.
«Non vogliamo combattere contro Israele per fare un piacere a Khamenei» ha scritto un utente di Beirut subito ripreso da molti altri.
Per colpa di Hezbollah e dell'Iran il Libano rischia seriamente di trovarsi coinvolto in un conflitto su larga scala con Israele. Molti investitori stranieri hanno già deciso di lasciare il paese per il timore di un conflitto con lo Stato Ebraico.

(Rights Reporters, 11 settembre 2019)


Israele, la promessa di Netanyahu ''Annetterò la Valle del Giordano''

Il premier a caccia di voti punta sull'allargamento della sovranità e il sostegno di Trump.

di Giordano Stabile

La Valle del Giordano spiccava in blu acceso nella cartina mostrata da Benjamin Netanyahu per illustrare il suo progetto di annessione: l'intera sponda occidentale, culla dell'umanità, e le rive settentrionali del Mar Morto. Un pezzo di Cisgiordania che si colora di blu e diventa a tutti gli effetti Israele.
   All'hotel Kfar Hamaccabiah di Tel Aviv il premier più longevo dello Stato ebraico, che di queste cose è maestro, ha curato la scenografia nei minimi dettagli. L'ultimo sondaggio dà in vantaggio il partito di opposizione del generale Benny Gantz. «Bibi» ha bisogno di un colpo d'ala per risollevarsi. Sperava in un aiuto di Donald Trump in politica estera, ma il siluramento del falco anti-Iran John Bolton non lascia ben sperare. Allora ha fatto da solo.
Se verrà rieletto, ha promesso, estenderà la sovranità israeliana «su tutti gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria, a cominciare dalla Valle del Giordano». Lo farà, ha precisato, «in coordinazione con l'amministrazione americana di Donald Trump». Questo perché il capo della Casa Bianca è intenzionato ad annunciare il piano di pace «il giorno dopo le elezioni del 17 settembre».
   In una settimana quindi la Storia può cambiare, e a favore dello Stato ebraico. «È una opportunità - ha insistito - che potrebbe non ripresentarsi mai più». Poi ha rassicurato che la mossa non comporterà «l'annessione di un singolo palestinese» e lascerà ai palestinesi «una completa libertà di movimento» nel resto dei Territori contesi.
   Netanyahu ha poi invitato a non votare per il partito Blu e Bianco di Gantz e del leader centrista Yair Lapid, che non sarebbero in grado di «gestire il piano americano» e coglierne le opportunità. È stato per primo Lapid a ribattere che «Netanyahu non vuole annettere territori ma voti». Il riferimento è al bacino degli abitanti degli insediamenti, oltre mezzo milione nei Territori e a Gerusalemme Est, corteggiati soprattutto dal rivale sulla destra Avigdor Lieberman, che invece predica l'annessione totale della Cisgiordania. A sostegno del premier è arrivata la dichiarazione del ministro degli Esteri Yisrael Katz, convinto che «l'Amministrazione statunitense ci appoggerà, perché è sempre stata nostra amica».
   Fino a che punto è però un mistero, lo stesso che avvolge il piano americano, «l'accordo del secolo». Le dimissioni a sorpresa del principale architetto della proposta, Jason Greenblatt, sono interpretate dai più come l'ammissione di un fallimento. E anche per l'Amministrazione più amica di tutti i tempi è difficile approvare l'annessione di circa un quarto della Cisgiordania. È vero che ricade quasi tutta nell'Area C, la parte dei Territori amministrati direttamente da Israele. I palestinesi sono pochi, 60 mila, la maggior parte concentrati a Gerico, che forse resterà fuori dall'annessione. Quelli che vivono nell'Area C sono appena 10mila.
   Ciò non toglie che secondo il leader della Lista araba, Ofer Kasif, «Netanyahu per evitare il carcere cerca di annettere migliaia di palestinesi, senza diritti, in quello che diventerà un apartheid ufficiale».
   È un nodo gordiano che forse Trump taglierà, forse no. Con il siluramento di Bolton ha bocciato la linea dura sull'Iran, suggerita proprio dall'amico Netanyahu. Per compensarlo potrebbe accontentarlo con la Valle del Giordano.

(La Stampa, 11 settembre 2019)


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Se vince le elezioni Netanyahu annette la valle del Giordano

Il premier punta a cercare voti. E spende il rapporto con Trump

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - «Se sarò rieletto - ha detto Bibi Netanyahu in un annuncio a reti unificate - annetterò immediatamente la Valle del Giordano, e in un secondo tempo una volta che il consenso sia certificato (probabilmente con un referendum, ndr) procederò ad annettere gli insediamenti che completano lo scudo di difesa di Israele a oriente». Un messaggio elettorale, ma dal contenuto storico. «È un'occasione unica che ci si presenta oggi, ora o mai più» ha detto Netanyahu, riferendosi al rapporto speciale con gli Stati Uniti e con Donald Trump, mentre ancora brucia il ricordo di 8 anni di rifiuti di Obama per le drammatiche esigenze di sicurezza di Israele.
   La Valle del Giordano è lunga e arida, di là dalle vallate desertiche, rosse, morbide, bellissime si vede perfettamente la Giordania, a nord si contempla il panorama siriano e la strada conduce al Kinneret, il Mare di Galilea unica riserva d'acqua della zona, e poco più a ovest al Libano; più lontano si intuisce senza ombra di dubbio la presenza affascinante e minacciosa dell'Irak e dell'Iran. La gente, quasi tutti contadini dei kibbutz, ci vive con coraggio e fatica, lontana, eppure determinata a difendere il Paese. Insomma, la valle del Giordano, che è già parte di Israele ma non è formalmente annessa, è la cintura di sicurezza verso il mondo arabo e islamico più avverso, mentre a sud l'Egitto disegna un confine più amichevole. «Solo io - ha detto Netanayhu - se rieletto ho la volontà e i rapporti internazionali per garantire questo passo indispensabile».
   Perché dopo che Bibi ha portato al riconoscimento di Gerusalemme come capitale, all'annessione del Golan, alla revisione del trattato con l'Iran, si può pensare che una sua rielezione, per niente certa, è garanzia di annessione riconosciuta. Ma non è originale Netanyahu nel vedere nella Valle del Giordano una garanzia indispensabile per il Paese: Rabin ne è stato il principale sostenitore e garante, Peres e tutta la sinistra hanno sempre costruito le condizioni politiche per stabilire insediamenti nella zona. In queste settimane di campagna intensiva Benny Gantz, il leader dell'opposizione, ha speso molto del suo tempo nella Valle del fiume mitico in cui Gesù Cristo fu battezzato, a parlare con gli abitanti e rassicurarli delle sue intenzioni.
   Bibi ha anche detto che aspetta che Trump mostri il suo programma di pace per poi muovere le sue pedine, ed è anche certo per lui la migliore carta per cercare quei 61 seggi che gli servono a formare il governo. Anche perché l'idea pompata da Macron e, sembra, accettata da Trump, di un incontro con Rouhani non ha un effetto rassicurante sull'elettorato israeliano.

(il Giornale, 11 settembre 2019)


Come cambia la minaccia dei jihadisti

di Lorenzo Vidino

A diciotto anni dagli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 contro New York e Washington la minaccia jihadista contro l'Occidente resta in tutta la sua ferocia anche se ha fattezze assai diverse da quelle dell'Al Qaeda di allora.
   L'11 settembre 2001 Al Qaeda, allora l'incarnazione principale di un movimento jihadista globale che aveva già insanguinato il mondo islamico da decenni ma che era ancora pressoché sconosciuto in Occidente, porta la sua sete di morte mirata a raggiungere un obiettivo - la creazione di società islamiche guidate da una interpretazione ultra-letteralista del Corano - a casa del paese che più di ogni altro considera nemico della visione di Osama Bin Laden e del suo gruppo.
   Da quel fatidico giorno sono passati, dal punto di vista geopolitico, anni luce: la guerra al terrorismo, con i suoi successi ma anche con le sue derive, migliaia di attentati in tutto il mondo, la diffusione di misure di sicurezza che ormai diamo per normali ma che fino ad allora erano impensabili, l'assuefazione alla paura di attacchi terroristici, infiniti dibattiti su questioni fondamentali come il rapporto tra libertà civili e necessità di sicurezza o sulla natura dell'Islam ( del quale il movimento jihadista si auto-proclama paladino e rappresentante, nonostante la sua visione oscurantista sia rifiutata dalla stragrande maggioranza dei musulmani) e la sua posizione all'interno delle società occidentali.
   Nel 2014, con l'ascesa dell'Isis - gruppo che nasce come costola di Al Qaeda e con la quale ora lotta per la primazia del movimento jihadista globale - la creazione del Califfato e l'ondata di violenza che ne è conseguita, abbiamo toccato l'apice della violenza jihadista. Ma, per quanto la partita col jihadismo sia una che l'Occidente vorrebbe chiudere da anni, è scioccamente ottimista pensare che si possa pensare ad una fine della minaccia.
   La perdita di territorialità da parte dello Stato Islamico ha chiuso una fase particolarmente intensa della storia del jihadismo, a livello globale come nei nostri confini, per aprirne una nuova caratterizzata da forte incertezza e poliformità della minaccia. Lo Stato Islamico non è più Califfato ma è sempre vivo: come forza insorgente in Siria e Iraq; nelle provincie (wilayet) satelliti che ha creato in vari continenti, cooptando network jihadisti locali; sul web, dove esiste il cosiddetto "califfato virtuale"; e come idea che motiva adepti ovunque, Occidente incluso. È poi ancora forte, anzi, viene ritenuta da molti in forte crescita, Al Qaeda, che seppur offuscata dallo Stato Islamico durante i giorni del Califfato, ha adottato una tattica attendista che l'ha portata a rafforzarsi nel lungo. In questo momento il jihadismo globale non ha un punto focale forte come lo è stato il Califfato per buona parte di questa decade, ma appare più simile a come era dieci anni fa, prima delle Primavere Arabe: disperso su vari fronti, dal Nord Africa alle Filippine, ma con forti legami transnazionali e pronto a colpire ovunque.
   Il problema è che al Qaeda, l'Isis e la miriade di gruppi che orbitano nelle loro galassie, siano essi più o meno forti, votati più a perseguire obiettivi locali o globali, sono semplicemente emanazioni momentanee di un fenomeno ideologico che continua ad attrarre adepti. Successi tattici (operazioni militari contro gruppi jihadisti, arresti, attentati sventati) sono fondamentali ma rimangono delle vittorie di Pirro finché non si vince la battaglia fondamentale dell'indebolimento dell'appeal ideologico del jihadismo e delle complesse questioni politiche, sociali, educative, teologiche ed economiche che lo rendono attrattivo agli occhi dei suoi tanti adepti.

(La Stampa, 11 settembre 2019)


Il calcio in Israele è una questione da adulti

di Stefano Peradotto

Due ragazzi palestinesi giocano nei pressi del muro e di una camionetta della polizia israeliana
I ragazzi che giocano su un campetto ricoperto di polvere rossa - polvere desertica, portata a Gerusalemme dal vento caldo che spira dal Mar Morto - indossano magliette tarocche di squadre europee: Barcellona, Manchester United, Juve, Real, Bayern… Non si tratta di una scelta meramente estetica. Quando, a partita conclusa, escono dal campetto alla spicciolata e chiedo loro per che squadra tifino, le risposte sono intonate agli stemmi delle loro casacche malamente falsificate: Barcellona, Manchester United, Juve, Real, Bayern… Certo, si potrebbe immediatamente obiettare, la loro scelta è motivata dal fatto che il calcio europeo è più appetibile di quello israeliano.
   D'altronde qui, come anche in Africa o in Asia, è molto più facile appassionarsi alle squadre inglesi, italiane o spagnole, trasmesse nelle tv di ogni bar, piuttosto che alle modeste gesta delle formazioni locali. Ma, in questo caso, c'è di più. C'è che in Israele, terra storicamente martoriata e malamente spartita tra ebrei, musulmani, cristiani e armeni, anche il tifo calcistico è una questione maledettamente importante. Una questione che, più che al gioco, guarda alla religione, alla politica, a un'idea feroce e spesso irrazionale di appartenenza. In poche parole, una questione da adulti.
   Il calcio professionistico israeliano ha origini antiche in cui, fin da subito, lo sport si intreccia con la politica. Il primo campionato storicamente documentato, infatti, si svolse già nel 1931 e vide un vincitore inatteso, ossia la British Police. Già perché il football, insieme a thè e imperialismo, fu importato qui come in gran parte del mondo dagli inglesi, durante il mandato britannico della Palestina. Un mandato confusionario, ambiguo, che spalancò le porte all'ancora più equivoca risoluzione delle Nazioni Unite del 1948, che in sostanza riuscì nella non facile impresa di scontentare tutti, ebrei e arabi, creando le basi di un conflitto che dura tutt'oggi.
Lo skyline di Tel Aviv, città più occidentale di Israele
   
Le squadre che formarono il primo campionato israeliano unificato del 1954, chiamato Lega Leumit (ribattezzato dalla stagione 1999/2000 Ligat ha'Al), divennero così, già a partire dal loro nome, cassa di risonanza per sentimenti extra-sportivi. Il Beitar Gerusalemme, oltre ad assumere la fortemente connotata Menorah come stemma, trasse il nome da Betar, movimento del revisionismo sionista. A Tel Aviv, città israeliana neo-nata a fianco dell'araba Giaffa, vennero invece fondati il borghese Maccabi, dal nome dell'organizzazione globale "Maccabi" che si pone l'obiettivo di fornire attività educative, culturali, sociali e sportive agli ebrei di tutti e cinque i continenti, e l'Hapoel, squadra di origini proletarie (Hapoel significa "lavoratore" in ebraico) che vantò, tra i suoi primissimi tifosi, nientemeno che il generale inglese Edmund Allenby.
   Le radici così fortemente connotate, politicamente ed etnicamente, delle squadre che militano nel massimo livello professionistico del campionato israeliano hanno effetti duraturi, che permangono ancora oggi. Ma sono inserite in un contesto che sta lentamente mutando, scisso tra una crescente volontà di cambiamento e una latente tendenza ultra-nazionalista, certamente favorita dal vento che soffia un po' su tutto il mondo.
   In particolar modo, sono Tel Aviv e Gerusalemme, le due città più importanti d'Israele, proverbialmente note ("A Tel Aviv ci si diverte, a Gerusalemme si prega"), a essere espressione di diverse concezioni di cos'è Israele e di cosa dovrebbe diventare in futuro. E se, come spesso abbiamo detto, il calcio è lo specchio della società, l'Hapoel ed il Beitar riflettono alla perfezione la situazione e le contraddizioni delle loro città d'appartenenza.
   Di Gerusalemme e della sua squadra abbiamo già parlato approfonditamente, in occasione del docu-film Forever pure. Soprattutto, si è parlato del gruppo ultras de La Familia, più volte accusato dall'IFA e dalla
Dai canali social del Beitar "Trump" Jerusalem
FIFA di atteggiamenti razzisti e xenofobi nei confronti dei giocatori arabi. Alle vicende risalenti al 2013 dei due giocatori ceceni di fede musulmana, Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, si è recentemente aggiunto un curioso nuovo capitolo, fresco di calciomercato.
   A giugno di quest'anno, infatti, il presidente del Beitar ha annunciato l'acquisto del ventiquattrenne nigeriano Ali Mohamed, giocatore promettente e che, a dispetto del nome, è di fede cattolica. Questo però non è bastato a placare La Familia, che ha espressamente richiesto di trovare al ragazzo un soprannome da stampare sulla maglietta. "Capisci," mi spiega un ragazzo (che ufficialmente non si proclama appartenente a La Familia) davanti allo store ufficiale del Beitar, «quel nome [Mohamed, ossia Maometto] nel nostro stadio neanche si può pronunciare. Bisogna cambiarlo, è una questione di rispetto».
   Questo episodio è solo l'ultimo che conferma l'immutata tendenza estremista della tifoseria del club. Club che, pur essendosi spesso dissociato dalle manifestazioni più clamorose, in certe occasioni non si è invece dimostrato migliore dei propri supporter, evidenziando una stretta uniformità di visione. Durante la visita ufficiale di Donald Trump in Israele nel 2018 - che acuì la tensione israelo-palestinese per la volontà del presidente USA di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale d'Israele - il Beitar si ribattezzò, sui propri account ufficiali, Beitar Trump Jerusalem: una trovata tutt'altro che distensiva, e che poco aveva a che fare con il calcio.
   Ma se Gerusalemme è il volto ancorato al passato e ad un'idea ultra-nazionalista di Israele, l'altro lato della medaglia è rappresentato da Tel Aviv: città più aperta, moderna, obbligatoriamente nata e cresciuta nel confronto tra gli arabi (che popolano Yafo, la città vecchia) e gli israeliani insediatisi nella parte nuova a partire dagli anni '40, ora tutta un fiorire di avveniristici grattacieli.
   La popolazione di Tel Aviv è giovane, con un'età media di 30 anni, e fa sempre più fatica a riconoscersi negli antiquati schemi di opposizione ebreo-musulmana. Si respira una crescente volontà di pace e di integrazione, un rifiuto dei dogmi ultra-ortodossi che parte anche dai campi di calcio. Ne è un esempio
L'eloquente locandina del progetto "Mifalot"
lampante la compagine dell'Hapoel: vincitrice di 11 campionati e 15 coppe nazionali, la squadra biancorossa è famosa soprattutto per essere la squadra più amata dagli arabo-israeliani.
   Non solo perché tra le sue fila hanno militato giocatori musulmani di grande caratura, come il leggendario Rifat Turk (centrocampista nato proprio a Yafo e primo calciatore arabo a vestire la maglia della nazionale israeliana), Walid Badir (capitano della formazione campione d'Israele nel 2010) e Salim Tuama, ma soprattutto per l'attuazione di concreti programmi volti all'integrazione. Dal 1997, infatti, l'Hapoel ha avviato il progetto "Mifalot", che prevede l'organizzazione di manifestazioni sportive rivolte a bambini e ragazzi israeliani, palestinesi e giordani, finalizzate alla promozione di una pacifica convivenza tra questi popoli confinanti, per non dire sovrapposti.
   Certo, non è certo tutto oro quel che luccica. Di contro a queste iniziative lodevoli, infatti, una parte della tifoseria dell'Hapoel ha fatto proprie le istanze antisemite, concretizzatesi nel gennaio di quest'anno durante il derby con il Maccabi. Ai rivali cittadini, le frange arabe della curva Hapoel hanno gridato "Shoah! Shoah!", invocando nientemeno che l'olocausto per i cugini di credo ebraico. La situazione negli stadi, nonostante gli sforzi, resta dunque conforme al clima politico.
   D'altronde, gli stessi membri dell'UNSCOP, il comitato speciale per la Palestina creato nel 1947 dalle Nazioni Unite, definì la risoluzione del problema palestinese come "manifestamente impossibile". Il calcio cerca di dare il suo contributo, tentando di creare esempi virtuosi contrapposti alla propaganda razziale delle curve, ma difficilmente questo basterà. Lo specchio della società, infatti, risente comunque della realtà in cui si inscrive.
   E allora, l'immagine più bella ce la restituisce il calcio non ufficiale, quello di strada, dei campetti arrossati dal vento del deserto. Finita la partita, un bambino corre alla moschea, richiamato dal canto del muezzin; un altro si appunta in testa la kippah e si avvia verso il quartiere ebraico. Uno con la maglietta finta di Salah, l'altro di Suarez. Loro si sono ancora goduti il calcio per quello che è: un gioco. All'obbligo di scelta tra Beitar e Hapoel, con tutto ciò che implica, penseranno un altro giorno.

(Rivista Contrasti, 11 settembre 2019)


Mehta star al San Carlo di Napoli per l'addio alla lsrael

di Donatella Longobardi

Torino, Milano, Vienna, Parigi, Lucerna. Non poteva mancare Napoli - e il San Carlo - nel tour col quale Zubin Mehta chiude la sua cinquantennale collaborazione stabile con la Israel Philharmonic Orchestra. Un lungo addio che culminerà a Tel Aviv ai primi di ottobre con 7 concerti, tutti animati da grandi star come Kìssn, Bronfman e Zukerman e, naturalmente, il maestro indiano sul podio. «Il San Carlo ormai è come casa», ripete spesso Mehta, dal 2016 direttore onorario del lirico partenopeo dove ha chiuso nel settembre 2018 le attività con una tournée in Thailandia.
   A distanza di un anno eccolo di nuovo sul podio per un'anteprima della nuova stagione concertistica 19/20. In programma due appuntamenti: oggi (ore 20) e domani (ore 18) con la grande orchestra israeliana e due distinti programmi. Nel primo la locandina offre la Sinfonia concertante in si bemolle maggiore per violino, violoncello, oboe, fagotto e orchestra di Haydn, un brano che permette di mettere in evidenza le eccellenze dei solisti dell'orchestra; quindi «la valse» di Ravel e la «Symphonie fantastique» di Berlioz. Nel secondo, domani, Mehta dirigerà la Terza di Mahler, e, nell'occasione, alla Israel Philharmonic si aggiungeranno il coro femminile e le voci bianche del teatro. Il contralto solista sarà Gerhild Romberger.
   Mehta tornerà poi a fine mese sul podio dell'orchestra sancarliana per due concerti in chiusura del cartellone di «Un'estate da re» all'Aperia della reggia di Caserta, solista per Mozart Stefano Bollani: «Sono convinto che è la musica per lui», ha detto il maestro che ha diretto l' eclettico pianista anche al San Carlo nella «Rapsodia in blue» di Gershwin. E che, a 83 anni e dopo un periodo di malattia, cerca di misurare le forze. «la mia energia viene dall'amore della musica», confida a chi gli sta vicino ricordando che nel lungo stop dello scorso anno dovuto a un intervento chirurgico non ha mai smesso di pensare alla musica, anche grazie ai colleghi che anelavano a visitarlo nella sua casa di Los Angeles. Ma quando annuncìò ai professorì della Israel la sua decisione di passare la direzione musicale nelle mani del giovane Lahav Shani, per loro fu uno shock «Nessuno dei miei colleghi ha mai diretto un'orchestra così a lungo, ora forse con Shani l'orchestra accetterà di eseguire la musica di Wagner, ancora tabù in Israele perché suonata nei campi di sterminio nazisti. I tempi sono maturi per un cambiamento», suggerisce ora il maestro che tra i suoi ricordi più cari con questo ensemble mette al primo posto un concerto del 1991 a Tel Aviv sotto le bombe con lsaac Stern come violinista: «Nessuno si mosse, continuammo a suonare e indossammo le maschere antigas».

(Il Mattino, 11 settembre 2019)


Portavoce militare di Israele: la Siria pagherà un prezzo alto per le azioni dell'Iran

GERUSALEMME - Il presidente siriano, Bashar al Assad, potrebbe "pagare un prezzo alto per consentire all'Iran di operare nel nostro territorio": lo ha scritto su Twitter il portavoce per i media arabi delle Forze di difesa israeliane, Avichay Adraee, dopo il lancio dalla Siria verso Israele di diversi razzi. Adraae ha aggiunto: "Nulla ci è nascosto. Consideratevi avvisati". I razzi che sarebbero stati lanciati nelle ultime ore dalla Siria verso il territorio d'Israele non sarebbero mai riuscire a raggiungere gli obiettivi, secondo quanto hanno reso noto su Twitter le Forze di difesa israeliane (Idf), precisando che gli attacchi sono opera di "milizie sciite che operano sotto il comando della Forza Quds" dei Guardiani della rivoluzione islamica dell'Iran, guidata dal generale Qassem Soleimani. "Riteniamo - aggiungono le Idf - il regime siriano responsabile per tutti gli eventi che hanno luogo in Siria". Negli ultimi giorni Israele ha intensificato le sortite offensive contro gli alleati dell'Iran in Libano, Siria e Iraq. Tutto questo mentre si avvicina la data delle elezioni parlamentari nello Stato ebraico, in programma il prossimo 17 settembre.

(Agenzia Nova, 10 settembre 2019)


Completamente distrutta la nuova base iraniana al confine tra Siria e Iraq

Distrutta quasi completamente la base iraniana in Siria scoperta solo pochi giorni fa

di Sarah G. Frankl

 
Primo, individuare la base nemica. Fatto. Secondo, scoprirne gli scopi. Fatto. Terzo, colpire e distruggere la base nemica e tornare a casa illesi. Fatto.
Tre mosse che ormai per l'IDF sono diventate quasi una routine nella guerra non dichiarata con l'Iran.
Ieri sera sono state diffuse le immagini satellitari della base iraniana al confine tra Siria e Iraq che nelle intenzioni di Teheran doveva essere la più grande base della regione per le proprie milizie. Gli aerei che l'hanno colpita non hanno lasciato un gran che.
Secondo fonti della opposizione siriana nell'attacco attribuito a Israele, che non ha né confermato né smentito, sarebbero morti almeno 18 miliziani al soldo di Teheran, molti appartenenti ad Hezbollah.
Damasco tuttavia afferma che la base era deserta e che non ci sarebbero state vittime.
L'intelligence israeliana sostiene invece che la base, collocata a circa cinque chilometri dal confine con l'Iraq, era nella disponibilità del Popular Mobilization Force, un gruppo sciita iracheno direttamente dipendente da Teheran, e di Hezbollah.
Nelle intenzioni iraniane la base doveva essere il punto di arrivo e di smistamento verso il Libano delle armi iraniane destinate ad Hezbollah oltre che un centro di addestramento delle milizie sciite.
Poco dopo l'attacco, per rappresaglia, le milizie sciite in Siria hanno sparato una salva di missili verso il Monte Hermon sulle alture del Golan israeliane, colpi che però sono caduti tutti in territorio siriano, quindi non c'è stata da parte iraniana nessuna risposta.

 Situazione sempre più tesa tra Iran e Israele
  Oramai è chiaro che la situazione tra Iran e Israele è sempre più tesa. Gerusalemme sta colpendo sistematicamente tutti gli sforzi iraniani di stabilirsi in pianta stabile in Siria nonché tutte le basi delle milizie sciite legate a Teheran in suolo siriano.
Per ora il Libano è stato solo sfiorato da questa guerra non dichiarata ma è chiaro che da un momento all'altro potrebbe seriamente essere coinvolto nel conflitto innescato dai terroristi di Hezbollah e dai loro padroni iraniani, anzi, ne paga già le conseguenze, un fatto questo che dovrebbe preoccupare non poco la comunità internazionale che invece tace vergognosamente.

(Rights Reporters, 10 settembre 2019)


Netanyahu: "L'Iran ha un sito nucleare segreto"

Il premier israeliano in diretta tv rivela la scoperta del Mossad: "Teheran ha distrutto l'impianto". L'opposizione protesta: "Bibi usa l'intelligence per scopi elettorali".

di Giordano Stabile

In un discorso alla nazione il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivelato ieri sera che il Mossad ha scoperto un nuovo sito nucleare segreto in Iran, finora sconosciuto a tutti. Un colpo mediatico a una settimana dalle elezioni, ma anche un'irruzione nel duello che vede impegnate l'America di Donald Trump e la Repubblica islamica. Netanyahu ha precisato che il deposito nucleare è stato individuato all'inizio dell'estate «nella regione iraniana di Abadeh» e ha mostrato immagini satellitari scattate «prima di luglio». Dopodiché Teheran, «in qualche modo» si è resa conto di essere stata scoperta e «ha distrutto il sito».
   Il partito dell'opposizione Blu Bianco ha criticato «l'uso di informazioni dell'Intelligence a fini elettorali». Le rivelazioni di Netanyahu sono però rafforzate dalle ultime indiscrezioni trapelate dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica, Aiea. I suoi ispettori hanno trovato «tracce di uranio e altre particelle radioattive» in un deposito a Turquzabad, alla periferia di Teheran, che lo scorso maggio era stato indicato dallo stesso Netanyahu come «l'archivio segreto» del programma nucleare iraniano.
   Le autorità iraniane, secondo due diplomatici occidentali che seguono le ispezioni dell'Agenzia, «al momento non hanno ancora spiegato l'origine e lo scopo» del materiale. Tutta acqua al mulino del leader israeliano, anche se le tracce sono soprattutto di «uranio a basso livello di arricchimento» e quindi non adatto a costruire un ordigno. Lo stesso direttore dell'Aiea Cornea Feruta ha chiesto all'Iran «tempi rapidi» nelle risposte ma ha elogiato «il tono e l'atteggiamento» della controparte. Per Netanyahu però quelle tracce sono una «chiara violazione del Trattato di non proliferazione».
   Il deposito di Teheran era stato al centro delle rivelazioni dello scorso maggio, quando Netanyahu aveva mostrato con una raffica di slide «l'archivio segreto» del programma nucleare, 55 mila file in 183 cd, rubato dal Mossaci in una notte del gennaio del 2018. E in quell'edificio, secondo l'Intelligence israeliana, c'erano almeno 15 chili di materiale radioattivo, poi rimossi. Il materiale era stato poi messo a disposizione della Cia, allora guidata da Mike Pompeo, oggi segretario di Stato americano. Una settimana dopo Trump avrebbe annunciato il ritiro unilaterale dall'accordo del 2015 e cominciato un'escalation di sanzioni.
   Oggi il clima è molto diverso. Stati Uniti e Iran sono arrivati a un passo dallo scontro armato, alla fine di giugno, quando un drone americano è stata abbattuto dai Pasdaran sullo Stretto di Hormuz e Trump ha fermato all'ultimo momento i raid di rappresaglia. La crisi ha investito i traffici di petrolio e minacciato l'economia mondiale. È intervenuta la Francia di Emmanuel Macron, con una mediazione che ha riavvicinato le parti. Al G7 di Biarritz il leader Usa si è detto disposto a incontrare il presidente iraniano Hassan Rohani.
   I falchi della Casa Bianca - John Bolton e lo stesso Mike Pompeo - come pure gli ayatollah oltranzisti, hanno subito aperto un fuoco di sbarramento ma secondo alti funzionari israeliani, citati da Haaretz, l'incontro fra Trump e Rohani a New York "è cosa fatta". Per questo Netanyahu è volato a Londra a incontrare il capo del Pentagono Mark Esper. Che gli ha confermato l'intenzione di Trump di incontrare Rohani. Il Mossaci ritiene che Esper, a differenza del predecessore James Mattis, si sia allineato a Trump e sia pronto ad assecondarlo in tutto. La partita a scacchi è diventata a tre.

(La Stampa, 10 settembre 2019)


El Al apre nel 2020 su Dublino e Düsseldorf

Si espande il network di El Al nel 2020 con l'aggiunta di due destinazioni europee. Entrano infatti i voli diretti da Tel Aviv su Dublino e Düsseldorf. Dublino sarà attivata dal 26 maggio 2020 con due voli settimanali, il martedì e la domenica, dal 4 maggio sarà aggiunta anche la frequenza del giovedì. Düsseldorf sarà aperta dal 1 giugno 2020 con tre frequenze settimanali il lunedì, mercoledì e venerdì. La rotta è una riapertura in quanto fu chiusa nel novembre 2001 ed è soggetta ad approvazione governativa. Tutti i servizi saranno operanti con aeromobili Boeing 737/800.

(Turismo & Attualità, 10 settembre 2019)


Maimonide e il filo interrotto

di Rachel Silvera

 
La copia manoscritta della "Guida dei perplessi" di Maimonide, in mostra al Meis fino al 22 settembre.
 
Alcuni particolari del Codice, riccamente miniato, che fu realizzato nel 1349. Dall'autunno troverà ospitalità all'Archivio di Mantova.
Nel 1516 Ludovico Ariosto pubblica la prima versione dell'Orlando Furioso. Poco distante da lui, lo stesso anno (o secondo una diversa lettura tre anni prima, nel 1513), un banchiere ebreo di Mantova ma originario di Ferrara, Mosheh Ben Netan'el Norsa, fa un acquisto librario assai prezioso. Si tratta di un codice membranaceo datato 1349 riccamente miniato. Un profluvio di colori che riempie ogni pagina e smentisce qualunque cupo stereotipo sul buio Medioevo. Mosheh compra il volume da Baruk ben Yosef Kohen e aggiunge finalmente nella sua ricca biblioteca anche la preziosa copia manoscritta della "Guida dei perplessi", la più celebre opera del medico e filosofo ebreo Maimonide, Cinquecento anni dopo, con un'operazione eccezionale che ne segnala tutta l'importanza, lo Stato italiano acquista l'antico testo di Maimonide dagli eredi della famiglia Norsa, ancora in possesso del prezioso manoscritto, e ne finanzia uno straordinario restauro. Destinato a prendere fissa dimora nell'Archivio di Stato di Mantova, il cosiddetto "Codice Maimonide" è ancora, fino al 22 settembre, tra i protagonisti della mostra "Il Rinascimento parla ebraico", allestita dal Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah-Meis, con la cura di Giulio Busi e Silvana Greco, e un grande successo di pubblico e critica. Grazie a questa significativa storia, e alla sua esposizione al Meis, il Ministero per i Beni Culturali ha deciso di dedicare un momento del Salone del Restauro, dei Musei e delle Imprese Culturali di Ferrara (18-19-20 settembre) al prezioso manoscritto, che il 18 settembre viene presentato come case study del Salone, con il titolo "La Guida dei perplessi di Mosè Maimonide. Un restauro in equilibrio tra storia, estetica e conservazione". L'incontro si svolgerà all'interno della sala del MiBAC (ore 14.45 -15.30), alla presenza del Segretario Generale del MiBAC Giovanni Panebianco, con interventi di Maria Letizia Sebastiani, direttore dell'Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario, che ha restaurato il Codice nel 2017, del presidente del Meis Dario Disegni, del direttore Simonetta della Seta e del curatore della mostra Giulio Busi. Intanto quelle pagine impregnate di colore e storia continuano a destare nei visitatori un misto di stupore e fascinazione nel percorso del museo. Un universo di carta e inchiostro sopravvissuto agli sgambetti del tempo. Ma come prende forma il Codice? Cosa sappiamo di lui e delle mani che hanno avuto la perizia di illustrarlo e il privilegio di sfogliarlo? E' necessario fare un passo indietro e tornare nel mondo dei mercanti, copisti e bibliofili.
   Scritta nel 1190 inizialmente in arabo, "La guida dei perplessi" ("Dalalat al-hairin", il titolo originale) è una pietra miliare della filosofia ebraica medievale, Il suo impianto e il contenuto sono intrisi di concetti elaborati dal pensiero occidentale; una sorta di infinita partita di ping-pong tra gli enigmatici dettami biblici, le teorie aristoteliche e i principi di filosofia islamica.
   Il cuore della riflessione di Mosè Maimonide, conosciuto anche con il suo acronimo ebraico "Rambam", medico nato a Cordova poi egiziano d'adozione, risiede proprio nella perplessità, quella che investe l'uomo erudito in cerca di un equilibrio tra la fede religiosa e la concezione filosofica del mondo. Tema certamente caro all'ebraismo, che si fonda sulla dialettica. Concetto, in generale, di una modernità impressionante. Il testo viene tradotto in ebraico quando Maimonide è ancora in vita, e prende il titolo di "Moreh Nevuchim", ultimato pochi giorni prima della sua morte. Una delle copie più fedeli all'originale in circolazione è proprio quella del codice acquistato quasi due secoli dopo dal mantovano Norsa.
   Le pagine che si trova di fronte chi visita il Meis hanno un potere ipnotico; le lettere si susseguono ordinate tra le decorazioni dorate, rosse e blu rese intense dal recente restauro. Bellezza ed armonia diventano la casa di uno dei più importanti testi della storia ebraica e universale, catapultando lo spettatore in un'atmosfera atemporale dove la regina e il re sono la Conoscenza (il pensiero) e lo Spirito (inteso come arricchimento spirituale). Il manoscritto, se studiato ancor di più riesce a rivelarci alcuni dei suoi segreti: la scrittura semicorsiva è quella di area ashkenazita (ebraismo di ceppo germanico) e si deve ad un'unica mano appartenente ad un copista esperto, capace di dominare l'ornamentazione delle lettere e disporre il tutto secondo un preciso schema decorativo. Dobbiamo proprio a lui, Ya'aqov ben Rabbi Shemu'el, anche la data esatta nella quale collocare il codice, il 1349. "L'anno in cui - specifica nel testo - la luce si trasformò in tenebra, ho completato il libro intitolato Guida dei Perplessi".
   Di quale tenebra parla il nostro Ya'aqov? Molto probabilmente il riferimento è alla peste nera esplosa proprio l'anno precedente, che oltre alla morte e la devastazione portò alla persecuzione degli ebrei accusati in molti luoghi dell'Europa di essere i responsabili del contagio, costringendoli alla fuga e a una nuova dispersione. Rimane avvolta nel mistero invece l'identità del miniatore, la cui opera risalta in particolar modo anche grazie all'impiego della foglia d'oro che regala un'eccezionale luminosità alle illustrazioni.
   Non sappiamo con esattezza nemmeno quando e in che modo il manoscritto sia giunto in Italia settentrionale anche se potrebbe essere stato portato in salvo da chi migrava dopo gli anni della peste in cerca di un nuovo sbocco lavorativo e una nuova boccata d'aria e di libertà. A darci un ulteriore indizio è la legatura che l'esperta Thérèse Metzger attribuisce all'area milanese, ma chi ci rivela una inequivocabile informazione in più è l'atto di vendita, quasi due secoli dopo, che rende Mosheh Norsa, mantovano di famiglia ferrarese, il nuovo proprietario. Lo stesso Mosheh riuscì inoltre ad avere il permesso di istituire una nuova sinagoga presso la sua dimora, un chiaro segnale della integrazione e progressiva acquisizione di un ruolo specifico nella società. E proprio la famiglia Norsa, così significativa nella storia dell'ebraismo rinascimentale italiano e ancora attiva nell'ebraismo italiano, custodirà il codice per oltre 500 anni. Quelle pagine, miracolosamente salve dopo 700 anni, ci parlano: raccontano le perplessità di un libero pensatore in bilico tra fede e filosofia, narrano di nuvoloni neri e vite interrotte prematuramente, di persecuzioni e fughe per la libertà, ma tra i colori brillanti custodiscono un filo ininterrotto, un viaggio ancora aperto, una storia che si alimenta del suo presente e vive tra le parole d'inchiostro e fuori di esse.

(Pagine Ebraiche, 10 settembre 2019)


Abraham Yehoshua: Israele, meno miti per migliorarsi e tornare alla storia

Per gli ebrei della diaspora il tempo e il luogo in cui vivevano erano passeggeri, non meritevoli di restare nella memoria nazionale. Così la loro identità si è costruita sulla coscienza mitologica. La passiva speranza di salvezza divina ha impedito di presagire i pericoli incombenti.

di Abraham Yehoshua

Per oltre duemila anni nella diaspora, gli ebrei hanno costruito la propria identità principalmente su una coscienza mitologica, non storica. Ciò fu dovuto in primis al semplice fatto che la religione era stata la componente di base della loro identità per tanti anni e le identità religiose sono caratterizzate principalmente da elementi mitologici, non storici. La base di una vita comunitaria nazionale vincolata a un territorio definito dotato di una lingua propria non era mai stata reale per gli ebrei. Esisteva invece nell'immaginazione e nelle metafore, nei simboli e nei rituali della religione, così che la possibilità di fissare una coscienza storica precisa, legata a luoghi reali con una esatta cronologia, nell'identità ebraica era debole e minimale.
   Cercherò di chiarire quanto dico con uno tra molti esempi: gli ebrei hanno commemorato la distruzione del Primo tempio segnando un giorno speciale di digiuno nel calendario ebraico. Il digiuno è osservato in Israele ancora oggi. Di fatto il digiuno ricorda la distruzione del Primo e del Secondo Tempio. Il primo fu distrutto nel 580 a.e. e il secondo nel 70 d.C. I due eventi storici sono molto differenti l'uno dall'altro e distano tra loro circa 600 anni. Anche le ragioni della distruzione furono diverse e uniche a seconda dell'epoca. Unendo i due eventi, la memoria cessa di essere storica e diviene la memoria mitologica di un evento oscuro e generalizzato.
   Questo perché gli ebrei vagavano di luogo in luogo e, anche se si insediavano per centinaia di anni in un posto, come la Polonia, lo consideravano temporaneo, una sorta di residenza transitoria fin quando non potessero ritornare alla loro vera patria in Terra di Israele. Non erano interessati a documentare e testimoniare il loro stile di vita o a documentare e analizzare il loro rapporto con i non-ebrei tra i quali vivevano. Tempo e spazio erano irrilevanti, passeggeri, non meritevoli di essere preservati nella memoria nazionale. Dopo tutto il Messia sarebbe arrivato presto per portarli alla loro terra natia, al luogo autentico cui appartenevano. In terra d'Israele il tempo stesso sarebbe cambiato divenendo tempo divino, il tempo della redenzione; e avrebbe completamente trasformato il loro stile di vita, fino a quel momento del tutto dipendente dalla misericordia dei popoli attorno a loro.
   In aggiunta a ciò, poiché gli ebrei erano sparsi in tutto il mondo era anche impossibile da un punto di vista pratico documentare le storie dei molti luoghi stranieri in cui vivevano. Come poteva un ebreo yemenita testimoniare lo stile di vita di un ebreo polacco che non aveva mai visto e la cui realtà gli era inaccessibile? L'unico contesto nel quale potevano incontrarsi e sviluppare un senso di appartenenza non era nella testimonianza e nel ricordo di una storia particolare, ma soltanto nei miti generali che fissavano la loro identità.
   Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di un'esistenza basata sulla coscienza mitologica?
   Il vantaggio apparentemente ovvio è il fatto che gli ebrei possono disperdersi per il mondo tra le più varie nazioni e civiltà e ancora conservare il nucleo della loro identità, senza diventare troppo dipendenti dalle condizioni e dalle circostanze storiche locali. Nonostante le enormi differenze nello stile di vita delle diverse comunità, gli ebrei poterono mantenere la loro unità attraverso la fede negli stessi miti, di solito religiosi, e ciò nonostante questi miti si siano sviluppati nel corso del tempo per includere miti spirituali generali. Il mito della redenzione messianica, in particolare, era una fonte di speranza nei tempi duri della persecuzione all'interno dei paesi che li ospitavano.
   Tuttavia gli svantaggi della coscienza mitologica superano di molto i vantaggi.
In primo luogo pochi possono conservare la propria identità per un tempo esteso attraverso una coscienza mitologica separata da una connessione effettiva con la patria reale e da un sistema di vincoli con il proprio popolo. Così, per lunghi anni di esilio molti ebrei si sono assimilati ai contesti e hanno perso la propria identità. Per tutto il mondo antico e fino al I secolo d.C. vi erano nel mondo tra 4 e 6 milioni di ebrei. Nel XVIII secolo il loro numero era sceso ad appena un milione.
   Ma, più seriamente, l'essenza del mito era diventata una sorta di monade leibniziana che non poteva essere cambiata né corretta e neppure era aperta alla critica razionale. Al massimo poteva solo essere interpretata. Prendere o lasciare erano le uniche opzioni disponibili. Pertanto, gli ebrei che erano vincolati alla loro coscienza mitologica, ad esempio accettavano l'odio dei non-ebrei come un inalterabile decreto del fato. A certi livelli la loro identità mitologica invitava a una reazione altrettanto mitologica, così che i cristiani vedevano il loro mito della crocefissione come un rigetto e una negazione completi dell'identità ebraica. L'identità mitologica, quindi, non portava gli ebrei ad affiancarsi ad altri popoli nella storia e non gli faceva guardare alla loro come a una parte della storia universale. Ma li spingeva a ritenersi sempre odiati ed essenzialmente altri.
   In questo modo, tra mobilità geografica, flessibilità sociale e adattabilità dell'ebreo individuale, lo spirito collettivo ebraico rimaneva fisso e pietrificato in quell'identità mitologica che, assieme alle visioni di rovina e distruzione, gli permetteva di nutrire la passiva, vana speranza di salvezza divina e gli impediva di presagire correttamente i terribili pericoli che li minacciavano - come dimostra l'Olocausto. Per questa ragione, quando il grande filosofo ebreo Gershom Scholem definiva il sionismo come il ritorno degli ebrei alla storia, intendeva soprattutto la possibilità che gli ebrei modificassero e indebolissero l'elemento mitologico della loro identità e rafforzassero la coscienza storica in una patria definita da chiari confini, in cui ci fosse una coscienza del tempo, una sequenza di prima e poi. Una coscienza che imparasse dagli errori passati e ritenesse di poterli correggere. Una coscienza che apprendesse anche la storia altrui, in particolare dei popoli vicini, dai quali sarebbe stato possibile imparare a migliorarsi, cambiare e correggersi senza danneggiare il nucleo della propria identità.

(La Stampa, 10 settembre 2019)


“... senza danneggiare il nucleo della propria identità”, dice concludendo il famoso romanziere ebreo tanto corteggiato dagli antisionisti. Ma dove si troverebbe, secondo Yehoshua, questo asettico nucleo identitario ebraico privo di ogni contaminazione mitologica? Nessuno lo sa: mistero della fede laica. Abbiamo già esaminato la natura di questo mistero in un articolo della rubrica Approfondimenti. Chi pensa di poter dare una spiegazione esauriente del nocciolo dell’identità ebraica prescindendo da ogni riferimento a Dio, viene indicato dalla Scrittura ebraica con un termine sintetico e preciso: naval, stolto. “Lo stolto ha detto nel suo cuore: non c’è Dio” (Salmo 14:1). E noi crediamo che la Scrittura sia ispirata. M.C.


Polonia, aggrediti e picchiati quattro studenti israeliani

Polonia aggressione israeliani. Quattro studenti israeliani sono stati aggrediti e picchiati a Varsavia. L'ennesimo episodio contro Israele in Polonia è andato in scena all'uscita di un locale notturno.
I quattro ragazzi erano in procinto di prendere i taxi e tornare a casa quando un gruppo di quattro persone ha chiesto loro il paese di provenienza.
Alla risposta "siamo israeliani", il gruppo è partito all'assalto colpendo gli studenti israeliani con calci e pugni (e forse un pugno di ferro) e insultandoli al grido "Fuck Israele" e "Free Gaza". Gruppo che si è rivolto alle vittime parlando arabo.
Il tutto si è svolto sotto l'indifferenza del servizio di sicurezza che non ha interrotto l'aggressione, fermata solo dalle grida di alcune ragazze che sono scese dai taxi e hanno cominciato ad urlare.
Il fratello di Yotam Kashpizky, Barak, una delle vittime, ha postato la foto di cui sopra, per rendere pubblico quanto avvenuto a suo fratello e agli altri studenti che frequentano un semestre di studio alla facoltà di legge nell'università di Varsavia.
Il brutale pestaggio è stato stigmatizzato dal ministero degli Esteri polacco che su Twitter "ha condannato gli atti di aggressione condotti da o contro stranieri in Polonia", sottolineando che:
"La questione dell'aggressione da parte di stranieri ai danni di cittadini sul territorio polacco verrà chiarita dalla polizia".
Polizia che è stata contattata dall'ambasciata israeliana in Polonia e dal ministero degli esteri israeliano, le quali hanno provato ad avere dettagli in più su quanto accaduto.
Al momento le indagini non hanno portato né alla cattura dei responsabili, né all'identificazione della loro nazionalità.
L'aggressione subita a Varsavia da quattro studenti israeliani conferma quanto in Polonia si stia facendo troppo poco contro l'antisemitismo e contro l'odio nei confronti di Israele.
Nell'ultimo anno, infatti, sono stati molti i casi in cui il governo polacco è stato tirato in ballo in merito alla questione dell'antisemitismo.

(Progetto Dreyfus, 10 settembre 2019)


Aerei sconosciuti bombardano base iraniana al confine tra Siria e Iraq

Ci sarebbero diversi morti, tra i quali diversi membri di Hezbollah, in un bombardamento avvenuto nelle prime ore di questa mattina contro una base militare delle milizie iraniane situata al confine tra Siria e Iraq.
A riferirlo sono diverse fonti arabe tra le quali Al Arabiya che cita fonti locali che riportano di "imponenti esplosioni".
Non è ancora chiaro se si tratti della base iraniana della quale si è venuti a conoscenza qualche giorno fa.
Secondo quanto ricostruito dai testimoni, un aereo di nazionalità sconosciuta avrebbe lanciato contro la base iraniana diversi missili colpendo depositi di armi destinati probabilmente a Hezbollah e molti veicoli. Il numero delle vittime sarebbe alto. Si parla di decine di morti tra i quali molti membri di Hezbollah.
Immediate le accuse a Israele per questo attacco. Tuttavia da Gerusalemme non arrivano né conferme né smentite.
Intanto nelle prime ore di questa mattina Hezbollah ha annunciato di aver abbattuto un drone israeliano che si era introdotto in territorio libanese. Anche in questo caso da Gerusalemme non ci sono commenti.

(Rights Reporters, 9 settembre 2019)


Delegazione egiziana arrivata a Gaza

Dopo giorni in cui si sono moltiplicati gli incidenti lungo il confine fra Gaza ed Israele, una delegazione militare egiziana ha fatto ieri ingresso nella Striscia proveniente da Israele - nel tentativo di calmare le acque. Lo riferiscono fonti locali secondo cui i membri della delegazione intendono incontrare dirigenti di Hamas e della Jihad islamica. Secondo Israele proprio la Jihad islamica, che è vicina all'Iran, sarebbe la principale responsabile dell'acuirsi delle tensioni. La delegazione egiziana, aggiungono fonti locali, intende inoltre fare il punto sulle condizioni di vita nella Striscia, in particolare sulle necessità di combustibile per la produzione di energia elettrica.

(Il Messaggero, 9 settembre 2019)


Report: Obama spiava le mosse israeliane contro l'Iran

L'ostilità dell'ex Presidente americano verso Israele è cosa risaputa, ma che spiasse addirittura le mosse israeliane contro l'Iran per prevenirle è qualcosa che va oltre la semplice ostilità. E se a dirlo è il New York Times, da sempre pro-Obama, c'è da crederci

di Marco Loriga

Che Obama avesse la passione di spiare i suoi alleati o i suoi connazionali è cosa risaputa. I personaggi messi sotto controllo vanno dalla Merkel a Trump, quando quest'ultimo era ancora candidato, aggiungendo anche l'antipatia nei confronti del Premier israeliano Netanyahu.
   Ma a quanto si apprende dal New York Times in un lungo articolo di qualche giorno fa, ripreso poi dal sito Breitbart, l'amministrazione Obama spiava Israele e le IDF già prima di concludere l'accordo con l'Iran sul nucleare (JCPOA) del 2015.
   Il JCPOA, accordo concluso durante il secondo mandato con John Kerry come Segretario di Stato - in quanto la precedente Hillary Clinton fu sempre e, giustamente, contraria - aveva degli obbiettivi specifici:
  • Pensare (non si sa se in buona fede o in maniera superficiale) che l'Iran avrebbe cambiato atteggiamento una volta dato semaforo verde per il nucleare a uso civile e libera dalle sanzioni
  • Depotenziare l'Arabia Saudita come leader regionale mettendoli un avversario per riequilibrare le forze e lasciar fuori gli Stati Uniti dagli affari mediorientali
  • Appoggiare indirettamente gli sciiti e la fratellanza musulmana, avversari dei paesi del Golfo (tranne il Qatar) creando così tensioni all'interno dell'Islam e della confessione sunnita
  • Fare un dispetto a Israele e al suo sgradito premier, confermando il suo astio nelle sedi ONU
Come scrive il NYT, prendendo la testimonianza di alcuni funzionari americani, israeliani ed europei, la paura dell'amministrazione Obama fu quella che gli Stati Uniti si sarebbero trovati invischiati in una guerra a causa dei possibili raid israeliani in Iran, che avrebbero rallentato o annullato l'accordo sul nucleare.
   Le IDF nel periodo precedente l'accordo avevano svolto missioni di ricognizione segrete e clandestine con dei droni sull'Iran settentrionale partendo dalle basi in Azerbaigian.
   Il paese musulmano turcofono, situato tra il Caucaso e il Mar Caspio, confina a sud con l'Iran ed ha acquistato diversi droni israeliani negli anni come l'Hermes 450, l'Heron, lo Harop, il Searcher e i più piccoli e leggeri Orbiter e Aerostar che produce su licenza.
   E' stata accusata per aver utilizzato lo Harop, un drone kamikaze con testata esplosiva, nel conflitto mai concluso con la confinante Armenia del Nagorno Karabakh, uccidendo soldati armeni diretti con un bus militare nella zona di confine.
   Durante le missioni di ricognizione in Iran per verificare l'attività nucleare iraniana, le IDF avevano programmato tutto in maniera dettagliata, prendendo le precauzioni del caso come la tipologia del terreno, l'intensità della luce del giorno e della notte più alta o bassa a seconda del mese per futuri raid aerei e quando si sarebbero potute verificare eventuali tempeste di sabbia per poterle evitare. Missioni sia fotografiche che meteorologiche.
   La cosa che scatenò l'indignazione di Netanyahu fu il fatto che Israele era stato tenuto all'oscuro di tutto sull'accordo iraniano. L'amministrazione Obama approvava il budget di spesa per la difesa israeliana (senza però sbloccarla, solo con l'amministrazione attuale fu approvata) e intavolava accordi con il suo più grande nemico, tanto che Netanyahu dichiarò:
    "l'accordo sarebbe il massimo del tradimento. Israele è il più stretto alleato degli USA e loro negoziano alle nostre spalle con il nemico".
L'amministrazione Obama, durante i colloqui con l'Iran, spiava i movimenti delle IDF in Azerbaigian e le telefonate tra i membri del Congresso americano, avversi agli ayatollah, e i leader israeliani in modo da poter informare l'intelligence sulle pressioni che Gerusalemme avrebbe potuto fare contro la buona riuscita del futuro accordo e di conseguenza prendere le contromisure necessarie.
   Ora l'Iran è più aggressivo di prima con i suoi proxy, impegnati tra Siria, Libano, Iraq e Yemen. Nel Golfo Persico compie atti di pirateria verso i cargo di altre nazioni.
   Il risultato che ne è scaturito è la strana alleanza tra i sauditi e gli alleati del Golfo con Israele per riuscire a neutralizzare l'aggressività sciita e della fratellanza musulmana, verso cui Obama con questi ultimi ha dimostrato di avere un rapporto speciale nei salotti di Chicago.

(Rights Reporters, 9 settembre 2019)


Telecamere anti-brogli nei seggi elettorali di Israele

Il governo israeliano ha approvato domenica un disegno di legge promosso dal primo ministro Benjamin Netanyahu che permetterebbe l'uso nei seggi elettorali di telecamere anti-brogli da parte dei rappresentanti di lista. Il procuratore generale Avichai Mandelblit, eccezionalmente presente alla votazione del governo, si è detto contrario all'approvazione affrettata di una legge così delicata: "Non sono contrario alle telecamere, ma deve essere fatto in modo corretto", ha spiegato. La proposta, contrastata dall'opposizione e dallo stesso Comitato elettorale centrale, verrà sottoposta lunedì al voto della Knesset. "La legge proposta dice che le telecamere registreranno ciò che accade nelle aule dei seggi - ha detto Netanyahu - Ovviamente non dentro le cabine elettorali. La segretezza del voto sarà rigorosamente garantita".

(israele.net, 9 settembre 2019)


Il nodo dell'unicità ebraica

Lo sguardo critico di Luzzatto sottovaluta l'odio verso Israele

di Pierluigi Battista

Peccato che in Italia (ma anche altrove) il dibattito intellettuale si sia così rinsecchito e incattivito da preferire la scomunica alla libera discussione, altrimenti i saggi e gli articoli raccolti da Sergio Luzzatto in Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l'eccezione, la storia, in libreria dal 12 settembre per la casa editrice Donzelli, potrebbero suscitare vivaci repliche, contestazioni, tentativi di confutazione, ma sempre basati su argomenti, tesi contrapposte, osservazioni specifiche.
   Invece, come è ampiamente dimostrato nelle pagine di questo libro che riesumano alcune polemiche smodate del recente passato di cui Luzzatto è stato protagonista e vittima, si sfodera con grande facilità l'arma impropria dell'anatema, dell'isolamento del reprobo, della caccia all'eretico.
   Luzzatto racconta delle reazioni violente a un suo libro, Partigia (Mondadori), su Primo Levi: insulti, processi alle intenzioni, linciaggi, come se sfiorare temi controversi fosse la profanazione di un tabù. Mai un'aperta battaglia di documenti contro documenti, interpretazioni contro interpretazioni, in una disputa anche feroce ma leale. I lettori del «Corriere della Sera» conoscono inoltre con quanta virulenza e con quanta violenza venne fatto il vuoto attorno ad Ariel Toaff per un libro che poi l'autore è stato costretto a ripudiare per non perdere ogni aggancio con la cattedra universitaria.
   Lo sguardo di Luzzatto, ovviamente, si sofferma sulle vicende della grande storia ebraica, sul surplus di sensibilità che ogni esplorazione di questa storia comporta, perché sembra impossibile affrontarle come se si avesse come oggetto di studio «un popolo come gli altri», come appunto recita il titolo. C'è una frase di Luzzatto, per esempio, destinata ad esacerbare la discussione: «L'intera dinamica della Shoah viene consegnata a una dimensione astorica, o addirittura trascendente». Ma se non bastasse questa frase che è già aspra, urticante, dolorosa, eccone la conclusione: «con un vantaggio netto per gli eredi dei carnefici, e anche - in un qualche dolorosissimo modo - per gli eredi delle vittime».
   Luzzatto è intellettualmente incline alle affermazioni nette, poco aperte alle mediazioni e alle sfumature. È fortemente attaccato a una tesi. E la tesi che porta con accanimento avanti da anni è che lo Stato di Israele sia macchiato sin dalle origini da una tentazione etnicista, in cui l'integralismo religioso («lo Stato degli ebrei») si alimenta con la sacralizzazione della Shoah, la grande tragedia storica che l'Israele di David Ben Gurion, prima ancora delle componenti di destra, avrebbe voluto porre come base di perenne legittimazione di una creatura esclusivamente politica come lo Stato.
   Per quanto appoggiata ad alcuni scritti di Amos Oz, si tratta di una tesi estrema e ingenerosa, perché se c'è qualcosa di unico e di imparagonabile nella storia dello Stato di Israele è la pervicace, violenta, indiscussa negazione del suo diritto alla stessa esistenza decretata dai nemici. Ma è, appunto, una tesi che merita di essere contestata e, se si è in grado di farlo con argomenti forti, molto indebolita con le armi della discussione e non quelle del linciaggio: un linciaggio, su cui peraltro Luzzatto sorvola, che colpì brutalmente Hannah Arendt con il suo Eichmann a Gerusalemme.
   Ma Luzzatto, nelle sue considerazioni sulla storia dei «ghetti» italiani, o sulle manifestazioni dell'antisemitismo e dell'antigiudaismo, sulle implicazioni culturali che hanno fomentato nei secoli la grande persecuzione antiebraica fino alla catastrofe apocalittica della Shoah, in realtà mostra una tenacia e un'attenzione che non è solo quella dello storico chino sui documenti.
   È soprattutto la ricerca di un filo che possa spiegare il destino di un popolo che non riesce ad essere «un popolo come gli altri» per scoprirne motivazioni profonde, anche inconsapevoli. Rifiutando gli assunti anch'essi spesso inconsapevoli che incardinano la maggioranza degli studi collocati nella «Jewish History»: «Il postulato - riconosciuto o sottaciuto - per il quale esiste, all'interno della storia universale, una storia ebraica a sé stante, quintessenziale, quasi metafisica, che va distinta dalla storia di tutte le altre culture del mondo, di tutti gli altri popoli della terra». E poi, continua e conclude Luzzatto, «il potere della storia non potrà mai essere tanto forte come il potere della letteratura. Ma anche lo scrivere di storia non è forse un modo per tenere insieme i vivi e i morti, la presenza e l'assenza».
   Come se Luzzatto cadesse in una considerazione sentimentale, «tenere insieme i vivi e i morti», che un po' smentisce la freddezza analitica dello storico che parla attraverso lo spassionato esame dei documenti reperiti e disponibili, il demolitore dei miti sacri della storia ebraica tramandata trova però la radice di una pietas alimentata dalle innominabili persecuzioni subite da un popolo che gli «altri» non vogliono trattate come qualunque altro popolo. Una forma di immedesimazione simpatetica che addolcisce la rigidità dello storico. Non fosse che per questo, occorrerebbe dismettere l'atteggiamento arcigno dello scomunicatore che sostituisce l'argomentazione con l'anatema, che uccide ogni discussione e vuole conservare della storia soltanto il mito incontaminato.

(Corriere della Sera, 9 settembre 2019)


La tv complessa che arriva da Israele

di Stefano Balassone

Quando gli eroi volano, serie recente in dieci episodi su Netflix, è prodotta in quella Israele che da qualche anno riesce a vendersi nel mondo, come fecero le tv olandesi negli anni 90. In entrambi i casi si parte da un sistema di forte concorrenza fra molte tv in un Paese di ridotta popolazione (l'opposto rispetto all'Italia, per intenderci). Ne deriva la spinta a vendere fiction e format all'estero per compensare le ridotte risorse locali. Così dall'Olanda arrivarono Grande Fratello, Stranamore e tutto il resto della iper pop televisione, che lavora sui sentimenti più indifesi equiparando il video ad un tabloid. Il caso israeliano è differente perché (ricordate In Treatment?) ci rivende da qualche anno una televisione più complessa, che s'avventura nei meandri anziché nelle banalità delle persone.
   In Quando gli eroi volano si parla di guerra e se fossimo nel prodotto medio americano ci aspetteremmo spari ad ogni cantone, tanto più che gli "eroi" sono quattro ex soldati delle Forze Speciali israeliane. Fra i quali, al di là del cameratismo, c'è un legame di amicizia che interviene a fargli assumere una misura aggiuntiva di rischi quando fra gli spari devono pensare a soccorrersi l'un l'altro. Peraltro gli spari intervengono di rado perché il più del tempo i nostri eroi lo passano a pensare al senso di quanto stanno vivendo, a quanto li trasforma l'esperienza concreta della guerra contro gli Hezbollah. Che gli stanno a pari, cioè non sono, tipo i pellerossa di John Wayne, bersagli che più ne vedi cadere meglio stai.
   Si sente insomma, lo sforzo, data la situazione del Paese, di non cavarsela con il tifo da stadio, e di raccontare anche del dubbio e dell'irrazionale.
Sta di fatto che la serie, leggiamo, ha fatto ascolti molto alti in Israele. Da noi stenterà perché è molto "diversa", a volte anche complessa da capire. In più soffre del budget minore rispetto alle serie dominanti. Ma dentro c'è del metodo e un qualche sapore nuovo.

(la Repubblica, 9 settembre 2019)


Padre e figlio israeliani accoltellati da un palestinese

di Giordano Stabile

Attacchi con coltelli e altre armi rudimentali in Cisgiordania, assalti con droni armati dalla Striscia di Gaza. La tensione continua a salire in Israele, che una settimana fa ha vissuto anche un giorno di guerra alla frontiera libanese e il 17 settembre affronterà il secondo voto anticipato in un anno. Per il premier Benjamin Netanyahu, alla ricerca della riconferma a tutti i costi, è un momento difficile, aggravato dalle dimissioni inaspettate del mediatore della Casa Bianca Jason Greenblatt, l'artefice del piano di pace americano, ancora in alto mare.

 Tensione in aumento
  La giornata di ieri è stata segnata da un attacco con un coltello vicino un insediamento in Cisgiordania. Un ragazzo palestinese ha colpito un sessantenne e il figlio di 17 anni. L'adolescente, raggiunto alla schiena, è in gravi condizioni, come ha confermato la Magen David Adom, l'equivalente della Croce Rossa in Israele. I due, residenti a Ofakim, stavano andando dal dentista quando sono stati attaccati. Il terrorista, appena quindicenne, è stato arrestato dalle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese. La giovane età porta a escludere che si tratti di una cellula di Hamas, che pure la scorsa settimana ha condotto un attacco con un ordigno esplosivo e ucciso una giovane.
  Hamas è finita comunque nel mirino dell'aviazione israeliana dopo l'attacco a una pattuglia alla frontiera con un drone armato. Il velivolo ha sganciato una granata su una jeep blindata dell'esercito, senza causare vittime. I raid di rappresaglia hanno preso di mira un edificio nella Striscia di Gaza, che secondo l'esercito ospitava un «gruppo di attacco terroristico». I nuovi scambi di colpi sono anche la ricaduta di un venerdì tesissimo, che ha visto una nuova "marcia del ritorno" lungo la frontiera finire nel sangue. Due manifestanti palestinesi sono rimasti uccisi, 66 feriti e di questi 38 raggiunti, secondo i medici di Gaza, da proiettili veri.
  L'esercito israeliano ha parlato di scontri «particolarmente violenti» con lancio verso i soldati di «una grande quantità di ordigni esplosivi, bombe a mano e bottiglie incendiarie». Nella notte fra venerdì e sabato, nonostante la tregua tra le parti mediata da Egitto, Onu e Qatar, cinque razzi sono stati lanciati verso Sderot, con due donne ricoverate in stato di choc. In mattinata l'aviazione israeliana ha colpito postazioni di Hamas, che ritiene comunque responsabile anche se i lanci sono da attribuire forse alla Jihad islamica.

(La Stampa, 8 settembre 2019)


Israele deve portare la guerra in Iran per affrontare il problema alla radice

Il figlio di Ariel Sharon si chiede il perché mentre i cittadini israeliani sono costretti a vivere nei rifugi, gli iraniani possono girare tranquillamente per Teheran e propone di colpire il male direttamente alla fonte.

di Maurizia De Groot Vos

Perché gli israeliani devono stare nei rifugi antiaerei mentre gli iraniani stanno tranquilli nelle loro case? Se lo chiede Gilad Sharon, figlio di Ariel Sharon in un articolo pubblicato questa mattina su Yediot Aharonot.
  Sharon ricorda che gli iraniani sono dietro i recenti attacchi contro Israele provenienti da Gaza, Libano e Siria, ma ricorda anche che Israele punisce solo gli esecutori e non chi quegli attacchi li ha ordinati.
  «Questo deve cambiare» scrive Gilad Sharon. «Perché gli israeliani devono essere costantemente minacciati da attacchi ordinati e finanziati dall'Iran mentre gli iraniani se ne stanno al caldo nelle loro case?».
  «Israele è un paese evoluto e sofisticato, in grado di organizzare attacchi in Iran e altrove» scrive ancora il figlio di Ariel Sharon.
  «All'Iran non importa nulla se ad essere uccisi dal fuoco israeliano sono i civili di Gaza, i civili libanesi o quelli siriani. A loro non importa dei civili, anzi, all'Iran va bene che a pagare il prezzo delle loro azioni siano i civili di Gaza, ma quando si tratta dei civili iraniani il discorso cambia».
  Secondo Sharon l'Iran deve sapere che se sponsorizza attacchi contro Israele anche i suoi civili saranno in pericolo, che non saranno al sicuro. Se l'Iran non attacca Israele, Israele non attaccherà l'Iran. Ma se al contrario l'Iran attacca Israele deve sapere che anche Israele attaccherà l'Iran.
  «Perché le truppe IDF dovrebbero essere minacciate ai confini con il Libano e Gaza, mentre i soldati iraniani sono al sicuro nel loro paese? E se un cittadino che vive a Sderot deve sedere in un rifugio antiaereo, perché un cittadino iraniano dovrebbe stare al sicuro nella sua casa?» si chiede il figlio di Ariel Sharon.

 Finanziare le milizie sunnite
  Poi Sharon lancia una proposta ardita proponendo di armare e finanziare le milizie sunnite contrarie all'Iran. «Se Tel Aviv o Haifa sono minacciate, perché le persone dovrebbero camminare liberamente a Teheran? Non mancano le milizie sunnite nemiche dell'Iran: orchestrate attacchi contro di noi? Noi orchestriamo attacchi contro di voi, semplici e simmetrici».

 Una velata critica a Netanyahu
  Secondo Gilad Sharon la risposta di Israele al lancio di missili da Gaza è debole e viene giustificata con la scusa della minaccia sul fronte settentrionale. Ma sia le minacce sul fronte sud che quelle sul fronte nord sono figlie dello stesso male: l'Iran. Un attacco alla fonte di questo male sarebbe molto più efficiente delle deboli risposte verso Hamas e anche verso Hezbollah.
  Gli iraniani non sarebbero in grado di accettare attacchi diretti al loro paese così come noi israeliani non dovremmo essere in grado di accettarli dando risposte deboli.
  Sharon sostiene che tutti dovrebbero pagare, sia chi preme il grilletto che chi lo ordina. Non dovrebbero essere solo Hamas ed Hezbollah a pagare, non dovrebbe essere solo Gaza, il Libano o qualche villaggio in Siria a pagare, ma dovrebbero essere direttamente coloro che organizzano tutto questo, cioè gli iraniani.

 Sharon propone quello che l'intelligence propone ormai da tempo
  Quanto scritto questa mattina da Gilad Sharon è esattamente quanto l'intelligence israeliana propone ormai da tempo, cioè passare dalla difesa passiva ad una difesa decisamente attiva. I raid su obiettivi iraniani in Libano, in Siria e persino in Iraq non stanno fermando la macchina iraniana che, anzi, si rafforza ogni giorno di più.
  Israele dispone dei mezzi necessari a colpire il nemico direttamente al cuore, dispone degli apparati necessari a organizzare un contrattacco per mezzo di milizie sunnite direttamente in territorio iraniano. È ora di portare la guerra in Iran, di affrontare il problema alla radice. È ora di smetterla di subire solamente e di infliggere al nemico colpi ben assestati prima che sia troppo tardi.

(Rights Reporters, 8 settembre 2019)


La via da percorrere

di Rav Giuseppe Momigliano

Nel periodo che coincide con l'estate rinnoviamo il triste ricordo della distruzione del Santuario. Uno dei significati sempre attuali, legato a tale evento, ci viene proposto da un episodio di quei giorni narrato nel Talmud (Talmud B. Ghittin 56). Si racconta che, nell'infuriare dell'assedio posto dai romani a Yerushalaim, uno dei grandi Maestri, Rabbi Yochannan ben Zakkay, già allievo di Hillel, era ben consapevole dell'imminente disfatta, sia per la preponderante forza nemica, sia per le gravi responsabilità della leadership ebraica, che rappresentava fazioni accecate dall'odio reciproco, preoccupate più di rivaleggiare fra di loro che di difendersi dai romani e incapaci di sostenere un progetto che non fosse il rifiuto categorico di qualsiasi trattativa col nemico. In tale frangente, Rabbi Yochannan ben Zakkay progettò e mise in atto un'ardita operazione, attraverso la quale intese porre le basi per il futuro del popolo ebraico dopo la distruzione, ormai inevitabile, del Santuario. Le truppe di Roma cingevano la città con un impenetrabile assedio, anche i comandanti della resistenza ebraica in Gerusalemme vietavano qualsiasi fuoriuscita dalla città che potesse essere interpretata come un segno di resa, l'unica eccezione che veniva concessa per l'apertura di un varco era il passaggio di un feretro destinato ad essere sepolto fuori dalle mura di Gerusalemme. Rabbi Yochannan ben Zakkay si fece pertanto trasportare fuori dalla città sotto le sembianze di un defunto, riuscendo a superare indenne il controllo delle guardie romane che, richiamate sulla gravità di compiere scempio sul corpo di un defunto, rinunciarono al proposito di trafiggerlo per accertarsi che si trattasse effettivamente di persona deceduta.
   Il racconto del Talmud narra poi che Rabbi Yochannan ben Zakkay si presentò al comandante romano, Vespasiano, attribuendogli il titolo regale; di fronte alla reazione stupita del condottiero, Rabbì Yochannan gli preannunciò che ben presto sarebbe stato proclamato imperatore, cosa che infatti si verificò di lì a poco. Sempre dal racconto del Talmud, apprendiamo come Vespasiano, per ricompensare il Maestro dell'onore attribuitogli preventivamente, lo invitò a formulare una richiesta, con l'esplicita promessa di esaudirla. La narrazione, che fino a questo punto può apparire aneddotica, assume ora il rilievo di uno squarcio lungimirante rivolto al futuro. Rabbi Yochannan ben Zakkay, consapevole dell'immane sconvolgimento che avrebbe determinato nelle coscienze, nell'identità, forse nella stessa fede del popolo ebraico la perdita del Santuario, fece l'unica richiesta dalla quale era fermamente convinto dipendesse il futuro del suo popolo: un luogo sicuro, protetto dalla furia distruttiva del nemico, ove potesse proseguire liberamente lo studio, vivo e intenso della Torà, un luogo dal quale i Maestri, i Chakhamim, seguendo i metodi di interpretazione avviati da Hillel e da altri sapienti, avrebbero saputo indicare al popolo ebraico "la strada da seguire e le azioni da compiere" per continuare a guardare al futuro. Tale località, concessa a Rabbi Yochannan da Vespasiano, era il villaggio di Yavneh, dove infatti si sarebbe spostato il Sinedrio dopo la distruzione di Gerusalemme.
   La scelta di Rabbi Yochannan ben Zakkai ha un valore emblematico e permanente, che riguarda anche noi: la garanzia del futuro per il popolo ebraico è posta nello studio della Torà. È un percorso che significa lavoro faticoso ma affascinante sui testi, ricerca e approfondimento, un percorso che non teme affatto di confrontarsi con i problemi del presente, con le sollecitazioni, con le inquietudini e le angosce dei nostri giorni, per cercare risposte, non ricorrendo all'arbitrio di soluzioni prive di fondamento bensì attraverso i metodi rigorosi di interpretazione che hanno elaborato i Maestri.
   Nel tempo di incertezze che stiamo vivendo, lo studio di Torà, impegnativo di scelte di vita dei singoli ebrei, delle famiglie e delle Comunità ebraiche, può, come ai tempi di Rabbi Yochannan ben Zakkai, aprirci un varco verso il futuro e indicarci "la via da percorrere e le azioni da compiere".

(Pagine Ebraiche, settembre 2019)



Testimonianze al Binario 21: per ricordare

di Claudia Cannella

È l'otto settembre 1943, ore 19.42: ai microfoni dell'Eiar il maresciallo Badoglio annuncia l'entrata in vigore dell'armistizio. L'esercito italiano è allo sbando, inizia la Resistenza contro il nazifascismo; dalla Stazione Centrale di Milano centinaia di persone soprattutto ebrei, ma anche operai e oppositori politici vengono stipate in vagoni merci e avviate a un destino di morte nei campi di concentramento e sterminio.
   Per ricordare quel tragico momento storico, il Memoriale della Shoah ospita oggi e domani, per il quinto anno consecutivo, «I luoghi della Memoria», in collaborazione con Piccolo Teatro, Conservatorio, Anpi e Aned. Nato da un'idea di Stefania Consenti, autrice del libro «Luoghi della Memoria di Milano» (messo in scena da Castagna Ravelli, con la regia di Paolo Castagna), è uno spettacolo itinerante negli ambienti della Stazione Centrale con il famigerato Binario 21 simbolo della Shoah in Italia e della deportazione politica e operaia, dove ora ha sede la Fondazione Memoriale della Shoah come fulcro.
   Recitate da attori del Piccolo (Sergio Leone, Lucia Marinsalta, Marco Risiglione, Elena Rivoltini, Bruna Rossi) e accompagnate da musicisti del Conservatorio (Antonio Di Carlo, Federica Faccincani, Matteo Valtolina, Stefano Arato, Alessandra Romano), gli spettatori ascolteranno testimonianze di sopravvissuti alle deportazioni, tra cui Primo Levi, Liliana Segre, Goti Bauer e Giuliana Tedeschi, per essere poi guidati all'interno di uno dei vagoni con cui i prigionieri venivano deportati. Per non dimenticare. Perché, come sottolinea Ferruccio de Bortoli, Presidente Onorario della Fondazione Memoriale della Shoah, «la memoria è il vaccino culturale che ci rende immuni dai batteri dell'antisemitismo e del razzismo».

(Corriere della Sera - Milano, 8 settembre 2019)


La teologia avvolge i Rotoli

Manoscritti di Qumran. La lettura teologica dell'intero vocabolario dei testi ritrovati in una grotta del Mar Morto nel 1947. E una nuova guida di siti e vestigia della Terra Santa

di Gianfranco Ravasi

 
Tante volte è stato narrato quanto accadde in una mattinata primaverile del 1947 sulla costa occidentale scoscesa del mar Morto: il pastore beduino Mohammed ed-Dib, alla ricerca di una capra smarrita tra le grotte che si aprivano nelle rocce marnose di una località detta Qumran, aveva scoperto alcune giare di terracotta contenenti sette rotoli con testi scritti. Da allora iniziava un'avventura complessa con colpi di scena, manovre oscure, segnate anche dalla presenza di servizi segreti, mercanti levantini, ecclesiastici, accademici e personalità varie. Le successive perlustrazioni e le ricerche paleografiche su quei materiali preziosi (è stata spesso considerata la scoperta archeologica più importante del secolo), classificabili attorno ai cinquantamila pezzi - non di rado semplici brandelli agglutinati a un grumo di terra, con una sola lettera o parola - hanno prodotto un'imponente bibliografia e infiniti dibattiti, non sempre rigorosi, anzi sovente affidati a ipotetici scoop giornalistici.
  L'identificazione di un vero e proprio quartiere, sottostante a quelle grotte, con piscine rituali, scriptoria, aule e persino cimiteri, ha fatto supporre che si trattasse di una sorta di "monastero" di una comunità di stretta osservanza, in polemica con l'ebraismo ufficiale gerosolimitano. Si tratterebbe dei cosiddetti Esseni, «pii», già noti attraverso altre fonti, ma non sono mancate al riguardo riserve. È suggestiva una curiosa interpretazione che viene data da alcuni esegeti a un passo del Vangelo di Marco. Quando Gesù invia due suoi discepoli in un quartiere di Gerusalemme ad allestire la sala per l'ultima cena, dice loro: «Vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua. Seguitelo e, dove entrerà, dite al padrone di casa: Il maestro dice: Dov'è la mia sala nella quale mangerò la pasqua coi miei discepoli? Egli vi mostrerà una stanza al piano superiore, ampia, guarnita di cuscini, già pronta» (14,13-15).
  In quei tempi erano solo le donne che attingevano acqua nelle brocche. Gli Esseni praticavano il celibato e quindi erano i loro membri maschi ad accudire a questo compito, e a Gerusalemme c'era un settore occupato da loro. Si avrebbe, così, allusivamente un contatto tra Gesù e questa comunità, da cui pure lo separavano alcune concezioni puritane emergenti dai loro scritti (non per nulla nel Nuovo Testamento non sono mai evocati esplicitamente), mentre più probabile era un nesso del Battista con loro. Ma per ritornare ai testi scoperti nelle grotte del mar Morto, vogliamo ora segnalare due imprese scientifiche rilevanti approdate anche nella nostra lingua.
  La prima, già da noi segnalata in queste pagine e intitolata La Biblioteca di Qumran, ha finora offerto in tre tomi l'intera raccolta bilingue ebraico-italiana dei manoscritti contenenti passi della Torah, ossia dei primi cinque libri dell'Antico Testamento (ed. Dehoniane, 2013- 2016). L'originale della raccolta era francese mentre il curatore italiano era Giovanni Ibba. È significativo sottolineare che almeno novecento rotoli con testi biblici ebraici scoperti a Qumran, databili tra il III sec. a.e. e il I d.C., sono più antichi di circa un millennio rispetto al primo codice completo che fino ad allora veniva usato per le edizioni critiche della Bibbia ebraica, ossia il cosiddetto «Codex di Leningrado».
  Ora, invece, assistiamo a una seconda impresa: questa volta dal tedesco, un nostro studioso, Francesco Zanella dell'università di Bonn, intraprende la versione italiana di un Dizionario Teologico degli scritti di Qumran, curato da una piccola legione di ricercatori di varie istituzioni accademiche. Come si evince dal titolo, si elenca l'intero vocabolario di quei manoscritti secondo una chiave ermeneutica fondamentale, quella teologica. Certo, con un tale approccio si riesce anche a delineare l'evoluzione linguistica dell'ebraico e dell'aramaico qumranico, ma soprattutto si ricostruisce la visione implicita di questa comunità, si scoprono per contrasto le diverse correnti teologiche del giudaismo di allora, si isolano gli eventuali ponti di contatto col cristianesimo in gestazione, si ricompone l'incidenza delle prescrizioni bibliche nella prassi del giudaismo del tempo.
  Questa avventura scientifica coraggiosa - sostenuta da un'editrice benemerita come la bresciana Paideia, ora sotto il marchio della torinese Claudiana - si apre con un primo volume che abbraccia solo i vocaboli delle prime due lettere dell'alfabeto ebraico, la 'alef e la bet (si può immaginare quanto sia imponente l'opera finale). Impressiona l'accuratezza con cui viene articolato ciascun lemma, attento a registrare ogni sfumatura semantica: tanto per esemplificare, si esamini la voce ', un verbo di moto (venire, entrare), nello sviluppo delle trenta pagine ad esso dedicate; oppure si seguano le categorie che ruotano attorno al termine ben, (in aramaico bar), «figlio», che curiosamente è il vocabolo più usato nell'Antico Testamento dopo il nome sacro divino Jhwh e che anche a Qumran risuona quasi 850 volte nelle due forme linguistiche.
  Siamo partiti dalle aspre solitudini che circondano il mar Morto, che coi suoi 400 metri sotto il livello marino è la fessura più profonda della crosta terrestre. Concludiamo ora con un genere particolarmente prolifico (anche il sottoscritto ha contribuito a incrementarlo con tre diversi libri): si tratta delle cosiddette «guide di Terrasanta»". I registri possono essere molteplici: turistico, per pellegrini, archeologico, tematico, storico, devozionale.Nel ventaglio delle pubblicazioni disponibili, segnaliamo l'apparire ora, in una terza edizione rinnovata, di una guida di successo, curata da Mario Russo Cirillo, che - sotto il titolo teologico La Terra dell'Alleanza - cerca di aggregare tutte le componenti necessarie: «Bibbia, storia, archeologia, preghiera», come recita il sottotitolo.
  Si comprende, quindi, che il destinatario è innanzitutto il pellegrino. Tuttavia l'attenzione anche ai dati storico-ambientali è molto seria e l'aggiornamento è solido, come si evidenzia - tanto per stare al tema dominante di questa recensione - nelle pagine riservate a Qumran, ove si elencano anche le diverse ipotesi attuali che ruotano attorno a questo sito e alla sua vicenda storico-religiosa. Sempre nella linea dell'attualizzazione, si conduce il visitatore nella sinagoga di Magdala in Galilea, venuta alla luce solo dopo il 2009, così come si riserva un' analisi al restauro conservativo del tempietto centrale della Basilica del s. Sepolcro, sede della tomba di Cristo, restauro compiuto tra il 2016 e il 2017, ad opera di Antonia Moropoulou del Politecnico di Atene (anche il nostro supplemento ne ha dato notizia a suo tempo).
  Similmente Cirillo segnala che per un altro luogo capitale della cristianità, la Basilica della Natività a Betlemme, è in corso dal 2013 una serie di restauri con oltre duecento specialisti all'opera e varie imprese, anche italiane.Naturalmente vasta è tutta la documentazione che accompagna ogni sito, la cui visita può idealmente iniziare già nelle stesse pagine della "guida" attraverso una fittissima e affascinante sequenza fotografica. In finale, potremmo condividere anche per i nostri lettori il tipico augurio ebraico: «L'anno prossimo a Gerusalemme!».

(Il Sole 24 Ore, 8 settembre 2019)


Da Odessa ai ghetti di Varsavia. Lezione di storia con Jewish Jazz

Viaggio nelle esperienze musicali ebraiche. Fra i big Uri Caine e Gabriele Coen

di Piero Di Domenico

 
                                       Gabriel Coen                                                                                             Uri Caine
Un viaggio attraverso le esperienze musicali ebraiche, a partire da Odessa, città simbolo dell'ebraismo dell'est europeo, con la musica dei primi esponenti del klezmer, passando alla riscoperta delle grandi canzoni yiddish del Bund, il movimento socialista ebraico, e della Rivoluzione russa.
   Il tradizionale appuntamento con il festival «Jewish Jazz», nel cortile all'aperto del Museo Ebraico di Bologna in via Valdonica, con ingresso gratuito, si aprirà martedì 10 alle 21 con il concerto-reading «Messia e Rivoluzione. Storia e storie del Bund»: voce di Miriam Camerini e clarinetto di Angelo Baselli.
   A seguire, giovedì 12, il quartetto di Gabriele Coen, per approdare, infine, sabato 14 settembre, alla presenza ebraica nella cultura statunitense, con il concerto per piano solo di Uri Caine, protagonista assoluto dell'incontro tra jazz e tradizioni musicali ebraiche. Il primo concerto sarà ispirato al Bund, al suo «Giuramento» composto dal drammaturgo ed etnografo Shlomo An'skì e al suo slancio rivoluzionario accompagnato anche da una canzone come «La marcia dei disoccupati», che celebra la Rivoluzione d'Ottobre adattando un brano liturgico fino ad allora eseguito solo in sinagoga.
   Le due grandi rivolte nei ghetti di Vilna e di Varsavia costituirono un tragico epilogo per la storia del Bund, annientato dalla Shoah. Ad accompagnare ìl viaggio musicale del quartetto formato da Miriam Camerini, Angelo Baselli, Gianluca Casadei e Rocco Rosignoli ci saranno anche riflessioni dal Talmud e parole tratte da opere di Franz Kafka, Ernst Bloch e Martin Buber, che si aggiungeranno a quelle di Wlodek Goldkom, giornalista e scrittore di origini polacche che alla storia del Bund ha dedicato vari studi e ricerche. Due giorni dopo toccherà al viaggio musicale del quartetto di Gabriele Coen, completato da Antonello Sorrentino alla tromba, Pietro Lussu al pianoforte e Riccardo Gola al contrabbasso, che prenderà le mosse dalle sconfinate terre della Russia zarista di fine Ottocento.
   In un periodo compreso tra il 1880 e il 1924, infatti, circa un terzo della popolazione ebraica est europea, quasi due milioni e mezzo di persone, fu costretta dai violenti moti antisemiti e dai continui pogrom a lasciare la propria terra e cercare fortuna nel "Nuovo Mondo", stabilendosi in modo massiccio soprattutto nel Lower East Side di New York.
   Con personaggi della cultura ebraica dell'est europeo che dagli anni Venti divennero centrali per la musica americana come Irving Berlin, George Gershwin e Benny Goodman. Il gran finale sarà affidato a Uri Caine, 63 anni, e al suo pianoforte. Da sempre a suo agio sia con la rivisitazione di pagine della storia della musica, da Bach a Schumann, sia con la tradizione ebraica che con la scena creativa statunitense contemporanea.
   Caine è considerato uno dei jazzisti più enciclopedici in attività. Come conferma la vastità dei suoi interessi riflessa nelle numerose traiettorie verso cui ha indirizzato la propria scrittura musicale, nelle formazioni da lui stesso guidate e nelle collaborazioni con altri musicisti, diversissimi tra di loro come Don Byron, Dave Douglas, Jobn Zorn, Terry Gibbs, Clark Terry e Paolo Fresu.
   Al concerto bolognese, in gran parte ispirato alla musica ebraica, non mancheranno improvvisazioni jazz, con sue composizioni originali e brani di compositori come Mahler, Gershwin, Berlin, Goodman e Zorn.

(Corriere di Bologna, 8 settembre 2019)


Uccidere la libertà di espressione in Francia, in Germania e su Internet

di Judith Bergman*

A maggio, la Francia ha auspicato una maggiore vigilanza di Facebook da parte del governo. Ora Fb ha accettato di consegnare ai giudici francesi i dati identificativi degli utenti francesi sospettati di incitamento all'odio sulla sua piattaforma, secondo il segretario di Stato francese per il Digitale, Cédric O.
   In precedenza, stando a un report della Reuters, "Facebook aveva evitato di consegnare i dati identificativi di persone sospettate di incitamento all'odio perché non era costretto a farlo in base alle convenzioni giuridiche tra Francia e Stati Uniti e perché si preoccupava del fatto che paesi senza un potere giudiziario indipendente potessero abusarne". Finora, ha osservato la Reuters, Facebook ha cooperato con la magistratura francese in merito a questioni relative ad attacchi terroristici e ad azioni violente trasferendo gli indirizzi IP e altri dati identificativi di persone sospette ai giudici francesi che ne avevano fatto richiesta formale.
   Ora, tuttavia, "i discorsi di incitamento all'odio" - come vengono opportunamente etichettati i contenuti che non rispettano l'attuale ortodossia politica - sembrano essere diventati paragonabili al terrorismo e al crimine violento. Per quanto autocratico possa essere, a Cédric O sembrerebbe piacere: "Si tratta di una notizia incredibile, significa che il processo giudiziario sarà in grado di funzionare normalmente".
   È molto probabile che altri paesi vorranno raggiungere un accordo simile con Facebook; sembra anche probabile che Fb si attenga ad esso. A maggio, ad esempio, mentre la Francia stava discutendo una normativa che avrebbe conferito a un nuovo "regolatore indipendente" il potere di multare le aziende tecnologiche fino al 4 per cento del loro fatturato globale, se non fanno abbastanza per rimuovere "i contenuti che incitano all'odio" dal proprio network, il CEO di Facebook, Mark Zuckerberg, ha così commentato: "Spero che [la proposta francese] possa diventare un modello utilizzato in tutta l'UE".
   La Francia è il primo e finora unico paese ad aver raggiunto un accordo del genere con Facebook.
   Il nuovo accordo potrebbe indicare di fatto la fine della libertà di espressione su Facebook per i cittadini francesi. L'autocensura in Europa è già molto diffusa: da un recente sondaggio condotto in Germania è emerso che due terzi dei tedeschi fanno "molta attenzione" agli argomenti sui quali esprimersi in pubblico - l'Islam e i migranti sono quelli più delicati e tabù. Il fatto di sapere che un semplice post su Facebook potrebbe finire davanti a un giudice in un'aula di tribunale molto probabilmente metterà un freno decisivo al desiderio di chiunque di esprimersi liberamente.
   Le autorità francesi stanno già dando un esempio lampante di ciò che può accadere a coloro che usano la loro libertà di espressione su Internet. Marine Le Pen, leader di Rassemblement National, è stata di recente rinviata a giudizio e rischierebbe una condanna fino a tre anni di carcere e una multa di 75 mila euro per aver diffuso "messaggi violenti che incitano al terrorismo o alla pornografia o ledono gravemente la dignità umana". Nel 2015, aveva twittato le immagini delle atrocità perpetrate dall'Isis in Siria e in Iraq per mostrare ciò che stava facendo lo Stato islamico.
   Se l'accordo di Facebook con la Francia viene reiterato da altri paesi europei, tutto ciò che resta della libertà di espressione in Europa, soprattutto su Internet, rischia di prosciugarsi rapidamente.
   All'inizio di luglio, l'Assemblea nazionale francese ha approvato un disegno di legge per contrastare l'odio online. La disposizione prevede che le piattaforme dei social media hanno 24 ore di tempo per rimuovere "i contenuti di incitamento all'odio" o rischiano multe fino al 4 per cento delle loro entrate globali. Il disegno di legge è andato al Senato francese e potrebbe diventare legge dopo la pausa estiva del parlamento. In tal caso, la Francia sarà il secondo paese in Europa dopo la Germania ad approvare una legge che obbliga una società di social media a censurare i propri utenti per conto dello Stato.
   Sempre ai primi di luglio, in Germania - dove la legge sulla censura, nota come NetzDG [Netzwerkdurchsetzungsgesetz - Atto per l'applicazione della legge all'interno dei social network, N.d.T.], impone a Facebook di rimuovere i contenuti entro 24 ore oppure la piattaforma rischia multe fino a 50 milioni di euro - l'Ufficio federale di giustizia ha inflitto a Fb un'ammenda di due milioni di euro "per le informazioni incomplete fornite nella sua relazione pubblicata [la pubblicazione della sua relazione sulla trasparenza riguardante i primi sei mesi del 2018 richiesta ai sensi della NetzDG] in merito al numero di reclami ricevuti riguardo ai contenuti illeciti. Ciò offre all'opinione pubblica un'immagine distorta sia della quantità di contenuti illeciti sia della risposta del social network.
   Secondo l'Ufficio federale di giustizia tedesco, Facebook non informa adeguatamente i propri utenti della possibilità di segnalare i "contenuti illegali" nello specifico "modulo di segnalazione relativa al NetzDG":
   "Facebook dispone di due sistemi di segnalazione: il suo feedback standard e i canali di segnalazione da un lato, e il 'modulo di segnalazione relativa al NetzDG', dall'altro. Gli utenti che desiderano presentare un reclamo in merito ai contenuti illegali ai sensi del Network Enforcement Act si trovano orientati verso i canali standard, poiché l'esistenza parallela di tali canali e del 'modulo di segnalazione relativa al NetzDG' è ben celata. (...) Laddove i social network offrono più di un canale di segnalazione, questo deve essere reso chiaro e trasparente agli utenti, e i reclami ricevuti attraverso questi canali vanno inclusi nel rapporto sulla trasparenza. Dopotutto, le procedure per gestire i reclami relativi ai contenuti illeciti hanno un impatto notevole sulla trasparenza".
   In risposta, Facebook ha dichiarato: "Vogliamo rimuovere i discorsi che incitano all'odio nel modo più rapido ed efficace possibile, e lavoriamo per farlo. Siamo certi che le relazioni pubblicate sono conformi alla legge, ma come hanno rilevato molti critici la legge manca di chiarezza".
   Mentre Facebook afferma di contrastare l'odio online, e si arroga la pretesa di aver rimosso dalla propria piattaforma milioni di pezzi dai contenuti terroristici, secondo un recente articolo del Daily Beast, 105 post di alcuni dei più noti terroristi di al-Qaeda sono ancora pubblicati su Facebook e YouTube.
   Tra i terroristi spiccano Ibrahim Suleiman al-Rubaish, che è stato imprigionato per più di cinque anni a Guantanamo Bay per l'addestramento con al-Qaeda e per aver combattuto a fianco dei talebani in Afghanistan contro gli Stati Uniti, e Anwar al-Awlaki, un terrorista di origine americana, entrambi uccisi da droni americani. Secondo quanto riferito nel settembre del 2016 da un funzionario statunitense responsabile della lotta al terrorismo:
   "Se si dovessero prendere in considerazione le persone che hanno perpetrato atti di terrorismo o che sono state arrestate e si facesse un sondaggio, si scoprirebbe che la maggior parte di loro ha avuto una sorta di esposizione ad Awlaki".
   Già negli anni Novanta, Awlaki predicava e diffondeva il suo messaggio di jihad nelle moschee americane. Nella moschea Masjid Ar-Ribat al-Islami, a San Diego, tra il 1996 e il 2000, due dei futuri dirottatori dell'11 settembre parteciparono ai suoi sermoni. Si dice anche che Awlaki abbia ispirato molti altri terroristi, come l'autore della strage di Fort Hood, il maggiore dell'esercito statunitense Nidal Malik Hasan con il quale ebbe uno scambio di e-mail, e i fratelli Tsarnaev, responsabili dell'attentato alla maratona di Boston del 2013. A quanto pare, questo tipo di attività non infastidisce Facebook: il Daily Beast avrebbe trovato i video attraverso semplici ricerche in arabo, digitando solo i nomi dei jihadisti.
   Che Facebook appaia selettivamente "creativo" nel modo in cui sceglie di rispettare le proprie regole non è una novità. Come in precedenza riportato dal Gatestone Institute, in Svezia, Ahmad Qadan, per due anni, ha raccolto pubblicamente fondi per conto dell'Isis. Facebook si è limitato a rimuovere i post dopo l'intervento del Servizio di sicurezza svedese (Säpo). Nel novembre del 2017, Ahmad venne condannato a sei mesi di prigione perché ritenuto colpevole di aver utilizzato Facebook allo scopo di raccogliere fondi per finanziare l'acquisto di armi per gruppi terroristici come lo Stato islamico e Jabhat al-Nusra e per aver pubblicato messaggi che invocavano "gravi episodi di violenza da perpetrare sostanzialmente o in maniera sproporzionata contro i civili con l'intenzione di creare terrore nella popolazione".
   Nel settembre del 2018, i media canadesi rivelarono che Zakaria Amara, leader di un'organizzazione terroristica di Toronto, che stava scontando una condanna a vita per aver pianificato attentati con camion in stile al-Qaeda nel centro di Toronto, aveva una pagina Facebook sulla quale pubblicava foto della prigione e riflessioni sul suo percorso di terrorista. Solo dopo che i media canadesi avevano chiesto a Fb informazioni sull'account, il social media cancellò il profilo di Amara "per violazione dei nostri standard comunitari".
   Quando Facebook e YouTube riterranno prioritario rimuovere il materiale riguardante il terrorista Anwar al-Awlaki, il cui incitamento ha ispirato gli attuali terroristi a uccidere la gente?

* Judith Bergman è avvocato, editorialista e analista politica. È Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.

(Gatestone Institute, 8 settembre 2019)



«... ma questo è avvenuto affinché si adempissero le Scritture dei profeti»

Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei dodici, e insieme a lui una gran folla con spade e bastoni, da parte dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo. Colui che lo tradiva, aveva dato loro un segnale, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; prendetelo». E in quell'istante, avvicinatosi a Gesù, gli disse: «Ti saluto, Rabbì!» e lo baciò. Ma Gesù gli disse: «Amico, che cosa sei venuto a fare?» Allora, avvicinatisi, gli misero le mani addosso e lo presero.
Ed ecco, uno di quelli che erano con lui, stesa la mano, prese la spada, la sfoderò e, colpito il servo del sommo sacerdote, gli recise l'orecchio. Allora Gesù gli disse: «Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada. Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d'angeli? Come dunque si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che così avvenga?»
In quel momento Gesù disse alla folla: «Voi siete usciti con spade e bastoni, come contro un brigante, per prendermi. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare e voi non mi avete preso; ma tutto questo è avvenuto affinché si adempissero le Scritture dei profeti».
Allora tutti i discepoli l'abbandonarono e fuggirono.

Dal Vangelo di Matteo, cap. 26

 


Paura nel sud di Israele, rilevati cinque lanci di razzi da Gaza - Foto

Le Forze di difesa israeliane hanno annunciato venerdì scorso che sono state attivate più sirene antiaeree nella città di Sderot, nel villaggio d'Ibim e nel kibbutz Or HaNer, nel sud d'Israele.

Secondo il servizio, dopo ulteriori indagini, i funzionari hanno rilevato un totale di cinque razzi che sarebbero stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso il territorio israeliano.
   I funzionari non hanno ancora fornito dettagli sull'incidente e pare che esso non abbia provocato feriti o morti; tuttavia, i post sui social media suggeriscono che è scoppiato un incendio a seguito del lancio di un razzo.
   Poco dopo aver riconosciuto che erano stati lanciati cinque missili verso il territorio israeliano, le Forze di difesa d'Israele hanno pubblicato un aggiornamento, rivelando che i funzionari israeliani si sono rivalsi contro lo sciopero prendendo di mira diverse località di Hamas nel nord di Gaza.
Lo spiegamento dei missili arriva poche ore dopo che due adolescenti palestinesi sono stati uccisi venerdì in scontri con soldati israeliani lungo il confine di Gaza.
   Secondo il Times of Israel, gli adolescenti, di 17 e 14 anni, sono morti a causa di colpi mortali al collo e allo stomaco, rispettivamente. Si stima che 66 persone siano rimaste ferite nelle ultime manifestazioni "March of Return". Trentatré partecipanti hanno riportato ferite a seguito di un incendio.
In una dichiarazione , i funzionari delle Forze di difesa israeliane hanno descritto le manifestazioni come "particolarmente violente", rilevando di aver visto un "gran numero di ordigni esplosivi, bombe a mano e bombe incendiarie" lanciate verso il muro di confine e contro i soldati dell'esercito israeliano.
   A seguito della notizia della morte degli adolescenti, Hamas, l'organizzazione militante che governa Gaza, ha pubblicato un comunicato incolpando Israele per la loro morte. L'emittente pubblica Kan ha citato il portavoce di Hamas Hazem Qassem affermando che "Israele subirà le conseguenze di questo crimine".

(Sputnik Italia, 7 settembre 2019)


Quale sarà la politica estera italiana in Medio Oriente e Africa?

Medio Oriente e Africa sono i confini esterni dell'Unione Europea. Tutto quello che succede in quelle aree ha immediate ripercussioni su di noi. Forse al MAE serviva una persona un tantino più esperta e meno ideologizzata del Ministro Di Maio.

di Franco Londei

Quale sarà la politica estera italiana in Medio Oriente e Africa sotto la guida del Ministro Luigi Di Maio? Questa è la domanda che molti addetti ai lavori si pongono dopo la nomina del capo del M5S alla Farnesina.
Personalmente non ho mai nascosto i miei dubbi su questa nomina. Intendiamoci, il problema non è che Di Maio non parli l'inglese. Non è la prima volta che abbiamo Ministri degli Esteri con questo "difetto". Il problema che mi pongo, e credo di non essere l'unico, riguarda la competenza del Ministro Di Maio e le sue capacità nell'affrontare i problemi riguardanti due scenari complessi come lo possono essere quello mediorientale e quello africano.
In Medio Oriente siamo ormai sull'orlo di un conflitto tra Iran e Israele che potrebbe essere devastante per tutta la regione.
Ne parliamo ormai da mesi e l'escalation è sempre più preoccupante, anche in ragione del fatto che Teheran usa diversi gruppi terroristi come proxy per coordinare l'attacco allo Stato Ebraico, proxy che rischiano di trascinare nel conflitto il Libano, la Siria (per altro già devastata da anni di guerra civile) e la Striscia di Gaza.
Quale sarà la linea del Ministro Di Maio verso questa minaccia esistenziale per l'unica democrazia in Medio Oriente? Per di più, proprio di recente, la situazione si è ulteriormente ingarbugliata con l'aperto appoggio francese all'Iran.
I precedenti del M5S non ci lasciano pensare nulla di buono. Fino ad oggi il partito di Beppe Grillo non ha perso occasione per dimostrare la sua ostilità verso Israele e la sua "passione" per regimi totalitari quali quello siriano e quello russo (per non parlare di quello venezuelano).
Spesso abbiamo assistito a dichiarazioni al limite dell'assurdo che persino una 12enne riusciva a smontare.
Ora il M5S ha l'onere di dirigere la politica estera del nostro paese e di certo non sarà più possibile (almeno si spera) trattare l'argomento con quella superficialità con la quale è stata affrontata fino ad oggi.
Cosa farà il Ministro Di Maio? Si allineerà alla Francia appoggiando il regime iraniano e tutti i nemici di Israele, oppure assumerà un posizione più consona all'Italia appoggiando la democrazia israeliana?
Non meno complessa è la situazione in Africa, a partire da quella libica. Già in passato abbiamo avuto occasione di denunciare un certo immobilismo della politica estera italiana in Libia.
Anche in questo caso, come in Medio Oriente, a fare da "agente provocatore" è la Francia del Presidente Macron e non solo in Libia, che già sarebbe grave di suo, ma anche nei Paesi dell'Africa sub-sahariana che orbitano sotto l'influenza di Parigi e da dove partono la maggioranza dei flussi migratori verso l'Europa.
Quei paesi sono molto importanti perché sono il punto di partenza per la pericolosa traversata del Sahara che porta i flussi migratori in Libia. Fermare quei flussi prima che partano non solo evita immani stragi nel deserto di cui non si parla mai, ma significa soprattutto bloccare il problema alla fonte.
Fino ad oggi quasi nessuno ha affrontato questo problema. Ci ha provato, con scarsi risultati, l'ex Ministro degli interni Minniti. Ma senza l'appoggio della Farnesina, soprattutto per un dialogo con la Francia, è una missione quasi impossibile. Riuscirà il Ministro Di Maio a riprendere da dove aveva lasciato Minniti?
Ora, come si può vedere i problemi che si trova ad affrontare il Ministro degli Esteri italiano non sono affatto "problemucci" e vanno bel oltre il non conoscere l'inglese.
Medio Oriente e Africa sono i confini esterni dell'Unione Europea, quello che succede in quelle aree ha immediate ripercussioni su di noi e per troppo tempo ce ne siamo dimenticati.
Pur riconoscendo che al MAE (Ministero degli Affari Esteri) vi sono moltissime persone competenti che possono sopperire alla "poca esperienza" del Ministro Di Maio, i problemi che andrebbero affrontati sono così complessi che in quel ruolo specifico ci sarebbe voluto un fuoriclasse e non una persona senza nessuna esperienza e spesso con ideologie assai bizzarre.
Lungi da me mettere il carro davanti ai buoi, magari il Ministro Di Maio si rivelerà una sorpresa per tutti quelli che come me sono scettici. Ma il momento storico che stiamo vivendo, le crisi in Medio Oriente e in Africa, forse meritavano un Ministro degli Esteri appena appena un po' più competente.

(Rights Reporters, 7 settembre 2019)


"I precedenti del M5S non ci lasciano pensare nulla di buono. Fino ad oggi il partito di Beppe Grillo non ha perso occasione per dimostrare la sua ostilità verso Israele", dice l'autore. Ma questo, per il più autorevole mentore del nuovo governo, colui che ha ordinato alle sue schiere di mobilitarsi in suo favore, non è un fatto negativo. Niente affatto. Tutt’altro. Molti non hanno capito che l’ex comico non si accontenta del piccolo e inconcludente cabotaggio democratico, lui vuole cogliere lo straordinario momento storico che si è presentato per “riprogettare il mondo”. E che c’entra Israele in tutto questo? Nessuno si attardi con questo ricorrente e fastidioso problema. Il popolo ascolti e mediti. Beppe Grillo in “Sono esausto”. M.C.
"Io mi rivolgo al PD. Alla base, ai ragazzi del PD..."



Essere buoni israeliani

di Cosimo Nicolm Coen

 
Bezalel Smotrich, tra i leader dell'ultradestra israeliana, intervistato dal sito ynet
Quali sono i rapporti tra analisi filosofica e condizione di vita reale (individuale e collettiva)? In una delle interviste video realizzate, in vista delle elezioni di settembre in Israele, dalla redazione del canale ynet, la giornalista Alexandra Lukashd e l'esponente della destra sionista-religiosa Betzalel Smotrich (Unione Nazionale-Tkuma) si sono trovati a confrontarsi sul concetto di Stato ebraico. Discussione, come noto, ricorrente e rinnovatasi in Israele (e in diaspora), a partire dalla legge dello stato-nazione voluta dal governo Netanyahu e promulgata poco più di un anno fa.
   A partire da uno scambio di opinioni sulle politiche di Tsahal (l'esercito israeliano) nei confronti di persone trasgender, nonché più in generale sulla comunità LGBT, Smotrich ha retoricamente chiesto a Lukashd come si possa parlare di Stato ebraico se non a partire e in riferimento a "valori ebraici". Il passaggio è forse obbligato. Come definire una realtà istituzionale e sociale come "ebraica", se non prima definendo ciò che si intende con l'aggettivo 'ebraico'? La discussione politica, vincolata al contingente, si trova così d'un tratto a fare i conti con alcuni dei nodi che hanno variamente attraversato il pensiero ebraico nonché, in senso ancora più ampio, le analisi di coloro che, nella storia della filosofia, si sono confrontati con l'esistenza concreta e l'eredità teorica di Israel.
   Dunque, tornando ai nostri due protagonisti, cosa intendere con ebraismo? "kabalat aher", l'accoglimento (e sottointeso, rispetto) del prossimo, suggerisce la giornalista Lukashd. Mentre per Smotrich la risposta sarà piuttosto la Tradizione, a partire dalla struttura familiare. Implicita a queste risposte sembrerebbe esservi la distinzione tra due note tesi, così toccando uno dei nodi cui si faceva riferimento. La riconduzione dell'ebraismo a principi etico-universali rinvenibile all'interno dell'esperienza e dei testi della Tradizione come al di fuori di questa, da una parte. L'individuazione dell'essenza dell'ebraismo nel nucleo normativo e nel presupposto della rivelazione come sua legittimazione, dall'altra. La prima tesi pare più agevolmente evocabile da chi viene da ambiente laico, o assimilato - nell'accezione israeliana del termine. La seconda da chi si sia formato a più stretto contatto con la Tradizione, a prescindere dalle sue varie declinazioni. Tuttavia questa distinzione lascia il tempo che trova. Vi può essere infatti chi, proprio provenendo dall'ambito della Tradizione, percepisca il senso ultimo delle prescrizioni nel divieto di ledere l'altro, nell'invito a essere, del proprio - anche se eventualmente poco amato - fratello, "guardiano". Viceversa vi può essere chi, in pieno ambito laico e assimilato, proprio perché abituato a leggere in senso storicista la Tradizione, colga quest'ultima, nel suo elemento normativo, come distinta dall'esperienza etica o da un determinato fondamento morale.
   Quale che sia il nostro avviso in proposito rileva che, a partire da un dibattito televisivo e da una scadenza elettorale, spettatore e potenziale elettore abbiano l'occasione per porsi qualche domanda sulla propria condizione materiale (per i più casi di nascita) ebraica - sul senso di quel dover essere (variamente rinvenibile, in senso normativo o più latamente etico-morale, nella Tradizione) che anima l'essere ebrei. Sembrerebbe così che per essere 'buoni' israeliani - ossia in grado di votare con cognizione di causa, quale che sia la nostra posizione di merito - sia auspicabile passare per una lettura di Leibowitz e Hennann Cohen - posto che il primo, argomentando a favore della tesi della distinzione tra ebraismo e morale individuava nel secondo uno dei massimi, ancorché non certo l'unico, esponente della tesi opposta.
   Su un altro livello si nota come il riferimento all'ebraismo possa essere matrice di pensieri e linee di condotta, sul piano politico, distanti. Del resto che il patrimonio di una tradizione religiosa possa essere matrice di prospettive differenti, finanche antitetiche, non è cosa inedita (nel panorama italiano, a maggioranza cattolica, assistiamo a qualcosa di analogo quando i valori del cristianesimo vengono richiamati ora dall'uno ora dall'altro schieramento - in particolare in tema di migranti). È dunque possibile, forse auspicabile, individuare argomenti per distinguere morale, etica e religione. Proprio la distinzione dei termini permette, d'altronde, l'analisi e l'interrogativo circa i loro rapporti. Tanto che si ponga l'accento sulle distinzioni, quanto che si cerchi il filo conduttore, la filosofia è, in questo caso, momento speculativo a partire dal quale comprendere il reale. Ed è la realtà stessa, magari a partire da un dibattito televisivo, a far emergere l'urgenza di riflessioni di tal genere. L'urgenza, nella fretta della prassi politica e, più strutturalmente, di quella quotidiana, di porsi un passo indietro, a guardarsi. Sapendo che per farlo bisogna - come si suole dire - perdere tempo. Ossia, prendere tempo.

(Pagine Ebraiche, settembre 2019)


Gioventù, amore e Israele

È il 1968, l'anno della rivolta dei figli contro i padri. Qui invece l'emigrazione comporta che i figli si prendano cura dei genitori. Wlodek Goldkorn racconta la Gerusalemme della sua formazione e riflette sulla passione per la poesia, i romanzi e la lingua ebraica.

di Helena Janeczek

Sbarcata da poco a Tel Aviv, una mattina la famiglia Goldkorn trova un camioncino pronto a condurla a Gerusalemme. Padre e figlio si sistemano nel retro, uno in faccia all'altro, in mezzo le quattro valigie con i pochi averi che hanno potuto infilarci a Varsavia. Il ragazzo guarda fuori, gli «occhi pieni della curiosità di imparare a memoria, fare mio, il nuovo paesaggio della patria». Il padre lo osserva con tenerezza e l'orgoglio improvviso di accorgersi «quanto fossi ormai maturo e forte». Questa è la sensazione che Wlodek Goldkorn ricorda nel suo ultimo libro, L 'asino del Messia: la felicità, il sorriso che unisce padre e figlio.
   «Guarda come tutto qui è bello!» dice il figlio, riferendosi alle colline brulle «di un rosso intenso mai visto prima».
   Due volte il padre chiede se gli piaccia davvero il nuovo paesaggio dove mancano i boschi, il verde. Poi concede che è bellissimo e loro quattro saranno felici. «Avvertii un'incrinatura nella sua voce. Capii che il mio compito era consolarlo. Avevo sedici anni».
   Corre il 1968, l'anno della rivolta dei figli contro i padri. Qui invece l'emigrazione comporta che i figli si prendano cura dei genitori. Ma quell'atteggiamento è più reciproco di quanto il sedicenne percepisca. Nell'insicurezza paterna traspare la preoccupazione di non deludere «la mia forza e la mia fiducia nell'avvenire». Il padre vuole proteggere il figlio e il suo amore per la nuova patria.
   Giunta a Gerusalemme, la famiglia riceve il benvenuto da un vicino che è nientedimeno che Zygmunt Bauman. È stato professore della sorella di Goldkorn e, soprattutto, il sommo capro espiatorio della campagna antisemita orchestrata dal regime polacco.
   Il figlio «maturo e forte» potrebbe sentirsi in scacco tra quei padri - veri o nobili - cacciati dalla «patria socialista» e la nuova agognata patria. Invece l'amore per Israele incontra presto la lingua e la letteratura ebraica che lo seduce con voce femminile. Le voci delle poetesse israeliane ma anche delle grandi interpreti della musica araba, gli trasmettono un'irruenza sensuale capace di integrarsi con l'amore per lo yiddish, «la lingua assassinata» che il padre cerca di tenere viva. Quel nuovo amore celebra il desiderio, ma il canto lo svincola dal bisogno di possedere un corpo o una terra. Il ragazzo, partito con l'entusiasmo del neofita sionista, impara a amare Israele con le modalità di un ebreo della diaspora.
   Da questo paradosso discende che, altrettanto paradossalmente, il giovane neo-israeliano comincia a vivere la sua integrazione sotto il segno della rivolta. Diventato adolescente nel paese dell'est più aperto agli influssi occidentali, patisce la cappa autoritaria e conformista della società israeliana compattata dalla Guerra dei sei giorni. Dunque capelli lunghi, spinelli, amore libero, iniziazione dei coetanei "sabra" alle feste notturne dove i polacchi ballano al suono dei Rolling Stones sui tetti mediorientali. Qualcuno degli amici, incapace di adattarsi, scivola dall'hashish alle droghe pesanti. Non Asher o Vladimir, come ora si chiama, che si è legato ai gruppi impegnati a combattere i soprusi contro i palestinesi. È giovane, non ha bisogno di sentirsi rassicurato dagli «album del trionfo sui tavolini da caffè» presenti nelle case dei sopravvissuti, gente aggrappata alle vecchie abitudini per cui «la Shoah era la misura del mondo». Così approda al Matzpen guidato dal carismatico Haim Haneghi, dove si racconta il lato d'ombra, il tragico prezzo del trionfo. E subito si trova accusato di intelligenza con il nemico, bollato come traditore.
   Negli andirivieni memoriali in cui il libro sapientemente si dipana, questa apparirà un'esperienza chiave che Goldkorn relaziona al compito di custodire la «memoria degli sconfitti»: di tutti gli sconfitti della Storia. Ora azzarda addirittura identificarsi con l'imperatore Tito, il distruttore del Tempio, riproponendosi come traditore in una dimensione che abbraccia i duemila anni della grande diaspora. Qui entra il gioco «l'asino del Messia», l'animale umile e riottoso che, secondo la tradizione ebraica, porterà il Messia a Gerusalemme. «Penso sia stato Tito l'asino del Messia, perché distruggendo il Tempio, dimora di Dio, ha sgomberato lo spazio, tutto lo spazio dell'immaginazione dall'inutile e pesante materialità del potere per dare spazio alla Parola».
   La Parola, ossia la lingua ebraica, la poesia, i romanzi (fondamentale la lettura di Michael mio di Amos Oz) sono i luoghi dove a cinquant'anni e migliaia di chilometri di distanza l'amore per Israele resta salvo. Ma la parola è anche capace di rinnovare l'incanto originario delle colline rosse lungo la strada per Gerusalemme, a raccontare una storia vissuta con tutti i sensi e ormai iscritta nella memoria del corpo.
   Alla fine del viaggio il narratore si trova nel Negev, presso la tomba di David Ben Gurion, il padre di una patria con cui non si identifica più da molto tempo. «Volto la schiena alla tomba, respiro l'aria del deserto. Sono a casa». Una storia d'amore che non finisce quando è terminata.

(la Repubblica, 7 settembre 2019)


Tito invade Gerusalemme: era il 7 settembre del 70 d.C.

di Silvia Sini

 
Rilievo dell'arco di Tito a Roma
Una delle date storiche più incisive della nostra storia fu il 70 d.C., data del famoso assedio di Gerusalemme ad opera di Tito: era precisamente il 7 settembre del 70 d.C. quando l'invasione giunse finalmente al termine.
   L'esercito romano era guidato da Tito che al tempo non era ancora imperatore, lo sarebbe diventato alcuni anni dopo e per brevissimo tempo: dal 79 fino all'81.
   Fu uno degli assedi più faticosi che i romani dovettero affrontare: l'esercito era numeroso ed imponente, la mancanza di acqua e viveri fu un problema che non si poteva sottovalutare ma che, alla fine, i romani rigirarono a loro vantaggio.
   Ai tempi l'imperatore era il grande Vespasiano; egli inviò niente di meno che il suo rampollo Tito in modo che mettesse finalmente fine alla guerra in Giudea. Il viaggio fu arduo: Tito risalì il Nilo, marciò fino a Eracleopoli, camminò, raggiunse Ostracine, Rinocorura, Gaza.
   I Giudei erano guidati da Simone bar Giora, comandante dei Sicarii, alleati degli Idumei ai quali si unirono gli Zeloti. Tra gli altri comandanti ricordiamo Giovanni di Giscala, Eleazar e Simone figlio di Arino.
   I Giudei, inizialmente, riuscirono a sopraffare i romani grazie a degli attacchi a sorpresa: per loro fu facile organizzare l'incursione nel momento in cui l'esercito avversario era occupato a fortificare gli accampamenti.
   L'assedio fu lungo e stremante, tanto che Tito, dopo diversi attacchi alle mura, decise anche di concedere una tregua, vista l'imminente minaccia della fame. Poco dopo il futuro imperatore ordinò la costruzione di una circonvallazione attorno alla città in modo da impedire il rifornimento di viveri ai nemici.
   Tito si era reso oramai conto che era impossibile trattare con i ribelli: l'assedio lasciò il posto all'attacco e alla successiva guerra diretta. I Romani riuscirono a penetrare in città, arrivati in prossimità del Tempio, i Giudei, in un gesto disperato, decisero di dare fuoco al portico del Tempio stesso. I Romani ne incendiarono l'altro lato. Le vittime che non aveva divorato la fame o la battaglia furono divorate dal fuoco.
   
Giunti a quel tragico epilogo, Tito ordinò al suo esercito di spegnere le fiamme in modo da consentire alle legioni romane un più facile accesso in città.
   I romani avevano ricevuto il preciso ordine di non creare ulteriori danni al Tempio ma, colti ancora una volta dai ribelli, gli scontri si rianimarono fino all'ulteriore divampare delle fiamme. Il risultato fu una carneficina e il saccheggio della città.
   Gli ebrei erano convinti che la distruzione fosse dovuta ad una punizione divina, i cristiani ad una profezia presente in Daniele, ribadita anche da Gesù nei sinottici.
   La distruzione del Tempio di Gerusalemme è ancora oggi commemorata dalla festa ebraica della Tisha Beav, il trionfo di Tito è invece simboleggiato dall'arco di Tito eretto a Roma.

(Periodico Daily, 7 settembre 2019)


Calcio giovanile - Under 17, Italia-Israele 2-3

E' arrivata una sconfitta per la formazione Under 17 allenata dal commissario tecnico Zoratto all'esordio dell' U17 KOMM MIT 4-Nationenturnier contro l'Israele. Al Leichtathletikstadion BZA Wedau di Duisbugi (Germania), gli azzurrini hanno chiuso davanti la prima frazione di gara, grazie alla rete su calcio di rigore trasformato da Zuccon e, in avvio di ripresa, è arrivato addirittura il raddoppio ad opera del centrocampista Casadei. Ma nell'ultima mezz'ora, i ragazzi di Zoratto hanno spento praticamente il motore e sono stati surclassati dall'Israele che hanno realizzato due reti, intorno al quarto d'ora della ripresa, ad opera di Arie e Uhsmandi. In pieno recupero è arrivato il colpo definitivo, realizzato da Nuhi.

(Mondoprimavera, 6 settembre 2019)


Padova - 18o Raduno Nazionale di EDIPI - 29 settembre 2019

Con il Capodanno ebraico iniziano le Feste di Israele

Le feste ebraiche con il gruppo artistico "Terra di danza"
  • 15:30 Ivan Basana, presidente EDIPI, presentazione del programma e saluti delle autorità.
  • 16:00 Rav. Adolfo Locci, rabbino capo della sinagoga di Padova.
  • 16:30 dott.ssa Rossella Genovese presenta il suo libro "L'Ombra dei futuri beni". Un approccio antropologico alle feste ebraiche ieri e oggi.
  • 16:40 Dr. Mark Surey, ebreo messianico, teologo di Oxford:
    "Le feste ebraiche stimolo di unità e aggregazione del popolo di Israele"
  • 17:20 Pausa e saluto di Rav Locci con consegna del libro autografato dall'autrice
  • 17:40 Spettacolo del folklore ebraico con il gruppo Terra di Danza: "ECHAD: ricordare per esser liberi".
  • 18:30 Coinvolgimento del pubblico.
  • 18:50 Conclusione e saluti
Locandina

(EDIPI, settembre 2019)



New York - La metà dei crimini d'odio è di natura antisemita

Oltre la metà dei crimini d'odio segnalati a New York nel 2019 sono stati commessi contro gli ebrei. I dati sono stati forniti da funzionari della polizia della Grande Mela. Dei 290 crimini d'odio segnalati nel 2019, infatti, 152 sono di natura antisemita. Gli incidenti sono per lo più atti di vandalismo, con svastiche o altre scritte realizzate in diversi luoghi tra cui le sinagoghe. Nel complesso, i crimini di odio antisemita nella metropoli (i dati fanno riferimento all'anno in corso sino al primo settembre) sono aumentati del 63% rispetto al 2018.

(Avvenire, 6 settembre 2019)


Complottisti contro Israele. E' l'esecutivo più antisemita

Fioramonti non può non imbarazzare i democratici

di Fiamma Nirenstein

 
Manlio Di Stefano
Ora, la mia domanda è molto semplice: potrà il Partito democratico evitare di essere parte di un governo antisemita e anche promotore dell' appeasement con l'Iran, l'unico Paese del mondo che ripete senza tregua che il suo scopo è distruggere un altro Stato membro dell'Onu, appunto Israele? I leader democratici da Renzi in poi non hanno questo vizio, anzi, hanno dimostrato simpatia per Israele, che difende la democrazia nonostante sia martoriato dal terrorismo palestinese e minacciato di morte. Non così però per il suo partner, il M5s, che pratica la forma più corrente di antisemitismo: l'odio contro Israele, secondo la definizione internazionale (Ihra, Working Definition of Antisemitism) ormai adottata da 31 Stati.
   L'antisemitismo è un buon concime populista. I gilet gialli in Francia ne hanno fatto una bandiera e hanno assalito fisicamente il filosofo ebreo Alain Finkelkraut. L'odio antiebraico è una loro bandiera. Ma il 5 febbraio scorso, il neoministro degli Esteri Di Maio li ha incontrati. Perché il populismo confonde, secondo la migliore tradizione fascista e comunista, l'odio per gli ebrei con quello per i padroni, gli sfruttatori, la burocrazia, l'élite ladra ... In Inghilterra Corbyn, altro esempio di antisemitismo populista, si è dichiarato caro amico del movimento terrorista Hamas. Corbyn è un antisemita attivo, nega la Shoah, finanzia il negazionismo; e l'incitamento antisraeliano è moneta corrente nel suo onorevole partito.
   Il M5s è impregnato di ignoranza e luoghi comuni sul Medio Oriente: durante la sua visita in Israele nel 2016 con Manlio Di Stefano e Ornella Bertorotta, Di Maio mise in scena un'accanita insistenza per visitare Gaza, come ignorando che da là provengono missili e attacchi terroristi. Parve davvero che Hamas e gli jihadisti fossero l'unico vero oggetto amichevole della sua visita. E concluse dicendo che lui avrebbe certamente riconosciuto lo Stato di Palestina. Forse il M5s non ha spinto per farlo perché Matteo Salvini ha fatto barriera. Vedremo i dem.
   Oggi va ricordato che il neoministro dell'Istruzione Lorenzo Fioramonti, professore di Economia politica all'Università di Pretoria, che secondo Stefano Piazza di Informazione corretta è «uno dei tanti teorici che alimentano i siti web complottisti dove si sono formati anche l'ex sottosegretario Manlio Di Stefano e il senatore Elio Lannutti» abbandonò un convegno in Sud Africa perché era presente l'ambasciatore d'Israele. Poi cercò di rimangiarsi il gesto, ma scrisse anche che «il boicottaggio a Israele è la chiave per aiutare la causa di una pace equa e sostenibile in Medio Oriente». Come può il Pd sopportare che quest'individuo stia all'Istruzione?
   Il M5s sciorina di continuo la sua ignorante e razzista visione di Israele: capitalista, imperialista, oppressore ... Le parole dei leader e dei militanti grillini sono tutte simili: criminalizzazione di Israele, simpatia per i Palestinesi, per i terroristi, per il boicottaggio. Si chiama antisemitismo.
   Ora, Zingaretti come pensa di affrontare questo problema?

(il Giornale, 6 settembre 2019)


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Troppo favorevole a Israele

Esattamente un anno fa l'ex viceprimoministro Matteo Salvini fece una visita in Israele che provocò una certa discussione. Riportiamo alcuni estratti di articoli della stampa nazionale del 12 settembre 2018 che si possono ritrovare sul nostro sito in questa data.
    Il vicepremier leghista ha poi detto, vestendo i panni di ministro degli Esteri e premier: «Chi vuole la pace, sostiene il diritto all'esistenza ed alla sicurezza di Israele. Sono appena stato ai confini nord col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione». E ha aggiunto: «Il nascente antisemitismo fa rima con estremismo islamico».
    (il Giornale, 12 settembre 2018)

    ... il capo del Carroccio ha anche stigmatizzato il comportamento di Ue e Onu colpevoli di «sanzionare Israele ogni quarto d'ora». Ma nel M5s ci sono molti esponenti con posizioni storicamente controverse sulla crisi israelo-palestinese. Soprattutto Alessandro Di Battista e il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, protagonista di un battibecco con Salvini a maggio scorso sul trasferimento dell'ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme.
    (il Giornale, 12 settembre 2018)

    «A casa mia i terroristi si chiamano terroristi. Se scavano decine di tunnel che sconfinano nel territorio israeliano, non credo che lo facciano per andare a fare la spesa», ironizza il leader del Carroccio. «Chi vuole la pace - afferma Salvini - deve sostenere il diritto all'esistenza ed alla sicurezza di Israele, baluardo della democrazia in questa regione». Poi manda un messaggio che ne nasconde un altro: va bene l'idea dei due Stati, ma l'Ue secondo il leghista è sempre poco equilibrata nei confronti di Israele, sanzionandolo «ogni quarto d'ora». Per combattere il terrorismo islamico e riportare la pace, per rinsaldare la collaborazione e amicizia fra popolo italiano e popolo israeliano, Salvini dice di essere in prima fila. «Aspettiamo che anche Onu ed Unione Europea facciano la loro parte».
    (La Stampa, 12 settembre 2018)

    Con un fuori programma, taciuto per motivi di sicurezza alla vigilia della visita in Israele, Matteo Salvini schiera senza esitazioni l'Italia contro l'antisemitismo e contro i terroristi islamici. La prima delle due giornate si apre con un'incursione del vicepremier italiano al confine con il Libano, «dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione».
    (Libero, 12 settembre 2018)

    Finora, spiega in conferenza stampa, «l'Unione Europea è stata sbilanciata e poco equilibrata, condannando Israele ogni quarto d'ora». Tanto da indurlo perfino a dubitare «che gli aiuti diretti alla popolazione palestinese siano effettivamente arrivati a destinazione». Cioè che in realtà siano finiti nelle tasche dei dirigenti dell' Anp o di Hamas e forse anche ai jihadisti antiisraeliani.
    (Libero, 12 settembre 2018)

    "Non è che ogni volta che vado in Israele devo dire che gli antisemiti sono dei delinquenti... Vado in Israele, perché credo che sia una delle nazioni più grandi ed evolute democrazie del pianeta", ha detto infatti Salvini, ospite della stampa estera, alla vigilia della sua visita in Israele.
    (Il Secolo d'Italia, 12 settembre 2018)
A quest'ultimo articolo avevamo aggiunto soltanto un breve commento:
"Salvini dice cose troppo favorevoli a Israele, troppo vere e quindi troppo pericolose, perché da una posizione troppo debole. Chissà fino a quando lo lasceranno parlare. M.C."
Il motivo per cui è caduto il governo precedente non è formalmente legato a Israele, ma resta il fatto che il manifestare simpatie troppo nette per lo Stato ebraico, soprattutto se motivate da fatti veri, è molto pericoloso per chiunque si trovi in posizione di autorità. L'opposizione nasce dal fondo, da un fondo oscuro che spesso la rende inconsapevole a chi la fa e a chi la subisce e tende ad emergere chiaramente il più tardi possibile. La realtà dei fatti obbligherà molto probabilmente a riprendere considerazioni di questo tipo, ma fin d'ora si può prendere nota del successivo articolo di La Repubblica, quotidiano in cui si inneggia al nuovo governo globalista e contemporaneamente si dà voce al segretario dell’OLP che invita l’Europa ad appoggiare la “Palestina” e a boicottare Israele. I collegamenti non si vedono a prima vista perché non sono puramente politici, ma ci sono. M.C.

(Notizie su Israele, 6 settembre 2019)



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Palestina chiama Europa

di Saeb Erekat

Alla fine del mese l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ricomincerà i suoi lavori: considerando che la pace e la sicurezza del mondo sono il principale scopo di questa organizzazione, non potrà essere una seduta come le altre, di fronte a quello che sta succedendo in Palestina. Le politiche di annessione di Israele, incoraggiate e coordinate dagli sforzi dell'amministrazione Trump per normalizzare i crimini e le violazioni dello Stato ebraico, minacciano di stabilire nuovi precedenti che dissolveranno interamente il concetto di costruzione della pace. Ma il mondo ha ancora tempo per prendere iniziative decise per salvare le prospettive di una pace giusta e duratura.
   Se avete dubbi su quello che dico, guardate il discorso di Jason Greenblatt, inviato di Trump e nuovo volto della diplomazia statunitense, al Consiglio di sicurezza dell'Onu lo scorso luglio. Le sue parole erano chiare: il diritto internazionale è irrilevante, la legittimazione internazionale inutile e le risoluzioni dell'Onu obsolete. Le sue parole hanno innescato una reazione forte da parte dei rappresentanti europei nel Consiglio, che hanno evidenziato la gravità di questa affermazione. Non è soltanto un esercizio retorico: l'amministrazione Trump ha tradotto il suo profondo disprezzo per il sistema internazionale in azioni concrete.
   Il riconoscimento della sovranità israeliana su Gerusalemme e le alture del Golan ha stabilito un precedente molto pericoloso di acquisizione di territori attraverso l'uso della forza. Perfino questo pilastro elementare del diritto umanitario internazionale, una lezione appresa dopo guerre combattute proprio per la conquista di territori e sfociate in milioni di morti, poteva essere manipolato ulteriormente.
   La domanda è: che cosa si sta facendo per affrontare questa situazione? L'Unione Europea e i suoi Stati membri hanno riaffermato i principi di riferimento per il buon esito di un processo di pace, e questi principi includono le risoluzioni dell'Onu relative al conflitto israelo-palestinese e la soluzione di due Stati nei confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale della Palestina, e anche una soluzione definitiva, basata sul diritto internazionale, a tutte le questioni sul tappeto. Questa è anche la posizione ufficiale della Palestina, che rappresenta un'adesione da parte palestinese ai principi internazionali. Ma l'intransigenza israeliana, fondata su una cultura dell'impunità, consente a chi sostiene un regime di apartheid in Palestina di prevalere. Siamo a conoscenza delle comunicazioni pubbliche e private inviate all'amministrazione Trump da varie parti interessate sull'importanza dei principi internazionalmente riconosciuti. Ma non è stato sufficiente a fermare la follia che sta avvenendo sul terreno, con prospettive di una nuova esplosione di violenza. Bisogna prevenire questo scenario. Voglio essere chiaro: fintanto che l'Europa, il maggiore partner commerciale di Israele, continuerà a consentire gli scambi commerciali con gli insediamenti israeliani e la cooperazione fra aziende europee e aziende che hanno sede nelle colonie, Israele non sarà incentivata a fermarsi.
   I Paesi europei non hanno più scuse per compiere questo passo e assumersi, in parte, le loro responsabilità. E non ci sono più scuse neanche per non mettere al bando i prodotti degli insediamenti e non adottare misure legali e amministrative per impedire il finanziamento delle attività imprenditoriali delle colonie israeliane illegali da parte di aziende che versano soldi a presunte «associazioni di beneficenza». Le aziende europee che lavorano con le aziende degli insediamenti coloniali israeliani non devono essere protette, ma esortate a smettere di essere complici di crimini di guerra.
   Negli ultimi tre anni stiamo portando avanti una battaglia diplomatica senza precedenti, ma qui non si parla solo di Palestina. Il presidente Abbas ha presentato la nostra visione della pace al Consiglio di sicurezza, dove abbiamo chiesto un impegno multilaterale. Se falliremo, i principi fondamentali del sistema internazionale falliranno con noi. Ma fallire non è un'opzione. Alcuni si chiedono ancora quando si decideranno ad agire. La nostra speranza è che non sia troppo tardi.

(la Repubblica, 6 settembre 2019)


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Saranno tre anni bellissimi

Lettera al direttore del Foglio

E' vero: noi "votosubitisti" (copyright Giuliano Ferrara) rischiamo di diventare la parodia dell'ultimo dei giapponesi. Non abbiamo capito che la guerra è finita, e che questa volta le truppe romane di Giuseppe Conte hanno dato una sonora lezione alle tribù germaniche guidate da Matteo Salvini (la sconfitta inflitta a Publio Quintilio Varo da Arminio nella foresta di Teutoburgo è così vendicata). E' vero: noi votosubitisti siamo anime belle, non abbiamo capito che la realpolitik è arte del compromesso che si può scomporre nella volubilità e nella furberia, e perfino corrompere nell'assenza di princìpi, nella slealtà verso la parola data, nel voltar gabbana, nel tradimento. Costi che si possono pagare pur di salvare l'Italia dall'aumento dell'Iva (qui viene da ridere) e, in primis, dalle grinfie rapaci di una Lega truce e parafascista. Per evitare la catastrofe della democrazia parlamentare, il Pd si è allora alleato con un non partito a base proprietaria e quindi geneticamente estraneo a ogni logica costituzionale. Ecco perché un votosubitista come chi scrive ha la sgradevole impressione che il "caminetto" di Largo del Nazareno, che ruota da un segretario all'altro sempre attorno alle stesse personalità, in realtà ambisca solo al presidio della postazione di governo, poco importa se conquistata con un forte consenso elettorale o dopo una disfatta alle urne. In ogni caso, primum vivere, deinde philosophari. Oggi un nuovo governo c'è, e siamo tutti felici. A Roma sono già scomparse le buche. Il tasso di trasformismo è aumentato, ma il tasso di odio diminuirà. L'Europa adesso ci vuole bene, e forse chiuderà un occhio di fronte ai programmi di spesa faraonici annunciati. Il paese sarà più verde e la sua economia più "circolare". Ci saranno meno tasse per i lavoratori dipendenti e più lavoro per i giovani. Il ministro degli Esteri imparerà l'inglese e la geografia e il senatore Elio Lannutti apprenderà che "I Protocolli di Sion" sono un falso storico. Nel frattempo, nella coalizione arancione (mescolati, il giallo e il rosso danno questo colore) fioccano le idee geniali: il ministro dell'Istruzione, Lorenzo Fioramonti, suggerisce di tassare le merendine per rimpinguare lo stipendio degli insegnanti, mentre Loredana De Petris (Leu) propone corsi di educazione alla non violenza per i poliziotti. Sia chiaro, non sono ingenuo fino al punto di ignorare che politica e menzogna si piacciono. Ci si può però chiedere, e io mi chiedo, se nel tempo presente la dimensione della solitudine non sia l'unica risposta possibile a chi biasimi l'iniquità della menzogna. Per questo ho deciso di iscrivermi alla Congregazione degli Apòti, di coloro che la bevono, di prezzoliniana memoria. E mi lasci dire, come diceva l'illuminista tedesco Christian Woolf: "Sia lodato il cielo per la solitudine. Lasciatemi solo. Sia lodato il cielo per la solitudine che ha rimosso la pressione dell'occhio, la sollecitazione del corpo, e ogni bisogno di menzogne e di frasi".
Michele Magno
Michele Magno è nato nel 1944 in terra di Puglia (si dice così). Comunista pentito, ma non troppo. Sindacalista pentito, ma non troppo. È ancora di sinistra, ma non troppo. Lazialissimo. Non è mai stato togliattiano né berlingueriano. Ha avuto maestri diversi, ma tutti buoni (Lucio Colletti, Luciano Lama, Bruno Trentin). Ha scritto libri noiosissimi sulle trasformazioni sociali e del lavoro, sconosciuti ai più. In compenso, ha letto Marx ed è amico di Duccio Trombadori, che lo presentò a Giuliano Ferrara dieci anni fa.


(Il Foglio, 6 settembre 2019)


Elezioni politiche. Netanyahu a Hebron in caccia di voti

Ripetiamo la presentazione di questo articolo di Giordano Stabile pubblicato ieri su La Stampa aggiungendovi un commento inviatoci gentilmente da Emanuel Segre Amar, che calorosamente ringraziamo per la sua attenzione e collaborazione. NsI

di Giordano Stabile

 
Miri Regev e Yuli Edelstein
Benjamin Netanyahu entra nella storia anche come primo ministro israeliano a tenere un discorso nella città di Hebron. È uno dei fronti più caldi con i palestinesi, una città di 170 mila abitanti, dove nel centro storico vivono alcune centinaia di ebrei protetti da un imponente dispositivo di sicurezza e decine di check-point. Nessun premier aveva mai parlato qui in veste ufficiale, tanto meno in campagna elettorale. Ma per «Bibi» anche questo tabù andava infranto. La sua è una battaglia in salita, con i sondaggi che lo danno privo di una maggioranza di centrodestra dopo il voto del 17 settembre: anche un paio di seggi in più potrebbero essere decisivi.
  Ha promesso tre giorni fa che farà approvare una legge per annettere tutti quelli in Cisgiordania. Gli abitanti di Hebron si aspettavano ieri una dichiarazione altrettanto storica, e che cioè anche il centro di Hebron sarebbe stato incluso. Il leader del Likud non è arrivato a tanto, anche se si è fatto accompagnare da due ministri che hanno chiesto apertamente questo passo, Yuli Edelstein e Miri Regev. Ha però promesso che Israele «non lascerà mai Hebron: non siamo venuti a sloggiare nessuno, ma non ci faremo neppure sloggiare».

 La tomba dei patriarchi
  La comunità ebraica di Hebron è una delle più antiche ma è stata quasi spazzata via dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948. Dopo la guerra dei Sei giorni, e la conquista di tutta la Cisgiordania, si è ritrovata al centro del conflitto israelo-palestinese. Gli insediamenti nel centro storico si trovano vicino alla Tomba dei Patriarchi, uno dei luoghi sacri dell'ebraismo, sormontata da una moschea. Nel 1994 un estremista, Baruch Goldstein ha ucciso 29 musulmani in preghiera durante il Ramadan.
  Il massacro, e gli accordi di Oslo del 1993, hanno spinto Israele a trovare una soluzione più stabile. Ed è stato lo stesso Netanyahu, durante il suo primo mandato nel 1997, a concludere l'accordo che ha portato alla divisione della città, per l'80 per cento sotto controllo palestinese e per il restante sotto quello israeliano. Con l'accordo veniva anche istituita una missione internazionale. Ancora Netanyahu si è rifiutato di rinnovarla lo scorso 29 gennaio e da allora non ci sono più osservatori. Ora ha promesso di «migliorare l'accesso» alla Tomba dei Patriarchi, con lavori che rischiano di suscitare l'ira palestinese. Ma a Hebron ha ritrovato un po' del suo spirito e forse anche la speranza di ribaltare il risultato elettorale.

(La Stampa, 5 settembre 2019)


"La comunità ebraica di Hebron è una delle più antiche ma è stata quasi spazzata via dopo la nascita dello Stato di Israele nel 1948". Stupisce che Stabile abbia scritto queste parole. La Comunità ebraica di Hebron, dopo aver abitato questa città senza soluzione di continuità per oltre 3000 anni, è stata decimata da alcuni pogrom, l'ultimo nel 1929 a seguito del quale gli inglesi decisero di allontanare tutti gli ebrei da Hebron. Solo dopo la vittoria nella guerra del 1967 gli ebrei poterono rientrare in questa antica città, anche se costretti dall'odio palestinese a vivere protetti dai militari in una piccola porzione della stessa.
Per quanto riguarda la menzionata vicenda Goldstein, sarebbe necessario da parte di Stabile un approfondimento completo della vicenda, rimasta nel non detto per evitare ulteriori lacerazioni politiche che oggi portano gli amici di Goldstein a considerarlo un eroe che si è sacrificato per salvare tante vite umane, e non certo un terrorista come i tanti che insanguinano il M.O. E.S.A.


Pieni poteri a Netanyahu: governa quasi da solo

Il premier israeliano non trova alleati. Allora si arrangia. Oltre che capo dell'esecutivo fa il ministro di Difesa, Salute, Diaspora (gli "ebrei all'estero") e da ieri pure del Welfare.

di Carlo Nicolato

Dicono che le elezioni che si terranno tra meno di due settimane in Israele potrebbero essere il capolinea per Netanyahu, la fine di un'era che dura ormai da 13 anni. Nel frattempo però, il discusso premier ha deciso di non lasciare troppo spazio a improvvisazioni che potrebbero rivelarsi controproducenti e si è avocato anche la guida del ministero del Welfare, incarico che si somma agli altri tre che si è nel tempo già accaparrato, Difesa, Salute e Diaspora, oltre ovviamente alla guida del Governo. Chi fa da sé fa per quattro, o per cinque a seconda dei punti di vista, è questa la linea di Netanyahu che evidentemente nemmeno sotto elezioni teme di essere accusato di essere una specie di dittatore a rate, che a scadenze periodiche appunto si assume sempre più potere dimostrando ben poca fiducia in chi gli sta attorno.

 C'è Katz e Katz
  La decisione stavolta è stata presa in seguito alle dimissioni di Haim Katz, indagato dal procuratore generale Avichai Mandelblit di frode e corruzione. E se non fosse stato per la Corte Suprema che a febbraio scorso ha costretto Netanyahu a eleggere un ministro degli Esteri diverso da egli stesso adesso saremmo qui a parlare non di quattro, ma di cinque ministeri. La scelta in quel caso andò a Israel Katz che a dispetto del nome non è parente del ministro uscente Haim.
  Lo scorso novembre, invece, Netanyahu aveva annunciato che avrebbe tenuto per sé le responsabilità della Difesa dopo le dimissioni di Avigdor Lieberman per protesta contro la decisione di Netanyahu di accettare il cessate il fuoco con i palestinesi dopo giorni di scontri nella Striscia. Lieberman, che è il leader del partito ultranazionalista russofono Yisrael Beitenu, viene ora considerato l'ago della bilancia delle elezioni anticipate del prossimo 17 settembre resesi necessarie dopo che da quelle dello scorso 9 aprile non era uscito un vincitore. Sembrerebbe dunque che il destino di Netanyahu sia nella mani di colui che ha sostituito alla Difesa e che ha innescato una crisi che dura ormai da quasi un anno. L'ultimo sondaggio di inizio settembre infatti (Walla) assegna al suo partito 9 seggi, contro i 31 o 32 deputati a testa del Likud di Netanyahu e del Kahol Lavan (Blu Bianco) dell'ex ramatkal dell'esercito (capo di Stato Maggiore) Benny Gantz. Secondo lo stesso sondaggio la Lista Araba Unita prenderebbe 10 seggi, Yemina 9, i religiosi ortodossi 15, Campo democratico (Ehud Barak più sinistra Meretz) 7, Laburisti (Peretz più Gesher) 7. La possibile coalizione di destra (Likud, Yamina, religiosi) sarebbe a 56, quella di centro sinistra (Blu-Bianco, Campo democratico, Laburisti) a 55 a patto che la Lista Araba sia accolta nella coalizione. In ogni caso Lieberman è determinante per superare la soglia dei 61 deputati che, su 120 alla Knesset formano la maggioranza. Nel caso Lieberman potrebbe chiedere in cambio dell'appoggio al governo la stessa guida del governo. Ma questa è solo una delle due possibilità, e nemmeno la più probabile. Ad agosto infatti l'ex ministro della Difesa ha stretto un accordo di condivisione dei voti con la coalizione di Gantz, che garantirebbe a quest'ultima gli eventuali "voti in eccedenza".

 Nuove colonie
  Il sistema elettorale israeliano permette infatti a un partito di trasferire a un altro i voti insufficienti per ottenere un seggio in più, che potrebbero invece aiutare l'altra formazione ad ottenerlo. La mossa che ha spiazzato il Likud e quindi Netanyahu è stata ovviamente interpretata come la base di un eventuale alleanza post elettorale tra le due formazioni Yisrael Beitenu e Kahol Lavan. In ogni caso per Netanyahu non si profila la più facile delle elezioni.
  L'incertezza ha dunque spinto il premier a non azzardare una nomina affrettata al Welfare e soprattutto ad annunciare nelle ultime ore che in caso di conferma elettorale la Cisgiordania sarà definitivamente e a tutti gli effetti annessa a Israele. «Questa è la nostra terra - ha detto Netanyahu nel suo discorso a Elkana, che si trova nella West Bank - Costruiremo un'altra Elkana e un'altra ancora. Non manderemo via nessuno da qui». Nel qual caso Netanyahu avrebbe dalla sua parte gli Usa, il cui piano di pace che sarà presentato dopo le elezioni prevede verosimilmente che tutti gli insediamenti restino sotto il controllo israeliano.

(Libero, 5 settembre 2019)


Israele non è in grado di affrontare una guerra con Hezbollah

di Piera Laurenza

Piera Laurenza
Tre scienziati che lavoravano per l'industria israeliana Rafael, specializzata nello sviluppo di sistemi di armi e tecnologia militare, hanno affermato che Israele non sarà in grado di sopportare le conseguenze di una guerra imminente con Hezbollah.
   La dichiarazione è stata pubblicata giovedì 5 settembre dal quotidiano israeliano Maariv. Secondo tali scienziati, anche un solo missile lanciato dalla Siria o dal Libano spingerebbe mezzo milione di coloni israeliani a fuggire dal Nord del Paese, soprattutto nel caso di attacchi contro i complessi industriali petrolchimici dell'area. Alla popolazione in fuga, si aggiungerebbe un gran numero di morti e feriti.
   Inoltre, a detta dei tre scienziati israeliani, che hanno lavorato nel settore missilistico della compagnia Rafael, i sistemi di difesa aerea israeliani, anche i più sofisticati, non sono in grado di neutralizzare l'impatto dei missili che potrebbero essere lanciati in uno scontro con Hezbollah. I risultati dell'attentato sarebbero "disastrosi", in quanto, nonostante l'esistenza dei sistemi di difesa aerea quali "Cupola di ferro" e "Fionda di Davide", questi non saranno capaci di intercettare tutti i missili, il che aumenta il rischio di impiegare missili in una eventuale guerra. Tuttavia, dal canto loro, i funzionari israeliani stanno cercando di rassicurare la popolazione israeliana, lodando le prestazioni dei sistemi di difesa aerea.
   L'interesse e le dichiarazioni dei tre scienziati giungono di fronte ad uno scenario sempre più teso che coinvolge Israele ed Hezbollah. Non da ultimo, è del 3 settembre la notizia relativa al ritrovamento di un sito adibito alla fabbricazione di missili di precisione guidati, appartenente al gruppo sciita libanese.
   L'escalation tra le due parti ha avuto inizio domenica 25 agosto, quando un drone israeliano è precipitato nelle periferie meridionali di Beirut, controllate da Hezbollah, e un secondo drone è esploso nelle vicinanze, nelle prime ore del mattino. Il giorno successivo, il 26 agosto, tre raid aerei, sempre di provenienza israeliana, hanno colpito una base palestinese, nei pressi del confine con la Siria, situata vicino al villaggio di Qusaya, nella Valle di Bekaa.
   Tra gli eventi più recenti, il 1o settembre, l'esercito israeliano ha reso noto di aver risposto, aprendo il fuoco sul confine libanese meridionale, ad alcuni missili anticarro provenienti dall'area, lanciati da Hezbollah contro una sua base e alcuni veicoli militari. Hezbollah, dal canto suo, ha confermato che i propri militanti hanno distrutto un veicolo militare israeliano, uccidendo o ferendo le persone che erano all'interno dell'abitacolo. Questo si trovava nell'insediamento di Avivim, vicino al confine meridionale del Libano. Inoltre, il 28 agosto, l'esercito libanese aveva sparato contro 3 droni israeliani, provenienti dai territori palestinesi occupati, mentre sorvolavano i cieli del Sud del Libano. In tale occasione non era stato causato alcun danno.
   Nato nel 1982 come movimento di resistenza contro l'occupazione israeliana del Libano meridionale e in seguito evolutosi in un partito politico locale, Hezbollah, che in arabo significa "il Partito di Dio", è un'organizzazione paramilitare sciita libanese che alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, considerano un gruppo terroristico. Hezbollah rappresenta un attore chiave nell'arena politica del Libano. Israele considera tale movimento sciita armato, sostenuto da Teheran, la più grande minaccia per il Paese proveniente dall'esterno dei confini nazionali. I due si sono scontrati nel 2006, in una battaglia lunga 34 giorni, nella quale circa 1200 persone sono morte in Libano, per lo più civili, e altre 158 hanno perso la vita a Israele, in gran parte soldati.
   Per quanto riguarda Israele, lo scorso 28 luglio, è stato annunciato che lo scudo anti-missili balistici israeliano Arrow-3, sostenuto da Washington, ha superato con successo una serie di test di intercettazione in Alaska. Si tratta di un sistema di difesa missilistico avanzato, di manifattura statunitense, in grado di intercettare razzi a lungo raggio fuori dall'atmosfera terrestre. Inoltre, a marzo 2018, gli Stati Uniti hanno aumentato il budget destinato ai programmi di difesa missilistica israeliani di 148 milioni di dollari, per sostenere lo sviluppo di Iron Dome e Arrow-3, portando la cifra totale degli aiuti militari destinati al Paese mediorientale a 705 milioni di dollari.

(Sicurezza Internazionale, 5 settembre 2019)


Il 5 settembre 1972 la strage degli atleti israeliani a Monaco per mano dei palestinesi

Il 15 luglio del 1972, tre palestinesi si trovarono a Roma per organizzare un atto terroristico a Monaco durante le Olimpiadi.
I tre erano: Abu Dawud e Salah Khalaf (dirigenti di Al Fatah) e Abu Muhammad appartenente all'organizzazione di "Settembre Nero". L'atto avrebbe dovuto richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla causa palestinese. Si decise di formare un commando di 8 persone, che furono addestrate in Libia. Abu Dawud fece la prima ricognizione nel villaggio Olimpico, e vi ritornò qualche giorno dopo con Yusuf Nazzal (componente del commando) che faceva il cuoco nel villaggio medesimo. Gli appartamenti erano tutti uguali e fu facile per loro studiare ed organizzare l'operazione nei minimi dettagli....

(il Valore Italiano, 5 settembre 2019)


Arnold Fruchtenbaum per la seconda volta in Italia

A circa un anno di distanza torna in Italia lo studioso della Bibbia Arnold Fruchtenbaum, per una serie di seminari e conferenze da tenere in collaborazione con Mottel Baleston.
Il programma delle visite, organizzato da Ariel Italia, si svolgerà nelle seguenti sedi:
    4-6   ottobre
    7-8   ottobre
    9-12 ottobre
    13    ottobre
    Poggio Ubertini (FI)
    Roma,
    Montemurlo (PO)
    Genova.





Per maggiori informazioni Ariel Italia.

(Notizie su Israele, settembre 2019)


L'ascesa di Hitler si poteva evitare? Le ultime dieci settimane di Weimar

Barth e Friedrichs ricostruiscono minuziosamente "l'ultimo inverno" della Germania prenazista attraverso i personaggi chiave ma anche la miopia dei partiti che spinsero al potere un movimento sull'orlo del collasso.

di Gianni Santamaria

«Giuro di impiegare tutte le mie forze per il bene del popolo tedesco, di rispettare le leggi, di onorare con ogni scrupolo i doveri che mi incombono e di governare con spirito imparziale ed equo nei confronti di tutti». Belle parole. Non si direbbe, ma sono il giuramento prestato da Adolf Hitler sulla Costituzione di Weimar il 30 gennaio del 1933. È un lunedì, sono le 11 e mezzo e da quel momento non solo la Germania, ma il mondo non sarà più lo stesso.
   Ma come si è arrivati alla data che dà inizio a uno dei periodi più bui della storia? E soprattutto, si poteva evitare l'ascesa al potere del leader di un partito che della violenza e del delirio razziale aveva fatto un tratto distintivo della sua politica? Per Rtidiger Barth e Hauke Friedrichs, autori di I becchini. L'ultimo inverno della Repubblica di Weimar (Bompiani, pagine 534, euro 24,00), minuziosa ricostruzione delle ultime dieci settimane della Germania prenazista, la risposta è senz'altro "sì". Nelle pagine del volume i due, giornalisti, con solidi studi storici alle spalle, danno un resoconto della catena di eventi che hanno permesso ciò. Molto ha giocato l'ambizione e la miopia dell'ex cancelliere Franz Von Papen, che è infatti passato alla storia come il "becchino" della Repubblica nata dalle ceneri del Reich guglielmino. Ma le dinamiche sono molto più complesse. E, infatti, il macabro epiteto che dà il titolo al volume viene, sin dalle prime pagine, allargato ai profili di altri quattro personaggi: con Von Papen, oltre a Hitler e al suo propagandista principe Joseph Goebbels, i "becchini" sono anche il presidente Paul von Hindenburg, il feldmaresciallo eroe del primo conflitto mondiale, e Kurt von Schleicher, pure lui militare, ministro della Difesa e consigliere fidato - troppo fidato - di Hindenburg.
   È costui il vero demiurgo, prima dell'ascesa di Von Papen alla Cancelleria e poi con quest'ultimo dell'operazione Hitler. I due pensavano di poterlo addomesticare per i propri fini di potere. Schleicher in particolare fece una virata, passando dal dialogo con socialdemocratici e cattolici allo stringere rapporti e alleanze con esponenti hitleriani, ad esempio offrendo un ministero al nazista Strasser, allo scopo di spaccare il partito (al quale poi di fatto, divenuto cancelliere, consegnò il potere). «Non sarà facile scendere a patti con Schleicher - presentiva Hitler - Ha lo sguardo di un uomo intelligente, ma insidioso. Non mi è sembrato parlare con franchezza». Ma non ce n'è solo per i conservatori. Più volte i due autori rimarcano le responsabilità della sinistra comunista, per la quale il vero nemico erano - più che le camicie brune - gli odiati socialdemocratici. I quali alle presidenziali avevano votato per Hindenburg, in funzione anti-Hitler, suo avversario. Che il caporale austriaco e i suoi nazionalsocialisti potessero (e dovessero) invece essere fermati è convinzione dei due autori: «L'Nsdap (sigla che sta per "Partito nazionalsocialista del lavoratori tedeschi", ndr) era davvero a due passi dalla disgregazione, perché i suoi consensi in parlamento stavano calando, perché le finanze nazionalsocialiste erano nel dissesto più totale e perché l'economia tedesca aveva lentamente iniziato a riprendersi».
   Il quadro che viene composto dalla crisi del governo Papen del 17 novembre del 1932 all'epilogo del 30 gennaio 1933 è fatto di date storiche. Ma anche di cronache tratte dai giornali - che raccontano spesso scontri violenti tra milizie di partito - o da diari di personalità minori che vissero quelle giornate: dal sindacalista americano Abraham Plotkin, alla giornalista Bella Fromm, fino allo scrittore inglese Christopher Isherwood. Il ritmo della narrazione è quello di una sceneggiatura cinematografica. A ispirare i due autori è stato proprio il paragone che Barth e Friederichs davanti a un caffè si sono trovati a fare tra l'ascesa al potere di Hitler e la conquista della Casa Bianca da parte dello spregiudicato Frank Underwood della serie televisiva House of cards. E come nei titoli di coda di un film le ultime pagine sono dedicate al destino futuro dei protagonisti. Ci sarà un sequel?

(Avvenire, 5 settembre 2019)


Siria: l'Iran costruisce la più grande base per le sue milizie

E' in fase di completamento la più grande base iraniana all'estero ad Albukamal in Siria, già colpita in precedenza dall'aviazione americana o israeliana.

di Marco Loriga

 
  Le differenze tra la foto
  del 13 agosto e quella
  scattata dieci giorni dopo
 
Dalle immagini satellitari a disposizione, pare che l'Iran sia impegnata nella costruzione della più grande base in Siria, ad Albukamal nei pressi del confine iracheno.
   L'area è stata già colpita dall'aviazione americana (o israeliana) nei mesi scorsi, forse per la presenza di cellule dell'ISIS o per le milizie sciite, ma le notizie sono discordanti. Alcuni parlano di un errore degli americani per la presenza di Deash rivelatasi poi falsa. Difficile che sia stato un errore visto che la zona è in mano a milizie alleate dell'Iran, nel bel mezzo del cosiddetto corridoio sciita.
   Attraverso la collaborazione tra l'israeliana ISI (ImageSatIntl) e l'emittente americana Fox News, che ha diffuso l'articolo, si è scoperta la costruzione della più grande base iraniana all'estero.
   La costruzione del complesso è stata affidata, secondo gli analisti di ISI, dalle Forze Quds - le unità delle Guardie Rivoluzionarie (IRCG o Pasdaran) che operano fuori dai confini iraniani - e sarebbe in grado di alloggiare una buona quantità di missili di precisione all'interno di cinque nuovi depositi, che risultano circondati e protetti da cumuli di terra.
   Le foto scattate mostrano la zona dove sorge la base (evidenziata di rosso nelle foto satellitari) e come in data 13 agosto non vi sia nulla nell'aerea desertica, ma nel giro di una decina di giorni (23 e 31 agosto) sono sorti diversi edifici nella zona: 10 a nord-ovest della base, 5 a sud e altri cinque a sud-est in fase di completamento.
   
Le intelligence occidentali, ovviamente, erano già al corrente dell'esistenza di questo progetto già prima della diffusione delle immagini.
   Come fanno notare gli analisti la base, oltre a essere sulla via del cosiddetto corridoio sciita, è a circa 200 miglia di distanza dai militari USA presenti nel paese insieme ai curdi.
   L'Iran è presente in Siria tranne che nel nord del paese, dove opera la Syrian Democratic Forces (SDF), zona in mano ai turchi con i suoi proxi.
   Più che la presenza americana nel nord della Siria, l'obbiettivo iraniano è rivolto verso ovest e la base diventerà un centro strategico a metà strada del corridoio sciita.
   E' l'ideale per stoccare mezzi e ordigni da far successivamente arrivare in Siria o in Libano. Se fosse così dovremmo attenderci notizie di esplosioni varie nella zona in futuro, colpiti da non identificati droni o aerei, come successo in Iraq il mese scorso.

(Rights Reporters, 5 settembre 2019)


Israele, la terra che non ci si aspetta, raccontata dal console onorario Luigi De Santis

All'inizio dell'anno è stato nominato terzo Paese più innovativo al mondo dal World Economic Forum, che ne ha sottolineato il volume degli investimenti, in crescita a un ritmo trenta volte superiore rispetto all'Europa.
   A febbraio poi, il sito Bloomberg lo aveva inserito al quinto posto tra i Paesi più all'avanguardia, in un elenco - che lo vede subito dopo Corea del Sud, Giappone, Germania e Finlandia -, basato sui criteri di percentuale del PIL per investimenti in ricerca e sviluppo, produttività, numero di nuovi brevetti, concentrazione di ricercatori, percentuale di laureati e numero di aziende high-tech.
   Parliamo dell'Israele, una terra che non ci si aspetta in questi termini, assuefatti ormai dai drammatici racconti storici che l'accompagnano da secoli.
   Eppure, lungi dall'essere un paradosso, le cose stanno così. L'Israele è il terzo paese al mondo per numero di start-up sull'intelligenza artificiale, secondo solo a Stati Uniti e Cina e la sua economia è cresciuta negli ultimi 15 anni più di ogni altra, diventando un vero e proprio modello da replicare, un esempio non soltanto di sviluppo finanziario ma anche culturale e sociale.
   A raccontarci nel dettaglio questa ascesa apparentemente sorprendente è il dott. Luigi De Santis, dal 2015 console onorario di Israele in Italia, unico a ricoprire questa carica prestigiosa nel nostro Paese, nonché il più giovane console onorario di uno Stato straniero nominato nella nostra nazione.
   Vice Presidente di ANCE Giovani Nazionale, Presidente di ANCE Giovani Puglia, Consigliere Centrale di Confindustria Giovani e fondatore della delegazione barese dei Giovani del Fai (Fondo ambiente italiano), De Santis racconta i successi di una terra straordinaria e l'impegno, ricco di soddisfazione e responsabilità, profuso in questi anni per favorire gli scambi economici, turistici e culturali tra la Puglia e l'Israele.
   "Questi anni di consolato - spiega - hanno visto intensificarsi i rapporti tra due terre che si stimano reciprocamente: se da un lato gli israeliani guardano con ammirazione l'Italia per le eccellenze culturali e artigiane che da sempre la contraddistinguono, anche l'Italia, e soprattutto la Puglia, hanno trovato in Israele una terra generosa, capace di investire tanto nelle idee e in progetti ambiziosi, dando ampie possibilità di espressione a molti talenti italiani in diversi campi: dal design all'architettura, dal turismo alla gastronomia, senza dimenticare numerosi altri settori quali l'edilizia e l'artigianato di qualità".
   E prosegue: "Oggi Israele è davvero un modello da inseguire: non esiste un indice di contributo pro capite all'umanità, eppure, se esistesse, vedrebbe Israele al primo posto. Tel Aviv è il terzo maggiore hub dopo San Francisco e Londra ed è uno degli ecosistemi più smart del pianeta. Già nel 2014, in occasione della Smart City Expo World Congress di Barcellona, si era guadagnata lo Smart Cities Award, battendo la concorrenza di 250 città di tutto il mondo. Gli investimenti destinati alle startup israeliane del settore agroalimentare hanno raggiunto, tra il 2014 e il 2018, gli 800 milioni di dollari, per un totale di circa 700 aziende e un coinvolgimento straniero importante".
   La rete è un altro aspetto fondamentale che racconta l'odierno approccio di questo Paese, che ha ambizioni internazionali puntando sull'innovazione consapevole e sostenibile.
   Oltre ad essere la più grande major tecnologica al mondo, l'Israele spicca per la cyber security, i progressi nel settore aerospaziale, farmaceutico e nel settore della difesa; senza dimenticare che è oggi lo Stato con più verde urbano e adotta una tipologia di gestione dell'acqua, che rappresenta un modello idrico da imitare. Meta turistica, fucina di giovani e brillanti menti nei settori più disparati, grande polo attrattivo di investimenti e idee.
   "Un'innovazione - prosegue De Santis - che va a braccetto con la sostenibilità: dall'agricoltura, con gli innovativi sistemi di irrigazione all'avanguardia e le tecnologie più mature e hi-tech a livello globale, all'edilizia urbana e privata con le costruzioni intelligenti e a bassissimo impatto ambientale; risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Soprattutto Israele è diventata, con il suo sviluppo e l'importanza data dalle imprese ai talenti di tutto il mondo, una delle più grandi città del design e della cultura. Qui, infatti, si riversano professionisti, architetti, designer e artisti che mettono al servizio del Paese e nella massima libertà espressiva, la propria professionalità e la creatività".
   Uno Stato, quindi, che vive di ricerca, che insegue il progresso e ne detta l'esempio al mondo intero, dove le idee incontrano i capitali provenienti da ogni parte del pianeta, simbolo dell'architettura internazionale più all'avanguardia, con oltre 4.000 edifici costruiti in stile Bauhaus, un'illuminazione efficiente, schemi di traffico disciplinati, una vita urbana dinamica e disciplinata, in cui le best practise partono proprio dal cittadino; una città dal design innovativo, dai materiali pregiati, tra le più interessanti Smart Nation.
   "In una dimensione e direzione di dialogo e rispetto - ha concluso il console De Santis - proseguono i rapporti tra Italia e Israele, consapevoli del fatto che questo dialogo porterà a nuovi investimenti e occasioni di scambio culturale e di business. La cultura, la bellezza, la comunicazione costante saranno le leve che porteranno valore ai nostri Paesi, innescando un circolo virtuoso, giocato sulla multiculturalità, sullo spazio per nuove idee, sugli stimoli e sulle opportunità che continueremo a creare".

(Design Lifestyle, 4 settembre 2019)


La questione Cisgiordania e l'asse Washington-Israele

di Niram Ferretti & Bepi Pezzulli

Il 6 aprile scorso, a pochi giorni dalle elezioni in Israele, Benjamin Netanyahu dichiarò che se fosse stato riletto, cosa che avvenne il 9 aprile, Israele avrebbe annesso gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria (Cisgiordania o West Bank). Questa fu la sua principale promessa elettorale prima della crisi di governo.
   "Dichiarerò la sovranità israeliana, ma non distinguo tra i blocchi di insediamenti e insediamenti isolati. Dal mio punto di vista, ognuno di questi insediamenti è israeliano. Noi abbiamo una responsabilità nei loro confronti come governo di Israele. Non ne trasferirò nessuno, e non trasferirò la loro sovranità ai palestinesi. Mi occuperò di tutti".
   E' presumibile che la dichiarazione di Netanyahu venne fatta con il consenso della Casa Bianca. Di fatto, Washington DC non prese le distanze.
   La sovranità israeliana sopra l'Area C della Giudea e Samaria, o Cisgiordania, o West Bank, dove vivono 400,000 cittadini ebrei, sanerebbe di fatto una situazione che permane sospesa dal 1967, quando Israele vinse la Guerra dei Sei Giorni, ed entrò in un territorio occupato abusivamente per diciannove anni dalla Giordania e poi da essa annesso illegalmente nel 1951. Il Mandato Britannico per la Palestina del 1922 assegnava tale territorio interamente all'abitabilità ebraica.
   Con gli Accordi di Oslo del 1993-1995 e la ripartizione del territorio in tre aree distinte, la A, la B e la C, l'Area C è rimasta fino ad oggi sotto la piena sovraintendenza israeliana.
   La Cisgiordania rappresenta un territorio legalmente privo di un detentore sovrano e su di esso Israele esercita una rivendicazione totalmente legittima. Con gli Accordi di Oslo esso ha già ceduto una parte del territorio ai palestinesi in cambio di una pace che non è mai arrivata.
   Recentemente, a Elkana, in Cisgiordania, Netanyahu ha ribadito il concetto espresso il 6 aprile scorso. "Questa è la nostra terra, non manderemo via nessuno da qui".
   Anche in questa circostanza da Washington non è arrivata alcuna presa di distanza. Va ricordato che a marzo di quest'anno, per la prima volta, il Dipartimento di Stato USA, nel suo rapporto annuale sui diritti umani, ha omesso la dizione "territori occupati" relativamente alla Cisgiordania.
   La salda alleanza tra Washington DC e Gerusalemme potrebbe dare corpo a un nuovo dirompente gesto.
   Dopo la dichiarazione su Gerusalemme capitale di Israele e il conseguente spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, dopo il riconoscimento della sovranità israeliana sopra le Alture del Golan, Donald Trump avallerà la sovranità israeliana sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania promessa dal primo ministro israeliano?
   Se ciò accadesse, rappresenterebbe, dopo 52 anni, il ritorno a Israele di un territorio che il Mandato Britannico gli aveva assegnato, e da cui era stato estromesso a seguito della guerra del 1948 fino a quando, nel 1967, lo riconquistò a seguito della Guerra dei Sei Giorni.
   Il diritto internazionale, dalla Seconda guerra mondiale a oggi, è unanime nel rigettare la legittimità di territori conquistati da una nazione che aggredisce, ma non da una che si difende. Così è stato per il Golan, perso dalla Siria, così è per la Cisgiordania persa dalla Giordania. Ma mentre il Golan non è mai stato un territorio sul quale Israele poteva rivendicare la propria sovranità, la Cisgiordania, lo è senza alcun dubbio nonostante le risoluzioni ONU per la quale Israele occuperebbe illegalmente il territorio.
   L'intenzione di Netanyahu, per trasformarsi in realtà, nel caso in cui dovesse essere rieletto necessita dell'appoggio americano. Se esso arrivasse prima delle elezioni, (risultato in cui Netanyahu spera), sarebbe per Bibi un volano formidabile.

(Affaritaliani.it, 4 settembre 2019)


La Torre dei record che cattura il Sole

Al via il mega-progetto per l'energia pulita. Quasi mezzo milione di specchi parabolici nel deserto del Negev.

di Fabiana Magrì

 
La super-torre solare da 250 metri nel deserto del Negev. Sotto la costante opera di pulitura degli specchi parabolici
TEL AVIV - Chi l'avrebbe detto che per trovare refrigerio nella lunga estate di Tel Aviv sarebbe stato necessario il calore del deserto? Sembra un paradosso, ma chi accende l'aria condizionata nelle città israeliane sfrutta energia pulita prodotta nel Negev. Il sistema con due centrali termo-solari- nell'area di Ashalim, a Sud di Be'er Sheva - è uno dei più grandi progetti di energia rinnovabile al mondo. Dopo sei anni di lavori e una fase di rodaggio ora Ashalim macina elettricità al 95% del regime e la immette nella rete israeliana.
   Con i 454.272 specchi parabolici di Ashalim si potrebbe coprire quattro volte la Città Vecchia di Gerusalemme o nove volte la Città del Vaticano. L'impressionante distesa - 4 chilometri quadrati - contiene 405,6 chilometri di collettori distribuiti in 338 filari, ciascuno lungo 1,2 chilometri. Ognuno dei 16.224 collettori è formato da 28 specchi. Megalim, il lotto della torre solare, si estende invece su 3 chilometri quadrati: 50 mila specchi convogliano la luce in un unico punto, il serbatoio dell'acqua in cima alla torre stessa, che con i suoi 250 metri è il « faro» nel deserto più alto del mondo. Qui l'acqua diventa vapore e mette in moto turbine e generatori.
   Ogni centrale ha una potenza di 121 megawatt ed entrambe sfruttano il calore del Sole, a differenza del fotovoltaico che usa la luce, ma con prestazioni diverse. Ashalim, infatti, produce il 33% di elettricità in più di Megalim. Qui la torre solare - joint-venture tra la californiana Brightsource, la francese Alstom e il fondo d'investimento israeliano Noy Fund -, quando il calore del Sole diminuisce, rallenta la produzione. Non così ad Ashalim: per la cordata tra il colosso immobiliare Shikun&Binui, la società spagnola Tsk e il Noy Fund produrre energia dal calore del Sole durante il giorno non era abbastanza.
   «Assimiliamo quindi il calore attraverso i collettori, che si orientano verso il Sole così da massimizzare l'assorbimento - spiega Chemi Sugarmen, di Negev Energy - e lo convogliamo nel punto di fuoco, dove passa un tubo nel quale scorre un olio diatermico, fluido che entra a 300 gradi ed esce a 400. Lo dirigiamo verso la centrale elettrica dove, nello scambiatore di calore, l'olio si raffredda a contatto con l'acqua e poi ricomincia il ciclo. L'acqua, invece, si trasforma in vapore, il quale mette in moto una turbina e fa partire il generatore».
   L'altra parte dell'impianto è destinata a scaldare il sale fuso, mix di fosfato e sodio con la caratteristica di immagazzinare calore senza disperderlo. «Così, quando il Sole tramonta, il lavoro non si ferma - continua Sugarmen -, perché usiamo la riserva di calore del sale fuso». E qui entrano in scena i colossali serbatoi, 15 metri di altezza e 52 di diametro. «Su una ventina di progetti internazionali dove s'immagazzina il calore Ashalim, con una capacità di 45 mila tonnellate, è il più grande. Questo - ha spiegato l'ad - ci garantisce ulteriori cinque ore di produzione a pieno regime. Nel buio della notte, quindi, continuiamo a produrre energia pulita come se fosse giorno». Semmai è la sabbia il nemico. Nel deserto del Negev la pulizia degli specchi è un'attività necessaria, almeno una volta alla settimana.
   Alla presentazione dell'impianto, ghiotta occasione di campagna elettorale in vista delle elezioni, il 17 settembre, è intervenuto anche il ministro dell'Energia Yuval Steinitz. «In passato il nostro scopo era fornire energia alla gente e alle industrie di Israele e la salute pubblica era al secondo posto. Oggi l'obiettivo è produrre energia pulita e ridurre l'inquinamento. Negli ultimi tre anni - ha detto - abbiamo tagliato il carbone dal 65% al 30%. Nel prossimo futuro azzereremo la produzione di energia da fonti non rinnovabili. Raggiungeremo quindi il 10% di energia rinnovabile entro il 2020 e ci siamo posti il traguardo del 17% entro il 2030. Ma valutiamo la possibilità di innalzare l'asticella».

(La Stampa, 4 settembre 2019)


Gli ebrei sono un "cancro colonialista" a Gerusalemme e in Terra d'Israele

Lo dice il Mufti dell'Autorità Palestinese, quello che ha esortato i musulmani a uccidere gli ebrei e ha definito "legittimi" gli attentati suicidi

Il Gran Mufti di Gerusalemme Muhammad Hussein, il più alto esponente religioso islamico dell'Autorità Palestinese, ha denunciato gli "attacchi" ebraici contro i simboli religiosi palestinesi a Gerusalemme e ha definito la presenza ebraica nella Terra d'Israele un "cancro colonialista".
Secondo un servizio pubblicato lo scorso 30 agosto dal quotidiano ufficiale dell'Autorità Palestinese Al-Hayat Al-Jadida, riportato in inglese lunedì dalla ong Palestinian Media Watch, la 176esima riunione del Consiglio Supremo della Fatwa, presieduto dal Mufti Hussein, "ha messo in guardia sul pericolo di attacchi contro i simboli religiosi e nazionali nella Gerusalemme occupata e ha affermato che il governo dell'occupazione è pienamente responsabile di queste violazioni. Il Consiglio - prosegue il quotidiano palestinese - ha espresso il suo rifiuto di ogni tipo di insediamento e ha sottolineato che il popolo palestinese non resterà inerte di fronte a questo cancro colonialista"....

(israele.net, 4 settembre 2019)


Aiutare il Maghen David Adom è aiutare Israele

Avviata raccolta fondi per acquistare un'ambulanza alla memoria di rav Elio Toaff z.l.

Maghen David Adom è il servizio nazionale di emergenza medica pre-ospedaliera, fondato in Israele nel 1930. Da 89 anni si pone l'obiettivo primario di salvare vite umane senza preclusioni di genere, etnia, credo religioso, stato sociale. Dal 2006 il Maghen David Adom fa parte della International Comitee of the Red Cross (ICRC) e si attiene ai suoi principi umanitari condividendoli con le altre Società di Soccorso tra le quali la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa.
  Ogni anno in Israele 2 milioni di persone chiamano il numero di emergenza 101 per ricevere assistenza medica urgente. Le centrali operative del Maghen David Adom ricevono più di 5000 chiamate di emergenza al giorno. Pochi sanno però che questa importantissima organizzazione - che mobilita 1.800 impiegati, 17.000 volontari Life Guardians, 6.500 Primi Soccorritori che provengono dall'intero arco della società israeliana - pur essendo l'unica a svolgere emergenze mediche nel Paese, è però un ente privato, in base ad una legge nazionale del 1950. Il Maghen David Adom vive e fornisce assistenza e servizi solo grazie agli aiuti dei volontari e dei benefattori, che coprono la maggior parte delle spese, solo in minima parte sostenute da fondi pubblici. Per supportare le attività di soccorso, formazione e ricerca, per aiutare nell'acquisto di veicoli salvavita, kit di primo soccorso, apparecchiature medicali, per sostenere i servizi trasfusionali e la fondazione di nuove stazioni su tutto il territorio israeliano, in molti Paesi del mondo sono nate le Associazioni Amici del Maghen David Adom. In Italia l'Associazione onlus è presente dal 2012 a Milano, ed è diretta da Sami Sissa che ha deciso di promuovere e sostenere la nascita di altre Associazioni sul territorio italiano. Lo scorso maggio, nella prestigiosa sede del Circolo Canottieri di Roma, è stata presentata l'intera attività del Maghen David Adom che opera con 1.094 ambulanze e unità mobili di terapia intensiva, 500 moto mediche, 2 elicotteri in grado di dare una risposta immediata nelle situazioni d'emergenza in città e in periferia. Le ambulanze e le equipe mediche delle Unità Mobili di Terapia intensiva soccorrono oltre 785.490 persone l'anno. Il servizio trasfusionale del MDA raccoglie più di 260.000 unità di sangue e la formazione ai volontari coinvolge 80.000 persone tra adolescenti, adulti e squadre mediche.
  "Si tratta di un lavoro straordinario per un paese così piccolo come Israele - ha spiegato Sissa - dove la salvezza di ogni vita umana è fondamentale". Un lavoro impegnativo e dai pesanti risvolti psicologici per il personale paramedico, come ha mostrato la proiezione in anteprima di un reality girato sulle ambulanze e che verrà messo in onda sulla televisione israeliana Channel 13. Un lavoro estenuante ma anche di grande empatia e soddisfazione, hanno spiegato tre paramedici presenti alla cerimonia. A raccontare le loro esperienze e il valore che il Maghen David Adom ha per la società israeliana, ma anche il contributo che dà in occasioni di grandi calamità naturali nel mondo, quattro testimonial di eccezione: l'Ambasciatore di Israele in Italia Ofer Sachs, il presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, il presidente delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni e Alessandro Piperno (che insieme a Cesare Efrati, assente per improrogabili impegni di lavoro) che è uno dei referenti dell'Associazione romana degli Amici del Maghen David Adom. Alla base dell'impegno del Maghen David Adom vi è l'obiettivo di salvare il maggior numero di vite umane ma questo è possibile solo attraverso la convinzione che ogni cittadino possa, se debitamente formato, prestare il primo aiuto. Di qui l'impegno a realizzare corsi formativi di primo soccorso che già sono stati realizzati in diverse comunità ebraiche italiane e che servono ad saper intervenire in casi di perdita di coscienza, soffocamento, attacco epilettico, ferite, emorragie, ustioni e traumi. "Aiutare il Maghen David Adom - ha ricordato Sissa - è quindi un atto di grande generosità e come Associazione italiana ci siamo prefissati di raggiungere un obiettivo particolare. acquistare una ambulanza che verrà intitolata alla memoria del rabbino capo di Roma, rav Elio Toaff z.l., che tanto era conosciuto e rispettato anche in Israele. In questo modo il suo nome continuerà a essere diffuso tra il popolo israeliano".
  Aiuto e generosità che hanno dimostrato tutti coloro che già hanno aderito a questa iniziativa, ed in particolare la famiglia Seromenta che ha deciso di donate alla scuola ebraica Renzo Levi, due borse di Pronto Soccorso, una a disposizione degli Asili e l'altra per le medie e il liceo, in memoria di Eleonora Funaro. [G. K.]


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Quei 7 minuti fondamentali

di Daniele Toscano

È il tempo necessario per il primo urgente soccorso che può salvare una vita. Lo spiega il dottor Cesare Efrati che con l'Associazione Amici Maghen David Adom promuove corsi di primo intervento.

 
Aiutare Israele e impegnarsi nel proprio Paese. È il duplice binario su cui si svolge l'attività della onlus "Associazione Amici del Maghen David Adom", presente dal 2012 anche in Italia, a Milano, e da qualche anno a Roma, dove fervono continue iniziative.
  Il Maghen David Adom, nato nel 1930, è l'associazione che in Israele si occupa del pronto soccorso, una sorta di Croce Rossa; è anche una componente delle forze armate israeliane nei momenti di guerra, nonché la banca del sangue. La sua funzione non si esaurisce nelle emergenze che interessano lo Stato d'Israele, ma va ovunque si manifesti la necessità di un intervento umanitario, come più volte si è verificato a seguito di disastri naturali. In Italia, ad esempio, è intervenuto per il terremoto de L'Aquila nel 2009.
  Gli Amici del Maghen David Adom, invece, sono le ramificazioni all'estero, presenti in una ventina di Paesi. In Italia, l'Associazione si è occupata di supportare le attività di soccorso, formazione e ricerca del Maghen David Adom Israele, sia donando veicoli salvavita e kit di primo soccorso, sia promuovendo scambi di conoscenze medico-scientifiche tra i due Paesi. Il ruolo di ciascuna componente dell'Associazione è fondamentale anche nel Paese di appartenenza. A Milano, ad esempio, l'AMDA ha donato un defibrillatore a ciascuna sinagoga. "A Roma abbiamo organizzato corsi di primo soccorso con esperti venuti appositamente da Israele" spiega a Shalom Cesare Efrati, medico dell'Ospedale Israelitico specializzato in endoscopia digestiva e Responsabile della sezione romana dell'AMDA. "Nei mesi scorsi, abbiamo donato delle borse con il kit di primo soccorso al Tempio Maggiore e al Bet Michael. A giugno, grazie all'intervento della famiglia Sermoneta, ne abbiamo donate altre agli asili e al Liceo Renzo Levi". Numerosi altri progetti sono all'orizzonte: "Anzitutto, a settembre speriamo di far partire i corsi per la disostruzione delle prime vie aeree, un procedimento da insegnare soprattutto alle mamme, visto che i bambini piccoli possono ingerire oggetti che occludono le vie respiratorie. In questa iniziativa ci potremo avvalere anche del contributo della Croce Rossa Italiana, oltre che del Maghen David Adom, e saranno coinvolti anche dei nutrizionisti per capire, a parte gli oggetti, quali possano essere gli alimenti a rischio, ossia quelli che causano allergie o creano ostruzioni, come la mozzarella filante". Naturalmente altri progetti riguarderanno la raccolta fondi per l'Associazione in Israele, la quale ricambierà mettendo a disposizione l'esperto know-how acquisito in questi decenni. Il Maghen David Adom si occupa di formare sul primo soccorso anche personale italiano in Israele con corsi di diverse durate. Tra i possibili destinatari da coinvolgere nei prossimi mesi ci sono anche le aziende; in cantiere anche collaborazioni con l'Ospedale israelitico. Tra le emergenze principali che vengono affrontate, i cosiddetti "primi 7 minuti", ossia il lasso di tempo di attesa di un'ambulanza. Per diverse settimane durante i primi mesi del 2019, questi corsi si sono tenuti al Tempio Beth Michael. È stato anche pubblicato un libro utile per fronteggiare emergenze che possono manifestarsi in diversi contesti della vita quotidiana, come ferite, ustioni, ingestione di materiali nocivi, gestione di difficoltà respiratorie.
  Oltre al dott. Efrati, nella sezione romana del Comitato Organizzativo ci sono Daniele Terracina, Francesca Benozzo, Alessandro Piperno, Alessandra Guggenheim. Oltre 80 persone poi hanno partecipato ai recenti corsi e si sono affiliate all'Associazione. Un impegno rilevante, in quanto permette di contribuire a salvare vite e di mostrare un volto poco noto di Israele. Un'organizzazione cruciale per la salute e la sicurezza dei cittadini.

(Shalom, giugno-luglio-agosto 2019)


Iran - Rohani: "Nessun dialogo diretto con gli Usa"

di Michele Perseni

Hassan Rohani adotta la linea dura sul nucleare. In un discorso al Parlamento di Teheran, il presidente ha detto che l'Iran non ha intenzione di "avere colloqui diretti con gli Stati Uniti. Ma se tolgono tutte le sanzioni, sarebbe possibile parlarci durante gli incontri del 5+1 come in passato". Rohani intende le nazioni firmatarie iniziali dell'accordo sul nucleare. Vale a dire, i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti) più la Germania.
   "Forse - ha sottolineato Rohani - c'è stato un fraintendimento. Lo abbiamo detto svariate volte e lo ripetiamo: non c'è stata alcuna decisione di tenere colloqui bilaterali con gli Stati Uniti. In linea di principio, non vogliamo colloqui bilaterali con gli Stati Uniti. Abbiamo ricevuto diverse proposte per colloqui diretti con Washington e la nostra risposta è sempre stata negativa".
   Il presidente iraniano ha confermato che "i partner europei dell'accordo sul nucleare iraniano finora non hanno rispettato i propri impegni, dopo il ritiro unilaterale degli Usa e Teheran farà un 'terzo passo' verso un disimpegno dall'intesa se entro giovedì non otterrà gli incentivi richiesti per compensare le sanzioni americane".
   Mentre sono in corso colloqui diplomatici in Francia con una delegazione tecnica di economisti iraniani, guidata dal viceministro degli Esteri Abbas Araghchi, il capo del governo della Repubblica islamica ha ribadito: "Ciò che chiediamo agli altri Paesi è che continuino a comprare il nostro petrolio. Le trattative potranno, comunque, continuare anche dopo questa terza fase".
   Rohani ha inoltre sottolineato, ancora una volta, che qualsiasi misura verrà adottata sarà reversibile "in non molto tempo" come quelle precedenti, consistite prima nel superamento delle riserve ammesse di uranio a basso arricchimento e acqua pesante e poi nel ritorno all'arricchimento dell'uranio sopra la soglia consentita del 3,67 per cento. Secondo le ultime rilevazioni note, Teheran sta al momento arricchimento l'uranio al 4,5 per cento.

(L'Opinione delle libertà, 3 settembre 2019)



Israele in Italia, l'ambasciatore designato presenta le proprie credenziali

 
Dror Eydar (a destra nella foto), ambasciatore designato di Israele, si è insediato in queste ore a Roma.
   Il nuovo rappresentante dello Stato ebraico in Italia, che ha 52 anni e dal 2007 è editorialista del quotidiano Israel Hayom, ha presentato la copia delle credenziali all'ambasciatore Inigo Lambertini, capo del cerimoniale diplomatico della Repubblica presso il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale. Un atto che è propedeutico alla cerimonia ufficiale che si svolgerà prossimamente al Quirinale, dove a ricevere le credenziali dalle mani di Eydar sarà il Presidente Sergio Mattarella.
   Eydar è stato nominato dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu esattamente un anno fa. "Come ricercatore di storia e letteratura - commentò allora la notizia - il privilegio di rappresentare lo Stato di Israele a Roma, con tutto il bagaglio diplomatico, nazionale e religioso che lega i due popoli e risale a migliaia di anni fa, assume un significato speciale. Come ho fatto come giornalista e in altre posizioni, cercherò di dedicare tutte le mie energie e conoscenze per rappresentare Israele fedelmente e con coraggio".
   Nella sua prima giornata romana Eydar si è recato in visita nell'area del Colosseo, sostando anche davanti all'Arco di Tito. "Da Gerusalemme siamo andati a Roma e da Roma siamo tornati a casa a Sion per creare un paese indipendente" il commento dell'ambasciatore designato, che arriva in Italia a pochi giorni dalla conclusione del mandato del suo predecessore Ofer Sachs.

(moked, 3 settembre 2019)


15 settembre: in 88 localita' italiane giornata europea cultura ebraica

Torna la Giornata europea della cultura ebraica, la manifestazione che invita a conoscere e approfondire storia, cultura e tradizioni dell'ebraismo. L'iniziativa, giunta alla ventesima edizione, si svolgera' il prossimo 15 settembre in 88 localita' italiane, distribuite in 15 Regioni da Nord a Sud alle Isole. "L'occasione giusta per fare un bilancio, e per lanciare un messaggio alla societa'", spiega in una nota Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunita' Ebraiche Italiane, l'ente che coordina e promuove l'evento in Italia. "Al centro della Giornata, il concetto di conoscere - aggiunge la presidente - una cultura diversa dalla propria, attraverso la visita dei luoghi che connotano un differente vissuto religioso e culturale, ascoltando e partecipando alla narrazione di storie e tradizioni 'altre'. E proponendo un'idea di societa' inclusiva, accogliente, in cui la diversita' sia percepita come una ricchezza, in cui si accettano e valorizzano le differenze".
   Alla Giornata europea della cultura ebraica aderiscono quest'anno 34 Paesi europei, per una manifestazione ogni anno piu' ampia, e con numeri in costante crescita, a partire dall'Italia. "L'edizione italiana - sottolinea Di Segni - ha raggiunto in questi anni risultati importanti, con picchi di 50 mila presenze, che ne fanno una delle piu' riuscite d'Europa. Questo successo e' dovuto anche al fatto che la minoranza ebraica e' presente nel nostro Paese da oltre due millenni, e nei secoli si e' stratificato uno straordinario patrimonio storico, artistico, architettonico e archeologico, oltre ovviamente al patrimonio 'immateriale', fatto dell'eredita' culturale di grandi rabbini, pensatori e intellettuali che hanno tratto linfa dalla tradizione ebraica". La presidente ricorda che "ogni anno decine di migliaia di visitatori possono scoprire il nostro 'mondo', anche grazie a questa manifestazione di carattere europeo, completamente gratuita per il pubblico". La Giornata propone anche quest'anno centinaia di iniziative, tra visite guidate e incontri d'autore, proiezioni, concerti e spettacoli teatrali, degustazioni kasher e iniziative per i piu' piccoli, organizzate dalle Comunita' ebraiche in una virtuosa collaborazione con Enti locali, pro loco e associazioni attive sul territorio.
   "Oggi - conclude la presidente Ucei - gli ebrei italiani sono una minoranza viva e integrata, orgogliosa delle proprie radici e desiderosa di dare il proprio apporto in termini di valori e di contenuti. Ci auguriamo di poter rappresentare un valido punto di riferimento in materia di convivenza nella diversita', utile anche al processo di integrazione di altre minoranze, che deve essere basato sui diritti ma anche sui doveri nei confronti dello Stato e delle Istituzioni". Citta' capofila della manifestazione sara' quest'anno Parma, dove risiede una comunita' ebraica le cui origini risalgono al XIV secolo. Il titolo dell'edizione e' 'I sogni, una scala verso il cielo', che riecheggia un noto episodio della Genesi che ha per protagonista il patriarca Giacobbe. L'argomento si presta a molte letture da un punto di vista ebraico, a partire dagli episodi presenti nella Torah e nel Talmud, passando per la mistica ebraica, per la psicoanalisi di Sigmund Freud e fino al sogno millenario del popolo ebraico, quello di una patria, concretizzatosi nel 1948 con la fondazione dello stato d'Israele. La Giornata Europea della cultura ebraica gode del patrocinio del ministero dell'Istruzione, del ministero per i Beni e le Attivita' Culturali, del dipartimento per le Politiche Europee della presidenza del Consiglio dei ministri, dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani. E' inoltre riconosciuta dal Consiglio d'Europa.

(Shalom, 3 settembre 2019)


I missili di precisione degli Hezbollah adesso minacciano di colpire Israele

I raid di Gerusalemme per fermare le forniture di razzi dell'Iran alle milizie sciite libanesi. I nuovi razzi in mano al "partito di Dio" hanno un margine di errore di soli 10 metri.

di Giordano Stabile

Missili di Hezbollah puntati contro Israele
Israele si è esposta alla rappresaglia di Hezbollah e ha rischiato di innescare una guerra aperta, nonostante manchino due settimane alle elezioni e anche il fronte Sud sia in ebollizione. La decisione di Benjamin Netanyahu e del capo di Stato maggiore Aviv Kochavi si spiega con una parola: missili. Missili ad alta precisione che cominciano a preoccupare le forze armate. La situazione è stata riassunta con una battuta da un ufficiale: «Fra poco Hezbollah sarà in grado di recapitare un missile a un indirizzo preciso in tutta Israele». Questo perché l'ala militare del Partito di Dio sarebbe già in possesso di «alcune decine» di ordigni, «con un margine di errore di soli 10 metri», quindi in grado di colpire un edificio prescelto senza sbagliare.
   Il programma per trasformare l'arsenale di Hezbollah, fin qui imponente ma abbastanza rudimentale, va avanti secondo l'Intelligence israeliana dal 2013. Nello stesso anno sono cominciati i raid in Siria per colpire la catena di forniture che dall'Iran fa arrivare in Libano materiale, componenti e parti sofisticate. In sei anni di raid sono stati condotti oltre «200 attacchi», in gran parte proprio su convogli diretti a Hezbollah. Quest'estate la battaglia si è allargata a tutto il Medio Oriente. Da 19 luglio Israele ha colpito almeno quattro volte depositi delle milizie sciite in Iraq.
   Ma è stato nella notte fra sabato e domenica 25 agosto, che i vertici dello Stato ebraico hanno deciso di superare la «linea rossa» più rischiosa, con due droni lanciati da una nave verso Dahiyeh, la grande periferia sciita di Beirut. L'obiettivo del raid erano macchinari per il miscelamento di combustibile solido, una componente decisiva dei missili ad alta precisione. I macchinari erano in contenitori nascosti in un cortile dietro il centro media di Hezbollah. Nella stessa notte un altro raid ha ucciso due ufficiali della milizia libanese in Siria. Netanyahu sapeva che Hezbollah avrebbe reagito. Le sue «regole di ingaggio», in vigore dal 2006, lo prevedono. Ed era già successo dopo l'uccisione del comandante Imad Mughiyeh nel 2015 in Siria.
   Il leader israeliano sapeva però che il suo arcinemico Hassan Nasrallah non avrebbe calcato la mano. L'Iran è impegnato in un'offensiva diplomatica per far sospendere le sanzioni, con la mediazione francese, e ha ordinato a tutte le milizia di «frenarsi» in questa fase. Hezbollah, domenica, ha attaccato con razzi anti-tank un veicolo militare israeliano, ma era un veicolo esca, in gergo «decoy», con dentro dei fantocci e non soldati veri. Israele ha confermato che non ci sono stati feriti, anche se ieri la tv libanese Al-Manar, per ragioni di propaganda, ha insistito che sono stati colpiti alcuni militari, e ha mostrato le immagini dell'attacco, condotto con razzi Kornet di fabbricazione russa. Sempre ieri, però, Hezbollah ha comunicato al nemico, attraverso un canale neutrale, che «l'incidente è chiuso». Sia Netanyahu che Nasrallah possono per ora dirsi soddisfatti. Ma la battaglia attorno ai missili iraniani non è destinata a fermarsi qui.

(La Stampa, 3 settembre 2019)


L'Iran inguaia il Libano: investitori in fuga per paura di una guerra

Una guerra con Israele sarebbe una specie di Caporetto finanziaria per il Libano

di Maurizia De Groot Vos

L'ambizione iraniana di voler attaccare Israele usando vigliaccamente i proxy regionali, soprattutto Hezbollah, rischia di compromettere seriamente il futuro del Libano.
  A sostenerlo è l'agenzia Bloomberg la quale rivela che gli scontri scoppiati domenica scorsa tra Israele e Libano hanno preoccupato notevolmente gli investitori stranieri di cui Beirut ha tremendamente bisogno e dai quali dipende quasi totalmente.
  Ma non è solo Bloomberg a segnalare il pericolo. Ieri sera una nota di Moody's ha segnalato che l'escalation con Israele «aumenta l'esposizione al rischio geopolitico incorporata nel profilo creditizio del Libano già fortemente indebitato».
  «Lo scoppio della violenza transfrontaliera tra Israele e Hezbollah in violazione della risoluzione ONU 1701, danneggerà il già fragile stato dell'economia libanese» ha poi proseguito la nota della agenzia di rating. «Influirà negativamente sulla fiducia degli investitori e dei depositanti di valuta estera nel paese» ha affermato Moody's.
  Sotto accusa finisce Hezbollah che per obbedire agli ordini di Teheran rischia di trascinare il Paese in una guerra devastante che sotterrerà le già fragili possibilità di ripresa di quello che solo pochi anni fa veniva chiamato "la Svizzera del Medio Oriente".
  Anche il Fondo Monetario Internazionale (FMI) si è detto fortemente preoccupato. Un alto funzionario del FMI parlando a condizione di rimanere anonimo ha detto che «nonostante il Libano abbia sin qui rispettato tutti gli obblighi e le scadenze grazie soprattutto agli investimenti stranieri, in caso si un conflitto con Israele e della conseguente fuga degli investitoti stranieri rischia di collassare sotto un debito che al momento è pari al 180% del PIL».

 L'ambizione dell'Iran e di Hezbollah e le critiche in Libano
  Ieri il Governatore della Banca Centrale Libanese, Riad Salameh, ha cercato di tranquillizzare gli investitori stranieri allarmati da un possibile conflitto e dalle voci di un probabile ulteriore declassamento del Libano da parte di Fitch e di Standard & Poor's.
  «Oggi, la banca centrale ha concluso accordi di deposito con istituti privati non residenti, per cui nella seconda metà di agosto le nostre riserve sono aumentate di 1,4 miliardi di dollari raggiungendo quindi i 38,6 miliardi di dollari» ha detto Riad Salameh a Bloomberg. «Si tratta di denaro privato non residente e non di denaro del governo» ha poi aggiunto il Governatore della Banca Centrale del Libano cercando di evidenziare come le voci di una fuga degli investitori stranieri dal Libano non siano veritiere.
  Tuttavia è proprio Bloomberg ad evidenziare come i depositi stranieri segnalati dal Governatore della Banca Centrale libanese siano riferiti a prima degli scontri di domenica scorsa, mentre sin da ieri molti investitori stanno cercando precipitosamente di tornare in possesso del denaro investito in Libano.
  E nel Paese montano le critiche verso Hezbollah, che fa parte anche del Governo libanese. Il gruppo terrorista viene accusato, giustamente, di mettere in pericolo la già fragile economia del Paese per obbedire agli ordini di Teheran. È la prima volta che le critiche ad Hezbollah partono direttamente dall'interno del Libano.
  Domenica scorsa, mentre gli scontri tra Hezbollah e Israele erano ancora in corso, era stato il ministro degli Esteri del Bahrain, Khalid bin Ahmed Al Khalifa, ad accusare Hezbollah di mettere a rischio il Libano, seguito poi da diversi altri Paesi arabi. Al Khalifa ha accusato direttamente il Governo libanese di «permettere a Hezbollah di operare in territorio libanese per conto di Teheran» mettendo così a rischio tutta la popolazione e il futuro del Paese dei Cedri.

(Rights Reporters, 3 settembre 2019)


La fuga del judoka iraniano dal regime dagli ayatollah. ''Ho chiesto asilo a Berlino''

A Mollaei l'ordine di perdere per non combattere contro un israeliano. Lo sportivo ha denunciato la minaccia alla federazione internazionale

di Giulia Zonca

Saeid Mollaei
Il trillo del telefono come punto di non ritorno. Quando Saedi Mollaei ha sentito la suoneria, ha dato uno sguardo al tatami e capito tutto. Quello che era previsto e quello che nessuno si aspettava.
   Il judoka ha lasciato l'Iran, è un disertore, si dice così, anche se Mollaei è un uomo libero e triste che ha dovuto fare scelte complicate in un pomeriggio impossibile.
   La sua patria gli ha chiesto di perdere, di evitare la finale dei Mondiali di judo appena finiti in Giappone, perché l'avversario, praticamente certo, sarebbe stato un israeliano. Fino a qui è purtroppo abitudine, ma in questo preciso anno, in teoria, non doveva esserlo. Il 9 maggio la federazione internazionale ha ricevuto una lettera in cui lo sport iraniano si impegnava a rispettare qualsiasi avversario, a non discriminare o condizionare nessun atleta. Un documento preteso dopo decenni di sospetti e una carta a cui Mollaei aveva creduto. Si aspettava di giocarsi il titolo contro Sagi Muki, ma la sua federazione ha dato altre istruzioni: «Esci subito, dopo i preliminari, è la legge. Niente contatti con Israele, non puoi riconoscere il tuo avversario combattendo con lui». Se Mollaei fosse uscito di scena prima ancora di intuire gli incroci del tabellone nessuno avrebbe potuto costruire processi. Invece lui ha combattuto fino ai quarti, sperava di andare così vicino alla finale da obbligare i suoi a fare marcia indietro. Il disegno ormai sarebbe stato chiaro, il sospetto evidente, inutile rischiare sanzioni. Di nuovo Mollaei ha creduto nella logica. Poi è suonato il telefono ed ogni gesto fatto nei minuti successivi portava già alla decisione presa adesso: non tornare, denunciare, raccontare ogni dettaglio di quelle ore di panico, essere così preciso, lucido e coraggioso da costruire un caso. Cambiare la storia. Un judoka allena fisico e onore, sa quando cedere, conosce la via del riscatto.
   Al telefono c'era l'Iran, qualche funzionario contrariato passato dai consigli alle minacce. Ha risposto l'allenatore e passato le truci consegne: «Sono andati dalla tua famiglia, stanno lì: perdi». Neanche il tempo di esplicitare lo scenario e degli uomini dell'ambasciata iraniana, senza accrediti, sono arrivati fino all'area atleti del palazzetto. Hanno messo il campione all'angolo, parlato fitto fitto. Poi Mollaei ha consegnato il passaporto al tecnico. A metà tra l'ostaggio e il ribelle, si è giocato i quarti con la testa altrove. Non voleva nemmeno essere sconfitto, semplicemente non c'era più: «Solo il 10 per cento di me era presente». Eliminato. Solo che all'uscita non è rientrato negli spogliatoi, è andato dritto da Marius Vizer, presidente della federazione internazionale judo, a quel punto già allertato. Ha dato informazioni e chiesto protezione. Ha spezzato il circolo e ora chiederà asilo alla Germania, ha una fidanzata tedesca: «Non cerco elemosina, ho una casa. Voglio solo combattere». Lo sta facendo, il suo primo atto da ex iraniano è stato un messaggio Instagram: «Complimenti campione», postato sulla pagina di Muki, l'israeliano che ha vinto l'oro al Mondiale.
   Mollaei potrà andare ai Giochi del 2020 solo nella squadra rifugiati, senza bandiera. Il judo ha aperto una procedura disciplinare contro l'Iran che nega le minacce. Ma tutti hanno sentito il telefono squillare a ripetizioni, hanno visto gli uomini dell'ambasciata e ascoltato le parole di chi ha costruito, un minuto dopo l'altro, un precedente. Forse al prossimo incrocio il risultato non sarà così scontato.

(La Stampa, 3 settembre 2019)


L'amore (non corrisposto) degli ebrei per la sinistra

Le polemiche su Trump svelano il rapporto infelice tra «liberal» e mondo ebraico che li corteggia invano

Se Donald è vicino a Israele, per molti scatta il meccanismo di rifiuto: non è radical chic Clinton difendeva Israele, Obama ha iniziato una politica devastante filo iraniana

di Fiamma Nirenstein

Trump ha aperto una nuova questione ebraica, che si è affacciata col sapore di un frutto proibito già molte volte, ma non ha bruciato mai al calor bianco della politica americana: perché gli ebrei hanno una propensione verso la sinistra nonostante tutto l'antisemitismo travestito da "critica al sionismo" o allo Stato di Israele che essa ha dimostrato dal tempo dell'Unione Sovietica e anche da prima, quando i suoi maggiori teorici individuavano negli ebrei gli alfieri del capitalismo? Perché sono persino pronti a disprezzare, a mettere da parte senza riguardo la più evidente simpatia per Israele se viene da parte conservatrice?
   
L'ultimo esempio di questa situazione è noto: il 19 di agosto Israele ha rifiutato il permesso di entrare a una nuova eletta democratica del Congresso, Rashida Tllaib, di origine palestinese. La Tllaib insieme a un'altra nuova eletta democratica, Ilhan Omar, è un' esponente del movimento di boicottaggio di Israele. Dopo un primo diniego la Tllaib ha avuto il permesso di entrare in Israele, che lei chiama solo Palestina, a causa di una vecchia nonna che desiderava rivedere. La Tllaib prima ha annunciato che accettava e che non avrebbe predicato odio, poi, spinta da molti tweet e commenti, ha deciso per il gran rifiuto. Intanto il maremoto democratico ha spiaggiato ogni dubbio sulla effettiva opportunità di evitare, come hanno fatto a volte altri Paesi giudicati con un metro normale, che venga in visita qualcuno che predica la tua distruzione; invece si sono udite, a destra e a sinistra, molte esclamazioni di biasimo contro Israele.
   
E la comunità ebraica americana per la maggioranza si è unita al coro nonostante l'atteggiamento iperamichevole del presidente ... è su questo "nonostante" che Trump ha basato la sua critica al mondo ebraico di sinistra. Ma come? Gli ha detto. Ho riconosciuto Gerusalemme come capitale, il Golan come parte di Israele, ho tagliato i fondi che i Palestinesi usano per stipendiare i terroristi e le loro famiglie, ho tagliato i soldi dell'Unrwa che conserva a fini aggressivi i profughi palestinesi, ho abolito il trattato con
Chi coltiva il pensiero conservatore, ancorché liberal, è in minoranza. L'identità ebraica contemporanea è costruita oggi su due pilastri culturali: la memoria della Shoah, e una complessa visione del ruolo spirituale dell'ebraismo identificabile come tikkun olam<./i>
l'Iran ... mia figlia è ebrea, mio cognato e i miei nipoti pure ... chi è coi democratici o è stupido o non è leale. Qui proprio gli ebrei, che sono per la maggioranza democratici, fra cui l'organizzazione Aipac, la maggiore, hanno sollevato l'accusa più cretina, quella che ricordando il tema della lealtà Trump abbia dimostrato di essere antisemita. Lui si è anche scomodato a rispondere che parlava di tradimento verso Israele, non verso gli Usa. Trump ha commesso un errore notevole: ha ignorato che fra i dieci comandamenti dettati sul Sinai, c'è per gli ebrei anche quello di essere oggi di sinistra. C'è in Europa e c'è anche negli Usa. Chi coltiva il pensiero conservatore, ancorché liberal, come la sottoscritta che non è religiosa ma fortemente ebrea e anche israeliana, è in minoranza. L'identità ebraica contemporanea è costruita oggi su due pilastri culturali: la memoria della Shoah, e una complessa visione del ruolo spirituale dell'ebraismo, che io, per ignorante brevità, identificherò qui col tikkun olam, la cura, il miglioramento, la salvazione del mondo.
   
Dopo la Shoah gli ebrei hanno molto facilmente identificato il peggiore dei loro nemici di sempre nel nazifascismo, come di fatto è stato. Questo li ha condotti a cercare una casa ideale nella sinistra e nella sua cultura, nuotando contro le evidenti correnti antagoniste cui la storia li ha costretti con l'atteggiamento della sinistra comunista antisemita e omicida, come quella dell'Urss. Non è valso a risvegliare gli ebrei la persecuzione comunista degli ebrei, accusati di tradimento, egoismo, di essere alieni al loro Paese e alla classe operaia (il processo orribile del 1952 in Cecoslovacchia la racconta tutta «I sionisti sono rappresentanti di un movimento ebraico reazionario e shovinista opposto alla causa del progresso ... »). La radice era profonda: Marx chiamava gli ebrei un'escrescenza del capitalismo, e la critica marxista al sionismo ha poi seguito questa strada. Il sionismo, anche se molti anche oggi lo vogliono leggere separato dall'ebraismo, ne è una parte, e basta. Ma per Karl Kautzky fra i molti, era una deviazione nazionalista, e lo ripete Isaac Deutscher. È un'odiosa forma di nazionalismo, derivante da un arcaismo destinato a sparire: l'ebraismo stesso. Esso sarà assorbito dal socialismo internazionale. Furono sempre ebrei comunisti o socialisti quelli che guidarono la polemica contro il Bund e il rifiuto di ogni etnicità ebraica.
   La leadership sionista fondatrice di Israele si fece, per così dire, perdonare la "deviazione" del conflitto con gli arabi accentuando i motivi socialisti, e quindi l'elemento etico salvifico dalle accuse di colpe capitaliste, imperialiste, colonialiste. Come si vede dallo scatenamento furioso della sinistra contro Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni nel '67 non ha funzionato, come ancora non funziona oggi: volente o nolente, in un mondo diviso a metà fra Yankee e Sovietici, Israele si è trovata buttata dalla parte destra. E gli ebrei hanno seguitato, in gran parte, a barcamenarsi, a cercare un approdo dall'altra parte al loro incredibile (con quello che avevano subito, con quante guerre gli arabi gli avevano imposto!!) senso di colpa.
   
Come operare il tikkun olam; di fronte al cui altare ogni ebreo per bene deve pregare, quando Trump è al governo? Se è lui che accomoda le cose? Bisogna rifiutarlo! Bisogna stare dalla parte dei poveri, dei senza patria, dei viandanti in cerca di rifugio. Una vastissima letteratura è costruita su questa pietra angolare: ricordiamoci Woody Allen, Philip Roth, ricordiamoci Natalia Ginzburg che scriveva che lei preferiva gli ebrei curvi ai sabra abbronzati, senza curarsi se quelli, coi loro bambini furono trascinati ai forni.
   
Ora: gli ebrei americani di sinistra, ovvero i democratici, storicamente sono stati diversi fino a Clinton compreso. Avranno forse avuto una passione un po' cieca per i processi di pace anche quando erano impossibili, ma la sinistra americana non è mai stata socialista se non in porzioni omeopatiche. Ma con Obama è cambiato tutto. Il senso di colpa degli ebrei democratici si è autoalimentato tramite l'immenso
Obama ha trasformato l'orgoglio americano in un persistente senso di colpa che andò a coniugarsi con la colpa europea per il passato coloniale, la simpatia per gli immigrati, la passione per le culture "altre".
processo di contrizione culturale che ha investito il loro Paese di fronte al totem di un presidente nero, finalmente; l'industria culturale e dell'informazione, Hollywood, le Università sono andate a braccetto con l'Unione Europea, l'Onu e tutte le organizzazioni derivate. Invece di lodare la capacità degli ebrei di salvarsi e progettare un nuovo futuro tramite il loro Stato ritrovato dopo un millennio di fedeltà, gli hanno appiccicato tutte le etichette del biasimo di sinistra. Obama ha trasformato l'orgoglio americano in un persistente senso di colpa che andò a coniugarsi felicemente con la colpa europea per il passato coloniale, la simpatia per gli immigrati, la passione per le culture "altre". E si fissò sui "territori", per altro "disputati" secondo la dizione dell'Onu. Come San Francesco, Obama ha cercato di ammansire il lupo Iran, impipandosene della sua conclamata aspirazione genocida antisemita. Obama ha chiamato tutta l'élite democratica ad allinearsi all'idea che Israele porta la maggiore responsabilità del conflitto Mediorientale, a non vedere che a metterne in discussione la politica si finisce in maniera incurante con il metterne in discussione l'esistenza: il partito Democratico non è certo più quello per cui, quando Arafat a Camp David disse a Clinton che tutti sanno che gli ebrei non sono mai stati sul Monte del Tempio, alias Spianata delle Moschee, Clinton minacciò di uscire dalla stanza.
   
Con Obama c'è stata la svolta, l'antisemitismo è diventato israelofobia sotto i suoi occhi distratti. E stata una svolta un poco come in Italia quando Berlinguer pose al centro la "questione morale" ipotizzando implicitamente che i depositari dell'etica umana fossero gli uomini di sinistra. Obama ha posto al centro la questione ebraica come critica a Israele e ora Trump ne subisce le conseguenze: ormai non si è democratici nonostante la critica a Israele, lo si è solo con, come in Europa si è di sinistra solo con la critica a Israele, con il disprezzo e la maldicenza verso Netanyahu. «Oppressione» è la parola chiave, «l'ìntersezionalità» per cui i neri, gli omosessuali, i transgender, le donne, i popoli del terzo mondo, i mussulmani, diventano i protagonisti dell'era in corso e delle sue magnifiche sorti e progressivo è il motore sempre a tutta birra. Qualche giorno fa, per Tisha be Av il giorno in cui si ricorda la caduta del Tempio per mano romana nel 70 d.C., un bravo maestro durante una lezione che frequentavo ha chiesto, lavorando sui testi ebraici antichi, se non si dovrebbe piantarla di piangere sulla conquista romana e la distruzione ora che Gerusalemme è nostra. La risposta di un gruppo nutrito di scolari di buon livello è stata che è necessario seguitare a ricordare, perché i guai per cui l'uomo deve lavorare per il bene devono ancora essere da lui affrontati e rimediati. Insomma, Trump, tu riconosci pure Gerusalemme, gli ebrei sono impegnati nel Tikkun Olam, e non ci distrarre.

(il Giornale, 3 settembre 2019)


Honduras: aperto ufficio diplomatico a Gerusalemme

L'Honduras ha aperto ieri un ufficio diplomatico a Gerusalemme. All'inaugurazione erano presenti il presidente Juan Orlando Hernandez e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Hernandez, in precedenza, aveva spiegato che l'ufficio sarebbe servito come "estensione" dell'ambasciata honduregna. L'ambasciata dell'Honduras si trova attualmente a Rishon LeZion vicino a Tel Aviv.

(Shalom, 2 settembre 2019)


A un passo dalla guerra. L'Iran ordina, Hezbollah esegue, Israele si difende

È vergognoso il silenzio della comunità internazionale sulle palesi intenzioni iraniane nei confronti di Israele. L'attacco portato ieri da Hezbollah contro lo Stato Ebraico è stato solo l'antipasto di una guerra a lungo annunciata e ormai solo ad un passo.

di Franco Londei

L'attacco portato ieri da Hezbollah contro una base militare delle IDF nel nord di Israele ha portato la regione sull'orlo di una guerra devastante.
Solo uno stratagemma israeliano che ha fatto credere ai terroristi libanesi di aver colpito alcuni soldati israeliani, e quindi di aver raggiunto l'obiettivo, ha evitato che la situazione degenerasse.
Inutile negare però che il problema è solo rimandato. Non si tratta di capire se ci sarà una guerra tra Hezbollah (e quindi l'Iran) e Israele, si tratta di capire solo quando ci sarà.
Sono anni che a Teheran si preparano per questa guerra, anni che gli iraniani collocano pazientemente (e sapientemente) le loro pedine attorno allo Stato Ebraico nel tentativo di prenderlo in una morsa mortale.
Israele si difende come può per evitare l'accerchiamento. Raid difensivi per evitare che armi avanzate vengano consegnate a Hezbollah, azioni segrete in Siria, in Libano e persino in Iraq. Ma soprattutto, tanta, tanta intelligence.
L'instabilità politica che sta vivendo lo Stato Ebraico non aiuta certamente a risolvere il problema. Se ieri non c'è stata una massiccia risposta israeliana è solo perché fino al prossimo 17 settembre, quando cioè in Israele si terranno nuove elezioni, a Gerusalemme non c'è un Governo in grado di innescare un conflitto su larga scala.
O meglio, è preferibile evitarlo perché per affrontare un conflitto di quel genere è bene avere un governo pienamente in carica e con pieni poteri decisionali.
Lo sanno benissimo a Teheran, sanno che il loro tempo sta per scadere. Sanno che quando e se a Gerusalemme ci sarà un governo legittimato a prendere gravi decisioni, per loro la situazione si farà difficile.
Per ora Israele continua a difendersi, a compiere solo quelle azioni strettamente necessarie a non concedere ai nemici un vantaggio strategico importante.
Ma quando la situazione politica si sarà chiarita la musica cambierà. Perché, se c'è una cosa certa, questa è l'intenzione iraniana di attaccare Israele su più fronti. Gli Ayatollah lo hanno detto in più di una occasione e si muovono indubitabilmente in tal senso.
Stupisce piuttosto che vi siano paesi occidentali che, nonostante le intenzioni iraniane siano più che chiare, fanno di tutto per favorire Teheran. Fanno finta di non vedere quello che l'Iran sta preparando per Israele. E questo è davvero grave.
Le prossime due settimane saranno giornate di fuoco. L'intelligence israeliana prevede il moltiplicarsi degli attacchi prima delle elezioni del 17 settembre.
E non solo attacchi a nord, ma anche attacchi dal fronte di Gaza dove Hamas ormai ha giurato fedeltà a Teheran. Una fedeltà che frutta al gruppo terrorista che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza qualcosa come 36 milioni di dollari al mese, armi e missili.
Non ci si può più nascondere dietro a un dito come sta facendo vergognosamente la comunità internazionale. La guerra è a un passo. Un guerra che Israele non vorrebbe ma che oggettivamente non può evitare se vuole sopravvivere. Perché è la sopravvivenza di Israele ad essere in pericolo.
È questo che forse non viene percepito nelle cancellerie occidentali, è questo che sfugge nel sottovalutare la gravità del momento.
Da un lato c'è un Paese, l'Iran, che da anni sta preparando l'attacco allo Stato Ebraico che, dall'altro lato, ha il diritto e il dovere di difendersi. Non può non essere chiaro questo concetto.
E spero che sia chiaro quando finalmente Israele deciderà che non potendo più permettere all'Iran di posizionare le sue pedine passerà all'azione. Si chiama legittima difesa.

(Rights Reporters, 2 settembre 2019)


Incontro tra Cassis e il ministro degli esteri di Israele

Il capo del DFAE ha ricordato a Katz la posizione di Berna sulla questione mediorientale

 
(da sin.) Israel Katz e Ignazio Cassis
LUCERNA - Il ministro degli esteri elvetico Ignazio Cassis ha incontrato oggi a Lucerna il suo omologo israeliano Israel Katz, a margine dei festeggiamenti per il 70esimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra i due paesi. I due hanno evocato diverse tematiche bilaterali.
In particolare è stata sollevata la questione della stretta cooperazione nel settore che riunisce la scienza alla diplomazia, come nel progetto in corso di centro di ricerca transnazionale ad Aqaba, con l'obiettivo di proteggere i coralli del Mar Rosso, precisa una nota del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE).
Cassis ha ricordato a Katz la posizione di Berna sulla questione mediorientale, invitando tutte le parti alla de-escalation, dopo le recenti violenze alla frontiera tra Israele e Libano. Il capo del DFAE ha inoltre deplorato la decisione unilaterale del governo israeliano di non rinnovare il mandato del TIPH (Temporary International Presence in the City of Hebron), una missione di osservazione civile in Cisgiordania, dopo il 31 gennaio 2019. Si è detto inoltre preoccupato per la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza.
In futuro la Svizzera intende esplorare nuove strade come la creazione di impieghi per i giovani palestinesi, quale complemento ai settori tradizionali del suo impegno nella regione, annuncia il DFAE. Domani Katz sarà ricevuto dal presidente della Confederazione, Ueli Maurer.
La Svizzera ha riconosciuto lo Stato di Israele nel 1949. Settant'anni dopo, le relazioni tra i due Paesi sono buone e diversificate, secondo il DFAE. Oltre 20'000 cittadini svizzeri vivono in Israele, dove formano la più grande comunità elvetica del Medio Oriente, ha ricordato Cassis a Lucerna.

(tio.ch, 2 settembre 2019)


Israele "pronto a ogni scenario"

Tensione alta, ma stabile, al confine tra Israele e Libano. Anche in considerazione delle imminenti elezioni l'ipotesi bellica resta in un angolo. Ma, a detta degli analisti, anche tenendo conto del fatto che Hezbollah potrebbe persistere con azioni aggressive, non è comunque del tutto da scartare. "Siamo stati attaccati con alcuni razzi anticarro, abbiamo reagito sparando 100 proiettili di artiglieria, con attacchi aerei e con altri mezzi. Sulla base degli sviluppi decideremo il da farsi" ha detto ieri il Premier Benjamin Netanyahu, commentando gli sviluppi di una giornata che, per alcune ore, ha fatto temere per il peggio. "Nessuna vittima e nessun ferito" ha poi sottolineato, smentendo false notizie fatte circolare dal gruppo terroristico in seguito all'attacco missilistico compiuto.
   "Tutti coloro che cercano di farci del male - la riflessione del Capo dello Stato Reuven Rivlin - dovrebbero sapere che siamo pronti e disposti a difendere i cittadini di Israele ovunque si trovino, senza esitazioni. Siamo preparati e preferiremmo non mostrare quanto lo siamo. Il confine può essere tranquillo solo da entrambi i lati". Significativo al riguardo l'incontro avvenuto a Tel Aviv tra il comandante dell'esercito israeliano Aviv Kohavi e il generale Stefano Del Col, che dall'agosto del 2018 guida la missione Unifil in Libano. Nell'occasione Kohavi ha chiesto all'Unifil e al governo libanese il massimo sforzo per arginare l'influenza iraniana nella regione, ritenendo quanto avvenuto nella giornata di domenica un fatto di estrema gravità. "L'esercito - ha poi aggiunto - è pronto per qualsiasi scenario".
   Per il momento alla tempesta segue una calma apparente. E così a far parlare, in Israele, sono adesso soprattutto questioni di politica interna. A due settimane dal voto da segnalare le parole del principale sfidante di Netanyahu, Benny Gantz, che ha smentito l'ipotesi di un possibile governo allargato con la presenza al fianco sua e del premier uscente. "Con tre o quattro procedimenti giudiziari a suo carico - ha detto Gantz - Netanyahu non può fare il primo ministro".
   Un altro caso sembra intanto destinato ad infiammare l'opinione pubblica. La Corte internazionale di giustizia dell'Aja sembra infatti intenzionata ad approfondire nuovamente i fatti della Mavi Marmara, che nel 2010 portarono all'apertura di una crisi mai risolta tra Israele e Turchia.

(moked, 2 settembre 2019)


Alta tensione dopo i missili tra Hezbollah e Israele

Israele promette che il Libano pagherà un caro prezzo. Da Beirut si chiede l'intervento di Francia e Stati Uniti. La tensione è sempre più alta al confine tra i due Paesi. Hezbollah ha lanciato missili anticarro contro una base militare israeliana nei pressi della caserma di Avivim (nel nord di Israele), rivendicando di aver distrutto un veicolo militare e di aver ucciso e ferito gli occupanti. Israele ha risposto lanciando 40 razzi secondo fonti libanesi, un centinaio secondo i militari dello Stato ebraico, sui dintorni del villaggio di Maroun al Ras, Aitaroun e Yaroun, all'interno del distretto di Bint Jbeil. I residenti dei villaggi israeliani nel nord sono stati invitati dall'esercito a rifu\giarsi nei bunker sotterranei.
   «Il Libano pagherà un caro prezzo», ha dichiarato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, prima di entrare in una riunione d'emergenza con i vertici dell'Esercito, durante il quale si è immediatamente deciso di procedere coi bombardamenti, mentre il primo ministro libanese, Saad Haririi, ha chiesto l' «intervento» del presidente francese, Emanuel Macron, e del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, e ha allertato il capo delle Forze armate libanesi, Joseph Aoun. I bombardamenti israeliani sono iniziati un'ora dopo il lancio di un missile anticarro rivendicato dall'unità Hassan Zabeeb e Yasser Daher, facente capo a Hezbollah, e che avrebbe ferito quattro soldati israeliani. Secondo l'esercito israeliano sono stati invece lanciati più missili ma non ci sono stati feriti. Hezbollah attraverso la sua emittente Al Manar sostiene che tra i militari israeliani ci sarebbero anche dei morti, che la leadership del movimento sciita fa sapere essere «una rappresaglia per i nostri due martiri uccisi in Siria» (pochi giorni fa, ndr), aggiungendo poi che «il conto delle azioni coi droni sarà pagato da Israele separatamente».
   Ieri mattina un drone israeliano ha rilasciato alcuni ordigni nei pressi di un'area boschiva a Bastara, a ridosso delle Shebaa Farms, nel sud del Libano, costringendo alcuni residenti ad evacuare l'area. La scorsa settimana Israele ha colpito alcuni obiettivi iraniani utilizzando proprio dei velivoli senza pilota in Irak, in Siria e in Libano. Nel Paese dei cedri lo scorso 25 agosto due droni sono arrivati nella periferia sud di Beirut - dove Hezbollah ha la sua «roccaforte» cittadina-, nel primo caso colpendo l'edificio in cui ha sede l'Unità di comunicazione del partito sciita filo iraniano e nel secondo precipitando al suolo.

(il Giornale, 2 settembre 2019)


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L'Iran trascina il Libano allo scontro contro gli israeliani

Verso la guerra per colpa di Hezbollah

Le manovre dell'Iran hanno trascinato il Libano allo scontro con Israele. Tensione altissima al confine tra i due Paesi. Hezbollah, il gruppo terrorista libanese creato e finanziato da Teheran, ha lanciato missili anticarro contro una base militare israeliana nei pressi della caserma di Avivim (nel nord di Israele), rivendicando di aver distrutto un veicolo veicolo militare e di aver ucciso e ferito gli occupanti.
   Israele ha risposto lanciando 40 razzi secondo fonti libanesi, un centinaio secondo i militari dello Stato ebraico, sui dintorni del villaggio di Maroun al Ras, Aitaroun e Y aroun, all'interno del distretto di Bint Ibeìl. I residenti dei villaggi israeliani nel nord sono stati invitati dall'esercito a rifugiarsi nei bunker sotterranei. «Il Libano pagherà un caro prezzo», ha dichiarato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, prima di entrare in una riunione d'emergenza con i vertici dell'Esercito, durante il quale si è immediatamente deciso di procedere coi bombardamenti. Il primo ministro libanese, Saad Haririi, ha chiesto l'intervento del presidente francese, Emmanuel Macron, e del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, e ha allertato il capo delle Forze annate, Joseph Aoun.
   I bombardamenti israeliani sono iniziati un'ora dopo il lancio di un missile anticarro rivendicato dall'unità Hassan Zabeeb e Yasser Daher, facente capo a Hezbollah, e che avrebbe ferito quattro soldati israeliani. Secondo le Idf sono stati invece lanciati più missili ma non ci sono stati feriti.
   Hezbollah attraverso la sua emittente Al Manar sostiene che tra i militari israeliani ci sarebbero anche dei morti, che la leadership del movimento sciita fa sapere essere «una rappresaglia per i nostri due martiri uccisi in Siria» (pochi giorni fa, ndr), aggiungendo poi che «il conto delle azioni coi droni sarà pagato da Israele separatamente».

(Libero, 2 settembre 2019)


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Israele-Libano, la frontiera torna prima linea

di Davide Frattini

La rappresaglia non è stata una sorpresa, la propaganda di Hezbollah aveva perfino indicato il giorno: domenica. Alle cinque del pomeriggio i missili hanno bersagliato la base militare israeliana al confine con il Libano. I razzi anticarro hanno centrato un veicolo, i militari a bordo sono riusciti a saltare poco prima, i soldati erano in stato di allerta da una settimana. Non ci sarebbero vittime neppure nelle altre esplosioni che avrebbero colpito alcuni edifici. Tsahal ha risposto bombardando con l'artiglieria la zona da dove è partito l'attacco, il fumo che si alza dai campi incendiati come in un giorno di guerra. Era dal 2015 che la frontiera tra i due Paesi non si trasformava in prima linea, anche allora dopo il raid orchestrato da Hezbollah - due militari morti - per vendicare l'uccisione di un loro comandante. Hassan Nasrallah, leader dell'organizzazione sciita filo-iraniana, dimostra così ai suoi sostenitori di saper mantenere le minacce e - per ora - sembra aver evitato il conflitto allargato (che non vuole). Il premier Benjamin Netanyahu è impegnato nella campagna elettorale - gli israeliani votano il 17 settembre - e anche lui non ha interesse a dare il via allo scontro totale. Quella che non si ferma è la guerra tra le guerre, come la chiamano i generali israeliani: lo Stato ebraico vuole impedire all'Iran e alle forze pilotate da Teheran (come Hezbollah) di irrobustirsi troppo. Così, la settimana scorsa, due droni sono stati telecomandati sopra Beirut e avrebbero distrutto l'apparecchiatura per produrre un componente essenziale dei missili balistici di precisione. Un pezzo unico da otto tonnellate, trasferito - secondo l'intelligence israeliana - dai pasdaran a Hezbollah. E stata questa perdita strategica a determinare la reazione ordinata da Nasrallah. Assieme alla necessità di ripagare l'umiliazione di un'operazione israeliana dentro quella che considera la sua roccaforte nei quartieri a sud della capitale libanese.

(Corriere della Sera, 2 settembre 2019)


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Missili degli Hezbollah su Israele. Colpita base al confine col libano

L'esercito israeliano ha risposto con colpi di mortaio sulle milizie sciite Il premier Netanyahu: "Non ci sono feriti, soltanto danni materìalì". Il leader libanese Hariri chiede la mediazione di Francia e Usa.

di Rolla Scolari

Era da oltre una settimana che saliva la tensione e Israele temeva un attacco lungo il suo confine settentrionale, tanto che da giorni l'esercito ha rafforzato la sua presenza lungo quell'instabile frontiera. La comunità rurale di Avivim è a meno di un chilometro dalla «Linea Blu» di demarcazione tra Israele e Libano. Lì si trova anche il quartier generale di un battaglione dell'esercito. Alcuni missili anti-carro sparati dal vicino Libano hanno colpito ieri pomeriggio quella base e un'ambulanza militare, causando danni ma non vittime, ha fatto sapere un portavoce dell'esercito. Nelle comunità del Nord di Israele sono stati aperti i rifugi anti-missile, chiuse alcune strade e arrestate le attività agricole lungo la frontiera.
   Dall'altra parte del confine, Hezbollah, le milizie sciite libanesi sostenute dall'Iran, hanno rivendicato l'azione, ed emittenti televisive libanesi hanno parlato di un attacco che avrebbe causato morti e feriti. «Non ci sono feriti israeliani, neppure un graffio», ha scritto su Twitter il premier Benjamin Netanyahu, che tra 16 giorni affronta l'elezione più complicata della sua lunga carriera politica. «Un nuovo impero è sorto, il suo obiettivo è sconfiggerci», ha detto di quello che da sempre considera il nemico numero uno: l'Iran che attraverso Hezbollah minaccia Israele per procura, e che dopo anni di conflitto si è radicato militarmente anche nella vicina Siria.
   Proprio un raid di Hezbollah portato a termine con missili anti-carro contro due veicoli blindati in pattuglia lungo la frontiera con il Libano - e in cui morirono tre soldati - segnò nel 2006 l'inizio di 34 giorni di guerra. In risposta all'attacco di ieri, l'esercito israeliano ha sparato oltre 40 colpi di mortaio sul Libano meridionale. In serata, però, la calma sembrava essere tornata nell'area.
   Il premier libanese Saad Hariri ha telefonato in giornata al segretario di Stato americano Mike Pompeo e a un consigliere del leader francese Emmanuel Macron per spingerli a stemperare le tensioni, che montano da una settimana.
   Lo stesso leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva promesso vendetta in seguito a un presunto recente attacco israeliano, condotto da droni, che avrebbe distrutto nei sobborghi meridionali di Beirut, roccaforte delle milizie sciite, una tecnologia in grado di aumentare la precisione dei missili. Pochi giorni prima, in una rara ammissione di un'azione contro obiettivi iraniani in Siria, Israele ha rivelato d'aver inoltre colpito una cellula intenta a organizzare un attacco con droni contro il suo territorio. Nel raid sarebbero morti due operativi di Hezbollah e un iraniano.
   Durante la guerra civile in Siria, sono stati attribuiti a Israele diversi attacchi contro obiettivi iraniani - spesso per impedire il passaggio di armi da Teheran a Hezbollah - , e a gennaio per la prima volta lo stesso Netanyahu ha ammesso alcune operazioni. Secondo indiscrezioni riportate dal New York Times, i raid israeliani si sarebbero recentemente estesi anche a obiettivi legati all'Iran in Iraq.

(La Stampa, 2 settembre 2019)


All'incrocio della storia

Mehta e la Israel Philharmonic nel segno del meticciato, un amore che dura da 50 anni Il grande direttore indiano apre il 3 e il 4 a Milano e Torino il Festival MiTo con la «sua» orchestra, straordinario esempio di convivenza in nome della musica.

di Valerio Cappelli

 
Il maestro Zubin Mehta
Una mappa geografica delle emozioni, di mondi che si incontrano, di identità culturali e appartenenze: quest'anno il tema di MiTo, trova il suo zenith carico di simbologie ai concerti inaugurali del 3 e 4 settembre con Zubin Mehta alla guida della Israel Philharmonic Orchestra (ISO), per la Sinfonia Fantastica di Berlioz e per il Concerto n 2 di Beethoven con Martha Argerich al piano.
   Ultima tappa italiana della tournée con cui il maestro indiano concluderà una storia d'amore cominciata, da direttore musicale, nel 1977 - ma è direttore onorario a vita-, e come consigliere musicale nel 1969, 50 anni fa.
   In uno dei suoi primi concerti con la Israel, Mehta volle proporre un repertorio che non faceva parte dell'orchestra, i Sei pezzi per orchestra di Webern e la Nona di Bruckner. «A quel tempo - ha detto Mehta - avevo una mentalità profondamente apolitica, e non ero veramente consapevole della particolare situazione di Israele. Inoltre gli unici ebrei che conoscevo erano dei miei compagni di scuola, ma erano originari dell'Iraq e non ci capivamo molto, perché parlavano arabo».
   Ci sono già i primi semi del meticciato culturale. Israele, Iraq, India. E Italia. Infatti, il primo concerto della Filarmonica di Israele fu diretto, il 26 dicembre 1936, da Arturo Toscanini. Accettò a due condizioni: sarebbe andato a Tel Aviv a sue spese, e senza percepire alcun cachet. Era stato invitato dal violinista Bronislaw Huberman, una sorta di Oscar Schindler della musica: salvò molti musicisti di fede ebraica dalla morte nei lager nazisti. Li convinse a trasferirsi nella Terra dei padri, fu lui a fondare la ISO, che allora si chiamava Orchestra di Palestina - divenne Filarmonica di Israele dopo l'indipendenza del 1948. Le principali lingue di quei 75 musicisti ebrei erano il tedesco, il polacco, l'ungherese, il russo e per una piccola parte l'ebraico.
   Albert Einstein, amico di Huberman, ebbe un ruolo attivo nella creazione dell'Orchestra; dagli Stati Uniti dove era esule, scrisse una lettera a Toscanini (che avrebbe annullato le sue presenze a Bayreuth): «Sento il dovere di dirle quanto la ammiri e la veneri... L'esistenza di un simile contemporaneo cancella molte delle delusioni, che si devono continuamente subire da parte delle specie minorum gentium».
   Negli scorsi decenni l'Orchestra si è alimentata dell'ondata migratoria dai paesi dell'Est, soprattutto dalla Russia. Oggi tra le sue fila si trovano, più numerosi, musicisti nativi di Israele, e molti americani e sudamericani.
   L'oboista Bruce Weinstein viene da New York, il contrabbassista Carol Patterson da Toronto, la violinista Sivan Maayani da Londra, mentre il primo violino Yigal Tuneh è nato in Israele. Sotto la stessa casa convivono pacifisti e ortodossi di destra. L'orchestra tiene 150 concerti l'anno, in ogni angolo del paese: nei kibbutz, a Cesarea nell'anfiteatro romano costruito durante il governo di Erode, a Masada, il luogo della resistenza all'esercito romano, dove il celebre violinista Isaac Stern arrivò a indossare durante la guerra del Golfo la maschera antigas.
   Il cuore dell'attività è all'Auditorium Charles Bronfman, un uomo d'affari il cui nome campeggerà sulla facciata per altri 4 7 anni perché ha donato una cifra enorme all'Orchestra, che viene tenuta segreta. Prima di lui, l'Auditorium si chiamava Fredric Mann, altro benefattore, fu lui a porre fine ai primi 21 anni itineranti della ISO, dando una casa permanente.
   Dallo Stato arriva il 10% dei 23 milioni di budget, il resto da sponsor, privati (40%) e botteghino (50%). Per questo motivo i biglietti sono cari: in media 80 euro. I soldati in uniforme (il servizio militare obbligatorio è di tre anni per gli uomini e di due per le donne) entrano gratuitamente; molti solisti, nella storia della ISO, si sono esibiti senza cachet, da Arthur Rubinstein a Henrik Szering e Itzhak , fino ai nomi di oggi, Yefim Bronfman, Shlomo Mintz, Gil Shaham.
   Senza dimenticare Leonard Bernstein (che diresse 318 concerti della IPO), tante cose oggi rimandano a Zubin Mehta, perfino sul podio compare il suo nome. Il suo rapporto con l'Orchestra cominciò quando si mise a disposizione per sostituire l'austriaco naturalizzato Usa Erieh Leinsdorf, che durante la guerra dei Sei giorni diede forfait e fuggì da Israele. Mehta si trovava a Porto Rico per il Festival Pablo Casals. «Capii che dovevo subito tornare in Israele. All'interno dell'aereo non si stava comodi. Prima dell'atterraggio venni a sapere che ero seduto su un sedile contenente una cassa di munizioni. L'intero apparecchio ne era zeppo».

(Corriere della Sera, 2 settembre 2019)


Lonah Chemtai, dal Kenya a Israele per vincere

Israele nello sport è a tutti gli effetti una nazione europea. A livello Continentale non aveva però mai vinto una medaglia nell'atletica. Lo ha fatto a Berlino all'Europeo dell'agosto 2018. Lonah Chemtai Salpeter ha conquistato l'oro nei 10.000 metri.
Lonah Chemtai è nata in Kenya nel 1988. Fa parte del ceppo etnico dei Kalenjin e durante l'infanzia viveva in un piccolo villaggio nella Contea del Pokot Occidentale. Conduceva una vita semplice, senza elettricità o acqua corrente. Correre, per i Kalenjin, è il modo più pratico per coprire le grandi distanze che separano i villaggi.
Nel 2008 Chemtai ebbe l'occasione di trasferirsi in Israele. La moglie dell'Ambasciatore del Kenya in Israele aveva bisogno di una baby sitter.
La sua vita cambiò definitivamente tre anni dopo. Iniziò infatti ad allenarsi con un ex mezzofondista di nome Dan Salpeter. Tempo altri tre anni, i due si erano sposati ed era nato il piccolo Roy.
Salpeter convinse Lonah a dedicarsi più al fondo che al mezzofondo. Quando nel marzo del 2016 Chemtai ricevette il passaporto israeliano, il marito si rese conto che aveva il potenziale per ottenere il tempo per partecipare alla Maratona dei Giochi di Rio de Janeiro.
Chemtai in effetti ottenne il tempo durante la Maratona di Tel Aviv. La gara Olimpica però non andò come Lonah avrebbe voluto. Dopo 33 chilometri fu costretta al ritiro per un problema alla spalla, la cui causa la rese famosa in tutto il mondo: "Sto allattando mio figlio, la spalla si indolenzisce perché corro con il seno pieno di latte".
Chemtai promise che avrebbe ripagato Israele della fiducia e così è stato. Dopo aver partecipato al Mondiale di maratona a Londra (quarantunesimo posto) nel 2017, nel 2018 ha conquistato l'oro a Berlino e ha vinto la Maratona di Firenze. In questo 2019 si è imposta alla Mezza Maratona Roma-Ostia, ha vinto la Maratona di Praga e si è piazzata seconda alla Coppa Europa sui 10.000 metri. Nell'occasione ha stabilito il record d'Israele sulla distanza con 31 minuti, 15 secondi e 78 centesimi.

(Top Sport, 2 settembre 2019)


I cinque fronti d'Israele (e non solo)

I leader del G7 dovrebbero ricordare che ciò che inizia come un attacco a Israele finisce sempre per diffondersi altrove, se i terroristi si sentono incoraggiati dall'inerzia internazionale.

Un ufficiale israeliano ha parlato la scorsa settimana di un conflitto su cinque fronti. Li ho contati: Libano, Siria, Gaza, Cisgiordania e Iran. Quiz: trova l'elemento estraneo.
La Repubblica Islamica d'Iran è la principale fonte di conflitto, eppure non dovrebbe tecnicamente essere considerata un fronte. Iran e Israele non condividono un confine, o perlomeno non dovrebbero condividere un confine. L'Iran si trova a circa 1.500 chilometri di distanza. Ma quarant'anni fa, con la caduta dello scià e l'avvento della rivoluzione khomeinista, l'Iran dichiarò Israele suo nemico. E negli ultimi anni ha fatto di tutto per estendere la propria sfera di potere su paesi ed entità vicine. I tentacoli dell'Iran arrivano ora in Libano, Siria, Iraq e Yemen. Attraverso i suoi gregari e surrogati - Hamas, Jihad Islamica palestinese, Hezbollah, gli Houthi - l'Iran lancia attacchi contro obiettivi israeliani ed ebraici e contro l'Arabia Saudita, il suo rivale musulmano sunnita. Ecco perché le minacce e gli attacchi iraniani contro Israele dovrebbero essere presi sul serio da tutto il mondo....

(israele.net, 2 settembre 2019)


Missili e granate tra Israele e Hezbollah

Netanyahu: siamo stati attaccati, abbiamo reagito

Escalation nella tensione tra Israele e Hezbollah, al sud del Libano. Secondo fonti dell'esercito israeliano, sono stati più di uno i missili anticarro lanciati dal Libano verso Israele e come obiettivo hanno avuto una base militare e vari veicoli militari vicini al confine. Lo stesso esercito ha confermato che i lanci hanno colpito alcuni obiettivi e che c'è stata una risposta con tiri di artiglieria verso l'area di provenienza dei missili. Non ci sono vittime. Lo stesso hezbollah ha affermato di aver colpito un veicolo militare con la stella di Davide.

 Netanyahu: in base agli sviluppi decideremo cosa fare
  «Siamo stati attaccati con alcuni razzi anticarro, abbiamo reagito sparando 100 proiettili di artiglieria, con attacchi aerei e con altri mezzi. Sulla base degli sviluppi decideremo il da farsi». Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu sulla situazione al nord lungo il confine con il Libano. Il primo ministro - che ha avuto consultazioni con il capo di stato maggiore e con i generali - ha poi confermato che Israele «non ha avuto alcuna vittima. Nessuno è stato colpito, nemmeno graffiato».

 L'esercito israeliano
  «Non ci sono vittime israeliane» nell'attacco missilistico degli Hezbollah contro un veicolo militare lungo il confine con il Libano. È la replica dell'esercito israeliano secondo cui tra 2 e 3 missili anticarro sono stati lanciati dal Libano del sud: uno di questi ha colpito una jeep e un altro una postazione militare vicino alla frontiera, ma senza causare vittime. «Abbiamo risposto - ha aggiunto - con oltre 100 colpi di mortaio, anche sulla cellula che ha sparato contro Israele».

 Hariri chiama Macron e Pompeo per mediare
  Con l'attacco odierno al mezzo militare israeliano nel nord di Israele, il movimento libanese sciita Hezbollah non intende allargare il confronto armato con "il nemico", ma ha voluto rispondere al raid israeliano su Beirut del 24 agosto. Lo ha affermato la tv panaraba al Mayadin, vicina all'Iran e agli stessi Hezbollah, citando fonti militari del Partito di Dio coinvolte nell'attacco avvenuto domenica pomeriggio lungo la Linea Blu di demarcazione tra i due paesi. Intanto, però, il premier libanese Saad Hariri ha lanciato un appello al presidente francese Emmanuel Macron e al segretario di Stato americano Mike Pompeo chiedendo un intervento per calmare la situazione.

(Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2019)


Hezbollah: «siamo pronti ad attaccare Israele». IDF rinforza il fronte nord

Il capo di Hezbollah annuncia che l'ordine è stato dato e che da adesso dipende tutto dai comandanti del gruppo terrorista sul terreno decidere quando e dove attaccare.

di Sarah G. Frankl

IDF rinforza il fronte nord di Israele
Hezbollah è pronto ad attaccare Israele. Lo ha annunciato ieri sera in un discorso trasmesso dalla TV libanese, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah.
Una vera e propria dichiarazione di guerra dove il leader del gruppo terrorista libanese non ha specificato i tempi di questo attacco ma ha detto che «adesso è tutto nelle mani dei comandanti di Hezbollah che sanno cosa devono fare e quali sono i loro limiti».
Nasrallah ha negato le accuse israeliane secondo le quali l'Iran starebbe costruendo missili di precisione in Libano dopo aver tentato, invano, di trasferirli dall'Iran al Libano attraverso il corridoio sciita che passa per la Siria.
«Non abbiamo bisogno di altri missili di precisione» ha detto Nasrallah. «Abbiamo tanti tipi di missili di precisione per ogni tipo di scontro, piccolo o grande che sia» ha ammonito il leader di Hezbollah.

 Israele non sottovaluta le minacce
  Israele non sottovaluta affatto le minacce lanciate da Nasrallah. Ieri il comando delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) ha diffuso diversi video che mostravano convogli di mezzi blindati che si dirigevano verso il confine nord a rinforzare lo schieramento già presente.
Venerdì scorso il capo delle IDF, il Generale Aviv Kohavim aveva visitato il fronte nord e si era riunito con gli ufficiali per fare il punto della situazione.
Le informazioni di intelligence continuano a dare per "imminente" un attacco di Hezbollah nel nord di Israele e per questo il capo delle IDF aveva deciso di rinforzare ulteriormente il fronte nord con l'invio di mezzi corazzati che, secondo testimoni oculari, è proseguito per tutto ieri nonostante fosse Shabbat.
Le parole pronunciate ieri sera dal capo di Hezbollah non fanno altro che confermare la gravità del pericolo.

(Rights Reporters, 1 settembre 2019)


Israele provoca ma l'Unifil è rinnovata

La missione Onu a guida italiana resta, ma Israele la vorrebbe anti-Hezbollah

di Michele Giorgio

I comandi militari israeliani mandano l'artiglieria pesante al confine nord con il Libano e sospendono i giorni di riposo per i soldati dei reparti combattenti. Ma la guerra con Hezbollah non pare vicina nonostante la tensione provocata dal blitz con droni che Israele ha effettuato una settimana fa alla periferia sud di Beirut e la rappresaglia minacciata dal movimento sciita.
   Lo scontro per ora resta sul tavolo diplomatico e politico. E l'ultimo round è stato giovedì al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, chiamato a rinnovare la missione Unifil, il contingente di interposizione e peacekeeping dispiegato sul versante libanese del confine tra il Paese dei cedri e Israele, sotto il comando del generale italiano Stefano Del Col.
   La risoluzione presentata dalla Francia è stata approvata all'unanimità e consentirà ai 10 mila caschi blu di continuare il loro lavoro. Ma sull'Unifil non cessano le pressioni di Stati Uniti e Israele. Secondo Donald Trump e Benyamin Netanyahu l'Unifil non può svolgere il suo mandato a causa di «forti restrizioni» imposte da Hezbollah, alleato di Siria e Iran. L'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, sostiene che la presenza del movimento sciita nel sud del Libano avrebbe «lo scopo di danneggiare lo Stato ebraico e mettere in pericolo l'intera regione» e ha avvertito che Israele «non accetterà una tale realtà». Su pressione di Washington la risoluzione appena approvata all'Onu include una «valutazione» della missione Unifil-che il Segretario generale Antonio Guterres dovrà presentare entro il l giugno 2020-volta a verificare il pieno accesso dei soldati dell'Onu alla «linea blu» che segna il confine internazionale tra Libano e Israele. Per il governo Netanyahu il mandato dell'Unifil deve essere esteso e prevedere azioni concrete che blocchino quello che descrive come «il traffico di armi a favore di Hezbollah».
   Intanto ieri un razzo illuminante lanciato dall'esercito israeliano durante una esercitazione lungo la «linea blu» ha provocato l'incendio di una struttura dell'Unifil, senza fare feriti.

(il manifesto, 1 settembre 2019)


Tensione sulla Blue Line, l'Onu rinnova il mandato di Unifil

 
Hezbollah attacca i soldati dell'Unifil in Libano - base Majdel Zoun
Israele rafforza i reparti militari al confine settentrionale con il Libano mentre il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha fatto sapere che il gruppo sciita ha deciso la risposta all' attacco compiuto di recente dallo Stato ebraico.
   Non c'è stato nessun annuncio da parte delle forze armate israeliane (IDF) ma immagini in tv, rilanciate da Times of Israel, hanno mostrato il trasferimento a nord di corpi d'artiglieria e altre armi pesanti. Sono state cancellate tutte le licenze del fine settimane per i soldati delle brigate dislocate nella zona settentrionale.
   Una iniziativa precauzionale ma al confine col Libano il 30 agosto si è recato in visita il capo di Stato maggiore delle IDF, tenente generale Aviv Kohavi, che ha messo in guardia Hezbollah dalla "dura" risposta di Israele a un qualsiasi attacco.
   L'allerta è alta dopo i raid dello Stato ebraico la settimana scorsa contro obiettivi iraniani in Siria e l'attacco armato di droni contro la roccaforte di Hezbollah nel sud di Beirut.
   Il 25 agosto Hezbollah aveva riferito che due droni israeliani erano caduti (non abbattuti) alla periferia sud di Beirut e che uno di questi ha danneggiato la sede degli uffici della propaganda Hezbollah.
   Due giorni dopo Hezbollah ha reso noto di aver trovato 5,5 chili di esplosivo C4 all'interno di uno dei due droni israeliani precisando che "il primo ha avuto un malfunzionamento mentre il secondo è esploso" .
   Possibile quindi che si trattasse di due piccoli velivoli teleguidati da impiegare come armi con a bordo alcuni chili di esplosivo per colpire obiettivi strategici quali alcuni leader di Hezbollah.
   Il leader del movimento sciita, braccio armato di Teheran nella regione, in un discorso televisivo ha sottolineato che Israele deve "pagare il prezzo" per l'attacco compiuto ed è compito di Hezbollah "stabilire regole di ingaggio e una logica di protezione per il Paese".
   Lo scoppio di nuove ostilità lungo la "Blue Line" al confine tra Israele e Libano finirebbe per coinvolgere anche le forze di caschi blu di UNIFIL di cui l'Italia ha la guida (ne è comandante il generale di divisione Stefano Del Col, e di cui fanno parte anche 1.100 militari italiani.
   Il Consiglio di Sicurezza ha approvato il 30 agosto all'unanimità il rinnovo della missione della United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL) fino al 31 agosto 2020.
   il mandato dei caschi blu non viene modificato, tuttavia in un paragrafo si chiede al Segretario generale di "condurre e fornire al Consiglio non oltre il primo giugno 2020 una valutazione della rilevanza delle forze di Unifil e opzioni per migliorarne l'efficienza prendendo anche in considerazione il tetto di truppe e la componente civile".
   Si tratta di una concessione alle pressioni di Usa e Israele secondo cui la missione dell'ONU dovrebbe investigare più aggressivamente e denunciare le attività militari di Hezbollah nella regione al confine con lo Stato ebraico dove la Risoluzione 1701 prevede il disarmo delle milizie.
   Stati Uniti e Israele non ritengono che i caschi blu abbiano espletato al meglio il loro compito e nel corso del negoziato sono tornati a spingere per un taglio delle truppe (circa 10 mila caschi blu sui 15 mila autorizzati dal Consiglio di Sicurezza) sostenendo che a fronte dell'inadeguatezza della missione espletata ne vengano almeno ridotti i costi.

(Analisi Difesa, 1 settembre 2019)+


Israele sposta le truppe al confine col Libano

Sono schermaglie per ora, ma segno della tensione che cresce tra Israele e Hezbollah. Carri armati e forze militari israeliane si sono posizionate al confine con il Libano e si teme l'escalation dopo che domenica scorsa un drone da ricognizione, presumibilmente israeliano, si è abbattuto nella periferia meridionale di Beirut e un secondo è esploso in aria.
"In Libano abbiamo tutti i missili di precisione comandati di cui abbiamo bisogno per qualsiasi confronto, piccolo o grande", è stata la dichiarazione di Hassan Nasrallah, leader indiscusso di Hezbollah, il Partito di Dio, nonché fedele alleato di Teheran, che dalla rivoluzione khomeinista del 1979 rappresenta l'antagonista irriducibile di Israele nella regione.
Per questo motivo, Israele considera Hezbollah come la più potente minaccia militare ai suoi confini.
Le scintille volano anche a parole: "Ho sentito quello che ha detto Nasrallah: gli consiglio di calmarsi - aveva risposto il premier israeliano Benyamin Netanyahu, riferendosi all'intervento del leader di Hezbollah dopo i raid israeliani in Siria e l'uccisione di 2 miliziani sciiti - Nasrallah sa molto bene che Israele sa difendersi al meglio e rispondere adeguatamente ai suoi nemici. Voglio dire a lui e al Libano, che ospita questa organizzazione che vuole distruggerci, e anche a Kassam Suleimani, capo delle Guardie Rivoluzionarie dell'Iran: fate attenzione a ciò che dite e ancora di più a ciò che fate".
Le Nazioni Unite hanno invitato le parti alla "massima moderazione".

(euronews, 1 settembre 2019)


Puglia, quartieri ebraici e scale verso il cielo

Parte oggi da Oria la XX Giornata europea. Sinagoghe e passeggiate

di Maria Pia Scaltrito

Avete fatto un brutto sogno? Nessuna paura, un maestro del Talmud vi dirà
come dissolverlo. Con il tempo che tutto cura e fa scorrere via, con il digiuno che lava corpo e anima dalle scorie della vita, con una preghiera riparatrice. Oppure con l'intervento di qualcuno che ne dia una lettura favorevole, tale da tramutarne il senso. Non sapete cosa possa significare quel tal sogno che avete fatto la notte appena finita? Di sicuro non avrete bisogno di emulare Nabucodonosor, re di Babilonia. Costui, all'indomani di uno strano sogno, convoca turbato a corte i sapienti, i maghi caldei, gli astrologi. E per mettere alla prova la vera o falsa sapienza di costoro, domanda loro di svelare non solo l'interpretazione ma pure la trama del sogno stesso, pena lo sterminio di tutti i maghi del regno. Inutile la replica dei poveri indovini che smarriti tentano di convincere quel sovrano: nessun re, per quanto grande e possente, aveva mai posto una simile domanda a un mago, un indovino, un caldeo qualsiasi...
   Nessuno può indicare al re una simile cosa se non gli dèi che certo non dimorano tra i mortali, gli rispondono. E mentre Nabucodonosor già inizia a far uccidere i sapienti, il profeta Daniele interviene. Chiede a Dio, il solo che svela quanto è occulto e profondo, di mandargli lo stesso sogno del re per poterlo conoscere, interpretare. E salvare se stesso, i suoi compagni e tutti gli altri. Così avviene. Daniele accede all'anima collettiva dove dimorano i sogni di tutti, racconta al re il sogno che Dio gli aveva inviato, lo traduce. Nabucodonosor potrà conoscerne i segreti e il futuro del suo regno.
   Eccolo il sogno. Arcaica terra di mezzo. Messaggio di dio. Apertura su mondi altri paralleli. Svelamento del futuro. Linguaggio simbolico intraducibile in altra forma. Scoperta delle stanze segrete dell'anima, lì dove si affastellano desideri incompiuti e ferite indicibili. Certo, molti antichi popoli hanno avuto grande considerazione dei sogni. Non è ignota la pratica dell'incubazione in grotta che i Greci praticavano come una sorta di ritualità religiosa. Lì dove, tra terra, pietre e sassi, si curava il corpo e la psiche (l'anima, l' essenza, il soffio vitale, la ruah per gli Ebrei). Sarà psiche la compagna dei sogni fin dai tempi di Omero, Socrate e Platone. Il sogno, la donna, il mistero. Ci piace qui evocare una rarità letteraria anche nella cultura ebraica. Polonia, fine Settecento. Una sognatrice, una saga di racconti a lei ispirati. Le fonti ce la indicano come «la moglie di rabbi Avraham», Tutti ricorrono a lei che sa vedere il futuro e interpretare sogni mistici. Anche quelli con il suocero, il famoso rabbino Dov Baer di Mezhirech con il quale avrà un intenso rapporto onirico. Un giorno la donna sogna un ampio consesso di vegliardi in una sala adorna. Vogliono portarle via il marito. Lei si ribella. Non dice nulla neanche al marito, al risveglio. Anzi, a lui proprio no. Ma il sogno ritorna e lei grida le sue ragioni a quei vegliardi. Quindi ottiene una dilazione. Il marito le sarà lasciato per dodici anni. Così sarà. Alla fine, quando il marito muore, anche con lui la donna continuerà a dialogare (sempre in sogno). Fino a quando non le si vuole dare un nuovo marito (nella realtà). Allora lei sogna il rabbi Avraham che davanti alla porta di una sala, con le mani alzate grida:
   Chi è costui? Matrimonio annullato. La donna non avrà altri mariti. Pure dall'altro mondo quel marito-rabbi ha esercitato il suo potere assoluto di possesso.
   E dunque, come poteva una cultura che ha fatto dell'interpretazione uno strumento raffinato di diritto pratico non coltivare lo studio del disvelamento dei sogni? L'arte della interpretazione dei sogni attraversa i millenni. Dalla pietra soffice sotto il capo del patriarca Giacobbe al lettino di Sigmund Freud, non a caso anch'egli ebreo. Ricordate il sogno compiuto da Giacobbe quando lascia il padre, e il fratello Esaù lo inseguiva bellicoso per l'inganno subito? Quel giorno Giacobbe aveva lasciato Beer Sheva («il pozzo del giuramento») per andare verso Caran. Un precoce tramonto adombra anzitempo il cielo sopra quella terra arida. Turbato, Giacobbe si adagia su un masso che al contatto gli sembra lieve e accogliente (potenza del divino!). Chiude gli occhi. Sogna. Una scala maestosa si ergeva da quella terra verso il cielo. E angeli a folle si muovevano nelle due direzioni. Dio gli parla e gli predice una lunga discendenza su quella terra polverosa su cui giace. Una terra che sarà dei suoi figli da nord a sud da oriente ad occidente.
   E Giacobbe si sveglia. Prima sconvolto e turbato dalla visione. Capisce che quella terra è la porta, terribile, della «casa di Dio». Prende la pietra del giaciglio e la conficca come stele verticale, esclamando: Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo. Una frase che nei millenni successivi diverrà simbolo di qualunque casa di Dio, altare o sinagoga ebraica. Poi anche cristiana.
   Ebbene, in Italia abbiamo a tutt'oggi una sola pietra, un solo testimone antico che riporta incisa tale frase di Giacobbe. Pietra, sogno, casa di Dio: è la pietra sinagogale nascosta nei sotterranei di Palazzo Adorno, a Lecce. Pieno quartiere ebraico. Pietra, sogno, casa di Dio, storie: forse Lecce, anche solo per questa rarità, avrebbe meritato un posto accanto a Parma come co-capofila in Italia della Giornata Europea 2019 della Cultura Ebraica. Peccato. Peccato che la Puglia ancora non sia pienamente capace di far conoscere e raccontare le eredità e le storie nascoste di un patrimonio ebraico invidiabile, come invece accade da Roma in su. Ma intanto per l'intero mese di settembre eccone il ricco carnet di iniziative. Inimmaginabile anche solo cinque anni fa.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 1 settembre 2019)


A cosa servono i musei ebraici? Intervista a Simonetta Della Seta

La direttrice del Meis di Ferrara spiega cosa significa dirigere un museo dedicato all'ebraismo in Italia

 
Simonetta Della Seta
A che cosa servono i musei ebraici e a chi sono rivolti? Ne abbiamo parlato con Simonetta della Seta, direttrice del MEIS, Museo dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, a Ferrara.
"Questa domanda me la sono posta per un intero anno", spiega la direttrice, "in particolare per quanto riguarda l'Italia. Più nello specifico mi chiedevo perché si deve costruire un museo che tratta di ebraismo. Per rispondere ho parlato con le persone e ho imparato moltissimo, non solo circa la specificità di un museo ebraico, ma anche riguardo a cosa sia un museo in questa era storica. Il museo oggi ha un ruolo diverso dal passato perché ha il compito di dare al pubblico ciò che non è possibile trovare sul web: il contesto in cui le informazioni che sono raccolte nel museo accadevano e l'esperienza".

- Nello specifico di un museo ebraico queste due caratteristiche come si traducono?
  "Il Meis è una realtà particolare perché è un museo nazionale che si occupa di tematiche ebraiche e non vuole farlo mettendo gli oggetti in vetrina, bensì raccontando storie legate all'ebraismo in Italia inserite nel loro contesto. Quindi la questione di fondo riguarda il contrasto a una musealizzazione dell'ebraismo, che qui non vogliamo fare".

- Qual è dunque la filosofia del Meis?
  "Il Meis è centrato sulla vita ebraica e non su un racconto degli ebrei che non ci sono più. L'esperienza che proponiamo permette a qualunque visitatore di sentirsi agganciato a un percorso legato a qualcosa di identitario. E la questione dell'identità mi interessa sempre perché spesso ne coinvolge una plurima, che riguarda l'essere ebrei, ma che oggi si rivela estremamente attuale e coinvolgente: siamo cittadini italiani, ebrei, ferraresi, europei…. Il percorso intorno all'ebraismo con la vita ebraica al centro (in tutte le sue sfaccettature, dallo studio agli aspetti sociali) è organizzato come un racconto. Ma questo racconto è possibile qui dentro al museo perché è vivo fuori, non perché è morto. Il che è dimostrato anche dagli appuntamenti in calendario al Meis: sono incontri, dibattiti, concerti… Insomma, possiamo vivere questa esperienza perché c'è vita ebraica, i cui valori sono universali e riconoscibili da tutti. Altrimenti il Meis sarebbe un monumento oppure un museo etnografico".

- Ci sono altre realtà simili a quella del Meis?
  "Siamo legati al Museo ebraico di Amsterdam che propone un genere di attività simile alle nostre, in stretta connessione con una comunità viva che ne ha fatto un museo diffuso in sinergia con la sinagoga sefardita. Il Museo di Varsavia è simile al nostro, anche se le differenze tra l'ebraismo che si vive in Polonia e quello italiano sono considerevoli, mentre ci troviamo bene con quello di Francoforte che organizza le proprie esposizioni intorno a spunti di vita ebraica. Siamo invece piuttosto distanti da quello di Berlino. A cominciare dall'edificio che lo ospita: disegnato da Lebeskind, ha caratteristiche che lo legano alla Shoah, anche se è vero che noi come Meis stiamo ristrutturando il vecchio carcere e che con Berlino siamo in costante dialogo sulla storia degli ebrei tedeschi che ha molti punti di contatto con quella degli ebrei italiani".

- E il Meis come tratta il tema Shoah?
  "Il taglio è ben preciso, relativo alla Shoah italiana, come tutto il museo. Ma non siamo connotati come un museo della Shoah o della memoria, noi raccontiamo l'esperienza degli ebrei nell'Italia di quel periodo storico. Da questo scaturisce una terza missione che è quella di occuparci della convivenza e del dialogo tra minoranze e maggioranza".

- A chi parla il Meis?
  "Vengono le scuole da tutta Italia, ma anche stranieri, addetti ai lavori e chi non sa assolutamente nulla di questa storia. Sono argomenti rilevanti per tutti, che insegnano almeno due cose: l'esperienza ebraica italiana è alla radice dell'Europa perché gli ebrei italiani si sono sparsi in tutto il Vecchio Continente; i numeri, piccoli, raccontano però una storia importante".

- Il direttore di un museo ebraico deve essere necessariamente ebreo?
  "La questione è rilevante. Ma non tanto nell'essere o meno ebreo, quanto nel fatto che un luogo simile deve essere guidato da chi ha una profonda conoscenza della cultura e della lingua ebraica. Non si tratta di appartenenza ma di una rilevanza culturale molto forte".

- Perché l'Italia deve investire in questo progetto?
  "I fondi destinati al Meis non vanno a detrimento di altre istituzioni ebraiche, casomai a un altro museo statale. E il Meis è rilevante come museo italiano, europeo, internazionale, come dimostrano i numerosi articoli che parlano di noi negli Stati Uniti. Il motivo? Permette di leggere l'Italia dal punto di vista ebraico, utile prima di tutto agli italiani stessi che spesso non sanno che gli ebrei fanno da sempre parte del tessuto nazionale. Ecco perché l'Italia vuole questo museo: fare luce sugli ebrei italiani e sul contributo che hanno dato alla vita nazionale. E ora grazie ai soldi pubblici e a un'intensa attività di fundraising viviamo in un cantiere che trasformerà il Meis in un edificio molto grande con un percorso coerente, volto a illuminare anche su un secondo aspetto: rendere il pubblico consapevole del dialogo che il Paese ha sempre avuto con una minoranza".

(JoiMag, 1 settembre 2019)


Ebrei di Ancona, non solo ghetto ma vita insieme

di Matteo Al Kalak

Se vuoi capire i cristiani, osserva gli ebrei. Potrebbe sembrare una semplificazione - e lo è - ma non si potrebbe comprendere appieno la storia italiana e quella della sua "maggioranza" cristiana, trascurando una componente fondamentale della società di "antico regime": la fitta rete di comunità ebraiche che caratterizzò molti luoghi della Penisola.
   Conoscere la vita, i costumi e la stessa autocomprensione dei cattolici italiani nell'epoca della Controriforma non sarebbe possibile senza osservare i loro atteggiamenti nei confronti degli ebrei. Questi ultimi furono infatti uno specchio, in cui si riverberarono le contraddizioni del cattolicesimo nell'età moderna: gli ebrei furono rinchiusi in "quartieri" dotati di porte e mura (i ghetti), ma non di rado vissero in mezzo ai cristiani, senza recinti, e - dato più importante - commerciando con loro, scambiando idee, pratiche, conoscenze e affetti. Una pagina finora mai sistematicamente esplorata di questa storia di convivenza e di scontri è offerta da un libro di Luca Andreoni che, prendendo un caso di spessore, quello di Ancona, ripercorre la storia di una delle comunità ebraiche più illustri e floride. Il libro - Una nazione in commercio (FrancoAngeli) - espone in modo analitico la vicenda di un gruppo (una "nazione" nella nazione, appunto, un gruppo con leggi che lo discriminavano dai sudditi di fede cristiana) che, affacciato su un porto di mare, fece del commercio una delle sue attività principali. Attraverso la storia ebraica viene così profilata la storia di un intero territorio e di una città centrale negli equilibri dello Stato pontificio. Il volume si apre delineando i quadri generali: da un lato, la storia degli ebrei di Italia, una presenza antica e radicata; dall'altro, la vicenda della Marca, ponte tra Europa e Levante. Seguono quindi vari capitoli che entrano nello specifico dell'ebraismo anconitano.
   Notevoli, infine, sono i capitoli dedicati alla storia sociale che, inevitabilmente, si intreccia con quella economica: l'autore fa luce sui matrimoni, sulle doti e le diverse provenienze geografiche degli sposi, oltre che sul ruolo delle donne nella vita delle comunità. Ma il pregio del libro di Andreoni, frutto di lunghe ricerche di archivio, è quello di superare stereotipi e luoghi comuni, secondo le acquisizioni della storiografia più recente. Anzitutto, la dicotomia tolleranza/intolleranza che, se si basa su elementi di certo non assenti, rischia tuttavia di offuscare la complessità di un contesto in cui le relazioni tra ebrei e cristiani furono frequenti, variabili e assai più fluide di quanto si è detto in passato. Allo stesso modo, è accantonata l'idea di una compatta e inscalfibile solidarietà interna alle comunità ebraiche, divise e frazionate così come la società cristiana. Per porsi oltre questi steccati, la chiave è il dato ricavabile dalla vita materiale: capire cosa accadde concretamente, misurando gli elementi effettivi che, meglio di ogni preconcetto, offrono una base per ragionare e comprendere la realtà. Lo stesso paradigma è infine applicato all'altra nazione che, in controluce, fa da sfondo alla ricerca: una Chiesa che ebbe un atteggiamento oscillante, difficile da ridurre a letture univoche. Un richiamo, ancora una volta, alla complessità che, come in ogni vicenda umana e culturale, si ritrova anche nella storia degli ebrei di Ancona.

(Avvenire, 1 settembre 2019)


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