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Notizie 1-15 setttembre 2020


Israele, Emirati e Bahrein da Donald: la pace cambia il volto al Medioriente

Lo storico incontro alla Casa Bianca. Ma dall'Oman al Kuwait, tutto il mondo arabo guarda con interesse ai nuovi equilibri, invece al tradimento Hamas, Hezbollah, Iran e Turchia.

di Fiamma Nirenstein

Chiamiamola pace, chiamiamola normalizzazione, non è molto importante: l'accordo che viene siglato oggi da Israele, Emirati, Bahrein con la mallevadoria del presidente americano segna una transizione storica che rispecchia il grande mutamento delle società arabe, travolge le vecchie dinamiche, può cambiare il mondo. C'è molta difficoltà a riconoscerla per quella che è perché Trump e Netanyahu non raccolgono i consensi della stampa internazionale, e perché i palestinesi hanno ricevuto persino un rifiuto della Lega Araba alla richiesta di condannare la pace. Ma è storia, è finalmente il ponte fra religioni monoteiste quello che vediamo oggi: Israele si integra finalmente nella narrativa positiva del luogo, fra sorrisi e strette di mano diventa uno stato mediorientale riconosciuto, viene integrato fra le dune dei deserti, le montagne, le coste mediterranee, i boschi, le città. Gli aerei potranno volare, i cittadini viaggiare, le acque scorrere, la medicina essere condivisa con l'high tech e l'agricoltura.
   Gli spazi geografici investiti dalla speranza del cambiamento sono vasti, il fatto che l'Arabia saudita abbia aperto lo spazio aereo accorcia la distanza fra Israele, il Mondo Arabo, l'Oriente, il resto del mondo. L'Oman manda un messaggio di soddisfazione come l'Egitto. L'Arabia Saudita è soddisfatta, il Kuwait sempre molto cauto si affaccia, perfino il Qatar, amico dell'Iran e di Hamas, gioca su due tavoli. È una pace che cambia le carte in tavola. In lista per una prossima pace ci sono già oltre all'Arabia Saudita, l'Oman, il Marocco, e anche il Sudan, il Ciad, e persino il Kosovo, paese musulmano, vuole aprire un'ambasciata a Gerusalemme.
   Tutti i comunicati ufficiali di soddisfazione che promettono una prossima adesione al trattato invocano la speranza che i palestinesi alla fine torneranno a essere parte del gioco. Di fatto quando Mohammed bin Zayed principe della corona degli Emirati ha deciso per l'accordo, lo ha fatto dopo la rinuncia israelo-americana a parlare di sovranità israeliana come prevede il primo piano Trump. Ancora si aspetta un ovvio segno di soddisfazione di Abu Mazen, che invece seguita a parlare di tradimento e di abbandono in coro con Iran, Hezbollah, Turchia e chiunque sia pronto a disegnare uno schieramento bellicoso. Il capo di Hamas Ismail Hanije è andato in Libano a dichiarare guerra al piano insieme agli Hezbollah, ha annunciato la costruzione in loco di missili intelligenti di Hamas, e i giornali libanesi hanno denunciato il suo tentativo di «distruggere il Libano» facendone la sede di una guerra che i cittadini non vogliono. Non è tardi per i palestinesi e per uscire dal comodo e disastroso guscio che li ha resi padroni di tutti i veti, che nel Medio Oriente nazionalista e poi islamista che li ha resi signori di ambedue le tradizioni che oggi stanno tramontando. Il Medio Oriente è vissuto di miti e leggende, ma ormai sono finiti per una grande parte di questo mondo il panarabismo, le tensioni tribali e settarie, la corruzione e la violenza cariche di minaccioso silenzio, l'islamismo usato come arma sostitutiva del panarabismo sconfitto, tutto questo castello subisce una sonora sventola dall'evidente entusiasmo per un futuro normale, e anche per più conoscenza di questo marziano relegato sul pianeta «Malvagità» che Israele è diventato nella fantasia comune. Adesso dunque da una parte c'è la normalizzazione, riconosciuto da nuove leadership asiatiche e africane (anche fra i palestinesi ne cresce una nuova che odia la corruzione e l'incitamento terrorista) e dall'altra l'asse Teheran-Ankara e i loro amici, squadre, soldati, «proxy» che sono pronti alla guerra. Solo alla guerra, e certo non per salvare i palestinesi. Ma noi europei dovremmo sapere riconoscere la pace dalla guerra, e invece sembra proprio che non sia così, se è vero che saranno poche le nostre delegazioni.

(il Giornale, 15 settembre 2020)


Le "Leggi di Norimberga" 85 anni dopo:

Furono promulgate da Hitler il 15 settembre 1935

Fabio Camillacci

Sono passati 85 anni da quel drammatico 15 settembre 1935, quando in Germania, con l'avvento al potere del partito nazionalsocialista (avvenuto nel gennaio del 1933), cominciò la terribile persecuzione antiebraica in Europa; e non solo. Un punto programmatico del nazionalsocialismo, come scritto da Adolf Hitler nel "Mein Kampf", prevedeva infatti la lotta contro gli Ebrei considerati "subumani", cioè: di diversa e inferiore natura razziale e responsabili della sconfitta tedesca nella Prima Guerra Mondiale.

 L'inizio
 
  Con una prima serie di "leggi razziali" (aprile 1933) gli Ebrei furono esclusi da impieghi civili e dalle libere professioni (insegnanti, avvocati, medici, editori). Fu introdotto inoltre il "numero chiuso" nelle scuole, che successivamente doveva essere ridotto a zero. Inizialmente, alcune eccezioni furono fatte solo per gli ex-combattenti e gli orfani di guerra. Da quel momento, moltissimi Ebrei cominciarono ad abbandonare la Germania.

 Le "leggi di Norimberga" poi privarono gli Ebrei della cittadinanza e dei diritti conseguenti. Furono vietati anche i matrimonî misti
  In precedenza si era stabilita invece l'esclusione dal servizio militare. In particolare, una legge del 14 novembre 1935 specificava che si consideravano Ebrei: i discendenti da almeno tre avi ebrei puri e i discendenti da due avi ebrei puri, se appartenenti alla comunità ebraica, o sposati con ebrei, o discendenti da rapporti extraconiugali con ebrei.

 Altri provvedimenti razziali
  Tra il marzo ed il novembre del 1938 fu revocato il riconoscimento legale alle comunità israelitiche e venne ordinato il censimento delle proprietà come preparazione alla confisca. Ulteriori misure di separazione disposero contrassegni per i documenti personali degli Ebrei e stabilirono nomi caratteristici obbligatorî.

 Il 7 novembre 1938, l'uccisione a Parigi del diplomatico tedesco Ernst Eduard vom Rath da parte dell'ebreo polacco Herschel Grynszpan, suscitò violenze in tutto il Reich.
  Il 12 novembre 1938 una forte tassa fu quindi imposta alla comunità ebraica ed emanato un decreto per la completa eliminazione degli Ebrei dalla vita economica tedesca.

 Le proprietà degli ebrei furono messe a disposizione delle autorità per utilizzarle (era il 3 dicembre 1938).
  Fu ordinata la consegna degli oggetti preziosi il 21 febbraio 1939. Intanto, oltre all'imposizione di un segno di riconoscimento, era stata limitata agli Ebrei nel tempo e nei luoghi la facoltà di mostrarsi in pubblico. Il 4 marzo 1939 fu infine imposto il lavoro obbligatorio, a condizioni durissime.

 L'annessione della Saar nel 1935 e dell'Austria nel 1938, estese a queste regioni la legislazione razziale tedesca.
  Con l'invasione tedesca della Cecoslovacchia, nel marzo 1939, e l'istituzione del protettorato di Boemia e Moravia, si ebbe in quelle regioni una serie di persecuzioni, culminate nella legge del 21 giugno 1939. Modellandosi sugli editti di Norimberga nella definizione di Ebrei, essa limitava la proprietà ed ordinava il censimento dei beni. Le leggi furono ulteriormente aggravate dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

(Tag24 - Radio Cusano Campus, 15 settembre 2020)


"La ricerca della felicità che supera le disegualianze"

di Rory Cappelli

Ebraica, il Festival internazionale della cultura, alla sua tredicesima edizione, quest'anno ha riservato non poche sorprese. A cominciare dal tema, scelto alla fine dell'edizione dello scorso, che oggi in un tempo di (quasi) forzata impossibilità di comunicare, la spezia principe proprio della felicità, è davvero attuale. A conversare di felicità ieri sera sono stati la scrittrice Catena Morello e il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari. A fare da filo rosso, il Mediterraneo, con i tanti popoli che vi si affacciano. «Ho l'impressione che il Mediterraneo» ha esordito Morello, «a grande vocazione di scambi di merci, certo, ma anche culturali e di ideologie, stia diventando più che un mare un lago fermo, un cimitero, dove non succede niente di bello. La cultura ebraica» ha continuato la scrittrice, «che ho sentito come mia dal giorno in cui - avevo 14 anni - lessi per la prima volta Isaac Bashevis Singer, mi ha insegnato che quel mondo era il mio mondo e che l'Italia con le sue sponde, da sempre aperte a qualunque cultura, proprio in questa apertura trovava la sua felicità. Ora ho come l'impressione che il Paese si sta chiudendo: gli italiani guardano con sospetto chi sta più a sud. Certo, ci sono sempre state tante guerre in questo mare, tanta crudeltà: ma c'è sempre stata una scintilla che ora riesce con difficoltà a restare accesa».
   Una difficoltà che nasce anche, ha spiegato Molinari, «dalle diseguaglianze economiche. Le persone che oggi si sentono diseguali, lo si sentono non solo per i beni ma perché le loro speranze sono sacrificate». E poi, ha sottolineato il direttore di Repubblica, «la scelta del festival Ebraica di dedicare uno spazio alla felicità ha certo a che vedere con l'identità del Mediterraneo, fatto da popoli diversi, molto spesso in conflitto tra loro. Ma che hanno caratteristiche simili: una di queste è il forte senso di comunità, di famiglia. Che ci si trovi nel mercato di Tunisi, in quello di Palermo, nel mercato coperto di Istanbul o nella Città Vecchia di Gerusalemme o di Damasco, c'è sempre un elemento comune: la capacità di ritrovarsi intorno a cibi, costumi, usanze, teatri, arti. E il senso profondo della famiglia, comunque la si voglia declinare. Dal Covid esce un'esperienza che richiama questo punto» ha concluso Molinari: «Quali sono i popoli che hanno saputo resistere meglio, come l'Italia? Quelli che hanno un alto senso della famiglia perché come unità basica è capace dell'autoconservazione che non si fonda solamente su una serie di prassi quotidiane, ma su un elemento che accomuna tutti i componenti di una famiglia: la felicità di stare assieme». All'incontro è seguito quello con Oxana Corso: nei prossimi giorni, tra gli altri, Luca Verdone e Massimo Wertmuller.

(la Repubblica - Roma, 15 settembre 2020)


Ora sai se piange per il sonno o la fame

Arriva il sensore smart che decifra ogni bebé

di Fabiana Magrì

Ora che i Millennials hanno messo su famiglia, molto sta cambiando nel modo di accudire e crescere i figli. La start-up israeliana LittleOne si è messa nei panni della Generazione Alpha per dare voce ai neonati e decifrare i loro messaggi, analizzandone suoni e movimenti.
   «Nei primi giorni di vita ogni bambino ha un pianto preciso per indicare se ha fame, se vuole essere cambiato o, semplicemente, se ha un prurito. Quando un neo-genitore non riesce a interpretare le sfumature, al bebè resta un ultimo appello: il pianto della frustrazione». E questa frustrazione, Ami Meoded, uno dei tre fondatori dell'azienda, tende a prenderla molto sul serio. «Un tempo - spiega - si diceva che con il pianto il bambino sviluppava la capacità polmonare. Oggi sappiamo che quel tipo di reazione indebolisce il sistema immunitario. Oltre a innervosire i genitori che non sanno come placarlo».
   Migliorare il benessere dei bambini nella fascia 0-3 anni, e quello dei neo-genitori, è la missione di LittleOne e degli altri soci fondatori, Evgeni Machavariani e Shauli Gur Arieh. I due ex-soldati, arruolati nel programma Talpiot e nell'Unità 81 (il reparto più tecnologico dell'intelligence militare israeliana), si sono trovati a sviluppare software d'Intelligenza Artificiale e sensori, da applicare a dispositivi indossabili, così da tenere d'occhio l'obiettivo più sensibile: i figli.
   Elaborare un prodotto per monitorare il comportamento dei bebè è questione delicata, anche in una società abituata a condividere ogni aspetto della sfera privata. Nel lancio di LittleOne Machavariani, Gur Arieh e Meoded hanno coinvolto 30 famiglie. Altre 50 prenderanno parte alla fase successiva, ma ce ne sono centinaia che hanno già contattato l'azienda. E sono stati i genitori a imporre il veto sull'esposizione dei neonati a qualsiasi tipo di radiazioni, tanto che il dispositivo LittleOne - 30 grammi, grande come una saponetta, si aggancia ai vestiti del bambino sopra la linea del pannolino, senza contatto con la pelle - non trasmette dati, né via Bluetooth né wifi.
   Funziona come un registratore vocale. E, con un piccolo accelerometro, cattura i movimenti del bambino. È soltanto quando si collega alla presa di corrente che LittleOne trasferisce i dati alla app e l'Intelligenza Artificiale li trasforma in un diario «smart» che si autocompila e tiene traccia di tutto: misura, confronta e aiuta a interpretare progressi e cambiamenti. Ma l'apprendimento della rete neurale dell'IA inizia anche prima della nascita del bebè. «Suggeriamo di installare in casa LittleOne almeno una settimana prima del parto - spiega ancora Meoded -, così che possa capire tutte le caratteristiche dell'ambiente domestico. Nel giro di una settimana dalla nascita, se indossato sempre, il software saprà già interpretare i versi del bambino».
   Finché LittleOne si trova agganciato al neonato, oltre a registrare, è in grado di comunicare con gli adulti attraverso segnalazioni luminose e sonore che indicano se un pianto dipende dalla stanchezza o dalla fame, dal fastidio o da un dolore. In caso di uno scuotimento eccessivo o, al contrario, di un'anomala immobilità, è un suono a dare l'allarme. «Siamo già la banca dati più fornita al mondo per la classificazione delle tipologie di pianto dei bambini e per la connessione tra suoni e movimenti», afferma Ami Meoded. A questo proposito - assicura - la riflessione sulla privacy e la conservazione dei dati è stata presa in considerazione e il prodotto rispetta le norme del Gdpr europeo. Sono i genitori che scelgono se condividere le informazioni.
   «Quando usi Waze - porta come esempio Meoded - rinunci alla privacy per il beneficio di evitare il traffico. Quando si tratta di medici, e lo scopo è migliorare il benessere dei bambini, sono tutti propensi a mettere a disposizione i dati raccolti». Fa notare che un pediatra deve affidarsi alle osservazioni dei genitori o ai racconti per interposta persona, che sia la babysitter, il personale dell'asilo o un nonno. «In questo senso - precisa - diamo voce ai bambini». E aggiunge che un altro obiettivo di LittleOne è migliorare il rapporto tra genitori e neonati: «Non vogliamo "spegnere" i genitori. Li invitiamo a osservare meglio, a prestare più attenzione. Sapere cosa fa stare meglio il loro bambino li può guidare verso attenzioni più mirate».
   L'azienda stima che una prevendita del prodotto possa iniziare tra meno di un anno. Il dispositivo costerà 50 dollari e l'abbonamento all'app sarà di 8 al mese, con aggiornamenti costanti. Il primo LittleOne, nato in tempi di Covid-19, ha otto mesi. Il team è molto eccitato nell'attesa che muova i primi passi. «Ci ha già aiutato a capire - racconta il co-fondatore della start-up - che i bambini tenuti a casa durante la pandemia, al contrario di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, hanno registrato più movimenti della media. Trascorrendo più tempo in casa, i genitori li hanno presi in braccio, li hanno cullati e hanno giocato con loro molto più del solito».

(La Stampa - Tuttosalute, 15 settembre 2020)


Enel accelera l'innovazione reti

In Israele accordo con l'energetica Iec per le startup

Enel X, con il fondo Ardian, accelera sulla innovazione delle reti per l'efficienza energetica nel mercato in Canada e per crescere ulteriormente nella regione nordamericana. Ardian investe in nuove tecnologie e forme di energia pulita con l'obiettivo di realizzare un mercato dell'energia più sostenibile. Inoltre, per la digitalizzazione delle imprese, in Israele, Enel si è alleata con Iec (Israel Electric Corporation) società statale che produce e distribuisce elettricità a 2,9 milioni di clienti in Israele. E lo ha fatto con un accordo strategico siglato tra Infralab, il laboratorio per l'innovazione specializzato creato attraverso la joint venture tra Enel e Shikun e Binui, con lo scopo di selezionare start-up e sviluppare soluzioni innovative nel campo delle infrastrutture e delle reti (IeN). La partnership è stata annunciata ieri nel corso di un evento che si è svolto a Haifa, in Israele cui hanno partecipato anche Ernesto Ciorra, direttore Innovability di Enel e Livio Gallo, direttore della Business Line Globale Infrastrutture e Reti di Enel. «Questo accordo segna un traguardo importante nel percorso di Enel verso il modello di Open Innovation», ha dichiarato Ciorra.
   Intanto, Enel X, business line del gruppo Enel dedicata ai prodotti innovativi e soluzioni digitali, e Ardian, società privata leader mondiale nel settore degli investimenti, hanno lanciato una joint venture per gestire i progetti di accumulo di energia a batterie di Enel X in Canada e favorire l'accelerazione dello sviluppo di progetti simili nel Paese. I sistemi di accumulo di energia a batteria sono in rapida crescita: consentono agli utenti di immagazzinare l'elettricità nel momento in cui costa di meno e di consumarla quando i costi dell'energia prelevata dalla rete sono più elevati. «I sistemi di accumulo di energia a batterie rappresentano un elemento fondamentale nella transizione verso un sistema energetico sostenibile in quanto favoriscono la flessibilità e la stabilità delle reti', ha detto Francesco Venturini, ceo di Enel X. Questo investimento rafforza la posizione di Ardian come leader nel settore delle energie sostenibili in America», ha sottolineato Stefano Mion, senior managing director e co-responsabile di Ardian Infrastructure US.
   In base all'accordo è stata costituita una società veicolo ad hoc, all'80% di proprietà di Ardian Infrastructure (gestore di fondi infrastrutturali che si occupa in particolare del settore dell'energia e dei trasporti) e per il 20% di proprietà di Enel X, per gestire i progetti di accumulo di energia a batterie in Canada attualmente inclusi nella joint venture, per circa 30 Mw di capacità.
   Il portafoglio di sistemi di accumulo di energia a batterie include dieci località in tutta la regione dell'Ontario e comprende due progetti da 10 Mw/20 Mwh che dovrebbero entrare in esercizio nel 2021. Con questa collaborazione, Enel X continuerà a costruire, gestire e mantenere questi progetti, rimanendo responsabile anche dello sviluppo di quelli futuri.

(ItaliaOggi, 15 settembre 2020)


Anniversario della liberazione di Roma dallo Stato Pontificio

Riportiamo il discorso pronunciato domenica in modalità telematica dall'Ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, al convegno che si è tenuto a Saluzzo in occasione del 150esimo della Presa di Porta Pia.

Amiche e amici carissimi,
Gentili Autorità presenti,
Grazie per avermi invitato a questo significativo evento.

 
La famosa Breccia
La distanza e le ben note circostanze mi impediscono di partecipare personalmente, ma ci tengo a farvi pervenire, grazie alla tecnologia, alcune mie riflessioni sull'interessantissimo tema in oggetto.
  Per questo, ringrazio il Gruppo Sionistico Piemontese e il suo Presidente Emanuel Segre Amar, per la pregevole iniziativa e per l'opportunità datami.
  Quando gli intellettuali ebrei in Europa guardarono al processo di unificazione dell'Italia e al Risorgimento, a metà del XIX secolo, ne trassero ispirazione a beneficio della sorte del popolo ebraico.
  L'intellettuale ebreo franco-tedesco Moses Hess, che si era allontanato dal suo popolo, si riavvicinò proprio in seguito a quanto vide accadere in Italia. Fu influenzato dalla rinascita del nazionalismo italiano, in particolare dalle teorie di Giuseppe Mazzini, profeta del nazionalismo liberale italiano. L'Italia moderna fu fondata nel 1861, ma mancava ancora il cuore. Roma era allora sotto lo Stato Pontificio.
  Hess vide anche questo e, nel 1862, pubblicò il suo libro "Roma e Gerusalemme", in cui scriveva: "Con la liberazione della Città Eterna sulle sponde del Tevere, comincia la liberazione della Città Eterna sul Monte Moria (cioè Gerusalemme); con il rinascimento dell'Italia comincia quello della Giudea".
  Oggi, a distanza di oltre 150 anni dalla pubblicazione di quel libro, dopo la liberazione di Roma e dopo la liberazione di Gerusalemme, dopo la rinascita dell'Italia e la rinascita della Giudea con lo Stato di Israele, quelle parole suonano come una profezia.
  Come l'Italia, anche Israele fu fondato senza il cuore del suo popolo, senza Gerusalemme. Per il popolo italiano ci vollero 9 anni per ricongiungersi a Roma, mentre nel nostro caso ci sono voluti 19 anni perché Gerusalemme fosse riunificata. Ma questo lasso di tempo, in prospettiva storica, non è neanche una virgola.
  Gli ebrei sono stati parte integrante naturale del processo di unificazione dell'Italia, perché sono qui da quasi 2200 anni. Nel 161 a.C., dopo aver purificato Gerusalemme e il Tempio dalla presenza pagana dell'impero seleucide, Giuda Maccabeo inviò una delegazione diplomatica a Roma, per stringere un'alleanza di difesa.
  Da allora, la presenza ebraica in questo Paese è rimasta ininterrotta e ha spaziato in tutti i settori: dalla cultura all'economia, dalla sicurezza alla politica.
  La Roma dell'impero distrusse Gerusalemme, e, diversi secoli dopo, fu a sua volta distrutta e svanì dal mondo. La coscienza nazionale italiana iniziò a crescere nel Medioevo, fino a esplodere con grande clamore, a metà del XIX secolo, con l'unità d'Italia.
  La coscienza nazionale del popolo ebraico è entrata in un torpore per circa un millennio e mezzo, e ha cominciato a risvegliarsi negli ultimi secoli.
  L'unità d'Italia e il ruolo degli ebrei nella rivoluzione e nella costruzione della nuova nazione qui in questo Paese, hanno influenzato il nostro risveglio nazionale da quel lungo sonno.
  Si racconta che, quando il nuovo esercito italiano si presentò alle porte di Roma, nel settembre 1870, i soldati avessero qualche timore a entrare. Il Papa aveva minacciato di scomunica chiunque avesse osato aprire il fuoco.
  Così il Capitano Giacomo Segre si offrì volontario, per sparare il primo colpo di cannone. Probabilmente, in quel colpo di cannone, il Capitano Segre racchiuse tutte le umiliazioni che il suo popolo ha subito nel corso delle generazioni.
  Ma io credo che in questo atto vi fosse anche speranza. La stessa speranza che Moses Hess aveva espresso 9 anni prima: la redenzione di Roma sarebbe stato un grande segno verso la redenzione di Gerusalemme e della Terra d'Israele.
  Otto anni dopo la Breccia di Porta Pia e la liberazione di Roma, nel 1878, in Terra d'Israele fu fondata la città di Petah Tikva, che fu probabilmente il primo nuovo centro abitato ebraico, fondato dopo la distruzione del Paese, dove gli ebrei dimostrarono di poter vivere in modo indipendente. Petah Tikva in ebraico significa letteralmente Porta di Speranza. Anche Petah Tikva è stata come una breccia di speranza nella coscienza nazionale del nostro popolo, e infatti, 70 anni dopo, fu fondato lo Stato di Israele.
  Oggi il legame tra Israele e Italia è molto stretto. I due paesi cooperano profondamente in molti settori. La politica e la diplomazia svolgono un ruolo significativo nella costruzione di questo rapporto; Ci sono anche interessi comuni, ovviamente. Ma questa conferenza ci ricorda che queste relazioni poggiano su radici molto più profonde: una storia comune, una visione e valori condivisi, che hanno dato vita a un'alleanza condivisa di destino.
  Sabato prossimo celebreremo Rosh Hashana, il Capodanno dell'anno ebraico 5781. Colgo dunque l'occasione per augurare a tutti noi un anno buono e in buona salute.
  Dio vi benedica.
  Viva l'Italia! Viva lo stato d'Israele!

(Notizie su Israele, 14 settembre 2020)


Normalizzazione tra arabi e israeliani, il Marocco sarà il prossimo?

Dopo l'Arabia Saudita, il Bahrain apre lo spazio aereo per i voli israeliani

ROMA - Come hanno fatto gli Emirati Arabi Uniti un mese fa, ora anche il Bahrein ha accettato di normalizzare le relazioni con Israele, grazie ad un accordo mediato dell'amministrazione Trump, ma i leader palestinesi si sentono delusi ed abbandonati.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, successivamente, ha condiviso una lettera firmata da Stati Uniti, Bahrein e Israele. L'accordo degli Emirati Arabi Uniti, così come quello tra Bahrein-Israele normalizzerà le relazioni diplomatiche, commerciali e di sicurezza tra i due Stati.
   Il Bahrein, come l'Arabia Saudita, ha revocato il divieto ai voli israeliani, permettendo di utilizzare il proprio spazio aereo, facilitando i collegamenti diretti tra i due Paesi, nonché i sorvoli, precedentemente vietati.
   Potrebbe nascere un altro accordo tra arabi e israeliani e questa volta coinvolgerebbe il Marocco. Oggi i due Paesi non hanno relazioni formali, ma ai turisti israeliani è consentito entrare nel Paese. Tuttavia, ciò potrebbe presto cambiare se gli sforzi dell'amministrazione Trump daranno frutti e le due si stringeranno la mano. Tra gli obiettivi dell'accordo, entrambi i Paesi elencano l'apertura di voli diretti tra Tel Aviv e Rabat.
   Secondo il Jerusalem Post, circa 3.000 ebrei vivono in Marocco, in proporzione è ancora la più grande comunità israeliana nel mondo arabo.
   Il rapporto afferma anche che Washington continua a spingere l'Oman e il Sudan a creare legami diplomatici con Israele, come parte integrante di uno sforzo che serve per raggiungere il maggior numero possibile di risultati nello scenario internazionale, prima delle elezioni del 3 novembre.
   Il mese scorso, il Premier marocchino Saad-Eddine El Othmani aveva affermato che Rabat non avrebbe normalizzato le relazioni con Israele. Ma, giorni dopo, è sembrato ribaltare quelle affermazioni, dicendo che i suoi commenti, in opposizione ai legami più forti, sono stati fatti in qualità di leader del partito e non in veste di Primo Ministro.
   Il Marocco è stato visto come un successivo candidato per regolamentare i legami, dal momento che aveva già relazioni turistiche e commerciali con Israele. Nel rapporto si cita anche la protezione del Paese nordafricano alla sua piccola comunità ebraica.
   Stabilire relazioni diplomatiche formali con Israele può anche migliorare le relazioni del Marocco con gli Stati Uniti. Gli analisti affermano che, in cambio dell'accordo, Rabat potrebbe ottenere il riconoscimento americano della sua sovranità sul territorio conteso del Sahara occidentale, occupato nel 1975, quando la Spagna si ritirò dall'area. Il movimento Fronte Polisario non è ampiamente riconosciuto a livello internazionale.
   
(Kmetro0, 14 settembre 2020)


Netanyahu in Usa per la firma degli accordi con Emirati e Bahrein

Premier partito nella notte: "Sarà pace calda"

 
ROMA - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è partito nella notte per Washington per firmare i recenti accordi di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain. Lo riferiscono media israeliani.
   Prima di prendere il volo su un aereo con la scritta "Pace", il premier israeliano ha tenuto una conferenza stampa all'aeroporto sottolineando la natura storica del viaggio, in cui è pronto a firmare accordi di normalizzazione con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, solo quattro giorni dopo che quest'ultimo ha annunciato venerdì legami ufficiali con Israele.
   I ministri degli Esteri dei due paesi del Golfo dovrebbero unirsi a Netanyahu per la cerimonia in programma per il mezzogiorno di domani alla Casa Bianca, come ha riportato il Jerusalem Post.
   Nelle sue osservazioni prima della riunione di governo di domenica, Netanyahu ha detto che la sua conversazione con il re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa venerdì è stata "molto calda" e che hanno deciso di stabilire la pace ufficiale e pieni legami tra i paesi.
   "Ora abbiamo due storici accordi di pace con due paesi arabi entro un mese", ha detto Netanyahu ai ministri del governo. "Sono sicuro che tutti lodiamo questa nuova era … Voglio promettervi che ognuno di voi, attraverso i vostri ministeri, ne farà parte, perché questa sarà una pace diversa. Sarà pace calda, pace economica oltre alla pace diplomatica, pace tra le nazioni", ha detto.
   All'entusiasmo che gli israeliani hanno mostrato per questi nuovi legami ha fatto eco nelle popolazioni degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, ha detto Netanyahu. "Questo è davvero un cambiamento enorme", ha detto.
   Le bozze degli accordi non erano ancora state completate domenica sera e non è stato chiaro se il documento che Israele e gli Emirati Arabi Uniti firmeranno sarà chiamato "trattato di pace" o semplicemente "normalizzazione", ha riferito sempre il quotidiano israeliano.
   Poiché c'era meno tempo per prepararsi, l'accordo Bahrein-Israele sarà più dichiarativo e non sarà dettagliato come quello con gli Emirati Arabi Uniti.
   Il primo ministro supplente e ministro della Difesa Benny Gantz, che è stato informato in anticipo dell'accordo con il Bahrein, a differenza di quello con gli Emirati Arabi Uniti, ha elogiato Netanyahu prima del suo viaggio a Washington.
   Parlando alla cerimonia del Premio per la sicurezza israeliana, Gantz ha detto agli ufficiali di sicurezza che "faranno leva sulla normalizzazione e la promozione dei legami con i diversi paesi della regione per creare un fronte contro le minacce comuni e portare la cooperazione economica che rafforzerà la sicurezza e aiuterà l'economia di Israele per uscire dalla sua crisi. Faremo tutto questo preservando i vantaggi di sicurezza di Israele nella regione".
   Il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha parlato con i giornalisti sulla pista dell'aeroporto Ben Gurion pochi istanti prima di salire sull'aereo diretto a Washington. "Questo è un viaggio molto emozionante .. molte persone hanno lavorato molto duramente nel corso degli anni per rendere possibile questo momento", ha detto.

(askanews, 14 settembre 2020)


Riparte la scuola ebraica. Fortissima adesione per studenti e personale ai test sierologici

di Giorgia Caló e Luca Spizzichino

Rientro a scuola anche per i bambini e i ragazzi della comunità ebraica di Roma: la mattinata del 14 settembre riprende la didattica nel rispetto delle norme di sicurezza per il contenimento del virus; agli studenti infatti è stata misurata la temperatura all'ingresso dell'istituto, e grazie alla collaborazione della Comunità Ebraica di Roma con L'Associazione Medica Ebraica e L'Ospedale Israelitico, "sono state allestite circa 16 postazioni per effettuare test sierologici a circa 700 ragazzi", come ha spiegato il Presidente dell'AME Roma Fabio Gaj.
   "L'iniziativa è partita per proteggere al massimo la nostra scuola", ha detto il Dott. Massimo Finzi, "mentre nelle altre scuole italiane si è registrata un'adesione ai test di 1 su 4, nella nostra scuola abbiamo avuto un'adesione quasi del 100%. Dopo aver fatto il test sul personale, abbiamo deciso di farlo anche ai ragazzi".
18 medici e 4 infermieri volontari ad effettuare i test.
   "Siamo la prima scuola in Italia in cui docenti, personale e studenti si sottopongono spontaneamente al test. La scuola ha fatto un grande investimento, perché crede che la prevenzione sia molto più intelligente che trattare uno stato di malattia", ha raccontato la Dott.sa Elvira Di Cave.
   A salutare i ragazzi al loro rientro a scuola, anche i vertici della Comunità: il Presidente Ruth Dureghello, Il Vice Presidente Ruben Della Rocca, l'Assessore alle scuole Daniela Debach e il Rabbino Capo Di Segni.
   "Finalmente questa mattina i ragazzi sono tornati a scuola: un traguardo che pensavamo difficile da raggiungere, ma grazie al personale e a tutto lo staff e alla sicurezza, lo abbiamo trasformato in essere. Vedere i ragazzi felici fuori dalla scuola è stata una grande gioia, ci appelliamo al senso di responsabilità di tutti, a partire dai genitori e dagli insegnanti e che questo clima così sereno possa continuare e che questi ragazzi beneficino della scuola quanto più possibile" ha dichiarato la Presidente Dureghello.

(Shalom, 14 settembre 2020)


La riscoperta. Angelo Donati, nella storia di un singolo quella di tutti gli ebrei italiani

di Furio Colombo

Ugo Pacifici Noja e Andrea Pettini hanno scritto un libro più importante del loro progetto. E evidente che gli autori, efficaci scrittori ed esperti ricercatori di fatti veri, intendevano colmare un vuoto: raccontare la storia di un grande personaggio del secolo scorso, Angelo Donati, che attraversa l'interventismo, l'imprenditoria, il fascismo, la persecuzione, l'esilio, il ritorno, e si sono trovati di fronte a una realtà raramente visitata e poco nota: il ruolo, spesso molto grande, degli ebrei come cittadini italiani, in molti casi ai piani alti della società italiana. Angelo Donati, che si riconosce ebreo senza assimilazioni e abbandoni, ma altrettanto fermamente italiano di risorse e prestigio e dunque responsabile, come altri grandi italiani del suo ceto, del presente e futuro di questo Paese, diventa per i due autori del libro, uno straordinario punto di riferimento per offrire al lettore un testo che, pur con rigore storico e accademico, racconta un romanzo finora non narrato. Chi erano e come vivevano gli ebrei italiani, spesso cittadini eminenti, che la Shoah, approvata e voluta da leggi italiane, avrebbe poi tentato, con la firma del re, di annientare?
   Ecco che lungo il percorso di una sola vita che i due autori affrontano, dimostrando talento nello scrivere (il racconto diventa romanzo) quanto nel ricercare (il rigore della ricerca garantisce la storia), ci offrono un frammento di storia contemporanea italiana attraverso la storia mancante dell'ebraismo italiano. I punti originali della loro scoperta sono tre. Il primo è un carattere unico dell'ebraismo italiano: non c'è alcuna corsa a un fenomeno di assimilazione, in un Paese che appare accogliente e amico, e non c'è alcuna distanza dall'Italia e dalle sue istituzioni (generali e alti burocrati, non solo accademici e intellettuali). Sono grandi ebrei italiani religiosi o no, gli ebrei italiani restano ebrei, ma sono profondamente italiani, al punto da formare, come si è detto e come il libro Pacifici Noja-Pettini dimostra, parti illustri della classe dirigente (è il caso e la storia di Donati). Il secondo punto nella lealtà profonda che lega gli ebrei italiani (a cominciare dai più rappresentativi) al Paese senza contraddizioni con l'identità ebraica, che resta il chiaro e saldo riferimento della loro vita. Infine l'Italia non appare mai il Paese ospite ma il Paese patria, e l'immagine di Israele (molto prima che esista), perché un vento di sionismo, inteso come sentimento e stato d'animo, percorre l'ebraismo italiano, così italiano, molto di più che nel resto d'Europa. Il libro di cui sto parlando, dunque, mentre appare la rigorosa ricostruzione di una vita e di alcuni, anche drammatici, decenni italiani, è un saggio, organico e rigoroso sull'ebraismo italiano come parte importante, a momenti cruciale, della storia italiana.
   
(il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2020)
   
   

Lo sviluppo dell'AI in Israele: dalla lotta al Covid-19 all'urbanistica "intelligente"

in Israele sono numerose le aziende e le start up che sviluppano progetti basati su big data e intelligenza artificiale. Fra queste, da segnalare ZenCity, che aiuta i governi locali a tradurre ciò che le persone vogliono nelle loro città in modo più efficace

di Alberto Stefani

Negli ultimi anni Israele ha compiuto sforzi significativi per utilizzare l'intelligenza artificiale a favore delle esigenze dei cittadini aumentando gli studi e gli sforzi in vari settori tra cui la sicurezza informatica, la medicina, i servizi bancari o i trasporti.
  Mensilmente numerose start up si affacciano sul mercato con nuove idee e nuovi servizi il tutto a beneficio dello sviluppo economico del paese, dei posti di lavoro nell'ambito della ricerca e sviluppo di nuovi servizi nel rispetto di un'economia sostenibile e vantaggiosa per tutta la comunità.
  Israele promuove lo sviluppo delle nuove startup grazie a un tessuto economico basato su una forte interazione tra università, governo centrale, mondo del lavoro e investitori privati attratti da idee innovative che custodiscono una forte possibilità di sviluppo e guadagno.

 Israele e AI: il progetto Timna e il contrasto all'epidemia di Covid-19
  Volendo fare alcuni esempi sui progetti che hanno preso parte a questa fase di sviluppo possiamo ricordare ad esempio il progetto Timna.
  Timna è una piattaforma nel settore medico di ricerca sui big data, è un archivio di dati che consentono agli scienziati di generare intuizioni e identificare modelli che possono essere implementati nei sistemi di supporto decisionale. Strumenti per big data come Timna consentono la medicina di precisione, la diagnosi precoce e la cura della malattia attraverso modelli predittivi.
  L'iniziativa di medicina denominata Mosaic, cerca di abbinare il trattamento più efficace per ciascuno paziente migliorando drasticamente il tasso di successo evitando cure mediche superflue.
  Il Ministero della Salute israeliano sta lavorando anche alla creazione di depositi di campionamento genetico e biologico dei propri cittadini per monitorare e prevenire la diffusione di malattie.
  Durante la pandemia di Covid-19 alcuni ospedali del Paese si sono organizzati per gestire i malati attraverso l'uso della teleterapia intensiva a distanza associata all'uso dell'intelligenza artificiale.

 Israele e AI: difesa, navigazione stradale, trasporti
  Analizzando l'uso dell'intelligenza artificiale in altri settori e considerata la collocazione geopolitica di Israele in luoghi "complessi" le forze di difesa utilizzano questi strumenti nel campo dell'intelligence per analizzare enormi quantità di dati allo scopo di individuare potenziali minacce sul web e sui social media.
  Nei settori invece più legati ai servizi destinati al benessere dei cittadini nella vita quotidiana va ricordato che Israele è la patria di tecnologie come Waze, un'applicazione mobile gratuita di navigazione stradale per dispositivi mobili basata sul concetto di crowdsourcing sviluppata dalla start-up israeliana Waze Mobile e rilevata poi da Google, oppure Mobileye, una consociata israeliana della società Intel che sviluppa auto a guida autonoma basate sulla visione e su sistemi avanzati di assistenza alla guida che forniscono avvisi per la prevenzione e la mitigazione delle collisioni.
  La salute dei cittadini passa anche attraverso una migliore vivibilità delle città in un mix molto complesso di servizi efficienti, trasporti sicuri, spazi verdi e tante altre peculiarità tali da aumentare il benessere di tutti gli interlocutori. Vediamo come una startup israeliana abbia pensato di dare un contributo al raggiungimento del benessere collettivo delle città attraverso l'intelligenza artificiale.

 La piattaforma di ZenCity
  Esempio di applicazione dell'AI in Israele, ZenCity è una azienda che ha sviluppato uno strumento per il governo locale finalizzato al benessere e alla soddisfazione dei cittadini. Vediamo di capire meglio come funziona questa importantissima applicazione.
  Fondata a Tel Aviv nel 2015, ZenCity aggrega feedback e commenti da più fonti, inclusi social network, siti web di notizie e form di contatto dei canali di comunicazione delle istituzioni locali e applica l'intelligenza artificiale (AI) per aiutare a estrarre dati "strutturati" significativi in modo tale che gli urbanisti, i dirigenti e i responsabili delle aziende al servizio del territorio possano affrontare le questioni più pertinenti per i residenti nella loro zona. In effetti, l'AI garantisce che il feedback sia organizzato automaticamente per argomento, categoria, posizione e numerosi altri parametri tali da ridurre il più possibile le lungaggini burocratiche e i tempi morti.
  La piattaforma può essere utilizzata per qualsiasi apparato relativo ai servizi o alle infrastrutture della città, come il monitoraggio del sentiment riguardo a nuove misure di riduzione del traffico o iniziative di car sharing, o l'identificazione di problemi come la manutenzione dei marciapiedi o lo standard dell'istruzione locale.
  La piattaforma ZenCity utilizza una tecnologia AI all'avanguardia per raccogliere i commenti pubblici online in tempo reale, estrarre automaticamente i punti e gli argomenti principali discussi e analizzare il sentimento che li circonda.
  La capacità di monitorare rapidamente più canali pubblici contemporaneamente, inclusi social media, media locali e canali di assistenza ai cittadini come call center e app, consente di rispondere senza indugio scongiurando ritardi e preoccupazioni dei residenti.
  Analizzando sia i canali gestiti dal governo locale che quelli non direttamente gestiti dalle istituzioni, che rappresentano oltre l'80% dei discorsi pubblici, gli amministratori di città ed enti locali sono in grado di ottenere un quadro completo dell'opinione dei residenti.
  Il sistema di ZenCity invia automaticamente agli organi competenti avvisi in tempo reale tramite e-mail o notifiche push per aumentare la visibilità e non perdere mai un aggiornamento. Inoltre, la provenienza dei dati viene geolocalizzata ed è in grado di individuare il discorso in base a quartieri specifici e allocare in modo efficiente le risorse localizzate e il raggio d'azione da considerare.
  La piattaforma, basata sull'intelligenza artificiale, aiuta i governi locali a tradurre ciò che le persone vogliono nelle loro città in modo più efficace ed elimina le lungaggini dal processo decisionale.
  Quindi si forniscono insight (termine che in psicologia indica la percezione netta e immediata di fatti esterni o interni) affidabili, in tempo reale che aiutano i governi locali a dare priorità alle risorse, monitorare le prestazioni e connettersi con le loro comunità.
  Alla luce degli sviluppi dei mesi passati, la diffusione della pandemia di Covid-19 e il conseguente lockdown si è avuto un aumento esponenziale dei discorsi e delle opinioni online dei residenti ai massimi storici in tutti i paesi del mondo. Internet e i social network sono diventati la bacheca ufficiale per esprimere i propri pensieri, domande e preoccupazioni. Ora, con la riapertura dei governi locali e delle attività, in un clima di incertezza sul futuro, i residenti cercano sempre più informazioni e comunicazioni precise dalle istituzioni.
  Questa nuova realtà inesplorata sottolinea la necessità di comprendere le richieste, le preoccupazioni e le priorità dei cittadini in tempo reale e su vasta scala, in modo che i governi locali possano ottenere un rapido ciclo di feedback mentre definiscono le loro politiche, le loro azioni e le strategie di messaggistica rivolte ai residenti.
  L'intero team di ZenCity ha effettuato un lavoro enorme all'interno di numerose città degli U.S.A. per supportare i passaggi fondamentali nella gestione agile del ripristino delle attività bilanciando il contenimento dei virus e i servizi a supporto della popolazione.
  Questa metodologia è attualmente attiva in oltre 150 enti governativi locali e in 26 stati di tutto il territorio statunitense. L'obiettivo è sfruttare facilmente i discorsi della comunità pubblica per rafforzare le comunicazioni del governo locale, dare priorità ai servizi che i residenti apprezzano di più, contrastare la disinformazione e ottimizzare gli sforzi per la riapertura delle attività.
  La rapida crescita di ZenCity è frutto anche di continui investimenti nel capitale da parte di multinazionali come Microsoft, che nell'ottobre 2017 lanciò il concorso Innovate.AI da 3,5 milioni di dollari per startup di intelligenza artificiale.
  ZenCity fu il vincitore per la regione di Israele e parte del suo premio ha costituito un investimento azionario di 1 milione di dollari da parte di M12 e Vertex Ventures. Il duo è stato chiaramente impressionato da ZenCity a tal punto da garantire che la prossima iniezione di denaro della startup fosse del 600% più grande del solo premio promesso.

 L'importanza dei big data
  I big data sono emersi come una forza chiave nella cosiddetta rivoluzione della "città intelligente" e il traffico in particolare gioca spesso un ruolo fondamentale. In Cina, ad esempio, Didi Chuxing sta prestando i suoi dati di ride sharing alle autorità come parte di un programma per alleviare la congestione del traffico, mentre anche Uber ha precedentemente lavorato con le città per aiutare a gestire la crescita urbana, alleviare la congestione del traffico ed espandere i trasporti pubblici.
  Altrove, la piattaforma di gestione del traffico Waycare sfrutta più fonti di dati storici e in tempo reale, tra cui piattaforme di auto connesse, telematica, telecamere stradali, progetti di costruzione e servizi meteorologici per aiutare gli urbanisti a migliorare la sicurezza e le infrastrutture.
  ZenCity si inserisce perfettamente in un ambito più ampio proponendosi come un'alternativa moderna ai dati, alle riunioni e ai sondaggi.
  "La rapida crescita di ZenCity negli Stati Uniti è una testimonianza dell'impegno che le città hanno nel connettersi e comprendere i propri cittadini", ha affermato Eyal Feder-Levy, CEO e cofondatore di ZenCity. "Riflette anche una crescente domanda da parte delle città statunitensi di essere più guidate dai dati".
  Un'ultima caratteristica particolarmente degna di nota su cui lavorerà la startup sarà la funzionalità di sintesi vocale. Per ora si basa su appunti presi dai lavoratori del contact center che vengono aggiunti manualmente al loro sistema online, ma in futuro ZenCity potrebbe essere in grado di "ascoltare" il feedback verbale e trasformare l'audio in dati di testo significativi da utilizzare per il bene di tutta la comunità.

(Al4Business, 14 settembre 2020)


Israele, nuovo lockdown. Si dimette il ministro dell'Edilizia ultraortodosso Yakov Litzman

A pochi giorni dal Capodanno ebraico e dal Kippur, il governo prende una decisione osteggiata dai partiti religiosi al governo e da chi teme le ricadute economiche. Il Paese è il primo al mondo per numero di nuovi contagi per milione di abitanti, ma terzo per tamponi effettuati ed è in fondo alle classifiche per mortalità.

di Sharon Nizza

 
Yakov Litzman
GERUSALEMME - Il governo israeliano ha deciso di proclamare un nuovo lockdown per arginare l'epidemia. Durerà tre settimane a partire dalle 14 di venerdì 18. Il secondo confinamento sarà articolato in tre fasi e conterrà misure molto rigide. La riunione di governo che doveva stabilire se confermare il nuovo lockdown generale è stata lunga e difficile per via dell'opposizione di diversi ministri, in primis quello del Tesoro Israel Katz. Ma la decisione è arrivata, in tempo per consentire al primo ministro Benjamin Netanyahu di volare a Washington questa sera alle 23:00, per firmare martedì mattina alla Casa Bianca lo storico accordo di normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein.
  A confermare la spaccatura nel governo, le dimissioni presentate in mattinata dal ministro dell'Edilizia Yakov Litzman, esponente di uno degli influenti partiti religiosi che formano la coalizione di governo. Litzman, ministro della Salute per diversi anni, compresa la prima fase della pandemia, si era già dimesso a fine aprile dall'incarico, per ottenere il dicastero dell'Edilizia con il giuramento del nuovo governo Netanyahu a maggio.
  Litzman è contrario al lockdown perché impedirebbe le preghiere nel periodo delle festività più solenni del calendario ebraico, Rosh Hashanà (il Capodanno), il digiuno del Kippur e Sukkot (la festa della Capanne), un periodo di circa tre settimane che inizia venerdì 18 settembre. Il lockdown generale arriva proprio in coincidenza di quel periodo, caratterizzato da grandi assembramenti durante i pasti tradizionali e le funzioni religiose, ma anche nei luoghi di intrattenimento, in quanto si tratta di un periodo di ferie. Litzman aveva chiesto con forza di applicare il lockdown ad agosto - quanto già il trend di aumento dei contagi era visibile - per evitare di arrivare alla chiusura durante le festività.
  Il ministero del Tesoro, che insieme a quelli della Scienza, Turismo, Economica e Welfare guida la fronda interna, stima che un nuovo lockdown implica perdite di 1,2 miliardi di euro a settimana e lascerebbe nuovamente a casa altri 300.000 lavoratori.
  Durante l'acceso dibattito tra i ministri - in cui peraltro tutti i dirigenti del ministero della Salute intervenivano in videoconferenza perché in isolamento preventivo, come circa 90 mila israeliani in questo momento - l'unica significativa deroga che è stata fatta è che gli esercizi commerciali nel settore privato potranno continuare a lavorare nella formula attuale, ma senza ricevere il pubblico.
  La proposta era stata già approvata (6 contro 4) giovedì dal gabinetto ristretto per il coronavirus e oggi è arrivata al plenum del governo che ha deciso misure simili a quelle dello scorso aprile: per tre settimane vi sarà il divieto di spostarsi oltre 500 metri dall'abitazione, se non per motivo comprovato, limitazione degli assembramenti a 10 persone in spazi chiusi, attività economiche chiuse salvo esercizi vitali, lavoro remoto, chiusura del sistema scolastico che aveva ripreso il primo settembre dopo la pausa estiva, solo consegna a domicilio per i ristoranti.
  Dopodiché si entrerebbe in una seconda fase con limitazioni meno serrate fino a tornare, dopo un mese e a seconda dei risultati ottenuti dalle misure precedenti, al "Piano semaforo", il programma del Commissario per l'emergenza Covid, Ronni Gamzu, che stabilisce le restrizioni in base al tasso di contagio nell'area di residenza (verde - arancione - rossa).
  Ma non solo la politica è divisa. Nella comunità medica vi sono pareri contrastanti circa l'efficacia del nuovo lockdown generale. Nel comitato degli esperti che supporta il lavoro di Gamzu, molte voci premevano per misure più rilassate. Gli esperti sostengono che si debba tenere conto del prezzo economico e psicologico di un nuovo lockdown. Inoltre c'è chi, in primis tra i ristoratori e gestori di palestre e piscine - che secondo i dati finora non sono stati epicentri di contagio - minaccia di non rispettare le misure.
  La decisione di applicare un nuovo lockdown arriva dopo che i contagi la scorsa settimana hanno superato i 4.000 giornalieri. Israele a oggi risulta il primo Paese al mondo per numero di nuovi contagi per milione di abitanti, ma anche terzo per tamponi effettuati (oltre 30 mila al giorno in un Paese di 9 milioni di abitanti). Inoltre, con 1,108 deceduti dall'inizio della pandemia, è in fondo alle classifiche per la mortalità. Parte dei direttori di ospedali sostengono che, se non si chiudesse ora, le terapie intensive arriverebbero a saturazione nel giro di un mese. Diversi medici invece sostengono che i numeri, e soprattutto la crescita non esponenziale dei pazienti intubati (a oggi 139, a inizio agosto erano 95), non giustifichino una misura così drastica come una nuova chiusura totale.
  La grande confusione nella gestione della crisi e la convinzione da parte del pubblico che le decisioni siano motivate da considerazioni politiche per non alterare gli equilibri di governo, hanno portato la fiducia della popolazione nell'operato dell'esecutivo al 45% secondo i sondaggi, praticamente dimezzando il consenso di aprile che aveva raggiunto anche picchi dell'85%. Il Likud invece, il partito del premier Netanyahu, risulta sempre il primo partito (31 seggi) con oltre 10 punti di distacco rispetto a tutti gli altri rivali.

(la Repubblica, 13 settembre 2020)


Pace in Medio Oriente. Ora Trump accelera

Il presidente americano punta sulla politica estera in vista delle presidenziali per far dimenticare il Covid e le tensioni razziali.

di Francesco Semprini

NEW YORK - Alle prese con le difficoltà interne legate alla gestione della pandemia e le tensioni razziali, Donald Trump punta alla politica estera per rafforzare i consensi e rilanciare la candidatura ad un secondo mandato alla Casa Bianca. È questa la strategia, secondo gli osservatori, che il presidente adotterà nel dibattiti con lo sfidante Joe Biden, il primo dei quali è previsto per il prossimo 29 settembre. E lo farà partendo dal più recente risultato messo a segno, ovvero la decisione del Bahrein di firmare un accordo di pace con Israele, sulla scia di quello già siglato dagli Emirati Arabi Uniti meno di un mese fa, ribattezzato "Accordo di Abramo", la cui ufficializzazione avverrà martedì con una cerimonia solenne alla Casa Bianca. «Un'altra nuova svolta storica oggi» ha esultato su Twitter Trump venerdì all'annuncio giunto da Manama. «I nostri grandi amici, Israele ed il regno del Bahrein, hanno concordato un Accordo di Pace». L' "Accordo di Abramo" è stato patrocinato in particolare dal genero del presidente, Jared Kushner, nell'ottica della risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Al netto del rifiuto palestinese, per Trump la firma di questo accordo è un importante traguardo tanto che per alcuni suoi sostenitori il presidente meriterebbe la candidatura al premio Nobel per la Pace. Con questa mossa, assieme all'eliminazione del califfo Abu Barr al Baghdadi e a quella del potente generale iraniano Qasem Soleimani, Trump punta a mettere in secondo piano i problemi interni, virus e ricadute economiche in testa, per presentarsi all'appuntamento del 3 novembre come il giustiziere che fa trionfare il bene sul male in tutto il mondo.

(La Stampa, 13 settembre 2020)


L'Oman accoglie con favore l'accordo tra Bahrein e Israele

 
La visita di Netanyahu in Oman (2018) ha costituito la prima visita di un leader israeliano al sultanato in oltre due decenni
GERUSALEMME - L'Oman accoglie con favore l'istituzione di relazioni diplomatiche tra il Bahrein e Israele. A riferirlo è l'emittente televisiva nazionale "Oman Tv" in un post su Twitter. "Il Sultanato accoglie con favore l'iniziativa intrapresa dal fraterno regno del Bahrein", si legge nel testo. L'auspicio è che "questa nuova direzione strategica, scelta da alcuni paesi arabi, contribuisca in modo concreto al raggiungimento di una pace basata sulla fine dell'occupazione israeliana dei territori palestinesi e sulla creazione di una Palestina indipendente con capitale Gerusalemme est". L'Oman ribadisce la propria adesione alla risoluzione della questione israelo-palestinese basata "sul principio dei due Stati, come stipulato nelle decisioni arabe e internazionali". Il Bahrein è il quarto paese arabo e il secondo del Golfo a riconoscere Israele, dopo l'Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994 e gli Emirati Arabi Uniti quest'anno. Secondo un rapporto del ministero israeliano dell'Intelligence, gli "stretti legami" dell'Oman con l'Iran renderebbero difficile la firma di accordi tra Mascate e Israele in materia di armi, ma ci sarebbero potenzialità per la cooperazione in materia di lotta al terrorismo e sicurezza interna. Secondo il rapporto, gli omaniti sarebbero interessati alle tecnologie civili israeliane, per esempio in ambito idrico, agricolo e in tecnologie legate a informatica e comunicazione. Nel 2018 il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha visitato l'Oman per colloqui sulle iniziative di pace in Medio Oriente con l'allora sultano Sultan Qaboos. In una regione turbolenta, l'Oman ha sempre mantenuto una posizione di neutralità e relazioni amichevoli con una serie di attori regionali, Iran incluso.

(Agenzia Nova, 13 settembre 2020)


La pace con Israele è una presa d'atto della realtà

Lo capiscono tutti, meno che i palestinesi

di Ugo Volli

C'è un aspetto della recente politica mediorientale che non è stato sottolineato abbastanza dalla stampa e che invece è molto significativo. Dopo i recenti accordi fra Israele e gli Emirati (più il Malawi e il Ciad, più Serbia e Kossovo, ma queste sono altre storie) e le concessioni che sono venute da Bahrein e Arabia (il permesso di utilizzare lo spazio aereo, sempre negato a Israele, probabilmente come segnali di analoghi accordi futuri), insomma dopo i grandi progressi diplomatici di Israele sulla via della normalizzazione con realtà musulmane e anche arabe, non ci sono state manifestazioni di protesta. La mitica "piazza araba" non si è manifestata e neppure si sono fatti sentire i religiosi musulmani - con l'eccezione naturalmente di quelli legati a Turchia, Iran e ai loro satelliti come Hamas, Hezbollah, Siria, Houtis. Anche i sudditi dell'Autorità Palestinese non si sono mobilitati, nonostante le dichiarazioni di fuoco della loro burocrazia politica. E' un dato molto significativo. Non che di improvviso, dopo mille e trecento anni di indottrinamento antiebraico dell'Islam, gli arabi si siano trovati a voler bene e a stimare gli ebrei. Molto più probabilmente sono stanchi di guerra, disposti a prendere atto della realtà dello Stato di Israele, come hanno dovuto prendere atto nella storia che la loro espansione è stata respinta in vari tempi nei Balcani, in India e (almeno fino a che non prevalesse l'invasione silenziosa in corso, in Europa). E' un segnale forte, vuol dire che si intravvede finalmente la fine del conflitto arabo-israeliano, che è la vera guerra in corso in Medio Oriente. La pace vera nasce così, dall'accettazione dei fatti, dal commercio, dalla coesistenza, dagli interessi comuni, non dai grandi sentimenti. Di fronte a questo grande sviluppo, è forse caduto il potere di veto attribuito una volta dai paesi islamici e ora quasi solo dall'Europa ai "palestinesi". Il cosiddetto "movimento palestinese" è stato solo un'arma diplomatica e militare in questa guerra, inventato dai servizi segreti sovietici e arabi. Ma come quel soldato che era già morto ma non lo sapeva, così i palestinisti continuano la loro "lotta" contro Israele, a Ramallah e a Gaza come a Bruxelles. Finché, speriamo, si accorgeranno dell'inutilità storica dei loro sforzi, del sangue versato, dei boicottaggi.

(Shalom, 13 settembre 2020)


"E' ora di normalizzare, Abu Mazen e Hamas si decidano a cedere"

L'intervista all'ex ministro dell'Anp Abu Zaida. Se gli Eau mandano un aereo a Tel Aviv con aiuti umanitari per i palestinesi, l'Anp lo respinge. Mentre il Qatar ogni mese si accorda con Israele per dare soldi a Gaza.

di Sharon Nizza

Mohammed Dahlan
«Non entro a Gaza da quando è iniziato il coronavirus. Non posso vivere senza il mare». Sufian Abu Zaida osserva le onde dal lungomare di Tel Aviv, mentre parla del momento critico che sta affrontando la leadership palestinese. In passato più volte ministro dell'Anp, oggi fa parte dell'opposizione più agguerrita contro Abu Mazen: è uno dei punti di riferimento in Palestina di Mohammed Dahlan, l'ex uomo forte di Fatah a Gaza, la vera spina nel fianco di Abu Mazen, che lo espulse dal partito nel 2011. Dahlan da allora vive ad Abu Dhabi, dove è una voce ascoltata a palazzo. Anche Abu Zaida è stato cacciato da Fatah nel 2014. Hanno costituito la Corrente Democratico-Riformista di Fatah, non riconosciuta dal movimento. Sorride alla domanda se Dahlan sia coinvolto - come sostengono le voci infuriate alla Muqata - nell'accordo Israele-Emirati che verrà firmato a Washington martedì insieme a quello con il Bahrein. «La vera domanda è perché esiste una normalizzazione halal (permessa) e un'altra haram (vietata). Se gli Emirati mandano un aereo a Tel Aviv con aiuti umanitari per i palestinesi, l'Anp lo rimanda indietro, mentre l'inviato del Qatar ogni mese si accorda con Israele per portare i soldi nella Striscia di Gaza».

- Ramallah dice che è una violazione del principio «non c'è normalizzazione senza uno Stato palestinese nel confini del '67».
  «La normalizzazione l'abbiamo iniziata noi con Oslo, aprendo la strada agli accordi sottobanco tra Paesi arabi e Israele. Eau e Bahrein hanno deciso di giocare a carte scoperte».

- La Lega Araba ha rifiutato dl sostenere la risoluzione di condanna degli Emirati presentata dafl'Anp.
  «Ogni Stato fa i propri interessi. Inserire la questione palestinese nell'accordo, sostenendo che gli Eau abbiano fermato l'annessione, è stato solo un pretesto».

- Quanto sta accadendo influisce sulla questione della successione ad Abu Mazen?
  «Abu Mazen non è più legittimo. È stato eletto per 4 anni e ne sono passati 14. Dopo di lui ci devono essere almeno tre successori: Olp, Fatah e Anp. Basta con la concentrazione del potere».

- Che probabilità ha Dahlan come candidato in esilio negli Emirati?
  «Le accuse infondate contro di lui l'hanno rafforzato, è l'unico ad avere sostegno popolare. I sondaggi gli danno tra il 7 e il 14% dei consensi, i 99 membri dell'attuale establishment rasentano il 2%. E questo mentre sta all'estero ed è continuamente diffamato».

- I palestinesi sono isolati?
  «Oggi ci sono tanti problemi nell'area che mettono in secondo piano la causa palestinese. In questi anni avremmo potuto fare dell'Anp un gioiello, basato sulla separazione dei poteri, sulla trasparenza. Avremmo potuto essere la consolazione per le sofferenze dell'occupazione. Invece siamo riusciti a fare peggio, ci siamo sparati l'un l'altro. Parliamo dell'iniziativa araba del 2002, ma siamo nel 2020! Pensiamo al rifiuto di Arafat di Camp David nel 2000: chi crede che oggi potremmo ottenere quanto ci hanno proposto allora?».

- Che cosa si può fare in questa situazione?
  «Unità. Nel 2011 l'accordo del Cairo definiva tutto, basta implementarlo. Ma Abu Mazen e Hamas vogliono ricevere tutto senza rinunciare a nulla».

- La settimana scorsa c'è stata la videoconferenza tra Abu Mazen da Ramallah e Hanlyeh da Beirut ed è entrata a Gaza la ministra della Salute dell'Anp. Un cambio di rotta?
  «Non sarei così ottimista. La crisi del virus a Gaza è una priorità ora. Un accordo comporta elezioni. E i vertici dell'Anp non sono interessati ora a una gara tra più candidati».

- Come sono vissute le sue posizioni?
  «Pago un prezzo. Ma nessuno mi toglierà la libertà di dire quello che penso».

(la Repubblica, 13 settembre 2020)


Israele - Paesi arabi: gli unici che si oppongono alla pace sono i pacifisti

Davvero potete credere che il loro obiettivo sia la nascita di uno Stato Palestinese? Ormai non ci credono più nemmeno gli arabi

di Franco Londei

Se gli unici che si oppongono alla pace tra Israele e Paesi Arabi sono quelli che più ne dovrebbero gioire, cioè i pacifisti, un motivo ci deve pur essere.
   Se Israele è l'unico paese democratico dove operano direttamente centinaia di ONG (qui la lunghissima lista) e associazioni come non succede nemmeno nei peggiori teatri di guerra, un motivo ci deve pur essere.
   Se prendiamo una zona come l'Africa dei Grandi Laghi, dove sono in corso centinaia di micro-conflitti con stragi quotidiane, dove la povertà è endemica e le malattie di ogni tipo sono un fatto normale e la paragoniamo con Israele, possiamo notare subito la sproporzione del numero di ONG operanti sul territorio tenendo conto della situazione locale (non di guerra in Israele), delle condizioni sanitarie (Israele è un paese moderno con una sanità di eccellenza), dei valori della povertà e dello sviluppo locale.
   Insomma, se in Israele ci sono molte più ONG che in Congo (tenuto conto delle debite proporzioni) un motivo ci deve pur essere.
   Voi direte che il motivo sono i poveri palestinesi senza terra e senza Diritti. Direte che a Gaza stanno peggio che in Congo e che in Cisgiordania (in realtà Giudea e Samaria) la povertà non sarà come quella in Congo ma ci si avvicina parecchio.
   Beh, vi sbagliate. Sempre tenendo conto delle debite proporzioni, la cosiddetta Palestina ha ottenuto dieci volte di più degli aiuti internazionali destinati al Congo o a uno qualsiasi dei tanti paesi africani in via di sviluppo. Con il denaro destinato alla cosiddetta Palestina ci si sviluppavano una quindicina di paesi africani. Invece i "poveri palestinesi" sono ancora li a prendersela con gli israeliani invece che con chi tutti quei soldoni se li è mangiati.
   Ecco, i soldoni, il fiume di denaro che scorre verso la cosiddetta Palestina è il motivo per cui ci sono tutte quelle ONG e, soprattutto, il motivo per cui queste ONG di pacifisti si oppongono a qualsiasi forma di pace. Con la pace il fiume di denaro si fermerebbe e addio soldoni.
   Pensate solo a cosa succederebbe se dovesse nascere uno Stato Palestinese. Fine delle erogazioni di denaro a fondo perduto. I soldi li prendi in prestito e quindi li devi restituire. Poi devi creare tutta la struttura statale, la sanità, l'economia, una moneta nazionale, devi creare infrastrutture ecc. ecc.
   Davvero qualcuno può credere che i cosiddetti pacifisti e la dirigenza palestinese possano rinunciare a tutto quel denaro in cambio della pace e di tutte le "beghe" che immancabilmente porta la fine di un conflitto, seppure a bassa intensità? Davvero potete credere che il loro obiettivo sia la nascita di uno Stato Palestinese? Ormai non ci credono più nemmeno gli arabi, per questo uno dietro l'altro abbandonano la "causa palestinese" e fanno pace con Israele.
   Rimangono loro, i pacifisti, gli indefessi difensori della causa palestinese purché porti denaro (e fama, qualche volta). Ma ormai, temo, è finita anche per loro.

(Rights Reporter, 13 settembre 2020)



Beitar, da club "senza arabi" a una possibile proprietà di Abu Dhabi

La notizia ha del clamoroso. Tra i tanti effetti che l'accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti potrebbe sortire c'è anche il cambio di proprietà di uno dei club più importanti ma anche più discussi del calcio israeliano. Un facoltoso imprenditore di Abu Dhabi, di cui non è stata ancora resa nota l'identità ma che ha già rilasciato alcune dichiarazioni ai media locali, sarebbe infatti interessato all'acquisto del Beitar Gerusalemme. "Un accordo è possibile" ha detto l'uomo, la cui proposta è stata veicolata da un membro della famiglia reale.
   Per il club capitolino, costretto da anni a confrontarsi con la violenza e il razzismo anti-arabo di una parte significativa del proprio tifo organizzato, si tratterebbe di una svolta storica. Una possibilità che sembra quasi fantascienza, se si pensa all'orgoglio esibito dai membri de La Familia, l'ala più estrema dei supporter del Beitar, di essere l'unica squadra del campionato a non aver mai avuto un giocatore arabo tra le proprie fila. Sono gli stessi che nel 2008 offendevano dagli spalti Maometto o che nel 2012 si opponevano all'acquisto di due calciatori ceceni perché "colpevoli" di essere musulmani. Proteste in curva che in molti casi sono dilagate in gravissime violenze pubbliche. Un clima denunciato come intollerabile anche dal più autorevole tifoso del Beitar: il presidente d'Israele Reuven Rivlin.
   Si prospetta adesso un incredibile cambio di passo. Un'ipotesi sorprendente, che dovrà però vincere molti ostacoli. L'attuale proprietario, Moshe Hogeg, si dice comunque fiducioso: "Se ci sarà uno spirito di tolleranza, potremo creare un'atmosfera di pura amicizia".

(moked, 13 settembre 2020)


La minaccia iraniana contro il Bahrein dopo l'accordo con lo Stato ebraico

Alla Fatwa della comunità locale sciita si aggiungono gli attacchi dei pasdaran e di Hezbollah.

di Vincenzo Nigro

Un altro Paese arabo, il quarto, fa la pace con Israele. E l'Iran scatena una guerra di parole come non aveva ancora fatto.
   Il Paese è il più piccolo del Golfo Persico, l'isola del Bahrein governata dal re Hamad al Khalifa. Sembrerebbe quasi insignificante, un mini arcipelago con una popolazione di 1 milione 300mila arabi e 200mila stranieri, fra cui molti immigrati asiatici. E invece la mossa del governo che martedì prossimo a Washington si accoderà con Benjamin Netanyahu sotto gli occhi di Donald Trump, sta provocando una tempesta poderosa nel Golfo.
   Gli sciiti dell'area si stanno scatenando contro la dinastia sunnita (minoritaria) che governa l'isola. Una sequela di attacchi come non era accaduto pochi giorni fa con l'annuncio dell'intesa fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.
   I più duri nell'attaccare il re Hamad sono i pasdaran iraniani e l'Hezbollah libanese. Le Guardie della rivoluzione iraniana minacciano: «Il sovrano del Bahrein deve aspettarsi una dura vendetta da parte dei Mujahiddin di al-Quds (al Quds è Gerusalemme, ndr) e della nazione musulmana orgogliosa di questo Paese». La dichiarazione dei pasdaran quasi preannuncia un'azione militare, e segue le critiche durissime del ministero degli Esteri iraniano guidato da Mohammad Javad Zarif: «I dirigenti del Bahrein ormai sono complici dei crimini del regime sionista, sono una minaccia costante per la sicurezza della regione e per il mondo musulmano». Per gli Hezbollah libanesi l'accordo Israele-Bahrein è «una pugnalata alle spalle dei palestinesi».
   Ma ecco che emerge la differenza con gli Eau: la federazione guidata dallo sceicco Mohammad bin Zayed è uno Stato a maggioranza sunnita, con un fortissimo controllo di polizia e un esercito relativamente potente. Ci sono fra Abu Dhabi e Dubai migliaia di espatriati iraniani, ma in gran parte lavorano e pensano solo agli affari, non seguono le direttive politiche di Teheran. E sono tutti sotto stretto controllo. Infine, nessuno, o quasi, dei cittadini degli Emirati ha criticato Trump alla vigilia della firma.
   In Bahrain circa il 70 per cento della popolazione è sciita, sono sottoposti al durissimo regime poliziesco dei sunniti della dinastia Khalifa. Dalla fallita "primavera delle perle" del febbraio del 2011, gli sciiti sono vittime di arresti, torture, vessazioni di ogni tipo. E loro, sostenuti e sobillati dall'Iran, si organizzano sempre meglio.
   Ieri il leader religioso degli sciiti dell'isola ha pronunciato una "fatwa" per dire che la normalizzazione con Israele è "haram", è proibita dalla legge islamica. Sheikh Isa Qassim sostiene che «qualunque normalizzazione dei rapporti con il regime sionista rappresenta un tradimento della nazione islamica». Un'altra condanna interna arriva da "Al Wafaq", il primo partito di opposizione sciita nel Paese (il leader è un carcere). Per loro l'accordo è «un golpe contro la volontà popolare, un tradimento nei confronti di tutti i musulmani».
   In sintesi: se l'Iran vorrà reagire alle mosse di Israele, degli Stati Uniti e dei regni sunniti, in Bahrein potrà farlo con grande efficacia. E ha già minacciato di agire.

(la Repubblica, 13 settembre 2020)



Il segno distintivo di Israele: vita che scaturisce dalla morte

di Marcello Cicchese

In verità, in verità vi dico: se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto (Giovanni 12:24).

Nel suo libro "Viva Israele" lo scrittore arabo Magdi Cristiano Allam ha espresso il suo pieno convincimento che oggi più che mai la difesa del valore della sacralità della vita coincide con la difesa del diritto all'esistenza di Israele. Si nasconde dunque in Israele il senso profondo della "sacralità della vita"? Qualcuno potrebbe osservare che certe religioni pagane esaltanti la fertilità e la fecondità esprimono meglio dell'ebraismo l'amore in senso lato per la vita. Non si difende Israele contrapponendo a morbose ideologie esaltanti la morte euforiche ideologie esaltanti la vita, perché anche queste ultime possono rivelarsi come seducenti vie che conducono alla morte.
   In realtà, quello che conta non è l'esaltazione unilaterale dell'uno o dell'altro dei due termini "vita" e "morte", ma il modo in cui vengono collegati fra di loro. Si può dire che nella maggior parte delle ideologie di stampo nazi-fascista o islamico-terroristico, la forza della vita viene esaltata e messa a disposizione della morte in vista di un traguardo glorioso da raggiungere in un futuro più o meno lontano. Si pensi ai "sani e forti" giovani fascisti e nazisti preparati alla guerra di conquista nazionale, o ai "sani e belli" bambini islamici preparati a farsi saltare in aria insieme a tanti ebrei con l'obiettivo di raggiungere uno stato di paradisiaca beatitudine.
   Per l'Israele della Bibbia le cose sono diverse: morte e vita sono entrambe presenti, ma a differenza delle ideologie pagane le vie bibliche non partono dalla vita per finire nella morte, ma incontrano la morte per giungere a una nuova vita.
   Le cose sono cominciate con Abramo. All'età di settantacinque anni, quindi non più nel pieno vigore della vita ma già piuttosto attempato, il patriarca viene chiamato da Dio a "morire socialmente" separandosi dai suoi familiari e da tutto il suo mondo per andare in un luogo ignoto. Lì Dio promette che lo benedirà, lo farà diventare una grande nazione e farà sì che in lui tutte le nazioni della terra saranno benedette. Passano gli anni e non succede niente. Quando Dio si rifà vivo Abramo glielo fa notare: "Tu non m'hai dato progenie" (Genesi 15:3), dice al Signore, e premurosamente chiede se il suo erede sarà Eliezer, il suo servo di Damasco. No, risponde il Signore, non sarà un siriano a portare la benedizione al mondo, ma "colui che uscirà dalle tue viscere sarà erede tuo" (Genesi 15:4). Per fugare i comprensibili dubbi di Abramo, Dio lo porta fuori (evidentemente si trovavano in casa) e gli dice: "Guarda il cielo e conta le stelle se le puoi contare. Tale sarà la tua progenie" (Genesi 15:4).
   Dopo di che accade uno dei fatti più importanti della storia dell'umanità:
    "Ed egli credette all'Eterno, che gli contò questo come giustizia" (Genesi 15:5).
Che cosa aveva fatto di tanto straordinario Abramo per essere considerato giusto davanti Dio? Quali opere meritorie aveva compiuto? Quale superiore stile di vita aveva esibito? Quali precetti della Torà aveva diligentemente osservato? Sta scritto soltanto che "Egli credette all'Eterno". Questa è stata l'opera sua. Tutto il resto è stata ed è opera dell'Eterno.
   Il premio però non arriva subito. Gli era stato detto che dai suoi lombi sarebbe uscita una grande nazione, e poiché la sua progenie avrebbe dovuto essere innumerevole come le stelle del cielo, Abramo poteva pensare che sarebbe stato molto meglio per lui se fosse stato avvertito prima, quando era più giovane e più forte. Anche la moglie scelta per lui da Dio avrebbe potuto essere un po' più adatta: fosse stato in lui, forse avrebbe scelto una prolifica donna come quelle che hanno oggi gli ebrei ultraortodossi, capaci di sfornare un figlio all'anno per la durata di vent'anni. Abramo invece era già in età avanzata e sua moglie Sarai si poteva considerare morta dal punto di vista della fertilità: era sterile. I due coniugi non obiettano, ma certamente si saranno chiesti come sarebbe potuto avvenire tutto quello che Dio aveva promesso. E' la donna allora che prende l'iniziativa, e fa quello che fanno spesso quasi tutti i credenti, anche i più pii: elabora una teoria interpretativa della Parola di Dio del tipo "aiutati che Dio t'aiuta". Non dice: "Io sono sterile", ma "L'Eterno m'ha fatta sterile" (Genesi 16:2). Dunque - avrà pensato - se è Dio che m'ha fatta sterile, vuol dire che si aspetta la nostra collaborazione nell'affrontare questa realtà. Poiché io sono prolificamente morta, prenderò tra le mie serve egiziane una forte, gagliarda e prosperosa giovane da offrire a mio marito affinché possa avere da lei un figlio. Partorirà sulle mie ginocchia, e questo significherà che il bambino che nascerà sarà giuridicamente figlio mio, e quindi anche di Abramo. Davanti all'importanza del progetto dinastico voluto da Dio - avrà sempre pensato Sarai -, anche i sentimenti di gelosia devono essere messi a tacere. E ai suoi occhi forse questo sarà sembrato il doloroso sacrificio che si chiedeva a lei per collaborare all'attuazione del piano di Dio.
   "Abramo dette ascolto alla voce di Sarai" (Genesi 16:3), ma non sembra che in questo abbia ricevuto l'approvazione di Dio. Anche Adamo aveva fatto una cosa simile con sua moglie, e come risultato si era sentito dire da Dio:
    "Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie... mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai" (Genesi 3:17,19).
Le conseguenze però furono diverse nei due casi, perché non sono le sole azioni dell'uomo a determinarne gli effetti, ma il rapporto tra le azioni e la Parola di Dio. Ad Adamo Dio aveva dato un ordine e una promessa precisi: "... non ne mangiare, perché nel giorno che ne mangerai, certamente morrai" (Genesi 2:17). Adamo non ha ascoltato una precisa Parola di Dio, e con la sua disubbidienza ha mostrato di non credere a quella Parola. Ed essa si è puntualmente avverata: dalla vita in cui si trovava Adamo è caduto nella morte, come Dio aveva preannunciato. Ad Abramo invece Dio aveva dato un altro ordine e un'altra promessa:
    "Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione" (Genesi 12:1-2).
Abramo ha ascoltato quella Parola, e con la sua ubbidienza ha mostrato di credere alla Parola di Dio, ed essa ha cominciato a compiersi nella sua vita. Se nel caso di Adamo la Parola di Dio disubbidita ha prodotto un passaggio dalla vita alla morte le cui conseguenze continuano a sentirsi ancora oggi, nel caso di Abramo la Parola di Dio ubbidita ha compiuto e continua a compiere un'opera di passaggio dalla morte alla vita le cui conseguenze valgono ancora oggi e continueranno a valere per l'eternità. La colpa di Abramo non è di non aver ascoltato una precisa Parola di Dio, ma di aver ascoltato le parole della moglie. Le conseguenze sgradevoli ci sono state, ma non potevano essere tali da annullare la promessa di Dio. E l'aspetto fondamentale di questa promessa, come si manifesterà chiaramente in seguito, consiste proprio nell'annuncio di una nuova vita che Dio farà sorgere là dove il peccato dell'uomo ha prodotto la morte. Per questo, ovunque interviene l'azione salvifica di Dio la morte compare per prima, affinché sia evidente che il Dio in cui l'uomo è invitato a credere è Colui che può e vuole vincere la morte in tutti i suoi aspetti: nelle sue cause, nella sua potenza e nei suoi effetti.
   Nella coppia Abramo-Sarai l'elemento prolificamente morto era la donna. Sarai ha tentato di rimediare alla cosa con umana razionalità, cioè sostituendo il pezzo difettoso con uno perfettamente funzionante: la sterile Sarai è stata rimpiazzata dalla fecondissima Agar. Ed è nato Ismaele, da cui è scaturito un mare di guai. La "morte prolifica" di Sarai, espressione della morte presente nella natura come conseguenza della morte spirituale causata dal peccato, è stata aggirata ricorrendo alla "vita prolifica" di Agar, espressione della vita naturale ancora presente dopo il peccato. Ma non poteva essere questo il modo in cui Dio si proponeva di vincere la realtà profonda della morte provocata dal peccato.
   Il Signore non è intervenuto immediatamente per vanificare sul nascere quel tentativo umano di modificare la sua opera di redenzione: ha permesso che Ismaele nascesse e ha lasciato passare nel silenzio altri tredici anni, fino a quando Abramo non era più in grado di generare. Se l'intervento dell'uomo aveva mirato a sostituire il pezzo morto con uno vivo, il non intervento di Dio aveva fatto sì che anche il pezzo vivo arrivasse a morire: all'età di novantanove anni Abramo era ormai prolificamente morto, come Sarai, e proprio per questo era ormai convinto che l'erede promesso da Dio non poteva che essere Ismaele.
   Ma è a questo punto che Dio si rifà vivo con Abramo e gli cambia il nome:
    "Quanto a me, ecco il patto che faccio con te; tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni; non sarai più chiamato Abramo [patriarca], ma il tuo nome sarà Abraamo [padre di una moltitudine], poiché io ti costituisco padre di una moltitudine di nazioni" (Genesi 17:4-5).
Poi, inaspettatamente, Dio nomina per la prima volta sua moglie:
    "Dio disse ad Abraamo: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai; il suo nome sarà, invece, Sara. Io la benedirò e da lei ti darò anche un figlio; la benedirò e diventerà nazioni; re di popoli usciranno da lei»" (Genesi 17:15-16).
A questo punto il venerando patriarca ha una umana e molto comprensibile reazione:
    "Allora Abraamo si prostrò con la faccia a terra, rise, e disse in cuor suo: «Nascerà un figlio a un uomo di cent'anni? E Sara partorirà ora che ha novant'anni?» E aggiunge: «Oh, possa almeno Ismaele vivere davanti a te!»" (Genesi 17:17-18).
Ma Dio risponde:
    "No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli metterai il nome di Isacco. Io stabilirò il mio patto con lui, un patto eterno per la sua progenie dopo di lui" (Genesi 17:19).
La difficoltà di Abraamo sta nel credere che la vita promessa da Dio possa scaturire da due corpi prolificamente morti. Proprio questo invece era il proposito di Dio: far sorgere la vita dalla morte. E Abraamo, sia pure dopo qualche esitazione, alla fine crede. Di questo rende testimonianza l'apostolo Paolo quando di lui scrive:
    "Egli è padre di noi tutti (com'è scritto: «Io ti ho costituito padre di molte nazioni») davanti a colui nel quale credette, Dio, che fa rivivere i morti, e chiama all'esistenza le cose che non sono. Egli, sperando contro speranza, credette, per diventare padre di molte nazioni, secondo quello che gli era stato detto: «Così sarà la tua discendenza». Senza venir meno nella fede, egli vide che il suo corpo era svigorito (aveva quasi cent'anni) e che Sara non era più in grado di essere madre; davanti alla promessa di Dio non vacillò per incredulità, ma fu fortificato nella sua fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli ha promesso, è anche in grado di compierlo. Perciò gli fu messo in conto come giustizia." (Romani 4:16-22).
Anche Sara partecipò a questa fede:
    "Per fede anche Sara, benché fuori di età, ricevette forza di concepire, perché ritenne fedele colui che aveva fatto la promessa. Perciò, da una sola persona, e già svigorita, è nata una discendenza numerosa come le stelle del cielo, come la sabbia lungo la riva del mare che non si può contare" (Ebrei 11:11-12).
La nascita prodigiosa di Isacco doveva significare che la vita promessa da Dio è una vita che sorge dalla morte, e proprio per questo la vince.
   La fede, o è fede in Dio "che fa rivivere i morti" o non è fede.
   La fede di Abraamo però viene ancora una volta messa a dura prova quando Dio gli chiede di restituirgli proprio quel figlio che così miracolosamente gli aveva donato:
    "Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abraamo e gli disse: «Abraamo!» Egli rispose: «Eccomi». E Dio disse: «Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Isacco, e va' nel paese di Moria, e offrilo là in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò»." (Genesi 22:1-2).
Senza esitare Abraamo parte per il monte Moria, e durante i tre lunghi giorni di viaggio nel cuore del padre il figlio Isacco era già morto. Abraamo era pronto a uccidere suo figlio, come Dio gli aveva ordinato. Aveva forse smesso di credere nella Parola di Dio, che da quel figlio gli aveva promesso di avere un'innumerevole progenie? No, al contrario: Abraamo era pronto a uccidere Isacco proprio perché aveva fede in Dio "che fa rivivere i morti", come la Scrittura attesta:
    "Per fede Abraamo, quando fu messo alla prova, offrì Isacco; egli, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito. Eppure Dio gli aveva detto: «É in Isacco che ti sarà data una discendenza». Abraamo era persuaso che Dio è potente da risuscitare anche i morti; e riebbe Isacco come per una specie di risurrezione" (Ebrei 11:17-19).
Se nelle persone di Abraamo e Sarai la morte era presente come fatto biologico, conseguenza storica del peccato dell'uomo, nella persona di Isacco la morte annunciata era presente come destino storico predisposto da Dio per la salvezza dell'uomo. Isacco fu ridonato ad Abraamo "come per una specie di risurrezione", anticipazione di una risurrezione che rappresenterà la benedizione per "tutte le famiglie della terra", come promesso da Dio fin dall'inizio.
   L'esperienza di Abraamo è tutt'altro che unica nella storia d'Israele. Al contrario, la realtà di una vita che scaturisce dalla morte è una caratteristica ricorrente del popolo di Dio.
   Giuseppe dovette fare l'esperienza di una morte civile nelle carceri di Potifar prima di assurgere ai più alti livelli della vita sociale diventando vicerè d'Egitto. E sarà proprio questa specie di risurrezione a permettere alla sua tribù familiare di rimanere in vita. La Bibbia presenta con parole commoventi il momento in cui Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli:
    "Giuseppe disse ai suoi fratelli: «Vi prego, avvicinatevi a me!» Quelli s'avvicinarono ed egli disse: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste perché fosse portato in Egitto. Ma ora non vi rattristate, né vi dispiaccia di avermi venduto perché io fossi portato qui; poiché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Infatti, sono due anni che la carestia è nel paese e ce ne saranno altri cinque, durante i quali non ci sarà raccolto né mietitura. Ma Dio mi ha mandato qui prima di voi, perché sia conservato di voi un residuo sulla terra e per salvare la vita a molti scampati. Non siete dunque voi che mi avete mandato qui, ma è Dio. Egli mi ha stabilito come padre del faraone, signore di tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d'Egitto" (Genesi 45:4-8).
Qui interviene un elemento nuovo. In questo caso l'esperienza di morte, cioè la prigionia di Giuseppe nelle carceri d'Egitto, pur essendo guidata dalla volontà di Dio non avviene come conseguenza naturale dell'originaria caduta di Adamo, ma come conseguenza di un preciso peccato commesso dai discendenti di Abraamo. E questo fa vedere che Dio usa anche e proprio il peccato dell'uomo come strumento di salvezza per fargli giungere la sua grazia.
   E' in Egitto che la tribù patriarcale di Abraamo diventa popolo. Il processo si svolge nell'arco di più di quattrocento anni e non avviene nella terra promessa, ma in un paese pagano. Il popolo non fiorisce sotto la spinta di autonome e brillanti iniziative di formazione delle strutture sociali, come per esempio è avvenuto nell'Israele di questi ultimi decenni, ma languisce sotto una mortale schiavitù. La Bibbia non dice che gli ebrei in Egitto abbiano invocato l'aiuto divino, anche perché nei quattro lunghi secoli di sofferenze subite nel silenzio di Dio avranno probabilmente fatto in tempo a dimenticare che esisteva un Dio che un giorno era intervenuto nella vita dei loro antenati. Le grida che lanciavano erano gemiti di dolore, non invocazioni di aiuto.
   Ma se gli ebrei si erano dimenticati di Dio, Dio non si era dimenticato di loro.
    "Durante quel tempo, che fu lungo, il re d'Egitto morì. I figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. Dio vide i figli d'Israele e ne ebbe compassione" (Esodo 2:23-25).
Dio allora sceglie Mosè per liberare il suo popolo e farlo diventare una nazione. E questo difficile ingresso in una nuova vita avviene con ripetuti passaggi attraverso esperienze di morte. Mosè, insieme a tutti i maschi ebrei, era destinato alla morte, ma viene salvato dall'intervento provvidenziale di Dio. Da adulto Mosè si presenta al faraone per chiedergli di lasciare andare il suo popolo, e come primo risultato ottiene che l'oppressione del popolo aumenta fino a diventare insopportabile.
    "Uscendo dal faraone, incontrarono Mosè e Aaronne, che stavano ad aspettarli, e dissero loro: «Il Signore volga il suo sguardo su di voi e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al faraone e davanti ai suoi servi e avete messo nella loro mano una spada per ucciderci»" (Esodo 5:20-21).
La morte invece si abbatte sugli uomini in Egitto, ma non sugli ebrei. I loro primogeniti, al contrario di quelli degli egiziani, restano in vita.
   Anche poco dopo l'uscita degli israeliti dall'Egitto, Dio fa passare il popolo attraverso un'altra esperienza di morte sicura. Avevano già fatto un po' di strada quando Dio dice in sostanza a Mosè: falli tornare indietro e mettili in una posizione senza via di uscita, in modo che i loro nemici pensino che ormai il popolo non ha più una via di scampo:
    "Il Signore parlò così a Mosè: «Di' ai figli d'Israele che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, fra Migdol e il mare di fronte a Baal-Sefon. Accampatevi davanti a quel luogo presso il mare. Il faraone dirà dei figli d'Israele: "Si sono smarriti nel paese; il deserto li tiene rinchiusi". Io indurirò il cuore del faraone ed egli li inseguirà. Ma io sarò glorificato nel faraone e in tutto il suo esercito, e gli Egiziani sapranno che io sono il Signore». Ed essi fecero così" (Esodo 14:1-4).
Davanti a loro il mare, alle spalle gli egiziani che stavano arrivando, gli ebrei si trovavano ancora una volta in una specie di tomba. Ma proprio questo voleva Dio: dare loro la vita facendoli passare per un'esperienza di morte. Il popolo d'Israele giunge alla vita attraversando miracolosamente il mar Rosso, e la morte attraverso cui erano passati indenni si abbatte sugli egiziani che li inseguivano.
    Tutta la storia successiva del popolo d'Israele, anche dopo la lunga esperienza biblica, può essere letta seguendo l'intreccio sempre ripetuto di morte e nuova vita. Al contrario della pagana esaltazione della vita, che necessariamente deve ignorare o sminuire o addolcire la tetra realtà della morte, la storia e la cultura ebraica, fino a che restano nel quadro biblico, inglobano la morte senza minimizzarne la gravità, ma indicando la possibilità del suo superamento in una nuova vita. "Prigionieri della speranza" è un'espressione biblica (Zaccaria 9:12) che ben si presta a rappresentare sinteticamente la situazione in cui è "costretto" a vivere il popolo eletto.
   Non deve sembrare strano allora che per la salvezza di Israele, e quindi di tutto il mondo, il Re d'Israele, che è anche il Re del mondo, sia dovuto passare attraverso un processo di morte e risurrezione. La realtà di una nuova vita che nasce dalla morte rappresenta la chiave di comprensione del fenomeno ebraico, in tutte le sue espressioni: storiche, sociali e individuali. Di morte e risurrezione parla il profeta Isaia quando scrive:
    "Ma piacque all'Eterno di fiaccarlo coi patimenti. Dopo aver dato la sua vita in sacrifizio per la colpa, egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni, e l'opera dell'Eterno prospererà nelle sue mani. Egli vedrà il frutto del tormento dell'anima sua, e ne sarà saziato; per la sua conoscenza, il mio servo, il giusto, renderà giusti i molti, e si caricherà egli stesso delle loro iniquità" (Isaia 53:10-11)
Questo servo dell'Eterno che passa attraverso la morte per vincerla, e non solo per sopravvivere ad essa, dopo la morte fisica e la morte sociale dell'umiliazione e del disprezzo conoscerà la gloria dell'elevazione politica al di sopra di ogni altro potere della terra:
    "Ecco, il mio servo prospererà, sarà elevato, esaltato, reso sommamente eccelso. Come molti, vedendolo, son rimasti sbigottiti (tanto era disfatto il suo sembiante sì da non parer più un uomo, e il suo aspetto si da non parer più un figlio d'uomo), così molte saran le nazioni, di cui egli desterà l'ammirazione; i re chiuderanno la bocca dinanzi a lui, poiché vedranno quello che non era loro mai stato narrato, e apprenderanno quello che non avevano udito (Isaia 52:13-15)
Questo servo dell'Eterno è il Re de giudei, che è risorto dai morti perché ha vinto la morte. E poiché non si può pensare che un Re esista senza una nazione e un popolo, è evidente che il popolo dei giudei, cioè Israele, vivrà in eterno (Geremia 31:35-37). O meglio, passerà attraverso una traumatica e conclusiva esperienza di morte da cui risorgerà a nuova e immortale vita. Proprio questo è il messaggio lasciato dall'apostolo Paolo, quando parlando degli ebrei aveva predetto che la loro "riammissione" sarà come "un rivivere dai morti" (Romani 11:15).
   Non la generica "sacralità della vita", ma il binomio "morte e risurrezione" è la caratteristica di Israele come realtà storica. Caratteristica che è nello stesso tempo un messaggio rivolto al mondo. E se qualcuno chiede: perché il popolo degli ebrei è sempre riemerso dopo ogni tentativo di sterminio? perché si poteva essere certi che la nazione di Israele sarebbe riapparsa sulla sua terra? perché si può essere certi che Israele sopravviverà a tutti i tentativi di distruggerlo? La risposta è semplice: perché Gesù Cristo, il Re dei giudei, è risuscitato dai morti, e "la morte non ha più potere su di lui" (Romani 6:9).

 


Dopo gli Emirati c'è anche il Bahrein Storico accordo di pace con Israele

È il secondo Paese del Golfo a stabilire relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico

di Sharon Nizza

 
Il segretario di Stato americano Mike Pompeo con il principe ereditario del Bahrein Salman bin Hamad Al Khalifa durante la sua visita a Manama, Bahrein, il 26 agosto
GERUSALEMME - «Non c'è migliore risposta all'odio generato dall'11/9 che questo accordo». Così, a 19 anni dall'attentato alle Torri Gemelle, Trump ha annunciato un altro storico passo verso il «nuovo Medioriente» delineato dal suo piano "Pace per prosperità", convincendo anche il Bahrein a uscire allo scoperto e a normalizzare i rapporti con Israele, dopo aver ottenuto lo stesso risultato con gli Emirati Arabi Uniti meno di un mese fa. Alla Casa Bianca, quindi, questo martedì si firmerà un doppio accordo di pace. II Bahrein diventa il secondo Paese del Golfo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, il quarto Paese arabo con Egitto e Giordania.
   L'Amministrazione Usa ha trasformato in fatti le molte dichiarazioni più o meno sibilline che prefiguravano un effetto domino dopo la scelta di Abu Dhabi di aprire a Israele. «Un altro Paese dell'area si accoderà presto alla scelta coraggiosa di Mohammed bin Zayed», hanno ripetuto più volte il Segretario di Stato Mike Pompeo e il genero-consigliere di Trump Jared Kushner, visitando, a distanza di pochi giorni, i principali candidati: Oman, Sudan, Arabia Saudita. E il Bahrein, che d'altro canto non aveva tenuto le carte troppo nascoste in questi mesi: era stato il primo Paese arabo a complimentarsi con gli Emirati per l'accordo con Israele. Ma soprattutto, fu proprio Manama a ospitare nel giugno 2019 la conferenza per la presentazione della parte economica del "Piano del Secolo" di Trump, che fu poi rivelato nella sua interezza alla Casa Bianca a gennaio, alla presenza degli ambasciatori a Washington di Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Oman — che non a caso è dato come il prossimo Paese che potrebbe unirsi allo storico disgelo.
   Abu Mazen, come con gli Emirati, ha subito richiamato l'ambasciatore palestinese a Manama. In una dichiarazione ufficiale della Muqata si legge che l'accordo è una «pugnalata alle spalle, un tradimento nei confronti di Gerusalemme, di Al Aqsa e della causa palestinese», esattamente la stessa terminologia usata per condannare l'accordo con Abu Dhabi. Solo mercoledì i palestinesi avevano subito una sconfitta significativa quando la Lega Araba aveva rifiutato di sostenere una risoluzione di condanna degli Emirati. A Ramallah avevano previsto quel giorno che il rifiuto fosse il segnale più concreto del fatto che presto sarebbero arrivate altre dichiarazioni di apertura di Paesi arabi verso Israele, confermando il cambio di rotta rispetto al paradigma «non c'è normalizzazione senza il riconoscimento di uno Stato palestinese nei confini del '67». II presidente egiziano Al Sisi si è affrettato a complimentarsi per l'accordo, definendolo «un passo importante verso il raggiungimento della stabilità e di una pace giusta in Medioriente. Anche per i palestinesi».
   L'Iran — che ora si trova ufficialmente gli israeliani dall'altra parte del Golfo Persico, peraltro in un Paese a maggioranza sciita — condanna i dirimpettai per essersi arresi ai sionisti. In questo scenario, in cui l'alleanza anti-iraniana prende il sopravvento rispetto ai vecchi schemi nello scacchiere mediorientale, il Cairo potrebbe avere un ruolo determinante nel convincere i palestinesi a tornare al tavolo delle trattative.

(la Repubblica, 12 settembre 2020)


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Pace tra Israele e Bahrein. Trump: «Un'altra svolta»

La storica intesa annunciata dal tycoon via Twitter. È il secondo Paese arabo dopo gli Emirati

Un mese dopo lo storico accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Emirati Arabi Uniti, mediato da Donald Trump, il presidente Usa e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno annunciato la pace tra lo Stato ebraico e il Bahrein.
   In un tweet, Trump ha annunciato un'«altra svolta storica» con «l'accordo di pace» tra Israele e il piccolo Paese del Golfo Persico che allacceranno relazioni diplomatiche. «Si tratta del secondo Paese arabo, in 30 giorni, a fare la pace con Israele», ha esultato il capo della Casa Bianca. Subito l'annuncio di Netanyahu: «Cittadini di Israele, sono commosso di potervi dire che abbiamo raggiunto un altro accordo di pace con un altro Paese arabo, il Bahrein. Questo accordo si aggiunge alla storica pace con gli Emirati Arabi Uniti». Il presidente Usa ha anche pubblicato una dichiarazione congiunta su Twitter, in cui si legge che Trump, il re del Bahrein, Hamad bin Khalifa, e Netanyahu, hanno accettato di stabilire relazioni diplomatici tra i due Paesi. «E un traguardo storico verso una pace più forte in Medio Oriente. L'apertura di un dialogo diretto e relazioni tra società dinamiche ed economie avanzate contribuirà alla trasformazione positiva del Medio Oriente e aumenterà la stabilità, la sicurezza e la prosperità nella regione», si legge in una nota. Lo Stato insulare del Bahrein, retto da una monarchia sunnita ma a maggioranza saudita, è un alleato di ferro degli Stati Uniti e dell'Arabia Saudita che lo sostengono anche in funzione di contenimento dell'Iran. Gli Stati Uniti hanno ringraziato il regno arabo per aver organizzato il forum economico del giugno 2019 a Manama «per promuovere la causa della pace, della dignità e delle opportunità economiche per il popolo palestinese». A questo proposito, la dichiarazione aggiunge che le parti continueranno i loro sforzi per «una soluzione giusta, completa e duratura del conflitto israelo-palestinese che consentirà al popolo palestinese di raggiungere il suo pieno potenziale». Ma, come accadde ad agosto, l'Autorità nazionale palestinese e Hamas, il movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza, hanno condannato l'intesa.
   «E' una pugnalata alle spalle della causa palestinese e del popolo palestinese», ha sottolineato il ministro palestinese per gli Affari sociali, Ahmad Majdalani, mentre Hamas ha denunciato una «aggressione» che causa «gravi danni» alla causa palestinese. Nella nota pubblicata da Trump, il presidente Usa ha aggiunto che Israele ha assicurato che «tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al Aqsa e che i luoghi santi di Gerusalemme rimarranno aperti a credenti pacifici di tutte le fedi». il Bahrein diventa il quarto Paese arabo a stabilire piene relazioni diplomatiche con Israele, dopo Emirati Arabi Uniti (l'accordo sarà firmato il 15 settembre alla Casa Bianca), Egitto (1979) e Giordania (1994).

(il Giornale, 12 settembre 2020)


Israele è il primo Paese al mondo a tornare al blocco totale (per le feste)

Superati i 4 mila casi al giorno per 48 ore di fila: è il numero più alto per milione di abitanti. L'opposizione attacca Bibi.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Riuniti a cena in famiglia per celebrare Rosh Hashana, il Capodanno ebraico. Il prossimo fine settimana avrebbe dovuto essere una festa per gli israeliani. Invece a tavola si ritroveranno seduti in pochi, chi fa parte del nucleo ristretto di parenti: da venerdì diventerà il primo Paese al mondo a imporre una seconda chiusura totale per cercare di rallentare l'epidemia. Il blocco di due settimane è stato definito dal gruppo di ministri che coordina la risposta all'emergenza sanitaria, deve ancora essere approvato domani dal resto del governo: coincide con le festività più importanti nel calendario ebraico, fino a Yom Kippur e Sukkot. Le scuole, i servizi e i trasporti pubblici, tutte le attività commerciali (esclusi supermercati e farmacie) si fermeranno, i ristoranti possono solo preparare piatti da portar via, gli spostamenti sono limitati a 500 metri dall'abitazione. Dopo questa fase ne sono previste altre tre con gradi diversi di limitazioni.
   Tutto ricomincia con la quarantena nazionale. Eppure a maggio sembrava che la crisi fosse sotto controllo, che la start-up nation avesse vinto anche questa guerra. Invece il virus ha infranto il mito della nazione tutta tecnologia e creatività: il numero di infettati ha superato i 4 mila al giorno per 48 ore di fila, i morti sono più di mille, oltre la metà da agosto in avanti. Ormai Israele registra il più alto numero di casi per milione di abitanti, è però uno dei Paesi che esegue più test (terzo al mondo).
   L'opposizione accusa il premier Netanyahu di aver malgestito la crisi, di aver avuto la testa immersa nel processo per corruzione. Anche la scelta di rinviare l'isolamento a settimana prossima è stata criticata: permette al primo ministro e capo della destra di viaggiare tra martedì e mercoledì a Washington per partecipare alla cerimonia di firma dell'accordo con gli Emirati Arabi, Netanyahu ha voluto evitare di trovarsi in volo mentre il resto degli israeliani resta bloccato a terra e in appartamento. Ia comunità più colpita resta quella degli ultraortodossi (16 per cento di positivi ai test), seguita dagli arabi israeliani (11 per cento), con gli altri al 6. Questi numeri avrebbero dovuto legittimare il piano preparato da Ronni Gamzu, che i giornali chiamano lo Zar del coronavirus: per settimane ha proposto di applicare il sistema a semaforo e di chiudere solo una quarantina di città rosse (le altre identificate come gialle e verdi) dove vivono in maggioranza haredim (i timorati di Dio) e arabi.
   È diventata una questione politica: i partiti ultraortodossi sono parte della coalizione al potere e hanno minacciato Netanyahu di fargli saltare il governo se avesse imposto una quarantena mirata alla comunità. Perché fin dall'inizio dell'epidemia i rabbini si sono ribellati a qualunque regola che limitasse lo studio nelle scuole religiose o gli assembramenti dei fedeli. Adesso proclamano di non voler ridurre il numero di partecipanti — anche 10mila — alle preghiere la sera di Rosh Hashana.
   Il virus ha esacerbato le divisioni tra quelle che lo scrittore Etgar Keret chiama le «tribù» israeliane: gli ultraortodossi temono di essere ghettizzati, allo stesso tempo si rifiutano di seguire le norme generali e ascoltano solo le indicazioni dei rabbini; gli abitanti di città come Tel Aviv non vogliono che le autorità religiose estendano la loro influenza sulla quotidianità laica.

(Corriere della Sera, 12 settembre 2020)


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Israele richiude per Covid. Ma tanti pensano di imitarlo

Lo Stato ebraico è il primo Paese a tornare al lockdown (però gli industriali sono contro Netanyahu). II virologo Fauci vuole imporre il blocco anche negli Stati Uniti.

di Carlo Nicolato

Israele sarà il primo Paese a tornare in lockdown per la seconda volta dall'inizio della pandemia di coronavirus. La decisione verrà probabilmente confermata domani dal governo che firmerà il piano in tre fasi messo a punto dal comitato scientifico. La prima fase di due settimane, a cavallo del Rosh haShanah (il Capodanno ebraico) e del digiuno di Kippur, prevede la chiusura delle scuole e il divieto per cittadini di allontanarsi dalle proprie case per più di 500 metri. Rimarranno aperti i negozi essenziali e le attività produttive più importanti. Nella fase due le scuole continueranno a rimanere chiuse, mentre sarà possibile riunire fino a 20 persone all'aperto e 10 all'interno. Si potrà tornare al lavoro ma gli spostamenti tra le città saranno ancora vietati. La terza fase invece si svilupperà a livello regionale, dipendendo dai contagi locali e dall'evoluzione della pandemia. Il piano ha già provocato la durissima reazione delle principali aziende che hanno avvertito il primo ministro Benjamin Netanyahu del rischio di un "coronavirus economico" più distruttivo di quello medico. Le misure però, fanno sapere dal governo, sono necessarie dopo che per quasi una settimana si sono registrati record su record di casi, fino ai 4429 contagi di giovedì (ieri 4038). Per la verità Israele ha cominciato a registrare una crescita costante a iniziare da luglio, con oltre mille casi al giorno, mentre a marzo ed aprile non si era mai andati oltre i 700 giornalieri. Lo stesso dicasi per i decessi, fino a fine aprile poco oltre i 200 in totale, mentre da luglio a oggi se ne contano più di 700, per una somma di 1077 attuali. In Israele dunque la prima ondata è stata molto più blanda di quanto non sia attualmente la seconda.

 Il calo negli Usa
  Negli Usa invece la curva dei contagi è da qualche settimana in calo, si è passati dai 70mila casi giornalieri di luglio ai 38mila registrati il 10 settembre, tanto che il presidente Trump si è azzardato a dire che il Paese sta uscendo dal tunnel. Secondo il virologo Anthony Fauci però i numeri sono ancora troppo alti e con l'arrivo dell'autunno sarebbe il caso di chiudere ancora. A meno di accelerazioni inaspettate sarà molto difficile se non impossibile che Trump accetti un altro lockdown, ma non è detto che ciò possa accadere tra poco più di un mese e mezzo dopo le elezioni, a seconda dei risultati. Per tutti comunque una seconda chiusura prolungata sarebbe una catastrofe da un punto di vista economico e sociale e per questo, nonostante i numeri dei contagi in forte crescita, almeno in Europa si sta pensando a piccole chiusure, a misure ponderate a seconda delle zone e della situazione. La Francia sta registrando contagi che sfiorano le 10mila unità giornaliere e anche se come ha detto il presidente del Comitato scientifico Delfraissy «l'aumento della circolazione del virus ha scarso impatto attuale sul sistema sanitario», le cifre sono però tali che «ci può essere un aumento molto rapido ed esponenziale in una seconda fase».

 La Francia frena
  Per questo Macron aveva lasciato capire che qualcosa di simile a un nuovo lockdown fosse in arrivo, ma ieri il premier Jean Castex ha invece riferito che i francesi devono imparare a convivere con il virus «senza entrare di nuovo in una logica di contenimento generalizzato». Richiamando il popolo al "senso di responsabilità individuale" Castex ha annunciato che molte delle misure di contenimento verranno demandate alle autorità locali, le quali in funzione della situazione specifica avranno per esempio il potere di chiudere le aziende interessate o cambiarne l'orario di apertura. Il premier ha comunque confermato la riduzione per la quarantena dei positivi a 7 giorni. Situazione simile in Gran Bretagna, dove comunque la crescita dei contagi è minore, 3mila circa giornalieri (3539 casi ieri, con 6 morti), a fronte di numeri record di tamponi (175mila giovedì). Boris Johnson si è limitato per ora a una stretta sugli assembramenti che non possono superare le sei persone, in pubblico e in privato, con minaccia di provvedimenti di polizia per i trasgressori. Ma anche qui, come in Francia, è stata lasciata ampia autonomia di azione a livello regionale, tanto che ieri il consiglio comunale di Birmingham, seconda città del Regno, ha deciso che «a partire da martedì 15 settembre, i residenti della città non potranno più socializzare con altre famiglie, al chiuso o nei giardini privati». "Smart lockdown" in vista per l'Olanda che ancora ieri, con 1270 casi registrati, ha confermato il trend in crescita. Numeri simili a quelli italiani ma con una popolazione di un quarto rispetto alla nostra. In attesa di conoscere i particolari "smart" del nuovo stop olandese, arrivano invece le misure di contenimento annunciate dal cancelliere Sebastian Kurz in Austria: da lunedì saranno nuovamente obbligatorie le mascherine in tutti i negozi e nei luoghi pubblici chiusi e il numero di spettatori ammessi a spettacoli o eventi sportivi sarà ridotto a 1.500 al coperto e 3.000 all'aperto. Niente birra al bancone, bisognerà sedersi al tavolo.

(Libero, 12 settembre 2020)


Stoudemire con Bibbia e canestri trascina gli israeliani del Maccabi

di Adam Smulevich

Amar'e Stoudemire
A quasi 38 anni Amar'e Stoudemire, uno dei più grandi cestisti del ventunesimo secolo, continua a sorprendere. Per sei volte All Star e per due volte nel miglior quintetto stagionale della Nba, il "lungo" originario di Lake Wales, Florida, ha da poco trascinato gli israeliani del Maccabi Tel Aviv al terzo titolo nazionale consecutivo (il 54esimo nella storia di questo glorioso club, più volte vincitore anche in Eurolega).
   Quando infiammava i palazzetti d'America era conosciuto come "Stat", acronimo che stava per "Standing Tall And Talented". Da qualche giorno, negli ambienti ebraico ortodossi, è per tutti non Amar'e e neanche Stat ma Yahoshafat Ben Avraham. Il nuovo nome che ha assunto da quando è stata ufficialmente annunciata la sua conversione all'ebraismo (l'ha fatto lui stesso, con un post su Instagram). Per raggiungere questo obiettivo l'ex stella di Phoenix Suns e New York Knicks ha dovuto non solo studiare giorno e notte, ma anche cambiare in modo radicale il proprio stile di vita. Adattandosi cioè ad agire nel pieno rispetto delle regole etico-comportamentali che questo popolo si trasmette da millenni. Dall'alimentazione kasher al rispetto delle solennità festive, dall'osservanza dello Shabbat a quella delle 613 "mitzvot", i precetti che scandiscono non solo la quotidianità ma l'intera esistenza ebraica.
   Per Amar'e/Yahoshafat un percorso iniziato due anni fa, anche se era da un po' che ci stava pensando. Almeno dal 2010, quando per la prima volta raccontò ai media di possibili origini ebraiche della madre. Sull'onda di quella suggestione Stoudemire scelse di recarsi una prima volta in visita a Gerusalemme. E poi di tornarci più volte, decidendo persino di investire nel basket locale (nel 2013 è a capo di una cordata che acquista la squadra capitolina del Beitar). Tra le nuove amicizie che nascono in quel periodo quella con l'allora Capo di Stato israeliano, il Premio Nobel per la pace Shimon Peres, grande appassionato di sport.
   Stoudemire non smette di fare quello che sa far meglio: andare e far andare gli altri a canestro. Ma comincia a interessarsi anche ad altro, di più profondo. Alla scoperta/riscoperta di quelle radici che sono poi la radice stessa dell'umanità. Legge, studia, si confronta con alcuni rabbini disposti ad appagare le sue molte curiosità. Resta affascinato da un mondo che non è più solo suggestione ma incontro reale e stimolante con temi vivi. Agli allenamenti alterna così ore trascorse sulla Torah, sul Talmud, sui commentari biblici. Solo allora matura una scelta più consapevole e determinata.
   In carriera ha affrontato situazioni ad altissimo livello di pathos e adrenalina. Ma il momento più emozionante della sua vita, raccontano, è stato poco più di una settimana fa. Quando, cioè, si è presentato davanti al Beth Din, il tribunale rabbinico incaricato di valutare la sua candidatura. E quando soprattutto, al termine dell'esame, si è sentito dire: "Benvenuto nel popolo d'Israele".

(Avvenire, 12 settembre 2020)


In occasione deli'anniversario della Breccia di Porta Pia

Riceviamo da Emanuel Segre Amar e volentieri pubblichiamo

Mi permetto di segnalare a chi fosse interessato il convegno che si terrà a Saluzzo domenica 13 alle ore 16.30 italiane nel quale, in occasione del 150esimo della Breccia di Porta Pia, si parlerà non solo di Giacomo Segre, ma anche del ruolo di tanti italiani di religione ebraica dal Risorgimento alla I guerra mondiale.
La storia che Giacomo Segre avrebbe sparato il primo colpo è falsa come verrà dimostrato.
Si parlerà anche del figlio di Giacomo, il generale Roberto, figura straordinaria che visse una specie di vicenda Dreyfus in Italia. E anche del nipote di Roberto, Dan, morto il 5 giugno 1967 nel cielo nei pressi di Damasco, mentre comandava uno stormo di aerei israeliani.
Chi lo desidera potrà seguire in diretta su YouTube
Infine domenica 20 settembre verrà inaugurata la lapide in via Nomentana 33 a Roma in memoria di Giacomo Segre. Purtroppo essendo moed le istituzioni ebraiche non potranno essere presenti. Io sarò quindi presente solo a titolo personale. Il ministro della difesa non ha ancora confermato la propria presenza. La sindaco di Roma sarà rappresentata.
Emanuel Segre Amar

(Notizie su Israele, 12 settembre 2020)


Addio a Roberto Finzi, storico dell'antisemitismo

Aveva 79 anni. Con "Cosa hanno mai fatto gli ebrei?" ha raccontato ai ragazzi le origini della Shoah

di Ilaria Zaffino

Il suo ultimo libro è un curioso e appassionante dialogo tra nonno e nipote che si interrogano su Cosa hanno mai fatto gli ebrei? (questo ll titolo), uscito per Einaudi Ragazzi l'anno scorso. Proprio per rispondere alla domanda della nipote Sofia che chiede al nonno, grande studioso e autore di libri e articoli, in Italia e all'estero, «per quale motivo in tanti li odiassero a tal punto da permettere che fossero perseguitati», questo libriccino guida in poco più di 150 pagine la ragazzina — e con lei tutti noi — in un viaggio attraverso la Storia per capire l'origine e il significato dell'antisemitismo e di un odio tanto antico e mai sopito. SI perché Roberto Finzi, scomparso a Bologna a 79 anni — a dame la notizia proprio la nipote Sofia — negli ultimi decenni si è occupato soprattutto di persecuzione contro gli ebrei in Italia e di "questione antisemita": non ebraica, la «questione ebraica non esiste, sono gli antisemiti che l'hanno creata», sostiene nel suo saggio più recente che si intitola Breve storia della questione antisemita, pubblicato da Bompiani sempre nel 2019.
   Non solo antisemitismo, però. Nella sua lunga carriera è stato anche insegnante, alle scuole medie e superiori prima e all'università poi, dove ha tenuto le cattedre di Storia economica, Storia del pensiero economico e Storia sociale tra gli atenei di Bologna, Ferrara e Trieste.
   Nato a Sansepolcro (Arezzo) nel 1941, Roberto Finzi ha spaziato dalla storia dell'agricoltura e delle condizioni di vita nelle campagne tra il XVII e il XX secolo alla storia del pensiero economico — in particolare nel Settecento e del movimento socialista. Ed è stato uno studioso attento anche dei pregiudizi e delle discriminazioni. Per esempio, nei confronti delle donne. Come denuncia nel saggio Il maschio sgomento. Una postilla sulla questione femminile (Bompiani, 2018). Oltre che in Italia, dove i suoi lavori sono stati pubblicati da alcune tra le maggiori case editrici e apparsi in numerose riviste, Finzi è stato tradotto molto anche all'estero: negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia, Spagna, sino all'Argentina, il Brasile, la Cina o il Giappone. E' stato inoltre tra i fondatori dei periodici Storia del pensiero economico e Passato e presente, la rivista di storia contemporanea che, da quando è nata agli inizi degli anni '80, ha cambiato più volte pelle ed editore.

(la Repubblica, 12 settembre 2020)


Israele è orientata a imporre un nuovo lockdown in tutto il Paese dal prossimo 18 settembre

di Giuseppe Ballerini

In Israele l'andamento del contagio da coronavirus sta progressivamente peggiorando, tanto che i dati attuali sono nettamente peggiori rispetto a quelli della scorsa primavera, con nuovi record giornalieri sia per quanto riguarda il numero di nuovi casi, sia per quanto riguardo il numero di nuovi decessi.
  Attualmente, in Israele sono oltre 146mila le persone risultate contagiate dal coronavirus e 1.086 quelle decedute a causa della Covid-19, con 34.731 persone che ad oggi risultano positive al virus.
  Grave la situazione del contagio anche a Gaza e in Cisgiordania, dove il numero complessivo di contagiati finora è stato finora di quasi 30mila, con 224 decessi. Inoltre, le persone attualmente positive sono 10.080 in Cisgiordania e 1.427 a Gaza.
  Numeri che paragonati a quelli della scorsa primavera illustrano una situazione che, oggettivamente, pare essere fuori controllo. Nel solo Stato di Israele, il numero di nuovi casi nelle ultime 24 ore è stato di 4.429 su una popolazione che non raggiunge i 9 milioni.
  Dati che dimostrano quanto seria sia la situazione in quell'area in relazione alla pandemia. Inoltre, ai dati sopra riportati, è da aggiungere che il numero di persone ricoverate è aumentato, tanto da mettere a rischio la sostenibilità del sistema sanitario, a partire dalle terapie intensive dove il numero di malati è intorno ai 150, mentre solo nelle ultime 24 ore circa 1.500 persone hanno avuto necessità di ricorrere alle cure ospedaliere.
  Quella in Israele è una situazione grave a cui il Governo Netanyahu ha ritenuto di dover rispondere con un nuovo lockdown a livello nazionale, a partire dal 18 settembre. Almeno questo è quanto è stato proposto dall'esecutivo. La decisione definitiva sarà presa domenica.
  Nelle intenzioni del Governo si prevede un periodo di isolamento di due settimane con una limitazione degli spostamenti, la chiusura di bar, ristoranti e attività non indispensabili...
  La percentuale di positivi tra gli israeliani ultraortodossi negli ultimi giorni è stata del 16%, tra gli arabi israeliani dell'11%, mentre del 6% nel resto della popolazione di appena il 6%.
  Il coordinatore nazionale della lotta contro il coronavirus nominato poco tempo fa da Netanyahu, il prof. Ronni Gamzu, aveva suggerito di imporre delle zone rosse limitate alle località dove il contagio da coronavirus è maggiore. Ma gli ultraortodossi non hanno gradito l'ipotesi, minacciando una ritorsione nei confronti di Netanyahu al prossimo appuntamento elettorale, così il premier israeliano ha annunciato di voler chiudere, di nuovo, tutto il Paese.
  La decisione finale e le modalità le conosceremo alla fine di questa settimana.

(Fai informazione, 11 settembre 2020)


Palestina, volano parole grosse alla Lega araba

II Bahrain dice no alla risoluzione di condanna chiesta dall'Anp. «Siamo sorpresi»

di Michele Giorgio

 
GERUSALEMME - Invitati, con ogni probabilità, dall'Autorità nazionale a non calcare la mano, i tre giornali nei Territori occupati - Al Quds, Al Ayyam e Al Hayat Al Jadida - ieri titolavano con moderazione sulla batosta subita mercoledì dalla causa palestinese alla riunione dei ministri degli esteri della Lega araba.
   Più che la clamorosa bocciatura della risoluzione di condanna della normalizzazione dei rapporti tra Emirati arabi e Israele avanzata dal ministro degli Esteri dell'Anp Riad al Malld, i tre quotidiani hanno scelto di evidenziare i pochi aspetti positivi di una giornata che avrà riflessi importanti: il no dalla Lega araba ai piani di annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania e l'appoggio confermato dal consesso arabo al piano saudita del 2002 che condiziona la normalizzazione con Israele al suo ritiro dai territori arabi e palestinesi che occupa dal 1967. Ma non è bastato per nascondere sotto al tappeto quanto è accaduto mercoledì, peraltro ampiamente commentato e condannato dai cittadini palestinesi sui social.
   I retroscena emersi sulle fasi che hanno preceduto il meeting parlano di scontro aperto tra i palestinesi e alcuni dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) che riunisce le sei petromonarchie sunnite.
   «L'Oman e il Bahrain hanno stretto i ranghi con gli Emirati e hanno fatto forti pressioni su Riad al Malli, sono volate parole grosse. Anche loro intendono normalizzare al più presto le relazioni con Israele e vedono come un ostacolo i diritti dei palestinesi e l'iniziativa saudita del 2002», ci spiegava ieri un giornalista palestinese con buoni contatti ai vertici dell'Anp. Circostanze confermate indirettamente dallo stesso Al Malli.
   «Siamo rimasti sorpresi che un Paese arabo si sia opposto alla nostra richiesta. Lo Stato di Palestina si è spinto troppo oltre nel chiedere di tenere una riunione di emergenza?» ha detto il ministro degli Esteri palestinese riferendosi con ogni probabilità al Bahrain, indicato come il più disposto a seguire le orme degli Emirati. L'8 settembre il giornale AI Quds Al Arabi - di proprietà del Qatar da anni in rotta con Arabia saudita ed Emirati - aveva scritto di una «guerra nascosta» ai palestinesi scatenata da «chi cercava di salire sul carro degli Emirati». Il Segretario generale del Ccg, Nayef al-Hajraf, avrebbe usato parole di fuoco, intimando ai palestinesi di scusarsi con le monarchie del Golfo pronte a normalizzare le relazioni con Israele.
   Indiscrezioni e rivelazioni a parte, quanto è accaduto mercoledì - a pochi giorni dal 15 settembre in cui alla Casa Bianca Israele ed Emirati firmeranno l'accordo di pace - è la rappresentazione corretta di quel mondo arabo diviso di cui parla spesso con palese soddisfazione il premier israeliano Netanyahu. Più di tutto completa l'isolamento dei palestinesi, che non riescono più a tenere compatti gli arabi dietro al principio della pace in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati.

(il manifesto, 11 settembre 2020)


Accordo Israele-Emirati: un rovesciamento di paradigma

Nessuna meraviglia che gli odiatori di Israele siano furibondi. La loro grande menzogna sta franando: il terribile stato sionista si sta rivelando fonte di soluzioni e speranze, non di odio e disgrazie

Coloro che odiano Israele non devono essere molto allegri, di questi tempi. Tutt'a un tratto, va svanendo la grande menzogna che ha nutrito il loro veleno anti-sionista per così tanto tempo. Per più di mezzo secolo i geni della diplomazia hanno continuato a dire al mondo che "la chiave per la pace in Medio Oriente è risolvere il conflitto israelo-palestinese". Il corollario, molto conveniente, era che la soluzione di ogni guaio mediorientale ricadeva tutta sulle spalle di Israele, il che manteneva costantemente lo stato ebraico nel mirino della condanna globale.
Questo brillante stratagemma cercava di mascherare la semplice verità che i mali più profondi del Medio Oriente non hanno assolutamente nulla a che fare con Israele o il conflitto palestinese. Vediamone solo alcuni: secoli di conflitti tra musulmani sciiti e sunniti, feroci dittature che hanno portato disperazione e miseria generale, un regime iraniano predatorio che persegue il dominio sulla regione, sanguinose guerre civili in Libano Siria e Yemen, ascesa di gruppi terroristici come al-Qaeda e Isis, colossale carenza di garanzie e libertà civili con regolare persecuzione delle voci dissidenti...

(israele.net, 10 settembre 2020)


Sveglia Ue: Erdogan è una minaccia globale. Parla Nirenstein

Conversazione di Mondogreco.net con la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein: vi racconto il pericolo di Erdogan per Grecia e Cipro, e la tragedia guerrafondaia dell'Iran.

di Francesco De Palo

Fiamma Nirenstein
Secondo la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, tra le altre cose membro del Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa), già vicepresidente della commissione per gli affari esteri della Camera dei Deputati per la XVI legislatura (sino a marzo 2013), è giunto il momento che l'Europa guardi meglio alle mosse turche, intrise di violenza e prevaricazione: l'invasione della Siria, la penetrazione in Libia, le provocazioni contro Grecia e Cipro. Per cui la nuova cooperazione militare (ma non solo) tra Israele, Grecia e Cipro si pone come punto di caduta di una più ampia strategia che investe l'intera macro regione euromediterranea, ma che va letta anche alla luce del nuovo accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele, che verrà siglato martedì prossimo a Washington. "Stiamo attenti a questa cultura neo-ottomana che disprezza gli europei".

- Atene, Tel Aviv e Nicosia uniscono le Forze Armate conducendo esercitazioni congiunte e attività operative in un momento di fortissime tensioni geopolitiche causate dalla Turchia. E' nata una nuova visione comune contro le policies di Erdogan?
  Penso di sì, è una strategia molto larga che comprende anche l'importantissima pace che verrà siglata martedì prossimo a Washington tra Emirati e Israele. Da una parte abbiamo la tendenza a creare una nuova situazione progressiva di pace, di rapporti rinnovati e diversificati rispetto al passato. Dall'altra invece c'è un fronte che non esito a definire guerrafondaio, formato da Iran e Turchia: è chiaro che Israele in questo suo rapporto mediterraneo con Grecia, Egitto e Cipro svolge un ruolo primario, contro la strada di una guerra al mese intrapresa da Ankara e Teheran. Turchia e Iran, tramite i relativi fiancheggiatori, agiscono solo per fini agitatori. E' contro questa deriva che agisce un orizzonte impegnato in collaborazione, pace e nuove relazioni che porteranno ad un futuro migliore per l'intera area. Si tratta di uno scontro verticale fra due blocchi.

- L'accordo di pace degli Emirati Arabi Uniti con Israele può essere visto anche alla luce dell'ultra-espansionismo turco nel Mediterraneo orientale?
  Non c'è dubbio. Sono sicura del fatto che i paesi sunniti moderati hanno come nemico l'universo sciita guidato dall'Iran con il suo proxy più pericoloso rappresentato da Hezbollah, senza dimenticare il ruolo di Qatar e Hamas nella Fratellanza Musulmana che preoccupano enormemente gli Emirati. Non va dimenticato come il Qatar sia stato oggetto di una vera e propria messa fuori legge da parte di questi paesi: quindi all'interno di questo fronte sunnita c'è una forte spaccatura. E' di pochi giorni fa la visita di una delegazione di Hamas prima da Erdogan e dopo a Beirut: non importa che il primo sia convintamente della Fratellanza Musulmana. Il tutto va letto sapendo che il piano di pace di Trump ha fatto saltare i grandi nemici dell'occidente, ovvero iraniani e turchi. Osservo che la Lega Araba ieri si è rifiutata di condannare l'accordo di pace, come da richiesta dei palestinesi: per cui siamo in presenza di una situazione molto promettente creata dalla Casa Bianca. Non a caso Trump è stato proposto per il Nobel, che invece fu dato gratuitamente a Obama, il quale fu il vero protagonista non solo dell'arrampicata iraniana verso la bomba atomica ma anche della tragedia siriana. Non credo che Trump potrà vincerlo, per come è costruito oggi quel premio. Io però glielo darei senz'altro.

- La forte relazione sul gasdotto Eastmed tra Tel Aviv, Atene, Nicosia e Il Cairo come impatta sulla presenza turca in Libia e con l'imbarazzo della Nato?
  La Turchia è ovviamente un attore significativo in questa fase, soprattutto per le sue mosse scomposte, ma in cima alle preoccupazioni dei paesi arabi resta l'Iran perché ha investito moltissime energie nel prevedere la costruzione della bomba: sono state infatti rimesse in moto le centrifughe. Erdogan mette a rischio l'equilibrio mediorientale e mediterraneo.

- Come giudica la reazione europea?
  Se c'è una cosa spiacevole in tale vicenda è che l'Ue a fronte di questa storica occasione rappresentata dall'accordo tra Israele e gli Emirati, a cui seguiranno anche Barhain e Sudan, non è riuscita a dire nemmeno un bravo a chi ha ispirato quell'accordo. Dove sono le pulsioni europeiste verso la pace? Qualcuno vuole continuare a inseguire la guerra terroristica che per anni hanno fatto i palestinesi, nonostante Israele abbia avanzato svariate offerte di pace? L'ennesima beffa di questo finto pacifismo si ritrova nel fatto che Serbia e Kosovo vogliono portare le rispettive ambasciate a Gerusalemme, ma l'Ue le minaccia di tenerle fuori dall'allargamento degli stati membri.

- Dal possibile ingresso nell'Ue alla profondità strategica neo-ottomana: come è cambiata la politica di Erdogan?
  Non solo Trump, ma tutto il mondo si era illuso sulla possibilità di recuperare Erdogan in un discorso che lo portasse all'interno di un dialogo con il mondo occidentale. Stiamo parlando di un grande paese islamico che ha attraversato un periodo di forte occidentalizzazione, per cui era naturale che si valutasse il suo desiderio di essere ammessa nell'Ue. Il fatto che la Turchia sia un membro della Nato rappresenta però al momento un problema di non piccola dimensione: dal 2016 Erdogan persegue tutti i suoi dissidenti, mette in galera i giornalisti, ha invaso la Siria, ha messo in fuga 160mila curdi, è penetrato in Libia, ricatta l'Europa sui migranti, ordina altri S-400 dalla Russia, trasforma Aghia Sophia in moschea e adesso punta a Kastellorizo. Insomma, un'aggressione continua. Ricordo una frase del ministro degli esteri turco Cavosoglu: "Gli europei sono bambini razzisti e viziati, che devono sapere quale è il loro posto". Stiamo attenti a questa cultura neo-ottomana che disprezza gli europei.

(Mondogreco, 11 settembre 2020)


Daimler Buses conclude un ordine di 415 autobus in Israele

 
Daimler Buses ha ricevuto uno dei suoi più grandi ordini di sempre. In particolare, la divisione autobus di Daimler Truck AG ha presentato un'offerta di successo per una grossa gara d'appalto in Israele e si è aggiudicata l'ordine per un totale di 415 autobus urbani e interurbani.
   I veicoli andranno a Egged, la più grande compagnia di autobus privata presente in Israele. Oltre a questo, l'ordine è il risultato di una proficua collaborazione tra Daimler Buses e Colmobil che è responsabile sia della vendita che dell'assistenza degli autobus Mercedes.
Till Oberwörder, responsabile di Daimler Buses, ha dichiarato: ""Siamo lieti che Egged abbia scelto gli autobus urbani e interurbani del marchio Mercedes-Benz per il loro alto livello di affidabilità e l'ottimo chilometraggio. L'ordine dei 415 autobus è una delle più grandi nella storia della nostra azienda. Inoltre è la prima volta in oltre 15 anni che Daimler Buses vince la gara nel segmento altamente competitivo degli autobus urbani in Israele".
   Il grosso ordine comprende 156 unità del telaio interurbano OC 500 RF 1939 e 259 del telaio urbano OC 500 LE 1830. Gli autobus urbani sono modelli con ingresso ribassato che permettono ai passeggeri di salire a bordo più facilmente.
   I telai vengono prodotti nello stabilimento di Daimler Buses presente a Sàmano (in Spagna) mentre le carrozzerie saranno montate in loco in quanto prodotte dai costruttori israeliani Haargaz e Merkavim. Tutti i veicoli saranno consegnati quest'anno ed entro la fine del prossimo.

(Mbenz.it, 11 settembre 2020)


Hezbollah e Iran non dimenticano: continua lo stato di allerta nel nord Israele

Hassan Nasrallah vuole la sua vendetta anche contro il parere iraniano e a costo di scatenare una guerra con Israele

di Sarah G. Frankl

Più di un mese e mezzo di massima allerta nel nord Israele. I media e la popolazione, sopraffatti da una enorme mole di notizie diverse, se ne dimenticano ma i militari, gli ufficiali, i membri della intelligence israeliana sanno che prima o poi la vendetta di Hezbollah per l'uccisione di un importante agente avvenuta a luglio a Damasco e attribuita a Israele, arriverà.
   Anzi, a dire il vero ci hanno già provato almeno due volte. La prima quando Hezbollah ha inviato tre combattenti oltre il confine per aprire il fuoco su un avamposto ad Har Dov (Shaba Farms), Israele ha lanciato un "attacco di avvertimento" aereo, quindi gli intrusi si sono affrettati a tornare oltre il confine. La seconda quando alcuni cecchini hanno preso di mira un gruppo dell'intelligence israeliana vicino al kibbutz di Manara, anche in quel caso messi in fuga dalla reazione dei militari di Gerusalemme.
   Ma il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, vuole la sua vendetta a costo di scatenare una guerra. Vuole uccidere almeno un soldato israeliano prima di ordinare il ritorno alla calma al confine tra Libano e Israele.
In un breve discorso via radio tenuto ieri Nasrallah ha negato che gli israeliani avessero sventato i due tentativi di vendetta. Tuttavia si è detto molto felice del fatto che lungo il confine i militari di Gerusalemme siano costretti a vivere in costante allerta.
   Ed effettivamente la vita dei militari israeliani lungo il confine nord non è affatto facile. Costantemente in stato di allerta e senza un attimo di respiro.
   Secondo un noto giornale israeliano l'Iran avrebbe vivamente sconsigliato a Nasrallah di andare verso una escalation con Israele, ma sembra che il leader di Hezbollah non voglia sentire ragioni e ha ricordato agli alleati iraniani che anche loro stanno tramando la loro tremenda vendetta contro gli Stati Uniti per l'uccisione di Qassem Soleimani. Iran ed Hezbollah non dimenticano.

(Rights Reporter, 11 settembre 2020)



Milioni dall'Europa all'Ong accusata di aiutare terroristi e odiare gli ebrei

I responsabili di Islamic Relief si sono dimessi in massa dopo i post antisemiti dei dirigenti svelati dal «Times». Più volte sospettata di legami con i fanatici, ha ricevuto fondi per anni.

di Francesco Borgonovo

 
Islamic Relief Worldwide è una delle Organizzazioni non governative più grandi e potenti del mondo, di sicuro la più famosa tra quelle di orientamento musulmano. Ha sede a Birmingham, nel Regno Unito, e ha aperto succursali in 40 Stati. È molto influente a livello sovranazionale, è nota ad esempio la sua azione di lobbying alle Nazioni Unite. Soprattutto, può contare su un notevole patrimonio. Nel solo 2018, per dire, ha ricevuto fondi per la bellezza di 140.657.648,74 euro. Nelle ultime settimane, tuttavia, Islamic Relief ha avuto vari problemi non del tutto irrilevanti. I guai sono cominciati alla fine di luglio, quando Heshmat Khalifa, membro del consiglio di amministrazione e presidente della Ong, ha dovuto dare le dimissioni. La stampa inglese ha scoperto che, sui suoi profili social, aveva pubblicato alcuni post diciamo... poco edificanti. In uno di questi definiva il presidente egiziano Al Sisi un «magnaccia sionista». E ancora un «magnaccia figlio di ebrei» e un «criminale sionista». Giusto per non farsi mancare niente, il simpatico Khalifa ha pensato bene di chiarire le sue posizioni riguardo al popolo ebraico. Sempre nei post sui social ha definito gli ebrei «nipoti di scimmie e maiali».
   Come facile immaginare, dalle rivelazioni mediatiche è scaturito uno scandalo, e Khalifa ha dovuto lasciare l'incarico, che occupava con soddisfazione da parecchio tempo, precisamente dal 1999. Subito dopo, Naser Haghamed, il chief executive di Islamic Relief, si è molto scusato pubblicamente per le orrende uscite del suo collega, e ha promesso che si sarebbe dato da fare affinché cose del genere non avvenissero mai più. Purtroppo, non gli è andata molto bene. A distanza di un mese quasi esatto, un'altra ondata di vergogna si è abbattuta sulla Ong islamica.
   Al posto di Khalifa, nel board dell'organizzazione umanitaria è entrato Almoutaz Tayara. Piccolo problema: costui condivide con il suo predecessore il vizio di pubblicare commenti antisemiti sui social network. Il Times ha scoperto che Tayara ha postato sulla Rete vignette antisemite ed elogi ad Hamas. Inoltre «ha glorificato gli attacchi terroristici contro Israele e condiviso una immagine in cui l'ex presidente americano Barack Obama appariva in abiti marchiati con la Stella di David». Questi delicati commenti risalivano al 2014 e al 2015, anni in cui Tayara era al vertice della filiale tedesca di Islamic Relief.
   In questo caso, tuttavia, le scuse e le promesse non sono bastate. Dopo l'ennesima rivelazione, l'intero board di Islamic Relief Worldwide ha dovuto rassegnare le dimissioni, trascinando l'Ong in un polverone senza pari. In realtà che le posizioni dei capoccia di Islamic Relief nei confronti di Israele e degli ebrei non fossero proprio delle migliori era noto. Nel corso degli anni, la Ong è stata ripetutamente accusata di avere legami con l'estremismo islamico. Nel 2014, Israele l'ha dichiarata illegale sulla base di rapporti di intelligence che parlavano di finanziamenti ad Hamas. Nel gennaio 2016, la banca britannica Hsbc ha annunciato che avrebbe rotto ogni rapporto con l'associazione, preoccupata dal fatto «che il denaro per gli aiuti potesse finire a gruppi terroristici all'estero». Per motivi simili la banca americana Usb, nel 2012, ha chiuso il conto di Islamic Relief. Nel 2016, invece, sono stati ricercatori svedesi ad accusare l'Ong di avere rapporti molto stretti con la Fratellanza musulmana. Nel 2014, addirittura, gli Emirati Arabi hanno inserito Islamic Relief in una lista nera di organizzazioni legate al terrorismo.
   Ovviamente Islamic Relief ha sempre respinto ogni accusa. Resta che, anche alla luce dei recenti avvenimenti, l'associazione si può considerare parecchio discussa. Tutto questo, però, non sembra avere molto preoccupato l'Unione Europea che - come mostra l'elenco di cui pubblichiamo oggi la seconda parte - tra il 2015 e il 2018 ha ripetutamente finanziato l'Ong, per altro senza sapere esattamente per quali scopi utilizzasse il denaro ricevuto. Nel 2015 Islamic Relief ha ottenuto 1.100.000 euro di denari provenienti dalle casse europee. Nel 2016 altri 912.263 euro. Nel 2017 ancora più soldi: 1.800.000 euro e poi altri 400.000 e altri 100.000 ancora da fondi diversi. Davvero interessante: mentre sui «benefattori» islamici piovevano accuse pesantissime, l'Ue continuava a sganciare, e non si preoccupava nemmeno troppo di sapere dove sarebbero andati a finire i suoi denari. Chissà se ora, dopo l'ultima esibizione di antisemitismo, a Bruxelles cambieranno idea.

(La Verità, 11 settembre 2020)


Israele-Emirati: l'accordo di pace con Abu Dhabi può essere un ponte verso l'Asia

GERUSALEMME - Una delle sfide che impediscono alle compagnie israeliane di raggiungere l'Asia orientale è che "non possono volare sopra l'Arabia Saudita e tutti i paesi del Golfo", ma l'accordo fra Israele ed Emirati e la conseguente apertura dello spazio aereo da parte di Riad e del Bahrein potrebbero avere "un impatto importante sui collegamenti di Israele con il mondo, inclusa l'Asia". Lo ha dichiarato Edouard Cukierman, investitore franco-israeliano, secondo il quotidiano finanziario "Nikkei Asian Review". "Ora", prosegue Cukierman, "gli israeliani saranno in grado di prendere più spesso rotte dirette, raggiungendo più rapidamente l'Asia".
   D'altra parte, se le compagnie aeree emiratine Etihad ed Emirates cominceranno a volare a Tel Aviv, sarà anche più semplice per gli uomini d'affari asiatici raggiungere Israele, Europa e Turchia e "questo è un grande vantaggio", secondo l'investitore. "Singapore è diventata una solida base per lo sviluppo delle attività israeliane in tutta l'Asia", ha aggiunto Cukierman, sottolineando che gli Emirati potranno svolgere un ruolo simile e agevolare l'ingresso delle imprese israeliane in altri paesi asiatici. "Siamo molto attivi in Cina ma non siamo attivi in India", ha ricordato l'investitore. Poiché la Cina, che pure ha coinvolto sia gli Emirati sia Israele nel progetto della nuova Via della Seta, sembra al contempo stringere rapporti più solidi con l'Iran, alcuni osservatori hanno ritenuto che gli Stati Uniti abbiano fatto da mediatori fra Abu Dhabi e Tel Aviv per indebolire l'influenza di Pechino. Cukierman non condivide questa lettura: "Israele è parte dell'iniziativa cinese, e se permettiamo ai cinesi di andare in Israele grazie al sostegno dei paesi confinanti questa è una svolta per noi e per gli sviluppi delle relazioni con la Cina".
   Altri investitori dello Stato ebraico elogiano le potenzialità dell'accordo per l'economia di entrambi i paesi. Secondo l'imprenditore Eldad Tamir la complementarità fra i due Stati è "praticamente perfetta", perché Israele "è povero di risorse naturali e ricco di alta tecnologia e biotecnologie, ma l'innovazione richiede di investire sempre più denaro in ricerca e sviluppo e i centri tech israeliani richiedono nuovi investitori per continuare a svilupparsi", mentre gli Emirati "vogliono migliorare la propria economia oltre il petrolio, diversificare le esportazioni e progredire nell'era digitale".

(Agenzia Nova, 10 settembre 2020)


Il coprifuoco «limitato» ha riportato le vecchie paure in Israele

Prima notte di blocco in 40 località. Interessate soprattutto le aree arabe e degli ebrei ultraortodossi. Netayahu respinge le critiche: «La priorità è fermare le infezioni, poi scenderanno».

di Fiammetta Martegani

L'altra sera è calato un insolito silenzio a Nazareth, a Bnei Brak - la cittadina con prevalenza di ortodossi vicino a Tel Aviv- e a Gerusalemme, in molti quartieri. Il coprifuoco notturno in 40 località israeliane considerate "zona rossa" a causa dell'elevato tasso di contagio al Covid-19 era appena stato annunciato.
   Era atteso. Lo stesso, quella calma si è allungata come un'ombra di paura sul Paese che durante i primi mesi della pandemia era diventato il simbolo mondiale nella lotta al virus e che questa settimana si è ritrovato al primo posto nel mondo per il rapporto tra numeri di contagi e popolazione. Nella sola giornata di lunedì sono stati registrati oltre 3.400 casi. Che portano il totale da inizio epidemia oltre quota 139mila. I decessi sono di poco oltre i mille. La ragione di questo incremento esponenziale è stata attribuita, soprattutto, alla tendenza, tipica degli ebrei ultraortodossi e degli arabi, di aggregarsi per pregare, per celebrare matrimoni e funerali, superando di gran lunga i numeri previsti dalle restrizioni.
   Il coprifuoco, infatti, interessa soprattutto aree in cui sono insediate le due comunità. La fascia oraria scelta (dalle 19 alle 5 del mattino successivo) è proprio quella in cui abitualmente famiglie e amici si riuniscono per celebrare le feste: stanno per iniziare quelle legate al Capodanno ebraico. Mentre l'alba e il tramonto sono due dei principali momenti di raccolta per i musulmani. Le nuove misure straordinarie vietano ogni tipo di assembramento. Compresi la preghiera di gruppo e i matrimoni: richiesta formulata con insistenza, già da settimane, da Ronni Gamzu, commissario nazionale per la lotta al coronavirus (che in questo momento si trova in isolamento, dopo aver scoperto di essere entrato in contatto con una persona risultata positiva).
   «Ora la priorità è fermare il forte aumento di contagi. In seguito vedremo anche di farli scendere», ha dichiarato il premier Benjamin Netanyahu. Mentre l'opposizione, su tutti i media, non fa che accusarlo per l'incostanza nella gestione delle misure di contenimento della pandemia.

(Avvenire, 10 settembre 2020)


Addio ad Amos Luzzatto intellettuale, leader ebraico e voce forte del dialogo

È morto nella sua Venezia. Il Patriarca: «Figura luminosa». Paolo Gnignati: Israele era un modello, difendeva la specificità dell'ebraismo italiano.

di Paolo Coltro

Nato a Roma il 3 giugno del 1928 da una storica famiglia ebrea veneta. ha trascorso la sua adolescenza a Gerusalemme e Tel Aviv dopo la fuga dall'Italia delle legge razziali. Tornato nel 1946, diventa medico ma accanto all'attività professionale unisce quella di studioso, filologo. Presidente della comunità ebraica veneziana, nel 1998 viene eletto a capo di tutte le comunità ebraiche italiane, incarico che terrà fino al 2006.

 
Amos Luzzatto
Se n'è andato sommessamente, in quell'appartamento in campo della Lana, ma dopo una vita tutt'altro che sommessa: anzi, piena e sfolgorante di impegno, iniziative, idee. Amos Luzzatto ha lasciato ieri la vita e Venezia, ma ha lasciato una traccia lunga quasi tutti i suoi 92 anni.
   Grande famiglia ebrea, la sua, nel Veneto da secoli: ha scritto di suo pugno nel libro «Conta e racconta: memorie di un ebreo di sinistra», scritto a 80 anni e pubblicato da Mursia: «II mio nome esatto è Amos Michelangelo Luzzatto, figlio di Leone Michele e di Emilia Lina Lattes. I Luzzatto sono originariamente ebrei veneti, giunti dalla Lusazia, rintracciabili alla fine del XV secolo fra Venezia, il Friuli e il veneto orientale. La lapide della tomba sul punto più alto del cimitero ebraico di Conegliano appartiene ad un Luzzatto». E con lo stemma: un gallo che tiene tre spighe in una zampa, sormontato da una mezzaluna e da tre stelle a cinque punte. Una storia lunga e antica, che con Amos ha aggiunto un capitolo importante nel presente.
   Da bambino frequenta molto il nonno Dante Lattes, rabbino e figura centrale dell'ebraismo italiano del secolo scorso; e suo padre è un socialista perseguitato dai fascisti. Arrivano nel '38 le leggi razziali e poco dopo la famiglia lascia l'Italia, si trasferisce nella Palestina mandataria, ovvero il futuro Stato d'Israele. Torneranno solo nel `46, e Amos si iscrive a medicina. Ma fare il medico (sarà chirurgo ad Asti, in altri ospedali, al Civile di Venezia, fino a concludere la carriera a Dolo) è solo la professione, non esaurisce la sua curiosità intellettuale. Lo affascina l'ebraismo verso il quale ha però un approccio laico. Studia i testi antichi, «era un filologo — ricorda Paolo Gnignati, attuale presidente della Comunità ebraica veneziana — ma di una profondità tale da essere in grado di discutere con i rabbini». Fuori dalla sala operatoria, Luzzatto studia e scrive, ma da subito con un piglio diverso, da progressista diremmo oggi. E un socialista autentico, tanto che si iscrive al Psiup, farà anche il consigliere comunale a Mira. E suoi libri respirano e fanno respirare: «Ebrei moderni», «Sinistra e questione ebraica», entrambi dell'89; e poi «Oltre il Ghetto» e testi di storia ebraica, di esegesi («Leggere il Midrash»), fino a «Hermann» pubblicato 10 anni fa da Marsilio. Le idee di fondo sono sempre di apertura: il dialogo interreligioso, la difesa del pluralismo e della libertà di tutti.
   Un impegno civile che non si esaurisce nelle pagine scritte: Amos Luzzatto è anche presidente della comunità ebraica veneziana, e poi di tutte le comunità ebraiche italiane, per due mandati, dal 1998 al 2006. Dice a Pagine Ebraiche: «Rappresentare politicamente gli ebrei italiani ha significato per me difendere e valorizzare l'Intesa con lo Stato. Ma anche dare significato al nostro essere minoranza, e con altre minoranze offrire concretezza al pluralismo democratico». Concretezza: non sono solo parole quelle che, davanti a Carlo Azeglio Ciampi, pronuncia contro il razzismo. Erano di 15 anni fa, potrebbero essere ripetute oggi: «Saremo capaci di insegnare ai nostri ragazzi la libertà di scegliere fra la lotta di sopraffazione e la convivenza civile nel rispetto dell'altro?». Anche concretezza politica: è Amos Luzzatto che nel novembre porta Gianfranco Fini in Israele, con abiura pubblica dei misfatti del fascismo.
   Talmente poliedrico, Luzzatto, che nelle sue biografie le definizioni si inseguono: medico, scrittore, saggista, intellettuale, storico, filologo... Riassume Riccardo Calimani: «Aveva una cultura enciclopedica». Aggiunge Gnignati: si interessava di matematica, filosofia. Raccontano, i suoi amici, di conversazioni condite di grande umanità e di capacità di ascolto, e di una schiettezza totale. Anche politica: «Vedeva in Israele un modello — dice Gnignati — e difendeva la specificità dell'ebraismo italiano». Di suo, Luzzatto scriveva che bisognava mantenere «uno stretto rapporto con la realtà di Israele, religiosa e laica, senza atteggiarsi a rappresentanti della politica israeliana».
   Arriveranno i figli, per i funerali oggi alle 14.30 in Ghetto a Venezia. Sono tre: Gadi Luzzatto Voghera, che è uno storico; Michele, lavora alla Bollati Boringhieri; Misa, insegnante a Milano, con la loro madre Laura Voghera. Arriveranno gli ebrei veneziani, sono circa 500, che l'hanno avuto come guida; ma ci saranno i molti veneziani e non che per decenni hanno respirato il suo prestigio. II cordoglio ufficiale accomuna il ministro Dario Franceschini, Luca Zaia, il patriarca Francesco Moraglia («luminosa figura»), la presidente Ucei Noemi Di Segni, Gianfranco Bettin, Andrea Ferrazzi.
   Amos Luzzatto verrà domani sepolto nel cimitero ebraico di Padova, accanto alla tomba del nonno Dante Lattes, in quel pezzo di terra donato addirittura dai Carraresi e rimasto lì da allora, inviolabile e quasi invalicabile. Oltre al molto che ha dato, c'è una cosa in più che potrebbe rimanere di Amos Luzzatto: un libro sulla professione medica, scritto ma ancora nel cassetto. La curiosità di Luzzatto, questa volta medico, non si fermava mai. E magari gli sopravviverà.

(Corriere del Veneto, 10 settembre 2020)


Bonhoeffer, essere testimoni contro gli «altari laterali»

di Alessandro Zaccuri

Non sempre stupidi si nasce. Più spesso lo si diventa: per convenienza, per assuefazione, per capitolazione davanti a un potere dal quale si finisce per essere posseduti e come occupati interiormente. A sostenerlo, nel buio del totalitarismo, era Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo luterano la cui figura è stata ricordata ieri al Festivaletteratura presso il Chiostro del Museo Diocesano in un dialogo tra la pastora battista lidia Maggi e don Roberto Fiorini, autore per Gabrielli di un puntuale profilo sull'autore (Dietrich Bonhoeffer. Testimone contro il nazismo, pagine 168, euro 15,00). «Nella prospettiva biblica - ha sottolineato Maggi - "testimone" è una parola che indica qualcosa di diverso e di molto più impegnativo rispetto al semplice fatto di assistere a un determinato avvenimento. La testimonianza, come ci ha mostrato Bonhoeffer, comporta una responsabilità radicale, che induce a prendere su di sé la realtà in tutta la sua complessità e con tutte le sue contraddizioni».
   E' questa l'origine della "teologia della Croce" nella quale culminano il pensiero e la vita stessa di Bonhoeffer, sinteticamente ripercorsa da Fiorini attraverso una serie di tappe che dalla nascita nel 1906 all'interno di un'agiata famiglia della colta borghesia tedesca arrivano all'impiccagione il 9 aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della guerra, nel lager di Flössenburg, dove Bonhoeffer era recluso per aver partecipato al fallito attentato contro il Führer. «Mi sono imbattuto nei suoi scritti all'inizio degli anni Settanta - racconta Fiorini, alludendo anche alla sua esperienza di prete operaio -. Era un periodo fortemente segnato dal conflitto, in ambito sia sociale sia ecclesiale. Le prime traduzioni italiane dei testi di Bonhoeffer, curate da don Italo Mancini, mi avevano molto colpito, inducendomi poi a studiare, ad approfondire. Bonhoeffer ci ha insegnato, tra l'altro, che opporsi alla guerra non significa rinunciare alla lotta, e che non ci può essere vera pace senza piena giustizia». La parola della pace è, non a caso, il titolo scelto per l'incontro. Innegabile, ancora una volta, la risonanza biblica. «Nella Scrittum - insiste Maggi - la pace è tutt'altro che assenza di guerra. L'immagine che meglio rappresenta l'ideale di shalom è il ventre di una donna incinta, in un presente gravido di futuro».
   L'analogia tra il martirio di Bonhoeffer e le inquietudini dei nostri anni corre sottotraccia. Fiorini, per esempio, insiste sul pericolo che la mitologia dell'uomo forte torni a fare presa sui giovani, mentre Maggi ribadisce la necessità di coltivare un atteggiamento di complessità a dispetto di ogni tentativo di semplificazione. «Per il credente- dice - non esistono parole d'ordine alle quali adeguarsi». Del resto, la pensava così anche Bonhoeffer, quando contestava l'appoggio delle confessioni cristiane al nazismo avvertendo che nelle chiese non possono esserci «altari laterali per l'adorazione di uomini».

(Avvenire, 10 settembre 2020)


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Bonhoeffer, gli ebrei e la testimonianza a Cristo

di Marcello Cicchese

Da diverse parti si ricorda ogni tanto la figura di Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano impiccato dai nazisti il 9 aprile 1945. Certamente Bonhoeffer è da iscriversi fra le non molte figure pubbliche del mondo cristiano tedesco che seppero riconoscere per tempo la natura perversa del regime hitleriano e assunsero un atteggiamento di opposizione. Purtroppo però anche lui non può essere incluso tra gli amici degli ebrei. Dopo il boicottaggio ai negozi ebrei dell'aprile 1933, Bonhoeffer fece la seguente dichiarazione:
    «Nella Chiesa di Cristo non abbiamo mai perso di vista l'idea che il "popolo eletto", che crocifisse il Salvatore del mondo, debba scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze» (S. Friedländer, La Germania Nazista e gli Ebrei, Garzanti, p.53).
Anche nella famosa «Confessione di Barmen» del maggio 1934, ispirata in gran parte dal teologo Karl Barth, la «Chiesa Confessante» si oppose pubblicamente al «paragrafo ariano» soprattutto perché tra i pubblici ufficiali di provenienza non ariana che avrebbero dovuto essere messi a riposo comparivano anche i pastori ebrei convertiti delle chiese protestanti di Stato, e questo era visto come un'indebita ingerenza dell'autorità statale nelle questioni ecclesiastiche. Vale la pena di riportare un brano del libro di Friedländer.
    «Il paragrafo ariano venne applicato soltanto a ventinove pastori su ottomila; di questi, undici vennero esclusi dall'elenco perché avevano combattuto nella prima guerra mondiale. Fino alla fine degli anni trenta il paragrafo non venne mai applicato a livello centrale; la sua messa in atto dipese dalle autorità ecclesiastiche locali e dai funzionari locali della Gestapo. Dal punto di vista delle chiese, il vero dibattito era incentrato su questioni di principio e di dogma, il che escludeva gli ebrei non convertiti. Allorché, nel maggio del 1934, si svolse a Barmen il primo congresso nazionale della Chiesa confessante, non si udì una parola sulle persecuzioni, e questa volta non furono menzionati neanche gli ebrei convertiti.»
Quindi la presa di posizione antinazista, che pure fu chiara e coraggiosa, restò una condanna ideologica: allo Stato non fu riconosciuto il diritto di intromettersi in questioni che riguardavano Dio, la salvezza e la chiesa. Fu condannata l'ideologia, non la politica. Il conflitto che per diversi mesi occupò l'attenzione pubblica in Germania col nome di "Kirchenstreit" fu vissuto soprattutto come un contrasto interno alle istituzioni dello stato, ma non fu mai una reale, concreta lotta di opposizione al regime in quanto tale. Per il suo carattere di conflitto istituzionale, la disputa si trasferì all'interno delle chiese protestanti ufficiali, generando una divisione fra pro-governativi e anti-governativi, ma non coinvolse le chiese evangeliche libere, che pure ebbero le loro indiscutibili colpe morali. Si può quasi dire che quel contrasto fu la riedizione in forma moderna della medioevale contrapposizione tra Papato e Impero. Dopo l'avvento di Hitler, il papato vero e proprio si accordò immediatamente con l'impero, mentre una parte degli ecclesiastici di stampo luterano rivendicò la propria ecclesiastica autonomia. Forse è per questo che l'opposizione della Chiesa confessante al nazismo, oltre ad essere ampiamente celebrata dalle chiese protestanti storiche, è oggetto di grande considerazione anche da parte dei cattolici. Sperano sempre di poter dire che anche loro, sia pure in modi diversi, fecero una qualche forma di opposizione alla follia hitleriana.
   Bisogna invece riconoscere, con tristezza e umiliazione, che in campo cristiano gli oppositori al regime nazista per motivi di coscienza e di giustizia furono molto pochi. Quasi tutti i pastori della chiesa confessante andarono poi a combattere nell'esercito tedesco; e della persecuzione degli ebrei in quanto tali non sembra che fossero molti a preoccuparsene. Quanto a Bonhoeffer, che da un certo momento in poi si distanziò dalla Chiesa confessante, perfino il suo amico, parente e biografo Eberhard Bethge fu costretto ad ammettere che nei suoi scritti era presente un certo «antiebraismo teologico». «Antiebraismo teologico» che del resto non era difficile trovare neppure negli altri membri della Chiesa confessante.
   E' giusto dunque onorare la memoria di un uomo come Bonhoeffer, ma purtroppo bisogna dire che agli ebrei la sua figura non può suscitare sentimenti di particolare gratitudine.
   Bisogna aggiungere inoltre che Bonhoeffer non è stato messo a morte come cristiano confessante, ma come partecipante ad una congiura fallita, alla pari di tutti gli altri congiurati. Questa grave carenza dell'aspetto squisitamente evangelico nella morte di Bonhoeffer non è stata adeguatamente messa in risalto. Come Salvator Allende, Dietrich Bonhoeffer è morto col fucile in mano. E questa non è testimonianza cristiana.

(Notizie su Israele, 10 settembre 2020)


Trump candidato al Nobel per la pace per l'accordo Israele-Emirati

NEW YORK - Per il suo merito nel raggiungimento di un accordo di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è stato candidato al Nobel per la pace da Christian Tybring-Gjedde, deputato del parlamento norvegese. "Credo che abbia fatto più di ogni altro candidato per creare la pace tra i Paesi", ha osservato in un'intervista all'emittente "Fox News" Tybring-Gjedde, che è anche presidente della delegazione norvegese all'Assemblea parlamentare della Nato.
   Nella sua lettera al Comitato per il Nobel, il deputato ha ricordato come l'amministrazione Trump abbia avuto "un ruolo cruciale" nell'apertura di relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati. "Dal momento che ci si attende che altri Paesi mediorientali seguano i passi degli Emirati, questo accordo potrebbe trasformare la regione in una terra di cooperazione e prosperità", ha scritto Tybring-Gjedde, sottolineando inoltre il ruolo del capo della Casa Bianca nel "facilitare contatti e creare nuove dinamiche in conflitti protratti, come quello tra India e Pakistan nel Kashmir e quello tra le Coree".
   Il parlamentare norvegese ha anche elogiato Trump per aver ritirato un gran numero di militari statunitensi dal Medio Oriente. "Trump - ha osservato - è stato il primo presidente in 39 anni a non avviare una nuova guerra e a non portare gli Stati Uniti in un altro conflitto armato internazionale. L'ultimo presidente a riuscirci era stato Jimmy Carter, che vinse il premio Nobel".

(Agenzia Nova, 9 settembre 2020)


La cultura in Israele: un lusso superfluo? Una storia di scelte, tra influenze d'Europa e d'Oriente

Durante una delle sue conversazioni con David Ben Gurion, il pittore Marc Chagall cercò di convincere il fondatore di Israele dell'importanza della cultura in un'epoca in cui la priorità assoluta del movimento sionista e del giovane Stato di Israele era di creare una nazione di soldati-agricoltori.

di Cyril Aslanov

Poco entusiasmato dalla cultura agricola del kibbutz, Chagall usò una metafora, paragonando la cultura al filo rosso dei tappeti persiani: pur tenue e discreto che sia, questo filo rosso è ciò che dà la sua coerenza ai motivi decorativi dell'artigianato iraniano. Come quel filo rosso, la cultura, pur essendo un lusso in un paese sottomesso a delle scelte esistenziali urgenti, ha la sua importanza come fattore strutturante della
 
Marc Chagall, "I colori della vita"
nazione emergente. Ben Gurion, che era una persona colta (benché autodidatta), voleva creare un "uomo nuovo", rompendo il legame con la cultura diasporica alla quale gli ebrei europei erano stati abituati e nella quale eccellevano prima di immigrare in quel piccolo angolo del Mediterraneo orientale.
   Per creare la cultura pionieristica del nuovo paese, Ben Gurion si ispirò alla cultura sovietica del primo decennio della Rivoluzione russa, una cultura che Chagall conosceva bene, essendo stato uno dei protagonisti del Futurismo sovietico all'inizio degli anni '20. Ma Chagall, appunto, non rimase nella Russia sovietica e la lasciò nel 1922. Non volle neanche stabilirsi negli Stati Uniti, dove passò sette anni (1941-1948). E in quanto ad emigrare in Israele, non era disposto a farlo, con il pretesto che, dopo duemila anni di esilio, lui, come molti ebrei ashkenaziti, non era più abituato al clima del paese.
   La sua patria intellettuale era la Francia che, da buon ebreo russo, considerava come il faro della cultura europea. Così si spiega la sua apologia della cultura presso il leader sionista che pensava di creare una cultura senza radici per un "uomo nuovo" che, dalle sue radici, era stato tagliato via.
   Che Chagall abbia avuto un'influenza su Ben Gurion o no, non importa. Fatto sta che la realtà sociologica e umana fu più forte del volontarismo del fondatore dello Stato di Israele. Durante i decenni successivi, Israele sviluppò degli altissimi standard culturali che facevano percepire lo Stato ebraico come un prolungamento della vecchia Europa. Questo paese, fondato nel Medioriente da ebrei est-europei, rivendicava per sé lo status di paese occidentale localizzato sulle sponde del Mediterraneo. Nei primi decenni dell'esistenza dello Stato, i teatri, le università, le biblioteche, i conservatori di musica erano generosamente sovvenzionati. Tuttavia, l'establishment ashkenazita che aveva trasposto a Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme le abitudini culturali di Varsavia, Berlino e Vienna dimenticava che il "Secondo Israele" sefardita ed orientale aveva anche la sua propria cultura. Da Baghdad a Oran, i migliori rappresentanti della musica classica araba erano stati ebrei e in molti casi, gli ebrei dei paesi arabi erano stati attivi nella modernizzazione dell'orizzonte politico e culturale del mondo arabo.
 
Miri Regev
   Questo, l'élite ashkenazita non lo riconosceva e pensava che gli ebrei orientali in Israele fossero soltanto capaci di produrre la musica tonitruante dei matrimoni orientali. Le cose non cambiarono molto dopo la vittoria del Likud nel 1977. Nel campo culturale la crisi di identità della società israeliana scoppiò nel 2015 quando la marocchina Miri Regev fu nominata Ministro della Cultura. Odiata dalla bohème telaviviana, Regev volle riequilibrare la bilancia fra la cultura del centro economico e culturale del paese (Tel Aviv) e le periferie dove Ben Gurion e i continuatori della sua politica avevano emarginato gli immigrati venuti dai paesi arabi. Tagliò le sovvenzioni statali a molti rappresentanti della cultura elitaria di sinistra e dispensò la manna del sostegno istituzionale alle periferie, spesso identificate con ebrei non-ashkenaziti. Nel nuovo governo instaurato in maggio 2020, Miri Regev riceve il Ministero dei Trasporti. Comunque, oggi, la politica culturale dello Stato non deve più pensare alla questione "quale cultura" si debba sostenere: la cultura di stampo occidentale, favorita dall'establishment di origine ashkenazita, o la cultura orientale delle periferie? Oggi il Covid-19 ha falsificato i termini del dibattito: nessuno riceve più niente dallo Stato, i teatri e le sale da concerto sono chiusi e i professionisti dello spettacolo sono spesso costretti a diventare fattorini di pizze e sushi.

(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2020)


Il 15 settembre alla Casa Bianca la firma dell'accordo Israele-Emirati

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ospiterà una cerimonia alla Casa Bianca il 15 settembre per firmare l'accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Lo ha annunciato un funzionario americano. Stabilire relazioni diplomatiche tra Israele e gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente, comprese le ricche monarchie del Golfo, è un obiettivo chiave della strategia regionale di Trump per contenere la minaccia rappresentata dalla repubblica islamica dell'Iran. Questo accordo renderà gli Emirati il terzo Paese arabo a stabilire legami diplomatici con Israele, dopo i trattati di pace conclusi con Egitto (1979) e Giordania (1994).
Dopo l'annuncio, a metà agosto, di questo accordo, i palestinesi hanno accusato Abu Dhabi di tradimento e di violare il consenso arabo che ha reso la soluzione del conflitto israelo-palestinese una 'conditio sine qua non' per la normalizzazione con lo Stato ebraico. Otto giorni fa, una delegazione israelo-americana, guidata da Jared Kushner, genero e consigliere di Trump, si è recata ad Abu Dhabi con il primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati. Aveva ricevuto l'autorizzazione a sorvolare l'Arabia Saudita sebbene Riad non avesse rapporti con lo stato ebraico.

(Shalom, 9 settembre 2020)


Pigiami e biancheria intima nella prima campagna pubblicitaria di Israele negli Emirati

 
GERUSALEMME - La normalizzazione dei rapporti commerciali tra Israele ed Emirati Arabi Uniti potrebbe avere come punto di partenza il settore dei pigiami e della biancheria intima. Secondo quanto riferisce il sito di informazione "Middle East Eye", un noto marchio israeliano di biancheria intima ha organizzato un servizio fotografico a Dubai in quella che si ritiene essere la prima campagna di questo tipo da quando Stato ebraico ed Emirati hanno annunciato la storica intesa per la normalizzazione delle relazioni il 13 agosto scorso. Fix, un'etichetta di indumenti intimi e pigiami per giovani donne, ha lanciato la sua nuova collezione di pigiami con un servizio fotografico in cui figurano la modella israeliana May Tager e Anastasia Bandarenka, indossatrice di origine russa residente negli Emirati. "Una storia in divenire - scrive su Instagram l'agenzia Yuli Model - ecco la prima campagna pubblicitaria israeliana a Dubai con protagonista la nostra May Tager".
L'intesa annunciata il 13 agosto scorso tra Israele ed Emirati prevede la piena normalizzazione delle relazioni tra i due paesi, la sospensione dell'annessione dei territori della Cisgiordania prevista dal piano di pace per il Medio Oriente proposto dagli Stati Uniti e la futura firma di accordi bilaterali nel campo degli investimenti, turismo e sicurezza tra Gerusalemme ed Abu Dhabi. Come annunciato il 13 agosto in conferenza stampa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, è dal 2009 che Israele sta lavorando per normalizzare i rapporti con i Paesi arabi. Negli ultimi anni tali relazioni sono più o meno giunte allo scoperto con un cambio di passo da parte delle monarchie del Golfo nelle relazioni con lo Stato ebraico dall'economia alla cooperazione nel contrasto all'espansionismo dell'Iran nella regione. Il prossimo 15 settembre Netanyahu e il principe ereditario Mohammed bin Zayed saranno a Washington per firmare lo storico accordo che normalizzerà le relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti alla presenza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

(Agenzia Nova, 9 settembre 2020)


La normalizzazione di Israele, in attesa del voto americano

di Francesco Petronella

Sono quasi le 4 del pomeriggio quando le ruote dell'aereo LY-971 della compagnia israeliana El Al toccano l'asfalto della pista di atterraggio. La destinazione raggiunta, dopo un viaggio iniziato a Tel Aviv alle 11.30 del 31 agosto 2020, è l'aeroporto di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. A bordo del velivolo due delegazioni di Israele e Stati Uniti, guidate da Jared Kushner, consigliere della Casa Bianca e genero del presidente Donald Trump, e dal consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano Meir Ben Shabbat. L'apparecchio espone come insegne le bandiere delle tre nazioni - USA, Israele ed Emirati - e la parola "pace" stampata in inglese, ebraico e arabo sul finestrino laterale del pilota. Il volo viene salutato dai media locali come un momento storico che suggella la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati, primo Paese del Golfo a compiere questo passo e terzo del mondo arabo dopo Egitto e Giordania.
  Il percorso di questa distensione tra lo Stato ebraico e il piccolo (ma importante) Paese del Golfo nasce da lontano. Israele ed Emirati cooperano da tempo nello scambio di informazioni per quello che concerne la sicurezza e la difesa, sebbene Dubai e Abu Dhabi abbiano sempre mantenuto una retorica filopalestinese, almeno pubblicamente. Uno dei temi più discussi, anche se le parti sono molto reticenti sul tema, è la vendita agli Emirati dei caccia statunitensi F-35 di quinta generazione. Si tratterebbe di una mossa che, secondo alcuni esperti, minerebbe la superiorità militare di Israele nella regione, tanto è vero che un regolamento degli Stati Uniti richiede esplicitamente che l'amministrazione si consulti con lo Stato ebraico prima di vendere armi a qualsiasi Paese arabo.
  Fonti coperte riferiscono al New York Times che il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe dato all'amministrazione Trump il nullaosta per vendere armi (e aerei) agli Emirati, ma sull'affaire F-35, un tema molto sensibile per gli equilibri regionali, si susseguono le smentite da entrambe le parti. Il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan (Mbz per i media occidentali) sottolinea ad ogni occasione possibile che l'accordo con Israele annunciato il 13 agosto "non andrà a scapito della causa palestinese" e che, al contrario, l'impegno assunto dallo Stato ebraico di sospendere le annessioni in Cisgiordania è da salutare come una conquista positiva.
  Quelli dopo lo storico viaggio Tel Aviv-Abu Dhabi del 31 agosto, a cui il 16 settembre farà seguito il primo aereo cargo in volo dallo Stato ebraico agli Emirati, sono giorni di annunci, indiscrezioni e speculazioni su quale sarà il prossimo Paese dell'area ad aprirsi a Israele. Molti osservatori internazionali, confortati dall'insistenza della stampa israeliana, sono pronti a scommettere sul Bahrein. A Manana, capitale della monarchia del Golfo, è stata infatti presentata a giugno 2019 la parte economica del "Piano del secolo" messo a punto dall'amministrazione Trump per la pace tra israeliani e palestinesi. I regnanti del Bahrein, appartenenti alla dinastia Al Khalifa, sono monarchi sunniti in uno Stato a maggioranza sciita (70% della popolazione). Un fatto che mette spesso il Paese al centro della contesa regionale tra Iran e Arabia Saudita. Nonostante la reticenza bahreinita, per i media di Gerusalemme come il portale israeliano Kan 11, l'annuncio di un accordo tra lo Stato ebraico e la monarchia araba ormai non è questione di se, ma di quando.
  Altri ipotizzano che il prossimo Paese a tendere una mano a Israele possa essere l'Oman, importante snodo diplomatico per il Medio Oriente, rimasto orfano a inizio anno dell'ottuagenario sultano Qabus bin Said Al Said, definito da Netanyahu «un grande uomo» in occasione della sua dipartita. Il ministero degli Affari esteri omanita commenta il nuovo accordo tra Emirati e Israele dicendo che «soddisferà le aspirazioni dei popoli della regione nel sostenere i pilastri della sicurezza e della stabilità». Decisamente ostile invece è l'atteggiamento del Kuwait, le cui autorità fanno sapere dalle colonne del giornale locale Al Qabas che «La nostra posizione su Israele non è cambiata, saremo gli ultimi a normalizzare le nostre relazioni» con lo Stato ebraico.
  L'impressione generale, oltre i proclami e la retorica che contraddistinguono eventi simili, è che gli altri Paesi dell'area mantengano una certa cautela rispetto a possibili distensioni con Israele. C'è da aspettarsi che questa reticenza rimanga tale fino al più importante appuntamento in programma nei prossimi mesi, ossia le elezioni presidenziali americane a novembre 2020. Trump punta molto sulla politica mediorientale e sulla distensione con Israele in chiave propagandistica. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha suscitato non poche critiche in patria, intervenendo in videoconferenza alla convention repubblicana direttamente da Gerusalemme, nel corso di una missione che lo ha condotto in Libano, Israele e Kuwait. L'accusa dei democratici è quella di aver usato, cosa mai successa prima, un impegno ufficiale all'estero per meri scopi elettorali. I Paesi del Medio Oriente, però, sembrano rimanere attendisti. Probabilmente aspettano di sapere chi la spunterà nel rush finale della corsa alla Casa Bianca tra l'attuale presidente Trump e lo sfidante Joe Biden. Certamente non ci si aspetta che il candidato democratico, qualora eletto, cambi in modo radicale la politica americana nell'area. Ma al contempo è poco prudente impegnarsi a fondo nelle trame diplomatiche dell'attuale amministrazione - volte alla strategia della "massima pressione" sull'Iran - se alla fine sarà Biden a vincere le presidenziali.
  Ciononostante, l'immobilismo non è uguale ovunque. A quasi un mese dall'accordo Israele-Emirati e a pochi giorni dallo storico volo Tel Aviv-Abu Dhabi, i primi movimenti verso Israele arrivano da un'area apparentemente remota e inaspettata, quella dei Balcani. Il 4 settembre, infatti, Trump ha annunciato che Serbia e Kosovo hanno raggiunto un'intesa per la normalizzazione dei rapporti economici. Parte dell'accordo prevede che il Kosovo riconoscerà Israele, mentre la Serbia sarà il primo Paese europeo a spostare la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, come fatto dagli USA a maggio 2018. La parte dell'accordo che conta, in una regione dove gli USA vogliono contrastare la penetrazione russa e cinese, riguarda soprattutto gli aspetti economici. Ma l'inserimento del dossier israeliano nella partita ha comunque la sua importanza, facendo parte della corsa di Trump ad accumulare risultati diplomatici da usare in campagna elettorale contro Biden. Se l'esempio di Emirati, Kosovo e Serbia fosse seguito da un altro Paese arabo-islamico, o magari da più di uno, questo costituirebbe un vantaggio non indifferente per l'attuale inquilino della Casa Bianca.

(Atlante, 9 settembre 2020)


Il console eroe che salvò ebrei e Ponte Vecchio

La lapide per Gerhard Wolf

di Marco Vichi

 
Sotto gli archi del Ponte Vecchio c'è una lapide che commemora il console del Terzo Reich che «si adoperò con ruolo decisivo per la salvezza del Ponte Vecchio (1944) dalla barbarie della II guerra mondiale e fu determinante per il rilascio di perseguitati ed ebrei nella drammatica occupazione nazista». Il Console si chiama Gerhard Wolf (1896-1971) ed è andato contro a tutti i «doveri nazisti». Con la collaborazione di Carlo Steinhauslin, console svizzero, ha salvato ebrei fornendo loro documenti falsi, ha salvato partigiani che erano finiti a Villa Triste nelle mani di quello spietato assassino di Mario Carità (mai cognome fu meno appropriato), si è impegnato a salvare le opere d'arte e i monumenti di Firenze.
   A riprova di ciò c'è un libro, «Il Console di Firenze» di David Tutaev, stampato in Germania nel '67 e uscito poi in Italia per AEDA nel '71 (adesso è fuori catalogo, ma mi auguro che presto un editore lo riporti in vita, anche come esempio di quanto il mondo possa regalare sorprese). Nel libro, che ricostruisce bene l'atmosfera dell'Occupazione di Firenze, troviamo anche una bellissima lettera di ringraziamento scritta a Wolf da Bernard Berenson, il famoso storico dell'arte ebreo americano di origini russe, ricercato dai tedeschi, che lo avrebbero acciuffato assai volentieri. Berenson si è salvato dalla cattura grazie al Console, che sapeva bene dove si era nascosto, e che invece di fare il «proprio dovere» per i nazisti, ha fatto il proprio dovere per la giustizia umana.
   La lapide sul Ponte Vecchio è stata messa per commemorare il 50esimo anniversario dell'attribuzione della cittadinanza onoraria a Wolf, conferita nel '55 dal sindaco La Pira, che dopo un lungo discorso per onorare quanto aveva fatto Wolf per Firenze, consegnò al console le chiavi della città. Poi, chissà come, la memoria di questo uomo coraggioso si è perduta, sia in Italia, sia in Germania. Ma Gianmarco D'Agostino, regista di Firenze - a cui prestai il libro di Tutaev, che mi era stato prestato da Lorenzo Cinatti - si è innamorato della sua storia e da anni sta lavorando a un documentario che riporti alla memoria le azioni di Wolf.

(Nazione-Carlino-Giorno, 9 settembre 2020)


L'ayatollah Khamenei lancia una fatwa contro Charlie Hebdo

Non si fermano nel mondo islamico le condanne contro Charlie Hebdo. Dopo le accuse di Turchia e Pakistan, è la Guida suprema iraniana Ali Khamenei a scagliarsi contro la scelta della rivista satirica francese di ripubblicare le caricature del profeta Maometto, che l'avevano resa un obiettivo dei jihadisti. Un "peccato imperdonabile", l'ha definito la massima autorità della Repubblica islamica, dopo che il ministero degli Esteri aveva già bollato le vignette come "una provocazione e un insulto" al mondo islamico. Ma la 'fatwa' pronunciata alcuni giorni fa è ancora più dura. Secondo l'ayatollah Khamenei, la scelta del giornale "ha rivelato l'ostilità e l'odio del sistema politico e culturale occidentale verso l'islam e la comunità musulmana". Nel suo numero della scorsa settimana, Charlie Hebdo aveva replicato le caricature in occasione dell'apertura del processo per le stragi del gennaio 2015 nella sua redazione e al supermercato ebraico Hyper Cacher, che fecero 17 vittime. Un'iniziativa cui ha fatto scudo lo stesso presidente francese Emmanuel Macron, parlando di "una libertà di blasfemia che è legata alla libertà di coscienza". Nel suo messaggio, Khamenei parla invece di "pretesto della libertà di espressione", denunciando come "sbagliato e demagogico" l'atteggiamento dell'Eliseo. "In una congiuntura simile - ha ipotizzato poi la Guida di Teheran - questa mossa potrebbe essere mirata a distrarre l'opinione pubblica dei Paesi dell'Asia occidentale dai malvagi complotti degli Stati Uniti e del regime sionista", riferendosi tra l'altro agli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, che aveva già denunciato come un "tradimento" dell'islam.

(Shalom, 9 settembre 2020)

Coprifuoco in Israele per il boom di contagi

Il governo impedisce assembramenti di religiosi

 
Il Covid avanza in Israele. Così, in un ulteriore tentativo di contrastare la diffusione del coronavirus una commissione interministeriale ha confermato oggi la imposizione di un coprifuoco notturno da oggi, per la prossima settimana, in 40 località di Israele considerate rosse, ossia con un elevato tasso di contagio. Il coprifuoco inizierà alle 19 locali e terminerà alle 5 del giorno successivo.
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Nelle località a popolazione araba, secondo la radio pubblica, il provvedimento si prefigge in particolare di impedire lo svolgimento di matrimoni non autorizzati. In quelle popolate da ebrei ortodossi, il governo vuole impedire assembramenti di religiosi che, in questo particolare periodo dell'anno, si radunano all'alba per recitare preghiere di gruppo. Fra le aree interessate vi sono una decina di rioni (ortodossi o arabi) di Gerusalemme, la città ortodossa di Bnei Brak (presso Tel Aviv), rioni delle città di Ashdod e Ashkelon, nonch´ le città arabe di Nazareth ed Um el-Fahem.

(Il Messaggero, 8 settembre 2020)



UE contro la Serbia: contrari a che sposti l'ambasciata a Gerusalemme

Ennesimo grave atto ostile dell'Unione Europea nei confronti di Israele, ormai diventato l'ossessione dei burocrati di Bruxelles

di Maurizia De Groot Vos

BRUXELLES - L'Unione Europea ha espresso "sconcerto, seria preoccupazione e rammarico" per l'impegno preso dalla Serbia di spostare la sua ambasciata in Israele a Gerusalemme.
   Secondo i negoziatori europei una tale decisione potrebbe compromettere in modo serio i colloqui tra Serbia e Kosovo in quanto quest'ultimo, di fede musulmana e attualmente aiutato pesantemente dalla Fratellanza Musulmana (Turchia), potrebbe ritirarsi dai suddetti colloqui se Belgrado proseguirà su questa linea.
   In realtà questa è una paura tutta ed esclusivamente europea. Solo pochi giorni fa il presidente serbo, Aleksandar Vucic, e il primo ministro del Kosovo, Avdullah Hoti, si sono incontrati a Bruxelles per finalizzare al meglio le decisioni prese in un precedente incontro a Washington, incontro che ha portato alla firma di un accordo volto a migliorare le relazioni economiche tra i due stati, primo passo per un reciproco riconoscimento.
   Al Kosovo non importa nulla di quello che fa la Serbia con la sua ambasciata in Israele, è l'Unione Europea a non volere questa decisione.
   "La UE si aspetta dai potenziali membri come la Serbia che si allineino con le sue posizioni in politica estera"
   "In questo contesto, qualsiasi passo diplomatico che possa mettere in discussione la posizione comune dell'UE su Gerusalemme è motivo di grave preoccupazione e rammarico", ha detto ai giornalisti a Bruxelles il portavoce dell'UE per gli affari esteri Peter Stano.
   A Stano risponde a stretto giro di posta Sharren Haskel, membro della commissione parlamentare israeliana per gli affari esteri il quale ha detto che "i tentativi della UE di educare la Serbia e il Kosovo sono scioccanti", e ha accusato l'Unione Europea "di criticare ripetutamente lo stato di Israele e di mettere in discussione la sua stessa esistenza".
   E poi Sharren Haskel ha lanciato un appello agli altri Stati: "chiedo ad altri paesi … di trasferire le loro ambasciate a Gerusalemme, l'eterna capitale del popolo ebraico" ha detto Haskel.
   Siamo quindi di fronte all'ennesimo gravissimo atto dell'Unione Europea contro Israele. Forse a Bruxelles farebbero meglio a guardare dove finiscono le centinaia di milioni di euro che ogni anno l'Europa dona a fondo perduto alle casse di Abu Mazen e dei boss palestinesi.

(Rights Reporter, 8 settembre 2020)


Israele-Emirati: successo Usa, ma gli F-35 agitano le acque

Dopo l'annuncio dello storico accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Emirati arabi uniti e il primo volo diretto tra Tel Aviv e Abu Dhabi della settimana scorsa (con sorvolo dello spazio aereo saudita, un altro primato), si sta organizzando la prima visita ufficiale. Come ha riferito la Reuters, da Abu Dhabi una delegazione dovrebbe partire alla volta dello Stato ebraico il prossimo 22 settembre per consolidare l'intesa raggiunta grazie alla mediazione dell'amministrazione americana di Donald Trump. La conferma ancora non c'è, si attende di conoscere la data per la cerimonia di firma dell'intesa che si terrà probabilmente a Washington a metà settembre.

 Israele pensa ai risvolti economici dell'intesa
  Intanto il ministro per l'Intelligence israeliano, Eli Cohen, ha puntato l'attenzione sui risvolti economici dell'intesa, sostenendo che "entro 3-5 anni l'interscambio raggiungerà i 4 miliardi di dollari" annui; i settori interessati sono difesa, energia, salute, turismo, tecnologia e finanza. Già questo mese è prevista la visita negli Emirati dei responsabili delle due principali banche israeliane.

 Gli Usa annunciano "svolta diplomatica storica"
  Gli accordi di Abramo sono stati annunciati dalla Casa Bianca con una nota congiunta il 13 agosto come una "svolta diplomatica storica che farà avanzare la pace" e al contempo "sbloccherà il grande potenziale nella regione". La speranza di Washington, e di Gerusalemme, è che al passo rivoluzionario di Abu Dhabi segua quello degli altri Paesi del Golfo. A spingere in questa direzione c'è la comune opposizione verso l'arcinemico Iran e la sfida posta dall'atteggiamento sempre più aggressivo della Turchia di Recep Tayyip Erdogan nella regione. I più papabili sono Bahrein e Oman, ma anche il Sudan: in quest'ottica si è inserito il viaggio del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che alla fine di agosto ha visitato Abu Dhabi, Gerusalemme, Manama, Muscat e Khartoum. Caute aperture verso una normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico ce ne sono state, l'accordo è stato accolto con favore da diversi Paesi, ma altri passi ufficiali ancora no.

 Riad frena e ricorda la causa palestinese
  La stessa Arabia Saudita, il pilastro sunnita delle regione, feroce oppositore di Teheran, ha mostrato una certa disponibilità, concedendo il suo spazio aereo ai voli commerciali che uniscono i due Paesi. Tuttavia, nella telefonata di ieri sera con Trump, il re Salman è tornato a ribadire la centralità della causa palestinese per il via libera a futuri rapporti: senza "una soluzione giusta e durevole che porti la pace", non ci sarà normalizzazione. Una puntualizzazione necessaria per non essere accusati di tradire i palestinesi.

 Trump incassa un atout per le elezioni
  Tutti, tranne loro, hanno (già) guadagnato qualcosa dall'annunciato accordo: Trump ha messo a segno un grosso colpo in vista delle elezioni di novembre, gli Emirati possono dire di aver fermato i piani israeliani di annessione della Cisgiordania e Israele allarga la sfera di alleanze, scavalcando Ramallah.

 Gli F-35 agitano le acque
  Un percorso dalle grandi potenzialità, ma ancora pieno di incognite: ad agitare le acque è il piano di vendita di F-35 americani agli Emirati, che minaccia la politica di sicurezza israeliana basata sul 'quantitative military edge', un vantaggio qualitativo militare che nessuno nella regione deve superare. In occasione della recente visita in Israele, Pompeo ha ribadito che gli Usa forniranno armi agli Emirati, stando però attenti a non penalizzare la supremazia israeliana nella regione. Una posizione contro la quale il premier Netanyahu si è espresso duramente in pubblico, anche se - secondo la stampa - ne era a conoscenza e in privato avrebbe dato il via libera per raggiungere l'accordo con Abu Dhabi.

(AGI, 8 settembre 2020)


Dopo l'intesa con Israele gli Emirati puntano di nuovo sull'F-35

 
Il consigliere della Casa Bianca e genero del presidente Donald Trump, Jared Kushner, accompagnato dal Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Robert O'Brien, hanno incontrato presso la base aerea di al-Dhafra, vicino ad Abu Dhabi, il maggiore generale Falah al-Qahtani dell'Aeronautica degli Emirati Arabi Uniti (EAU).
   L'incontro, tenutosi il 1° settembre, ha rafforzato le indiscrezioni sulla ripresa dei colloqui per l'acquisizione di aerei Lockheed Martin F-35A da parte delle forze aeree emiratine come conseguenza dello storico accordo del 13 agosto scorso che ha portato alla normalizzazione dei rapporti tra Emirati Arabi Uniti e Israele con la mediazione degli Stati Uniti.
   Kushner e O'Brien hanno trascorso due giorni negli EAU con una delegazione israeliana per colloqui con il governo di Abu Dhabi legati allo sviluppo di numerosi accordi bilaterali e la visita alla base aerea emiratina che ospita un reparto dell'USAF di F-35A ha rinnovato il dibattito che vede da tempo Abu Dhabi, da 30 anni alleato degli Stati Uniti, rivendicare la possibilità di acquisire i Joint Strike Fighter che le intese tra Washington e Gerusalemme hanno finora riservato alle sole forze aeree israeliane nell'area Medio Oriente/Nord Africa.
   Finora Israele si è opposto all'ipotesi che Stati arabi potessero ottenere il velivolo in base alle leggi statunitensi che impegnano Washington a condizionare le forniture di equipaggiamenti militari "made in USA" agli Stati della regione al mantenimento della superiorità militare israeliana sui suoi potenziali avversari.
   Abu Dhabi ha da tempo espresso interesse per l'acquisizione dell'F-35A che Israele ha già utilizzato in operazioni nei cieli siriani e forse iraniani. Il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Anwar Gargash ha affermato che la normalizzazione dovrebbe rimuovere "qualsiasi ostacolo" per gli Stati Uniti alla vendita dei velivoli "stealth" agli Emirati Arabi Uniti.
   Un funzionario del governo emiratino ha detto all'agenzia Reuters che la visita alla base aerea di Kushner e O'Brien non era correlata alla questione degli F-35 agli EAU. Il comandante dell'Aeronautica emiratina ha evidenziato gli ottimi rapporti bilaterali affermando che "il nostro rapporto è stato costruito sulla fiducia e sul sostegno reciproco.
   Ci siamo uniti per combattere l'estremismo in tutte le sue forme". Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affrontato la questione con cautela precisando che la fornitura degli F-35 non faceva parte dell'accordo con gli Emirati Arabi Uniti, sottolineando la volontà di Israele di non rinunciare a un accesso prioritario nella regione ai sistemi d'arma americani più avanzati.
   Il premier israeliano ha aggiunto che "gli americani hanno riconosciuto che la nostra posizione non è cambiata" precisando che il Consigliere per la sicurezza nazionale O'Brien ha chiarito durante l'ultima recente visita in Israele che gli Stati Uniti sono impegnati a preservare il vantaggio militare di Israele nella regione.
   Assicurazioni che non verrà penalizzata la supremazia israeliana nella regione sono state fornite a Israele anche dal Segretario di Stato, Mike Pompeo, anche se non si può escludere un compromesso per ora tenuto segreto a Gerusalemme (e di cui ha riferito il quotidiano Yedioth Ahronoth) in cui Israele riceva, oltre alle garanzie di Washington, ulteriori sofisticate forniture militari statunitensi e gli Emirati Arabi Uniti possano ottenere gli F-35, probabilmente con dotazioni meno avanzate rispetto a quelli israeliani che imbarcano sistemi "made in Israel".
   "La questione degli F-35 è una richiesta di vecchia data degli Emirati Arabi Uniti e non è in alcun modo uno strumento chiave ("driver") per raggiungere questo accordo" con Israele, ha detto ai giornalisti Jamal Al-Musharakh, capo della pianificazione politica e della cooperazione internazionale presso il ministero degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti.
   In ogni caso la questione è tornata al centro del dibattito e per convincere gli Stati Uniti a concedere la commessa degli F-35 Abu Dhabi non ha esitato in passato a ventilare anche l'ipotesi di acquisire aerei da combattimento russi quali i Sukhoi Su-35.

(Analisi Difesa, 8 settembre 2020)


La pace economica fra Serbia e Kosovo arriva a Gerusalemme

Un piccolo miracolo firmato Trump

di Ugo Volli

Diceva Ben Gurion che chi non crede ai miracoli non può capire niente di Israele. Magari sono miracoli laici, frutto di duro lavoro e non di gratuita benevolenza del cielo, ma è chiaro che questa è davvero una stagione di miracoli politici per Israele. L'ultimo, un po' occultato dalla stampa europea, ma certamente stupefacente, è questo: due paesi nemici, che si sono ferocemente combattuti e si mettono d'accordo per una mossa diplomatica parallela e per nulla banale: l'apertura di ambasciate a Gerusalemme. I due paesi sono la Serbia e il Kosovo, ortodossa la prima e musulmano il secondo. Nel quadro di un accordo economico propiziato da Trump (dopo lunghi anni di fallimenti europei nel sanare la ferita balcanica) hanno deciso anche questa mossa: il Kosovo di riconoscere Israele e scambiare gli ambasciatori, con sede a Gerusalemme; la Serbia di spostare l'ambasciata già aperta a Tel Aviv nella vera capitale di Israele. Naturalmente la Turchia ha protestato e l'Unione Europea ha mascherato nel silenzio l'impotenza che le deriva dalla sua linea filo-palestinista e filo-islamista.
   Certo, la protezione americana in questo accordo c'entra (anche se gli Usa non sono considerati grandi amici di Belgrado, dai tempi della guerra del Kosovo, coi bombardamenti dell'ambasciata cinese e della sede tv). C'entra la grande capacità di Trump di pensare fuori dagli schemi ideologici, puntando a soluzioni concrete, da buon businessman; e per quanto riguarda Israele la sua volontà di estendere il suo progetto di pace a nuovi partner, come è successo con gli Emirati del Golfo. Questa è un'altra prova di quanto sia stata stupidamente sottovalutata dalla stampa internazionale la presidenza Trump. Ma c'entra anche l'attrattiva di Israele come "start-up nation", centro scientifico e tecnologico, modello di piccola economia capace di svilupparsi in un contesto non facile. E certamente Serbia e Kosovo sono, per ragioni complementari, entrambe piuttosto isolate nell'Europa d'oggi . Vi è infine una tradizionale amicizia nei confronti del popolo ebraico, che ha basi storiche sia fra i serbi che fra gli albanesi: entrambe le nazioni durante la Shoah, benché invase dai nazifascisti, hanno evitato di unirsi ai "volonterosi carnefici di Hitler".
Tutte buone ragioni, ma parziali. Resta il piccolo miracolo di due nemici che, al loro primo accordo, si uniscono nel riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, di un nuovo stato musulmano che apre relazioni diplomatiche con Israele, insomma di una dinamica che conferma le grandi linee diplomatiche di Netanyahu: che la pace va fatta in cambio della pace e non di concessioni territoriali; che non bisogna farsi fermare dai ricatti dei palestinisti, perché il loro potere di blocco si è eroso proprio per l'abuso che ne hanno fatto; che Israele può farsi amici nel mondo per quello che è, autonomamente, senza accettare l'egemonia neo-coloniale dell'Europa.

(Progetto Dreyfus, 8 settembre 2020)


Il fronte del rifiuto rifiutato

Il linguaggio usato contro l'accordo Israele-Emirati ricorda da vicino quello del 1977 contro l'Egitto, e il precedente non promette nulla di buono per i nuovi interpreti dell'intransigenza anti-israeliana.

Nel 1977, poco dopo lo storico discorso di Anwar Sadat alla Knesset di Gerusalemme in cui l'allora presidente egiziano delineò le sue proposte di pace con Israele, l'Olp e cinque paesi arabi formarono un blocco il cui unico scopo era rifiutare qualsiasi compromesso con lo stato ebraico.
Definendosi pomposamente il "Fronte della fermezza e dello scontro", gli stati del rifiuto si erano organizzati attorno a un programma in sei punti. I loro obiettivi principali erano "opporsi a tutte le soluzioni provocatorie progettate dall'imperialismo, dal sionismo e dai loro strumenti arabi" e creare uno "stato nazionale palestinese indipendente su qualsiasi parte della terra palestinese, senza riconciliazione né riconoscimento o negoziati, come obiettivo transitorio della rivoluzione palestinese". Quattro decenni dopo, mentre Israele ed Emirati Arabi Uniti annunciano un accordo di pace di importanza politica e commerciale ancora maggiore, può essere utile ricordare i rispettivi destini di ciascun membro di quel "Fronte della fermezza e dello scontro"....

(israele.net, 8 settembre 2020)


Un programma per le startup italiane in Israele

Nuovo bando "Accelerate in Israel" che offre a start-up innovative italiane l'opportunità di un periodo di accelerazione di dieci settimane nell'ecosistema dell'innovazione israeliano.

di Robert Hassan

L'Ambasciata d'Italia in Israele e Agenzia ICE hanno unito le proprie forze per il nuovo bando "Accelerate in Israel" che offre a start-up innovative italiane l'opportunità di un periodo di accelerazione di dieci settimane nell'ecosistema dell'innovazione israeliano, sicuramente uno dei più dinamici al mondo. A questa seconda edizione collaborano il Ministro per l'Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, Intesa Sanpaolo Innovation Center, già a bordo lo scorso anno, la Camera di Commercio e Industria Israele-Italia e acceleratori israeliani.
Il programma è stato migliorato e intensificato rispetto alla prima edizione e il finanziamento che verrà concesso alle start-up selezionate è stato sensibilmente incrementato. Compatibilmente con le restrizioni in vigore per il contrasto al Coronavirus, il periodo di accelerazione di 10 settimane avrà inizio a gennaio 2021.
Il termine di presentazione delle domande di partecipazione alla selezione di cui al bando n. SCI01-20 per il finanziamento della mobilità in Israele delle giovani start-up italiane sulla base dell'accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica è stato prorogato e fissato al 30 settembre 2020 ore 17:00, ora di Tel Aviv.
Le domande di partecipazione alla selezione dovranno essere presentate esclusivamente tramite posta elettronica certificata all'indirizzo amb.telaviv.archivio@cert.esteri.it entro e non oltre le ore 17.00 del giorno 30 settembre 2020, utilizzando l'apposito modello di domanda e la scheda informativa. Il testo del bando, il modello di domanda e la scheda informativa possono essere scaricati dal sito dell'Ambasciata d'Italia in Israele .

(Il Corriere Israelitico, 8 settembre 2020)


Che bello il nuovo medio oriente. Ai soliti detrattori non piace e vogliono lo scontro

!l volo Tel Aviv-Abu Dhabi può inaugurare una stagione diversa. Perché è auspicabile che altri paesi adottino questa linea di normalizzazione.

Scrive Yedioth Ahronoth (1/9)

Spesso ci preoccupiamo di dettagli banali mentre facciamo fatica a vedere il quadro più ampio" scrive Ben Dror Yemini. "La visita ufficiale della delegazione israeliana negli Emirati Arabi Uniti - giunta su un aereo El Al che ha sorvolato l'Arabia Saudita con il permesso del Regno - è un giorno di festa per Israele. Volevamo un nuovo medio oriente ed ecco che sta prendendo forma davanti ai nostri occhi. Certo, saremmo stati ben felici se anche i palestinesi si fossero uniti a noi. Saremmo stati ben felici di vedere le bandiere israeliane issate anche a Ramallah, come ad Abu Dhabi. Questo non è ancora successo, ma non c'è motivo di lamentarsi del fatto che la bandiera israeliana ha `solo' sorvolato il territorio saudita senza poter scendere su di esso.
   I critici insistono a dire che non è successo niente di così eccezionale dal momento che Israele intrattiene già da parecchi anni rapporti più o meno clandestini con vari stati del Golfo. Personalmente ho visitato due stati del Golfo (Bahrain e Qatar) negli anni 90 e sono persino andato nello Yemen. Ma poi scoppiò la seconda intifada, l'intifada delle stragi suicide, e tutto si è bruscamente fermato. Tutti i rapporti palesi divennero segreti o semplicemente cessarono di esistere. I fautori della normalizzazione hanno rialzato la testa, e non per amore di Israele ma per i loro propri interessi. Il che è meraviglioso. Quanto vorrei che anche i palestinesi potessero aderire e agire nel loro interesse. Ma preferiscono di gran lunga agire contro se stessi. E' diventata per loro una seconda natura: danneggia noi, ma danneggia molto di più loro. Abbiamo invece bisogno di altre svolte come quella odierna anche con il Sudan e l'Arabia Saudita, con il Bahrain e l'Oman. Forse anche con il Marocco, dove i turisti israeliani già si recavano senza difficoltà prima che si scatenasse il coronavirus. Questo nuovo accordo con gli Emirati non allontanerà la pace con i palestinesi più di quanto non sia già lontana. Al contrario, renderà chiaro ai palestinesi che anche loro devono cambiare corso. Vi sono molte persone di buona volontà sul versante palestinese che capiscono quanto hanno bisogno di un cambiamento, e la loro posizione viene rafforzata da questo accordo con gli Emirati Arabi Uniti e dalle relazioni con altri paesi. Quindi, in termini storici, la visita israeliana negli Emirati di lunedì e martedì è sicuramente una cosa da festeggiare e c'è solo da augurarsi che arrivino altri giorni come questo".

(Il Foglio, 7 settembre 2020)


Il capo di Hamas in Libano contestato dai libanesi

Salutato come un eroe dai palestinesi di Sidone, fortemente contestato dai libanesi che giudicano la sua visita "inopportuna" e persino dannosa per il Libano.

di Sarah G. Frankl

 
Il presidente del Parlamento libanese Nabih Berri (sin.) riceve il leader del movimento islamista palestinese di Hamas Ismail Haniyeh
Una accoglienza da eroe quella riservata al capo di Hamas, Ismail Haniyeh, nell'agglomerato urbano palestinese di Sidone, in Libano.
Il leader dei terroristi che tengono in ostaggio la Striscia di Gaza è stato portato in trionfo in mezzo alla folla urlante alla quale ha promesso «missili su Tel Aviv».
  Ismail Haniyeh è il primo leader di Hamas ad andare in Libano dopo 27 anni e il suo viaggio nella terra dei cedri è volto unicamente a riunire le fazioni palestinesi e ad incontrare il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, con il quale decidere strategie comuni contro Israele.
  Dall'incontro con i capi delle fazioni palestinesi ne è emerso un comunicato nel quale gli stessi palestinesi si impegnano a non interferire nelle questioni libanesi e dove si afferma che i "campi" sono un simbolo di stabilità.
Nulla si sa invece sull'incontro con i vertici di Hezbollah, nemmeno se c'è stato.

 Le reazioni in Libano
  Non proprio amichevoli le reazioni dei libanesi al viaggio di Ismail Haniyeh nel Paese dei Cedri. I social si sono riempiti di commenti del tipo "il Libano ha già abbastanza problemi per avere anche Hamas" oppure altri che lo invitavano a minacciare Israele da Gaza o dalla Cisgiordania. In molti hanno ricordato che i palestinesi in Libano sono solo ospiti e che se vogliono fare la guerra a Israele sarebbe più giusto farla da casa loro.
  In ogni caso ai libanesi non piace la visita del capo di Hamas, non sembra "opportuna" tanto più se il capo terrorista palestinese viene in Libano per parlare di Guerra con Israele quando il Libano è in una situazione davvero spaventosa.

(Rights Reporter, 7 settembre 2020)


Israele dà la stretta. Coprifuoco notturno in quaranta città

Il governo israeliano ha deciso nella tarda serata di ieri di imporre il coprifuoco notturno su quaranta città del Paese, dichiarate zone rosse, per contenere il contagio da coronavirus. A partire da oggi le persone dovranno restare a casa dalle 19 alle 5 del mattino. Lo ha anticipato il sito del Jerusalem Post. Il comitato ministeriale ha deciso inoltre - scrive il giornale - che le scuole saranno chiuse tranne alcuni istituti. Gli assembramenti di oltre 10 persone sono vietati al chiuso, di 20 all'aperto. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, citato dal giornale, ha dichiarato che le soluzioni adottate sono considerate «responsabili e realistiche».

(Nazione-Carlino-Giorno, 7 settembre 2020)


Finkielkraut insegna: il popolo ha bisogno di radici e tradizioni

L'esaltazione della migrazione perpetua cancella l'identità La comunità smarrita riscopre così il valore di patria e storia.

Le posizioni critiche del filosofo francese verso l'immigrazione gli hanno procurato feroci attacchi dai partigiani dell'accoglienza senza limiti. L'ex sessantottino torna sul tema dell'antisemitismo. Da quando gli ebrei hanno un proprio Stato, sono diventati bersaglio anche della Sinistra.

di Francesco Borgonovo

Il nuovo libro del filosofo francese Alain Finkielkraut, In prima persona, una sorta di autobiografia intellettuale appena pubblicata da Marsilio, è sottile ma denso, e come sempre accade con questo autore contiene una marea di spunti interessanti. Dopo tutto, Finkielkraut è uno degli intellettuali più celebri d'Europa, sull'immigrazione e sul cosiddetto «scontro di civiltà», che gli hanno procurato ben più di un attacco da sinistra. E dire che lui proviene da li, la sua vocazione alla militanza è esplosa durante il Sessantotto francese. Lui la sintetizza in un pugno di frasi: «All'inizio fu il conformismo. Nel maggio del '68, come la maggior parte di coloro che si cominciava a chiamare, con una tenerezza da cui già traspariva la deferenza, "i giovani", sono stato investito e in seguito trascinato dall'onda», racconta. «Ho manifestato rumorosamente, ho protestato con coraggio, ho corso a perdifiato; ho attinto, per i miei primi interventi, a un lessico che nel mese di aprile mi era ancora estraneo; come tutti, dall'oggi al domani, ho iniziato a utilizzare la parola compagno, sono stato fedele alla mia epoca attraverso la mia stessa ribellione contro le diverse forme di autorità».
   Il punto fondamentale di tutto il volume è questo: come è possibile che un attivista sessantottino sia diventato un punto di riferimento per il pensiero conservatore? In che modo agiscano altri gruppetti francesi scaturiti da quella stagione lo sappiamo: basta leggere le banalità di Bernard Henry-Levy, nemico supremo dei populisti con la passione per le guerre umanitarie, filosofetto di tendenza impegnato ad attaccare «le destre», e per questo funzionale al pensiero dominante, di cui è servo fedele.
   Finkielkraut, invece, si è mosso nella direzione opposta. Ha avuto il fegato di esporsi ad accuse feroci per le sue idee sul multiculturalismo. «Penso che la parola "migrante" sia rivelatrice in sé», ha detto in una recente intervista a Figaro. «Agli occhi dei partigiani dell'ospitalità incondizionata, dell'apertura infinita delle frontiere, l'uomo che arriva non viene definito né per la sua origine né per la sua destinazione, ma solo per il suo essere in viaggio. Non si vuole vedere in lui altro che l'homo migrator. Questo accecamento è evidentemente problematico e pericoloso, perché l'antisemitismo di cui l'Europa è oggi teatro non è più endogeno, ad esempio. È legato all'immigrazione. Questo deve essere detto con il maggior tatto possibile, perché non si possono certo descrivere i migranti come invasori pogromisti. Ma questo problema dovrebbe perlomeno poter essere evocato. Ora se usiamo la parola "migrante" è impossibile. L'immigrazione è l'ultimo rifugio dell'antirazzismo ideologico. È una fortezza che sembra difficile da espugnare».
   Anche nel nuovo libro Finkielkraut ritorna sul tema dell'antisemitismo. Mostra quanto sia diffusa a sinistra l'ostilità verso Israele, e nota un'inversione di tendenza: gli ebrei, quando erano «senza patria», sradicati, suscitavano l'astio di un certo tipo di destra, che li accusava di essere sostanzialmente gli ideatori di questa figura dell'homo migrator. Oggi che la patria finalmente l'hanno ritrovata, subiscono assalti dalla parte opposta.
   Ed eccoci al nodo centrale della questione, alla grande battaglia ora incorso. Il radicamento - di cui tanto ha parlato Simone Weil ne La prima radice - è un bisogno fondamentale di ogni uomo, ma la civiltà occidentale lo respinge. A lungo l'ideologia dello sradicamento ha funzionato. Finkiellkraut, parlando dei suoi connazionali, scrive che «quando era saldamente consolidata, la componente francese della civiltà europea non significava nulla per loro. Ora che la sua esistenza è messa in discussione, si riaffaccia alle loro menti. Scoprendola precaria, diventa per loro preziosa».
   Questo ragionamento vale anche per noi. Se le destre guadagnano consensi, non è per via di un ritorno delle «forze oscure della reazione», e nemmeno c'entra la famigerata «paura del diverso» sempre chiamata in causa. E' come se gli europei, a un certo punto, avessero lasciato parlare il cuore. Immersi nel caotico mondo liquido della globalizzazione, senza certezze né appigli, si sono resi conto dell'importanza del passato, della tradizione, dell'identità. «Nel momento in cui si rivela deperibile», scrive Finkielkraut, «smettono di trattare questa identità con disprezzo o di prenderla per oro colato. Ne riconoscono l'importanza vitale, e i bambini viziati che erano diventano grati a essa».
   Meglio di chiunque altro, Finkielkraut spiega il sorgere di quello che volgarmente viene chiamato sovranismo. Chiarisce - senza pregiudizi né superiorità morale - perché in tanti oggi si spostino a destra: «Se sono diventati conservatori», dice, «senza che nulla li predisponesse a esserlo, non è perché invecchiando considerino nefasta ogni novità, e nemmeno perché abbiano aderito miseramente al partito dell'Ordine e della difesa dei privilegi; è perché rifiutano di veder scomparire l'ambiente che li ha nutriti e di essere sradicati dalla propria terra». Non sono nemmeno diventati «di destra», in fondo: «La verità è che si preoccupano per la sopravvivenza della comunità storica in cui assume un senso e può svilupparsi il grande scontro tra destra e sinistra».
   Se l'intera cultura europea viene distrutta, e la comunità si sregola, perde di senso tutto, anche la divisione politica. Se i pensatori liberal di casa nostra dessero uno sguardo a queste parole, forse riporrebbero almeno per un po' la superiorità morale e la fissazione per la migrazione a tutti i costi. E si renderebbero conto della granitica verità a cui è giunto Finkielkraut: senza patria e senza radici, i popoli muoiono.

(La Verità, 7 settembre 2020)


Maariv: Israele sta cercando di ripristinare il coordinamento attraverso incontri tra le due parti

Secondo il quotidiano Maariv, Israele sta silenziosamente e segretamente lavorando con i palestinesi al rinnovo dei piani di coordinamento della sicurezza, programmi che l'Autorità palestinese aveva fermato quando il primo ministro, Benjamin Netanyahu, aveva cercato di promuovere l'annessione di alcune aree in Cisgiordania.
   Nell'arco di diverse sollecitazioni, nelle ultime due settimane si sono tenuti incontri ad alto livello tra le due parti con la partecipazione di Aviv Kochavi, il capo di Stato Maggiore. Un altro incontro ha visto la partecipazione di alti ufficiali del comando centrale dell'esercito di occupazione, tra cui il comandante Tamir Yadai, il coordinatore delle operazioni governative nei Territori Occupati, Kamil Abu Rokon, e altri ufficiali, con alti funzionari palestinesi vicini al presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen.
   Un funzionario della sicurezza israeliana ha dichiarato a Maariv che l'obiettivo di questi incontri è proprio quello di spingere la ripresa dei piani di coordinamento della sicurezza attraverso figure ben note e centrali nella società e nell'economia palestinese; la personalità palestinese che Kochavi ha incontrato non ricopre una posizione all'interno dell'Autorità palestinese, ma è un dirigente di alto rango, conosciuto e vicino alla leadership dell'Autorità.
   Ad ogni modo, Abbas non ha ancora mostrato segnali di cambiamento nella sua decisione di interrompere il coordinamento e difatti, una fonte politica israeliana, ha dichiarato che quest'ultimo formalmente si aspetterebbe prima un impegno o una dichiarazione ufficiale da parte di Netanyahu e dagli americani riguardo l'annullamento del piano di annessione, anche se "si tratterebbe di qualcosa di inaspettato".

(Infopal, 7 settembre 2020) - trad. Alice Bondi)


Territori occupati ... esercito di occupazione, il riferimento all’occupazione non deve mai mancare nel frasario palestinese ogni volta che si nomina qualcosa che ha a che vedere con Israele. La notizia comunque è interessante.


Dirigenti di banche israeliane si recheranno negli Emirati Arabi

GERUSALEMME - I dirigenti delle due maggiori banche israeliane si recheranno negli Emirati Arabi Uniti questo mese. Si tratta delle prime visite del genere da quando i due paesi hanno concordato di normalizzare le relazioni, lo scorso 13 agosto. Lo rende noto il quotidiano israeliano "Haaretz". Una delegazione guidata dalla Bank Hapoalim partirà l'8 settembre e visiterà Abu Dhabi e Dubai, dove incontrerà funzionari governativi e commerciali, nonché i dirigenti delle più grandi banche degli Emirati Arabi Uniti. Oggi, il Ceo di Hapoalim, Dov Kotler, ha definito la visita "un'opportunità unica per stabilire relazioni economiche e una cooperazione tra i nostri paesi e i loro sistemi finanziari, che produrranno una crescita economica per entrambe le parti". Kotler ha aggiunto che c'era un "desiderio bilaterale immediato" di stabilire forti legami economici. Il presidente e amministratore delegato della Bank Leumi, Hanan Friedman, guiderà una seconda delegazione il 14 settembre. Leumi auspica di dare il via alla cooperazione in materia di finanza, tecnologia, salute, turismo, agricoltura e industria.

(Rassegna Stampa News, 6 settembre 2020)


L'accordo fra Israele e Emirati Arabi Uniti è una vera svolta?

di Antonio Armellini

II faro dell'attenzione mediatica sull'accordo di pace fra Israele e gli Emirati Arabi Uniti si è attenuato e sono cresciute le interpretazioni e i dubbi: accordo fatto più per dividere che per unire il mondo arabo, soffiando sulla rivalità sunnita-sciita; abile manovra per colpire l'Iran e le sue ambizioni di potenza regionale; mossa propagandistica di Trump in chiave elettorale, e così analizzando.
   Ci sono elementi di verità in queste letture, ma resta il fatto che l'intesa annunciata segna un passo concreto — dopo molti anni — verso l'unica soluzione possibile; quella del riconoscimento della mutua legittimazione per israeliani e palestinesi a coesistere in un territorio che appartiene a entrambi. Una soluzione sfuggita a Oslo nel 1993, per la quale Sadat ha probabilmente pagato con la vita e che, a detta di molti, solo un nazionalista israeliano intransigente potrebbe imporre. Ieri Begin, oggi Netanyahu. Era l'unica soluzione anche per Moshe Dayan.
   Nel marzo 1971, al termine di una complessa visita in Israele del ministro degli Esteri Moro, venimmo invitati per il Shabbat nel kibbutz Gesher, come all'epoca di prammatica; era quello del potere e vi si ritrovava in pratica l'intero governo. Nel clima rilassato delle conversazioni serali Dayan, forse incuriosito dal fatto che ero di gran lunga il più giovane della delegazione di Moro, mi prese da parte per chiacchierare. Era il fresco vincitore della prima delle guerre che si sarebbero succedute e l'eroe incontrastato del momento; mi aspettavo che esaltasse il suo successo. Invece si dichiarò pessimista per il futuro e deluso dell'atteggiamento del suo governo, che non capiva come l'essenza della vittoria non risiedesse nel rafforzamento di un dominio territoriale comunque fragile, bensì nell'opportunità di fare da posizioni di forza un'offerta di pace generosa, da cui Israele per primo avrebbe tratto il maggior vantaggio. Siamo un Paese — disse — che in termini di solidità democratica e sviluppo economico non ha eguali in una regione nella quale siamo assediati, ma che rappresenta invece il nostro naturale mercato di sbocco. La combinazione positiva fra la nostra superiorità tecnologica e capacità produttiva da un lato, e l'abbondanza di manodopera unita alla domanda potenziale della regione dall'altro, rappresenterebbe la vera garanzia di sicurezza a lungo termine per Israele. Temo che non succederà, aggiunse, perché il vento sta cambiando e l'intolleranza rischia di prevalere sul ragionamento. Sono passati più di cinquant'anni: che sia la volta buona?

(Corriere della Sera, 6 settembre 2020)


A parte che pare discutibile il collegamento della morte di Sadat con gli accordi di Oslo, di molti anni successivi, il giornalista vanta una sua chiacchierata a due con Dayan in un momento di massima popolarità del generale, che oggi non può evidentemente spiegare che cosa disse veramente. Ma quanto viene raccontato ai lettori del Corriere è in totale contrasto con l'offerta israeliana agli arabi, al termine della vittoria nella guerra dei 6 giorni, di restituire tutti i territori conquistati (all'epoca i "palestinesi" erano appena nati, da due anni, e non avevano ancora voce in capitolo); ma tale offerta venne rifiutata a Khartoum coi ben noti 3 no. Emanuel Segre Amar


Accordo tra Kosovo e Serbia per la normalizzazione dei rapporti. mediato dagli Usa

Le ambasciate di Serbia e Kosovo saranno a Gerusalemme.

di Alberto Galvi

 
Il presidente degli Usa Donald Trump ha ricevuto alla Casa Bianca il primo ministro del Kosovo Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vucic per normalizzare le relazioni politico-economiche tra i due Paesi balcanici, ed in serata, dopo due giorni di colloqui, è arrivato l'annuncio del raggiungimento di un accordo.
   Il vertice a Washington era originariamente previsto per giugno, ma il presidente del Kosovo Hashim Thaci, che doveva guidare la delegazione del suo Paese, è stato formalmente accusato di crimini di guerra dal tribunale internazionale con sede all'Aia e quindi il vertice era stato in un primo momento annullato.
   Tra gli argomenti discussi nel corso delle trattative ci sono lo spostamento dell'ambasciata Serba in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme entro luglio 2021 e il riconoscimento da parte del Kosovo di Israele. Fino ad oggi non vi sono stati legami diplomatici ufficiali tra Israele e Kosovo, in quanto Israele rifiutava di riconoscere l'indipendenza del Kosovo, ma con l'accordo di Washington le cose sono destinate a cambiare.
   In questi giorni il Kosovo e la Serbia sono stati in grado di fare un vero passo avanti nella cooperazione economica su una vasta gamma di accordi come quelli sui transiti stradali, ferroviari e aerei.La questione più importante è sicuramente quella della creazione di un mercato unico con tra Serbia e Kosovo, garantendo un libero flusso di persone, servizi e capitali. Non è chiaro quando sarà attuato questo accordo, ma i funzionari di entrambi i Paesi hanno affermato che l'attuazione e la tempistica potrebbero dipendere dal fatto che Trump venga rieletto.
   Dopo l'incontro alla Casa Bianca i due leader dei paesi balcanici si sono incontrati separatamente con il segretario di Stato Usa Mike Pompeo al Dipartimento di Stato.
   Le tensioni tra i due Paesi balcanici continuano ormai dal 2008, da quando il Kosovo ha dichiarato la sua indipendenza dalla Serbia, ma quest'ultima ha rifiutato di riconoscerla.
   A livello internazionale gli Usa di George W. Bush sono stati il primo Paese a riconoscere il Kosovo come Stato indipendente. Con questa mossa il presidente Usa voleva in qualche modo cercare di allontanare la Serbia dall'influenza russa.
   La Serbia è da sempre sostenuta dalla Russia per via della sua origine slava e cristiano ortodossa, ed oltre Mosca anche Pechino non ha mai riconosciuto l'indipendenza del Kosovo. Tuttavia il riconoscimento del Kosovo da parte della Serbia è una precondizione per la futura adesione di Belgrado all'Unione Europea e alla Nato.
   Tra le ragioni che spinsero il presidente Usa George W. Bush a volere a tutti i costi l'indipendenza del Kosovo è stata quella di smussare i difficili rapporti degli Usa con le comunità islamiche di tutto il mondo dopo l'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre 2001 e le due conseguenti guerre in Afghanistan e in Iraq.
   Una volta il Kosovo era una provincia serba, ma dopo lo scioglimento della Jugoslavia è diventato terreno di scontro tra la maggioranza della popolazione albanese e le forze serbe. Per fermare la pulizia etnica contro gli albanesi a maggioranza musulmani del Kosovo la Nato lanciò nel 1999 una campagna di bombardamenti contro la Serbia.
   A livello internazionale l'indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta da più di 100 Paesi membri delle Nazioni Unite.
   In seguito a questo vertice il Kosovo riuscirà sempre di più a trovare adesioni nelle organizzazioni internazionali in modo da migliorare il suo status quo.

(Notizie Geopolitiche, 5 settembre 2020)


A chi giova l'accordo Israele-Arabia Saudita

di Alessandro Orsini

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e i Paesi del Golfo potrebbe essere il primo vero successo di Trump in politica internazionale. Dopo gli Emirati Arabi Uniti, anche il Bahrein annuncia di voler abbracciare Netanyahu. Nessuno cada in inganno: la vera posta in gioco è la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, a cui il mondo islamico deve abituarsi un po' alla volta perché è cosa dirompente sotto il profilo emozionale, capace di destabilizzare un regno intero.
   Astuti, i sauditi mandano avanti gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, satelliti riconoscenti: il 14 marzo 2011, i soldati sauditi si sono recati in Bahrein per schiacciare la primavera araba e salvare la casa regnante. Ma quando toccherà al re saudita di stringere la mano di Netanyahu, la fitta sarà dolorosa. L'intesa è un'operazione di palazzo, senza seguito tra le masse musulmane. Però sarebbe un successo "assoluto" per Trump, nel senso che non avrebbe termini di paragone con nessun altro suo successo in politica internazionale, visto che non ne ha riportato nemmeno uno. Sui fronti caldi, non vi è questione che Trump possa rivendicare come un "successo". In Corea del Nord, Afghanistan, Siria, Iraq, Libia, Mar Cinese Meridionale, Hong Kong, Ucraina dell'est e curdi, Trump non ha migliorato la posizione degli Stati Uniti. Semmai l'ha peggiorata, se pensiamo che la Corea del Nord è diventata una potenza nucleare sotto il suo sguardo e che il parlamento dell'Iraq ha votato l'espulsione dei soldati americani, dopo che Trump ha liquefatto il generale Soleimani con un missile nel traffico di Baghdad del 3 gennaio 2020.
   Ma con riferimento al conflitto israelo-palestinese, le cose non potrebbero andare meglio, anzi peggio, dipende dai punti di vista. Peggio, perché i palestinesi hanno perso la speranza di vedere riconosciuti i loro diritti sanciti dalle risoluzioni dell'Onu, che dovrebbero costituire il diritto internazionale, quel materiale plastico modellabile, a cui i grandi della Terra conferiscono la forma a loro più gradita con disinvolte digitopressioni. Meglio, perché Israele ha vinto in modo totale la guerra iniziata nel 1948. Immaginando che si arrivi a un'amicizia tra Israele e Arabia Saudita, nessuno potrebbe negare il successo di Trump: è lui l'artefice di questa operazione, anche se l'avvicinamento tra sauditi e israeliani è iniziato prima che conquistasse la Casa Bianca. Chi pub dimenticare le dichiarazioni rilasciate, il 19 novembre 2017, da Yuval Steinitz, ministro israeliano dell'Energia? Steinitz rivelò che israeliani e sauditi tessevano, da anni, intese segrete contro l'Iran.
   L'avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita risale almeno al 28 marzo 2002, quando la Lega Araba, riunita a Beirut, offri un'amicizia completa agli israeliani, se avessero concesso ai palestinesi uno Stato con capitale a Gerusalemme est e si fossero ritirati dalle alture siriane del Golan. Figuriamoci: oggi Netanyahu vuole annettere il Golan e tanta terra altrui, Cisgiordania inclusa. Per cui adesso le richieste sono altre: basta che Israele, così dicono gli Emirati Arabi Uniti, non conquisti anche l'ultimo mezzo metro di terra palestinese. Tutto qui. La resa dei Paesi del Golfo è totale e mostra il ruolo enorme della forza in politica internazionale giacché il trionfo di Israele è militare e non politico.
   In Medio Oriente, quasi tutto viene deciso con la forza e la politica riconosce le situazioni di fatto. E così in Libano, Yemen, Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria e Libia. Il problema è che l'abbraccio tra Israele e i Paesi del Golfo non porrà fine al conflitto israelo-palestinese. Trump può negare che il conflitto esista, ma sarebbe come negare l'esistenza del sole, che infiamma chiunque si avvicini. Sotto la guida di Trump, l'Arabia Saudita otterrebbe un effetto e un contro-effetto: l'effetto di indebolire l'Iran grazie a un'alleanza con Israele, e il contro-effetto di rafforzare l'Iran e la Turchia in seno al mondo musulmano, che diventerebbero gli unici paladini dei palestinesi.
   Hamas, ancora a Gaza, assicurerebbe la prosecuzione del conflitto. Senza considerare le fiamme dell'inferno jihadista: l'Isis e al Qaeda userebbero la normalizzazione per ribadire che l'Arabia Saudita è asservita agli americani e pure agli israeliani. Per una pace vera, occorre il diritto. Però la forza va benissimo per una pace finta.

(Il Messaggero, 6 settembre 2020)


Netanyahu non ha da annettere il Golan, che fa già parte del territorio di Israele dal 1980, e che gli USA hanno già riconosciuto come Facente parte della terra di Israele, e quanto alla "tanta terra altrui" intende annettere solo il 30% dell'area che, secondo gli accordi di Oslo, è già sotto il totale controllo, militare ed amministrativo, di Israele; si tratterebbe soltanto di applicare, a quel 30%, il codice civile anziché quello militare. Emanuel Segre Amar



Israele: Malawi, piani per ufficio diplomatico a Gerusalemme

 
Il presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, è un cristiano evangelico con una laurea in teologia ed è da tempo un sostenitore dello Stato ebraico
Il nuovo presidente del Malawi, Lazarus Chakwera, ha annunciato piani per aprire un ufficio diplomatico a Gerusalemme.
Lo riferiscono i media israeliani sottolineando che la mossa segue quelle di Serbia e Kosovo di venerdì sull'apertura di proprie ambasciate a Gerusalemme.
Chakwera, 65 anni, è un cristiano evangelico con una laurea in teologia ed è da tempo un sostenitore dello Stato ebraico, che ha anche visitato l'anno scorso.
Eletto lo scorso 6 luglio, ha annunciato una serie di riforme che coinvolgono le ambasciate del Paese nel mondo. Se il Malawi aprirà l'ufficio diplomatico a Gerusalemme, diventerà la prima nazione africana con una rappresentanza nella città.

(swissinfo.ch, 6 settembre 2020)


Il piano di Trump si allarga ai Balcani, palestinesi isolati

II fronte Usa dal Medio Oriente all'Europa: dopo gli Emirati, tocca a Kosovo e Serbia

di Michele Giorgio

Gerusalemme - «Non mi sorprende che i riflessi dell'accordo di cooperazione tra Serbia e Kosovo arrivino fino in Israele. È un nuovo capitolo, successivo alla normalizzazione tra Emirati e Israele (annunciata a metà agosto, ndr), del piano dell'Amministrazione Trump per il Vicino oriente e il Mediterraneo». Analista esperto della regione mediorientale, Ghassan al Khatib, ha una lettura lucida dell'ultima «sorpresa» partorita da Donald Trump. La Serbia, ha annunciato due giorni fa il presidente Usa, sarà il primo Stato europeo che sposterà dal luglio 2021 l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme (violando le risoluzioni internazionali).
   E così farà il Kosovo, primo paese a maggioranza musulmana che aprirà la sede diplomatica nella città santa e non a Tel Aviv. Comprensibile la soddisfazione del premier israeliano Netanyahu. Qualche giorno fa aveva celebrato l'accordo con Abu Dhabi — di grande rilievo strategico — e applaudito all'apertura a Israele dei cieli di Arabia saudita e Bahrein.
   «Il coinvolgimento di Israele (nelle intese tra Belgrado e Pristina, ndr) è centrale nella strategia di Washington nell'area tra il Mediterraneo e il Medio Oriente — spiega Khatib — Trump sta formando un fronte con i suoi alleati, nuovi e vecchi, nel mondo arabo e nei Balcani. Gli Emirati, l'Arabia saudita e una parte delle monarchie sunnite, facendo capo a Israele, pilastro a difesa degli interessi statunitensi nella regione, potranno fronteggiare il loro nemico comune, l'Iran».
   Serbia e Kosovo, prosegue l'analista, «si aggiungono agli Stati (dell'Europa orientale) che si oppongono alle ambizioni di Mosca. Anche in questo caso Israele è la potenza regionale che garantisce un ombrello protettivo per conto di Washington». Questa analisi si rafforza se si tiene conto dell'appoggio di Tel Aviv alla coalizione Grecia-Cipro-Egitto schierata contro la Turchia nella disputa per lo sfruttamento dei giacimenti di gas (nel Mediterraneo orientale). I palestinesi, sottolinea Khatib, «sono il sacrificio che Trump offre sull'altare di questo nuovo ordine. Il riconoscimento di Israele e di Gerusalemme come sua capitale è una sorta di condizione che Trump pone agli alleati». Il rinvio dell'annessione (prevista a luglio) di ampie porzioni di Cisgiordania è un prezzo che Netanyahu paga volentieri di fronte agli sviluppi in atto. In ogni caso quel territorio sotto occupazione militare è già nelle mani di Israele.
   I palestinesi ingoiano un altro boccone amaro. «Trump continua a violare il diritto internazionale — ha protestato Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp — La Palestina è vittima delle sue ambizioni elettorali. Questo sviluppo nei Balcani, come l'accordo Emirati-Israele, non porta la pace in Medio Oriente». I palestinesi si aspettano altri annunci di Trump nelle prossime settimane. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salina' sarà a Washington poco prima delle presidenziali e potrebbe ufficializzare la normalizzazione tra Riyadh e Tel Aviv. È la fase più negativa da un punto di vista diplomatico e politico che i palestinesi affrontano nella loro storia recente. Una sfida di eccezionale difficoltà che affrontano con leadership litigiose e deboli in Cisgiordania e a Gaza. A metà settimana i capi di tutte le formazioni politiche palestinesi, fuori e dentro i Territori occupati, si sono parlati in videoconferenza tra Ramallah e Beirut. All'incontro presieduto da Abu Mazen ha preso parte anche il leader di Hamas Ismail Haniyeh.
   Dagli interventi però non è emersa un'immagine di unità e determinazione. Piuttosto di debolezza e inadeguatezza. I palestinesi hanno visto dirigenti politici ottantenni, rare le eccezioni, che ripetevano frasi rituali. Soprattutto hanno visto un presidente, Abu Mazen, stanco, privo della freschezza necessaria per difendere i diritti del suo popolo.

(il manifesto, 6 settembre 2020)


"Tre sorelle" Mafai per tutte le bimbe ebree

La donazione della scultura di Raphaël


di Lorenzo Madaro

 
Le "Tre sorelle" del 1936, qui nella fusione del 2005,
da oggi alla Casina dei Vallati a Roma

ROMA - È un momento intimo, di grande concentrazione; come in uno scatto fotografico, l'artista ha eternato la complicità e l'affetto, ma anche la bellezza celata dietro a un gruppo di fanciulle intente nella lettura. Sono le sue figlie: le Tre sorelle, opera del 1936 della lituana Antonietta Raphael Mafai, uno dei capolavori del Novecento. La fusione in bronzo dell'opera — eseguita nel 2005 — è stata donata dalla figlia Giulia al Museo ebraico, in ricordo delle bambine ebree morte nei campi di sterminio. La presentazione è in programma alle 13.15 alla Casina dei Vallati.
   L'originale, conservato in Galleria nazionale, fu realizzato in cemento nel 1936. Per Giuseppe Appella, autore del catalogo generale della scultura di Raphael, quest'opera è «simbolo della sua ricerca e della sua provenienza, poiché al centro della cultura ebraica c'è la famiglia. Queste tre ragazze guardano con il sorriso il futuro, insieme rappresentano i valori della fratellanza».
   L'artista ritrae quindi un brano del suo teatro quotidiano: Myriam, la più grande di dieci anni legge un libro ad alta voce e le sue sorelle, Simona (8 anni) e Giulia (6) la ascoltano. «Un gesto semplice e sereno, ripetuto chissà quante volte nelle case ebraiche», racconta Giulia Mafai, costumista oggi novantenne. «La storia potrebbe finire qui, invece il dramma è alle porte: nel 1938 vengono emanate le leggi razziali e in tutte le case ebraiche viene distrutta ogni certezza, ogni dolcezza, il sogno di un futuro. Al ricordo delle vite distrutte prima ancora di incominciare a vivere — sottolinea Mafai — , alla memoria di tutto quello che poteva essere e che per crudeltà umana è stato distrutto, poniamo questo ricordo». L'iniziativa è resa possibile grazie alla collaborazione con la Sovrintendenza capitolina, presso il cui Museo della Scuola Romana a Villa Torlonia l'opera è stata esposta (in comodato) per alcuni anni.
   Moglie di Mario Mafai, Raphael per Appella ha rappresentato un «ponte tra la tradizione e il moderno. Infatti, tutti i grandi critici del passato l'hanno rispettata». Morta nel 1975, a ottant'anni, nonostante la sua fondamentale importanza nella storia dell'arte, avrebbe bisogno oggi di una mostra in un grande museo per riaccendere un faro sulla sua straordinaria arte.

(la Repubblica, 6 settembre 2020)




Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
   --> Predicazione
Marcello Cicchese
novembre 2016


 


Dal prossimo anno Serbia e Kosovo avranno ambasciate a Gerusalemme

L'accordo di cooperazione economica tra Belgrado e Pristina, mediato dall'Amministrazione Usa con la giornata di ieri che ha visto anche la partecipazione di Trump, si riflette fino in Israele. Nell'ambito dei colloqui in corso a Washington, il presidente Trump ha fatto sapere che la Serbia - primo Stato del Continente europeo a farlo - sposterà dal luglio 2021 la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. E che lo farà anche il Kosovo, Paese balcanico a maggioranza musulmana, che avvierà relazioni con Israele. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha salutato «con soddisfazione» l'annuncio arrivato dalla Casa Bianca.

(Avvenire, 5 settembre 2020)


Gerusalemme, scoperti i resti di un antico palazzo dell'epoca dei re della Giudea

Rinvenuti dagli archeologi nel quartiere di Armon Hanatziv. La costruzione viene datata dagli esperti nel periodo a cavallo tra l'VIII e il VII secolo a.C., tra il regno di Ezechia e di Giosia

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - L'Autorità israeliana per le antichità ha rivelato ieri al pubblico i resti di un palazzo monumentale dell'epoca dei re della Giudea (età del ferro, X - VI sec. a.C) rinvenuti nel quartiere di Armon Hanatziv, dove si trova oggi una promenade da cui si gode una spettacolare vista sulla città vecchia di Gerusalemme.
   Tra i reperti rinvenuti dagli archeologi vi sono i resti di sontuosi infissi di finestre e tre capitelli proto-ionici perfettamente conservati. Lo stile proto-ionico è tipico della costruzione monumentale del periodo del Primo Tempio di Gerusalemme. Ne sono stati trovati numerosi esempi negli scavi della Città di Davide - il nucleo originario della città ebraica di Gerusalemme risalente al 1000 a.C. - e anche a Ramat Rachel, alle porte sud della città. Per la sua identificazione con il territorio, il capitello fu scelto anche come simbolo della moneta da 5 sheqel del moderno Stato d'Israele.

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La costruzione del palazzo viene datata nel periodo a cavallo tra l'VIII e il VII secolo a.C., tra il regno di Ezechia e di Giosia. Secondo Yaakov Billig, il direttore degli scavi, potrebbe essere indice della ripresa della città a seguito della devastazione causata dall'assedio di Gerusalemme da parte dell'esercito di Sennacherib, nel 701, dopo il quale il Regno della Giudea fu sottoposto all'autorità assira, pur mantenendo l'autonomia. "Negli anni abbiamo rinvenuto sempre più costruzioni imponenti fuori dal perimetro delle mura della città vecchia e questo potrebbe testimoniare la ripresa dello sviluppo urbano di Gerusalemme superata la minaccia assira, quando la gente si sentiva più sicura di vivere anche in altre zone".
   Secondo lo storico Eyal Meron, tra i massimi esperti di Gerusalemme, il luogo del ritrovamento invece rispecchierebbe l'apparato burocratico dell'autorità locale. "La sua posizione, oltre alla maestosità dei reperti, indica che probabilmente si trattava di un palazzo con funzione amministrativa, come quelli rinvenuti ad Arnona in recenti scavi e a Ramat Rachel: palazzi costruiti fuori dalle mura della città vecchia, in posizioni strategiche rispetto alle vie del commercio" ci dice Meron.
   Il luogo dei ritrovamenti, su una collina circa 3 km a sud rispetto alle mura della città vecchia, fu considerato strategico anche dagli inglesi che durante il Mandato britannico stabilirono qui la casa del Governatore di Gerusalemme, che oggi ospita il quartier generale dell'UNTSO, l'organizzazione delle Nazioni Unite per la Supervisione dell'Armistizio.
   Secondo la ricostruzione di Billig, il palazzo fu distrutto nel 586 a.C., con la conquista babilonese di Gerusalemme e la distruzione del tempio salomonico. Due dei capitelli, in pietra calcarea, sono stati rinvenuti sepolti in maniera ordinata, segno che furono nascosti intenzionalmente. "Per quale motivo e da chi, sono domande che caratterizzano di certo questo ritrovamento molto particolare e a cui proveremo a rispondere, considerando anche che si tratta dei capitelli proto-ionici più belli e imponenti che abbiamo scoperto fino a oggi" dice Billig.

(la Repubblica, 5 settembre 2020)


Israele-Emirati: il ministro Peretz lancia un'iniziativa di cooperazione

GERUSALEMME - Il ministro per gli Affari e il patrimonio di Gerusalemme israeliano, Rafi Peretz, ha lanciato un'iniziativa di cooperazione con gli Emirati Arabi Uniti per far giungere in Israele migliaia di turisti, aziende hi-tech e studenti. L'iniziativa di cooperazione in diversi settori si inserisce nell'accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche raggiunto il 13 agosto scorso tra i due paesi. "La pace per la pace è il concetto giusto. Stiamo aprendo la città e invitando gli investitori, i turisti e gli abitanti emiratini a venire a Gerusalemme", ha affermato Peretz. Secondo il ministro, "l'iniziativa porterà prosperità e forza alla nostra capitale e sarà un vero ponte verso la pace".

(Agenzia Nova, 5 settembre 2020)


Recensione Final Account, l'olocausto raccontato dagli ultimi nazisti

La recensione di Final Account, nell'ultimo film documentario di Luke Holland l'Olocausto viene raccontato dal punto di vista dell'ultima generazione di nazisti ancora in vita.

di Umberto Stentella

Presentato fuori concorso in questa atipica 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Final Account cambia le carte in tavola, raccontando la Seconda Guerra mondiale attraverso le parole e i ricordi di chi si è trovato dalla parte sbagliata della Storia, diventando esecutore materiale della follia di Adolf Hitler.
  Non possiamo iniziare questa recensione di Final Account senza prima definire brevemente chi era Luke Holland. L'imperfetto purtroppo è d'obbligo, perché il regista è morto poco prima che venisse terminato il montaggio del suo film, a cui aveva iniziato a lavorare ben 12 anni fa, nel 2008. Discendente di una famiglia ebrea dalla parte della madre, originaria di Vienna ma emigrata per scappare dagli orrori della guerra, Holland ha dedicato grossa parte del suo lavoro da documentarista agli orrori del nazismo. Suoi sono Good Morning Mr.Hitler (1993), ritratto atipico del Führer reso possibile da una serie di filmati del 1939 all'epoca ancora inediti, e anche Ich war Hitlers Sklave (2000), documentario per la TV sull'esperienza agghiacciante di una ragazza sequestrata dei nazisti a 13 anni e costretta a lavorare in una delle fabbriche del III Reich.
  Con questo bagaglio alle spalle, oltre che un ottimo tedesco imparato in giovanissima età in una comunità cristiana del Paraguay, gli ultimi suoi anni Holland gli ha spesi intervistando oltre 250 tedeschi e austriaci, tutti membri dell'ultima generazione di uomini e donne che hanno vissuto in prima persona gli orrori del III Reich, dalla parte dei nazisti.
  In Final Account non troviamo volti o nomi noti, i ricordi non sono quelli dei gerarchi che hanno piegato la Germania al loro giogo. I protagonisti di questo racconto sono gli uomini che, poco più che ragazzini e spesso senza l'approvazione dei genitori, hanno prestato giuramento ad Hitler arruolandosi nelle legioni combattenti delle SS. Sono i testimoni passivi dello sterminio che abitavano a pochi chilometri dai campi di lavoro ma hanno scelto di girarsi dall'altra parte davanti alle sofferenze dei prigionieri, o che ne hanno tratto diretto beneficio, come chi a distanza di decenni racconta compiaciuta di quando andava a farsi curare i denti dai dentisti del lager costretti dai nazisti a servire la popolazione locale: «Erano dei prigionieri molto gentili» ricorda con un'affettuosità disturbante una delle signore intervistate dal documentarista. Ognuno di loro viene presentato con il suo nome e con il suo ruolo all'interno del regime nazista.
  The Final Account si prende il suo tempo, parte dai ricordi della primissima gioventù degli intervistati. Le marce all'aria aperta, le attività fisiche quasi da boyscout della Gioventù Hitleriana e perfino le sinistre canzoncine e i cori che dovevano cantare a memoria: «Affila il lungo coltello nel marciapiede, così entra meglio nel ventre dell'ebreo», canticchia uno degli anziani intervistati. «Per noi era normale cantare una cosa del genere, ti immagini?», chiede cercando l'indulgenza dell'intervistatore.
  Nella sua seconda parte il documentario entra presto nella parte più cupa del racconto, mettendo gli ex sostenitori del Reich davanti alla tragedia dell'Olocausto, salvo trovarsi spesso davanti ad un muro di omertà e autocommiserazione.
  Holland non si perde in virtuosismi, mette al centro la testimonianza degli ex nazisti intervallandola di tanto in tanto con immagini d'epoca e schermate di testo utili allo spettatore per contestualizzare le mezze verità degli intervistati.
  Nel corso dei 90 minuti del docufilm, sono tantissimi i "non sapevo" e i "non potevo intervenire, mi avrebbero arrestato", poche le prese di posizioni nette, anche meno (solo uno) i "non rinnego nulla".
  Alla fine della guerra un soldato americano chiese ad un ufficiale delle SS che giaceva nella mia stessa branda se fosse un nazista. Rispose «certamente». L'americano allora gli prese la mano e gliela strinse. «Sei il primo tedesco che conosca che abbia ammesso di essere un nazista da quando sono qui. Piacere di conoscerti».
  racconta con imbarazzo uno dei pochi ex militari di Hitler a dimostrarsi vivacemente critico del III Reich e dispiaciuto per il suo, seppur marginale, ruolo nella Seconda Guerra mondiale.

 Il volto (dis)umano del Male
  Rassicurati dalle rappresentazioni spesso macchiettistiche hollywoodiane e da meccanismi inconsciamente autoassolutori, ci viene facile pensare ai nazisti come mostri inumani: demoni fisicamente e spiritualmente distanti da noi. Final Account ci mette davanti ad una verità più scomoda.
  Le Waffen SS che radevano al suolo intere città obbedendo all'ordine terra bruciata del Führer e quegli stessi nazisti che sono diventati esecutori materiali della soluzione finale di Himmler rendendo possibile lo sterminio di 6 milioni di ebrei sono proprio qui, davanti ai nostri occhi, a raccontare alla telecamera com'è potuto succedere che per dodici anni l'intera Germania venisse sedotta dall'odio totalizzante di Hitler e del suo nazionalsocialismo.
  I nazisti di Final Account non indossano divise, non portano la svastica, l'unico legame con il passato è il minuscolo tatuaggio con il gruppo sanguigno sul braccio sinistro - un privilegio dato solo ai combattenti delle Waffen SS, spiega uno degli intervistati. Hanno le ciglia folte e increspate, il volto scavato dalle rughe, lo sguardo stanco ma non incapace di momenti di vispezza dei nostri nonni.
  Nella loro voce spesso (ma non sempre) c'è vergogna, l'umiliazione di dover trovarsi a giustificare l'ingiustificabile
  Nella loro voce spesso (ma non sempre) c'è vergogna, l'umiliazione di dover trovarsi a giustificare l'ingiustificabile, l'imbarazzo di non poter ammettere nemmeno a loro stessi di essere stati complici, o anche semplici testimoni omertosi, dello sterminio e delle persecuzioni politiche. «Non lo sapevamo», «lo si diceva a bassa voce», «quello che succedeva lì era un segreto» provano a replicare alcuni degli intervistati parlando dei forni crematori e dei campi dove i prigionieri venivano annientati di lavoro. «Chi dice che non sapeva mente, l'odore dolciastro si sentiva da chilometri», sostiene un altro intervistato parlando di uno dei centri di eutanasia del III Reich.
  Un altro uomo racconta di quando da bambino aveva assistito all'incendio della Sinagoga proprio durante la famigerata Notte dei Cristalli, un episodio che ritorna in più occasioni nei ricordi degli intervistati. Holland cerca di estorcergli un minimo senso di empatia, gli chiede se almeno considera quell'evento un crimine. «Da un punto di vista del diritto bruciare la proprietà degli altri è un reato, quindi si potrebbe dire che chi ha bruciato la Sinagoga fosse un criminale», commenta con il rigore logico che ci si aspetta da un tedesco. «Ma io non provavo nulla, non mi interessava. Gli ebrei erano un'etnia separata dalla nostra»

 La minaccia degli uomini comuni
  «Una volta vennero a nascondersi da noi dei fuggitivi, il giorno dopo le guardie del campo vennero a ricatturarli». Ricorda un intervistato che durante la guerra viveva in una piccola fattoria a pochi passi dal campo di lavoro di Bergen-Belsen salvo ammettere, davanti alle sollecitazione dell'intervistatore, che i nazisti li aveva chiamati lui stesso per paura di ritorsioni. «Non ho idea di che fine abbiano fatto».
  I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere, ecita la citazione di Primo Levi con cui Holland ha deciso di aprire il suo documentario.
  È questa la vera potenza del testamento di Luke Holland: se quelle legioni di Hitler non erano composte da mostri, ma da uomini comuni, meri "funzionari pronti ad obbedire senza discutere" storditi dalla propaganda e accecati dal terrore, allora significa che nessuno di noi, con poche, pochissime, eccezioni, sarebbe stato immune.
  L'opera di Holland non assolve nessuno. L'intervistatore incalza gli ex nazisti, chiede come facessero a sapere di alcuni episodi e allo stesso tempo negare di avervi avuto un ruolo, li mette continuamente davanti alle loro colpe cercando costantemente segni di pentimento.
  Dando un volto umano ai nazisti, Final Account rende il nazionalsocialismo un'ideologia ancora più tossica, virulenta e terrificante di quanto già non ci apparisse prima.
  Holland non ci ricorda gli orrori dell'olocausto, se non in senso marginale, li conosciamo già, li abbiamo già assimilati e condannati. Piuttosto, ci rivela quanto sia semplice diventare esecutori del Male. Ci mostra con prepotenza quanto i principi etici e l'empatia che consideriamo parti inscindibili della nostra identità siano molto più fragili di quello che ci piace pensare. Basta poco per disinnescare ogni traccia di umanità da una persona. Il monito di Final Account è chiaro e allo stesso tempo terrificante: pensare che tutto questo non possa ripetersi rischia di essere un'altra ingenua e pericolosa illusione.
  Concludendo la nostra recensione di Final Account, il film documentario di Luke Holland si presenta come un'opera estremamente efficace e dal fortissimo potere pedagogico che, seppur raccontandoci orrori all'apparenza lontani (ma non abbastanza da non aver lasciato superstiti) lancia un avvertimento tragicamente attuale. Una visione straniante, disturbante ma necessaria per poter capire fino in fondo uno dei più spaventosi capitoli della storia del nostro continente.

(Lega Nerd, 5 settembre 2020)


La cucina israeliana

Un melting pot di culture, etnie e tradizioni che rende la cultura gastronomica israeliana ricca e tutta da conoscere

di Elena Stante

 
Non è facile descrivere la cucina israeliana, dal momento che, essendo Israele uno stato relativamente giovane, ha subìto nel tempo influenze sia dalla tradizione gastronomica ebraica dell'Oriente che da quella di altri Stati d'Europa e del mondo. Per questo nei piatti tipici di questa cucina si trovano affiancate la radicata tradizione ebraica e la forte influenza della cucina araba, il tutto infarcito di abitudini culinarie multietniche.
  La tradizione alimentare ebraica si fonda storicamente sul Kosherut, che indica quello che secondo le prescrizioni della Torah è corretto mangiare. Qui si distinguono i cibi puri e commestibili (il kosher) da quelli impuri e vietati (il taref). Mangiando gli alimenti impuri si danneggia l'anima perché questi cibi, una volta digeriti, entrano nel sangue e "il sangue è anima". Tra gli animali "puri" ci sono i ruminanti con lo zoccolo diviso in due parti e quindi ovini, caprini, bovini ,antilopi e anticamente anche le giraffe; tra quelli impuri i conigli e le lepri, i non ruminanti, i suini e gli equini che hanno lo zoccolo intero.
  Per quel che riguarda gli uccelli, sono impuri i rapaci e gli uccelli notturni, e per i pesci quelli che non hanno le squame; vietati sono ancora anfibi, rettili e roditori. Queste e altre regole alimentari sono insegnate ai bambini sin da piccoli e secondo il Kosherut la tavola imbandita è l'altare e la cucina è come il tabernacolo.
  Tra i tipici piatti che costituiscono il classico spuntino tra un pasto principale e l'altro, ci sono i felafel, polpettine fritte a base di ceci, ma anche lenticchie, fagioli o fave, arricchite dal sapore di cumino, aglio e cipolla; nei vicoli della città vecchia di Gerusalemme ci sono diverse botteghe che, con una sorta di stampino, li confezionano velocemente per poi friggerli nell'olio bollente. In accompagnamento ai felafel c'è l'hummus, una crema di origini antiche fatta con ceci, olio e tahini, una saporita pasta di semi di sesamo.
  Il cibo di strada è molto diffuso anche nei mercati della città nuova; qui si alternano bancarelle che espongono veri trionfi di frutta secca ad altre che vendono pane fresco di vario tipo o ancora verdure sottaceto caratteristicamente "fosforescenti" (niente paura, è l'effetto di tanto aceto) che fanno bella mostra di sé. Le spezie poi sono un altro ingrediente fondamentale della cucina israeliana: lo zaatar è una miscela composta da timo, sesamo e sale, talora arricchita da altre erbe aromatiche come santoreggia, maggiorana, semi di finocchio, origano; si usa per preparare la focaccia tipica della colazione, il manakish oppure per arricchire le insalate o ancora nelle marinate per carne o pesce arrostiti.
  C'è poi il sumac, una spezia antica ottenuta polverizzando le bacche essiccate e triturate del sommacco, arbusto piuttosto diffuso in tutta l'area del Mediterraneo e in Oriente; ha un gusto acidulo che ricorda le foglie dell'erba limoncina e si adopera in alternativa allo zaatar soprattutto sull'hummus con un cucchiaio d'olio d'oliva. Per un gusto diverso c'è poi l'harissa, un trito di peperoncino non piccante, cumino, coriandolo e aglio, che si adatta a diverse pietanze. In Israele si beve il caffè nero aromatizzato con del cardamomo o senza, ma è molto diffuso anche il caffè turco.
  Una tradizione ebraica è quella dello "Special Friday", in cui alla cena del venerdì in cui viene sostituito il Qiddush, ovvero il rito che celebra lo Shabbat, un festeggiamento tra familiari e amici; in questa occasione i ristoranti propongono menù speciali di tipo tradizionale per i gruppi ebrei.
  La maniera più popolare per cucinare la carne in Israele è arrostirla: oltre ai popolari Kebab e Shashlik, è qui diffusa anche la Shawarma di origine turca, preparata con carne di pecora tacchino o pollo, ricoperta con grasso di pecora e servita in striscioline accompagnata da verdure e salse. Altri piatti molto diffusi di origine araba sono il mejadra, un piatto di riso e lenticchie servito con cipolle fritte, e il baba ganush, a base di melanzane.
  Tra i dolci, imperdibile per chi viaggia in questi luoghi è la ciambella alla curcuma e datteri, tipica della città vecchia di Gerusalemme. Spesso le torri di datteri canditi o appassiti al sole fanno bella mostra di sé nelle vetrine dei negozi; i datteri si possono trovare anche freschi nei negozi di frutta ed entrano in numerose preparazioni data l'abbondanza dei palmeti della valle del Giordano. In Israele sono diffusi anche altri dolci sia di origine araba (come la baklava a base di pasta phillo, miele e frutta secca) che di origine ebrea (come i kugel, una specie di pudding insaporito con il caramello).
  E non perdetevi un assaggio del succo di melagrana israeliano, spremuto rigorosamente al momento con spremiagrumi a braccio che lasciano integra la parte bianca del frutto, senza intaccare con un tono amarognolo il succo estratto dai semi. Un vero toccasana che in Israele è vera tradizione.

(Prodigus.it, 5 settembre 2020)


L'accordo Emirati-Israele ha svelato la vera natura dell'ostilità palestinese

La "questione palestinese" è diventata molto più una campagna per raccattare soldi dalla comunità internazionale che non una questione politica attorno a una terra contesa.

Sin dalla nascita di Israele, tutti i governi del paese hanno perseguito la pace con i vicini arabi. Il primo ministro Menachem Begin (Likud) firmò lo storico trattato di pace con l'Egitto e il primo ministro Yitzhak Rabin (laburista) firmò un analogo trattato di pace con la Giordania. Lo stato d'Israele è orgoglioso di entrambi gli accordi di pace e ha cercato di replicarli con altri stati arabi. Tuttavia, negli ultimi dieci anni nessuno ha perseguito la pace con il vasto mondo arabo in modo più assertivo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu....

(israele.net, 5 settembre 2020)


Coronavirus: in Israele 2.766 contagi, percentuale record

A Gaza la pandemia si estende, polizia in forze nelle strade

All'indomani della decisione delle autorità israeliane di imporre da lunedì la chiusura di 30 'zone rosse'', dati diffusi dal ministero della sanità confermano che il livello dei contagi è molto elevato.
Ieri ne sono stati registrati 2.766, pari all'8,3 per cento dei test condotti.
La stampa locale cita una ricerca dell'Università Johns Hopkins secondo cui, con 215,6 contagi al giorno per ogni milione di abitanti, Israele è al primo posto della graduatoria mondiale, avendo superato Brasile (188,7), Spagna (182,4) e Usa (127,2). La cifra complessiva dei casi positivi registrati in Israele è 125.755, di cui 25.277 malati attivi. I decessi sono stati 991.
Situazione allarmante anche a Gaza dove i contagi sono saliti in 24 ore a 577, 116 in più rispetto a ieri. I decessi sono stati quattro. Gaza City ed il nord della Striscia sono in uno stretto lockdown. La polizia ha bloccato il traffico con sbarramenti nelle strade mentre, secondo fonti locali, agenti con manganelli intimidiscono i rari passanti. A Gaza è arrivata da Ramallah la ministra palestinese per la sanità May al-Kaileh.
Con lei sono entrati 20 camion carichi di aiuti sanitari.

(ANSAmed, 4 settembre 2020)


Un drone fa piovere bustine di cannabis su Tel Aviv

Centinaia di bustine di cannabis sono cadute dal cielo nella città di Tel Aviv la scorsa notte e questa mattina nelle piazze Rabin e Dizengoff. La dispersione è stata effettuata utilizzando droni che volteggiavano sulle due grandi piazze. L'obiettivo è quello di promuovere un nuovo canale di vendita aperto sotto il nome di "Green Skimmer" un gruppo dell'applicazione telegram che opera in.Telegrass, il supermercato della cannabis. A seguito di questi eventi due sospetti piloti di droni sono stati arrestati dalla polizia subito dopo l'operazione.
Questo drone ha lanciato pacchetti di cannabis dopo che gli attivisti che cercavano di legalizzare hanno promesso di rilasciare l'erba sui social media.
in un comunicato, la polizia ha affermato di sospettare che le borse fossero piene di un "farmaco pericoloso" e che gli agenti fossero riusciti a recuperarne decine. Le foto distribuite dalla polizia hanno mostrato quella che sembrava essere cannabis all'interno.
Il sito web di notizie Maariv, che mostrava le foto del drone che lasciava cadere le borse, ha detto che i passanti ne hanno prese alcune prima dell'arrivo della polizia. Il filmato mostrava persone che camminavano nel traffico per raccogliere pacchi caduti su una strada.
Attualmente, l'uso medico della cannabis è consentito in Israele, mentre l'uso ricreativo è illegale ma in gran parte depenalizzato.
A maggio, Israele ha acconsentito all'esportazione di cannabis medica, aprendo la strada alle vendite all'estero dalle quali il governo spera di guadagnare centinaia di milioni di dollari di entrate.
Nelle ultime ore, al termine dell'evento, si è scoperto che un'operazione simile era già avvenuta ieri sera in piazza Dizengoff in città. Nel video che è stato distribuito, puoi effettivamente vedere la vista spettacolare di centinaia di sacchi di cannabis che cadono dal cielo.

(it.cannabis-mag.com, 4 settembre 2020)


Riad apre i cieli agli aerei israeliani

Una decisione storica: consentito il sorvolo a tutti i velivoli diretti negli Emirati Arabi Uniti

riAD - L'Arabia Saudita apre i propri cieli a tutti i voli in direzione degli Emirati Arabi Uniti, e rende così anche Israele ancora più vicina ai paesi del Golfo. Con una decisione storica, annunciata ieri, Riad ha autorizzato il sorvolo del proprio territorio da parte degli aerei di «tutti i paesi», incluso Israele, diretti negli Emirati o da essi provenienti.
   L'aereo volato il 31 agosto tra Tel Aviv ed Abu Dhabi passando sopra l'Arabia Saudita non sarà più ricordato dunque come un'eccezione diplomatica ma l'apripista della crescente distensione tra lo Stato israeliano e un parte del mondo arabo musulmano. La decisione saudita è figlia dell'accordo raggiunto di recente da Israele e Abu Dhabi per la normalizzazione dei rapporti. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non ha esitato a definirla «un enorme passo in avanti» e segno di «pace genuina». I voli «saranno più corti e meno cari e questo porterà ad irrobustire il turismo e a sviluppare la nostra economia» ha spiegato il premier sottolineando che la nuova politica saudita apre "l'Oriente" agli israeliani, e non solo, rendendo più semplici i voli in questa parte di mondo. «Voglio ringraziare Jared Kushner (il consigliere del presidente Usa Trump, ndr) e lo sceicco Mohammed bin Zayed (principe ereditario e ministro della difesa di Abu Dhabi, ndr) per l'importante contributo odierno e — ha aggiunto Netanyahu — ci saranno presto molte altre buone notizie».
   Va ricordato che nel volo da Tel Aviv ad Abu Dhabi erano presenti Kushner e due ampie delegazioni: una statunitense (guidata dal responsabile della sicurezza nazionale Usa Robert O'Brien e dall'inviato speciale per i negoziati internazionali Avi Berkowitz) e una israeliana (guidata dal capo della sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat). Ad Abu Dhabi si sono svolti colloqui ad alto livello sulla cooperazione in materia di aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia. Kushner ha definito il volo un «momento storico».
   Secondo gli analisti, la mossa di Riad — annunciata dall'agenzia ufficiale Spa — appare come un ulteriore segnale che si inquadra nella crescente pressione dell'alleanza sunnita-occidentale contro l'Iran sciita. Al tempo stesso, tuttavia, Riad è stata però molto attenta a ribadire — ha scritto su twitter il ministro degli esteri Faisal bin Farhan — che l'apertura dello spazio aereo non cambia di un millimetro «la ferma e stabile posizione del Regno nei confronti della causa e del popolo palestinesi». L'Arabia Saudita «apprezza tutti gli sforzi diretti al raggiungimento di una pace giusta e durevole», ma — ha precisato Bin Farhan — sulla base dell'iniziativa di pace araba, proposta nel 2002 dall'allora principe ereditario saudita, poi re Abdullah.
   Nel gioco diplomatico innescato dalla normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti rientra anche la posizione espressa dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. In una conversazione telefonica con Netanyahu ha definito l'accordo con gli Emirati Arabi Uniti «un passo in grado di instaurare la pace in Medio Oriente». Ma ha anche sottolineato «l'importanza di evitare annessioni di territori palestinesi le quali potrebbero far vacillare le possibilità di intesa».

(L'Osservatore Romano, 4 settembre 2020)


Hamas e Jihad islamico hanno incontrato Sayyed Nasrallah

 
l leader di Hamas, Ismail Haniyeh hanno incontrato mercoledì a Beirut il segretario generale del Jihad islamico, Ziad Nakhale.
Insieme, hanno incontrato il segretario generale del movimento di resistenza libanese Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah.
Haniyeh e Nakhale hanno discusso della cooperazione tra i due movimenti della Resistenza palestinese e dei modi per coordinare le loro azioni in risposta al blocco in corso della Striscia di Gaza, al cosiddetto piano di pace del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e all'accordo di normalizzazione tra l'entità sionista e gli Emirati Arabi Uniti. All'incontro hanno partecipato anche altri funzionari dei due gruppi della Resistenza.
L'alto rappresentante di Hamas in Libano, Osama Hamdan, ha dichiarato che Haniyeh incontrerà Sayyed Nasrallah durante la sua visita a Beirut, sottolineando che i legami tra i movimenti della Resistenza palestinese e libanese sono "strategici".
Haniyeh e al-Nakhale hanno partecipato a una videoconferenza indetta dal capo dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, con la partecipazione di tutte le fazioni palestinesi per discutere l'accordo israeliano con gli Emirati Arabi Uniti.

(Pars Today, 4 settembre 2020)


La vita sotto Hitler narrata in diretta

In «Final Account» la memoria di 300 giovani (allora) aderenti al nazismo

VENEZIA - Dieci anni di lavoro, due Paesi - Germania e Austria - battuti a tappeto, 300 interviste, 11 mesi di montaggio, e un pugno di domande ossessive: in cosa credevano, ieri, i milioni di tedeschi che senza accorgersene divennero nazisti? Cosa pensano oggi di ciò che accadde? E chi paga il conto dell'orrore: solo le vittime, o anche i complici silenziosi del crimine?
   Ed eccolo, il conto finale il documentario Final Account, uno dei primi film selezionati dalla squadra di Alberto Barbera e presentato ieri a Venezia in anteprima mondiale. Quando il cinema è anche Storia, con le sue tragedie. E quando è anche cronaca infelice, con le sue coincidenze beffarde. Il regista, l'inglese Luke Holland, è morto pochi mesi fa. E a portare al Lido la sua opera sono arrivati la moglie, il produttore e il montatore della pellicola. Che è un unicum. Quanti film e documentari abbiamo visto sulla Shoah, dalla parte del popolo ebraico? Ma quanti che hanno come protagonisti gli altri sopravvissuti, non all'Olocausto, ma alla macchina dello sterminio che proprio loro hanno contribuito a far funzionare in maniera perfetta?
   E così nel 2008 Luke Holland iniziò a intervistare l'ultima generazione di tedeschi ancora in vita che avevano fatto parte del Terzo Reich. Conversazioni, più che interviste. E non con gerarchi, politici, ideologhi. Ma comuni cittadini che supportarono i progetti degli architetti del genocidio: giovani uomini e donne - allora, oggi anziani, pensionati, malati, lucidissimi - che entrarono nelle SS o nella Wehrmacht, e che sfilarono nella Gioventù hitleriana. La vita quotidiana sotto il nazismo. Divise, croci uncinate, labari, canzoncine, lettura del Mein Kampf.
   Final Account è un documentario impietoso, in cui il racconto dei testimoni si alterna a filmati del tempo, e le confessioni sono di un candore inversamente proporzionale alla tragedia. «Non c'era tempo per comportarsi come civili». «C'era la disoccupazione...». «Ci avevano insegnato a disprezzare gli ebrei». Sono le voci di chi è stato dall'altra parte e che finiscono con lo svelare che chi dice che non sapeva niente, mente. Come fa notare una ex SA che viveva vicino a un ospedale psichiatrico dove veniva realizzato il programma eugenetico nazista: «C'era un odore dolciastro... Si capiva che lì bruciavano corpi umani. Ce lo dicevamo sottovoce». Ed ecco come uomini fedeli a un'ideologia, ma per il resto assolutamente comuni, hanno finito col prender parte a uno dei più efferati crimini contro l'umanità. Sottovoce.

(il Giornale, 4 settembre 2020)


Bahrein pronto a normalizzare i rapporti con Israele

Il Bahrein potrebbe annunciare la normalizzazione dei rapporti con Israele "molto presto". A renderlo noto questo mercoledì è l'agenzia israeliana Kan 11 News, che menziona un anonimo funzionario israeliano come fonte dell'indiscrezione, che riferisce anche che l'annuncio potrebbe arrivare subito dopo la firma dell'accordo tra EAU e Israele.
   Il regno del golfo potrebbe essere quindi il secondo stato nella regione a stringere relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Il primo passo sembra essere arrivato giovedì sera quando l'Autorità per l'aviazione civile del Bahrein ha annunciato l'autorizzazione dei voli di aerei israeliani nei cieli del Bahrein. Israele ha fatto sapere di essere interessato a un'ulteriore cooperazione nel Golfo, principalmente nei settori della sicurezza e del commercio.
   Il Bahrein è stato uno dei paesi arabi ad aver plaudito all'accordo degli Emirati Arabi Uniti con Israele, senza però aver rilasciato alcun commento pubblico sul fatto che stabilirà legami con lo stato ebraico, ufficialmente boicottato dai Paesi della Lega Araba a causa dell'occupazione dei territori palestinesi.
   Dopo l'annuncio dell'accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele ad agosto, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo e il consigliere del presidente Donald Trump, Jared Kushner, si sono recati separatamente in Medio Oriente per incoraggiare altre nazioni a fare un passo simile.
   Kushner ha incontrato a Manama il re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa. Durante il vertice il re Khalifa ha ribadito che "la stabilità e la solidarietà nel Golfo dipendono, in tutte le situazioni, dall'Arabia Saudita" e il regno è "con Riad in tutti i casi" per proteggere la stabilità e prosperità della regione. Khalifa ha anche ricordato "le storiche, solide posizioni dello Stato degli Emirati Arabi Uniti nel difendere la causa e i diritti della nazione araba e islamica, e i suoi instancabili sforzi per raggiungere una soluzione giusta e comprensiva" nel rispetto dei diritti del popolo palestinese e per una pace durevole in Medio Oriente.
   Tra i vari Paesi che potrebbero prendere in considerazione la normalizzazione con Israele ci sono l'Oman e il Sudan.

(Sputnik Italia, 4 settembre 2020)


Gruppo di collaborazione tra Camera e Knesset critica l’alleanza di Turchia con Hamas

ROMA - "Esprimiamo una forte critica per l'alleanza della Turchia con Hamas, movimento considerato come terrorista dall'Unione Europea, mentre la situazione in Medio Oriente sta rapidamente evolvendo. Concedere cittadinanza e passaporto a membri del gruppo terroristico islamico è un segnale grave e inaccettabile, che va in direzione opposta a qualsiasi percorso di pace". Così si sono espressi i deputati del Gruppo di collaborazione parlamentare tra Camera e Knesset, i deputati Paolo Formentini (presidente), Emanuele Fiano, Paolo Lattanzio, Andrea Orsini, Emilio Carelli.

(Giornale Diplomatico, 3 settembre 2020)


Coronavirus: nuovo record in Israele. Più di tremila casi in un giorno

di Giacomo Kahn

Nuovo record di casi di coronavirus in Israele, dove per la prima volta sono state superate le 3mila nuove infezioni giornaliere. Le autorità sanitarie hanno riferito che mercoledì sono stati accertati 3.074 nuovi casi, rispetto ai 2.190 del giorno precedente. Nonostante l'aumento dei contagi, martedì è iniziato l'anno scolastico.
Le autorita' si preparano a imporre nuove restrizioni e hanno avvertito che se i contagi non diminuiranno nei prossimi giorni, dovranno essere ripristinate misure di chiusura piu' dure in tutto il Paese e questo proprio nel periodo che precede le grandi festività ebraiche che avranno inizio il prossimo 18 settembre e termineranno a metà di ottobre.
Dall'inizio della pandemia, in Israele sono stati accertati 125.613 casi di coronavirus, con 969 decessi, in un Paese abitato da poco più di 8 milioni di abitanti.

(Shalom, 3 settembre 2020)


Lanciato in orbita il laboratorio di microgravità, frutto di collaborazione italo-israeliana

 
ROMA - Questa mattina è stato lanciato nello spazio il laboratorio di microgravità Dido-3, prodotto di una collaborazione fra l'Agenzia spaziale italiana (Asi) e l'Agenzia spaziale di Israele (Isa), in cooperazione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e il ministero israeliano della Scienza e della Tecnologia. Lo riferisce l'Asi sul suo sito internet. Il laboratorio è stato lanciato insieme ad altri 53 dispositivi (tra nano, micro e minisatelliti) di 13 paesi diversi su un razzo Vega di realizzazione italiana, progettato e costruito dalla società Avio di Colleferro, in provincia di Roma. Il vettore Vega è partito alle 3.51 di questa mattina dalla base spaziale di Kourou nella Guyana francese e la missione "si è conclusa con successo 2 ore e 4 minuti dopo il decollo". A bordo di Dido-3 avranno luogo "quattro esperimenti congiunti italo-israeliani nei settori della ricerca biologica e farmacologica, controllati da terra attraverso un'applicazione mobile". Le università italiane coinvolte sono l'Università Federico II di Napoli, l'Università di Roma 3, l'Università di Roma Tor Vergata e l'Università di Bologna. Dal lato israeliano, secondo il quotidiano "The Times of Israel", sono coinvolte oltre all'Isa anche l'impresa israeliana Space Pharma, il Technion-Israel Institute of Technology, l'ospedale Tel Hashomer, e la Hebrew University di Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 3 settembre 2020)


Attacco israeliano in Siria. Colpita ancora la base T4

Nuovo attacco israeliano alla base T4 in Siria. Come sempre i siriani affermano di aver colpito i missili israeliani, ma testimoni sul campo raccontano un'altra storia.

di Sarah G. Frankl

Un nuovo attacco israeliano in Siria è avvenuto durante la notte appena trascorsa. Ad essere colpita è stata ancora una volta la base aerea T4 nei pressi di Al-Tanf, vicino al confine con l'Iraq.
Secondo l'agenzia di stampa siriana SANA un aereo israeliano avrebbe lanciato diversi missili contro la base T4 ma le difese siriane li avrebbero intercettati e abbattuti quasi tutti.
Un po' diverso il racconto di alcuni testimoni locali i quali affermano che alla base T4 ci sarebbero state diverse esplosioni e che alcuni depositi di armi sarebbero saltati in aria.
Non è chiaro se ci siano vittime. Si parla di alcuni miliziani iraniani che sarebbero deceduti o si troverebbero in gravi condizioni. Ma non ci sono conferme.
Nessuna conferma dell'attacco nemmeno da Gerusalemme che comunque, come al solito, non smentisce.
La base T4 in Siria si trova molto vicino al confine con l'Iraq e per questo viene usata dai pasdaran iraniani per far giungere armi a Hezbollah e alle altre milizie oltre che per trasferire uomini.
Non è la prima volta che Israele colpisce la base T4 ma fino ad oggi nessuno ha elevato formale protesta presso gli organismi internazionali. Un motivo ci sarà.

(Rights Reporter, 3 settembre 2020)


Israele al centro di accordi e intese

Confermate intese sul piano commerciale per Gaza, mentre Israele cerca di organizzare la cerimonia per la firma dell'accordo di normalizzazione delle relazioni tra lo Stato ebraico e gli Emirati Arabi Uniti entro metà settembre a Washington.

Israele riapre da oggi il valico commerciale con Gaza di Kerem Shalom e ripristinerà le zone di pesca al largo delle coste della Striscia. Si tratta di provvedimenti che rientrano nelle intese annunciate ieri tra Hamas e il Qatar sulla crisi con Israele. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha sottolineato che si tratta di "fermare l'escalation" lungo il confine dopo un mese di incidenti e riportarvi la calma. E ha precisato che le intese, mediate dal Qatar, includono la realizzazione di progetti a beneficio di Gaza e serviranno a contrastare la diffusione dei contagi di coronavirus.

 Al lavoro per l'attuazione degli accordi di metà agosto
  Ieri l'aereo El-Al LY971, con a bordo il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, e l'inviato speciale di Trump, Jared Kushner, è volato direttamente da Tel Aviv ad Abu Dhabi ed è passato per i cieli dell'Arabia Saudita. Si tratta di sviluppi dell'Accordo raggiunto a metà agosto tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti. Netanyahu e Kushner hanno invocato "pace nella regione". Il lavoro delle delegazioni è cominciato subito dopo l'atterraggio (alle 15.38 locali) con il primo incontro tra il ministro di Stato emiratino Anwar Mohammed Gargash e il capo della delegazione israeliana, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat, al quale ha preso parte anche Kushner. Sono estremamente orgoglioso - ha detto l'israeliano parlando in arabo - di guidare questa delegazione. Sul tavolo ci sono accordi di cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia ma non sulla sicurezza, tema che sarà oggetto di prossimi incontri.
  Per riflettere sul significato e le implicazioni anche simboliche di questo volo, sulle reazioni e sugli sviluppi dell'accordo di metà agosto, abbiamo intervistato Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali alla Luiss:
   Il professor Marchetti sottolinea che l'accordo è senz'altro un passo importante e spiega che si inserisce nel contesto di un avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita in chiave di possibile fronte di alleanza nei confronti del potere sciita in particolare dell'Iran. Ricorda il ruolo dell'amministrazione Trump e la contemporaneità con l'impegno statunitense a spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e ad appoggiare il processo di espansione dello Stato ebraico in Cisgiordania. In questi giorni - ricorda Marchetti - le delegazioni discutono dell'apertura di ambasciate nei rispettivi Paesi, a suggello del terzo accordo di pace tra Israele e un Paese arabo, dopo Egitto e Giordania, che Netanyahu si è detto convinto sarà presto firmato ufficialmente a Washington. A proposito di reazioni all'accordo con gli Emirati, Marchetti commenta che ovviamente c'è quella negativa da parte del mondo sciita e poi spiega che il fronte palestinese è invece meno compatto. Il leader palestinese Mohammad Shtayyeh ha avuto chiare parole di critica parlando di "scena penosa" in relazione al volo aereo con Netanyahu e Kushner, ma si sono levate altre voci palestinesi palesando un approccio più possibilista. In ogni caso, Marchetti nota che ci sono in atto diversi contesti da considerare se si vuole valutare l'accordo nella sua complessità.

 L'aggiornamento sul Covid-19 in Israele e a Gaza
  Il ministero dell'Istruzione israeliano ha autorizzato l'avvio stamane, fra molte misure cautelative, del nuovo anno scolastico malgrado il coronavirus continui a diffondersi a ritmo elevato nel Paese. Nelle località più colpite le scuole sono comunque rimaste chiuse. Ieri, secondo il ministero della Sanità, i contagi sono stati 2.180, ossia il 7,4 per cento dei test compiuti. Complessivamente in Israele i casi positivi sono stati finora 117.241. I malati attuali sono 20.699, 438 dei quali in condizioni gravi. I decessi sono stati finora 946. Situazione preoccupante anche nella Striscia di Gaza, che resta in lockdown da oltre una settimana durante la quale si sono avuti 4 decessi e 286 contagi. Le aree più colpite, riferisce il ministero della Sanità locale, sono Gaza City ed il nord della Striscia, definite adesso 'zone rosse'. Ai loro abitanti viene concesso di uscire di casa solo per rifornirsi di alimentari: ma la polizia presidia gli accessi dei pochi empori aperti ed impone in maniera rigida il distanziamento sociale. Nelle altre aree della Striscia gli abitanti possono spostarsi liberamente entro le loro località di residenza, ma solo nelle ore diurne.

(Vatican News, 3 settembre 2020)


Kalanit Goren Perry: "Momento sfidante ma fonte di opportunità"

 
Kalanit Goren Perry
Debutto ufficiale ieri a Milano per Kalanit Goren Perry, nuovo direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo in Italia. "Sono orgogliosa di essere qui, soprattutto in questo momento particolarmente sfidante che però sarà anche una grande opportunità per studiare nuove iniziative".
   Il Paese, che ha chiuso le frontiere ai flussi turistici dall'Italia lo scorso 29 febbraio a causa della pandemia da Covid-19 ("Purtroppo non abbiamo ancora indicazioni sulla riapertura, a cominciare da quella dell'aeroporto internazionale"), è comunque pronto a giocare le sue carte, non appena le condizioni globali lo consentiranno: "E' indubbio che dovremo attrezzarci con nuove strategie per rilanciare i flussi turistici. In particolare, oltre a Gerusalemme e Tel Aviv, punteremo molto sul deserto del Negev, sulla regione della Galilea, sull'area del mar Morto, zone ideali per stare a contatto con la natura e facilmente raggiungibili dalle città considerate le dimensioni del nostro Paese, in cui viaggiare è davvero facile".
   Nel frattempo sarà "determinante mantenere alta la visibilità della destinazione, anche sul mercato trade attraverso seminari di formazione e attività sui canali social, strumento fondamentale non soltanto per il b2c ma anche per il b2b, oltre ad una rinnovata collaborazione con i tour operator". A proposito di collaborazioni, Kalanit Goren Perry ricorda il recente debutto di El Al sulla rotta Tel Aviv-Abu Dhabi, "potenziale opportunità di interessanti - e inediti - progetti tra le due destinazioni".
   Da sempre appassionata di viaggi, Goren Perry annovera tra le sue esperienze anche una tappa importante in Italia, dove per due anni ha frequentato a Roma la facoltà di Scienze dello Spettacolo presso La Sapienza, concludendo poi il percorso di studi in Israele con una laurea triennale in cinematografia con tesi in Sound Desgin. Un secondo ciclo di studi la vede impegnata in Scienze Politiche e Diplomazia internazionale con progetto finale dedicato alla comunicazione Visual. Terminati gli studi, un passaggio presso la Società della Protezione della Natura (Spni) concentrandosi su specifici progetti di marketing, approdando poi al Ministero del turismo di Israele attraverso la frequenza al corso di Cadetti a cui hanno fatto seguito l'impegno nel desk Europa e in quello specifico per lo sviluppo del turismo outdoor. Natura, deserto, Eilat, Negev: queste le parole chiave nel lavoro di promozione realizzato da Kalanit in collaborazione con dmc israeliani e to internazionali.
   L'insediamento della consigliera per gli affari turistici dell'Ambasciata di Israele si insedia al posto di Avital Kotzer Adari, che ha chiuso il suo mandato nel nostro Paese lo scorso luglio.

(Travel Quotidiano, 3 settembre 2020)


Tensioni Netanyahu-Gantz, possibile annullamento della riunione di governo

GERUSALEMME - La riunione settimanale del governo di Israele prevista per domenica prossima, 6 settembre, potrebbe essere annullata per la quinta volta in tempi recenti, in seguito a tensioni fra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Benny Gantz. Lo riferisce il quotidiano israeliano "The Times of Israel", citando i media locali.
Gli annullamenti delle riunioni, un tempo molto rari, si sono moltiplicati nelle ultime settimane a fronte della crisi che attraversa la coalizione al potere. Lo scorso 24 agosto la Knesset (il parlamento monocamerale di Israele) ha approvato, nell'ultimo giorno utile, un'estensione di 120 giorni della scadenza per la presentazione della legge di bilancio, impedendo così la fine d'ufficio del governo e l'indizione di elezioni anticipate.
Secondo fonti politiche interpellate dall'emittente israeliana "Channel 12", dietro l'annullamento ci sarebbero tensioni fra Netanyahu e Benny Gantz, ministro della Difesa, per le "combattive" dichiarazioni pronunciate da quest'ultimo alla vigilia del voto della Knesset. Gantz aveva infatti dichiarato che il suo blocco politico, la coalizione centrista Kahol Lavan, avrebbe votato in favore dell'estensione, ma nello stesso tempo aveva accusato Netanyahu di non essere riuscito "ad agire nell'interesse nazionale", affermando che in caso di elezioni anticipate "sangue" avrebbe potuto "essere versato per le strade".

(Agenzia Nova, 3 settembre 2020)



La politica antisemita del Vaticano durante la Shoah

Il lavoro dello storico David Kertzer evidenzia chiaramente ancora una volta il pregiudizio antisemita della Chiesa di fronte alle persecuzioni naziste.

di Ugo Volli

A Febbraio scorso, finalmente, dopo molti anni di richieste, il Vaticano ha aperto agli studiosi i suoi archivi riguardanti il papato di Pio XII: il periodo della Shoah e gli anni immediatamente precedenti e successivi. Molti storici si erano prenotati per accedere alle carte, sperando di capire meglio le scelte del Papa che tacque durante la Shoah e non intervenne nemmeno quando i nazisti deportarono buona parte della comunità ebraica romana, praticamente sotto i suoi occhi. Gli archivi hanno funzionato per poco tempo, prima della chiusura generale dovuta al Covid, ma qualche risultato di queste ricerche è già uscito. In particolare è interessante il resoconto che ne dà David Kertzer, lo storico della Brown University che da molti anni lavora sul rapporto del Vaticano con gli ebrei e ne ha tratto diversi libri ben documentati e molto coraggiosi (per esempio Prigioniero del papa re Rizzoli 1996; I papi contro gli ebrei, Rizzoli 2002; Il patto col diavolo Rizzoli 2014).
  L'articolo di Kertzer si può consultare qui e riguarda due episodi molto significativi, di cui quasi solo uno è stato illustrato, in maniera molto parziale e discutibile, nell'unico articolo che la stampa italiana gli ha dedicato (Antonio Carioti sul Corriere della Sera, riportato qui). Questo primo episodio riguarda la proposta che un gesuita, già addetto ai rapporti del Vaticano col governo italiano, padre Pietro Tacchi Venturi (quello che dopo la liberazione cercò di convincere il governo italiano a mantenere in vigore buona parte delle leggi razziste contro gli ebrei) fece a Pio XII a Dicembre '43, ben due mesi dopo il rastrellamento degli ebrei di Roma, di mandare una nota diplomatica di dissenso al regime nazista, peraltro scritta in un linguaggio esplicitamente antisemita. Vi sono, diceva la bozza di Tacchi Venturi, "gravi indiscutibili inconvenienti causati dal giudaismo quando arrivi a dominare o a godere di molto credito in una nazione, ma in Italia le leggi razziali del fascismo hanno già ridimensionato questo pericolo e dunque non serve deportarli". Anche a questo linguaggio, sostanzialmente complice col nazismo, si oppose un altro prelato di curia che aveva un ruolo importante nella diplomazia vaticana, e sarebbe stato poi nominato vescovo (da Giovanni XXIII) e cardinale (da Paolo VI): Angelo Dell'Acqua. Costui sosteneva che era meglio non irritare i tedeschi neanche con discorsi così "comprensivi". E il Papa naturalmente accettò il suo suggerimento. Del suo silenzio si sapeva, se n'è discusso moltissimo: ma è importante trovare la prova che questo silenzio non fu casuale o distratto, ma una presa di posizione politica decisa dopo ragionamenti e discussioni approfondite: meglio ignorare il genocidio e non avere guai.
Gerald e Robert Finaly
La seconda vicenda riguarda meno persone, ma è altrettanto significativa sul piano morale. Riguarda Gérald e Robert Finaly, due bambini figli di una coppia di ebrei austriaci, Fritz e Anni Finaly, che nel '38, dopo l'annessione alla Germania erano fuggiti dall'Austria cercando di arrivare in Sudamerica, ma non avevano ottenuto il visto e si erano trovati bloccati nella Francia meridionale, a Grenoble. . Nel '44, intuendo di essere sul punto di essere catturati dai nazisti, che poi in effetti li catturarono e li deportarono ad Auschwitz e li uccisero lì, Fritz e Anni Finaly affidarono i loro due figli, che allora avevano tre e quattro anni, a un'amica, Marie Paupaert, che a sua volta, terrorizzata dalla loro cattura, li consegnò subito a un convento di monache, le quali a loro volta li affidarono alla direttrice della locale scuola per infermiere, Antoinette Brun, che li trattenne negli anni successivi. Nel febbraio del '45, quando la Francia del Sud era stata liberata dalle truppe alleate, la zia dei bambini, Marguerite, che era rifugiata in Nuova Zelanda, scrisse al sindaco di Grenoble per recuperare i nipotini e poi un altro fratello si presentò di persona da Brun, che però si rifiutò di restituirle i bambini, che nel frattempo aveva fatto battezzare.
  Inizia qui un'odissea che si concluse solo otto anni dopo. Brun continuò a rifiutarsi anche di fronte a un ordine del tribunale, nascose i bambini in un convento e poi li fece espatriare clandestinamente in Spagna. Fu arrestata e con lei diversi religiosi cattolici che le furono complici. Il rapimento di due figli di vittime della Shoah fece molto rumore in Francia, con numerosi articoli di giornale, interventi politici e giudiziari. Era quindi un episodio conosciuto, anche se ormai largamente dimenticato. Quel che Kerzer ha trovato sono gli atti interni al Vaticano, che mostrano come il rapimento dei bambini fosse stato direttamente voluto da Pio XII e coordinato dalle massime autorità del segretariato di stato e della nunziatura (l'ambasciata) vaticana in Francia. Da parte ebraica vi furono interventi del World Jewish Congress e del rabbino capo di Israele Itzhak Herzog che portarono a trattative infruttuose, perché il Papa, per restituire i bambini rapiti alla famiglia voleva la garanzia che non sarebbero stati messi a contatto con l'ambiente ebraico, perché ormai "appartenevano alla Chiesa". Chi per il papato trattava con il mondo ebraico era proprio quell'Angelo Dell'Acqua che qualche anno prima aveva sconsigliato di protestare coi tedeschi e consigliato Pio XII a "diffidare dell'influenza degli ebrei" Alla fine, dopo otto anni di resistenza, nel 1953, solo l'enorme danno di immagine provocato dalla resistenza alle decisioni dei tribunali francesi e dall'arresto di preti e monache sotto l'accusa infamante di rapimento obbligò il Vaticano a cedere, e i bambini poterono arrivare dai loro parenti in Israele, dove in seguito hanno vissuto da ebrei vite normali e ben integrate.
  Solo la felice conclusione differenzia questa storia dall'altra ben nota agli ebrei italiani, il rapimento di Edgardo Mortara a Bologna nel 1858 ad opera di sgherri della Chiesa e il rifiuto di Pio IX di restituire il bambino alla famiglia col pretesto che era stato battezzato. Ma da allora era passato quasi un secolo e in mezzo c'era stata la Shoah, che evidentemente non aveva insegnato nulla alla curia romana, almeno sul rispetto della libertà di religione e dell'integrità della famiglia. Vale la pena di ricordare che chi gestì sul piano diplomatico la difesa del rapimento e coordinò tutti gli sforzi della Chiesa per non restituire i bambini fu il pro-segretario di Stato Giovanni Battista Montini, destinato a diventare papa Paolo VI. Di sua mano, per esempio, è l'istruzione per le trattative con Rav Herzog, in cui si dice che "bisogna prendere le opportuna precauzioni perché essi (i bambini) non tornino a essere ebrei". Sua è la lettera al nunzio vaticano a Parigi in cui si lamenta che "alcuni giornali riferiscono che i fratelli Finaly saranno presto portati in Israele per essere rieducati al giudaismo. Ciò è in contrasto con gli accordi che il cardinale Gerlier ha concluso tempo fa". Sua è la protesta con il governo francese, dopo che i due bambini furono finalmente riconsegnati e portati in Israele dalla famiglia, perché la liberazione dei due rapiti "aveva inflitto un duro colpo ai diritti della Chiesa e anche al suo prestigio nel mondo". Bisogna aggiungere ancora che alla campagna di Pio XII collaborò anche monsignor Roncalli, nunzio a Parigi all'inizio dell'affare (che poi però all'inizio del '53 fu nominato cardinale e trasferito come patriarca di Venezia). Un altro nome pesante della Curia coinvolto in questa vicenda è quello del Cardinale Ottaviani, allora capo del Sant'Uffizio.
  Ricordare questi episodi non vuol dire naturalmente esprimere un giudizio definitivo su tutti gli ecclesiastici coinvolti, che dovevano certamente una rigida obbedienza al Papa. Di qualcuno fra essi, come il futuro Giovanni XXIII, sono documentati numerosi gesti di solidarietà verso gli ebrei perseguitati dai nazisti. Altri erano francamente antisemiti, a partire probabilmente da Pio XII. Quel che storie come questa confermano è l'atteggiamento costante del Vaticano di privilegiare "il prestigio della Chiesa" e i suoi "diritti" sulla vita delle persone. Lo vediamo ancora oggi. E inoltre bisogna leggere in questi fatti una generale diffidenza, un fastidio verso gli ebrei che traspaiono in ogni dichiarazione riportata da Kerzer. Del resto negli anni Cinquanta la "Civiltà Cattolica" organo dei gesuiti ma sempre soggetto all'approvazione papale, continuò la sua secolare campagna contro gli ebrei. La dichiarazione "Nostra Aetate" arriverà solo nel '63, la visita di Papa Wojtyla alla Sinagoga di Roma nell'86, il riconoscimento vaticano dello stato di Israele solo nel '93, quarantacinque anni dopo la sua fondazione. Nei termini di una storia due volte millenaria di persecuzioni e calunnie sono passati solo pochi momenti, si tratta di una tendenza iniziata ma non ancora consolidata come un fatto compiuto: non bisogna illudersi troppo. Per questo il lavoro di chi come Kerzer indaga sulla persistenza del pregiudizio antiebraico nella Chiesa è prezioso.

(Progetto Dreyfus, 3 settembre 2020)



Tra Emirati e Israele accordi su finanza e innovazione

Delegazione di Israele ad Abu Dhabi

Un comitato congiunto per la cooperazione nei servizi finanziari e la promozione degli investimenti è stato istituito da Israele e gli Emirati arabi uniti nel corso della visita di una delegazione israeliana ad Abu Dhabi.
Dopo lo storico avvicinamento tra i due Paesi, i governi stanno ora mettendo a fuoco le aree di partnership economica. «L'obiettivo è rimuovere le barriere finanziarie per permettere investimenti reciproci e promuovere investimenti congiunti nei mercati dei capitali» ha sottolineato un comunicato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
«Le opportunità di partnership per le imprese israeliane ed emiratine - ha specificato il comunicato - avranno un focus molto forte sull'innovazione e la tecnologia».
È stato inoltre concordato un piano di cooperazione tra l'Abu Dhabi Investment Office (Adio) e Invest in Israel. «L'ecosistema di Israele può offrire molto all'economia degli Emirati in termini di innovazione, soprattutto nei settori delle scienze biologiche, delle tecnologie per l'agricoltura e l'ambiente, dell'energia» ha dichiarato Ziva Eger, amministratore delegato di Invest in Israel. Nel prossimo futuro verranno conclusi accordi, oltre che nel campo dei servizi finanziari, anche in altri settori: turismo, energia, sanità e sicurezza.

(Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020)


Rivelazione media israeliani: "Netanyahu in segreto nel 2018 a Abu Dhabi"

 
Rivelazione odierna del quotidiano Yediot Ahronot, dopo lo storico volo che ieri ha portato per la prima volta un aereo della El Al da Tel Aviv a Abu Dhabi sorvolando l'Arabia Saudita. Il premier Benyamin Netanyahu nel 2018 ha visitato in segreto gli Emirati Arabi incontrando il principe della corona Mohammad bin Zayed. Secondo il quotidiano, che cita fonti diplomatiche, all'incontro tra i due leader prese parte anche il direttore del Mossad, Yossi Cohen e la riunione si svolse in una buona atmosfera. Nonostante il fatto non sia stato confermato dall'ufficio del premier, il quotidiano ha ricordato che proprio ieri Netanyahu, all'atterraggio del volo ad Abu Dhabi, ha accennato di aver incontrato "molti leader nel mondo arabo e musulmano" ancora non noti al pubblico.
Intanto nel Golfo proseguono oggi gli incontri delle delegazioni israeliana e Usa con quella degli Emirati prima della ritorno in Israele previsto per questa sera. Al termine della prima tornata di riunioni, ieri sera ad Abu Dhabi si è svolta una funzione religiosa a cui hanno partecipato il capo della delegazione, Meir Ben Shabbat ed esponenti della comunità ebraica locale.

(Politica News, 1 settembre 2020)


Tregua tra Israele e Hamas

L'accordo reso possibile dalla mediazione del Qatar

Spiragli di dialogo in Medio Oriente. Hamas, il movimento islamico che controlla la Striscia di Gaza, e Israele hanno annunciato ieri sera un accordo per porre fine alle ostilità al confine. Da oltre un mese, infatti, quasi quotidianamente razzi e palloni incendiari lanciati dalla Striscia di Gaza hanno colpito il territorio israeliano, particolarmente nel sud. Da parte sua, Israele ha risposto con raid aerei.
   «Grazie a una serie di contatti, i più recenti con l'inviato del Qatar Mohammed el-Emadi, è stato raggiunto un accordo di tregua per contenere l'escalation e porre fine all'aggressione contro il nostro popolo» ha dichiarato, in un comunicato, il leader politico di Hamas a Gaza, Yahya Sinouar. La trattativa «ha portato a un accordo tra noi e Israele per far tornare la calma nella regione e prevenire un'escalation di violenza». I palloni incendiari lanciati dalla Striscia hanno causato — secondo la France Presse — più di 400 incendi nelle piantagioni israeliane, con un bilancio drammatico per molti agricoltori e imprenditori. Da parte sua, oltre ai raid, Israele ha intensificato il blocco sulla Striscia con nuove restrizioni, soprattutto sulla pesca.
   «Se Hamas, che è responsabile di tutte le misure prese nella Striscia di Gaza, non adempie ai suoi obblighi per riportare la calma lungo il confine, Israele agirà di conseguenza» hanno dichiarato ieri sera esponenti israeliani citati dalla France Presse. Va ricordato che, sotto l'egida del Qatar, dell'Egitto e delle Nazioni Unite, Hamas e Israele lo scorso anno avevano raggiunto un accordo di tregua che prevede un aiuto mensile di 30 milioni di dollari, pagato dai qatarini, a Gaza, oltre a una serie di progetti economici per frenare la disoccupazione, che oggi supera il 50%. Con il nuovo accordo raggiunto ieri, secondo una fonte del movimento islamico, il finanziamento del Qatar aumenterà da 30 milioni di dollari a 35 milioni di dollari al mese. Inoltre, il governo del Qatar ha annunciato anche nuovi progetti volti a migliorare le condizioni economiche e sanitarie degli abitanti della Striscia.

(L'Osservatore Romano, 2 settembre 2020)


E’ un collaudato giochino di Hamas che si ripete da diversi anni: lancia missili e bombe incendiarie su Israele, provoca danni e molto fastidio, Israele si stufa e comincia a colpire duro, Hamas allora minaccia sfragelli, tutti sanno che è un bluff, ma per evitare noiose rotture di equilibri gli usuali elemosinieri di Gaza si decidono ad allargare la borsa. Obiettivo raggiunto, accordo concluso, tregua d’armi annunciata, la pace a intermittenza continua. In attesa della prossima richiesta di fondi avanzata in forma di lancio di missili e bombe incendiarie su Israele. E’ così che Israele contribuisce, passivamente e suo malgrado, a quella che è “la migliore pace possibile” in Medioriente. M.C.


Conversazione in ebraico tra Netanyahu e un rappresentante degli Emirati Arabi Uniti

Chi l'avrebbe detto solo poche settimane fa: una conversazione in ebraico tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e uno degli accompagnatori della delegazione israelo-americana ad Abu Dhabi. Durante il loro scambio, il Primo Ministro è colpito dal livello di ebraico rivelato dal suo interlocutore - che gli confida di aver imparato tramite Zoom - e si congratula per il suo contributo alla costruzione della normalizzazione tra Israele ed Emirati. "Una pace non solo tra i leader ma anche tra i due popoli". Il rappresentante degli Emirati spera che Benjamin Netanyahu venga presto a trovarlo, e da parte sua, Netanyahu gli chiede personalmente di far parte della delegazione degli Emirati che verrà in Israele, "dove sarà accolto calorosamente, come la delegazione israeliana ad Abu Dhabi" .
"Beezrat HaShem" (con l'aiuto di Dio), risponde il suo interlocutore!

(lphinfo.com, 1 settembre 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Raid aerei sulla Siria, vittime civili. Israele principale sospettato

Contraddittorio il ruolo russo: Putin non ferma Netanyahu e spera nel ritiro dell'Iran.

di Michele Giorgio

Un'altra notte di bombardamenti. Scie luminose di missili che attraversano l'oscurità, seguite da esplosioni. Gli abitanti di Damasco e di altre località siriane le vedono spesso, da anni. E talvolta pagano con la vita questi attacchi notturni. Israele non conferma ma sono pochi i dubbi sulla paternità del pesante raid aereo che lunedì notte si è concentrato su «obiettivi» a sud della capitale siriana e nei pressi della città meridionale di Deraa.
   I media ufficiali siriani parlano di un nuovo attacco israeliano, aggiungendo che la difesa antiaerea ha abbattuto buona parte dei missili sganciati dai cacciabombardieri. Anche questo attacco ha causato vittime ma non se ne conosce con precisione il numero. Sana, l'agenzia di stampa statale siriana, ha riferito di due civili uccisi — tra cui una donna —e di sette feriti. Per l'Osservatorio siriano per i diritti umani, a Londra e legato all'opposizione, i morti sarebbero 11, tra cui sette combattenti stranieri filoiraniani.
   La posizione di Israele è nota. Il premier Netanyahu descrive i raid come operazioni preventive volte a impedire che l'Iran e i suoi alleati possano allestire in Siria basi da dove lanciare attacchi a Israele. Una «difesa attiva», così è definita, che la Siria, alle prese con lo scontro tra l'esercito e le organizzazioni armate islamiste e jihadiste, ha dovuto assorbire senza reagire. La superiorità militare di Israele, soprattutto aerea, di cui si è fatta garante l'amministrazione Trump di nuovo nei giorni scorsi, è netta e non colmabile dalla Siria.
   I russi, alleati di Damasco, mantengono inattivi gli S-300 che hanno schierato in Siria che sarebbero in grado di respingere gli attacchi. Il modus vivendi stabilito da Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu per la crisi siriana prevede che Mosca lasci a Israele il diritto di autodifesa, ossia di attaccare indisturbato le postazioni iraniane e le milizie sciite in Siria. Non è un mistero che il Cremlino vedrebbe con piacere il ritiro delle forze di Tehran dalla Siria. Così come è noto che la Russia stia chiedendo a Bashar Assad di fare concessioni al tavolo dei negoziati sulla futura carta costituzionale che il presidente siriano non è pronto a fare.
   A preoccupare Damasco più di tutto però è il piano statunitense in Medio Oriente che non è limitato solo alla questione israelo-palestinese. In esso rientrano, ad esempio, la recente normalizzazione tra Israele ed Emirati e politiche volte a provocare la caduta di Assad e la fine dell'alleanza tra Siria, Iran e il movimento libanese Hezbollah. Il 17 giugno Washington ha varato sanzioni dure contro la Siria impegnata a combattere la pandemia e una grave crisi economica. E stando all'agenzia curda Basnews sta ora lavorando al riconoscimento Usa dell'indipendenza o della piena autonomia da Damasco della regione di Jazira, nel Rojava. Secondo l'agenzia, gli Usa starebbero discutendo con i clan arabi locali e i rappresentanti dei partiti curdi di una soluzione che vedrebbe ogni componente etnica amministrare la propria area, grazie anche al sostegno americano e saudita.
   Per raggiungere l'obiettivo, aggiunge Basnews, Washington vuole riunire sotto un unico ombrello le varie organizzazioni politiche e militari curde, divise sui passi da fare e sui rapporti con Damasco, con gli Usa e vari sponsor regionali. Se è vero, si tratterebbe della realizzazione del progetto di cui si parla di frantumazione del territorio siriano, suddiviso nel nord-est sotto controllo curdo, nella regione occidentale di Idlib nelle mani dei jihadisti e della Turchia e il resto del paese (più o meno) sotto il controllo del governo centrale.

(il manifesto, 2 settembre 2020)


Israele-India: Nuova Delhi verso acquisto due sistemi radar Phalcon

GERUSALEMME - Il governo dell'India starebbe per approvare l'acquisto di due sistemi radar di preallarme e controllo (Awacs) Phalcon da Israele. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", citando i media indiani. L'acquisto, del valore di circa 1 miliardo di dollari, sarebbe in corso da alcuni anni e dovrebbe essere discusso dal governo indiano nella prossima riunione della Commissione di gabinetto per la sicurezza. I sistemi in questione, montati su un aereo russo Ilyushin-76, permettono la scansione elettronica e possono rilevare e tracciare aerei, missili cruise e droni prima dei radar di terra.
   L'aeronautica dell'India ha ottenuto i primi tre sistemi radar Phalcon nel 2009, dopo un accordo da 1,1 miliardi di dollari firmato tra Nuova Delhi, Israele e Russia. La notizia giunge in un momento segnato da crescenti tensioni fra l'India e la Cina, che come il Pakistan possiede più sistemi radar Awacs delle forze indiane. Secondo il "Jerusalem Post", dopo l'acquisto la consegna dei sistemi potrebbe richiedere dai due ai tre anni.
   Negli ultimi anni Israele ha fornito vari sistemi di armi, missili e droni all'India, che figura tra i principali compratori di forniture militari israeliane. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso marzo dall'International Peace Research Institute di Stoccolma, lo Stato ebraico è l'ottavo fornitore al mondo di armi, vendute principalmente in India (45 per cento del totale), Azerbaigian (17 per cento) e Vietnam (8,5 per cento).

(Agenzia Nova, 2 settembre 2020)


Il primo storico volo tra Tel Aviv e Abu Dhabi. Tre ore verso la pace

Sorvolati i cieli sauditi. E il Qatar negozia un accordo Israele-Hamas

di Sharon Nizza

 
TEL AVIV — «Benvenuti a bordo dello storico volo 971 Tel Aviv-Abu Dhabi». L'atteso annuncio è stato pronunciato ieri alle 11:30 dal capitano del primo volo commerciale diretto tra Israele ed Emirati. L'aereo ha condotto nella capitale emiratina una delegazione diplomatica per avviare le trattative bilaterali in vista della firma dell'accordo tra i due Paesi, a Washington forse già il 15 settembre. Sul volo anche una delegazione americana guidata dal consigliere e genero di Trump, Jared Kushner, l'artefice dell'avvicinamento strategico tra Israele e l'asse sunnita in chiave anti-iraniana, che da Abu Dhabi proseguirà per Riad, per convincere i reali a presenziare alla cerimonia alla Casa Bianca.
   Una tratta di tre ore, grazie all'autorizzazione concessa da Riad al primo velivolo con bandiera israeliana a sorvolare lo spazio aereo saudita, che dice molto sul nuovo corso. Una traversata dei cieli sauditi "alla luce del sole", ha detto il premier Netanyahu da Gerusalemme: è ormai noto che per anni questa rotta è stata battuta da jet anonimi che hanno trasportato alti funzionari e almeno in un'occasione Netanyahu stesso, oltre a Tahnun bin Zayed, il Consigliere per la Sicurezza nazionale emiratino. All'atterraggio la delegazione è stata accolta dal Ministro degli esteri Anwar Gargash. Meir Ben Shabbat, il Consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, ha fornito un'immagine ad effetto pronunciando il primo discorso pubblico su suolo emiratino con la kippà in testa, in arabo e in ebraico. Le relazioni sono state avviate in sette settori: aviazione civile, visti, finanza, innovazione, turismo, salute e cultura.. Una delegazione dedicata solo a questioni di sicurezza partirà nei prossimi giorni. Significativo perché, se è vero che alla base del disgelo annunciato a sorpresa il 13 agosto vi è l'interesse comune ad arginare le mire iraniane e turche sull'area, la percezione è che ci sia anche una sincera volontà di mutuo scambio a livello della società civile, a differenza di quanto accaduto con Egitto e Giordania, dove la "pace fredda" è sempre rimasta sul piano degli interessi strategici nazionali.
   Quanto ai palestinesi, il premier Shtayyeh ha espresso dolore nel «vedere un aereo israeliano atterrare negli Emirati, in una chiara violazione della posizione araba sul conflitto». Kushner ha ribadito: «C'è una proposta che li aspetta, sta a loro decidere quando tornare al tavolo». Le mosse nel Golfo si riverberano anche su Gaza: dopo settimane di scontri con Idf, ieri sera Hamas ha annunciato la tregua «grazie alla mediazione dell'inviato del Qatar». Al-Emadi ha trascorso una settimana nella Striscia per raggiungere l'accordo a ogni costo e rivendicare così il ruolo strategico di Doha rispetto ai vicini emiratini.

(la Repubblica, 1 settembre 2020)


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In viaggio verso la pace. Primo volo commerciale Israele-Emirati Arabi

È partito da Tel Aviv diretto ad Abu Dhabi. Il premier Netanyahu: «Giornata storica»

PASSO DOPO PASSO
L'annuncio: «Ho invitato una delegazione nel nostro Paese»
CLIMA CAMBIATO
«Stenderemo il tappeto rosso per loro come hanno fatto con noi»

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Alle 11,15 di ieri il volo LY971 dell'El Al ha intrapreso il suo viaggio verso il futuro, per la prima volta nella storia un aereo israeliano carico di diplomatici, businessman, giornalisti si è avventurato sul deserto saudita col permesso di sorvolarlo in pace. L'avventura della più grande sfida che l'uomo deve affrontare, la pace, ha toccato un'altra tappa in cui Israele e il mondo arabo sono i protagonisti. «Una giornata storica», dice il premier Benjamin Netanyahu, che invita una delegazione di Abu Dhabi nello Stato ebraico: «Stenderemo loro il tappeto rosso come hanno fatto con noi».
   È la terza volta, dopo le intese con Egitto e Giordania, che lo Stato ebraico sormonta divieti più spessi di qualsiasi muraglia: ma è accaduto e sull'aereo del ritorno, LY972 (all'andata col prefisso telefonico degli Emirati, al ritorno con quello di Israele), hanno viaggiato travolti dall'emozione il direttore del ministero degli Esteri Meir Ben Shabbat con i rappresentanti governativi della sicurezza, della salute, della tecnologia. Con loro, indispensabili angeli custodi dell'accordo preceduto dalla cancellazione del boicottaggio, il consigliere e genero di Trump Jared Kushner, quello per i negoziati internazionali Avi Berkovitz, per gli Affari iraniani Brian Hook e per la Sicurezza nazionale Robert O'Brian.
   L'evidente importanza del gruppo americano, che prosegue nel suo giro mediorientale dopo avere incontrato Netanyahu a Gerusalemme, è un segnale chiaro, alla vigilia delle elezioni di novembre, dell'importanza che Trump attribuisce all'accordo «Abraham», alla sua capacità di spostare l'opinione pubblica americana dall'idea suggerita dai nemici di Trump, che abbia reso il mondo un luogo più pericoloso, a quella che sia il presidente che porta la pace in un Medioriente certo non perfetto, ma migliorato. Una pace realista e non ideologica, come l'invito negli Emirati a Papa Francesco.
   Che cosa è questa pace? È una svolta fondamentale che - come ha detto Kushner - «non permette al passato di disegnare il futuro», ovvero cancella i «no» dettati dalla questione palestinese e dalla politica anti normalizzazione che Abu Mazen ha scelto come strada per mantenere il potere, col rifiuto delle offerte di pace, la scelta di finanziare i terroristi. Lo sfondo ideologico su cui l'amministrazione Trump ha potuto lavorare è doppio: da una parte la garanzia israeliana anti Iran; dall'altra un campo arabo in cui primeggiano gli Emirati di Mohammaed bin Zayed, grande costruttore dell'accordo, appassionato del dialogo interreligioso come dell'idea grandiosa di un Paese unico al mondo, legato alla tradizione araba ma modernizzatore. E molto distante dall'idea della Ummah islamica, un immenso territorio per il miliardo e 800 milioni di musulmani del mondo, un solo impero, un leader, molti nemici da battere: il panarabismo e poi l'Islam sciita dell'Iran e ora quello sunnita di Erdogan ne sono i portabandiera. Ma il pericolo che rappresentano è cresciuto negli anni. E intanto si è presentata l'opportunità per MbZ di diventare il salvatore dei palestinesi dalle annessioni previste dal piano Trump. Netanyahu ha pagato volentieri il prezzo della rinuncia alla sovranità sul 30% della zona C sperando prima di tutto nella pace oltre che con gli Emirati anche con gli altri che vorranno seguire (Bahrain e Oman, si desidera l'Arabia Saudita) e si disegna che finalmente i palestinesi vogliano approdare a una trattativa.
   Le possibilità esistono, dato che il loro veto si è spezzato. II mondo arabo ripete che «due Stati per due popoli» rimane il suo obiettivo, Israele conferma che è disposto alla trattativa, ma nessuno accetta la premessa della solita serie di no a qualsiasi soluzione che non sia quella imposta da una leadership palestinese di volere solo la guerra. Invece ora chi vuole la pace abramitica (fra ebrei, musulmani e cristiani) potrebbe crescere di giorno in giorno. Da una parte il Medioriente disegna l'immagine di alleanze con i colori di Tel Aviv e dei grattacieli di Abu Dhabi. Dall'altra, lo scoppio di Beirut e le stragi in Siria, le riunioni di Erdogan con Hamas e le minacce di Nasrallah, colorano di nero il panorama.

(il Giornale, 1 settembre 2020)


Il pilota israeliano che ha rotto il tabù. "Un'emozione volare nei cieli sauditi"

Primo volo commerciale tra Tel Aviv e Abu Dhabi dopo la apertura delle relazioni diplomatiche tra i due ex nemici Riad concede l'autorizzazione a sorvolare lo spazio aereo. A bordo l'inviato della Casa Bianca Kushner: "Giornata storica".

La storia della hostess che aveva cominciato con i voli per l'Iran: "Ora vado in pensione" Hamas annuncia la tregua con lo Stato ebraico sulla pesca al largo di Gaza

di Fabiana Magri

 
L'arrivo sulla pista dell'aeroporto di Abu Dhabi
TEL AVIV - Oltre alla portata epocale per gli equilibri in Medio Oriente, il primo volo commerciale senza scalo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, operato dalla compagnia israeliana El Al, ha travolto anche la sfera privata dell'equipaggio: due piloti, un primo ufficiale, cinque hostess e uno steward. Ieri sera, al telefono con La Stampa dalla stanza dell'hotel dove ha alloggiato ad Abu Dhabi prima di ripartire oggi per Tel Aviv, il capitano Tal Becker, quarantacinque anni di carriera, di cui gli ultimi venticinque al comando di aerei di linea, aveva la voce rilassata. Sostiene che ai piloti insegnino a mettere da parte le emozioni. Ma i dettagli del suo racconto, un po' di emozione la tradivano. «Giornalisti e fotografi andavano e venivano in cabina di pilotaggio. Il cielo era limpido, senza nuvole e turbolenze che a volte incontri sorvolando l'Europa. Le procedure sono sempre le stesse, stesso il linguaggio e la terminologia. Solo che il controllore che mi rispondeva, questa volta era un arabo saudita». L'emozione in realtà era trapelata già alla partenza, nella foto che l'ha ritratto affacciato al finestrino della cabina di pilotaggio, mentre sistemava le due bandierine - israeliana ed emiratina - proprio sotto la parola «pace», scritta in arabo, inglese ed ebraico applicata sulla carlinga dell'aereo.
   Il check-in per il volo LY 971 - AUH, con a bordo due consistenti delegazioni ufficiali, l'israeliana e la statunitense, si è aperto poco dopo le sette del mattino di ieri e l'imbarco è avvenuto dal Gate El del Terminal 3.11 nome dell'aeromobile, un Boeing 737-900, è Kiryat Gat, come la città nel centro di Israele. Il carrello ha sollevato le ruote dalla pista del Ben Gurion alle 11:22 (ora israeliana) per atterrare ad Abu Dhabi alle 15:38 (ora locale del Golfo). Dopo trenta minuti di volo, il capitano Becker annunciava che, per la prima volta, un aeromobile registrato in Israele sorvolava i cieli dell'Arabia Saudita grazie a una speciale autorizzazione concessa da Riad. A quarantacinque minuti dall'atterraggio, l'inviato speciale (e genero) del presidente Usa, Jared Kushner, ringraziava i sauditi: «Sono stati molto gentili a permetterci di sorvolare il loro spazio aereo. Anche questa è una svolta storica». Il volo è durato poco più di tre ore e un quarto. Se non fosse stato per l'Arabia Saudita, ce ne sarebbero volute più di sette. A bordo con il funzionario della Casa Bianca, c'erano il Consigliere per la sicurezza nazionale Robert O'Brien, e gli inviati di Trump Brian Hook e Avi Berkowitz, rispettivamente per l'Iran e il Medioriente.
   Mentre i canali istituzionali veicolavano foto e immagini delle rappresentanze ufficiali, la stampa si interessava alle vicende personali dell'equipaggio. Nelle "stories" su Instagram di Shimon Yaish, corrispondente di «Israel Hayom», c'era Hedva, responsabile della cabina. Quello odierno sarà il suo ultimo volo. Hostess El Al fin dai tempi dei voli diretti con l'Iran, al ritorno da Abu Dhabi andrà direttamente in pensione. Un'assistente di volo, Liat Elazar, ha confessato al reporter che nelle ultime notti l'emozione le ha tolto il sonno. Pensava a come sarebbe stato orgoglioso suo padre, ucciso in un attacco terroristico in Turchia, con indosso l'uniforme El Al.
   C'è da aspettarsi che questo storico volo di andata (ieri) e ritorno (oggi) avrà un impatto anche sul destino della compagnia di bandiera dello stato ebraico, che da due mesi aveva lasciato a terra tutti i suoi aerei, effetto della crisi per il coronavirus. Un altro primato da ricordare per i voli LY 971 e LY972, numeri che corrispondono rispettivamente ai prefissi telefonici degli Emirati Arabi Uniti e di Israele. Il direttore ad interim degli affari internazionali di El Al, Stanley Morais, non se la sente di affermare che questa tappa salverà la compagnia, piagata dalle ingenti perdite (244 milioni di dollari) nella prima metà del 2020. Ma queste giornate hanno soffiato una ventata di ottimismo anche sul destino del vettore israeliano. «Del resto - ha commentato Morais - El Al esiste da quando esiste Israele, è un po' il suo brand, c'è sempre stato nei momenti storici». Nell'aprile 1980, un anno dopo la sigla degli accordi di pace tra Israele ed Egitto, aprì la rotta Tel Aviv - Il Cairo. «La situazione era molto diversa - ricorda il dirigente -. L'Egitto è stato il primo Paese arabo in assoluto a fare la pace con Israele, si trattava di una nazione confinante, da lungo tempo in guerra. Quello di oggi è un traguardo dell'epoca moderna, tecnologica, cyber». E poiché di business prevalentemente era stato stabilito che si sarebbe parlato, lasciando i temi di sicurezza e difesa a una delegazione in partenza nei prossimi giorni, a bordo del volo c'erano tecnici e diplomatici, direttori di ministeri ed esperti nei settori del turismo e della cultura, dell'innovazione e dell'hi-tech. Nessun politico, a parte il coordinatore della rappresentanza israeliana Meir Ben Shabbat, Consigliere per la Sicurezza Nazionale.
   E mentre si levavano gli scudi palestinesi contro l'evento, giudicato «una scena penosa» dal premier Shtayyeh e «una coltellata nella schiena del popolo palestinese» dal portavoce di Hamas, fonti israeliane citate dal sito Ynet confermavano le intese tra Hamas e il Qatar sulla crisi con lo stato ebraico. Da oggi riaprono il valico commerciale di Kerem Shalom e le zone di pesca al largo della costa della Striscia. Prima di avallare le altre richieste, Israele attende l'interruzione dei lanci di palloni incendiari da Gaza.

(La Stampa, 1 settembre 2020)


Un patto storico con gli arabi per arginare turchi e iraniani

II decollo è stato preceduto da una missione del Mossad. La nuova alleanza mette nell'angolo i palestinesi. Kushner: "Ora negoziate"

di Giordano Stabile

Le immagini delle bandiere israeliana ed emiratina affiancate, che dilagano ad Abu Dhabi e su Internet, fanno il paio con i poster del principe ereditario Mohammed bin Salman con la Stella di David impressa sulla tunica, a mo' di spregio, branditi dai manifestanti di fronte alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. «Adesso sarà più facile per un emiratino visitare Al-Aqsa che per noi palestinesi», ragionava uno di loro. Il volo fra la capitale dell'emirato e Tel Aviv dura tre ore. Il nuovo treno veloce porta dall'aeroporto alla Città Santa in trenta minuti. Il pellegrini benestanti del Golfo potrebbero presto affollare il terzo luogo santo dell'islam. Una sconfitta epocale per la causa palestinese.
   Anche se Jared Kushner ha invitato la dirigenza a rimettersi al tavolo del negoziato, Abu Mazen è all'angolo. Dopo il trasferimento dell'ambasciata Usa, dopo "l'accordo del secolo" che lo privava di un pezzo della Cisgiordania, ha puntato sulla solidarietà araba. Nessun accordo di pace con Israele se prima non nasce uno Stato palestinese, nei confini del 1967. Questo era il patto tacito.
   Bin Zayed ha rotto il tabù. Kushner e Donald Trump contavano che si trascinasse dietro altre nazioni arabe, Bahrein, Sudan l'Arabia Saudita. Prima delle elezioni del 3 novembre. Sarà difficile. Re Salman, a differenza del figlio Mohammed, pensa ancora in vecchio stile, non vuole correre rischi con l'opinione pubblica interna. E ha preferito che fosse l'uomo forte di Abu Dhabi a fare da apripista. Se la sua `visione" avrà successo, e il dissenso limitato, anche Riad seguirà. È una visione che verte soprattutto sulla sicurezza regionale. Bin Zayed vede i due fronti avversari sempre più uniti. Il primo nemico è l'Iran e il messianesimo sciita che infiamma le minoranze nel Levante e nella Penisola arabica. Non a caso il primo alto ufficiale israeliano a essere accolto è Meir Ben-Shabbat, a capo del Consiglio nazionale di sicurezza. Prima di lui era arrivato la settimana scorsa il numero uno del Mossad, Yossi Meir Cohen.
   Lo scambio di informazioni sarà cruciale per frenare i Pasdaran. Ma anche per affrontare il secondo fronte ostile, e cioè Turchia, Qatar e Fratellanza musulmana. Gli analisti israeliani sottolineano come le reazioni di Ankara e Teheran all'accordo di pace con gli Emirati siano state dello stesso tono. Subito dopo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha incontrato il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Istanbul. Lo stesso Erdogan ha evocato più volte la necessità di «liberare Gerusalemme». Retorica, propaganda, certo. Ma anche un modo per inserirsi nella spaccatura fra palestinesi e Stati arabi del Golfo.
   Abu Dhabi la giudica una dinamica pericolosa, perché può contare sulle finanze del Qatar, le meglio fornite nel Golfo. Doha finanzia Hamas, ma anche le milizie libiche, Ankara fornisce consiglieri militari, droni, la forza del secondo esercito della Nato. Messi assieme sono due rivali formidabili e questo ha spinto il principe Bin Zayed a osare sempre più.
   Lo Stato ebraico può dargli una grossa mano. I servizi emiratini già collaborano con il Mossad, sottobanco, da anni. Ora è probabile che ricevano supporto tecnologico. Il principe conta sull'ok di Benjamin Netanyahu per l'acquisto dei caccia invisibili americani F-35. Il che farebbe dell'aviazione di Abu Dhabi la seconda più letale in Medio Oriente, dopo quella israeliana. Il premier israeliano ha invitato una delegazione emiratina e precisato che «li accoglieremo con il tappeto rosso». Seguirà la firma degli accordi alla Casa Bianca, a metà settembre. Poi ci sono i dividenti economici. La legge sul boicottaggio contro Israele, che risaliva al 1972, è stata abrogata. Israele è collegata per la prima volta con il Golfo e gli hub aeroportuali che servono tutta l'Asia. Questo significa incrementare il traffico, soprattutto d'affari, e agevolare la trasformazione dell'emirato da rentier petrolifero a snodo del commercio e della finanza.
   Una scommessa che vale forse la rabbia dei palestinesi e il rischio di una fronda interna nel nome della "causa araba".

(La Stampa, 1 settembre 2020)


Israele nella nuova "Nato araba", mirino puntato su Iran e Erdogan

Il primo volo fra Tel Aviv e gli Emirati archivia anche il sogno palestinese di una patria autonoma

di Alberto Negri

Il volo commerciale tra Israele ed Emirati effettuato ieri è sicuramente un evento storico ma anche una storica presa in giro. II nome dell'aereo israeliano scritto sulla fusoliera è quella di una colonia, cioè quello di una terra strappata ai palestinesi, un nome ebraico che ha sostituito quello arabo originale.
   Ma non c'è dubbio che si sia trattato di un volo storico, anche per un altro motivo: l'Arabia Saudita ha concesso il suo spazio aereo, confermando due cose. In primo luogo lo stretto legame tra la monarchia degli Zayed negli Emirati e Riad, dove comanda il principe assassino Mohammed bin Salman, mandante dell'omicidio del giornalista Jamaal Khashoggi. In secondo luogo abbiamo l'indicazione che l'Arabia Saudita, pur con grandi esitazioni, potrebbe in un prossimo futuro seguire gli Emirati e riconoscere lo stato ebraico: un evento epocale perché i sauditi sono i custodi dei luoghi sacri dell'Islam.
   Ma anche restando ai dati attuali non si può non notare che questo accordo tra Israele ed Emirati sta delineando un asse di alleanze in Medio Oriente e nel Mediterraneo di grande rilevanza. Gli Emirati e l'Arabia Saudita, con il pieno appoggio americano, sono tra i maggiori sostenitori del generale egiziano Al Sisi che ha con Israele buoni rapporti nel campo della difesa e dell'intelligence. Questa alleanza che ha avuto e ha ancora il suo campo di battaglia nel sostegno, anche se molto meno convinto di prima, al generale libico Khalifa Haftar _ insieme a Russia e Francia _ fonda il suo collante ideologico nel fronte comune contro i Fratelli Musulmani e in generale contro i movimenti riformisti o rivoluzionari del mondo arabo.
   Ma ha soprattutto come nemico sul terreno la Turchia di Erdogan che si è impadronita della Libia e punta alla risorse energetiche di gas offshore nel Mediterraneo orientale. Non è certo un caso che in questa coalizione anti-turca ci sia in prima istanza la Grecia, avversario storico della Turchia, ma anche la Francia e Israele che hanno espresso solidarietà alle posizioni di Atene. Rafforzate dall'accordo sulle zone economiche speciali nel Mediterraneo proprio tra Grecia ed Egitto, un'intesa del mese di agosto che fa da controaltare a quella tra la Turchia e il governo del presidente Sarraj a Tripoli sulle acque territoriali e che ha poi condotto alla concessione ad Ankara di basi militari navali e aeree.
   Questo asse tra potenze arabe regionali e Israele è già stato definito come una sorta di "Nato araba" a trazione ebraica che oltre alla Turchia ha come avversario l'Iran, fortemente temuto proprio dalle monarchie del Golfo e dallo stesso Israele. Non dimentichiamo che l'anno è cominciato il 3 gennaio con l'assassinio da parte dell'America di Trump del generale iraniano Qassem Soleimani, colpito da i missili di un drone all'aeroporto di Baghdad, in violazione di ogni norma del diritto internazionale.
   Ma anche un altro episodio clamoroso va letto in questa ottica delle coalizioni nascenti: l'immane esplosione il 4 agosto al porto di Beirut. Incidente, attentato sabotaggio che sia, possiamo misurarne in queste ore le conseguenze. Il presidente francese Macron, esponente dell'ex potenza coloniale, si trova a Beirut - dove si è appena insediato il nuovo premier Mustafà Adib - per negoziare con i poteri libanesi ma soprattutto con Hezbollah, il movimento sciita protetto dall'Iran e che aveva proprio nel generale Soleimani un punto di riferimento militare ineludibile. La reazione di Hezbollah è stata interessante: il segretario generale di Hassan Nasrallah, ha aperto alla proposta di Macron di stringere un nuovo patto politico "ma a condizione che la discussione sia condotta con la volontà ed il consenso delle varie fazioni libanesi".
   Le mosse di Macron possono essere lette in due modi. II primo è che l'ex potenza coloniale ridiventa protagonista, si erge a protettrice di cristiani ma riconosce il peso politico di Hezbollah. Il secondo che gli Usa potrebbero essere irritati da queste ingerenze francesi perché il piano americano per il Medio Oriente, appoggiato dalla "Nato araba" e da Israele prevede, oltre all'annullamento dei diritti dei palestinesi, che sia totalmente ridimensionata l'influenza nella regione dell'Iran e dei suoi alleati, a partire da Hezbollah. Per questo gli Usa hanno varato pesanti sanzioni economiche contro Iran e Siria che colpiscono anche il Libano e in generale tutta la "Mezzaluna sciita".
   Ecco perché definire in questo contesto "accordo di pace" quello tra Israele ed Emirati è falso e fuorviante. In primo luogo Emirati e Israele non sono mai stati in guerra e non è previsto nulla che vada incontro alle esigenze di palestinesi e alla soluzione dei due stati: si tratta invece dell'affossamento di queste speranze. E poi in realtà siamo di fronte al varo di una coalizione politica e militare che gli Usa e Israele vorrebbero allargare ad altri stati arabi. Viene chiamata "Nato araba" perché affianca quella originale percorsa da tensioni altissime tra Grecia, Francia e Turchia nel Mediterraneo orientale.
   Un'alleanza atlantica dove la Germania cerca di ritagliarsi anche a Sud spazi di diplomazia autonomi ma che allo stesso tempo è nel mirino degli americani per il gasdotto Nord Stream II con la Russia e che è stata "punita" da Washington con lo spostamento di truppe americane in Polonia. Questo nasconde lo "storico" volo commerciale Israele-Emirati: allacciate le cinture.

(il Quotidiano, 1 settembre 2020)


Ma ora Israele teme la Turchia: "Erdogan il vero pericolo"

L'intelligence incontra i servizi arabi: "Oggi Iran più fragile. È Ankara la minaccia"

di Marco Ansaldo

Ora Israele teme la Turchia e lavora ad una strategia dotata di almeno tre obiettivi per indebolire Recep Tayyip Erdogan. Perché oggi non è più l'Iran, "potenza ormai declinante", nelle parole del direttore dell'agenzia di intelligence israeliana, Yossi Cohen, la "vera minaccia". Ma un Paese emergente e considerato più pericoloso.
   La recente intesa fra Israele e Emirati Arabi sta aprendo fronti inattesi in Medio Oriente. Altri Stati arabi si preparano all'iniziativa israeliana di un accordo. Ma il governo guarda con preoccupazione ai contatti sempre più frequenti di Ankara con Hamas a Gaza, i Fratelli musulmani in più Paesi arabi e Con i gruppi islamici anche in Galilea, fra gli araboisraeliani. Per non parlare di Gerusalemme Est, la parte palestinese della città, dove nei negozi e ristoranti un tempo si vedevano ritratti di Yasser Arafat ed ora sono stati sostituite da foto del presidente turco, vero anello di congiunzione con il network dei Fratelli musulmani, formidabile in termini di unione spirituale quanto finanziaria. In Galilea e in altre zone di Israele con una forte presenza araba Erdogan pompa fiumi di denaro attraverso le moschee.
   L'allarme, e il cambio di strategia di Gerusalemme, è arrivato in un vertice con i servizi segreti, non a caso di Paesi arabi: gli Emirati, l'Egitto e l'Arabia Saudita, quest'ultima sede del summit. "Il potere iraniano oggi è fragile - ha sostenuto Cohen - la Turchia ha capacità militari ben superiori". E l'intelligence israeliana per depotenziare Ankara si concentra su tre direzioni.
   Il piano discusso ha l'obiettivo di lavorare il "Rais" ai fianchi. La leva principale sono i curdi. I guerriglieri impegnano da quasi 40 anni l'esercito turco nel Sud Est dell'Anatolia in una guerra logorante. Un conflitto endemico, con decine di migliaia di vittime. Israeliani e Paesi arabi sono convinti di poter impegnare le forze armate di Erdogan su più fronti curdi, come Siria e Iraq, per arrivare a sfiancarlo.
   Punto numero due: la Siria di Bashar el Assad, da anni nemico giurato di Erdogan. L'idea è quella di usare, su quel fronte, gli iraniani alleati di Damasco mettendoli contro i turchi, cercando di indebolire ulteriormente Ankara piazzatasi nel nord curdo dopo l'offensiva militare dell'autunno scorso.
   Infine, l'Iraq. Nel nord Ankara intrattiene fruttuose relazioni commerciali con il governo del Kurdistan iracheno. Il sud è in mano agli sciiti, fino iraniani. L'intento è invece di agire sui partiti che rappresentano la comunità sunnita, togliendo alleati ad Ankara, e tentando un ribaltamento a favore degli arabi ora amici di Israele.

(la Repubblica, 1 settembre 2020)


Da 40 anni scomparsi De Palo e Toni. Giallo tra stragi e Olp

di Fulvio Scaglione

Italo Toni e Graziella De Palo
E' il 2 settembre 1980. I giornalisti italiani Graziella De Palo e Italo Toni escono dall'Hotel Triumph di Beirut e salgono su un'auto mandata dall'organizzazione palestinese Al Fatah. Hanno avvertito l'ambasciata d'Italia in Libano: se non torniamo entro tre giorni, venite a cercarci. Infatti non tornano, se ne perde ogni traccia. 2 settembre 2020, oggi: sono passati quarant'anni e la verità sulla sorte dei due giornalisti sembra ancora lontana. De Palo (24 anni) e Toni (50), compagni nella vita e vicini al Partito radicale, erano esperti di politica internazionale e si erano segnalati, poco prima del fatale viaggio in Libano, per inchieste che avevano fatto molto rumore (in particolare su "Paese Sera"). Lei aveva raccontato il traffico delle armi che partivano dall'Italia e, invece che ai destinatari "ufficiali", finivano a terroristi di vario genere, compresi i brigatisti nostrani. Lui aveva descritto i campi di addestramento in cui i miliziani palestinesi si preparavano alla guerriglia. Il viaggio in Libano, organizzato con la collaborazione dei rappresentanti in Italia dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, li portava nel cuore delle loro indagini. Il Paese era devastato dalla guerra civile, dall'ingerenza armata della Siria e dal perpetuo scontro tra i palestinesi e Israele. Ed era l'epicentro, anche spionistico, di una lunga serie di questioni mediterranee.
   Il 2 agosto di quell'anno, inoltre, la strage alla stazione di Bologna, con i suoi 85 morti, aveva sconvolto l'Italia. E tra le tante piste d'indagine era poi spuntata anche quella che legava l'attentato al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina: poco prima della strage, infatti, un militante del Fronte era stato arrestato a Ortona (Chieti) con due lanciamissili Sam-7 di produzione sovietica. Un intervento che annullava il cosiddetto "logo Moro", ovvero quel tacito patto politico per cui l'Italia sarebbe rimasta al riparo da attentati finché le organizzazioni palestinesi avessero potuto muoversi senza ostacoli nel nostro Paese. Il presidente Cossiga e la Commissione Mitrokhin, in seguito, indicarono proprio nei palestinesi i veri autori dell'attentato a Bologna. E da li a dedurre che il rapimento dei giornalisti italiani, a Beirut, avesse potuto essere una rappresaglia dei palestinesi per la questione dei lanciamissili, il passo era stato breve.
   Comunque sia, quel 2 settembre del 1980 Graziella De Palo e Italo Toni spariscono nel nulla. I palestinesi, che controllano la parte Ovest della città in cui si trova l'albergo dei giornalisti, accusano le milizie cristiane che controllano la parte Est, e viceversa. Nel mezzo la figura del colonnello Stefano Giovannone, capocentro del Sismi a Beirut, vecchia conoscenza di Aldo Moro che l'aveva anche nominato due volte nelle lettere scritte prima di essere ucciso dai brigatisti. Giovannone era stato tirato in ballo dalla De Palo nella sua inchiesta sui traffici d'armi ma è proprio a lui che, di fatto, viene assegnato il compito di indagare sulla sorte dei giornalisti. Giovannone diffonde tesi diverse, prima sostenendo che la De Palo è viva, poi che è morta. Nel 1982 la Procura di Roma apre una vera inchiesta giudiziaria ma il colonnello muore a sua volta nel 1985, quando è in attesa di giudizio.
   Della sorte dei due giornalisti italiani oggi non sappiamo molto più di allora. Inchieste giornalistiche e libri sono stati scritti negli anni, senza però venire a capo del mistero. Nel 1984 il Governo Craxi appose all'inchiesta il segreto di Stato, in seguito prorogato dal Governo Berlusconi. Nel 2014, essendo trascorsi i trent'anni previsti come limite massimo a tale provvedimento, una parte dei documenti è stata desecretata. Non però le carte decisive. Tanto da spingere la Federazione Nazionale della Stampa, il 25 giugno di quest'anno, a chiedere il sequestro presso la presidenza del Consiglio di tutti gli atti relativi all'inchiesta.
   A non arrendersi mai, in questi quarant'anni, sono stati i familiari dei due giornalisti, insieme ad alcuni esponenti politici e intellettuali. Nel dicembre del 2019, su richiesta loro e di alcuni colleghi di Graziella De Palo e Italo Toni, la Procura di Roma ha accettato di riaprire le indagini. L'esperienza non insegna a essere ottimisti. Ma la tenacia di chi cerca la verità si è mostrata più forte di tante, troppe delusioni.

(Avvenire, 1 settembre 2020)


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