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Notizie 16-30 settembre 2020


Israele, mortalità più degli Usa. Netanyahu: lockdown lungo

GERUSALEMME - Per la prima volta Israele ha superato gli Stati Uniti per numero di morti pro-capite a causa del Covid. Il tasso di mortalità nello Stato ebraico nell'ultima settimana è stato di 3,5 per milione di abitanti, mentre quello degli Usa è stato di 2,2. Israele ha registrato finora 1.507 decessi per coronavirus e 233.554 contagi, con poco più di 65mila pazienti attivi al momento, di cui 755 in gravi condizioni.
   Ieri il premier Benjamin Netanyahu, confermando le anticipazioni del ministro della Salute Yuli-Yoel Edelstein, ha detto che il lockdown imposto il 18 settembre in vista delle festività ebraiche, e che avrebbe dovuto essere revocato l'11 ottobre, in realtà durerà molto di più. Anche più di un mese, ha spiegato Bibi, facendo appello a «tutti i cittadini» affinché «obbediscano alle regole, senza eccezione.
   I provvedimenti restano quelli che erano già stati previsti a marzo: scuole chiuse, chiuse tutte le attività non essenziali, chiuse anche le sinagoghe e gli altri luoghi di preghiera. Divieto di allontanarsi da casa e divieto di assembramento. Misure severe anche contro le manifestazioni: si potrà protestare solo nel raggio di un chilometro dalla propria abitazione. Aspetto, questo, che sta sollevando molte polemiche all'interno della società civile israeliana in tanti ci vedono il tentativo di Netanyahu di zittire le proteste democratiche in corso da mesi e che, da mesi, chiedono le sue dimissioni. Tra le voci critiche, anche quelle di alcuni ministri dello stesso governo, a cominciare dal titolare della Difesa e futuro premier del governo a rotazione Benny Gantz (del partito centrista Blu Bianco). E stato lui, ieri, ad opporsi al tentativo del Likud (il partito del premier) di estendere i limiti alle manifestazioni anche dopo la fine del lockdown. Sempre lui, parlando a una commemorazione dei caduti nella guerra del Kippur (1973), ha espresso riserve sulla gestione della crisi. «In questi giorni - ha osservato - siamo in guerra in un campo di battaglia totalmente diverso. Ma dobbiamo onestamente ammettere che anche questa volta siamo stati colti di sorpresa. Abbiamo fatto soffrire il nostro eccellente sistema sanitario per anni. Non abbiamo risposto in maniera appropriata. E anche questa volta pagheremo un prezzo: un pesante costo di vite». R.E.
   
(Avvenire, 30 settembre 2020)


Bambini ''rapiti" dal clero perché ebrei, dagli archivi del Vaticano la verità sul caso Finaly

La verità sul caso di Robert e Gerard Finaly, i due fratellini ebrei contesi tra Vaticano e Israele negli anni '50.

Questo racconto si basa su documenti custoditi in Vaticano a cui si è avuto accesso (da parte di studiosi selezionati) soltanto a partire dal marzo dello scorso anno.
   L'accesso riguarda il periodo del pontificato di Pio XII, dal 2 marzo 1939 fino alla sua morte il 9 ottobre 1958.
   Ogni anno vi possono accedere solo 1200 studiosi da 60 Paesi.
   Le informazioni sono state raccolte da David Kertzer, vincitore del Premio Pulitzer per le Biografie nel 2015, il quale le ha pubblicate a fine agosto in un articolo su The Atlantic.
Nel 1938, immediatamente dopo l'Anschluss, il dottor in medicina Fritz Finaly e la moglie Anna, entrambi ebrei, lui di 37 e lei di 28 anni, fuggirono dall'Austria cercando di andare in Sud America. Non ci riuscirono e trovarono allora rifugio in un paesino poco lontano da Grenoble, in Francia. Dopo la creazione dello Stato fantoccio di Vichy fu impossibile continuare ad esercitare ufficialmente come medico ma, se pur in modo fortunoso, la coppia riuscì a sopravvivere. Nel 1941 Anna partorì il figlio Robert e nel 1942 il secondogenito Gerald. Nonostante la campagna antisemita instaurata dal governo del maresciallo Pétain su pressione dei tedeschi, i genitori riuscirono a circoncidere entrambi i bambini secondo i dettami della loro religione.
Purtroppo, la pressione tedesca sul governo di Vichy contro gli ebrei andò aumentando e impauriti dall'intensificarsi delle ispezioni della Gestapo, i due decisero, nel febbraio 1944, di mettere al sicuro i due bambini affidandoli ad una loro amica, tale Marie Paupaert.
   Temevano di essere arrestati e, infatti, quattro giorni dopo i tedeschi li catturarono e li deportarono ad Auschwitz dove morirono poche settimane più tardi. L'amica francese, visto ciò che era successo ai due amici, temette che i tedeschi potessero venire a cercare i bambini e li portò al convento di Notre Dame de Sion a Grenoble, sperando che fosse un luogo più sicuro.
   Tuttavia, le suore, sentendosi incapaci di prendersi cura di due esseri così piccoli, li consegnarono a loro volta ad una locale scuola materna diretta dalla Signora Antoinette Brun, una donna di mezza età non sposata.
   Quella appena descritta potrebbe essere una delle innumerevoli storie di famiglie di ebrei in fuga dai nazisti e ricorda anche quanto successe a quella eccezionale scrittrice ebrea che fu la russa (rifugiatasi in Francia dopo la rivoluzione) Irene Nemirovsky.
   Si tratta, invece, di una storia speciale che suscitò scalpore nella Francia dei primi anni cinquanta e che ha acquistato una nuova luce dopo che il 24 marzo 2019 è stato dato libero accesso agli Archivi Segreti Vaticani (oggi denominati Archivio Apostolico Vaticano) per i documenti riguardanti il periodo del papato di Pio XII.
   Tutto cominciò quando, nel Febbraio 1945 e con la Francia già occupata dagli alleati, una sorella di Fritz, Margherita Finaly (rifugiatasi in Nuova Zelanda durante gli anni terribili), cercò di ottenere che i due nipotini la potessero raggiungere nel suo nuovo Paese di residenza.
   Margherita scrisse alla Brun ringraziandola e chiedendo il suo aiuto per organizzare il viaggio di Robert e di Gerald. La Brun rispose in maniera evasiva all'ipotesi di lasciar partire i due bambini (allora di quattro e tre anni) affermando anche di essere stata nominata loro tutrice da un giudice locale. Margherita non si dette per vinta e assieme alle altre due sorelle, una che viveva in Israele, l'altra anch'essa in Nuova Zelanda e con la cognata Auguste (moglie del fratello Richard catturato e ucciso dai nazisti a Vienna) scrisse al sindaco del paesino. In assenza di alcun riscontro positivo, Auguste che viveva in Gran Bretagna si recò a Grenoble per incontrare la Brun. Costei, anziché collaborare si dimostrò ostile ed affermò definitivamente che non avrebbe mai restituito i bambini.
   
A questo punto comincia il vero dramma, la cui storia diventa più completa grazie alla lettura dei documenti custoditi in Vaticano. Si scopre così che la Brun con l'accordo del vescovo locale aveva battezzato i due bambini nonostante ne conoscesse l'ascendenza ebraica e che, essendo essi diventati cattolici, erano "proprietà" della Chiesa di Roma e mai più sarebbero stati "sottomessi" ad una famiglia ebrea.
I Finaly si rivolsero allora ad un tribunale francese che nel Luglio 1952 ordinò alla Brun di consegnare i bambini ai parenti dei genitori. Come tutta risposta le locali le suore del convento di Notre Dame de Sion li nascosero, sembra su suggerimento dell'arcivescovo di Lione il Cardinale Gerlier. Nel Novembre 1952 il tribunale francese emise un ordine esecutivo ma le suore si rivolsero alla Corte d'Appello per chiedere una nuova sentenza.
Nel frattempo, la stampa francese aveva cominciato ad occuparsi del caso e il Cardinale Gerlier chiese istruzioni al Vaticano. Il Sacro Uffizio (oggi conosciuto come Congregazione per la Dottrina della Fede) suggerì, come risposta, di attendere la sentenza della Corte d'Appello e comunque, in caso di decisione sfavorevole, di "suggerire alla signora Brun di resistere, magari appellandosi alla Corte di Cassazione, e di usare tutti i mezzi legali per ritardare il più a lungo possibile l'esecuzione di una eventuale nuova sentenza sfavorevole.
   Nell'attesa del nuovo giudizio, le suore decisero di spostare i bambini in una scuola cattolica vicino al confine spagnolo e di registrarli colà sotto falso nome. Prima di farlo, chiesero e ottennero l'approvazione del vescovo locale. La giustizia francese non fu inerte e il 29 gennaio 1953 la madre superiora del convento fu arrestata. Con lei finirono in prigione alcuni monaci e suore considerati complici. Il Sacro Uffizio informò per iscritto Papa Pio XII di quanto stava accadendo, specificando che "gli ebrei, in combutta con i massoni e i socialisti hanno organizzato una campagna di stampa internazionale" su questo caso.
   La cosa, oramai di dominio pubblico, stava diventando imbarazzante per le gerarchie cattoliche e il Vaticano, con la mediazione dell'ambasciata francese a Roma e il Nunzio a Parigi cercò quindi un accordo che prevedeva la consegna dei ragazzi ai parenti purché ci fosse la garanzia che "si prendano le opportune precauzioni per assicurare che loro (i ragazzi) non siano soggetti a diventare ancora ebrei". L'allora Cardinal Montini (poi Papa Paolo VI), incaricato dal Papa di seguire l'affaire, scrisse al Nunzio a Parigi un telegramma in codice:
   "E' bene che il Sacro Uffizio non appaia (come ispiratore dell'accordo - n.d.r.)". In altre parole, il Vaticano appoggiò dapprima la sparizione dei ragazzi ma, in un secondo momento, volle che tutta la questione apparisse soltanto come dovuta a responsabilità locali.
   Nonostante l'intesa apparentemente raggiunta e gli arresti e le sentenze dei tribunali francesi, i due ragazzi furono inviati in un convento di monaci in Spagna con l'ordine di essere tenuti nascosti. Nel frattempo, col tentativo di recuperare il favore dell'opinione pubblica, il Cardinale Montini mandò al Nunzio Vaticano in Svizzera la bozza di un articolo che avrebbe dovuto apparire su un giornale locale come firmato da un qualunque redattore. Nel pezzo, ritrovato tra i documenti vaticani, si sosteneva che i due ragazzi si autoconsideravano dei "rifugiati" e invocavano il diritto d'asilo in Spagna. Era l'aprile del 1953 e i ragazzi avevano oramai dodici e undici anni.
Passarono altri tre mesi senza nuove notizie. Si sapeva che stavano in Spagna ma non esattamente dove. Si mossero allora la diplomazia francese, quella spagnola e quella israeliana. Alla fine, il clero spagnolo affermò ufficialmente che "senza un ordine formale che arrivi da Roma, i ragazzi rimarranno nella clandestinità".
La pressione mediatica mondiale comunque stava montando e, ad un certo punto, in Vaticano si cominciò a temere per la ripercussione negativa sull'immagine del papato stesso. L'Osservatore Romano pubblicò allora un articolo in cui si sosteneva che l'accordo raggiunto dall'episcopato francese non avrebbe permesso alla famiglia Finaly di portare i ragazzi in Israele per farli diventare ancora ebrei.
   "I due ragazzi … hanno dichiarato il loro desiderio di rimanere cattolici … di professare e praticare il cattolicesimo ".
   Le pressioni dell'opinione pubblica, tuttavia, erano così così forti in Francia da obbligare il Vaticano a dare via libera alla restituzione dei due ragazzi. Il 25 di Luglio i due atterravano finalmente a Tel Aviv.
   Ciononostante, il cardinale Montini scrisse alla fine di settembre una lettera di protesta al governo francese attraverso l'ambasciatore presso il Vaticano sottolineando che i due ragazzi erano stati battezzati e che con il loro viaggio in Israele "la loro educazione cattolica sarebbe stata compromessa".
   Gerard dopo essere diventato ufficiale dell'esercito israeliano ha lavorato come ingegnere. Robert ha esercitato da medico, esattamente come suo padre.
   A difesa di Montini occorre ricordare che, da Papa, portò a termine il Concilio Ecumenico Vaticano II e nel 1965 fece pubblicare un testo (Nostra Aetate-già preparato in bozza da Giovanni XXIII col titolo Decreto sugli Ebrei) in cui si sosteneva che la religione giudaica e gli ebrei, così come gli islamici, dovevano essere considerate con totale rispetto.

(Sputnik Italia, 29 settembre 2020)


Il kippur ai tempi del lockdown

Come la solenne festività è stata vissuta dalla comunità ebraica di origine italiana a Gerusalemme.

di Beniamino Lazar*

Sinagoga italiana di Conegliano Veneto a Gerusalemme
 
Sinagoga italiana di Conegliano Veneto a Gerusalemme
Sono trascorse pochissime ore dal termine della solenne giornata del digiuno del Kippur, che gli ebrei di tutto il mondo hanno festeggiato e ricordato ieri e l'altro ieri sera, con le preghiere e con il digiuno assoluto per oltre 25 ore. Anche la collettività ebraica di origine italiana a Gerusalemme ha festeggiato e ricordato in forma solenne la giornata, ma questa volta dovendo tenere presente le limitazioni causate dal Covid 19 e dall'entrata in vigore del secondo lock down; e tra queste il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione, oltre i mille metri, e il divieto quasi assoluto di usare l'interno delle sinagoghe, ed evitare qualsiasi forma di assembramento.
  Mentre negli anni passati, dal lontano 1952, la sinagoga italiana di Conegliano Veneto, ubicata al centro di Gerusalemme, nella centrale arteria Hillel street, è stata il centro spirituale della comunità di origine italiana a Gerusalemme in particolare e in Israele in generale, quest'anno, a causa delle limitazioni di spostamento e di assembramento, si sono dovute trovare all'ultimo momento delle soluzioni alternative, per rispondere e far fronte alle necessità della grande comunità gerosolomitana.
  Mentre per chi abita al centro di Gerusalemme si sono tenute regolarmente nel piazzale antistante la sinagoga di Conegliano Veneto, con un discreto numero di partecipanti, tutti chiaramente con mascherina e seduti a debita distanza [grazie ai hazanim Emanuele Della Torre, Eran Jarach, Astorre Modena, Marco Moscati e Gavriel Orvieto], una nuova sinagoga, già di per se esistente, si è creata all'aperto nella Via Chopin, non lontana dal Teatro di Gerusalemme e dalla via Palmach, nel quartiere di Katamon Hayeshana'.
  Questa sinagoga all'aperto ha visto la partecipazione di oltre 80 persone, nonostante la temperatura, durante la giornata di ieri, di oltre 34 gradi. Questo gruppo ha avuto l'onore e la sorpresa di avere come ospite il Presidente della Repubblica Reuven Rubi Rivlin, la cui Residenza ufficiale confina con lo spazio all'aperto ove ha pregato il gruppo del cosiddetto "Tempio italiano di Chopin".
  Il Presidente Rublin in forma riservata ha seguito tutte le preghiere, da quelle iniziale del Kol Nidre' e sino alla preghiera finale di Neila', con il suono dello shofar. Per il Presidente Rivlin è stata la prima volta in cui ha seguito delle preghiere in base al cosiddetto rito "dei figli di Roma" - "Minhag bnei romi"; al termine delle preghiere, ieri sera, il responsabile della congregazione Samuele Giannetti ha donato al Presidente Rivlin copia del libro di preghiere della giornata del Kippur in base al rito romano.
  Validi cantori, hazanim, Angelo Piattelli, Daniel Di Veroli, Marco Ottolenghi, Jonathan Sierra, Davide Nizza e Samuele Giannetti. Un'altra sinagoga, quella che si chiama Schola Tempio, sotto la direzione di Jonathan Pacifici e Raffi Steindler, ha anche raccolto un certo numero di persone, nel terrazzo di una casa privata, nella via Harav Berlin, nel quartiere di Kiriat Shmuel, sempre osservando le regole del Covid, e permettendo a tutti i presenti di pregare e festeggiare l'importante ricorrenza seguendo le melodie tipiche della comunità ebraica di Roma.
  Un quarto minian, una quarta sinagoga all'aperto, si è organizzata nel quartiere di S. Simon, organizzata dal sig. Micha Ben Zimra e dal dr. Chanoch Cassuto, per raccogliere gli interessati e poter pregare in base al rito spagnolo della comunità ebraica di Firenze.
  In poche parole, quattro gruppi diversi, in ubicazioni separate, per permettere a tutti i componenti della non piccola e variegata collettività italiana di Gerusalemme di partecipare e di pregare in base alle melodie e tradizioni delle antiche comunità ebraiche italiane, trapiantate oramai da anni in terra di Israele.

* Presidente Comites Gerusalemme

(aise, 30 settembre 2020)


Israele - Il nuovo anno ebraico nel segno del lockdown. Ma la scienza fa sperare

Dinanzi alle minacce nel Paese non c'è unità

di Meir Onziel*

Come vivono gli israeliani l'inizio di questo nuovo anno ebraico, il 5781, tra nuove alleanze, una nuova ondata di coronavirus e la crescente tensione politica interna? Da migliaia di anni, gli ebrei celebrano il loro capodanno con l'inizio dell'autunno. Dopo dieci giorni, cade la celebrazione più solenne del calendario ebraico, lo Yom Kippur. Il giorno del digiuno di espiazione e preghiera in cui Israele è tradizionalmente paralizzato in una sorta di lockdown volontario: tutti i negozi chiusi, niente mezzi di trasporto, la gente che passeggia indisturbata nelle autostrade vuote. La maggioranza della popolazione digiuna e le sinagoghe sono affollate. Non è stato così quest'anno. L'aumento dei contagi ha costretto Israele a un lockdown obbligato, il secondo dallo scoppio della pandemia, e alla limitazione dei raduni al chiuso. Quest'anno i fedeli hanno pregato quindi davanti al tempio, in gruppi distanziati, digiunando per 25 ore, cercando il conforto dell'ombra nel caldo torrido di quest'estate che non finisce.
   Ma non c'è ombra che possa riparare dalle alte temperature del dibattito tra gli oppositori del primo ministro Netanyahu e i suoi elettori. Dopo che tre campagne elettorali in un anno non sono riuscite a fargli abbandonare l'ufficio del primo ministro, è giunta la stagione delle manifestazioni il cui slogan è "salviamo la democrazia israeliana". Quando Netanyahu è volato alla Casa Bianca per firmare lo storico accordo di pace con gli Emirati e il Bahrein, i manifestanti hanno cercato di sbarrargli la strada per l'aeroporto. Quando è tornato con questo grande risultato, l'hanno atteso con cartelli "Perché sei tornato? Vattene!". La polarizzazione è evidente anche in tribunale, dove Netanyahu è sotto processo per corruzione, frode e abuso di potere, ma molti israeliani credono si stia facendo un uso politico della giustizia.
   Dando uno sguardo al consueto rapporto dell'Istituto nazionale di statistica in vista del nuovo anno, la foto del Paese sembra meno grigia di quanto non risulti dalla piazza. Gli ultimi dati indicano che la popolazione israeliana conta 9.246.000 abitanti, in crescita dell'1,6% rispetto all'anno precedente. Conflitti e tensioni sociali non mancano: quasi ogni giovane serve nell'esercito, e il costo della vita è molto alto. Eppure, anche nell'anno sciagurato della pandemia, le statistiche mostrano che l'88,8% degli israeliani continua a provare un elevato livello di soddisfazione per la propria vita (più della media Ocse, 77,4%). L'aspettativa di vita è tra le più alte al mondo: 82 anni per gli uomini, 85 per le donne. Ottimo anche lo stato dell'economia, con un rating invidiabile del debito pubblico. Certo, alla fine dell'anno della pandemia, il Pil calerà del 6% secondo l'Ocse, facendo comunque meglio dell'Eurozona che dovrebbe perdere quasi 8 punti.
   Israele continua a subire l'ostilità del mondo musulmano. L'Iran ne invoca la distruzione, così come alcune fazioni palestinesi guidate da Hamas. Dinanzi a queste minacce, il Paese non mostra unità. Sebbene dopo le ultime elezioni, Kahol Lavan — il partito che ha condotto un anno di campagne elettorali all'insegna del "Tutto tranne Bibi" — abbia formato una coalizione di governo con Netanyahu, a livello di opinione pubblica l'ostilità al premier è così radicata che persino gli accordi di pace appena stipulati non sono stati accolti con grande entusiasmo. Non si contano le partnership di cooperazione economica e scientifica già avviate con i Paesi del Golfo, e chi può rimanere indifferente al video di quella ragazzina di Abu Dhabi che intona l'inno israeliano Hatikva? Gli israeliani sono abituati all'odio nei loro confronti, non a simili espressioni d'amore. Eppure, oltre alla comprensibile avversione di alcuni elettori dei partiti arabi (12,5% dei seggi della Knesset), anche nel campo della pace c'è chi non riesce a rallegrarsi perché la svolta è arrivata grazie a Netanyahu, che potrebbe trarne vantaggio politico.
   Il nuovo anno ebraico si apre mentre i laboratori di tutto il mondo lavorano al vaccino per il Covid. In Israele l'Istituto biologico di Ness Ziona ha iniziato la sperimentazione sugli esseri umani. Sarà forse la scienza a fornire la speranza di una nuova unità per il Paese? —

*Editorialista del quotidiano israeliano "Maariv"

(la Repubblica, 30 settembre 2020 - trad. Sharon Nizza)


Netanyahu punta il dito contro i "veri nemici del Medio Oriente"

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha affermato che Hezbollah possiede un deposito di armi nei pressi dell'aeroporto di Beirut, in un momento in cui Israele e altri Paesi sono impegnati ad affrontare "i veri nemici del Medio Oriente", ovvero l'Iran e i suoi alleati.
  Le parole del premier israeliano sono giunte nella sera del 29 settembre, in un discorso pronunciato virtualmente dinanzi all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In particolare, Netanyahu ha rivelato l'esistenza di un magazzino appartenente al cosiddetto "Partito di Dio" nei pressi dell'aeroporto della capitale libanese, già testimone di una violenta esplosione il 4 agosto scorso. Quest'ultima, come precisato dal premier stesso, ha provocato la morte di circa 200 persone, mentre altre 1000 sono rimaste ferite e circa "un quarto di milione di libanesi sono rimasti senza casa". Tuttavia, a detta di Netanyahu, vi è il rischio di una nuova esplosione nel quartiere di Janah, nei pressi dell'aeroporto internazionale di Beirut, dove il partito sciita sostenuto dall'Iran possiede, "segretamente", un grande deposito di armi. Stando a quanto precisato, il magazzino è situato nei pressi della sede di una compagnia petrolifera, ed è circondato da abitazioni civili.
  Di fronte a tale ipotesi, Netanyahu ha esortato gli abitanti di Janah ad agire e a scendere per le strade, in segno di protesta contro quella che potrebbe rivelarsi un'altra tragedia. Rivolgendosi all'intera popolazione libanese, il primo ministro ha poi dichiarato che Israele non farà loro del male, diversamente dall'Iran. In particolare, sono stati Teheran ed Hezbollah ad aver messo in pericolo il popolo libanese, utilizzando i cittadini come "scudi umani" e, per tale ragione, è lo stesso popolo a dover richiedere l'abbattimento dei pericolosi magazzini, la cui presenza è inaccettabile.
  Il segretario del partito sciita, Hassan Nasrallah, ha risposto quasi nell'immediato alle dichiarazioni di Netanyahu, affermando che quest'ultimo cerca di incitare i libanesi contro Hezbollah, parlando della presenza di siti missilistici. In realtà, ha riferito Nasrallah, il suo partito non ha posto missili nel porto di Beirut o nei pressi di una stazione di servizio, né tantomeno nelle vicinanze di abitazioni civili. Le dichiarazioni di Netanyahu, a detta del leader di Hezbollah, sono da collocarsi nel quadro di una "guerra psicologica".
  Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Netanyahu ha poi puntato il dito contro un altro avversario regionale, l'Iran. "Israele e i Paesi arabi non stanno insieme solo per il bene della pace, siamo insieme di fronte al più grande nemico della pace in Medio Oriente, l'Iran". Quest'ultimo, a detta del premier israeliano, attacca ripetutamente i suoi vicini ed è impegnato per procura in azioni violente in Iraq, Siria, Yemen, Gaza e Libano.
  Netanyahu ha poi espresso soddisfazione per il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare iraniano e per la successiva re-imposizione di sanzioni. In tale quadro, Netanyahu ha affermato che, in un momento in cui vi sono divergenze all'interno del Consiglio di Sicurezza, vi è unità a livello regionale tra arabi e israeliani, e quando ciò accade "bisogna prestare attenzione". "Israele invita tutti i membri del Consiglio di sicurezza a porsi a fianco degli Stati Uniti di fronte all'aggressione iraniana. Dobbiamo tutti schierarci con loro, chiedendo all'Iran di porre fine al suo piano nucleare, e, una volta per tutte, affrontare la minaccia maggiore alla pace regionale".
  Il primo ministro ha altresì fatto riferimento ai recenti accordi di normalizzazione con il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti (UAE), siglati ufficialmente il 15 settembre alla Casa Bianca. Tale intesa, a detta di Netanyahu, porterà pace e benefici ai popoli interessati, derivanti da un numero maggiore di scambi e investimenti, oltre che da un potenziamento di alcuni settori, quali commercio, turismo e trasporti. "Sono certo che altri Paesi arabi e musulmani si uniranno presto, molto presto" ha poi affermato Netanyahu.

(Sicurezza Internazionale, 30 settembre 2020)


Gli arabi: "I palestinesi ripetono gli stessi errori"

di Khaled Abu Toameh

Diverse fazioni palestinesi hanno esortato la leadership palestinese a ritirarsi dalla Lega Araba per protestare contro il rifiuto dei Paesi arabi di condannare la normalizzazione delle relazioni con Israele. All'inizio di questo mese, i ministri degli Affari Esteri della Lega Araba si sono rifiutati di approvare un progetto di risoluzione palestinese che condanna gli EAU per la loro decisione di fare pace con Israele.
     I palestinesi hanno richiamato i loro ambasciatori negli Emirati Arabi Uniti e in Bahrein per protestare contro la firma degli accordi di pace tra i due Paesi del Golfo Persico e Israele. I palestinesi minacciano ora di ritirare i loro inviati da qualsiasi Paese arabo che faccia altrettanto e stabilisca relazioni con Israele.
     Inoltre, diverse fazioni palestinesi hanno esortato la leadership palestinese a ritirarsi dalla Lega Araba per protestare contro il rifiuto dei Paesi arabi di condannare la normalizzazione delle relazioni con Israele. All'inizio di questo mese, i ministri degli Affari Esteri della Lega Araba si sono rifiutati di approvare un progetto di risoluzione palestinese che condanna gli EAU per la loro decisione di fare pace con Israele.
     "Le risoluzioni della Lega Araba sono vincolate all'amministrazione americana sionista", hanno asserito le fazioni in un comunicato. "La normalizzazione delle relazioni [con Israele] è un grosso tradimento della questione palestinese e una pugnalata ai sacrifici e al dolore dei palestinesi e degli arabi".
     Le minacce di ritirarsi dalla Lega Araba e di richiamare gli ambasciatori palestinesi dai Paesi arabi che stabiliscono relazioni con Israele hanno suscitato scherno e scatenato una raffica di commenti nel mondo arabo, in particolare negli Stati del Golfo. Il tema principale delle critiche è che i palestinesi non imparano dai loro errori.
     Le critiche arabe, dirette principalmente contro i leader dei palestinesi, sono l'ennesimo segnale del crescente antagonismo tra i palestinesi e il mondo arabo. Di questo passo, i palestinesi potrebbero svegliarsi una mattina e scoprire di non avere più amici nei Paesi arabi.
     Molti arabi hanno espresso indignazione per le minacce palestinesi, così come per gli attacchi quotidiani agli Emirati Arabi Uniti e al Bahrein. Tali attacchi includono le accuse secondo cui i due Stati del Golfo Persico hanno "tradito la Moschea di al-Aqsa, Gerusalemme e la questione palestinese" accettando di stabilire relazioni con Israele. Gli arabi rammentano altresì ai palestinesi le numerose opportunità che hanno perso quando hanno respinto un certo numero di iniziative e di piani di pace.
     Il giornalista palestinese Khairallah Khairallah si è indignato del fatto che la cerimonia della firma degli accordi tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein alla Casa Bianca sia stata etichettata come un "giorno nero".
     Khairallah ha rilevato che i palestinesi fanno riferimento alla loro espulsione dalla Giordania avvenuta all'inizio degli anni Settanta, definendola "Settembre nero". All'epoca, egli ha dichiarato, una fazione separatista palestinese con quel nome cercò di creare in Giordania uno Stato dentro lo Stato e di uccidere Re Hussein di Giordania. Il sovrano, dopo la sua sconfitta nel 1967 nella guerra dei Sei Giorni, aveva consentito all'OLP di istituire basi militari nel suo regno, presumibilmente per attaccare Israele. Ma quando i palestinesi cercarono di rovesciare il governo giordano Re Hussein li espulse dal territorio giordano e loro si rifugiarono in Libano. Lì parteciparono alla guerra civile iniziata nel 1975 e continuarono a lanciare attacchi terroristici contro Israele. Nel 1982, dopo che Israele guidò un'invasione in Libano, i palestinesi vennero nuovamente espulsi, stavolta in Tunisia.
     "Cinquant'anni dopo 'Settembre nero' o come lo si voglia chiamare, non è cambiato nulla", ha scritto Khairallah .
    "I leader palestinesi si rifiutano di imparare dalle esperienze passate. Le organizzazioni armate palestinesi hanno reiterato l'esperienza della Giordania in Libano. Hanno svolto un ruolo nella distruzione del Libano [durante la guerra civile]. La questione palestinese ne avrebbe beneficiato se le organizzazioni palestinesi fossero riuscite nel 1970 a rovesciare Re Hussein?"
Khairallah ha osservato che l'ex leader dell'OLP Yasser Arafat commise un "grosso errore" nel 1990 quando prese una posizione a sostegno dell'invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, Paese che aveva ospitato pacificamente quasi mezzo milione di lavoratori palestinesi. Dopo che il Kuwait venne liberato dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti nel 1991, centinaia di migliaia di palestinesi, considerati traditori, furono deportati dal Kuwait e da altri Stati del Golfo.
     "Yasser Arafat non ha imparato dalle esperienze di Giordania e Libano", ha aggiunto Khairallah.
    "Ci si aspettava che Abu Mazen [Mahmoud Abbas] avrebbe imparato dagli errori di Yasser Arafat e da quelli delle esperienze di Giordania e Libano, ma lui ha preso il peggio da Arafat. Mezzo secolo dopo ciò che i palestinesi definiscono 'Settembre nero' non è cambiato nulla. I palestinesi hanno ancora la capacità di commettere gli stessi errori." (Al-Arab, 20 settembre 2020)

     L'analista politico saudita Sami al-Morshid ha precisato che la leadership palestinese in passato ha rigettato un certo numero di iniziative e di piani di pace. Ogni volta che i palestinesi fanno questo, ha affermato al-Morshid, "perdono".
    "Purtroppo, i leader palestinesi ripetono gli stessi errori. Hanno respinto le iniziative di pace egiziane e giordane [con Israele] e hanno rigettato l'iniziativa di pace del presidente americano Bill Clinton [al vertice di Camp David del 2000]. In questi giorni, respingono l'iniziativa di pace del presidente Donald Trump e infine hanno rigettato le iniziative di pace degli EAU e del Bahrein".
Lo scrittore iracheno Farouk Youssef ha affermato che il problema dei palestinesi è che i loro leader non vogliono uno Stato palestinese. "I palestinesi non sono riusciti a creare il loro Stato", ha osservato Youssef.
    "I palestinesi non sono riusciti a stabilire il loro Stato. Hanno fallito perché non volevano crearlo. Qui mi riferisco ai leader politici, alcuni dei quali insistono ancora nel ripetere frasi rivoluzionarie. La creazione di uno Stato palestinese sarà un peso per i leader palestinesi e impedirà loro di praticare la corruzione. (...) L'Autorità Palestinese non è più adatta a rappresentare il popolo palestinese." (Al-Arabiya, 19 settembre 2020)
Il giornalista egiziano Imad Adeeb ha scritto che se lui fosse stato al posto della leadership palestinese avrebbe preso le distanze dal Qatar, dalla Turchia e dall'Iran. Adeeb ha inoltre consigliato ai leader palestinesi di evitare insulti e calunnie nei confronti degli arabi:
    "Se fossi stato uno dei leader palestinesi, avrei abbandonato l'intransigenza politica e l'uso di insulti, di calunnie e di un linguaggio finalizzato all'istigazione. (...) Se fossi stato al posto della leadership palestinese, avrei approfittato dell'iniziativa di pace degli EAU. Se fossi stato al posto della leadership palestinese, non avrei giocato al gioco del Qatar, della Turchia e dell'Iran contro i Paesi arabi moderati." (Al-Watan, 8 settembre 2020)
Lo scrittore saudita Yusef al-Qabalan ha altresì accusato i leader palestinesi di aver respinto ripetutamente negli ultimi decenni le iniziative di pace. Rilevando che i palestinesi non sono riusciti a trarre vantaggio dall'Iniziativa di pace araba, adottata nel 2002 dai leader arabi, al-Qabalan ha scritto:
    "La scelta realistica da parte dei leader palestinesi è stata quella di attivare a livello internazionale quell'iniziativa araba. Cosa è successo? I leader palestinesi hanno accolto le iniziative di pace con la retorica del tradimento e con slogan che non approdano a nulla. I leader palestinesi si sono rivolti ai trafficanti della loro questione, come l'Iran, la Turchia e il Qatar, e hanno perso la loro carta migliore, che è quella dell'unità nazionale. I leader palestinesi non sono riusciti a investire nelle opportunità. Non sono riusciti a prendere decisioni strategiche e hanno [piuttosto] preferito stringere un'alleanza con l'Iran." (Al-Riyadh, 18 settembre 2020)
Il clerico islamico degli EAU, Wassem Yousef, rivolgendosi ai palestinesi e ad altri arabi che non accettano la pace con Israele, ha scritto su Twitter:
    "Israele non ha distrutto la Siria; Israele non ha bruciato la Libia; Israele non ha rimpiazzato la popolazione egiziana; Israele non ha distrutto la Libia e Israele non ha fatto a pezzi il Libano. Prima di incolpare Israele, voi arabi guardatevi allo specchio. Il problema è dentro di voi."
Intanto, i leader palestinesi ignorano i messaggi e i consigli dei loro fratelli arabi. Ai leader palestinesi in Cisgiordania e a Hamas nella Striscia di Gaza non piace che si ricordino i loro errori. Inoltre, non sono disposti ad accettare alcun consiglio, anche quando tali moniti provengono dai Paesi arabi che hanno versato loro miliardi di dollari. Ovviamente, i principali perdenti sono ancora una volta i palestinesi, i quali stanno rapidamente perdendo il sostegno di un crescente numero di arabi.

Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.

(Gatestone Institute, 30 settembre 2020 - trad. di Angelita La Spada)


Libia ebraica

Salomon Belforte, 500 pp., 30 euro, a cura di Jacques Roumani David Meghnagi e Judith Roumani

di Alessandro Litta Modignani

Libia ebraica è un libro collettaneo, la raccolta di varie testimonianze e immagini fotografiche di un mondo millenario, oggi cancellato per sempre. Sulla base dei riscontri archeologici, le prime presenze ebraiche si registrano in Libia intorno al 300 a. C. Ne consegue che, al momento dell'invasione araba del Mahgreb, gli ebrei vivevano in quelle terre già mille anni prima dei conquistatori musulmani. Avevano vissuto, da minoranza religiosa, sotto il dominio di varie civiltà, con alterne vicende, sempre coniugando le tradizioni ebraiche con quelle specificamente locali. Nel XVI secolo fu la volta dei turchi ottomani, sotto i quali gli ebrei vissero nella condizione di "dhimmi" (protetti, cioè sottomessi, tassati e umiliati): un trattamento che durò fino al 1911, con l'occupazione italiana.
   "L'impatto del mondo arabo con il colonialismo europeo fu per gli ebrei della regione una possibilità di emancipazione da una condizione secolare di oppressione, insicurezza e umiliazione", scrive David Meghnagi. Le vicende più recenti, quelle del Novecento, sono narrate con sofferenza e passione. Nel 1943, dopo uno dei tanti rovesciamenti di fronte, circa 2.600 ebrei furono deportati nel campo di concentramento di Giado, duecento chilometri a sud di Tripoli. Moriranno in 562 di malnutrizione, maltrattamenti, tifo. Molti altri saranno deportati in un viaggio della morte, dolorosamente narrato da Yossi Sucary nel libro Benghazi-Bergen Belsen.
   La guerra finisce, ma non per gli ebrei: nel novembre del '45 un pogrom scatenato dagli arabi provoca 130 morti e centinaia di feriti e mutilati. La convivenza fra ebrei e musulmani, che durava da 13 secoli, passa da difficile a impossibile nell'arco di pochi anni. Alcuni arabi tuttavia si distinguono nell'aiutare le famiglie ebraiche amiche a nascondersi e a mettersi in salvo. Le testimonianze sono atroci: "Poi di notte sentimmo delle urla, da ogni casa. Urla, urla, urla, tutti urlavano. C'era una bambina piccola (piange), le strapparono gli occhi di fronte a sua madre. Le avvolsero in un tappeto di paglia, lei e sua madre, versarono della benzina e le bruciarono. Li ho visti tutti. Non posso dimenticare". Tre anni dopo, nel '48, segue un secondo pogrom, alla nascita di Israele. Stavolta però gli ebrei non si fanno trovare impreparati, anche grazie all'addestramento ricevuto dai soldati della Brigata ebraica. Restano uccisi 19 ebrei e 92 arabi: gli ebrei libici hanno imparato a difendersi.
   La comunità che contava ai tempi del censimento ottomano fino a 38 mila persone, è costretta ad andarsene. Più del 90 per cento degli ebrei libici emigra fra il '45 e il '51. Ormai non ne restano più che 5 mila, ma sono sorvegliati speciali e vivono nella paura. Nel '67, allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni, re Idris dichiara di non essere più in grado di garantire la loro incolumità. Se ne vanno alla spicciolata anche gli ultimi, di notte, di nascosto, a mani vuote. Si dividono fra Israele e l'Italia, in particolare a Livorno. Meghnagi racconta questo doloroso epilogo con parole intense e sofferte.
   
(Il Foglio, 30 settembre 2020)


Coronavirus: in Israele più di 1.500 morti, il lockdown andrà avanti

di Giacomo Kahn

In Israele sono ormai più di 1.500 i morti a causa della pandemia di coronavirus dall'inizio dell'emergenza sanitaria. Secondo i dati del ministero della Sanità, ha scritto il Times of Israel, più di 500 decessi si sono registrati in appena tre settimane. L'ultimo bollettino parla di 1.507 morti per complicanze legate al coronavirus. I contagi sono oltre 233.000 e sono 772 i pazienti ricoverati in condizioni descritte come gravi. Così il lockdown 'rafforzato' durerà probabilmente più a lungo della 'scadenza' prevista dell'11 ottobre. "Non esistono ipotesi per cui in dieci giorni revocheremo tutto e diremo 'è tutto finito, va tutto bene'", ha affermato il ministro della Sanità, Yuli Edelstein, in dichiarazioni a Kan News. "Abbiamo appreso le lezioni dalla prima ondata - ha detto il ministro - e questa volta l'uscita dal lockdown sara' fatta gradualmente e responsabilmente", ha assicurato.
   Intanto, il comitato consultivo dell'Agenzia per la Sicurezza Nazionale ha presentato al governo le sue raccomandazioni stringenti: riapertura di asili ed elementari solo quando i casi giornalieri di Covid non saranno tornati a quota 2 mila, negozi e mercati quando saranno a quota mille, mentre ristoranti e luoghi di divertimento solo 100. Secondo i media, il premier Benjamin Netanyahu ritiene che il lockdown debba essere esteso per circa un mese in modo da contenere la diffusione del coronavirus. Anche il direttore generale del ministero della salute, Chezy Levy, e il suo vice Itamar Grotto, si sono detti convinti che difficilmente l'epidemia sara' sotto controllo per l'11 ottobre e che quindi il lockdown dovra' essere prolungato.

(Shalom, 29 settembre 2020)


Gerusalemme: proteste davanti al Parlamento contro misure anti-manifestazioni

Manifestanti chiedono dimissioni le Netanyahu: "Ci mette la museruola"

Centinaia di manifestanti e automobilisti israeliani hanno protestato a Gerusalemme, davanti al Knesset (il parlamento israeliano) contro una misura proposta dal governo per ridurre le manifestazioni pubbliche durante il lockdown, rinnovato a livello nazionale nella speranza di fermare la diffusione dei contagi, che in Israele ha raggiunto più di 233.000 casi dall'inizio della pandemia e più di 1.500 morti, superando gli Usa per numero di decessi pro capite. Diversi i cartelli con la scritta "difendi la democrazia" esposti dai manifestanti. Si chiedono anche le dimissioni di Netanyahu che, secondo gli attivisti, sta usando la crisi provocata dal Covid come pretesto per mettere la museruola ad ogni forma di dissenso.

(LaPresse, 29 settembre 2020)


Scenari di scontro tra Turchia e Grecia?

di Daniel Pipes

 
Gli abitanti di Kastellorizo possono essere pochi, ma sono dei greci patriottici
 
La presidente greca Katerina Sakellaropoulou ha visitato Kastellorizo
il 13 settembre per celebrare il giorno della liberazione dell'isola
 
Il cinese Xi e il turco Erdogan: migliori amici per sempre?
Un oscuro punto caldo nel Mediterraneo potrebbe presto sfociare in una crisi: stiamo parlando della minuscola e lontana isola di Kastellorizo (o Megisti; Meis in turco). Come molte altre isole greche, si trova molto più vicino alla Turchia rispetto alla terraferma greca (1 miglio contro 357 miglia). A differenza di altre isolette greche, la sua ubicazione tra Rodi e Cipro le conferisce un'enorme importanza militare ed economica.
  Se Kastellorizo, con meno di 500 abitanti, godesse dei pieni diritti conferitile dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, la Grecia potrebbe rivendicare una zona economica esclusiva (ZEE) di 200 miglia nautiche che lascerebbe alla Turchia una ZEE esigua lungo le sue coste; togliendo alla Grecia Kastellorizo, le dimensioni della ZEE turca sarebbero più che raddoppiate. La scoperta di grandi giacimenti di gas e petroli nel Mare Mediterraneo fa sì che la potenziale importanza di ciò sia particolarmente significativa.
  La Repubblica di Turchia, sotto il presidente Recep Tayyip Erdogan, rifiuta categoricamente che Kastellorizo goda di tali privilegi. Di recente, Erdogan ha condannato "i piani di chi cerca di confinare alle sue coste un Paese di 780 mila chilometri quadrati utilizzando un'isola di 10 chilometri quadrati". Ha poi proseguito col dire, riferendosi al Trattato di Losanna del 1923 e ad altri accordi che delimitavano i confini turchi: "La Turchia ha il potere politico, economico e militare [sufficiente per] strappare mappe e documenti immorali imposti". Poi, alludendo a vittorie militari di molto tempo fa sui greci, ha aggiunto: "Un secolo fa, li abbiamo sepolti nella terra o li abbiamo gettati in mare. Spero che non paghino lo stesso prezzo ora".
  Per tutta risposta, la presidente della Repubblica greca Katerina Sakellaropoulou, il 13 settembre, si è recata in visita a Kastellorizo, replicando con una serie di osservazioni talmente sconcertanti che potrebbero addirittura invitare all'aggressione: "Stiamo attraversando un momento difficile e pericoloso. La leadership turca sta intensificando le pressioni sul nostro Paese inducendo a dichiarazioni aggressive", che minano "le relazioni di buon vicinato e la pacifica convivenza", che sono state costruite in tanti decenni da greci e turchi, i quali considerano il mare che li separa non come un confine impenetrabile, ma come un canale di comunicazione". Il fatto che il ministro della Difesa turco un giorno prima si fosse recato in visita nella città turca più vicina a Kastellorizo ha inviato un messaggio inquietante.
  Negli ultimi mesi, Erdogan è stato più aggressivo che mai nel Mediterraneo: inviando navi per le attività esplorative nelle acque greche e cipriote, con una notevole scorta navale, alla ricerca di idrocarburi e firmando un accordo con una fazione libica in cui i due Paesi condividono un confine marittimo (la Grecia e l'Egitto hanno quindi risposto allo stesso modo.)
  Potrebbe essere imminente una crisi. Con l'economia turca che va male, guidata da una valuta debole, uno scontro su Kastellorizo servirebbe idealmente a suscitare emozioni nazionaliste con un occhio alle elezioni presidenziali del 2023. L'analista Jack Dulgarian ha proposto uno scenario plausibile: le truppe turche invadono Kastellorizo o prendono l'isola in ostaggio e (bissando Cipro nel 1974) e sfidano il mondo a fare qualcosa al riguardo.
  Da sole, le forze armate elleniche non possono riconquistare l'isola. Né Israele né l'Egitto entreranno in guerra con la Turchia per Kastellorizo. L'art. 5 della NATO, che promette protezione in caso di aggressione, si rivelerà di certo inefficace quando entrambi le parti sono membri di quell'organizzazione. Sotto la guida della Germania, la maggior parte dell'Europa (con Macron che rappresenta l'onorevole eccezione) freme alla prospettiva che la Turchia usi l'arma dei migranti illegali e preferisce rabbonire Ankara. Il presidente russo Vladimir Putin corteggia Erdogan con l'obiettivo di farlo uscire dalla NATO e non si schiererà contro di lui. Il presidente cinese Xi Jinping accoglie con favore la debolezza economica della Turchia, come un'opportunità per trasformarla - come l'Iran - in una colonia economica.
  Se Kastellorizo (come un terzo di Cipro) dovesse finire sotto il controllo turco, a costo minimo per Ankara, le conseguenze sarebbero di vasta portata. Godendo dell'adulazione all'interno del Paese, Erdogan probabilmente intensificherà le attività di esplorazione aggressiva di petrolio e gas e potrebbe rivolgere l'attenzione alle isole dell'Egeo appartenenti alla Grecia come suo prossimo obiettivo. E non solo: da islamista e jihadista qual è, Erdogan potrebbe plausibilmente tentare di conquistare tutta Cipro e perfino tutta la Grecia. Ha già invaso Iraq, Siria e Libia; Kastellorizo sarebbe il passo successivo verso un furore che potrebbe estendersi a tutte le parti dell'Impero ottomano, che era all'apice del suo splendore, cinque secoli fa.
  Chi lo fermerà? Tutti i leader chiave - quelli di Stati Uniti, Germania, Russia e Cina - sorridono a Erdogan, rendendo difficile immaginare come verrà scoraggiato questo nemico a lungo sottovalutato e del tutto determinato.

(Gatestone Institute, 27 settembre 2020 - trad. di Angelita La Spada)


Dubai, è l'Al-Nasr il primo club arabo che acquista un giocatore israeliano!

Un club arabo ha acquistato per la prima volta un calciatore israeliano, Diaa Sabia, meno di due settimane dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno normalizzato i legami con lo Stato ebraico

Diaa Muhammad Sabia, 28enne centrocampista israeliano ex Guangzhou Fuli Zuqiu Julebu, ha firmato un contratto di due anni con l'Al-Nasr di Dubai. Lo ha comunicato il club degli Emirati Arabi in una nota ufficiale pubblicata sul proprio sito ufficiale. Secondo quanto riferito, il trasferimento è costato più di due milioni e mezzo di euro. "Al-Nasr ha completato le procedure con Diaa Sabia per un contratto di due stagioni dopo aver superato con successo gli esami medici", si legge.
L'Al-Nasr ha poi postato su Twitter un video di Sabia, con tanto di maglia numero 9, che dribbla e tira allo stadio Al-Maktoum. L'acquisto del calciatore arriva dopo che gli Emirati Arabi Uniti, di cui Dubai è membro, hanno firmato un accordo mediato dagli Stati Uniti per normalizzare i legami con Israele il 15 settembre, il primo accordo del genere con una nazione del Golfo.
Intanto proprio in questo mese, i media d'Israele hanno riferito che un uomo d'affari emiratino senza nome ha espresso interesse a investire in un team di calcio israeliano, il Beitar Jerusalem. Il club è noto per i suoi legami con l'estrema destra nazionale e non ha mai schierato un giocatore arabo. Inoltre è stato multato più volte per i cori razzisti dei suoi fan contro gli arabi.
Sabia - che è di origine palestinese - è nato nel nord di Israele ed è salito nei ranghi di un club giovanile prima di trasferirsi al Maccabi Tel Aviv nel 2012. Ha giocato per diverse società fino a quando ha firmato nel 2014 con il Maccabi Netanya, dove è rimasto per quattro anni. Il nuovo innesto dell'Al-Nasr ha segnato 50 gol in 111 partite in varie competizioni, di cui 24 nella stagione del 2018, e conta 10 presenze nella Nazionale israeliana. L'Hapoel Be'er Sheva l'aveva venduto al Guangzhou R&F per oltre quattro milioni di euro.

(DerbyDerbyDerby, 29 settembre 2020)


Auguri di Rosh ha-Shanà in ritardo

Nella tradizione ebraica Rosh ha-Shanà è la festa con cui si apre il nuovo anno. Per questo è consuetudine, prima di tale festa, inviarsi auguri corrispondenti al nostro Buon Anno! Ma se l'anno che viene sarà buono o cattivo dipende anche da come il credente si comporterà nei dieci giorni che lo separano dalla successiva festa: Yom Kippur. In quei dieci giorni, detti "giorni terribili", secondo la tradizione il comportamento di ciascuno viene attentamente esaminato dall'Alto, appositamente verbalizzato e alla fine concluso con una Firma che sancirà il giudizio finale sull'operato dell'esaminando. Come si sa, sono gli stessi ebrei a saper fare la migliore ironia su se stessi. Ripresentiamo allora un articoletto di un autore, rimasto anonimo, che nel passato ha scritto brevi commenti sul notiziario dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Ha inviato contributi per circa due anni sotto lo pseudonimo "Il Tizio della Sera" poi per i lettori è scomparso. In uno di questi commenti comunica un suo problema: si è dimenticato di fare gli auguri di Rosh ha-Shanà. E se ne è ricordato quando era già passato Yom Kippur, quando i dieci giorni di esame si erano conclusi e la Firma sotto il giudizio era ormai stata messa. Che fare? Ecco come se l'è cavata. M.C.



Cari amici, la scorsa settimana non vi ho potuto fare gli auguri di Rosh ha-Shanà, scusate. Ma ora che ve li vorrei fare, a un tratto mi chiedo: ve li posso fare? Non sapendo se sia permesso fare in ritardo degli auguri spirituali come quelli di Rosh ha-Shanà, ho telefonato a un anziano rav che sta a New York ed è un amico di famiglia dei tempi antichi. Non ne faccio il nome per non associarlo al Tizio della Sera e farlo rotolare immediatamente nella Gehenna. A dire il vero, quando l'ho chiamato non ho pensato che lì erano le tre di notte. Eppure, lui mi ha risposto subito e con schiettezza:
  "Oioi, sei tu".
Gli ho spiegato il mio dubbio sugli auguri in ritardo e ha detto:
- "Circa la possibilità o il divieto di fare in ritardo gli auguri di Rosh ha-Shanà, bisogna vedere se vi sia stato un impedimento reale, una questione di dimenticanza, se la dimenticanza abbia coinciso con un problema di fondo, ad esempio il caso di uno che è cretino - il classico caso dello shoté. Quale caso di questi mi stai sottoponendo, figlio mio?"- mi fa.
   Non ho avuto assolutamente dubbi e ho risposto che si trattava di un gigantesco caso di shoté.
- "Ma conosci bene questa persona deficiente che non ha ancora fatto gli auguri di Rosh ha-Shanà e li vuole fare adesso che la Firma c'è stata da un pezzo?", chiede il rav.
  "La conosco bene quella persona - faccio - ah se la conosco".
- "E così - mi fa - sei sicuro di conoscere questa persona veramente bene…".
  "Vorrei vedere che proprio io non conoscessi questo qui", gli rispondo.
- "Sicuro sicuro?".
  "Non sono scemo, sono io quel cretino".
- "E così ti conosci bene, vero?".
  "In effetti, rav, ora che ci penso, non saprei se mi conosco bene".
- "E così, prima ti conosci bene e dopo non ti conosci bene...".
  "Per favore, adesso non cominciamo con la matematica".
- "E così - mi incalza - dici di non conoscerti bene, quando mi hai appena detto che la dimenticanza era di un grande cretino. Lo vedi che ti conosci benissimo?".
  "Sì?!...", chiedo raggiante.
- "Certo, sei uno shoté nato. Prima di tutto perché sei contento di essere shoté, e questa è veramente una cosa da shoté, e se non capisci è perché sei shoté. Seconda cosa, rifletti, nel caso tu ce la faccia: se tu non fossi un gigantesco shoté, non mi avresti svegliato alle tre di notte per fare una domanda così".
E ha riattaccato.
No, penso, non posso rimanere in forse: io adesso prendo e lo richiamo subito. In effetti avviene che lo richiami e lo implori di dirmi se giudica che possa fare gli auguri di Rosh ha-Shanà, quando la Buona Firma c'è stata da un pezzo.
  "Cerchi di capire, rav - dico per ben figurare - sarebbe come fare gli auguri per la milà a uno che sta festeggiando la laurea in giurisprudenza".
  Il rav sospira. "Quanto mi fai penare, tu?".
  "Non lo so", faccio io.
- E lui: "Pazienza, voglio aiutare l'asino iellatissimo che si è reincarnato in te".
- Poi fa: "Circa la questione 'auguri di Rosh ha-Shanà in ritardo', si può adeguatamente citare la risposta del rav Eliau ben Zadìk di Tallin, gran suonatore di shofar con lo stile della gallinella, sia benedetto nel seno di Abramo. Il rav Eliau di Tallin disse a tutta la yeshivà di fare così: se siete in ritardo con gli auguri di Rosh ha-Shanà, fateli lo stesso. Serviranno per l'anno dopo, quando vi scorderete di nuovo di farli. E quando l'anno dopo vi scorderete di nuovo di farli, voi, o giovani, li avrete già fatti l'anno prima e di nuovo non ci sarà alcun problema per un anno. Vi dovrete solo ricordare di fare in anticipo anche quelli per l'anno successivo. Perché, be-emet, errore corretto fa sapienza certa".
 
  Che bellezza, finalmente avevo la soluzione. "Grazie rav! E guardi, già che ci sono, le faccio gli auguri in anticipo di un bellissimo 5772, 73, 74!".
- "Bravo - mi fa - ti ringrazio anticipatamente fino al 5790 compreso, così per diciotto anni riposo tutta la notte".

Ai miei amici del notiziario quotidiano "l'Unione informa" e del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it un bellissimo 5771. E poi anche un bellissimo 5772.

Il Tizio della Sera

(moked, 16 settembre 2010)



L'Iran sull'orlo di una grande rivolta popolare

Quando arriverà quel momento, nessuno di tutti questi piani repressivi, né l'IRGC o il suo apparato di sicurezza sarà in grado di fermare il diluvio di questo esercito che cancellerà questo regime dalla faccia della terra.

L'Iran è sull'orlo di una grande rivolta popolare mentre la distanza tra il regime e il popolo continua a crescere inesorabilmente.
   A dirlo è l'importante analista politico iraniano Hasan Bayadi il quale collega l'innalzamento della tensione in Iran con la brutale repressione del regime, la spaventosa crisi economica e sociale e, soprattutto, la pessima gestione della pandemia di COVID-19 che in Iran ha provocato (ufficialmente) 106.000 morti.
   Parlando con il sito web statale Entekhab, Hasan Bayadi ha detto di aspettarsi eventi socio-politici senza precedenti prima di dicembre 2020.
   «A causa della cattiva gestione delle varie crisi da parte del Governo le persone non credono più a nessuna corrente politica, non credono più alle promesse e siamo alla vigilia di una grande esplosione di collera popolare».
   Anche tra la stampa fuori dall'influenza del regime si inizia a respirare aria di rivolta. Il 31 agosto il quotidiano Mardomsalari scriveva che «la via d'uscita da un vicolo cieco non è l'uso della violenza contro chi chiede risposte», ricordando poi l'errore commesso con le repressioni del 2017 e del 2019 (per non parlare delle proteste post-elettorali del 2009 / 2010).
   Il 29 giugno 2020 il deputato Hashem Harisi ha dichiarato: «l'attuale situazione della società iraniana non è tollerabile. Ogni giorno il divario tra il popolo e il governo aumenta. La situazione è troppo fragile. Non possiamo sederci ad aspettare che i problemi si risolvano da soli».
   È in questo quadro dove sono in molti ad accorgersi che la situazione sta precipitando che il regime degli Ayatollah sta preparando la sua risposta, che come sempre sarà violenta.
   Secondo informazioni provenienti da fonti iraniane lunedì 14 settembre, Mohammad Yazdi, comandante del corpo di "Mohammad Rasool-allah" di Teheran, ha annunciato che sarebbe stato realizzato un piano chiamato "Sicurezza di vicinato". Questo piano utilizzerà la capacità delle basi paramilitari Basij e formerà "squadre di assalto" in diverse regioni di Teheran per, come dice lui, fornire la sicurezza di tutti i quartieri della capitale.
   Yazdi ha detto che «queste squadre hanno il compito di affrontare teppisti, ladri e perturbatori della sicurezza», ma è chiaro che il regime si sta effettivamente preparando ad affrontare il pericolo di una rivolta popolare, pronta a scoppiare in qualsiasi momento. Anche perché, affrontare la microcriminalità come ladri e teppisti è sempre stato un compito della polizia e non di corpi speciali anti-sommossa.
   Fino ad ora il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC) è rimasto sostanzialmente a guardare nonostante dietro ad ogni repressione ci siano loro, i pasdaran.
   Tuttavia fonti interne all'Iran riportano della formazione di diverse "hit squads", squadre di Basij direttamente agli ordini dei Guardiani della Rivoluzione distribuite nei maggiori quartieri delle città più importanti, con il compito di reprimere sul nascere qualsiasi manifestazione.
   «Il popolo iraniano vuole che le Nazioni Unite applichino le sanzioni contro questo regime» scrive il giornalista Hassan Mahmoudi. «Se non lo faranno Khamenei continuerà con la sua sanguinosa repressione perché è l'unico modo che ha per non perdere il potere».
   «I poveri, l'esercito di persone affamate e un esercito di persone in lutto ferite da questo regime durante i 41 anni del suo governo troveranno il momento giusto» scrive ancora Mahmoudi. «Quando arriverà quel momento, nessuno di tutti questi piani repressivi, né l'IRGC o il suo apparato di sicurezza sarà in grado di fermare il diluvio di questo esercito che cancellerà questo regime dalla faccia della terra».

(Rights Reporter, 29 settembre 2020)


Coronavirus, in Israele ultraortodossi e festività spingono il Paese verso il tracollo sanitario

La diffusione del Covid-19 resta fuori controllo nei quartieri e nelle città a maggioranza ultraortodossa: la pausa di Yom Kippur serve a capire cosa sta causando l'emergenza.

di Davide Frattini

GERUSALEMME — Quattordici scuole religiose sono state trasformate in quelli che gli israeliani chiamano «hotel corona». Gli studenti della yeshiva che risultano positivi non possono lasciare le aule dove giorno e notte studiano i testi sacri, gli allievi contagiati in altri istituti vengono trasferiti qui. Le misure sono state decise — spiega il quotidiano Haaretz — da Roni Numa, il generale che coordina con la comunità ultraortodossa l'intervento dell'esercito per rallentare la diffusione dell'epidemia. Il confinamento nelle scuole ha voluto impedire che i ragazzi tornassero a casa per Yom Kippur, che finisce al tramonto, e infettassero i parenti più anziani. Alcuni di questi ospedali improvvisati alla periferia di Tel Aviv hanno causato le proteste degli abitanti dei quartieri: temono che i giovani devoti non rispettino le regole, che il richiamano a onorare il giorno dell'Espiazione sia più forte delle norme stabilite dallo Stato. Alla vigilia di Kippur il governo israeliano ha imposto misure ancora più rigide per il secondo lockdown deciso quindici giorni fa e alcuni leader religiosi hanno invitato i seguaci a rispettare la norma che limita gli assembramenti nei luoghi chiusi e quelli all'aperto a un massimo di 20 persone.
   La diffusione del Covid-19 resta fuori controllo nei quartieri e nelle città a maggioranza ultraortodossa. Venerdì scorso sono stati registrati 2.692 nuovi contagiati tra gli haredim, un terzo dei casi diagnosticati quel giorno (il doppio se si considera la proporzione dei «timorati di Dio» rispetto alla popolazione totale). Fin dall'inizio dell'epidemia i rabbini (soprattutto quelli dei gruppi chassidici) hanno incitato alla ribellione, a non rispettare le restrizioni che fermassero lo studio nelle scuole religiose o riducessero il numero di fedeli nelle sinagoghe per celebrare le festività più importanti del calendario ebraico, iniziate una settimana fa. Ventiquattro ore di digiuno e di espiazione. Di riflessione su quello che è successo nell'anno passato. Questa volta la pausa di Yom Kippur serve agli israeliani per provare a capire come sia potuto succedere, com'è possibile che da nazione verde e virtuosa — in maggio in nuovi casi di Coronavirus andavano verso lo zero — la crisi sanitaria sia diventata profondo rosso: 1.512 pazienti sono in ospedale, 749 in gravi condizioni, vicino a quella quota di 800 letti in terapia intensiva che gli esperti considerano il limite prima per tracollo sanitario. I morti hanno raggiungo i 1.450 su 9 milioni di abitanti.
   Il premier Benjamin Netanyahu ammetta di aver sbagliato a riaprire tutto e troppo in fretta lo scorso maggio, critica soprattutto i partiti avversari in parlamento che gli avrebbero impedito di approvare in fretta le leggi necessarie. L'opposizione lo accusa invece di voler usare le nuove limitazioni agli spostamenti dei cittadini per disperdere le proteste davanti alla residenza di via Balfour a Gerusalemme: migliaia di manifestanti si ritrovano da mesi e urlano al capo del governo di dimettersi, gli rinfacciano di aver mal gestito l'epidemia perché ha avuto la testa immersa nel processo per corruzione. Oggi i deputati discutono delle norme che dovrebbero fermare le manifestazioni «per ragioni sanitarie». Netanyahu avrebbe voluto far passare le regole qualche giorno fa con lo stato di emergenza, il ministro della Difesa Benny Gantz e gli altri alleati di necessità glielo hanno impedito.

(Corriere della Sera, 28 settembre 2020)


F-35, come sarà il contratto Usa-Emirati Arabi Uniti

A dicembre il contratto Usa-Emirati Arabi Uniti sugli F-35.

di Marco Orioles

Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti hanno raggiunto un'intesa di massima sulla vendita a questi ultimi degli F-35, accordandosi per una data relativamente lontana - dicembre - per dare il tempo agli americani di studiare il modo per non irritare Israele.

 Il 2 dicembre usa e uae dovrebbero firmare la lettera d'intenti
  Le fonti di Reuters al corrente dei negoziati parlano anche di una data precisa per la firma di una lettera preliminare: è il 2 dicembre, giorno della festa nazionale degli Emirati.

 Il peso di Israele
  Come qualsiasi accordo militare siglato dal governo americano, anche questo dovrà rispettare il criterio secondo cui Israele deve mantenere la superiorità militare nella sua regione, garantendo che le armi fornite allo Stato ebraico siano "superiori in capacità" rispetto a quelle vendute ad altri acquirenti.

 Le mire Usa
  Quel che ha in mente Washington secondo due fonti è di trovare il modo di rendere meno "stealth" gli F-35 venduti agli Eau, e dunque più visibili ai radar israeliani. Non è chiaro se ciò richiederà di cambiare del tutto l'F-35, o sarà sufficiente fornire radar migliori ad Israele.

 Le parole del ministro
  Il ministro della Difesa di Israele Michael Biton ha comunque dichiarato alla radio dell'esercito che se anche gli Eau si dotassero degli F-35 sarà sempre possibile "preservare il vantaggio relativo" dell'esercito israeliano.

(Startmag Web, 28 settembre 2020)


Yom Kippur 5781 - 28 settembre 2020

Lezione di Rav Alberto Sermoneta tenuta giovedì 24 settembre nella Comunità Ebraica di Bologna

 
Yom Kippur è la ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell' espiazione. Nella Torah viene chiamato Yom haKippurim (Ebraico, "Giorno degli espianti"). È uno dei cosiddetti Yamim Noraim (Ebraico, letteralmente "Giorni terribili", più propriamente "Giorni di timore reverenziale").
  Gli Yamim Noraim [giorni terribili] vanno da Rosh haShana a Yom Kippur, che sono rispettivamente i primi due giorni e l'ultimo giorno dei Dieci Giorni del Pentimento.
Nel calendario ebraico Yom Kippur incomincia al crepuscolo del decimo giorno del mese ebraico di Tishrì (che cade tra Settembre e Ottobre del calendario gregoriano), e continua fino alle prime stelle della notte successiva. Può quindi durare 25-26 ore.

 Origine biblica
  Il rito dello Yom Kippur viene descritto quattro volte nel sedicesimo capitolo del Levitico (vedi Esodo 30;10, Levitico 23;27-31 e 25;9, Numeri 29:7-11). All'epoca del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme venivano offerti i sacrifici descritti nella Torah e nella Mishnah.

 Nel pensiero ebraico
  Yom Kippur è il giorno ebraico della penitenza, viene considerato come il giorno ebraico più santo e solenne dell'anno. Il tema centrale è l'espiazione dei peccati e la riconciliazione. È proibito mangiare, bere, lavarsi, truccarsi, indossare scarpe di pelle ed avere rapporti sessuali. Il digiuno - astinenza totale da cibo e bevande - inizia qualche attimo prima del tramonto (chiamata tosefet Yom Kippur - aggiunta a Yom Kippur - l'aggiunta di una piccola parte del giorno precedente al digiuno è prescritta dalla Halakha), e termina dopo il tramonto successivo, all'apparire delle prime stelle. Le persone malate consultano in anticipo un'autorità rabbinica competente per verificare se il loro stato le esenti dal digiuno.
  Il servizio ha inizio con la preghiera di Kol Nidre che deve essere recitata prima del tramonto. Kol Nidre (parola aramaica che significa "tutte le promesse") rappresenta l'annullamento di tutti i voti pronunciati nel corso dell'anno. Secondo The Jewish Encyclopedia, il testo della preghiera recita: "Tutti i voti, gli impegni, i giuramenti e gli anatemi che siano chiamati 'konam', 'konas', o con qualsiasi altro nome, che potremmo aver pronunziato o per i quali potremmo esserci impegnati siano cancellati, da questo giorno di pentimento sino al prossimo (la cui venuta è attesa con gioia), noi ci pentiremo".
  Yom Kippur completa il periodo di penitenza di dieci giorni iniziato con il capodanno di Rosh haShana. Sebbene le preghiere con le quali si chiede perdono siano consigliate durante l'intero anno, diventano particolarmente sentite in questo giorno.
  La preghiera mattutina viene preceduta da alcune litanie e richieste di perdono chiamate selihot; nel giorno di Kippur queste vengono aggiunte in abbondanza nella liturgia.
  In accordo con Mosè Maimonide "Tutto dipende da quanto un uomo meriti che vengano cancellati i demeriti che pesano su suo conto", quindi è auspicabile di moltiplicare le nostre buone azioni prima del conteggio finale fatto il Giorno del Pentimento (ib. iii. 4). Coloro che Dio considera meritevoli entreranno nel Libro della Vita, la preghiera recita: "Entriamo nel Libro della Vita". Recita anche l'auspicio "Possa tu essere iscritto (nel Libro della Vita) per un gioioso anno". Nella corrispondenza scritta tra capodanno e il Giorno del Pentimento, colui che scrive conclude, abitualmente, augurando al mittente che Dio approvi il suo desiderio di felicità. Nel tardo ebraismo alcune peculiarità proprie del giorno di capodanno furono trasferite al Giorno del Pentimento.
  Il Giorno del Pentimento sopravisse all'abbandono delle pratiche sacrificali dell'anno 70 CE. "Nonostante nessun sacrificio verrà offerto, il giorno manterrà il suo proprio effetto di espiazione" (Midrash Sifra, Emor, xiv.). I testi ebraici insegnano che in questo giorno non è permesso che venga compiuta altra attività che non sia il pentimento. Il pentimento è l'indispensabile condizione per tutti i vari significati dell'espiazione. La confessione del penitente è una condizione richiesta per l'espiazione. "Il Giorno del Pentimento assolve dalle colpe di fronte a Dio, ma non di fronte alla persona offesa fin quando non si ottiene il perdono esplicito dalla stessa" (Talmud Yoma viii. 9). È usanza di terminare ogni disputa o litigio alla veglia del giorno di digiuno. Anche le anime dei morti sono incluse nella comunità dei perdonabili del Giorno del Pentimento. È un costume per i bambini che abbiano perso i genitori di ricevere una menzione pubblica in sinagoga, e di offrire doni caritatevoli alle loro anime.
  Contrariamente al credo popolare, Yom Kippur non è un giorno triste. Gli ebrei Sefarditi, ovvero gli ebrei di origine spagnola, portoghese o nordafricana chiamano questa festività il "Digiuno Bianco". Di conseguenza, molti ebrei hanno l'usanza di indossare solo vestiti bianchi, per simbolizzare il candore delle loro anime.

 La liturgia
  Per le preghiere della sera viene indossato un Talled (uno scialle di preghiera rettangolare), e questo è l'unico servizio serale dell'anno in cui questo succede. Ne'ilah è un servizio speciale che si tiene solo a Yom Kippur, e lo chiude. Yom Kippur termina con il suono dello shofar, che conclude la celebrazione. Viene sempre osservato un giorno di vacanza, sia dentro che fuori i confini della terra di Israele.
  Il servizio nella sinagoga comincia alla sera della vigilia con il Kol Nidre. Le devozioni durante il giorno sono continue dalla mattina alla sera. Molta importanza è data al brano liturgico in cui si narra il cerimoniale del tempio.
  Secondo il Talmud, Dio apre tre libri il primo giorno dell'anno, Rosh Hashana; uno per i cattivi assoluti, un altro per i buoni assoluti, e il terzo per la grande classe intermedia. Il fato dei buoni e cattivi assoluti viene determinato in quel momento; il destino della classe intermedia resta sospeso fino al giorno di Yom Kippur, quando il fato di ognuno si decide. Il brano liturgico Unetanneh Tokef afferma:
    "D-o Re, che siedi su un trono di misericordia per giudicare il mondo, allo stesso momento Giudice, Difensore, Esperto e Testimone, apri il Libro delle Firme. Si legge che dovrebbero esserci le firme di ogni uomo. La grande tromba viene suonata; si sente una voce piccola e decisa; gli angeli fremono, dicendo "Questo è il giorno del Giudizio": perché gli stessi ministri di Dio non sono puri dinnanzi a Lui. Come un pastore dirige il suo gregge, facendolo passare sotto il proprio bastone, così Dio fa passare ogni vivente di fronte a Lui, per stabilire i limiti della vita di ogni creatura e per definirne il destino. Nel giorno di capodanno il decreto è stilato; nel giorno del pentimento è sigillato; chi vivrà e chi morirà... Ma il pentimento, la preghiera e la carità possono evitare il crudele decreto."
La "Corona di Maestà" di Ibn Gvirol è aggiunta alla liturgia Sefardita nel servizio serale, ed è anche letta in alcune sinagoghe Askenazite ed Italiane. Al centro della liturgia antica è la confessione dei peccati. "Perché non siamo tanto presuntuosi da dirTi che siamo giusti e non abbiamo peccato; ma, nella realtà, abbiamo peccato... sia la Tua volontà che io non pecchi ulteriormente; Ti piaccia lavare i miei peccati trascorsi, secondo la Tua bontà, ma non con punizioni severe".
  Le melodie tradizionali con i loro toni di lamento (della tradizione Askenazita) danno espressione sia all'angoscia individuale a fronte dell'incertezza del destino e al lamento di un popolo per le glorie perdute. Nel giorno di espiazione l'ebreo osservante dimentica la mondanità e le sue necessità e, escludendo l'odio, l'antipatia e tutti i pensieri ignobili, cerca di occuparsi unicamente di cose spirituali. I libri ebraici di preghiera fanno notare che, se gli atti di pubblica contrizione sono obbligatori, il correttivo più efficace è quello stabilito dai Profeti biblici, che insegnano che il vero digiuno di cui D-o gioisce è lo spirito di devozione, gentilezza e penitenza.
  Il carattere austero impresso alla cerimonia dal tempo della sua istituzione è stato conservato fino ad oggi. Anche se altre cose sono divenute desuete, la presa sulla coscienza di ogni ebreo è così forte che pochi, a meno che non abbiano reciso ogni legame con l'ebraismo, evitano di osservare il giorno di espiazione astenendosi dal lavoro quotidiano e partecipando alle funzioni.

(Comunità Ebraica di Bologna, settembre 2020)


Segnaliamo un interessante Studio biblico sulla festa di Yom Kippur che si può trovare sul sito "Ariel Italia". Lo studio può essere acquistato e scaricato qui.


Israele. L'importanza di 30 gatti in Parlamento

di Fabio Scuto

 
Gatti sui davanzali di una casa nel centro storico di Gerusalemme.
Filibuster, Lobby, Revision e Ethics non sono soltanto termini politici, ma i nomi di alcuni dei 30 gatti di strada che vivono nel cortile della Knesset, il Parlamento israeliano a Gerusalemme. A loro è stata recentemente concessa la residenza permanente dai funzionari della moderna struttura che svetta su una delle colline della Città Santa. Non dobbiamo stupirci. C'è sempre stato molto feeling tra la cultura ebraica e il mondo dei piccoli felini. Un mio amico ha addirittura stilato un codice in 7 punti delle relazioni che legano gli ebrei al mondo dei gatti che si possono riassumere così: i gatti sono contemplativi. Interagiscono con il mondo in modo riflessivo e sfumato. Invece di immergersi direttamente in un problema, i gatti esaminano le loro opzioni.
   I gatti di strada nel corso degli anni avevano fatto dell'ampio cortile del Parlamento la loro casa e così alla fine sono stati adottati dai membri del personale, che forniscono loro cibo e acqua. Alcuni felini si erano presi la libertà di entrare nelle luccicanti sale del potere con l'evidente disappunto di alcuni parlamentari, che hanno presentato decine di reclami alla direzione amministrativa della Knesset. Di conseguenza, il direttore della Knesset Sami Baldash ha chiesto a Tamar Bar-On - capo dell'ufficio ambiente del Parlamento - di formulare un piano di adozione completo per questi gatti, che sono stati definiti "una parte importante dell'ecosistema della Knesset ed è quindi un dovere preservare questa parte della natura urbana". I servizi veterinari della città sono stati chiamati per fornire vaccinazioni, sterilizzazione e altri servizi, mentre nell'ampio parco che circonda la struttura un'area è stata designata ad ospitare la colonia felina.
   Il presidente della Commissione per l'Ambiente della Knesset, Mild Haimovich, ha elogiato la politica del direttore. "Ho avuto il piacere di incontrare alcuni di questi residenti della Knesset e sono stato felice di vedere che sono stati ben curati. Sono un amante degli animali, sostengo la politica, del direttore e spero che altre istituzioni pubbliche seguano il nostro esempio".

(il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2020)


Per la pace, Israele deve essere forte

Cosa ci dice l'accordo con gli Emirati Arabi e il Bahrein

Scrive il Times of Israel (15/9)

Il trattato di pace firmato da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein è una vittoria retroattiva su una delle più grandi minacce che Israele abbia mai dovuto affrontare", scrive Yossi Klein Halevi. "Quasi mezzo secolo fa, subito dopo la guerra dello Yom Kippur (ottobre 1973), i paesi arabi produttori di petrolio imposero un boicottaggio contro i paesi considerati troppo vicini a Israele. Per Israele non c'era una minaccia strategica più grande del petrolio arabo, che di fatto lo stava trasformando in uno stato paria. L'atmosfera in Israele e in tutto il mondo ebraico era cupa. Elie Wiesel scrisse un editoriale sul New York Times in cui esortava gli ebrei a non cedere alla disperazione. Cynthia Ozick scrisse un saggio per Esquire intitolato `Tutto il mondo vuole la morte degli ebrei'. Quella paura mi sembrava allora del tutto ragionevole. Il boicottaggio petrolifero arabo toccò il suo culmine il 10 novembre 1975, quando l'Assemblea generale delle Nazioni Unite si piegò ad approvare una risoluzione che tacciava il sionismo come una forma di razzismo. Oggi Israele firma un trattato di pace con gli Emirati Arabi Uniti, uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio, e con il Bahrein, altro paese arabo ricco di petrolio. E l'accordo gode della tacita benedizione dall'Arabia Saudita. Il processo di normalizzazione e pace con Israele è guidato dagli stessi attori che un tempo capeggiavano la campagna contro la sua legittimità a esistere.
   Per ironia della sorte, proprio mentre gran parte del mondo arabo scende a patti con la presenza dello stato nazionale ebraico in medio oriente, in occidente sta accadendo il processo opposto. Il boicottaggio arabo contro Israele è finito, il movimento Bds (per boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) è vivo e vegeto in occidente. Gli accordi di pace di oggi confermano la lezione centrale del trattato di pace israelo-egiziano: il prerequisito indispensabile per la pace in medio oriente è che Israele sia una forza imbattibile. E' la forza di Israele che sprona questa pace. Nella sua paura dell'Iran e della Turchia, due paesi che mirano a dominare il medio oriente, il mondo arabo si rivolge a Israele. In altre parole: i paesi arabo-musulmani si rivolgono allo stato ebraico per un'alleanza contro le ambizioni imperiali delle due potenze musulmane non-arabe della regione.
   La forza economica di Israele è un ulteriore incentivo: quella che vediamo formarsi è un'alleanza di paesi concentrati più sul futuro che sul passato. La risoluzione di questo conflitto attende una nuova generazione di leader israeliani e palestinesi. Ma è possibile in futuro? Ebbene, se mezzo secolo fa qualcuno mi avesse detto che la normalizzazione con Israele sarebbe stata promossa dai paesi arabi produttori di petrolio e che la ricchezza creata dal petrolio avrebbe motivato i paesi arabi a cercare di fare causa comune con un Israele militarmente, tecnologicamente ed economicamente potente, avrei sorriso e l'avrei cortesemente liquidato come un pazzo".

(Il Foglio, 28 settembre 2020)


Gli ebrei a Venezia, una storia affascinante tra mito e realtà: parla il Dottor Calimani

La storia del ghetto ebraico di Venezia

di Umberto Marsilio

 
Riccardo Calimani nella sua abitazione a Venezia
La città di Venezia ha nella sua storia le fonti di maggior fascino e interesse, forse ancor più che nella sua architettura urbana, unica al mondo. È, dunque, fondamentale conoscere le genti che hanno ideato, costruito e caratterizzato queste opere architettoniche: infatti, non c'è luogo di questa meravigliosa città che non abbia storie da raccontare.
Per questa ragione, abbiamo deciso di intervistare il Dottor Riccardo Calimani, che è un veneziano particolare: di origine ebraica, ingegnere elettronico, laureato in filosofia della scienza all'Università di Venezia. È noto in Italia e all'estero per esser uno dei maggiori studiosi dell'Ebraismo italiano ed europeo. Con lui parleremo degli ebrei a Venezia, del noto ghetto della città, il più antico del mondo. Un rapporto, quello tra la comunità ebraica e questa città, molto interessante ed atipico, sia per l'unicità di Venezia, sia per quella del popolo ebraico.

- Dottor Calimani, Venezia e gli ebrei: quando comincia la storia di una delle comunità più importanti d'Italia e d'Europa?
  La presenza ebraica in Veneto, nella Laguna veneta, è ben antecedente la creazione del noto ghetto. Già nel 1386 era presente una piccola comunità a Mestre, erano ebrei provenienti da altre parti d'Italia e dalla Germania, quest'ultimi chiamati ashkenaziti. Ashkenaz era il nome dato, in ebraico medievale, alla regione del Reno, regione da cui provenivano gli ebrei ashkenaziti per l'appunto. La comunità si era distinta fin da subito per una importante utilità di tipo finanziario.

- Quale?
  La Repubblica, o meglio la nobiltà veneziana, quest'ultima intrinsecamente legata al potere politico della Serenissima, non si fidava dei Monti di Pietà, fondazioni religiose cristiane sorte nel Medioevo. Queste fondazioni, questi istituti, che a Venezia sarebbero comparsi molto tardi, erogavano prestiti di denaro di limitata entità, tuttavia non godevano della fiducia di molti nobili veneziani e dei ricchi commercianti della città, che preferivano utilizzare gli ebrei come intermediari finanziari per prestare, talvolta a scopi di usura, grandi quote di capitali finanziari. Bisogna ricordare che per la Chiesa cattolica, molto influente nella Repubblica, l'usura era un peccato grave, mentre ciò non valeva per la comunità ebraica di Venezia e non solo. La rappresentazione, relativa a quei tempi in particolare, dell'ebreo usuraio è di per sé un mito, come il noto Shylock nell'opera teatrale "Il mercante di Venezia" di William Shakespeare, poiché in realtà gli ebrei agivano come intermediari tra le parti e non come prestatori autentici.

- Quanto influì questa loro utilità nella decisione, nel 1516, da parte della Repubblica, di istituire il primo ghetto ebraico del mondo?
  Molto, in quanto sarebbe stato, come in effetti è avvenuto, molto più comodo controllare la comunità e controllarne le attività, tra l'altro quest'ultime totalmente tassate. L'istituzione del ghetto veneziano aveva uno scopo prettamente pragmatico. Tuttavia bisogna tener conto di un aspetto importante: la giudeofobia dell'epoca non fu il motivo principale dell'istituzione del ghetto a Venezia, a differenza del ghetto di Roma, sorto nel 1555. A Roma lo Stato Pontificio istituì il ghetto principalmente per convertire gli ebrei romani, obiettivo che non venne ottenuto. A Venezia gli ebrei avevano libertà di culto, certamente anche tra i veneziani vi erano i pregiudizi che in molte città e paesi d'Europa si avevano nei confronti delle varie comunità ebraiche. Il ghetto venne creato nel sestiere di Cannaregio, e l'origine della parola deriva dal fatto che in precedenza, proprio nel quartiere dove sarebbe sorto vi era una fonderia, e quindi dall'italiano getto, sinonimo di fonderia, a "ghèto" in dialetto veneziano. Tuttavia, per intenderci su come veniva trattato uno straniero a Venezia, l'idea del ghetto non è poi così dissimile dall'idea dei fondachi, tenendo conto ovviamente delle dovute differenze e finalità. I fondachi erano degli edifici, degli alloggi per i commercianti stranieri, che spesso avevano funzioni di magazzino, ma soprattutto lo scopo di mantenere la presenza straniera in città sotto controllo, seppur questa presenza era momentanea in quanto composta prevalentemente da commercianti. Il più noto è il Fontego dei Turchi affacciato sul Canal Grande.

- Quali sono stati i vantaggi che la città ha avuto dalla propria comunità nel corso dei secoli?
  Direi che i vantaggi sono stati reciproci, la comunità ha potuto vivere in relativa tranquillità, sviluppandosi socialmente al suo interno, e soprattutto anche da un punto di vista religioso, con la presenza di ben cinque sinagoghe, emerse a distanza di pochi decenni l'una dall'altra: due di rito ashkenazita, la Scola grande tedesca e la Scola canton, fondate tra il 1527 e il 1532, la Scola levantina, fondata nel 1541 dai primi ebrei sefarditi espulsi dalla Spagna nel 1492, la Scola ponentina o spagnola, fondata nel 1581, e la Scola italiana, fondata nel 1575. Nel corso del XVI secolo arrivarono dalla Spagna e dal Portogallo numerosi ebrei sefarditi, dal nome ebraico dato alla Spagna, Sefarad. Gli ebrei sefarditi non si prestavano alla funzione di intermediari finanziari come gli ebrei ashkenaziti e gli ebrei italiani, erano anzi abili commercianti che avevano girato in lungo e in largo il Mediterraneo, portando a Venezia importanti beni e continuando la loro attività in una delle città più ricche e popolate d'Europa, che da ciò aveva innegabilmente tratto un vantaggio. Un ulteriore vantaggio per Venezia fu la creazione di una vera e propria industria del libro ebraico, di una grande e notevole stampa dei libri all'interno del ghetto, facendo di Venezia un centro culturale per gli ebrei di tutto il mondo, assieme alla nascita dell'Università ebraica, il maggior organismo culturale della comunità.

- Vi è stata una integrazione atipica rispetto ad altre città italiane ed europee?
  Certamente, ma ciò è dovuto al fatto che Venezia era una città atipica e unica rispetto alle altre città d'Italia e d'Europa, sotto moltissimi punti di vista.

- Nel 1797 con l'arrivo di Napoleone e la caduta della Repubblica, anche il ghetto venne definitivamente aperto, cessando così di esistere.
  Sì, le porte del ghetto vennero rimosse definitivamente, dopo l'epopea napoleonica e il Congresso di Vienna, che aveva assegnato Venezia al Regno Lombardo-Veneto, che faceva parte dell'Impero austriaco, l'idea del ghetto divenne un ricordo storico. Troppi mutamenti politici e sociali vi erano stati nei 18 anni trascorsi tra il 1797 e il 1815. L'Europa era cambiata e non sarebbe stata più la stessa. La comunità, tuttavia, rimase comunque in larga parte all'interno di quello che era ormai l'ex ghetto.

- Il XIX secolo vide profonde trasformazioni anche all'interno dell'ebraismo, in particolar modo la nascita dell'ebraismo riformato, laico per molti aspetti, e, per riflesso, la comparsa di molte correnti ebraiche ortodosse, ligie alla tradizione e all'osservanza, nonché la nascita del sionismo. La comunità veneziana venne segnata da questi cambiamenti?
  No, a Venezia la comunità, che contava e aveva sempre contato poche migliaia di individui, era ancora ortodossa, tuttavia ortodossa "all'italiana", nel senso che era ben integrata con la popolazione, negli usi e costumi, e ciò valeva per tutti i quasi 50 mila ebrei italiani. Niente di paragonabile alle comunità ebraiche dei paesi dell'Est, alle varie correnti o ramificazioni dell'ebraismo ortodosso sorte in Polonia nel XVIII secolo, dove la comunità ebraica locale superava i 3 milioni e dove era ben evidente la differenza, in questo caso soprattutto negli usi e costumi, tra ebrei e non ebrei. La comunità, a partire dalla fine del XIX secolo, avrebbe visto un continuo decremento demografico.

- Che cosa hanno significato per la comunità le leggi razziali, la Seconda guerra mondiale, e come è cambiata dal dopoguerra ai giorni nostri?
  Gli ebrei veneziani, dapprima discriminati dalle leggi razziali del 1938, sarebbero andati incontro, per fortuna non la maggioranza, ad un tremendo destino. Con l'occupazione nazista dell'Italia, nel settembre 1943, anche per gli ebrei veneziani la situazione precipitò tragicamente: la deportazione avvenne attraverso varie retate tra il 1943 e il 1944. Dei 254 ebrei veneziani arrestati e deportati, ne sopravvissero pochi. La comunità, a guerra conclusa, seppe comunque rialzarsi, e a Venezia arrivarono altri ebrei, da tutta Europa, fuggiti dai paesi che avevano conosciuto più da vicino l'olocausto e che non avevano più un paese tranquillo dove abitare, visti gli effetti tremendi, da un punto di vista politico, della guerra. Con la fondazione dello stato d'Israele, nel 1948, molti di essi si trasferirono in Palestina. Oggi la comunità ha numeri ridotti, si parla di qualche centinaio di persone, tuttavia la vita al suo interno è ancora fervente, con eventi e ricorrenze, in particolar modo nel Museo ebraico, la vita religiosa nelle sinagoghe, la presenza di numerosi turisti, sia italiani che stranieri.

- Lei Calimani ha scritto vari libri sulla storia del ghetto, sulla storia degli ebrei italiani e sull'ebraismo. Certamente è uno dei più esperti studiosi dell'ebraismo in Italia. Quale sua opera, oltre a quelle storiche, può consigliarci per capire di più il carattere degli ebrei, di questo popolo per molti aspetti disgraziato ma allo stesso tempo affascinante e geniale?
  Consiglierei "Non è facile essere ebreo. L'ebraismo spiegato ai non ebrei", un libro assai recente. Tuttavia, scrivere un libro, per lo meno certi libri, è sempre un atto per certi aspetti di presunzione, ed è per questo che consiglio anche "Gesù ebreo", un libro in cui ho cercato di dimostrare e spiegare l'inscindibile fratellanza tra l'ebraismo e il cristianesimo delle origini, e di quanto abbiano in realtà in comune ebrei e cristiani.

- Grazie per la bella discussione Calimani.
  Grazie a lei Umberto.

(l'Occidentale, 28 settembre 2020)


Fa tappa a Ruvo la serie tv israeliana "The Vegan Italian Chef"

Una troupe televisiva è in questi giorni in Puglia a caccia di ricette vegane

 
Nadia Ellis e Nancy Dell'Olio
 
La Puglia è stata scelta come protagonista di tre puntate della serie tv internazionale, The Vegan Italian Chef, in onda su Ananey Communications, il più importante network israeliano. La troupe è già in Puglia dal 25 settembre per girare le tre puntate e si fermerà fino al 2 ottobre. La produzione della serie è affidata a Marco Tricomi, che è anche il regista, esperto di format televisivi (My Planet Vegan in onda su Sky, ad esempio), e alla chef talent Nadia Ellis, americana, milanese di nascita, che in Israele è la prima host vegana di cucina italiana grazie a EatWith (piattaforma di prenotazione di home cooking per esperienze culinarie).
  La serie tv, approdata in Puglia grazie all'attività di educational tour di Pugliapromozione e ad una serie di relazioni stimolate dall'Ambasciatrice della Puglia, Nancy dell'Olio, sarà successivamente lanciata su scala europea. Il progetto nasce su incarico ufficiale della Direttrice della Camera di Commercio e Industria di Israele (primo Paese Vegano nel mondo), l'Agenzia Nazionale del Turismo Italiano ENIT, con il supporto dell'Ambasciata Italiana di Israele. Il format tratta luoghi, territorio, cultura, tradizioni e soprattutto cibo nelle più svariate forme locali, ma unicamente in versione vegan. Il turismo ecofriendly è una delle nuove frontiere su cui tour operators di tutto il mondo stanno investendo risorse importanti.
  Prima tappa di Nadia Ellis è stata Lecce con lo chef Simone De Siato. A seguire Nardò, Santa Maria al Bagno, Gallipoli e Supersano presso la masseria Le Stanzie. Quindi alla volta della Valle d'Itria, Ostuni e masserie Torre Maizza e Il Frantoio. Oggi Polignano, Alberobello, Locorotondo e Masseria Le Carrube. Domani il tour si sposta nelle terre di Federico e la Murgia con una sosta a Trani, Castel del Monte e Biomasseria Lama di Luna.
  Il 1 ottobre riprese da Antichi Sapori e nell'Azienda Conte Spagnoletti Zeuli, sosta a Ruvo, e cena da Mezzapagnotta. Il rientro è previsto per il 2 ottobre.
«L'esperienza Pugliese è una festa per i tutti i sensi - commenta la chef Nadia Ellis - i paesaggi spettacolari, i profumi inebrianti delle erbe locali, il silenzio meraviglioso delle campagne attorno alle masserie, e naturalmente la parte del gusto e del tatto che sono emozione pura, grazie alla tradizione gastronomica pugliese. Scoprire così tante ricette che sono vegane fin dall'origine e che sono così saporite e ricche è una vera gioia!».
«La Puglia è la destinazione naturale per i consumatori di nutrimento Vegano. Un ulteriore frontiera per la nostra filiera Enogastronomica - commenta Nancy Dell'Olio, ambasciatrice della Puglia - Per la Puglia l'Enogastronomia è un canale di promozione turistica, culturale, prioritario. Elemento fondamentale del Brand Puglia. Attraverso il nostro cibo si trasmettono esperienze, emozioni e valori che identificano il territorio nel mondo. Bello leggere tanta meraviglia , entusiasmo, da parte di chi scopre che la Puglia è naturalmente Vegana. Origine che si trasforma costantemente passato... futuro, presente».
Secondo i dati dell'Osservatorio turistico della Regione Puglia, Israele rappresenta per la Puglia un mercato turistico di grande rilievo, con oltre 7 mila arrivi e 16 mila pernottamenti in Puglia nel 2019 e una crescita dei flussi del +41% rispetto al 2015. La propensione al viaggio degli israeliani è altissima, sicuramente una delle più elevate al mondo. Un recente sondaggio Enit rileva che su una popolazione totale di 8,8 milioni di persone, ben 6,5 milioni si sono recati all'estero, di cui il 92,5% ha lasciato il Paese per via aerea.
  Le destinazioni più richieste della Puglia dagli israeliani nel 2019 sono state Bari, Lecce, Vieste, Alberobello, Trani, Corato e Polignano con viaggi concentrati soprattutto nei mesi di aprile, maggio, settembre e ottobre.

(RuvoViva, 28 settembre 2020)


Il mancato realismo della leadership palestinese

di Ugo Volli

A chi segue le vicende mediorientali capita spesso di dover ripetere la considerazione sconsolata attribuita a Golda Meir (ma forse di Abba Eban) per cui i dirigenti palestinisti "non perdono mai l'occasione di perdere un'occasione". E' accaduto di nuovo nelle ultime settimane con i ripetuti rifiuti opposti da tutte le fazioni palestinesi all'accordo fra Israele e un paio di stati arabi (a quanto pare destinati presto a essere imitati da altri) e poi all'indignazione espressa per il rifiuto della Lega Araba di condannare questi accordi. Perché politici spregiudicati nella gestione del potere come Mohamed Abbas (eletto solo per un mandato di quattro anni, ma ormai entrato nel quindicesimo anno di presidenza), si bruciano tutti i ponti alle spalle, subendo la minaccia di complotti guidati dai "fratelli arabi" per sostituirlo? La risposta può forse venire da un sondaggio recente dove si rileva che la grande maggioranza dell'Autorità Palestinese condivide l'ira proclamata da Abbas per gli accordi e semmai lo incolpa di non averli combattuti abbastanza efficacemente. Il dittatore segue i suoi sudditi. Ma perché anch'essi mancano di qualunque realismo, chiedono per esempio di non riallacciare i rapporti con Israele ma dicono anche di volere i servizi assicurati dallo stato ebraico, come quelli fiscali e sanitari? Perché l'odio impedisce loro di vedere la realtà? Una prima ragione è naturalmente la continua propaganda, il vero e proprio lavaggio del cervello revanscista e antisemita che subiscono da decenni.
   Ma c'è qualche cosa di più profondo. Coloro che a partire dalla metà degli anni Sessanta si iniziò a definire palestinesi, infatti, hanno provenienze e culture assai diverse, sono divisi in tribù, oltre che in orientamenti politici e posizioni sociali lontanissime. In realtà l'idea di un popolo palestinese non ha alcun contenuto positivo, non esprime un progetto politico autonomo ma si identifica con il tentativo di eliminare lo stato nazionale del popolo ebraico. Nel momento in cui questo progetto di genocidio fortunatamente si è dimostrato impossibile e molti stati arabi vi rinunciano formalmente, che resta del palestinismo? Che identità può darsi un popolo che si dice palestinese, intendendo solo anti-israeliano? Questo è il problema che li porta a perdere tutte le occasioni. Come diceva ancora Golda Meir, solo quando ameranno i loro figli più di quanto odiano noi, anche per loro verrà l'ora della pace.

(Shalom, 27 settembre 2020)


Allarme jihadisti, Parigi rafforza la protezione di obiettivi ebraici

Un accoltellato venerdì notte nella "piccola Gerusalemme"a Nord della capitale. Il pachistano arrestato ammette: "Volevo colpire Charlie Hebdo per le vignette".

di Anais Ginori

PARIGI — La Francia scopre di avere una doppia emergenza. Dopo l'attacco davanti all'ex sede di Charlie Hebdo, il premier Jean Castex scelto per aver guidato la task force che ha organizzato la riapertura del Paese dopo il lockdown, si trova in prima linea contro un possibile ritorno del terrorismo islamico. «I nemici della République non vinceranno», ha detto. Nei rapporti dell'intelligence si registra l'aumento di messaggi di gruppi jihadisti, in particolare dopo la ripubblicazione delle vignette su Maometto da parte del giornale satirico. I motivi dell'allerta sono anche altri, dall'impegno della Francia contro il terrorismo islamico nel Sahel alla prossima scarcerazione di alcuni ex jihadisti dell'Isis. Il ministro dell'Interno Gérard Darmanin ha ammesso: «C'è stata una sottovalutazione della minaccia». La strada del quartiere Bastille dove il ragazzo pachistano Ali Hassan ha ferito venerdì due persone con una mannaia, aggiunge il ministro, avrebbe dovuto essere protetta da agenti. Darmanin ha chiesto di rafforzare la vigilanza su altri possibili obiettivi, in particolare nella comunità ebraica.
   Poche ore dopo l'attacco di rue Nicolas-Appert, un uomo è stato ferito alla gola da un ragazzo con un machete mentre usciva da un commissariato a Sarcelles, banlieue nord di Parigi. L'aggressore è fuggito. La polizia ipotizza un regolamento di conti, anche se non esclude un fenomeno di "mimetismo" rispetto ai fatti di rue Nicolas-Appert. Sarcelles è definita la "piccola Gerusalemme", abitata da una comunità ebraica che si è molto ridotta negli ultimi anni. Dall'inizio dell'anno ci sono stati altri 4 attacchi all'armi bianca di sospetti radicalizzati. «
   Sono stato io». Il pachistano Ali Hassan ha spiegato agli investigatori di voler colpire Charlie Hebdo perché non aveva "sopportato" la pubblicazione delle caricature. Non sapeva che il giornale aveva cambiato indirizzo. I testimoni raccontano di un ragazzo solo, un po' inebetito, che non ha fatto proclami religiosi. Non ha opposto resistenza quando è stato fermato dai poliziotti a meno di un chilometro. Sette i fermati, tra cui il fratello di 16 anni, e alcuni pachistani, coinquilini a Pantin, banlieue nord di Parigi. Molte cose sono ancora da chiarire, a cominciare dall'identità di Ali Hassan, che si è anche presentato altre volte come Hassan Ali. È arrivato in Francia nell'agosto 2018 senza documenti, dicendo di essere nato a Islamabad nel 2002. Già allora c'erano dubbi sul fatto che fosse minorenne, dettaglio che gli ha permesso di avere la protezione sociale fino a un mese fa, quando ha compiuto 18 anni.

(la Repubblica, 27 settembre 2020)


Il Covid punisce i populisti

di Yair Lapid

I Paesi pensano sempre di essere unici e, di solito, hanno ragione. La differenza tra italiani e cinesi è che gli italiani sono italiani e i cinesi sono cinesi. La geografia del loro Paese non è la stessa e così pure la demografia e la storia. Ogni nazione ha una sua personalità. Se mettete gli italiani di fronte a una guerra, una festa di nozze o un piatto di pasta, reagiranno in modo diverso rispetto a tedeschi o australiani. Questa verità è particolarmente valida nel caso dei capi populisti. Quando qualcuno cerca di paragonare quello che hanno fatto loro con quello che hanno fatto altri leader, la risposta è sempre la stessa: «Non potete capire, noi siamo un caso unico»: Sarà anche vero, ma non in questo caso. Non durante la crisi provocata dalla pandemia. II virus è lo stesso, ovunque. La crisi economica ha colpito tutti i Paesi. Ciò nonostante, esistono Paesi che hanno gestito la crisi meglio di altri. Qual è, dunque, la differenza tra coloro che l'hanno fatto bene e coloro che non ci sono riusciti? Che cosa consente ad alcune economie di sopravvivere? La risposta sorprende: i governi. Quell'istituzione malandata e malridotta è tornata in primo piano in tutto il mondo. I buoni governi hanno migliorato la situazione, quelli inefficienti hanno provocato la morte di molte persone e il crollo delle economie. Nella gestione della crisi, la differenza più importante tra il successo e il fallimento è la qualità della dirigenza. Un'epidemia è il banco di prova del senso di responsabilità nei confronti della gente. Quando si tratta di salute e di economia, la capacità dei cittadini di collaborare è la cosa più importante. Perché ciò avvenga, l'opinione pubblica deve nutrire fiducia nei suoi capi. Nel loro buonsenso, nella capacità di gestire le situazioni e impartire gli ordini giusti.
   La crisi del coronavirus ci ha colpito esattamente quando sembrava che il populismo stesse dilagando nel mondo. In tutto il mondo, i capi populisti sono ascesi al potere sull'onda dei social network, con parole che istigano all'odio e seminando la paura verso chiunque non è «dei nostri». Questo sistema ha dato i suoi risultati ma, di fronte a una pandemia globale, non può funzionare. Perfino i più accaniti sostenitori di quei capi autoritari hanno dovuto prendere atto che il virus non uccide meno persone soltanto perché sono «dei nostri».
   A gestire meglio l'epidemia sono stati leader equilibrati che si collocano al centro dello spettro politico, come Jacinda Ardern in Nuova Zelanda, Sanna Marin in Finlandia, Tsai Ing-wen a Taiwan, Kyriakos Mitsotakis in Grecia e Angela Merkel in Germania. Governano con pragmatismo, senza istrionismi e collaborando con esperti. Hanno spiegato all'opinione pubblica i provvedimenti che stavano adottando e non sono andati alla ricerca di capri espiatori. Quando hanno commesso errori, li hanno ammessi e vi hanno posto rimedio. Perlopiù sono tornati a una cosa che i populisti erano quasi riusciti a spazzare via dalle nostre vite: una gestione della situazione basata sull'evidenza di prove. I populisti trattano i fatti con disprezzo. Quando la realtà è scomoda, non fanno altro che inventarne un'altra. Ma, a fronte della crisi provocata dal coronavirus, questo sistema non funziona. I grafici non mentono. Nemmeno il populista di maggior talento riuscirà a convincere un malato che in verità è sano o un disoccupato che in verità ha un posto di lavoro. Se controlli il tuo estratto conto e ti scopri in rosso, nessun discorso di un primo ministro potrà convincerti che sei in una situazione rosea.
   Il motivo per cui i populisti hanno avuto un cos&igrande; grande successo negli ultimi anni è che la gente non prendeva il governo sul serio. Per politica non si intendeva uno strumento atto ad amministrare le nostre vite, ma un gioco da truffatori e imbroglioni. In tale situazione, la gente ha preferito scegliere chi faceva la voce più grossa. Anche se forse occorrerà un po' di tempo prima di rendercene conto, la crisi provocata dal coronavirus ha posto fine a questa pericolosa tendenza. Ci ha rammentato che amministrare un Paese è importante, e che un simile incarico deve essere affidato a persone che lo prendano sul serio. Dovendo affrontare una crisi reale, occorre un leader di centro che sappia portare a buon fine le cose.

* L'autore è capo dell'opposizione presso la Knesset israeliana.

(la Repubblica, 27 settembre 2020 )


Israele in pieno lockdown nel giorno di Kippur

Il governo ammette errori, ma fa appello a manifestanti politici e religiosi ultra-ortodossi perché contribuiscano a limitare il tasso dei contagi.

Il Ministero della sanità israeliano ha espresso forte preoccupazione per il fatto che la celebrazione di Yom Kippur, che va dal tramonto di domenica al tramonto di lunedì, possa portare a un forte aumento dei contagi da coronavirus dato che il numero di nuovi casi quotidiani di covid-19 è salito alle stelle nei giorni scorsi in parte a causa degli assembramenti in occasione di Rosh Hashanà (il capodanno ebraico)....

(israele.net, 27 settembre 2020)


Il progetto di Ricca per combattere a scuola l'antisemitismo

Gli orrori della Shoah in classe

di Mariachiara Giacosa

Ascoltare gli orrori della Shoah dalla voce dei protagonisti o dei loro familiari. Farlo a scuola, in classe e tra i compagni, per diventare parte attiva di una cultura che combatta l'odio e l'antisemitismo, «che, purtroppo va sempre più di moda» osserva Fabrizio Ricca, assessore regionale alle politiche giovanili e promotore del progetto da 750mila euro destinato ai giovani. Il politico leghista intende sensibilizzare i ragazzi «sui rischi dell'antisemitismo che purtroppo sta diventando di moda», dice. Le scuole potranno ospitare testimoni e protagonisti della Shoah. Parleranno con i ragazzi a cui verrà rilasciato un attestato di "ambasciatore di verità". «La formazione dei ragazzi ha un ruolo fondamentale - è la convinzione di Ricca - Dobbiamo coinvolgerli perché siano "ambasciatori della verità" tra i coetanei, organizzino presentazioni di ciò che hanno ascoltato a scuola, per fare in modo che certe ideologie velenose non trovino spazio in futuro».
   A organizzare gli incontri con le classi sarà Claudia De Benedetti, membro del board of governors Maccabi World Union e responsabile progetto Ambasciatori della verità per l'Italia, nonché presidente onorario di Sochnut Italia, Agenzia ebraica per Israele: «Sentiamo l'esigenza di trattare questi temi con e per gli studenti, perché sappiano individuare come e perché viene seminato, troppo spesso, l'odio», dice. «La lotta contro odio e antisemitismo deve cominciare a scuola dove si fa politica, è importante che i ragazzi siano consapevoli - prosegue Ricca - Dovrebbero esserlo anche i partiti politici e invece anche a Torino il Movimento 5 stelle ha più volte preso posizioni contrarie a Israele». Secondo Roberto Gabei, presidente della Fondazione arte storia e cultura ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte orientale, partner dell'iniziativa, «ormai non basta dire "mai più", bisogna impegnarsi concretamente per sconfiggere odio e antisemitismo, anche nelle sue varianti più subdole come l'antisionismo».
   Il progetto prevede anche l'organizzazione - quando saranno allentate le restrizioni imposte dal Covid - dei treni della verità, qualcosa di simile ai treni della memoria, dove ad accompagnare i ragazzi, però, saranno i sopravvissuti all'Olocausto o i loro familiari.

(la Repubblica - Torino, 27 settembre 2020)


Capsula del tempo di 150 anni trovata nella sinagoga più antica di Manchester

 
Il barattolo di vetro conteneva denaro e documenti risalenti al 1873, quando fu fondata la sinagoga
L'amministratore delegato del museo ha già dichiarato che non vede l'ora di esporre la capsula la prossima primavera.

I lavori di ristrutturazione effettuati al Museo Ebraico di Manchester hanno recentemente prodotto un'intrigante scoperta sotto forma di una capsula del tempo che fu sepolta in una cavità del muro circa un secolo e mezzo fa, riferisce il 'Guardian'.
Secondo il giornale la capsula - un barattolo di vetro con il sigillo di cera ancora intatto - è stata ritrovata accanto all'Arca del Museo, "la camera che ospita i rotoli della Torah", ed era "piena di documenti della sinagoga, giornali e alcune monete antiche".
"Stavamo facendo molta attenzione a rimuovere la targa, ma non avremmo mai immaginato di trovare qualcosa vecchia quanto l'edificio ancora intatta", ha detto Adam Brown, il responsabile del sito."
La scoperta ha creato un'eccitazione generale qui. Ci appare ovvio che molti anni fa molto tempo e molti sforzi sono stati impiegati per posizionare la capsula. Trovarla in perfette condizioni è stato davvero gratificante".
Il museo occupa l'edificio di quella che il giornale descrive come "la più antica sinagoga sopravvissuta a Manchester", completata nel 1874 e ritenuta superflua quando la popolazione ebraica locale si è trasferita dall'area negli anni '70. Tuttavia, le è stata "data una nuova prospettiva di vita come il Museo Ebraico di Manchester nel 1984".
"Siamo entusiasti e sopraffatti dalla scoperta [della capsula] e non vediamo l'ora di esporla nel nuovo museo la prossima primavera", ha affermato Max Dunbar, amministratore delegato del museo.
Ha anche aggiunto che la scoperta "tempestiva" della capsula arriva in "un periodo appropriato e simbolico in cui milioni di ebrei in tutto il mondo si preparano per il giorno più sacro del calendario ebraico, lo Yom Kippur, un periodo dell'anno significativo e di riflessione in cui molti osservanti guardano dietro per andare avanti".

(Sputnik Italia, 26 settembre 2020)



La preghiera sacerdotale di Gesù
  1. Gesù disse queste cose; poi, alzati gli occhi al cielo, disse: «Padre, l'ora è venuta; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
  2. giacché gli hai dato autorità su ogni carne, perché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dati.
  3. Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data da fare.
  5. Ora, o Padre, glorificami tu presso di te della gloria che avevo presso di te prima che il mondo esistesse.
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che mi hai date, vengono da te;
  8. poiché le parole che tu mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute e hanno veramente conosciuto che io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dati, perché sono tuoi;
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; e io sono glorificato in loro.
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, quelli che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia gioia.
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
  15. Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
  19. Per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati nella verità.
  20. Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
  21. che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. Io ho dato loro la gloria che tu hai data a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
  23. io in loro e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
  26. e io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro».
Dal Vangelo di Giovanni, cap. 17

 


Israele entra in lockdown totale e sale lo scontro politico

Da giorni si registrano numeri record. Non si trovano soluzioni sulle sinagoghe e lo svolgimento delle preghiere.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il lockdown rinforzato, come lo chiamano in Israele, per contenere la pandemia è entrato in vigore ieri pomeriggio alle 14. La chiusura del paese non sarà alleggerita prima di due settimane e solo se al termine delle festività ebraiche i numeri del contagio saranno più confortanti. Secondo le nuove restrizioni sarà vietato muoversi oltre un chilometro dal proprio domicilio con alcune eccezioni, resteranno ferme le produzioni non essenziali, i negozi saranno chiusi tranne supermarket e farmacie. Non saranno permessi assembramenti con più di 20 persone. Le sinagoghe resteranno chiuse, eccetto il giorno di Kippur. Volerà da Israele solo chi ha acquistato un biglietto prima di ieri alle 11 e se sarà in possesso del risultato negativo del test al coronavirus.
   Il lockdown più leggero proclamato una settimana fa non ha dato risultati apprezzabili. Da giorni si registrano numeri record inquietanti. Ieri i casi positivi sono stati 7.500,59 i decessi in 24 ore (1.412 in totale). I malati in terapia intensiva sono attualmente 708 (170 intubati). Il Weitzman Institute, uno dei più autorevoli di Israele, per sottolineare la gravità della situazione ha comunicato che se nella prima ondata di marzo i contagi erano stati in totale circa 16mila, in questa seconda solo negli ultimi 4 giorni sono stati 17mila. Gli ospedali sono saturi e sono stati assunti altri medici e infermieri per affrontare meglio la pressione sulle strutture sanitarie.
   La diffusione dell'epidemia rischia di andare fuori controllo e gli scontri politici non aiutano a trovare le soluzioni idonee. La Knesset non è riuscita a trovare ancora un compromesso sulle norme che riguardano la chiusura delle sinagoghe e lo svolgimento delle preghiere. E sul diritto a manifestare che le nuove restrizioni limitano nel luogo e nel numero. Denuncia una svolta repressiva il movimento delle Bandiere nere che da settimane tiene raduni a Gerusalemme e in altre città per chiedere le dimissioni del premier Netanyahu, per la sua cattiva gestione della crisi coronavirus e perché è sotto processo per corruzione. Netanyahu contro le Bandiere nere vorrebbe usare il pugno di ferro facendo approvare alla Knesset «lo stato di emergenza». Definisce «anarchiche e ridicole» le manifestazioni, sostiene che la «gente ne è stanca» perché sono «incubatori di contagi». Ma contro le sue intenzioni si è schierato il procuratore dello stato Avichai Mandelblit: la Corte Suprema, avverte, potrebbe bocciare le misure di emergenza.
   Non cessano anche le contestazioni dei religiosi ortodossi per la chiusura imposta durante le festività ebraiche, mentre gli esperti avvertono che la paralisi dell'economia avrà ricadute devastanti. Lo stesso commissario per la lotta al coronavirus Ronni Gamzu si oppone al lockdown più rigido deciso dal governo. «Senza dubbio quando blocchi di più il calo delle infezioni è più significativo ma il costo economico è tremendo», ha messo in guardia. Da febbraio scorso circa 850mila israeliani si sono iscritti al servizio nazionale di impiego in cerca di lavoro, di questi 522mila erano stati licenziati. Altri 110mila non hanno alcun ammortizzatore sociale.
   La gestione fallimentare della crisi coronavirus, soprattutto nei suoi risvolti economici, si sta trasformando in una Caporetto politica per Netanyahu e il suo partito, il Likud, che i sondaggi danno in forte calo. Al contrario cresce il consenso per il partito nazionalista religioso Yamina, di Naftali Bennett, che predica soluzioni totalmente diverse da quelle attuate dal governo.

(il manifesto, 26 settembre 2020)


Coronavirus: la Knesset non raggiunge il consenso sulle limitazioni a proteste e preghiere

GERUSALEMME - La commissione legislativa e costituzionale della Knesset (il parlamento monocamerale di Israele), incaricata di approvare il rafforzamento della serrata in vigore contro il coronavirus adottato ieri dal governo, non ha raggiunto un accordo sulle limitazioni a preghiere e manifestazioni previste dal pacchetto governativo. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". In particolare, il governo proponeva di limitare le proteste a un numero massimo di manifestanti, abitanti nel raggio di un chilometro dal sito delle manifestazioni. Quando è diventato chiaro che la Knesset non avrebbe approvato le misure, il ministro della Salute ed esponente del Likud, Yuli Edelstein, ha cercato di proporre senza successo regolamenti di urgenza, che avrebbero permesso al governo di imporre restrizioni sulle proteste prima della prossima seduta della Knesset, prevista per la settimana ventura. "Ai miei occhi viene prima di tutto la salute pubblica", ha detto Edelstein, aggiungendo "non permetterò affatto che vite umane siano messe a rischio in manifestazioni o sinagoghe". Il Likud, partito del primo ministro Benjamin Netanyahu, ha accusato per la mancata approvazione delle misure l'opposizione, e per la mancata approvazione delle misure di urgenza il partner di governo, la coalizione Kahol Lavan (Blu e bianco) del ministro della Difesa Benny Gantz. Quest'ultimo aveva già annunciato oggi che non avrebbe sostenuto le ulteriori restrizioni d'urgenza su proteste e preghiere.

(Agenzia Nova, 26 settembre 2020)


Perché i paesi arabi hanno cambiato idea su Israele?

Le politiche aggressive dell'Iran nel corso di tre decenni hanno allarmato molti paesi arabi e li hanno fatti guardare al loro rapporto con Israele con occhi nuovi.

di Franco Londei

Perché i paesi arabi hanno cambiato idea su Israele? Sono in tanti a chiederselo dopo che gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno regolarizzato i loro rapporti con lo Stato Ebraico e altri paesi arabi si accingono a farlo.
  In parte ci illumina il Ministro degli affari esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, che in una intervista alla Associated Press spiega che il comportamento dell'Iran negli ultimi anni ha spaventato i paesi arabi tanto da far loro rivedere le posizioni su Israele e spingerli a guardare lo Stato Ebraico con altri occhi.
  "Le politiche aggressive dell'Iran nel corso di tre decenni hanno allarmato molti paesi arabi e li hanno fatti guardare al loro rapporto con Israele con occhi nuovi".
  
Ma non è solo questo. Per decenni la questione palestinese ha paralizzato l'apertura di normali relazioni tra Israele e il mondo arabo mentre altri, che dicevano di essere filo-palestinesi, avevano normali relazioni con lo Stato Ebraico e facevano affari miliardari.
  Un caso per tutti, la Turchia. È proprio il ministro degli esteri emiratino a ricordarci l'ipocrisia di Ankara che critica l'accordo tra Gerusalemme e Dubai quando Israele e Turchia hanno normali relazioni da decenni, hanno ambasciate nei rispettivi paesi, lo scorso anno 550.000 israeliani hanno visitato la Turchia e hanno scambi commerciali per oltre tre miliardi di dollari.
  «Quella turca è pura ipocrisia» ha detto Anwar Gargash alla Associated Press. «Ankara cerca di trarre vantaggio dalla difficile situazione palestinese per limitate considerazioni regionali» ha detto ancora il Ministro degli esteri emiratino.
  I paesi arabi sono stanchissimi della questione palestinese. Hanno capito che non ha uno sbocco e non certo per colpa di Israele. Si sono stancati di versare miliardi di dollari nella casse palestinesi per poi vederli sparire nel nulla. Hanno ormai compreso che i cosiddetti palestinesi non hanno alcun interesse a creare un loro Stato e che preferiscono rimanere in questo limbo dove ottengono praticamente di tutto senza alcun controllo e senza pagare o restituire un centesimo.
  Ormai sono anni che Israele e Paesi arabi hanno relazioni sottobanco, anche molto delicate riguardanti la difesa. Mancava solo il coraggio da parte araba di ufficializzare questa cooperazione e di mandare a quel paese il problema palestinese.
  Finalmente con questo processo il cambiamento sembra essere iniziato e non c'è niente da chiedersi sul perché i paesi arabi hanno cambiato idea su Israele. Era semplicemente inevitabile.

(Rights Reporter, 26 settembre 2020)


Benefattore israeliano decide di aiutare ogni mese due cittadini bisognosi di Nonantola

di Chiara Ugolini

 
Villa Emma, Nonantola - 1943
"Se fai del bene, ricevi del bene", anche a distanza di 77 anni. Nel pieno della seconda guerra mondiale, nel 1943, Nonantola, comune in provincia di Modena, nascose nella tenuta di Villa Emma decine di giovani ebrei, salvandoli dalla deportazione. Un episodio che è rimasto nel cuore di un israeliano di Zikhron Ya'aqov, un piccolo paese di 17mila abitanti, che ha scelto la strada della gratitudine. Tutto nasce da un parco dedicato a Nonantola inaugurato nella cittadina israeliana di Rosh HaAyn: è lì che l'uomo, che vuole rimanere anonimo, ha conosciuto la storia di Villa Emma contattando poi la sindaca della cittadina modenese per donare 200 euro al mese a due famiglie in difficoltà della zona. "Non ce lo aspettavamo, non in un momento così difficile per tutti - ammette il vicesindaco di Nonantola, Gian Luca Taccini -. Siamo rimasti piacevolmente sorpresi da così tanta generosità".
  Due però le condizioni richieste dal benefattore. La prima, che i destinatari siano davvero bisognosi e, la seconda, che percepiscano il denaro direttamente sul proprio conto bancario senza intermediari. Così, grazie anche all'aiuto dei servizi sociali, i beneficiari sono stati individuati: una donna anziana, senza famiglia e con problemi di salute, e un uomo adulto conosciuto nella cittadina per il suo impegno nel volontariato. "Mio figlio ha perso il lavoro a causa del coronavirus, ancora oggi non ha trovato un altro impiego fisso. Questo ci serve per andare avanti - racconta la madre 70enne -. Ci sentiamo lusingati. In un mondo così pieno d'odio, è difficile trovare persone disposte a dare una mano agli altri senza chiedere nulla in cambio".
  La donazione, partita con i primi 400 euro a luglio, al momento non prevede una scadenza. "Non sappiamo quali saranno gli sviluppi - aggiunge Taccini -. Col benefattore abbiamo però parlato di un periodo di medio-lungo termine. Ogni mese ci tiene a sapere se sono arrivati i soldi, se le due persone li hanno ritirati o se ci sono dei problemi".
  La storia di Villa Emma in questi anni è stata più volte ricordata dai parenti dei giovani salvati o dai sopravvissuti stessi, molti dei quali dopo la guerra sono andati a vivere in Israele. Così come il coraggio dimostrato da don Arrigo Beccari, parroco di Rubbiara, e dal medico Giuseppe Moreali (i due che al tempo si occuparono di nascondere i 73 ragazzi ebrei), oggi Giusti delle Nazioni allo Yad Vashem. L'ultimo riconoscimento, a marzo, è stato proprio quello di Rosh HaAyn (una città israeliana di 50mila abitanti), dove il sindaco ha dedicato al comune modenese un parco, Nonantola Park. Occasione in cui il benefattore anonimo ha preso coscienza di ciò che successe più di 70 anni fa nel modenese, rimanendo profondamente colpito.
  Tramite due intermediari, la figlia di Sonja Borus, una dei giovani ebrei nascosti e salvati durante la guerra, Ada Kuyer e un concittadino nonantolano di origine israeliane, Barak Aaronson, l'uomo si è così messo in contatto con il vicesindaco e la sindaca di Nonantola, Federica Nannetti, gli unici due a conoscere la sua identità. "Quando abbiamo ricevuto l'email siamo rimasti stupiti. Non è una cosa che capita tutti i giorni - sottolinea Taccini -. Come in tante altre città in questo periodo molti nonantolani hanno perso il lavoro e stanno pagando il prezzo dell'emergenza sanitaria. A causa del Covid le situazioni economiche (e non solo) difficili sono aumentate: ora sono seguite dai servizi sociali nuove famiglie, italiane e straniere". Per questo la generosità del benefattore anonimo "è stata come una boccata di ossigeno - aggiunge il vicesindaco -. Almeno così riusciamo ad aiutare due persone in più".
  Ma la solidarietà di Nonantola non è rimasta cristallizzata a Villa Emma. Negli anni il Comune ha continuato a essere accogliente nei confronti dei più deboli, come richiedenti asilo e migranti, grazie all'intervento anche di diverse associazioni presenti sul territorio. "Fondamentale l'impegno della Fondazione Villa Emma che continua a documentare ciò che successe durante la guerra - aggiunge il vicesindaco -. L'ultimo progetto che partirà dal 2021 è quello di realizzare un luogo per la memoria, 'Davanti a Villa Emma' che sorgerà a Prato Galli, terreno che si trova proprio di fronte alla residenza: racconterà la storia dei ragazzi di Villa Emma, ma parlerà anche di tutte le esperienze di oggi, di tutte le persone che hanno dovuto lasciare la propria casa e sono state ospitate e aiutate da Nonantola".

(il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2020)


Mastercard e Visa. Nessun servizio al terrorismo palestinese per non essere fuorilegge

di Paolo Castellano

Le aziende Mastercard e Visa non dovranno fornire i loro servizi alla nuova banca dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (PLO) se non vorranno essere incriminate per favoreggiamento del terrorismo, rischiando procedimenti penali e civili in Israele. Il monito arriva dall'associazione israeliana Palestinian Media Watch (PMW) che monitora i cambiamenti sociali all'interno dei territori di Gaza e Cisgiordania.
   Il 25 settembre il Jerusalem Post ha pubblicato l'appello della PMW in cui si fa riferimento alla nascita di una nuova banca dell'Autorità Palestinese, istituita appositamente per aggirare l'ordinanza israeliana sui finanziamenti ai terroristi e alle famiglie dei terroristi. La legge israeliana, entrata in vigore il 9 maggio, stabilisce che verranno puniti gli istituti di credito che trasferiranno somme di denaro a chiunque abbia compiuto un attacco terroristico, compresi i parenti.
   Il governo israeliano ha infatti approvato l'ordinanza per scoraggiare la popolazione palestinese a compiere violenze nei confronti dei cittadini israeliani in cambio di denaro. Sin dal 1994, l'Autorità Palestinese utilizza il meccanismo pay for slay per reclutare attentatori.
   Come sottolinea PMW, le banche che si trovano in Cisgiordania non hanno ancora chiuso definitivamente i conti correnti dei terroristi. Questo perché l'Autorità Palestinese aveva preteso una sospensione del processo di chiusura fin quando non fosse stato istituito un nuovo istituto di credito per stipendiare gli assassini. Dopo tre mesi di attesa, i funzionari palestinesi hanno creato la propria banca, accantonando l'opzione delle Poste che attualmente non possono emettere credito.
   Dunque, l'associazione israeliana ha voluto informare Mastercard e Visa riguardo al coinvolgimento delle banche palestinesi nel terrorismo dei gruppi armati presenti a Gaza e in Cisgiordania. Da questo momento, le due istituzioni finanziarie non potranno sostenere di aver incoraggiato la violenza palestinese a loro insaputa.
   «Ad oggi, le società di carte di credito hanno evitato di essere accusate di fornire sostegno finanziario ai terroristi nascondendosi dietro a banche che hanno standard elevati», ha sottolineato Maurice Hirsch, direttore delle strategie legali della PMW. «Le banche che operano nei territori dell'Autorità Palestinese violano chiaramente gli standard antiterrorismo riconosciuti e accettati a livello internazionale. Essendo state informate del supporto che le banche dell'Autorità Palestinese forniscono al terrorismo e ai terroristi, Mastercard e Visa devono agire rapidamente per evitare di scoperchiare un vaso di Pandora».

(Bet Magazine Mosaico, 25 settembre 2020)


L'Iran apre una nuova base nello stretto di Hormuz

TEHERAN - Il corpo dei Guardiani della rivoluzione iraniana ha annunciato l'apertura di una nuova base navale nello stretto di Hormuz lungo una delle rotte di transito petrolifere più trafficate del mondo. Secondo quanto riporta l'emittente iraniana "Press Tv", la base si chiama Shaheed Rahbari ed è situata vicino al porto di Sirik, sul lato orientale dello stretto di Hormuz. I lavori per la sua realizzazione sono durati sei anni. La cerimonia di apertura della base è avvenuta alla presenza del comandante dei Guardiani della rivoluzione, generale Hossein Salami. "Le operazioni di combattimento, le operazioni navali, di ricognizione e le operazioni difensive e offensive del paese nel Golfo Persico si svilupperanno ulteriormente", ha dichiarato Salami. L'annuncio dell'entrata in funzione della base Shaheed Rahbari giunge dopo l'accordo raggiunto tra Emirati Arabi Uniti e Israele per la normalizzazione dei rapporti aprendo la strada a una presenza ufficiale di Israele nelle acque del Golfo.

(Agenzia Nova, 25 settembre 2020)


Antisemitismo e razzismo in crescita in tutta la Germania

di Jacopo Rossi

BERLINO - Dopo 75 anni dalla fine della guerra la Germania conosce ancora una volta l'incubo dell'antisemitismo.
L'ultima dimostrazione è l'incendio doloso di un bar gestito da ebrei distrutto il mese scorso, proprio nelle vicinanze del quartiere Lichtenberg di Berlino. Lo stesso dove targhe di ottone incastonate sul marciapiede ricordano i residenti ebrei che da lì furono portati via dalle proprie case e uccisi dai nazisti.
(Research and Information on Anti-Semitism - RIAS) ha lanciato un allarme molto serio in Germania denunciando 410 incidenti, più di due al giorno, solo durante la prima metà del 2020. Sei sono attacchi fisici, 25 casi di danni alla proprietà, 20 minacce, 58 tipi di propaganda antisemita e 301 gesti o comportamenti, come il saluto nazista.
Le autorità tedesche sono molto preoccupate da questo fenomeno che dalla riunificazione della Germania non aveva avuto mai livelli cosi alti.
Il ministero dell'Interno ha segnalato un aumento del 13% dei crimini antisemiti portando il totale a 2.032, più del 93% dei quali attribuiti all'estrema destra. Anche i crimini anti-musulmani sono aumentati del 4,4% per un totale di 950, oltre il 90% di questi commessi da presunti estremisti di destra.
Infine a Francoforte e provincia nelle ultime tre settimane sono state segnalati diversi episodi di razzismo nei confronti della comunità turca e albanese molto presente nel territorio dell'Assia.

(FRANCOFORTENEWS.COM, 25 settembre 2020)


Visita alla Villa Romana per Dror Eydar. Positano accoglie l'ambasciatore d'Israele

L'incontro con l'ambasciatore potrà dare nuovo slancio a importanti progetti di collaborazione fra il territorio della Costa d'Amalfi e Israele, culturali, sociali ed economici, oltre a rinsaldare un sentimento di fratellanza e lotta all'antisemitismo che la Città Verticale testimonia da tempo con la tomba dello scrittore Essad Bey

di Maria Abate

 
L'ambasciatore d'Israele Dror Eydar e il Sindaco di Positano Giuseppe Guida
Il Sindaco di Positano Giuseppe Guida ha accolto l'ambasciatore d'Israele, il giornalista e professore universitario israeliano Dror Eydar, in Italia. L'ambasciatore, accolto in Piazza Thurnau, ha potuto ammirare le bellezze di Positano, "Città Rifugio" per gli Ebrei, e ha visitato la Villa romana.
    «Dopo una breve passeggiata sul Sentiero degli Dei ha potuto ammirare anche le meraviglie della nostra Positano e in particolare della Villa romana. Abbiamo avuto un lungo colloquio che ci ha dato l'opportunità di conoscerci e raccontarci dei nostri paesi; l'ambasciatore ed il suo Entourage sono rimasti molto colpiti dalla bellezza di Positano ed infatti ci siamo salutati con la promessa di ritrovarci presto»,
ha detto Guida.
L'incontro con l'ambasciatore potrà dare nuovo slancio a importanti progetti di collaborazione fra il territorio della Costa d'Amalfi e Israele, culturali, sociali ed economici, oltre a rinsaldare un sentimento di fratellanza e lotta all'antisemitismo che la Città Verticale testimonia da tempo con la tomba dello scrittore Essad Bey, l'ebreo arabo che nel 1938 si trasferì a Positano dopo la fuga da Baku e fu sfamato dai gestori della «Buca di Bacco» fino alla morte, avvenuta a causa della sindrome di Raynaud.
    «Per quanto ampie siano le nostre relazioni economiche, Israele e Italia non si sono ancora avvicinate del tutto alla piena realizzazione della cooperazione economica in tutti i campi, attraverso investimenti, ricerca scientifica e industriale, soluzioni tecnologiche disponibili per l'industria, l'agricoltura e il settore dei servizi e molto altro ancora. Prendiamo ad esempio il settore agricolo. L'Italia meridionale e Israele vivono condizioni simili sia per quanto riguarda il clima che per le risorse idriche. In effetti, Israele collabora con Confagricoltura per condividere la sua esperienza nell'implementazione delle tecnologie agricole all'avanguardia, in grado di massimizzare la produzione agricola. Inoltre, siamo impegnati affinché l'Italia possa essere un punto di riferimento europeo(hub) nel campo dell'agritec e stiamo lavorando per promuovere una conferenza annuale sull'agricoltura simile al Cybertech Europe»,
aveva detto a giugno in un'intervista a "Tribuna Economica".

(GeosNews, 25 settembre 2020)


Accordo Abraham: quanto vale sul piano economico e tecnologico

Dietro l'Accordo Abraham non c'è solo la creazione di un percorso di pace e normalizzazione ma l'inizio di una collaborazione che avrà un enorme impatto sull'economia e lo sviluppo scientifico.

di Roberto Battistini

Che dietro all'Accordo Abraham non ci fosse solo la creazione di un percorso di pace e normalizzazione, era chiaro sin dal 13 agosto, ovvero dall'annuncio mondiale sull'Agreement del Presidente Donald Trump. Al di là dell'impegno israeliano alla sospensione dell'ulteriore annessione dei territori palestinesi in Cisgiordania, una rinuncia inizialmente solo annunciata come ritardata dal premier israeliano Netanyahu, poi diventata realtà, lo storico accordo siglato dopo circa un mese di intensi rapporti diplomatici tra le due potenze offre sul piano operativo diversi elementi di interesse, dimostrando come l'annessione non sia la priorità di Israele.
  In particolare emergono lo sviluppo scientifico e tecnologico nel bacino medio-orientale e il consolidamento di un importante asse economico capace di contrastare l'avanzata dell'Iran. "Le future collaborazioni tra le due realtà" afferma Shai-Lee Spigelman direttore generale dell'Israeli Ministry of Science and Technology, "arriveranno a coinvolgere soprattutto gli ambiti dell'Intelligenza Artificiale, della scienza quantistica, dell'agricoltura, degli studi sugli ambienti desertici e la water security. Ciascun paese potrà mettere in campo le elevate competenze di ricerca inerenti la cybersecurity, l'energia e le tecnologie di de-salinizzazione.
  Inutile dire che Israele ed Emirati Arabi risultano accumunati da tempo dal forte interesse nel campo della tecnologia e della ricerca. Israele, a partire dalla premiazione di Tel Aviv come Best City nell'ambito del World Smart City Awards che ha concluso la quarta edizione dello smart City Expo World Congress del 2014, sta dimostrando da anni come la tecnologia possa migliorare la vita dei cittadini.
  Basti ricordare la piattaforma Digi-Tel, una piattaforma destinata a trasformare Tel Aviv in un punto di riferimento dei nuovi modelli di partecipazione pubblica sotto il profilo dello sviluppo urbano e dell'economia partecipata secondo i modelli di Poter e Kramer, il wi-fi gratuito di Tel Aviv, i sistemi innovativi di intelligenza artificiale di urban traffic control AVIVIM, per supportare il trasporto pubblico o il Traffic Enforcement solution, in grado di rilevare il comportamento stradale irregolare (il fenomeno del traffic on shoulder) e le varie tipologie di parcheggio irregolari. L'interesse verso le scienze degli israeliani ha origini remote, probabilmente sin dalle applicazioni mediche del Maimonide, ed oggi vede il paese in prima linea in diversi ambiti. Nella ricerca medica, nella mobilità sostenibile legata al processo di de-carbonizzazione, con le infrastrutture di ricarica dei mezzi elettrici Electroad, con i bikesharing innovativi come Tel-O-Fun, nonché nella ricerca chimico-farmaceutica e ovviamente nella lotta contro il Covid 19 (dai device di protezione facciale per i medici, ai prodotti chimici per disinfettare le superfici, fino ai sistemi di testing rapidi).
  Dall'altro lato, gli Emirati arabi hanno dimostrato un forte interesse ad investire nell'intelligenza artificiale e nella robotica dopo aver sperimentato l'affidamento a droni dei sistemi di consegna dei documenti amministrativi, tra cui l'Identity Card, direttamente a domicilio ed aver predisposto l'innovativo Dubai Autonomous Transportation Strategy: un piano che entro il 2030 prevede di disporre del 25% del trasporto con veicoli autonomi, con un guadagno economico pari a 900 milioni di AED, contribuendo così alla riduzione dell'inquinamento prodotto dai veicoli. Negli UAE sono già sperimentati e in uso aereotaxi e sistemi modulari di bus flessibili in grado di essere adattati alla domanda di viaggio dei pendolari.
  Due potenze che sull'asse tecnologico scientifico avevano anche già diversi elementi condivisi. La cooperazione scientifica non è iniziata ora, ma si innesta in un progresso in forte crescita: è sufficiente rilevare come gli scienziati degli Emirati e israeliani siano stati co-autori di ben 248 articoli scientifici tra il 2017 e il 2019 stando ai dati del database Scopus.
  Dal giorno successivo all'annuncio di Trump, il 14 agosto, questa collaborazione è diventata ancora più concreta (vedi la creazione del collegamento telefonico). E proprio il collegamento telefonico, che riduce la tendenza di alcuni israeliani ad utilizzare smartphone palestinesi con numeri +970 per chiamare gli Emirati per ragioni di business, non è per nulla casuale. Come non lo è l'aver rimosso i blocchi sui siti web di news israeliane. Come sosteneva Edward Geaser le città per superare il problema dell'urban divide, devono agire sui transition costs, quei costi legati al far agire le realtà urbane come social network, dove l'informazione e l'educazione siano accessibili a tutti. Dove la comunicazione svolge un ruolo centrale, come vettore di socialità e cultura.
  Da quando Abdullah bin Zayed al-Nahyan, Ministro degli esteri e della cooperazione internazionale insieme al primo ministro Benjamin Netanyahu hanno firmato a Washington l'Accordo di Pace tra Emirati Arabi ed Israele, si è potuto assistere ad un graduale rafforzamento degli strumenti economici, atti al finanziamento dello sviluppo tecnologico, facendo emergere la centralità dell'area scientifica e tecnologica. Tutto ciò a partire dall'abolizione della legge che prevedeva il boicottaggio economico verso Tel Aviv, consentendo di importare e commerciare prodotti israeliani, e ancor meglio, stipulare accordi con società di Israele, per un volume d'affari stimato in 4 miliardi di dollari.
  Le aree di cooperazione toccano gli ambiti dell'energia, della medicina, del turismo, della tecnologia e della finanza. La stessa Bank Hapoalim, una delle principali banche israeliane, prevede di lavorare con le banche degli Emirati, e al contempo la società Group 42, un'importante società fondata ad Abu Dhabi per lo sviluppo della IA e del cloud computing, nei settori pubblici, della sanità, finanza, delle risorse energetiche e dell'aeronautica, si avvia ad aprire una sede in Israele.
  La stessa G42 è impegnata in questo periodo nello studio della fase 3 per un vaccino contro il Covid19 e già ai primi di luglio aveva annunciato di aver firmato due distinti Memorandum of Understanding con la Rafael Advanced Defense Systems (Rafael) l'Israel Aerospace Industries (IAI), due importanti aziende tecnologiche, con il fine di esplorare cooperazioni nella ricerca e lo sviluppo di soluzioni concrete per la lotta al Covid19.
  Il nesso tra tecnologia e ricerca sanitaria, sta nel fatto ad esempio che la stessa G42 ha recentemente annunciato, in partnership con l'Oxford Nanopore Technologies, un detecting test di tipo end-to-end finalizzato ad uno screening di massa o su richiesta, nell'ottica di prevenire la diffusione del virus e di conciliare la riattivazione dell'economia globale.
  A sostegno del valore scientifico ed economico dell'Accordo si schierano anche altre diverse partnership, tra cui gli accordi tra l'APEX emiratina e la TeraGroup israeliana per lo sviluppo della ricerca scientifica sul Covid, tra la Pluristem Therapeutics di Haifa e la Abu Dhabi Stem Cells per la ricerca sulle cellule staminali e l'ingresso nel mercato emiratino dell'israeliana Bo&Bo Ltd con la sua tecnologia di tele-riabilitazione. La nuova leadership UAE dello sceicco Mohammed bin Zayed, orientata all'innovazione, guarda all'era post-greggio e cerca in Israele un partner ideale per il processo di de-carbonizzazione e di sviluppo scientifico e culturale. Molti esperti del settore hanno riferito al magazine Nature che la cooperazione scientifica-economica porterà assodati benefici su entrambi i lati: gli scienziati degli Emirati potranno usufruire della frontiera scientifica israeliana, ben strutturata, e della collaborazione con aziende tecnologiche israeliane. Analogamente gli scienziati israeliani potranno attingere agli investimenti nello sviluppo degli UAE.
  Un sodalizio che fa intravedere un futuro tecnologico e scientifico evoluto per i due paesi, fatto di mobilità sostenibile de-carbonized, di applicazioni concrete di IA e computing, di nuove frontiere medicali e di un rafforzamento di flussi di capitale. In sostanza, gli ambiti dell'Accordo Abraham, nel loro evidente valore scientifico e tecnologico, sono orientati a mantenere vivi gli ecosistemi moderni ed urbanizzati. Un approccio da cui trarranno benefici anche gli altri paesi. Europa e Stati Uniti compresi.

(JoiMag, 25 settembre 2020)


Emirati-Israele: colloquio telefonico tra ministri dell'Energia

Focus su petrolio, gas e rinnovabili

ABU DHABI - Il ministro dell'Energia e delle Infrastrutture degli Emirati Arabi Uniti, Suhail bin Mohammed Al Mazrouei, ha discusso in videoconferenza con l'omologo israeliano, Yuval Steinitz, dei legami bilaterali e delle modalità per rafforzarli nei settori dell'energia e delle infrastrutture, in particolare nell'ambito delle fonti rinnovabili. Lo riferisce l'agenzia di stampa emiratina "Wam". Durante l'incontro, Al Mazrouei ha presentato la strategia emiratina per l'energia (Uae Energy Strategy 2050), il primo piano energetico unificato del paese che mira a mantenere un equilibrio tra produzione e consumo e soddisfare gli impegni ambientali globali, per creare un ambiente economico favorevole per la crescita complessiva. Entrambe le parti hanno anche discusso delle modalità per rafforzare la loro cooperazione nel settore del petrolio e del gas, nonché l'uso di energia verde e tecnologie avanzate nei settori dell'energia e della sicurezza informatica legate all'energia. Il colloquio giunge a una settimana dalla firma degli Accordi di Abramo tra Emirati e Israele.

(Agenzia Nova, 24 settembre 2020)


Israele e Territori palestinesi: lo stato della situazione

di Claudio Vercelli

Qualsiasi valutazione di merito sulla manifestazione di volontà, espressa recentemente da Benjamin Netanyahu, di annettere una parte dei territori che compongono l'attuale Cisgiordania, deve tenere in considerazione alcuni elementi di quadro. Il primo di essi è che ciò che il premier d'Israele ha palesato è un'intenzione di fondo che, tuttavia, faticherà a divenire fatto compiuto. Semmai, si potrebbe assistere ad annessioni di singoli spazi urbani prospicienti la vecchia Linea verde, tracciata con gli accordi di Rodi del 1949. Difficile pensare diversamente, allo stato attuale delle cose. Se l'incremento della presenza ebraica nei Territori dell'Autonomia palestinese è destinato ancora a proseguire, la scelta di procedere a un'acquisizione unilaterale, sancendo la sovranità israeliana su rilevanti porzioni di terra che sono al di fuori di quelle che costituiscono ancora linee armistiziali (poiché di ciò si tratta, non essendo confini definiti una volta per sempre), sarebbe un'azione destinata a comportare costi politici molto elevati. I benefici che ne deriverebbero per Gerusalemme (a sua volta contestata da molta parte della comunità internazionale nella sua qualità di capitale «unica e indivisibile» di un solo Stato) non è per nulla detto che sopravanzerebbero gli oneri che, nel qual caso, maturerebbero per l'Amministrazione israeliana, a partire dalla difficile, se non impossibile, coesistenza con una parte corposa di popolazione araba, che in tutta probabilità rifiuterebbe l'esito dell'atto unilaterale.
  L'attuale filo logico dell'Amministrazione Netanyahu-Gantz sembra invece essere informato al presupposto che la questione del destino politico, amministrativo e quindi sovrano di quelle terre costituisca, al medesimo tempo, un significativo elemento della propria piattaforma elettorale e una rilevante merce di scambio per futuri accordi con il mondo arabo. Non è un caso, infatti, se il percorso di progressiva normalizzazione diplomatica con una parte dei paesi sunniti del Golfo, a partire dagli Emirati Arabi Uniti, abbia a oggetto proprio l'astensione della premiership israeliana dalle intenzioni paventate nei mesi scorsi. Si tratta di una falsa contropartita rispetto al concreto merito dei rapporti in via di formalizzazione, che semmai riformulano la proiezione e la collocazione dell'asse sunnita dentro le labirintiche dinamiche mediorientali. In gioco non c'è solo la contrapposizione con l'Iran ma anche il ruolo della Turchia nel Mediterraneo insieme al ridisegno della fisionomia della complessa regione siro-irachena. In altre parole, il rimando a una sorta di baratto, per il quale la progressiva formalizzazione delle relazioni tra Israele e le monarchie del Golfo si baserebbe sulla curatela che queste eserciterebbero degli interessi palestinesi, è un pretesto la cui unica utilità è quella di permettere alle seconde di venire allo scoperto rispetto alla crescente trama di rapporti che già da tempo vanno intrattenendo con lo Stato ebraico.
  All'interno dei conflitti e nelle contrapposizioni aperte si inseriscono a tutto tondo le dinamiche economiche: malgrado Israele stia soffrendo gli effetti della pandemia, rimane uno snodo fondamentale della produzione di ricchezza nell'età della globalizzazione. Più e meglio di altri paesi, Gerusalemme è inserita dentro le dinamiche dell'economia della conoscenza e dell'informazione, sapendo operare su quella dimensione digitale che sta diventando la radice dell'attuale costituzione economica mondiale. È quindi improbabile che la parte del mondo sunnita che intende non perdere il treno dell'innovazione continui ad astenersi da rapporti "in chiaro" con lo Stato ebraico. Il quale, a sua volta, rafforzando le sue politiche di sicurezza, identifica nel problema della sua legittimazione un nodo prioritario della propria azione politica a venire. Quanto meno sul piano regionale. Quindi, in una parte del mondo arabo, che condivide l'esigenza di controllare e filtrare l'operatività del fondamentalismo islamista, vero e proprio attore trasversale, capace di inserirsi nelle dinamiche di potere di non pochi Stati.
  Il processo in atto, per intenderci, segue quello che portò nel 1979 alla pace con l'Egitto: l'oggetto della trattativa è lo scambio tra territori controllati militarmente e amministrativamente da Israele, con la cessazione della condizione di ostilità formale nei suoi confronti e il suo riconoscimento nella qualità di interlocutore. In questo caso, è come se Netanyahu avesse detto: «possiamo annetterci la Valle del Giordano ma se ci offrirete una convincente contropartita, che sta già nei fatti, ce ne asterremo, almeno temporaneamente». Le premesse ci sono già da tempo. Tuttavia, occorreva un qualche elemento che ne legittimasse la formalizzazione rispetto all'opinione pubblica araba. La cui ostilità a Israele non per questo verrà meno ma sarà attenuata dal concreto decision making delle sue classi dirigenti. Il riscontro di immagine (in prospettiva anche il ritorno politico) è prezioso per la leadership israeliana.
  Un ulteriore elemento da considerare sono le dinamiche demografiche in corso, sia nella società palestinese che in quella israeliana. Tramontata nel primo caso la suggestione di una «guerra delle culle», già paventata a suo tempo da Yasser Arafat («vinceremo grazie al numero prima ancora che in ragione di un netto ribaltamento sul campo, politico o militare che sia»), poi in buona parte smentita da un trend accrescitivo molto più contenuto di quello inizialmente previsto, rimane tuttavia la difficile dialettica degli spazi tra una comunità nazionale e l'altra. Nel caso israeliano, la crescita della popolazione è stata costante nel tempo, arrivando a contare gli attuali 9 milioni (il 74% dei quali ebrei). Dopo di che, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania non rispondono solo a una logica di espansione geografica e spaziale, così come di controllo territoriale (la «profondità strategica»), ma alle sollecitazioni che, a partire dagli anni Settanta in poi, sono pervenute da diversi segmenti del quadro politico interno e internazionale. La presenza israeliana in Cisgiordania, infatti, si inscrive in un preciso codice ideologico che è proprio delle destre identitarie e neonazionaliste. Se fino agli Accordi di Oslo degli anni Novanta l'espansione degli insediamenti colonici si inseriva nel mutamento che stava accompagnando la radicalizzazione di alcune componenti della destra israeliana, con la morte di Yitzhak Rabin, nel 1995, la spinta scaturita dai movimenti di area evangelica - stabilmente presenti negli Stati Uniti come forza elettorale conservatrice, una parte dei quali è impegnata a sostenere la presenza israeliana in Cisgiordania - è divenuto un fattore importante. In prospettiva, forse, decisivo. Sussiste un asse politico e ideologico, se non un'implicita specularità culturale, tra la nuova destra israeliana, post-likudista, al medesimo tempo populista e sovranista, che Benjamin Netanyahu si è incaricato di guidare (benché la sua formazione politica sia ben diversa da tale milieu), e alcuni movimenti di reviviscenza religiosa, perlopiù di estrazione protestante, attivamente impegnati nella politica statunitense. Il sostegno più deciso al «piano del secolo», licenziato dall'Amministrazione Trump per il riassetto del contenzioso israelo-palestinese, proviene da quella parte di elettorato (e dai suoi esponenti e rappresentanti) che si rivela maggiormente sensibile a questi ambienti. Che stanno investendo risorse finanziarie negli insediamenti colonici e che intrattengono con gli esponenti più politicizzati di quelle realtà rapporti consolidati. Le monarchie del Golfo, così come molte leadership del mondo arabo, peraltro guardano con maggiore simpatia a interlocutori israeliani di matrice conservatrice che non a soggetti che potrebbero, in ipotesi, mettere in discussione uno status quo nel quale l'ulteriore compressione delle prerogative palestinesi è comunque accetto.
  Un altro elemento è non solo il tempo a venire ma anche quello presente del lungo percorso che conosciamo come «conflitto israelo-arabo-palestinese». Le coordinate di campo, infatti, sono mutate. I palestinesi subiscono una crescente marginalità rispetto agli scenari generali, faticando a difendere, e quindi a mantenere, l'ordine di priorità della propria posizione nell'agenda politica internazionale. Benché la residuale ipotesi di una sua soluzione negoziata non si sia esaurita del tutto, nel mondo arabo ha oramai scarso credito. Così come anche, al netto delle dichiarazioni di circostanza, tra la diplomazia internazionale. Non più, quanto meno, secondo la logica dei "due popoli, due Stati". Al netto dei mutamenti geopolitici e di scenario intervenuti in questi decenni, il più grave deficit della comunità palestinese è la mancanza di una leadership unitaria. Ovvero, la sua sostanziale acefalia e il patrimonialismo corporativo che l'accompagna. La frattura tra Hamas e le componenti dell'Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania, di fatto operante in maniera definitiva già dal 2006, segna anche la separazione territoriale, nettamente disegnata sul piano geografico, tra due entità non solo politiche ma oramai anche sociali, culturali e civili. Perdurando lo stato attuale delle cose, non ci sono le premesse per ricostruire un tessuto di contrattazione che permetta di arrivare a un qualche final status credibile. Una tale condizione di così lungo periodo ha peraltro creato il contesto in cui operano da tempo gruppi di interesse, a volte trans-comunitari, ossia israelo-palestinesi, che traggono beneficio economico dal mantenimento intenzionale della paralisi dei processi decisionali. La quale, prima o poi, è destinata comunque a sgretolarsi ma, nel qual caso, lasciando libero campo ai soli rapporti di forza nel frattempo determinatisi.
  A fronte di queste considerazioni di merito, entra in gioco lo sforzo di Netanyahu di garantirsi una longevità politica che, qualora dovesse tradursi nei fatti, non avrebbe pari nella storia israeliana, essendo egli in gioco dal 1996. Quattro elementi giocano a suo favore: la trasformazione e la metamorfosi delle culture politiche israeliane, a sinistra come anche a destra; la mancanza di una leadership alternativa alla sua, malgrado le diffuse opposizioni all'indirizzo cesaristico e personalistico che ha fatto proprio; l'incapacità di tradurre le tensioni presenti nella società israeliana in un progetto in grado di risultare credibile alle urne, in contrapposizione alle posizioni della destra (posto che la sinistra storica, in Israele, è pressoché quasi estinta); l'evidente sintonia che Netanyahu medesimo manifesta con una generazione di leader politici mondiali, definibili come "sovranisti", la cui radice è il richiamo all'identità nazionale, di radice etnica, in quanto fondamento esclusivo della propria legittimazione, insieme al convincimento che il multilateralismo nelle relazioni internazionali sia oramai esaurito, dovendo semmai essere sostituito da contrattazioni bilaterali se non da situazioni di fatto basate su atti unilaterali.

(Italianieuropei, 24 settembre 2020)


Primo volo commerciale fra Israele e Bahrein

Il primo volo commerciale diretto fra Israele e Bahrein è atterrato ieri. II volo, un Israir Airlines Airbus A320, è il frutto della strategia di avvicinamento fra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi promossa dagli Stati Uniti. Il 16 settembre i tre paesi hanno infatti firmato alla Casa Bianca i Patti di Abramo, accordi per normalizzare le loro relazioni che sono stati definiti «storici» dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

(Domani, 24 settembre 2020)


Israele inasprisce il confinamento: «Da nessuna parte misure simili»

Chiusi tutti i servizi e le industrie non essenziali. Critiche: «Il settore privato non avrebbe dovuto chiudere».

di Dario Ornaghi

TEL AVIV - Durante la notte il governo israeliano ha approvato nuove misure di confinamento per far fronte alla pandemia di Covid-19 ancora più rigide rispetto a quelle già in atto. Le restrizioni entreranno in vigore da domani (venerdì) e saranno valide fino all'11 ottobre, alla fine della serie di festività ebraiche che scandiscono queste settimane.
   Tra i provvedimenti figura la chiusura di tutti i servizi e le fabbriche non essenziali, una misura che non ha precedenti nemmeno in marzo-aprile. Sono inoltre vietate le manifestazioni con più di 20 persone e non è comunque possibile prendere parte a eventi che si svolgano a più di un chilometro dal proprio domicilio. Le sinagoghe verranno aperte solo per le cerimonie dello Yom Kippur. Resteranno aperti solo i supermercati, le farmacie e alcune industrie essenziali. Ora tocca alla Knesset approvare il pacchetto di misure.
   «Il settore privato non avrebbe dovuto chiudere. Ciò che viene proposto qui ora non ha precedenti nel mondo, nessun Paese ha disposto misure simili», ha dichiarato il ministro delle Finanze israeliano Israel Katz, che con il "mister coronavirus" locale Ronni Gamzu e il governatore della banca centrale si opponeva a nuove restrizioni. «Questa proposta non assomiglia per niente a quella di marzo-aprile, quando abbiamo vissuto il secondo più rigido confinamento al mondo e gravi danni all'economia», ha aggiunto come riporta Ynet News.
   Dall'inizio della pandemia di Covid-19, in Israele si sono registrati 204'690 casi confermati di positività al SARS-CoV-2. I decessi nel Paese di poco più di 9 milioni di abitanti sono stati 1'325. Nelle ultime due settimane i nuovi contagi si aggirano tra le 2'000 e le 6'000 unità. Secondo i dati della Johns Hopkins University, mercoledì si è toccato un picco di 11'316 nuovi casi giornalieri.
   
(tio.ch, 24 settembre 2020)


Colloquio tra Netanyahu e il principe del Bahrein

                 Benjamin Netanyahu                                       Salman bin Hamad Al Khalifa
«Una telefonata eccezionale, molto amichevole». Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha definito la conversazione avuta ieri con il principe della corona del Bahrein Salman bin Hamad Al Khalifa. «Abbiamo riaffermato i principi dell'Accordo di Abramo e abbiamo discusso di come tramutare questa pace, economica, tecnologica, turistica, in concreto. Molto presto conoscerete i passi pratici» ha aggiunto.
   L'Accordo di Abramo è stato firmato la scorsa settimana alla Casa Bianca e prevede la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, soprattutto in materia commerciale ed economica. «Il principe ha discusso dell'importanza di garantire la stabilità regionale e internazionale e di rafforzare l'impegno per sostenere la pace nella regione. In questa direzione andrà l'accordo sottoscritto» ha confermato in un comunicato il Bahrein riportando la conversazione.
   Un richiamo alla pace regionale, intanto, è giunto ieri da Re Abdallah di Giordania. Parlando all'assemblea generale delle Nazioni Unite, Abdallah ha detto che occorre «lavorare insieme» per «preservare Gerusalemme per tutta l'umanità come una città unificante di pace».
   
(L'Osservatore Romano, 24 settembre 2020)


Israele-Italia, nuovo accordo militare

Il governo di Gerusalemme acquista elicotteri d'addestramento Agusta, quello di Roma missili controcarro. Solo l'ultimo passo di una collaborazione tra forze armate e aziende sempre più stretta.

Un altro passo avanti nella cooperazione militare tra Italia e Israele, con un duplice contratto. Israele ha annunciato l'acquisto di altri cinque elicotteri d'addestramento; l'Italia invece comprerà missili controcarro e simulatori di missione.
   L'accordo bilaterale è stato siglato martedì con una cerimonia in tele-collegamento tra Roma e Tel Aviv: a firmarlo il direttore generale del ministero della Difesa, Amir Eshel, e il responsabile della Direzione Generale degli Armamenti Nicolò Falsaperna.
   In questo modo, Israele completa la fornitura di un reparto d'addestramento elicotteri fornito da Leonardo, che conterà 12 Agusta Aw119 e due simulatori di volo. L'Italia invece aumenterà la dotazione di missili anti-tank Rafael Spike e acquisterà sistemi Elbit destinati a nuovi simulatori per elicotteri realizzati da Leonardo. Il ministro della Difesa Benny Gantz, appena rientrato da Washington, ha dichiarato che l'accordo "riflette l'importante e stretta collaborazione con il ministero della Difesa italiano che va avanti da anni. Ed è anche di grande rilevanza per la sicurezza di Israele e per la sua industria militare".
   Le relazioni tra i Paesi sono andate crescendo dal 2012. In quell'anno è stato concluso un patto tra i due governi, rilevante per l'importo - complessivamente vicino ai quattro miliardi di euro - e per la sofisticazione della tecnologia. Israele acquistò trenta jet Aermacchi M-346 per la formazione avanzata dei piloti, l'Italia invece un satellite spia Optsat 3000 e due sistemi di sorveglianza aerea imbarcati su bireattori Gulfstream 550.
   Da allora ci sono stati altri protocolli per la realizzazione congiunta di sistemi d'arma in tutti i settori, dai droni subacquei ai veicoli blindati da combattimento. E sono aumentate le esercitazioni comuni delle due aviazioni, con la presenza di cacciabombardieri israeliani sul poligono sardo di Decimomannu mentre gli F-35 italiani hanno partecipato alle manovre Blu Light in Israele.
   Ultimamente ci sono stati contatti per valutare l'eventualità di realizzare insieme un carro armato di ultima generazione, che dovrà sostituire i Merkava israeliani e gli Ariete italiani: al momento, però, le linee guida emesse dai due eserciti non paiono compatibili.

(la Repubblica, 24 settembre 2020)


Elezioni in Palestina: le ultime comiche dirette da Teheran e Ankara

Continua la presa in giro e per la milionesima volta vengono promesse elezioni in Palestina, questa volta con Teheran e Ankara come sponsor.

di Franco Londei

 
Abu Mazen, direttore dei flussi di denaro che arrivano da tutto il mondo
Non sappiamo se il mondo è pronto per elezioni in Palestina, specie dopo che per decenni sono state ripetutamente promesse e mai effettuate. Ma questa volta sembra che da quelle parti facciano sul serio.
Ad annunciarle alla TV palestinese, subito ripresa dai media iraniani, è Jabril al-Rajoub, che sembrerebbe essere un alto funzionario di Fatah (capo della Federcalcio palestinese) il quale nel dare l'annuncio specifica che «questa è la prima volta che le decisioni vengono prese da Fatah in modo indipendente e separato da qualsiasi influenza o pressione regionale», affermazione a dire il vero assai fumosa ma che dovrebbe dare all'annuncio quel "passo in più" che lo renda minimamente credibile.
Le ultime elezioni in Palestina si sono tenute nel 2006 e non hanno detto bene a Fatah, soprattutto a Gaza dove Hamas ha preso il potere prima con i voti poi, visto che Fatah non voleva sloggiare, con i Kalashnikov.
Giusto un anno prima, nel 2005, si erano tenute le elezioni presidenziali che avevano conclamato la vittoria di Mahmud Abbas (alias Abu Mazen) che sarebbe dovuto rimanere in carica fino al 2008 ma che invece è ancora li, al centro di Ramallah, a dirigere i flussi di denaro che arrivano da tutto il mondo.
Ma torniamo alle elezioni in Palestina perché i media iraniani ci annunciano che ci potrebbero essere delle complicazioni al loro regolare svolgimento.
Prima di tutto ci sono gli israeliani che sembra istituiscano blocchi stradali prima di ogni elezione per impedire ai palestinesi di andare a votare. È vero, non è una fake news, lo sostiene ABNA dimenticando però di dire che dal 2006 i palestinesi non sono più andati a votare e che nel frattempo i blocchi israeliani, se c'erano, potrebbero essere stati rimossi.
Poi ci sarebbero dei "disaccordi" tra Hamas e Fatah sul come votare e, soprattutto, sul cosa fare dopo il voto. L'ultima volta si sono scannati e a Gaza i motorini venivano usati per trascinare i corpi dei leader di Fatah per le strade.
Poi sembra che un tribunale di Ramallah nel 2016 si sia espresso per impedire le elezioni a Gaza, come se fosse un altro territorio. Infine ci sarebbero disaccordi sulla legge elettorale sulla quale non vi starò a tediare ma, fidatevi, sono questioni "serissime".
Ora però sembra che, dopo il tradimento dei Paesi Arabi che hanno fatto la pace con Israele, ci penseranno gli iraniani e i turchi a mediare tra le varie fazioni palestinesi in modo da organizzare queste benedette elezioni.
Riunioni su riunioni si stanno tenendo a Teheran e ad Ankara invece che al Cairo come in passato. Lo garantiscono media turchi e iraniani per rimarcare che la separazione dei palestinesi dagli arabi è definitiva.
Vedremo quindi finalmente i palestinesi andare a votare per scegliere il loro futuro? Chissà, chi vivrà vedrà.

(Rights Reporter, 24 settembre 2020)



Il re saudita: l'Iran va fermato

L'intervento all'Onu

il re saudita Salman bin Abdulaziz è intervenuto ieri via video all'Assemblea Generale dell'Onu in corso a New York. Il monarca ha parlato soprattutto dell'arcinemico, l'Iran, sottolineando la necessità di una soluzione complessiva che porti anche al disarmo dell'affiliato libanese di Teheran, Hezbollah. Il re ha detto che il regime iraniano ha approfittato dell'accordo 2015 sul nucleare «per intensificare le sue attività espansionistiche, creare i propri network terroristici e utilizzarli: «Una soluzione complessiva e una posizione internazionale ferma e decisa - ha sottolineato - sono indispensabili».
   Gli Stati Uniti hanno abbandonato l'accordo internazionale sul nucleare iraniano nel 2018. Un accordo che il presidente americano aveva definito «il peggiore di sempre». Da allora la Casa Bianca ha reimposto le sanzioni che erano state tolte durante l'Amministrazione Obama chiedendo anche agli altri firmatari (oltre all'Iran e agli Usa, Cina, Francia, Regno Unito, Stati Uniti più Germania e Unione europea) di rinegoziare i termini dell'intesa.
   «Sosteniamo'gli sforzi dell'attuale amministrazione americana per raggiungere la pace in Medio Oriente portando allo stesso tavolo Israele e i palestinesi», ha detto re Abdulaziz. Il monarca però si è ben guardato dal commentare la recente normalizzazione nei rapporti tra Israele, gli Emirati arabi uniti e il Bahrein. Ufficiosamente è soddisfatto, ma evidentemente non è ancora pronto a compiere lo stesso passo.
   
(Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2020)


Israele chiuso in casa

Nella Gerusalemme di nuovo in lockdown, è vietato tutto tranne manifestare (contro Bibi)

di Beatrice Guarrera

 
GERUSALEMME - Strade deserte, macchine della polizia appostate e finestre illuminate, a indicare la presenza della gente nelle case: in Israele i giorni di Rosh Hashana, la festa del capodanno ebraico, si sono chiusi con un insolito silenzio. Un silenzio determinato dal secondo lockdown del paese, iniziato venerdì scorso per frenare l'impennata di contagi da Covid-19. Israele è il primo paese al mondo ad adottare nuovamente questo provvedimento drastico per contenere la pandemia, anche se la decisione è stata frutto di lunghe discussioni e ripensamenti. Soltanto due settimane fa il governo aveva approvato un coprifuoco notturno che imponeva la chiusura di quaranta quartieri e città considerate "rosse" per numeri di contagi. Davanti a migliaia di nuovi casi di Covid-19 ogni giorno e all'avvicinarsi delle feste ebraiche, momento di riunioni familiari, è arrivata poi la decisione di portare Israele a un nuovo lockdown. Dall'inizio della pandemia i deceduti in Israele sono arrivati a oltre 1.200 e i casi registrati hanno superato quota 188 mila, con un picco giornaliero di 6.063 nuovi infetti il 16 settembre. Sono dati allarmanti, che hanno fatto salire il paese al sedicesimo posto nel mondo per casi di Covid-19 ogni milione di abitanti, secondo quanto dichiarato dal Coronavirus National Information and Knowledge Center, un istituto supervisionato dall'esercito israeliano.
   Secondo le disposizioni delle autorità, per tre settimane i cittadini israeliani non potranno allontanarsi dalle proprie case per una distanza superiore a un chilometro, se non per comprovate motivazioni di necessità. Tra queste l'acquisto di cibo o beni essenziali, la necessità di raggiungere il luogo di lavoro o di recarsi in luoghi di culto (non più di venti persone in spazi aperti e non oltre dieci al chiuso). Le disposizioni del lockdown vietano, inoltre, raduni nelle case private e di frequentare spiagge e parchi pubblici, ma non la partecipazione a manifestazioni di protesta. Proprio la possibilità di manifestare risulta controversa, perché, pur essendo consentita dalla legge, potrebbe diventare una fonte di contagio.
   Venerdì, a poche ore dallo scoccare del secondo lockdown infatti, hanno fatto discutere le immagini di decine di manifestanti che, fuori dalla casa del primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme celebravano la cena del Capodanno ebraico seduti attorno a un lungo tavolo, senza distanza di sicurezza e senza mascherine. Sabato altri manifestanti si sono radunati sulla spiaggia di Tel Aviv per una azione di protesta contro il premier. Domenica sempre a Gerusalemme nel quartiere Rehavia, sotto casa di Netanyahu, erano presenti come ogni settimana migliaia di manifestanti alle proteste contro di lui, definito "Crime Minister". Mentre si rischia una multa se ci si allontana da casa senza un valido motivo, i checkpoint che collegano Israele con i Territori Palestinesi (che non hanno adottato nessun lockdown) risultano aperti, anche se con maggiori controlli. Rimarranno chiusi invece scuole, bar, ristoranti e negozi non essenziali.
   Nel frattempo gli ospedali Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme e Assuta Medical Center di Ashdod hanno annunciato lunedì che non potranno più accogliere ulteriori pazienti affetti da coronavirus, essendo ormai sovraccarichi. "Vi chiedo di trattare questa situazione come una situazione di emergenza per il sistema sanitario" ha detto lunedì in una lettera agli ospedali del paese il direttore generale del ministero della Salute Chezy Levy. Levy ha chiesto alle strutture sanitarie di sospendere gli interventi chirurgici non urgenti, di dedicare tutte le risorse disponibili per rispondere alla pandemia e di formare nuovo personale per il lavoro nei reparti Covid-19. "Prevediamo di terminare i prossimi 10 giorni con un aumento di 200-300 pazienti gravi", ha scritto Levy. Il ministero della Salute con i suoi esperti discuterà martedì l'ipotesi di nuove restrizioni, se i numeri dei contagiati non dovessero scendere nei prossimi giorni. Si parla di una chiusura delle sinagoghe, di introdurre limitazioni alle manifestazioni e di una chiusura del settore privato, ad eccezione dei lavoratori essenziali.
   Le restrizioni aggiuntive dovrebbero entrare in vigore la settimana prossima, dopo lo festa dello Yom Kippur.

(Il Foglio, 23 settembre 2020)


Così il patto di Abramo fra Israele e Paesi arabi rivoluzionerà il Medio Oriente

di Alessandro Minuto Rizzo

Ci sono dei momenti in cui il termine anglo-sassone game changer appare molto appropriato. In altre parole, si cambia il modo di giocare. Naturalmente sto parlando del recente accordo offerto in mondovisione dallo Studio Ovale, con il presidente, il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu e, un gradino più sotto, i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein. E chiaro il desiderio di Donald Trump di mostrare ai suoi elettori che lui è uno che «risolve i problemi». Altro che quell'esitante Obama! Lui sì che merita davvero il premio Nobel per la pace! Bisogna dire che questa volta ha realmente fatto goal. Perché? Perché oggi abbiamo un accordo che gira una pagina di storia e apre un nuovo capitolo su una pagina bianca. E vero che i protagonisti si trovano diversi fusi orari più in là di Washington, in quella regione calda e in disordine che è il Medio Oriente, però una garanzia cos) visibile e pubblica da parte del più potente Paese del mondo rappresenta un grande valore aggiunto per i firmatari.
  Per capire le ragioni di questa svolta e girando un occhio verso il futuro, bisogna per forza guardare alla big picture, vale a dire al quadro generale. Cosa vediamo? Israele è molto cresciuta in questa generazione e continua a crescere. E' una potenza industriale, possiede alte tecnologie, capacità militari, sta diventando una potenza energetica, una società sviluppata e così via. Il suo peso specifico è ormai tale che non può essere ignorato. Difatti non lo è più. Dall'altra parte del quadro, c'è il desolante mondo arabo di oggi, che meriterebbe molto di più. ma che non riesce ad andare avanti. La parola di entrata che meglio lo descrive è «frammentazione». Quel poco che c'era di cooperazione regionale è entrato visibilmente in crisi, niente lo illustra meglio del rifiuto della Lega Araba di condannare «l'accordo di Abramo», di cui stiamo parlando. Fino a ieri la solidarietà con il popolo palestinese era l'unico collante di consenso fra i suoi membri. Immagino la frustrazione del segretario generale Aboul Gheit, già ministro degli Esteri dell'Egitto e figura di livello internazionale. Il Consiglio di cooperazione del Golfo ha di fatto finito di esistere dopo il tentativo saudita di isolare il Qatar, imponendo sanzioni che avrebbero dovuto riportarlo all'ovile di Riad. Doha non si è piegata e ha tanti e tali mezzi da poterselo permettere, trovando un braccio di appoggio nella Turchia, ben lieta di poter tutelare il Paese. A parte il quadro istituzionale, il livello economico e sociale dei Paesi arabi appare in crisi. Il nazionalismo arabo di Nasser era criticabile ma aveva una sua grandiosità. Il partito Baath che negli anni 60 e 70 del secolo scorso sembrava costituire un'apertura verso una società più laica e democratica è scomparso. Al suo posto abbiamo avuto l'Isis e la disgregazione mentre le primavere arabe si sono afflosciate su se stesse senza i risultati sognati. Piazza Tahrir è un lontano ricordo e dispiace vedere l'Egitto, Paese storico e leader naturale nella regione, relegato a un ruolo di secondo piano, con difficoltà molto serie di gestione interna, come abbiamo visto nel caso del povero Giulio Regeni. Il riavvicinamento fra Gerusalemme e diversi Paesi arabi era visibile ormai da tempo. Però questi rapporti avvenivano in un quadro informale. Ormai tutto questo è saltato. Il testo ufficiale dell'accordo di Abramo è disponibile. Constatiamo che esso va ben più in la del riconoscimento diplomatico reciproco. Le aree di cooperazione potenziali sono numerose: dalle tecnologie al commercio, dalla navigazione aerea alla scienza ecc. Persino il settore tabù della sicurezza vi è incluso. Un quadro di riferimento molto ampio e inaspettato. E che dire della tempistica ? Credo che sia dettata dalle elezioni americane. Non si sa chi verrà designato alla Casa Bianca il 3 novembre e come questo avverrà. Meglio quindi coagulare adesso gli interessi comuni in un Trattato che resterà. L'impressione è che gli Arabi, e forse anche Israele, temano un'ulteriore uscita americana dal Medio Oriente. Essa era già cominciata con Obama e continua con Trump, sia pure in maniera ondivaga. Questo vuol dire vedere una storica garanzia di sicurezza che diventa problematica. Oggi sembra che sia Democratici che Repubblicani si stiano orientando verso una politica estera dove l'intervento, soprattutto militare, venga riservato a casi speciali in cui sia in gioco l'interesse nazionale degli Stati Uniti. Ove questo quadro si confermi, si può capire che gli interessi regionali comuni prevalgano e Israele può essere un prezioso valore aggiunto. In altre parole, l'intero quadro strategico sta cambiando e vediamo Guida Suprema della Rivoluzione protestare violentemente da Teheran minacciando rappresaglie. Finora l' Iran, malgrado le evidenti difficoltà interne su vari fronti, ha avuto uno spazio di manovra in Siria, Libano, Gaza e Iraq che ora viene a restringersi per la nuova intesa con cui dovrà fare i conti.
  E i palestinesi? Vi è un consenso sul fatto che essi appaiono sacrificati all' interesse strategico complessivo arabo-israeliano di unire le forze. Effettivamente gli interessi appaiono prevalere sui principi. Si può argomentare che la partita era già persa e che vi è un controllo totale di Israele sulla Cisgiordania che non è modificabile, se non forse nel lungo periodo. Si è parlato seriamente di annessione vera e propria e l'accordo di Abramo esclude questa eventualità. D'altra parte sappiamo che nello stesso partito di Netanyahu vi sono molte voci dissenzienti sull'interesse per lo Stato ebraico di annettere un'ampia popolazione araba in Medio Oriente-dove la complessità è di casa. Siamo all'inizio di una nuova storia di cui non possiamo prevedere gli esiti. Possiamo però sperare che questa inedita alleanza porti dei benefici complessivi alla regione. che certamente merita un futuro migliore e una più forte cooperazione regionale.

(MF, 23 settembre 2020)



Lega Araba, gelo palestinese. Erdogan più vicino all'Anp

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha deciso di rinunciare alla presidenza di turno del Consiglio della Lega degli Stati arabi, ruolo che le sarebbe spettato di diritto nell'attuale sessione dei lavori. Ad annunciarlo, ieri da Ramallah, in Cisgiordania, il ministro degli Esteri palestinese, Riad alMalki, in conferenza stampa: «Questa decisione è stata presa a seguito della posizione, assunta dalla segreteria della Lega Araba, a supporto di Emirati Arabi Uniti e Bahrein, che hanno normalizzato le loro relazioni con Israele in violazione dell'Iniziativa di pace araba».
   Secondo il ministro, la posizione della Lega sarebbe riconducibile al fatto che «alcuni Stati arabi influenti hanno rifiutato di condannare la violazione». Il riferimento è alla sessione dello scorso 9 settembre, quando il consesso non ha trovato un'intesa allargata su di una risoluzione di condanna di Abu Dhabi e Manama, probabilmente per volontà saudita. La cosiddetta Iniziativa di pace araba (2002) prevede che gli Stati arabi procedano alla normalizzazione dei rapporti con Israele solo dopo la fine dell'occupazione militare della Palestina. «Ramallah non intende abbandonare l'istituzione», ha garantito al-Malki, però i segnali di rottura si moltiplicano: secondo i media locali, rappresentanti di al-Fatah, forza di maggioranza in seno all'Anp, si sarebbero recati ieri in Turchia per chiedere l'intervento di Ankara a favore della riconciliazione palestinese, in fieri. I segretari delle principali fazioni, in testa Hamas, si sono riuniti a Beirut all'inizio di settembre per stilare un programma in tappe. Più volte in passato il presidente Recep Tayyep Erdogan ha cercato di cavalcare la causa palestinese, schierandosi con Gaza e finanziando progetti a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, per scippare ad Arabia Saudita ed Egitto la loro influenza nel risico regionale: se gli riuscisse di condurre in porto la riconciliazione, per Ankara sarebbe un successo politico paragonabile solo a quello dell'Amministrazione Trump nel processo di normalizzazione fra Stati arabi e Israele. In agosto, la Turchia ha minacciato di sospendere le relazioni diplomatiche con gli Emirati in risposta all'accordo con Israele. La «Turchia è dalla parte dei palestinesi» e «non permetterà che i diritti dei palestinesi vengano violati», ha tuonato il presidente turco, criticando le strategie intraprese dal casato Saud nella regione e accusando Israele di essere uno «Stato razzista».
   Dopo Libia, Corno d'Africa, Africa Orientale, il braccio di ferro fra la Turchia neo-ottomana di Erdogan e l'arco sunnita degli Stati arabi si sposta insomma a Gerusalemme: ora si fa sempre più indispensabile, per Israele e Lega Araba, normalizzare i rapporti e fare fronte comune contro ambizioni che non conoscono le vie diplomatiche.

(Avvenire, 23 settembre 2020)


Un'altra esplosione mortale nel deposito armi di Hezbollah

Quattro morti nel Sud. L'agenzia di stampa statale denuncia «un'intensa presenza di aerei israeliani».

di Chiara Clausi

 
L'esplosioni nel villaggio di Ain Qana, sud del Libano
BEIRUT - Un boato e poi una grossa colonna di fumo nero. Una nuova grande esplosione è avvenuta ieri pomeriggio nel villaggio di Ain Qana, nel sud del Libano. Ha provocato un incendio e un denso fumo nero. Secondo i primi elementi, l'esplosione è avvenuta in un edificio di proprietà di Hezbollah, ma non è ancora chiaro se fosse un magazzino di armi o l'abitazione di un quadro del partito.
   Una fonte all'interno dei servizi di sicurezza ha precisato che un deposito di armi appartenenti a Hezbollah è stato distrutto dall'esplosione a seguito di un errore tecnico. «La terra ha tremato e poi abbiamo sentito una forte esplosione. All'inizio pensavo si trattasse di un raid israeliano», ha detto Mahmoud, un abitante del posto. «Ma poi ci siamo resi conto che era in una casa ai margini del villaggio e abbiamo sentito le ambulanze».
   Quattro sono le vittime secondo fonti e testimoni locali. Hezbollah è la forza politica dominante nel sud del Libano e mantiene un potente braccio militare che ha più di 100 mila razzi. Un portavoce di Hezbollah ha riferito però che l'esplosione è avvenuta in un centro di sminamento collegato al gruppo sciita in cui erano immagazzinate munizioni inesplose di una precedente guerra con Israele. Il portavoce ha anche confermato che l'esplosione è stata causata da un errore tecnico, ma ha negato che ci siano state vittime.
   Secondo fonti locali invece diversi sono i feriti, ma non si hanno numeri precisi. L'esplosione è avvenuta in una zona residenziale, una ventina di abitazioni sono state danneggiate e diverse auto distrutte. I residenti nella zona in preda al panico sono stati evacuati e sono corsi nella direzione opposta al fumo, mentre altri sono rimasti increduli a guardare. I membri di Hezbollah hanno isolato il luogo dell'esplosione e hanno impedito ai giornalisti di avvicinarsi all'area.
   Secondo l'Agenzia nazionale libanese, dalla mattina fino al momento dell'esplosione erano stati notati intensi sorvoli israeliani, con aerei da guerra e droni-spia, nelle zone di Iklim al-Touffah e Nabatiye, vicino a dove è avvenuta l'esplosione. Il botto è stato sentito fino alla città di Saida, a circa trenta chilometri di distanza. Ma ieri è stata una giornata travagliata anche per altri motivi. Al mattino, un piccolo incendio è divampato nel perimetro del porto di Tripoli nel nord del Libano. E un altro è avvenuto nel pomeriggio in un magazzino di pitture nel distretto di Ouzai, nella periferia sud di Beirut, senza fare feriti.
   Questa ennesima esplosione arriva in un momento difficile e preoccupante per il Libano. Il Paese è ancora traumatizzato dalla doppia esplosione del 4 agosto, che ha dilaniato il porto di Beirut, e ha ucciso più di 190 persone e ferito 6.500.
   Quel fatidico 4 agosto, l'incendio è scoppiato in un hangar del porto di Beirut dove erano immagazzinate 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, custodite senza alcuna misura di sicurezza. Il 10 settembre è scoppiato un nuovo incendio nello stesso porto, che ha provocato un forte fumo tossico che ha ricoperto la città e causato un tremendo panico tra i beirutini ancora traumatizzati dal disastro di agosto. Quello di ieri è l'ennesimo incidente, Beirut e il Libano sono stremati e davanti ad una grande prova di coraggio e resistenza.
   
(il Giornale, 23 settembre 2020)


Il Qatar appoggia il piano di pace di Trump. Preoccupazione tra i palestinesi

di Paolo Castellano

L'Autorità Palestinese e altri gruppi terroristici palestinesi - compresa Al Fatah - sono preoccupati per le recenti dichiarazioni congiunte di Qatar e Stati Uniti per il consolidamento di uno sforzo comune nella costruzione di un'intesa militare nel Golfo in funzione anti-Iran e della risoluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi.
   Negli scorsi giorni, Mike Pompeo, Segretario di Stato americano, e Mohammed bin Abdul Rahman Al Thani, ministro degli Esteri del Qatar, si sono incontrati per discutere del futuro del Medioriente dopo la firma degli Accordi di Abramo con Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein.
   Come riporta Jewish Press, il Qatar ha accolto favorevolmente la normalizzazione diplomatica tra Israele e i due Stati arabi e ha rilasciato insieme agli Stati Uniti una dichiarazione congiunta e un memorandum d'intesa.
   In questa dichiarazione, lo Stato del Golfo riconosce il piano di pacificazione degli Usa e si impegna nella risoluzione della questione israelo-palestinese suggerita dagli americani con la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Invece, gli Stati Uniti hanno riconosciuto il Qatar come "importante alleato NATO". Ciò garantirebbe una collaborazione militare quantificabile intorno ai 26 miliardi di dollari.
   L'avvicinamento tra Stati Uniti e Qatar spaventa la leadership dell'Autorità Palestinese e di Hamas, scavalcata in qualche modo dagli interessi di stabilizzazione della Regione intrapresi da un numero sempre più crescente di Stati arabi. Lo riportano alcune fonti citate da Jewish Press. La preoccupazione nasce dal fatto che il paese del Golfo sia sempre stato un solido sostenitore delle ragioni palestinesi, soprattutto dell'ideologia anti-israeliana del gruppo terroristico palestinese Hamas.
   Sebbene l'Autorità Palestinese non abbia ancora voluto commentare il comportamento del Qatar, l'organizzazione palestinese Al-Fatah ha descritto così la situazione: «Il Qatar ha fretta di unirsi alla normalizzazione delle relazioni con Israele e all'Accordo del Secolo di Trump».
   Più volte il Qatar è stato accusato dal mondo arabo di "finanziare il terrorismo". Per questo motivo nel 2017 Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto hanno interrotto i rapporti diplomatici con il paese del Golfo. È inoltre noto che il Qatar guardi con favore alla Fratellanza Musulmana.
   
(Bet Magazine Mosaico, 23 settembre 2020)


Coltivata una specie di datteri che cresceva in Galilea duemila anni fa

Hanno un sapore molto diverso da quello cui siamo abituati

di Luciana Grosso

 
Datteri in vendita a Gaza City
Non sappiamo molto di come si vivesse nella Palestina di 2000 anni fa, all'epoca in cui si colloca la Predicazione di Gesù. Ma una recente ricerca del Louis L. Borick Natural Medicine Research Center presso l'Hadassah Hospital di Gerusalemme insieme al Centro per l'agricoltura sostenibile presso l'Arava Institute for Environmental Studies nel Kibbutz Ketura è riuscita a riportare in vita una qualità di datteri che si credeva perduta per sempre.
Questo grazie ad alcuni dei semi di dattero che fortunosamente ritrovati negli anni '60 durante uno scavo di Masada, la fortezza nel deserto del Mar Morto. La ricerca è partita nel gennaio 2005 è solo ora ha dato - letteralmente - i primi frutti, grazie al fatto che le scienziate impegnate nel progetto sono riuscite a risvegliare i semi.

(Business Insider Italia, 21 settembre 2020)


Israele, quasi quattromila contagi, meno tamponi

Ospedali sovraffollati. In forse riavvio scuole a fine lockdown

Nelle ultime 24 ore sono stati 3.843 i nuovi casi di coronavirus in Israele a fronte di oltre 34mila test. I contagi, da inizio pandemia, sono arrivati a 192.579. Degli oltre 50mila casi attualmente attivi, 653 sono in condizioni gravi e di questi 169 in ventilazione. Le vittime sono ad ora 1.273. Lo ha reso noto il vice ministro alla Sanità, Yoav Kish.
Intanto cresce la preoccupazione per il sovraffollamento degli ospedali alle prese con l'ondata di casi gravi in costanza del lockdown che durerà fino all'11 ottobre se non sarà prorogato. Kish ha fatto capire che le scuole potrebbero non riaprire alla fine del blocco attuale e che l'alto tasso di contagi nel sistema educativo è dovuto in parte al fatto che non sono state osservate in pieno le regole. Il presidente della Corte Suprema Esther Hayut è da oggi in quarantena dopo che uno dei suoi consiglieri è risultato positivo al test.

(ANSA, 22 settembre 2020)


Dahlan: il dopo Abu Mazen. Così gli Usa isolano l'Olp

Il favorito di Trump è a capo del "blocco di riforma" di Fatah, espulso dal movimento, consigliere degli Emirati per il patto In più per Ankara è uno dei golpisti».

di Fabio Scuto

MOHAMMED DAHLAN
Conosciuto come Abu Fadi è un politico palestinese ex leader di Fatah da cui fu espulso nel 2011. Rinchiuso nelle prigioni israeliane con l'accusa di terrorismo contro Israele, lì imparò l'ebraico. Con la nascita della Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, fu scelto da Arafat come capo della sede di Gaza del Servizio di sicurezza preventiva. Fu accusato di aver torturato diversi militanti di Hamas e si dimise nel 2002 per poi essere nominato, nel 2003, ministro per la Sicurezza da Mahmoud Abbas. Vive ad Abu Dhabi.

GERUSALEMME - Hai mai visto un movimento rivoluzionario guidato da un'ottantaquattrenne?", mi chiese non molto tempo fa Hanan Ashrawi, una delle donne simbolo di Fatah, deputato, già ministro della Cultura, fine linguista insignita di prestigiosi riconoscimenti nel mondo, dalla Legion d'Onore francese al premio Olof Palme e undici lauree honoris causa negli Stati Uniti. La domanda è legittima perché anche nella "vecchia guardia" di Fatah si è fatta strada la convinzione che per la causa palestinese bisogna cambiare marcia - che gli eventi stanno sopravanzando e che la leadership di Ramallah abbia fatto il suo tempo. Dopo la firma con i nuovi alleati arabi, del Golfo ora la mossa di Stati Uniti e Israele è quella di isolare l'Autorità palestinese di Mahmoud Abbas.
Abu Mazen, venne eletto nel 2004 e il suo mandato scadeva nel 2009, poi si è andati avanti di proroga in proroga, citando l'impossibilità di tenere elezioni anche nella Striscia di Gaza che nel frattempo col governo di Hamas si era "staccata" dalla Cisgiordania. I tempi sembrano oggi maturi per Abu Mazen, che peraltro ha anche qualche problema di salute e la fronda contro il presidente imbarca nuovi sostenitori ogni giorno. È un fiume carsico, perché nonostante quella sua aria da nonno buono, Abu Mazen è spietato con i suoi oppositori, liquidati spesso con l'accusa di tradimento o di tramare contro l'Anp.
   Sono almeno una decina gli uomini di Fatah che ambiscono a sedersi al suo posto nella Muqata di Ramallah. Giovani Leoni e Vecchia Guardia. In pista ci sono nomi di peso della galassia palestinese. Nasser Al Kidwa, nipote di Yasser Arafat ed ex ministro e ex ambasciatore dell'Anp all'Onu. Jibril Rajoub, attuale presidente del Comitato Olimpico palestinese ed ex capo dei servizi segreti in Cisgiordania. Il generale Majdj al Faraj, già capo della Preventive Security palestinese.
   E naturalmente Mohammed Dahlan, il sessantenne potente ex delfino di Arafat ed ex capo della Preventive Security nella Striscia di Gaza, ora rifugiato nel Golfo Persico, sostenuto anche da Egitto e Arabia Saudita. Ed è su di lui che si stanno puntando le attenzioni degli Stati Uniti di Donald Trump come possibile futuro leader palestinese.
   "Ci stiamo pensando, ma non abbiamo alcun desiderio di costruire la leadership palestinese" , ha detto David Friedman, inviato americano in Israele, in un'intervista a Usa Today. Ma non è un segreto che ci sono elementi all'interno dell'Amministrazione statunitense che sostengono Dahlan per accelerare l'uscita di scena di rovesciare Abbas come presidente della Palestina. Negli anni in cui comandava la sicurezza a Gaza, Dahlan ha avuto modo di avere stretti rapporti di collaborazione con gli Usa, è amico personale dei Clinton e di un paio di ex direttori della Cia. Parla anche un ebraico fluente, appreso durante i suoi 11 soggiorni in gioventù nelle carceri israeliane. La scure di Abu Mazen si è abbattuta su di lui con l'espulsione da Fatah e la denuncia di tradimento nel 2015 e per evitare l'arresto l'ex delfino di Arafat si è rifugiato negli Emirati, dove ha avviato una fiorente attività imprenditoriale ed è tra i consiglieri più ascoltati di Mohammed Bin Zayed al Nayan, l'erede al trono dell'Emirato.
   Il gossip sostiene che sarebbe stato proprio lui uno dei mediatori della recente intesa diplomatica fra gli Emirati e Israele. Dahlan è un uomo d'affari e di relazioni, il suo seguito è ancora forte specie negli apparati di sicurezza palestinesi.
   Oggi gli uomini del "blocco di riforma democratica", il movimento da lui ispirato, non riconoscono più in Abbas il loro presidente.
   Dahlan è anche sotto il tiro della Turchia - che ha messo su di lui una taglia da 5 milioni di dollari - per un suo presunto coinvolgimento nel golpe che nel 2016 voleva rovesciare il presidente Erdogan. Nonostante sia assente sulla scena da diversi anni Mohammed Dahlan gode della fiducia indiscussa degli uomini che hanno lavorato con lui in passato e anche nella Gaza amministrata da Hamas non c'è foglia che si muova a KhanYounis - il più grande campo profughi della Striscia - che lui non voglia. Come un rais, o quasi.

(il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2020)


Abu Mazen, il perenne Presidente palestinese che teme Mohammed Dahlan

Abu Mazen fa arrestare persone vicine a Mohammed Dahlan. Le accuse? Al momento in cui scrivo non si conoscono ma sono sicuro che la fantasia del perenne presidente palestinese saprà ovviare a questa temporanea mancanza.

di Franco Londei

 
Mahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen, presidente "per forza" della Autorità Nazionale Palestinese (ANP), non teme le elezioni dato che si guarda bene dall'indirle, teme però gli oppositori.
   Il più temibile oppositore di Abu Mazen è senza dubbio Mohammed Dahlan. Ex capo della sicurezza a Gaza per Fatah, ex portavoce dello stesso Fatah, venne estromesso dal partito nel 2011 con l'accusa di essersi appropriato di 16 milioni di dollari, accusa che lo costrinse a fuggire a Dubai.
   Dahlan è accusato - sempre da Abu Mazen - anche di aver collaborato con Israele nell'uccisione del leader di Hamas, Salah Shehade, ucciso nel 2002 e addirittura di essere in qualche modo implicato nella morte di Yasser Arafat, feticcio sempre buono da tirar fuori nei momenti di difficoltà.
   Ora l'ultima accusa che il Presidente palestinese rivolge a Mohammed Dahlan è quella di aver collaborato nell'iniziativa che ha portato al trattato di pace tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, una accusa che vista dalla parte palestinese è gravissima perché prefigura il tradimento.
   Così ieri il perenne Presidente palestinese ha ordinato l'arresto di una mezza dozzina di sostenitori di Dahlan tra i quali Haytham al-Halabi e Salim Abu Safia, non proprio due personaggi qualsiasi.
   Le accuse? Al momento in cui scrivo non si conoscono ma sono sicuro che la fantasia del perenne presidente palestinese saprà ovviare a questa temporanea mancanza.
   Una fonte araba mi rivelava qualche mese fa che la fazione palestinese che faceva capo a Mohammed Dahlan stava diventando sempre più forte in Giudea e Samaria (la c.d. Cisgiordania) e che in caso di elezioni (se mai avverranno) un candidato esponente di quella fazione potrebbe essere appoggiato anche da Hamas.
   È chiaro che ad Abu Mazen tutto questo non piaccia, specie in un momento in cui a seguito degli accordi tra Israele e Paesi arabi, appare particolarmente debole e isolato persino dagli arabi. E quale cura migliore di qualche buon arresto, meglio se di qualità, per rimarcare la propria autorità?

(Rights Reporter, 22 settembre 2020)


Storia di un'identità ritrovata

di Irit Levy

Scaduta la data per presentare la richiesta, il Regno di Spagna ha registrato più di 130.000 domande per l'ottenimento della cittadinanza pervenute da tutti i paesi del mondo. Era il 2015 quando è entrata in vigore la legge che consentiva ai discendenti degli ebrei cacciati alla fine del 1400 di ottenere la cittadinanza in quella terra. Quasi un risarcimento.
Ma chi sono questi neo cittadini spagnoli? Cosa li ha spinti a fare richiesta e perché? Di loro sappiamo che non tutti sono ebrei. Di sicuro, però, tutti sono discendenti di sefarditi: cioè di ebrei espulsi dai territori spagnoli per effetto del decreto emanato da Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia il 31 marzo 1492, oppure di 'conversos' costretti a lasciare la Spagna in seguito, dopo aver abbracciato la religione cattolica, perché perseguitati dall'Inquisizione.
Secondo uno studio recente, a oggi sarebbero 13 milioni nel mondo i figli di quella migrazione forzata: i loro avi furono uomini e donne che si opposero alla conversione o fuggirono alle torture perpetrate in nome della fede cattolica, cercando rifugio nell'Impero Ottomano, in Europa e in Nord Africa.
A Roma è l'Archivio storico della Comunità ebraica che ha supportato 14 persone richiedenti la nazionalità spagnola nella complicata ricerca tra documenti, registri dell'anagrafe e ricostruzioni del proprio albero genealogico per fornire le prove necessarie richieste dalla Legge 12/2015 del 24 giugno. Una Legge che in molti ha risvegliato ricordi, memorie sepolte o addirittura sconosciute, e cambiato migliaia di destini.
Come nel caso di Abigail Rosa, che ha scoperto per caso di essere ebrea.
Abigail (questo è il suo nome ebraico) nasce a Roma, è la più piccola di 5 fratelli e vive una infanzia felice tra le mura di una Villa nobiliare, dove spesso si tengono feste sontuose e ricevimenti. La madre Sandra è una fervente cattolica che ha sempre avuto un rapporto amichevole con la Comunità ebraica capitolina: spesso affitta la villa ai giovani sposi ebrei che scelgono di celebrare le nozze tra le sontuose sale della dimora e il suo magnifico giardino.

 
Un giorno, poiché era impegnata ad organizzare un ricevimento, Sandra chiede ad Abigail di accompagnare la nonna materna in Toscana per fare visita alla sorella Adele.
Di questa zia sconosciuta non si parla mai in casa, ma l'idea di una gita a Siena è sufficiente per accendere il suo entusiasmo.
Quello che non sa invece è che quella visita cambierà la sua vita per sempre.
Arrivata a destinazione, Abigail si rende conto di non essere in una villa privata di famiglia, bensì all'interno di un ospedale psichiatrico.
Adele vi era stata ricoverata anni prima in seguito agli abusi e ai traumi subiti durante la sua prigionia nella Risiera di San Sabba, a Trieste. Una storia sconvolgente che implica una rivelazione ancora più scioccante: mentre la zia dal suo buio infernale chiede terrorizzata alle due donne notizie del duce, e le esorta a scappare prima che sia troppo tardi, Abigail scopre di essere ebrea.
Come un vetro che si spanna, la sua infanzia le scorre davanti agli occhi rivelando dei fermo immagine sconvolgenti. Durante le persecuzioni razziali i genitori di Sandra si trovano costretti a scappare da Casale Monferrato, dove hanno sempre vissuto: non è facile muoversi con cinque bambini piccoli, una domanda ingenua, una parola fuori luogo, un pianto improvviso potrebbe tradirli e mandare a monte l'intero il piano di fuga. L'unico modo per salvarsi è ammutolirli, instillando nella mente dei piccoli il terrore continuo e pressante di essere uccisi.
La famiglia si muove vagando nel Nord Italia fino ad arrivare a Milano. Ma la zia Adele, allora sposata con due figli, viene tradita da una soffiata e catturata, imprigionata, torturata.
Alla fine della guerra Adele è una sopravvissuta che porta dentro e addosso cicatrici che non rimargineranno e un inferno così grande che la famiglia decide di affidarla in cura in un ospedale psichiatrico.

Tornata a Roma, Abigail annuncia alla madre di voler recuperare la propria ebraicità: a nulla valgono le suppliche e i pianti di Sandra: e se la storia si ripetesse? Se ci fosse una seconda Shoah, che fine farebbe la famiglia? Dove si nasconderanno tutti? Ma Abigail prosegue convinta per la sua strada, sempre più curiosa, fiera, e desiderosa di accedere a quella verità che le era stata negata.
La passione per i viaggi la porta nella penisola iberica, una terra di cui si innamora a tal punto da decidere di stabilirsi a Ibiza per buona parte dell'anno, mentre durante la permanenza a Roma frequenta un corso di ebraico biblico organizzato dal Centro di cultura della Comunità ebraica.
E poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva la Legge 12/2015 del 24 giugno: il Regno di Spagna offre la possibilità di ottenere la cittadinanza a chi può dimostrare due requisiti, la condizione di sefardita originario della Spagna e uno speciale vincolo con il Paese.
Per Abigail significa porre l'ultimo tassello ad un puzzle che sta cercando di completare da più di 10 anni. Il lavoro certosino svolto dall'Archivio storico a Roma e dalla Comunità ebraica di Casale Monferrato sono decisivi per la ricostruzione del suo albero genealogico: scopre così che nelle sue vene si intrecciano trame e destini di una famiglia interamente sefardita, segnata dalle persecuzioni nei secoli, dalla cacciata dalla Spagna alle Leggi razziali.
Tra le carte escono i nomi delle famiglie Ottolenghi, Tedeschi, Segre, Sacerdoti, tutti sposati tra di loro, fuggiti dai roghi e dalle conversioni forzate 500 anni prima, e poi di nuovo perseguitati dalla minaccia nazista.
Tutto è chiaro davanti ai suoi occhi, ma come dimostrare all'attuale Regno di Spagna che quegli uomini e quelle donne erano effettivamente i suoi parenti?
Abigail non si dà per vinta e, determinata a scoprire tutta la verità, dà inizio a una caccia incessante per trovare le tracce dei nonni e dei genitori prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale; fino alla svolta decisiva che arriva dalla Comunità ebraica di Casale Monferrato, dove risulta essere stata effettivamente iscritta tutta la famiglia della nonna materna. E' la fine della ricerca, l'inizio di una nuova vita, la 'reconquista' della propria identità.
Abigail oggi è una donna ebrea italiana - e ormai anche spagnola - che vive a Siviglia, è molto attiva nella sua piccola comunità e continua a studiare per migliorare la lingua ebraica e la conoscenza della Torah.
Quando le chiedo cosa ha provato ma soprattutto cosa ha trovato quando ha fatto il giuramento alla bandiera spagnola, risponde così: "Non ho fatto richiesta di cittadinanza per uno scopo materiale ma per la memoria della mia famiglia e di tutti i miei antenati, ebrei sefarditi il cui destino è stato segnato o spezzato per sempre dalle persecuzioni antiebraiche. Questo passaporto lo dedico a loro".

Ah, per la cronaca, la Spagna ha concluso il periodo di accettazione delle domande, ma invece è appena cominciato, con caratteristiche analoghe, quello del Portogallo, che concede la cittadinanza ai discendenti dei sefarditi cacciati. Anche l'Austria mette a disposizione la possibilità di chiedere la cittadinanza, ma quei cittadini ebrei e ai loro discendenti che sono scappati durante la Seconda Guerra Mondiale.

(JoiMag, 22 settembre 2020)


Oggi il ministro Gantz negli Usa per discutere di Iran ed F-35 agli Emirati

Benny Gantz
>GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, si trova oggi a Washington per incontrare il segretario alla Difesa statunitense, Mark Esper, e altri funzionari del Pentagono. Nel corso della visita di 24 ore, riferisce un comunicato stampa israeliano, Gantz discuterà con la controparte statunitense di cooperazione congiunta in materia di sicurezza per ridurre l'espansione iraniana nella regione. La visita di Gantz negli Stati Uniti giunge mentre Washington sta cercando di vendere i caccia multiruolo stealth di quinta generazione F-35 agli Emirati Arabi Uniti. Finora l'ipotesi dell'eventuale vendita degli F-35 agli Emirati ha suscitato delle perplessità a Gerusalemme che teme di perdere la superiorità militare regionale. Secondo quanto previsto dalle leggi statunitensi, il Congresso ha il compito di controllare le vendite di armi ai paesi del Medio Oriente, garantendo a Israele - storico alleato degli Usa - il vantaggio qualitativo.
   Formalmente Israele non può porre il veto alle vendite degli Stati Uniti ad altri paesi del Medio Oriente, ma può sollevare delle problematiche, rendendo l'accordo più complicato. Gantz inizialmente ha espresso preoccupazione per l'acquisizione da parte degli Emirati Arabi Uniti dei caccia da superiorità aerea di ultima generazione. La scorsa settimana, tuttavia, è sembrato ammorbidire i toni e ha detto che l'obiezione di Israele non avrebbe comunque avuto molto peso. "È una prerogativa statunitense, non una prerogativa israeliana, decidere a chi vendere (gli F-35)", ha detto Gantz. A poche ore dalla firma degli Accordi di Abramo, che hanno sancito l'avvio delle relazioni diplomatiche tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, il 15 settembre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto che personalmente non ha "alcun problema" a vendere i caccia F-35 agli Emirati Arabi Uniti, nonostante le obiezioni del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Da parte sua, il ministro di Stato emiratino, Anwar Gargash, ha dichiarato: "L'intera idea di uno stato di belligeranza o guerra con Israele è finita, quindi penso che dovrebbe essere effettivamente più facile (acquistare l'aereo da combattimento)".
   Il quarto punto del Trattato firmato il 15 settembre da Israele ed Emirati riguarda la pace e la stabilità. Le parti attribuiscono "profonda importanza alla comprensione reciproca e al coordinamento nell'ambito della pace e della stabilità, come pilastro fondamentale delle loro relazioni e come uno strumento per rafforzare questi aspetti in tutto il Medio Oriente". Le parti "si impegnano a intraprendere i passi necessari per prevenire qualsiasi attività terroristica od ostile reciproca o da parte dei rispettivi territori". Riconoscendo la nuova fase delle relazioni amichevoli e di pace tra loro, così come la centralità della stabilità per il benessere dei rispettivi popoli e della regione, "le parti si impegnano a discutere di questi temi regolarmente e a concludere dettagliati accordi e intese sul coordinamento e la cooperazione", si legge nel testo.

(Agenzia Nova, 22 settembre 2020)


La strage dei turisti israeliani di otto anni fa: due ergastoli (in contumacia) ai colpevoli

L'attentato di Hezbollah in Bulgaria

Sono stati condannati all'ergastolo in Bulgaria i due imputati per l'attentato suicida di Burgas, sul Mar Nero, in cui otto anni fa furono uccisi cinque turisti israeliani, tra cui una donna incinta, e il conducente dell'autobus su cui si trovavano. Altre 40 persone rimasero ferite. L'azione è stata attribuita alla branca militare dell'Hezbollah libanese. L'accusa ha individuato l'autore dell'attacco in Mohamed Hassan al-Husseini, con doppia cittadinanza - libanese e francese -, che avrebbe agito con la complicità di Meliad Farah e Hassan al-Haj Hassan, i due che il Tribunale speciale di Sofia per crimini di terrorismo ha condannato ieri all'ergastolo ma in contumacia, essendo ancora latitanti.
Il fatto avvenne il 18 luglio 2012 nel parcheggio degli arrivi dello scalo aereo di Burgas, poco dopo lo sbarco dei turisti israeliani che erano arrivati con un volo da Tel Aviv. Il gruppo di vacanzieri doveva essere trasportato nel complesso balneare di Slancev Briag (Costa d'Oro). Subito dopo la salita a bordo dei turisti avvenne la potente esplosione che distrusse l'autobus.

(Avvenire, 22 settembre 2020)


Hezbollah pianificava attentati in Italia, lo rivelano gli Usa

Hezbollah voleva compiere attentati in Italia. La clamorosa rivelazione arriva dagli Usa, dove l'ambasciatore del Dipartimento di Stato Nathan Sales, capo degli Stati Uniti per l'antiterrorismo ha dichiarato che il gruppo terroristico sciita ha nascosto esplosivi in tutta Europa, fra cui Grecia, Spagna, Francia e appunto Italia.
Sales, poca prima di un evento dell'American Jewish Committee, ha lanciato un allarme che se confermato farebbe tremare il Vecchio Continente e i vertici dell'Unione Europea, la cui ostinazione per la divisione tra ala politica e ala militare di Hezbollah sta diventando uno stancante ritornello:
"Hezbollah ha spostato attraverso il Belgio grandi scorte di nitrato di ammonio, utilizzato per fabbricare bombe, in Francia, Grecia, Italia, Spagna e Svizzera. Abbiamo ragione di credere che attività di questo tipo siano ancora in corso. Hezbollah rappresenta oggi un pericolo evidente e reale per gli Stati Uniti. Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e presente per l'Europa".
Sales, inoltre, ha spiegato il motivo dell'azione di Hezbollah, mostrandone la subalternità all'Iran:
"Hezbollah può condurre importanti attacchi terroristici ogni volta che i suoi padroni a Teheran lo ritengono necessario".
Cosa contenevano i depositi di armi di Hezbollah in Europa? Sicuramente nitrato di ammonio, la sostanza responsabile dell'esplosione al porto di Beirut dello scorso agosto, dove persero la vita oltre 200 persone (più circa 7000 feriti).
Il funzionario americano non ha specificato come il suo paese abbia ottenuto le informazioni:
"Sappiamo con certezza che Hezbollah ha immagazzinato enormi quantità di nitrato di ammonio in tutta Europa. Gli Stati Uniti hanno chiesto un'indagine completa, aperta, trasparente e approfondita sull'esplosione di Beirut, e speriamo di vederne presto i risultati".
Se confermato, quanto detto dal capo degli Stati Uniti per l'antiterrorismo, si aprirebbero scenari molto preoccupanti per l'Europa che continua a non bandire Hezbollah nella sua interezza, come fatto da Germania e Gran Bretagna.
Come reagirebbero i vertici dell'Unione se venissero attaccati da un gruppo terroristico che hanno difeso con tanta forza?
Cosa farebbe l'opinione pubblica italiana se Hezbollah compiesse un attentato nel nostro paese?
Qualora il gruppo terroristico libanese, braccio armato dell'Iran, colpisse l'Italia, cosa farebbero le autorità? Metterebbero tutto a tacere, mettendo il segreto di storia? Farebbero spuntare un fantomatico erede del colonnello Giovannone per rimandare la verità a data da destinarsi?

(Progetto Dreyfus, 21 settembre 2020)


Qualcosa è meglio di "tutto o niente"

L'accordo fra Israele e i paesi arabi è un grande progresso

Scrive il Jerusalem Post (16/9)

Finalmente una buona notizia. Anzi no, una grande notizia, una notizia di portata storica. La cerimonia di martedì sul prato della Casa Bianca, dove Israele ha firmato accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, è la realizzazione di un sogno degli israeliani vecchio di decenni: essere accettati. Forse non accettati globalmente, ma accettati da parte di alcuni attori regionali estremamente significativi. Il fatto che questa novità abbia luogo mentre le ombre del coronavirus incombono sul paese la rende ancora più gradita. Con il paese sull'orlo del lockdown proprio alla vigilia di Rosh Hashanà (il capodanno ebraico), la cerimonia di Washington ha dato a tutti noi un motivo per cui rallegrarsi, almeno brevemente. Ed è certamente il caso di rallegrarsi per gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Anche coloro che non amano il primo ministro Benjamin Netanyahu né il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dovrebbero plaudire a questi accordi, perché costituiscono una grande svolta in medio oriente.
   Gli accordi firmati a Washington non risolvono tutti i problemi strategici d'Israele. L'Iran rimane una minaccia, Gaza una tragedia umanitaria e la questione palestinese continua a inasprirsi. Ma gli accordi dimostrano che è possibile separare la questione palestinese e pensare in modo diverso e creativo. Fino a martedì, per la pace mediorientale il mondo era incatenato a un paradigma del tipo "tutto o niente" che non ha funzionato per un quarto di secolo: o la pace completa con i palestinesi, o niente del tutto con il mondo arabo. Ma la realtà può essere molto più sfumata, e questo accordo ne prende atto. E' possibile avere qualcosa con il mondo arabo anche in assenza di una pace piena con i palestinesi, nell'auspicio che relazioni migliori con il mondo arabo possano effettivamente portare, tra gli altri vantaggi, a migliori possibilità di pace con i palestinesi. Come mai? Perché i principali stati arabi possono ora spingere i palestinesi verso una maggiore flessibilità; perché i palestinesi potrebbero finalmente rendersi conto che il tempo non lavora a loro favore; perché Israele potrebbe infine sentirsi abbastanza sicuro da correre dei rischi che prima non poteva permettersi.
   Una delle equazioni fallimentari dei precedenti tentativi di una pace israelo-palestinese era l'idea che non si può concordare su nulla finché non si è trovato un accordo su tutto. Questa equazione aveva bloccato il processo. Più di 40 anni dopo il trattato di pace egiziano-israeliano solo chi ha paraocchi ideologici sosterrebbe che gli Accordi di Camp David non hanno portato enormi benefici a Israele, all'Egitto e a tutta la regione, anche se non hanno risolto la questione palestinese. Lo stesso vale oggi. Solo chi è accecato dall'ideologia sosterrà che gli accordi firmati martedì non sono buoni perché risolvono solo alcuni problemi, ma non tutti".

(Il Foglio, 21 settembre 2020)


L'Honduras trasferirà l'ambasciata a Gerusalemme entro la fine dell'anno

 
Juan Orlando Hernandez e Reuven Rivlin
Anche l'Honduras trasferirà la sua ambasciata in Israele a Gerusalemme. E "spera" di farlo "prima della fine dell'anno". La conferma è arrivata nelle ultime ore dal presidente Juan Orlando Hernandez, dopo che la scorsa estate era stato aperto un?ufficio commerciale a Gerusalemme, come distaccamento dell'ambasciata, sulla scia della decisione - due anni fa - del presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferirvi la rappresentanza diplomatica Usa.
Su Twitter Hernandez ha parlato di un passo concordato con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e ha anche annunciato che Israele aprirà per la prima volta un'ambasciata a Tegucigalpa. "Ho appena finito di parlare con Netanyahu per rafforzare la nostra alleanza strategica e concordare l'apertura delle ambasciate a Tegucigalpa e Gerusalemme. Speriamo di compiere questo passo storico prima della fine dell'anno, pandemia permettendo", ha twittato il presidente, sottolineando i "legami tra Honduras e Israele".
Una nota dell'ufficio di Netanyahu conferma che Israele aprirà entro dicembre la sua missione diplomatica a Tegucigalpa dopo aver inaugurato il mese scorso un ufficio di rappresentanza.

(Shalom, 21 settembre 2020)


Inizio di disgelo fra arabi e israeliani

di Peter Schiesser

È l'alba di un nuovo Medio Oriente, come annunciato dal presidente statunitense Trump? Forse. Di certo la decisione degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele è un evento storico, come ha rimarcato il premier israeliano Netanyahu, la cui portata sarà misurata sugli effetti che avrà su altri paesi arabi (Egitto e Giordania avevano già normalizzato le relazioni nel 1979 e nel 1994). Ne seguiranno altri? Si parla dell'Oman, ma anche del Sudan, mentre l'Arabia Saudita, potenza regionale che si contende la supremazia con l'Iran, non si muove ancora. Il Bahrain è quasi un suo Stato vassallo, la sua monarchia (sunnita come quella saudita) comanda su una popolazione a maggioranza sciita che occhieggia a Teheran, è poco immaginabile che abbia deciso di normalizzare i rapporti con Israele senza il beneplacito di Ryad, in particolare del principe ereditario Mohamed bin Salman. Per ora la posizione ufficiale della monarchia saudita è che non può esserci normalizzazione delle relazioni con Israele senza la creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme est come capitale (così il ministro degli esteri Faisal Ben Farhan il 17 agosto), coerentemente con «l'iniziativa di pace araba» lanciata nel 2002 dal defunto Re Abdullah; tuttavia nel recente passato Mohamed bin Salman ha lanciato segnali di apertura verso Israele, secondo alcuni vorrebbe coinvolgerlo nella realizzazione del suo piano di sviluppo economico, «Visione 2030», con cui intende liberare l'Arabia Saudita dalla dipendenza dal petrolio.
  In senso stretto, non si tratta di un accordo di pace, poiché fra questi tre Stati non c'è mai stata guerra. E in realtà intrattengono rapporti in campo economico e della sicurezza da diversi anni, benché in sordina, come fanno anche altri paesi. Riconoscerli ufficialmente cambia però le carte in tavola: Israele cessa di essere considerato un paria e può ambire a una maggiore integrazione in un Medio Oriente in cui fino ad oggi è stato al massimo mal tollerato. Per Netanyahu un bel regalo in un momento di difficoltà interne, con Israele che ha decretato il secondo lockdown a causa della pandemia, per Trump un successo in politica estera più sostanzioso dell'accordo con i talebani afghani e dei tentativi di risolvere il decennale stato di crisi con la Corea del Nord.
  Ma come si è giunti a questa svolta? Secondo quanto letto sul «New York Times» la proposta di normalizzare le relazioni con Israele è giunta dagli Emirati Arabi Uniti, in cambio della rinuncia da parte di Israele di annettersi la Cisgiordania. L'Amministrazione Trump ha colto la palla al balzo, con il merito di capire la portata storica che poteva avere questa mossa. Tuttavia, una simile decisione non sorge dal nulla: rispetto a 20, 30, 50 anni fa il Medio Oriente è mutato, drammaticamente si può dire. La questione palestinese ha perso la sua centralità, messa in ombra dalle rivoluzioni della cosiddetta «Primavera araba» del 2011 e dalle sanguinose guerre e rivolte che ne sono seguite, in cui le vecchie élite hanno dovuto (e devono tuttora) temere di finire come Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia o peggio come Gheddafi in Libia. Inoltre, le guerre, soprattutto quella in Siria ma anche quella scatenata dall'Arabia Saudita nello Yemen, hanno riportato a galla il fossato fra sunniti e sciiti, i primi capitanati dall'Arabia Saudita, i secondi dall'Iran, rendendo ancora più visibile e palpabile sul terreno lo scontro di potere fra queste due potenze regionali. Infatti, molti commentatori leggono questa svolta in funzione anti-iraniana: alla prova dei fatti ai regnanti arabi fa più paura Teheran di Tel Aviv (ricordiamo che nel Bahrain fra il 2011 e il 2014 ci sono state proteste popolari e scontri con morti e feriti che hanno coinvolto cittadini sciiti contro forze dell'ordine e cittadini sunniti). Dopo questo decennio sanguinoso, che ha visto anche la nascita e il declino dello Stato Islamico, è venuto a cadere l'assioma secondo cui la pace in Medio Oriente dipende solo dall'esistenza e dal comportamento di Israele.
  I perdenti sono chiaramente i palestinesi. Non possono più contare sull'appoggio incondizionato dei fratelli arabi, né sul fatto che gli Stati Uniti giochino il ruolo di veri mediatori (il piano di pace presentato dall'Amministrazione Trump riconosceva quasi unicamente le pretese israeliane ed è stato quindi rifiutato dai palestinesi). Il loro isolamento è aggravato dalla spaccatura fra Hamas, che controlla Gaza, e l'Autorità nazionale palestinese, radicata nella Cisgiordania. Ottimisticamente, c'è chi ipotizza che, venendo pian piano a cadere le minacce esterne, Israele si ammorbidisca anche verso i palestinesi, che l'idea di uno Stato autonomo per i palestinesi potrebbe tornare d'attualità. Ma potrebbe essere anche il contrario. In quel caso la rabbia dei palestinesi, figlia di una frustrazione e di un'oppressione decennale, potrebbe esplodere nuovamente. Anche oggi, una vera pace in Medio Oriente non può prescindere da una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

(Azione.ch, 21 settembre 2020)


Emirati: gruppo alberghiero pianifica l'apertura di un ufficio di rappresentanza in Israele

IL CAIRO - Il gruppo alberghiero emiratino Al Habtoor Group (Ahg), con sede a Dubai, ha in programma di aprire un ufficio di rappresentanza in Israele. Lo riferisce il quotidiano saudita "Arab News". L'annuncio è arrivato dopo un incontro tra l'ad del gruppo emiratino, Khalaf Ahmad al Habtoor, e quello del gruppo immobiliare e finanziario israeliano Ampa Group, Shlomi Fogel. Il gruppo Habtoor - i cui ambiti di attività includono anche costruzioni, istruzione e auto - è attualmente in trattativa con la compagnia israeliana Israir per avviare collegamenti aerei commerciali diretti tra lo Stato ebraico e gli Emirati.

(Agenzia Nova, 21 settembre 2020)


'A mèvesa 'mbuttunata: le origini ebraiche del piatto dei salernitani per San Matteo

Il 21 settembre è il giorno più atteso dai salernitani, la città si ferma e si riunisce per festeggiare San Matteo, Patrono della città.

 
La milza imbottita salernitana
Il momento clou della celebrazione è la processione che attraversa il Centro Storico della città per poi rientrare al Duomo. La tradizione vuole che la processione venga aperta da tre statue in argento, raffiguranti i Martiri salernitani Anthes, Gaio e Fortunato, definiti dalla cittadinanza come le "tre sorelle" del Santo. Quest'anno, a causa dell'emergenza del coronavirus, la processione pomeridiana non si terrà come nelle scorse annate.
   La leggenda vuole che San Matteo, di professione pubblicano ovvero collettore di imposte, al momento di seguire Gesù si voltò per guardare tutte le ricchezze e così la statua fu fatta con due facce. Di conseguenza tutti i salernitani si dice che abbiano due facce.
Piatto tipico della tradizione culinaria salernitana in occasione della celebrazione di san Matteo è la milza imbottita, le cui origini si fanno risalire ai primi insediamenti ebraici in città.
   In molti ignorano la presenza di una comunità ebraica a Salerno le cui tracce scritte risalgono al X secolo. Il quartiere ebraico, o giudecca, sorgeva vicino alla riva del mare, tra le attuali via Masuccio Salernitano e vico Giudaica. Una tradizione vuole tra i fondatori della Scuola Medica Salernitana l'Ebreo Elino, che avrebbe insegnato in ebraico, mentre altri tre colleghi avrebbero insegnato rispettivamente in greco, arabo e latino.
   Questo insediamento stabile della comunità ebraica salernitana ha lasciato, nel corso dei secoli, importanti tracce della sua presenza in città a livello sia economico (mercanti, banchieri, tessitori, conciatori) che culturale ed ha influenzato anche la cucina del territorio. E uno dei piatti tipici della festa di san Matteo a Salerno, "'a mèvesa 'mbuttunata",la milza cotta nell'aceto e imbottita di prezzemolo e peperoncino, consta proprio di origini ebraiche.
   Per la macellazione della carne gli ebrei, secondo i loro dettami religiosi, non potevano percepire denaro per il proprio lavoro, e quindi trattenevano come ricompensa le interiora che cucinavano come farcitura per panini che vendevano poi ai "gentili", cioè ai cristiani.
   La milza venne poi utilizzata come strumento di baratto tra i macellai e gli allevatori che vendevano i loro animali in cambio delle interiora, o i popolani e agricoltori che chiedevano nei macelli le interiora che allora venivano vendute a prezzi estremamente bassi. Un cibo poverissimo, dunque, in grado però di sfamare e corroborare chi aveva poco o nulla da mangiare, e che nel tempo a Salerno è diventato fortemente indentitario della festa di San Matteo, tant'è che non manca mai sulle tavole imbandite in questo particolare giorno.

(UlisseOnline, 21 settembre 2020)


Shalom News - Edizione del 20 settembre 2020




(Shalom, 20 settembre 2020)


La cannonata di capitan Segre che riscattò e illuse gli ebrei

di Riccardo Di Segni*

Chissà se e come quest'anno, anniversario importante in cifra tonda (150 anni) della breccia di Porta Pia del 20 settembre, le manifestazioni in ricordo saranno partecipate e sentite. Tra Covid-19, polemiche mai sopite e memoria sempre più lontana si prevedono messaggi ufficiali e poco più. A quel poco che ci sarà non potranno partecipare istituzionalmente gli ebrei perché quest'anno la data coincide con il Rosh haShanà, II capodanno religioso.
   Eppure tra i pochi a conservare una memoria positiva di quell'avvenimento sono proprio gli ebrei, e specialmente gli ebrei romani, per i quali l'ingresso del regio esercito a Roma significò la fine della soggezione di secoli al dominio papale, che li teneva ancora chiusi nel ghetto con tutta una serie di limitazioni e umiliazioni. Ultimi, gli ebrei romani, tra quelli viventi nel regno d'Italia a ottenere l'emancipazione e i diritti di cittadinanza, elargiti nel 1848 dallo Statuto Albertino.
   Non fu un caso che il compito (ingrato o ambito, dipende dai punti dl vista) di aprire a cannonate la breccia suite mura fu affidato (tra gli altri) a un ebreo piemontese, Giacomo Segre, capitano di artiglieria, che non temeva la minaccia di scomunica. La storia di questo ufficiale e della sua famiglia è emblematica di quello che capitò agli ebrei italiani prima e dopo Porta Pia. Il figlio Roberto, nato due anni dopo, fu generale di artiglieria e ebbe un ruolo decisivo e controverso nella Prima guerra mondiale e nelle trattative di pace che ne seguirono; morì nel 1936 risparmiandosi l'onta delle leggi razziali e delle persecuzioni che colpirono i suoi discendenti. Lo stesso Stato che aveva demolito i ghetti, privava gli ebrei dei diritti elementari. Una bella lezione contro gli entusiasmi per un sistema, un progetto politico, una dinastia. Sappiamo quanto sia stato divisivo l'evento del 20 settembre nella memoria collettiva, rappresentando il simbolo dei conflitto dello Stato con la Chiesa cattolica. Solo per breve periodo fu festa nazionale; introdotto a fatica e tardivamente nel 1895 fu cancellato subito dopo i patti lateranensi. Nuovi equilibri tra poteri e imbarazzi mai sopiti continuano a ostacolare analisi serene. Per gli ebrei romani e italiani fu comunque un evento decisivo, che aprì una stagione di piena integrazione, ma di breve durata, perché ancora prima ancora del fascismo, la presenza di pochi ebrei illustri nelle stanze del potere (da Luigi Luzzatti a Ernesto Nathan) entrò in conflitto con i politici cattolici; ognuno di questi personaggi aveva un rapporto molto personale con le sue origini, ma altri non omettevano di farglielo pesare; è un capitolo di storia ancora poco studiato. L'importanza del 20 Settembre rimane in ogni caso e gli ebrei come sempre assolvono al compito del mantenimento della memoria cercando, con fatica, dl evitare le derive retoriche; ma non vorrebbero essere delegati e lasciati quasi soli a custodire un patrimonio comune di valori civili e di storia nazionale.

* Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma

(la Repubblica, 20 settembre 2020)


Proteste in Israele contro il nuovo lockdown

Nel giorno del capodanno ebraico

Le proteste hanno riguardato tra l'altro anche le spiagge, l'accesso alle quali è vietato dalle nuove misure
In Israele si festeggia il Rosh ha Shanà, ovvero il capodanno ebraico. Le celebrazioni coincidono tuttavia con la ripresa del lockdown, nella capitale Gerusalemme e nelle altre città maggiori. Sulla spiaggia di Tel Aviv, ieri centinaia di manifestanti hanno protestato contro questa decisione drastica, che «nuoce alla popolazione e all'economia, produce disoccupazione e suicidi», secondo gli organizzatori. I casi finora registrati nel Paese ebraico sono 179.071, e i decessi 1.196.

(LaPresse, 20 settembre 2020)


Il re contro il principe così la pace con Israele divide l'Arabia Saudita

L'erede al trono porta avanti da anni una politica sotterranea di avvicinamento allo Stato ebraico Da tempo fra i reali ci sono divergenze sulla questione palestinese: ora diventano pubbliche

di Francesca Caferri

«Ci hanno abbandonato tutti: i sauditi per primi». Così nel dicembre 2017 i giovani palestinesi di Gerusalemme Est reagivano all'annuncio di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico. Quell'annuncio era stato preceduto da una trattativa segreta, in cui il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman aveva svolto un ruolo di primo piano, incaricandosi di convincere per conto di Jared Kushner - genero del presidente Trump e da lui nominato inviato per il Medio Oriente - i palestinesi ad accettare il sobborgo di Abu Dis, alla periferia Est di Gerusalemme, come capitale palestinese. Il piano fu poi fermato dall'unico intervento capace di bloccare MBS, acronimo con cui il principe è chiamato: quello del padre, re Salman.
   Il dissenso che spacca la famiglia reale saudita sulla questione palestinese è noto da allora: i vecchi come il re e il suo entourage. contro i giovani come il principe e i suoi. Coloro che hanno vissuto di persona la disfatta palestinese negli ultimi 70 anni contro quelli che vogliono guardare al futuro e non vedono più nella contrapposizione con Israele una chiave di lettura dell'identità araba contemporanea. Oggi che il nuovo Medio Oriente disegnato da Kushner per Trump è diventato realtà con là firma dell'accordo fra Israele da una parte e gli Emirati Arabi Uniti e Bahrein dall'altra, la divergenza di opinioni assume toni pesanti, capaci di modificare gli equilibri regionali.
   Lo conferma un'inchiesta pubblicata ieri dal Wall Street Journal: secondo la ricostruzione del quotidiano finanziario americano, MBS, a cui l'anziano padre (84 anni) ha delegato la gestione quotidiana degli affari del regno, non avrebbe informato il re delle trattative in corso fra gli Emirati e Israele per la firma del trattato di pace. Il principe era ben consapevole dell'opposizione del padre a qualunque accordo che non comportasse una soluzione reale per la questione palestinese e sapeva che una presa di posizione pubblica del monarca avrebbe potuto far deragliare tutto. Così a Salman - che durante gli anni da governatore di Riad amava definirsi "ambasciatore' dei palestinesi nel regno saudita" - la trattativa sarebbe stata tenuta nascosta fino all'ultimo istante, complice un'operazione che ha subito qualche settimana fa e la convalescenza impostagli dai medici.
   «Furiosa» la reazione del sovrano, secondo il giornale: «Se qualche altro Stato volesse seguire l'esempio degli Emirati Arabi Uniti, dovrebbe chiedere in cambio un prezzo alto», ha scritto poi il principe Turki al-Faisal, ex ambasciatore a Washington e considerato vicino al re. Posizione ribadita dal sovrano in una telefonata a Trump il 6 settembre: il regno, sottolineava allora un comunicato dell'agenzia di stampa saudita, resta convinto che la soluzione al conflitto israelo-palestinese si trovi nelle pagine del piano di pace presentato nel 2002 proprio da Riad.
   Ma, nei fatti, negli ultimi anni la politica saudita si è allontanata da quel piano: come il leader emiratino Mohammed Bin Zayed, MBS ha promosso una cooperazione sotterranea con Israele su cybersicurezza e tecnologia oltre che in chiave anti-iraniana. E ha auspicato il sostegno dei gruppi dell'high tech israeliano per lo sviluppo dl NEOM, la città robotizzata in costruzione sul Mar Rosso e per la rivoluzione economica che sta portando avanti nel regno. Un cambiamento culturale, oltre che strategico, che vede nella contrapposizione all'Iran - nemico comune di Israele e dell'Arabia Saudita - l'asse degli equilibri regionali futuri.

(la Repubblica, 20 settembre 2020)


Ecco come Trump ha rovesciato gli schemi fallimentari di Obama in Medioriente

L'approfondimento di Atlantico Quotidiano dopo l'accordo fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein siglato grazie a Trump

di Dorian Gray

Per comprendere gli Accordi di Abramo firmati a Washington il 15 settembre 2020 non bisogna partire dalla presidenza Trump, ma da quella di Barack Obama. È stato il presidente Obama a creare l'environment che poi, abilmente Trump ha sfruttato per arrivare all'accordo tra Israele e il mondo arabo sunnita moderato del Golfo.
  Ma si badi bene: non è un certo complimento all'ex presidente Usa. Infatti, il contesto lasciato dall'amministrazione Obama è il risultato del fallimento della sua strategia in Medio Oriente, ma ha permesso ad una parte importante del mondo arabo - quella che nel 2002 aveva promosso la proposta di pace della Lega Araba - di comprendere definitivamente che Israele non è il vero nemico e che la questione palestinese non poteva più essere una conditio sine qua non per firmare un accordo con lo Stato ebraico.
  Cosa voleva Obama? È presto detto: 1) un equilibrio del terrore in cui l'Iran fosse praticamente alla pari di Israele, bloccando soltanto parzialmente il programma nucleare di Teheran; 2) un nuovo equilibrio nel
La politica obamiana ha garantito la libertà di movimento agli iraniani in Medio Oriente e il sostegno degli Usa alla Fratellanza Musulmana, perché considerata erroneamente rappresentante delle istanze sociali dell'Islam. Insomma, come direbbero a Napoli "nu papocchio".
mondo sunnita, che de facto abbandonava a loro stesse le vecchie monarchie regnanti, considerate ormai quasi prive di legittimità. Nei fatti, la politica obamiana si è tradotta, stringendo al massimo, nel garantire libertà di movimento agli iraniani in tutto il Medio Oriente e nel garantire il sostegno dell'amministrazione Usa alla Fratellanza Musulmana, perché considerata erroneamente rappresentante delle istanze sociali dell'Islam (con buona pace dei diritti civili, dei diritti delle donne e delle minoranze sessuali). Insomma, come direbbero a Napoli "nu papocchio".
  Purtroppo per Obama, le forze politiche e le monarchie sunnite moderate del Golfo, che lui tanto disistimava, sono riuscite a tenere il timone, reagendo a quella che percepivano come una diretta minaccia alla loro esistenza. Sono riuscite a bloccare l'espansione dell'islamismo in Paesi come l'Egitto e hanno direttamente reagito alla minaccia iraniana in aree calde come il Libano, dove Hezbollah ormai la faceva da padrone. Se il Libano è fallito, non è solo perché è fallito il suo patto nazionale o perché è fallito l'ancoraggio al dollaro voluto da Rafiq Hariri, ma soprattutto perché le monarchie del Golfo - Arabia Saudita su tutte - hanno disinvestito da Beirut e le rimesse dei libanesi che vivono a Riad e Abu Dhabi sono venute meno. Una reazione costante e silenziosa al potere sciita khomeinista, che di fatto si è rivelata vincente (la crisi del Libano, ricordiamolo, non nasce con le esplosioni di Beirut, ma ben prima).
  Ora veniamo a Trump. Il "cialtrone in chief" Trump, come qualcuno ama definirlo, ha proseguito sulla strada del disimpegno americano dal Medio Oriente, che va avanti da decenni e che era avanzato anche con Obama. Trump però, ha ribaltato il paradigma: ritiro sì, ma ricostruendo le alleanze tradizionali americane in quella regione e rimettendo al suo posto la reale minaccia all'instabilità di quell'area, ovvero l'Iran. In quattro anni, il regime iraniano è stato schiacciato economicamente, con una strategia che - nonostante il mega accordo tra Teheran e Pechino - sta costringendo anche la Cina a condizionare i suoi legami con la Repubblica Islamica in base ad alcuni limiti di rule of law (come per esempio la riforma del settore bancario iraniano richiesta da anni dal Financial Action Task Force).
  La ricostruzione delle alleanze tradizionali americane, quindi, doveva andare di pari passo con la responsabilizzazione degli attori locali (così come Trump sta chiedendo ai partner Nato di avere un ruolo
Probabilmente Trump quando ha presentato "l'accordo del secolo" fra israeliani e palestinesi, sapeva già che l'annessione della Valle del Giordano sarebbe stata la buona scusa per normalizzare le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo,
più attivo nella gestione delle spese e degli oneri dell'Alleanza Atlantica). Ovviamente, questa responsabilizzazione passava direttamente per un accordo geopolitico che fosse in grado di mettere insieme l'attore regionale più forte, Israele, con gli alleati sunniti moderati dell'Occidente, Arabia Saudita in testa, aumentando la sicurezza di tutti. Probabilmente, lo stesso Trump quando ha presentato "l'accordo del secolo" fra israeliani e palestinesi, sapeva già che l'annessione della Valle del Giordano sarebbe stata la buona scusa per normalizzare le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo, mostrando come la questione palestinese restasse comunque dentro l'accordo (ovviamente i palestinesi hanno espresso il loro ennesimo rifiuto, ma ormai a questo ci siamo tutti abituati).
  Così, pur condividendo con Obama la tendenza al progressivo disimpegno americano dal Medio Oriente, ma ribaltando la sua fallimentare strategia, che ha prodotto solo destabilizzazione, Trump è riuscito in una impresa storica, che promette di cambiare per sempre il volto del Medio Oriente. È forse l'alba di un nuovo ordine geopolitico regionale che, per l'appunto, ha nell'islamismo politico, di matrice sia sciita che sunnita, il nemico da combattere.
  Se vogliamo, storicamente parlando, il Medio Oriente di oggi ha tradito Ben Gurion, per ritornare ai tempi di Feisal e Weizmann. Ben Gurion sognava una normale alleanza geopolitica tra Israele e i Paesi non arabi, Iran e Turchia in testa. Così è stato dall'inizio della Guerra Fredda, fino a quando è stato valido il Patto di Baghdad (1955). Ma le cose poi sono cambiate, prima con la rivoluzione iraniana del 1979 e poi con l'arrivo al potere di Erdogan ad Ankara. Così, il mondo ebraico è tornato a quell'intesa del 1919 tra l'allora presidente dell'Organizzazione mondiale sionista Weizmann, poi primo presidente di Israele, e il figlio di Hussein lo Sceriffo della Mecca. Un accordo in cui gli arabi, alleati degli inglesi, si dicevano favorevoli alla Dichiarazione Balfour e al progetto sionista in Palestina. Agli inglesi, oggi basta sostituire gli americani e il gioco, brutalizzando al massimo il paragone, è fatto.
  Si badi bene: pensare che quello tra Israele e il mondo arabo sunnita sia un accordo solo contro l'Iran sarebbe una banalizzazione di qualcosa di enormemente più grande. Come già scritto, in ballo c'è la
in ballo c'è la costruzione di un nuovo Medio Oriente e un dialogo stretto fra mondo ebraico e mondo sunnita moderato. Una partnership strategica, che passa per accordi finanziari, nel settore dell'edilizia, nel settore della scienza e dell'hi-tech e nel settore commerciale.
costruzione di un nuovo Medio Oriente e un dialogo stretto fra mondo ebraico e mondo sunnita moderato. Una partnership strategica, che passa per accordi finanziari, nel settore dell'edilizia, nel settore della scienza e dell'hi-tech e nel settore commerciale. Israele, da anni, aveva rilanciato il progetto del "railway for peace", una grande linea ferroviaria che intende collegare il porto di Haifa con l'Arabia Saudita, passando per la Giordania. Oggi, guarda caso, nel porto di Haifa, vogliono investire direttamente gli emiratini (il quotidiano Haaretz parla di un prossimo accordo tra la società israeliana Israel Shipard e l'emiratina DC World). Il volume di scambi calcolato annualmente tra Israele e gli Emirati potrebbe raggiungere la cifra di 4 miliardi di dollari l'anno, mentre da Manama si dicono disposti ad investire nelle infrastrutture israeliane per un valore di almeno 500 milioni di dollari.
  Come ha poi detto Trump, altri Paesi seguiranno (si parla di Marocco, Sudan, Oman e ovviamente Arabia Saudita). Per quanto concerne Riad, non sappiamo quando farà il passo finale verso la normalizzazione, ma è chiaro a tutti che il Bahrein è stato mandato avanti in questa partita con la piena benedizione di Mohammed Bin Salman. I sauditi potrebbero, come pare voler fare il Marocco, avviare prima voli diretti con Israele, per poi normalizzare le relazioni diplomatiche.
  La mossa, dal punto di vista geopolitico, va quindi vista anche in chiave anti-turca. In questo caso, se guardiamo a quello che sta succedendo nel Mediterraneo orientale, l'Accordo di Abramo si potrebbe tranquillamente allungare verso la Grecia e Cipro, con la Francia primo Paese europeo disposto a benedirlo, al fine di contrastare l'attivismo di Erdogan e difendere gli interessi militari ed energetici di Parigi.
  L'Italia, in questo contesto, potrebbe certamente giocare la sua partita, a patto che decida finalmente da che parte stare. Per ora, Roma gioca nel mezzo, consapevole di essere finita nella trappola di Erdogan, ma anche incapace di liberarsene in maniera netta. Quanto questa doppio gioco potrà durare, non è dato saperlo. Resta il fatto che in Italia potrebbe arrivare il gasdotto Eastmed, che permetterebbe all'Ue di diversificare i suoi approvvigionamenti di gas, soprattutto dalla Russia. Eastmed ad alcuni pare non conveniente economicamente, ma va considerato come un progetto geopolitico strategico, che tra l'altro potrebbe tranquillamente essere rivisto per congiungersi nella parte finale con il TAP proveniente dall'Azerbaijan.
  Infine, due parole sui vertici europei: vergognosa la loro assenza alla firma a Washington dell'Accordo di Abramo. Un'assenza figlia dell'ideologia di Oslo, quella che vedeva solo nella questione palestinese la via per risolvere i problemi del Medio Oriente. Una lettura "dalemiana" delle relazioni internazionali, che si è sempre rivelata filosoficamente affascinante, ma praticamente fallimentare. Pochi ricordando, in questo senso, che il conflitto israelo-palestinese, prima di essere tale, è stato arabo-israeliano. L'Europa quindi può scegliere: o segue la via tracciata da chi ha capito che, falliti gli accordi di Sykes-Pikot, è tempo di ricostruire un ordine regionale fondato sulla pace e la convivenza pacifica, o resterà prigioniera della Dichiarazione di Venezia del 1980, quella con cui gli europei riconobbero l'Olp, ma che nei fatti ha reso la diplomazia del Vecchio Continente una macchina burocratica che ormai si è totalmente inceppata.
  Come direbbe Vasco Rossi, "qui si fa la storia!". Chi sarà in grado di salire su questo treno ora ne godrà i frutti, chi se lo lascerà scappare ne pagherà le conseguenze per decenni. Nella seconda categoria, quella che perde costantemente i treni, fino ad oggi ci sono stati i palestinesi…

(Start Magazine, 20 settembre 2020)


Se è vero che Trump "sapeva già che l'annessione della Valle del Giordano sarebbe stata la buona scusa per normalizzare le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo" bisogna dire che la mossa dell'accoppiata Trump-Netanyahu è stata un autentico colpo di genialità politica. Donald dice a Bibi: "Tu grida ai quattro venti che vuoi annetterti parti della Cisgiordania, poi entro io invitandoti pubblicamente alla moderazione e intanto parlo con gli arabi. Quelli hanno una voglia matta di fare la pace con noi, ma non possono farlo se tu mantieni l'intenzione di togliere terra ai palestinesi. A questo punto intervengo di nuovo io dicendo agli arabi che loro potrebbero atteggiarsi a salvatori dei palestinesi presentandosi come quelli che sono riusciti a impedire l'annessione. In che modo? Semplice, "limitandosi" a riconoscere ufficialmente lo Stato d'Israele e stabilendo con lui relazioni diplomatiche. Così otterremo tutto senza dare niente, cioè semplicemente dicendo che non farai quello che avevi minacciato di fare". E così è stato. Se prima i palestinesi si prendevano da Israele la terra offrendogli in cambio la "pace" (cioè la promessa di non fare guerra), adesso i palestinesi ottengono da Israele la "pace" (cioè il fatto di non subire annessioni) e Israele si prende la fine dell'isolamento diplomatico nel mondo arabo mediorientale. Che poi Trump e Netanyahu abbiano anche di mira interessi elettorali all'interno dei loro paesi, non cambia in nulla il giudizio politico che deve essere dato sulla loro mossa. M.C.


Qatar: Doha normalizzerà i rapporti con Israele ?

Ci aspettiamo che il Qatar finisca per normalizzare le proprie relazioni con Israele malgrado le forti critiche di Doha agli accordi stretti da Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Lo ha affermato Timothy Lenderking, vice assistente segretario di Stato Usa per i paesi del Golfo, come riferisce il quotidiano saudita «Arab News».
   Durante una videoconferenza, Lenderking ha ricordato che il Qatar è stato il primo paese del Golfo a permettere a Israele l'apertura di un ufficio nella propria capitale, Doha, e ha aggiunto che « il Qatar si interfaccia con Israele e lo fa apertamente da vari anni. Ricordiamo il ruolo del Qatar in un cessate il fuoco tra Hamas e Israele due settimane fa: un eccellente esempio della diplomazia qatariota grazie alla quale Doha può utilizzare la propria influenza per migliorare la situazione ». Lenderking ha aggiunto che il Qatar ha sviluppato relazioni positive con funzionari israeliani, sottolineando che « ciascun paese si muoverà con il proprio passo e secondo propri criteri verso la normalizzazione ».

(MenaNews, 20 settembre 2020)


Gli USA riapplicano le sanzioni all'Iran ma è la Turchia il vero pericolo

di Franco Londei

È più temibile l'Iran scalcinato degli Ayatollah, oppure è più temibile quella formidabile macchina da guerra che è la Turchia del Califfo Erdogan, capo della Fratellanza Musulmana?
   Ieri (sabato) gli Stati Uniti hanno proclamato unilateralmente che le sanzioni Onu contro l'Iran sono tornate in vigore e hanno promesso di punire duramente chi le viola.
   Bisogna tuttavia precisare che solo gli Stati Uniti applicano le sanzioni a Teheran anche se la minaccia di negare l'accesso al sistema finanziario e ai mercati statunitensi a chi viola tali sanzioni appare concreta e formidabile.
   Francia, Gran Bretagna e Germania hanno inviato una lettera congiunta al Consiglio di Sicurezza dell'Onu nella quale si afferma senza tanti giri di parole che la decisione americana è illegale.
   Ora, legale oppure no, Trump ha già dimostrato in passato di non curarsi dei "dettagli" per cui è plausibile che in vista della Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si terrà a ottobre e delle successive elezioni presidenziali americane, decida qualche mossa ad effetto contro l'Iran.
   Bene, Teheran è senza dubbio pericolosa e temibile, minaccia continuamente di distruggere Israele e comanda da remoto un apparato militare e terroristico di tutto rispetto. Ma è veramente il nemico più temibile sia per Israele che per il mondo occidentale?
   Certo, hanno il controllo su Hezbollah che ha migliaia di missili, ma hanno un esercito scalcinato e senza armi, una aviazione praticamente inesistente e una marina che a malapena controlla le coste iraniane.
   L'unico apparato degno di essere considerato pericoloso è quello dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, ma anche quello comincia ad avere i suoi limiti e proprio gli americani hanno dimostrato di poterlo colpire come e quando vogliono.
   Diverso il discorso se andiamo a parlare di Turchia. I turchi hanno la stessa veemenza religiosa degli iraniani, anche se dalla parte sunnita. Hanno lo stesso odio per Israele, anche se non dichiarano apertamente di volerlo distruggere. Come l'Iran hanno forti legami con gruppi terroristici (Hamas e ISIS). La differenza la fa l'apparato militare.
   L'apparato militare turco, a differenza di quello iraniano, è formidabile. Un esercito molto ben armato e giudicato il secondo più numeroso della NATO con 350.000 effettivi e circa 500.000 riservisti. Una aviazione che può godere di tutte le nuove armi e tecnologie in dotazione alla NATO, fatta eccezione per gli F-35. Una marina che non ha nulla da invidiare alle più moderne marine del mondo e che si appresta a dotarsi della prima portaerei leggera.
   Ora, è più temibile l'Iran scalcinato degli Ayatollah, oppure è più temibile quella formidabile macchina da guerra che è la Turchia del Califfo Erdogan, capo della Fratellanza Musulmana?
   Invece di concentrarsi solo sull'Iran, senza dubbio pericoloso, la Casa Bianca non farebbe bene a guardare a quello che sta facendo "l'alleato" turco?
   Erdogan ha un piano, anzi, ne ha diversi e tutti prevedono di spazzare via Israele e di creare un califfato globale.
   Senza lasciar perdere Teheran e i suoi piani distruttivi e pericolosi, è arrivato il momento di fare i conti con quello che è il pericolo più temibile sia per Israele che per l'occidente: la Turchia di Erdogan. Ed è meglio farlo subito perché il califfo turco corre e corre forte.

(Rights Reporter, 20 settembre 2020)



Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi,
    quando l'ira loro ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso,
    il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate
    sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
    --> Predicazione
Marcello Cicchese
31 maggio 2015




Eydar: "In Medio Oriente i sognatori hanno fallito"

L'ambasciatore israeliano a Roma: la realtà è diversa, Trump e Netanyahu l'hanno capito

di Francesca Sforza

 
Dror Eydar, Ambasciatore d'Israele in Italia
ROMA - «Il problema è John Lennon», e quella sua canzone che parlava di un mondo senza nazioni, in cui non ci sono ragioni per uccidere o per morire. «La realtà è diversa, e i politici che come Clinton e Obama si sono ispirati a un sogno, in Medio Oriente non sono riusciti a fare nulla». A parlare è Dror Eydar, Ambasciatore d'Israele, che dopo un anno dal suo arrivo in Italia, ha deciso di rilasciare la sua prima intervista a «La Stampa» in occasione di Rosh Ha Shanà, il Capodanno ebraico, che segna l'inizio del 5781 dalla data della creazione. «Non c'è preghiera al mondo che non ringrazi Dio per il cibo che ci ha dato — racconta dalla sua residenza a Roma — ma solo gli ebrei, nei secoli passati, hanno fatto seguire al ringraziamento la preghiera di ricostruire Gerusalemme». Alla fine è andata così, «lo Stato di Israele è la polizza assicurativa del popolo ebraico, e i palestinesi sapevano che saremmo ritornati, non è scritto solo nella Bibbia, basta leggere la Sura 5 del Corano». Anche per questo è stato durissimo, durante il lockdown, «far capire agli ebrei rimasti in Italia che non si poteva raggiungere Israele, è stato come risvegliare un trauma antico, se non si è ebrei non si può capire».
   Storico, linguista, amico personale di Benjamin Netanyahu, Dror Eydar viene da una famiglia di ebrei iraniani, legge la Bibbia ogni giorno, ragiona con passione sulla stratificazione della lingua ebraica — «è come un grattacielo di cui si possono visitare i molti piani, ci sono parole che datano tremila anni fa e altre nate di recente» — e sulla politica ha idee molto chiare: «Trump e Netanyahu potranno non piacere agli intellettuali, ma sono riusciti là dove gli altri hanno fallito». In un momento oltretutto difficile, con la pandemia ancora in corso, lo smarrimento che l'accompagna, le incertezze che ci ossessioneranno fino alla scoperta di un vaccino.

- Ambasciatore Eydar, l'anno ebraico inizia con Israele costretto a chiudere tutto di nuovo per le festività, crede che anche l'Italia sia a rischio?
  «"Se puoi fare qualcosa fra una settimana, fallo adesso", è questa la lezione che ho imparato dall'Italia e che nei giorni della massima emergenza ripetevo al mio premier e ai ministri. Il problema si sono rivelati soprattutto i ragazzi del liceo — più indisciplinati dei piccoli - e i matrimoni, per questo Israele ha deciso una nuova chiusura, anche se breve. Ma l'Italia mi sembra in grado di gestire questa fase».

- Lei ha vissuto il lockdown a Roma, cosa l'ha colpito di più?
  «Era fondamentale rimanere qui, per non far sentire isolata la comunità ebraica, gli israeliani che erano rimasti bloccati, e anche per dare solidarietà a questo Paese. Quando Attilio Fontana mi ha chiamato per chiedere aiuti da parte del mio Paese, mi sono permesso di dargli due consigli: innanzitutto di rivolgersi alla Nato, che aveva sicuramente la possibilità di mettere a disposizione dei respiratori in tempi brevi, e poi di guardare a imprese di alta gamma come Ferrari o Fca. Lo fecero anche gli americani durante la Seconda Guerra Mondiale quando chiesero alla Ford di convertire la produzione a usi militari».

- Questi sono anche i giorni della nascita di un processo politico importante per Israele, cosa ne pensa?
  «Ciò che è accaduto a Washington ha cambiato il paradigma del Medio Oriente. Non bisogna cedere all'euforia, ma è chiaro che si tratta di un riconoscimento fondamentale per il futuro di Israele e dello sviluppo dell'area. Gli intellettuali liberal hanno sempre pensato che il problema del Medio Oriente fosse Israele, ora penso che molti capiscano che Israele è l'àncora della sua stabilità. I sunniti e i Paesi arabi moderati hanno bisogno di collaborazione sulla sicurezza, sulla tecnologia, sulla finanza, sugli scambi di capitale umano. E con chi, se non con Israele?».

- Che cosa ne è della solidarietà con il popolo palestinese? Siamo di fronte a un cambiamento tattico da parte degli arabi, o ci sono altre ragioni?
  «I cambiamenti che hanno interessato il Medio Oriente hanno generato paura nei Paesi arabi. Dalla Siria all'Iraq, dalla Libia al Libano: troppa instabilità. E i palestinesi hanno sempre scelto la parte sbagliata: prima Saddam Hussein, poi l'Iran. Adesso i popoli arabi hanno cominciato a capire che il loro presente — prima ancora del loro futuro - è prigioniero del costante rifiuto dei palestinesi a un compromesso. Ogni accordo storico ha visto gli ebrei dire sì, e i palestinesi dire no. Dai tempi della Peel Commission del 1937, quando si fece un piano di divisione territoriale, per cui agli ebrei sarebbe andato il 17% del territorio attuale, agli arabi il 75%, e Gerusalemme a metà. Ben Gurion disse sì, gli arabi no. E da allora è stato sempre così».

- Come spiega che due presidenti così impopolari siano riusciti là dove leader di largo consenso hanno fallito?
  «Talvolta nella storia c'è bisogno di leader non troppo sofisticati, che sappiano dire "ok, questi sono i buoni, e questi sono i cattivi". Ci vuole coraggio a non dare sempre ragione a tutti. L'approccio al Medio Oriente deve essere pragmatico. Trump è un uomo d'affari, sa come trattare. Le faccio un esempio: Kerry si trovava in Israele a discutere con Netanyahu dell'accordo con l'Iran, e sarebbe dovuto partire per il Giappone subito dopo. Mentre era in volo venne a sapere che a Ginevra si trovava una delegazione iraniana, e come prima cosa fece cambiare rotta per raggiungere Ginevra. Gli iraniani lo hanno saputo e non hanno più firmato. Ne avevano dedotto che se l'America era tanto interessata, allora potevano alzare il prezzo. Trump non avrebbe mai commesso una simile leggerezza».

- Anche l'assassinio del generale iraniano Soleimani va letto come un'accelerazione del processo politico in corso?
  «No, perché l'Iran era una minaccia già da prima. E poi Soleimani era il capo di tutti i serpenti, ha esportato le guerre in tutto il Medio Oriente con lo scopo di circondare Israele. Si comportava come uno di quei bulli da strada, convinto di essere un intoccabile. E lo era, se fossero stati ancora i tempi della dottrina Obama. Ma Trump ha valutato diversamente, ha capito che era un ostacolo a qualsiasi processo. E quindi Soleimani è stato ucciso».

- Non avete paura di un Iran isolato?
  «E che possono fare, combattere contro di noi?»

- In molti Paesi dell'Islam moderato cresce il timore dell'assalto delle monarchie del Golfo: hanno soldi, costruiscono moschee, sono chiusi in tema di diritti. Che ne pensa?
  «Nessuno si sceglie i propri vicini. Posso dire che per Israele la democrazia è un fatto assodato, ma ho rispetto per Paesi che hanno diverse forme di governo. Sei paesi arabi vogliono vivere in pace con Israele ed entrambi possiamo prosperare, non vedo dove sia il problema».

- Si fida del leader saudita Bin Salman?
  «Sono i tempi e la situazione a scegliere i leader, più che i leader a scegliere i tempi e la situazione. Mohammad bin Salman è espressione di tanti fattori ed energie collettive, guarda alle cose che abbiamo in comune più che a quelle che ci dividono».

- Che cosa si aspetta dall'Unione europea?
  «Non molto, non c'è consapevolezza di quanto le cose siano cambiate in Medio Oriente. Quando sento parlare Borrell mi sembra di ripiombare negli anni Ottanta. Mentre forse dovrebbe chiedersi dove finiscono i fondi europei ai palestinesi. Con tutti quei soldi Gaza sarebbe dovuta diventare come Singapore».

(La Stampa, 19 settembre 2020)


Al Otaiba e i segreti del patto Uae-Israele

di Paolo Lepri

E' lui che rispose «inshallah» quando la moglie del premier israeliano Benjamin Netanyahu, Sara, gli chiese in marzo, durante un incontro casuale al Cafe Milano di Washington, se un giorno avrebbe «visitato Gerusalemme». Una domanda inconsueta questa, se rivolta all'ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti, cioè di una nazione che a quell'epoca non aveva rapporti con lo Stato ebraico. Ma Yousef Al Otaiba se la cavò bene, come al solito (è sopravvissuto anche ad uno scandalo legato a mail hackerate, con risvolti pruriginosi), forse perché sapeva quello che bolliva in pentola: l'accordo tra il suo Paese (con l'appendice del Bahrein) e Israele firmato alla presenza di un trionfante Donald Trump. Un accordo, va detto, che cambia lo scenario del Medio Oriente e mette in un angolo la questione palestinese.
   Quarantasei anni, figlio di uno dei fondatori degli Emirati e di una delle sue quattro mogli, Yousef AI Otaiba è un diplomatico e un uomo d'affari che viene descritto ugualmente a suo agio tanto con l'abito scuro quanto con la tunica. E nato ad Abu Dhabi, ha studiato al Cairo e a Georgetown, si è sposato con l'egiziana Abeer Shoukry e ha due figli, Omar e Sarnia. Nella sua qualità di ministro di Stato, oltre che di ambasciatore a Washington, ha unito la sua voce alla celebrazione dell'intesa del 15 settembre, affermando che «abbasserà le tensioni e produrrà nuove energie per cambiamenti positivi».
   Guardando alla realtà con occhi obiettivi, si può veramente sperare che il patto Netanyahu-Emirati sia una svolta fruttuosa? Qualcuno lo crede. Se avrà successo, ha scritto per esempio Thomas Friedman, «creerà un modello alternativo a quello della resistenza permanente di matrice iraniana che ha provocato disastri in Libano, Siria, Gaza, Iraq». E i palestinesi? Il fatto che la loro causa nazionale non rappresenti più una priorità nel mondo arabo non vuol dire certamente che si possa voltare pagina. Un altro grande columnist del New York Times, Roger Cohen, sostiene che quella dei «due Stati» continua ad essere la soluzione «meno impossibile» per uscire dall'impasse. Chissà che ne pensa Al Otaiba. Sarebbe interessante saperlo.

(Corriere della Sera, 19 settembre 2020)


Inizia il secondo lockdown in Israele: blindato il Capodanno ebraico

Reintrodotte tutte le misure di emergenza per il contenimento della pandemia. Regole severe per Rosh haShanà: preghiere all'aperto o nelle sinagoghe divise per compartimenti. Mai a più di un chilometro da casa.

di Fiammetta Martegani

«L'anno prossimo ci metteremo seduti su questi balconi per osservare gli uccelli erranti», recita, per ironia della sorte, uno dei canti tipici di Rosh haShanà, il Capodanno ebraica. Ad aprile i terrazzi israeliani si erano uniti per cantare insieme Ma Nishtana, l'inno di Pesach, la Pasqua. Era il primo lockdown. Adesso siamo da capo: il secondo blocco è entrato in vigore alle 14.00 di ieri, alla vigilia del nuovo anno (cominciato al tramonto), e potrebbe eventualmente essere prolungato fino al 10 ottobre, cioè per tutta la durata delle festività -Yom Kippur, settimana prossima, e Sukkot, a inizio ottobre - a seconda di come andranno i contagi. Nelle ultime settimane avevano superato i 5.000 al giorno, e proprio a causa delle feste, quando ci si ritrova con la famiglia e gli amici o si va in sinagoga a pregare, si temeva un incremento ulteriore. Per questo il governo ha ritenuto indispensabile introdurre nuove restrizioni.
   Durante il discorso per gli auguri di buon anno, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ribadito che potrebbero essere necessarie misure ancora più drastiche, onde evitare che gli ospedali rischino il collasso. Attualmente sono più di 46.000 i casi attivi, e circa 600 i ricoverati in condizioni gravi. Dall'inizio della pandemia sono stati registrati oltre 179.000 contagi e 1.196 decessi. Come sempre, la percentuale più alta di casi è rilevata tra gli ultraortodossi. Molti, in questi giorni, hanno protestato con veemenza contro un blocco che impedisce loro di celebrare una delle cerimonie più importanti dell'ebraismo. I fedeli potranno comunque seguire le preghiere all'aperto oppure nei templi, compartimentati con l'utilizzo di teli di plastica E saranno controllati dalla polizia affinché venga rispettato un numero ridotto di presenze. Anche per questo le strade sono presidiate da più di 7.000 tra agenti e soldati. Per tutti, vale la regola di restare vicino a casa: ci si può allontanare fino a un massimo di un chilometro, e solo per acquistare beni di prima necessità. Nel frattempo, stanno tornando in Israele migliaia di ebrei chassidici che erano rimasti bloccati al confine con l'Ucraina.Volevano recarsi in pellegrinaggio, come ogni anno, a Uman, dove si trova la tomba del rabbino Nachman di Breslov, uno dei luoghi di culto più importanti per questa comunità. Interrotta per il Covid la tratta aerea che normalmente collega Israele con l'Ucraina, hanno cercato di raggiungere il Paese via terra, ma le autorità di Kiev non hanno permesso loro di entrare a causa delle restrizioni.

(Avvenire, 19 settembre 2020)


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Israele si barrica per altre tre settimane. Capodanno e festività senza le sinagoghe

Ogni giorno cinquemila casi: annullate le celebrazioni, prima volta nella storia

di Chiara Clausi

BEIRUT - Un capodanno poco gioioso in Israele, il primo trascorso in lockdown in tutta la sua storia. Ieri sera, un'ora prima del tramonto, è cominciato lo Rosh Hashanah, il capodanno ebraico che dà il via al mese di festività autunnali, e ha fatto entrare lo Stato ebraico nell'anno 5781. Seguirà lo Yom Kippur, il giorno della penitenza, e poi il Sukkot, la suggestiva festa delle «capanne». Nonostante l'ostinata resistenza dei religiosi ultra-ortodossi, le feste saranno al chiuso delle case, e le sinagoghe resteranno sbarrate, come neppure è stato durante le guerre contro gli Stati arabi. Ma le misure di emergenza erano inevitabili dopo l'impennata di contagi. Ieri sono stati 5.238. Le chiusure generalizzate resteranno in vigore almeno tre settimane.
   Le infezioni di ieri hanno anche portato a 577 i malati gravi e, di questi, 153 in rianimazione: un picco rispetto al giorno precedente. Netanyahu ha ammonito che se le restrizioni imposte non verranno rispettate e le infezioni non diminuiranno «non ci sarà altra strada» che prolungare il lockdown. Unica modifica introdotta dall'esecutivo alle regole è stata quella che ha visto aumentare da 500 metri a un chilometro il raggio entro il quale gli israeliani possono allontanarsi da casa. Il coronavirus si è infatti diffuso in ogni fascia della popolazione e in tutto il Paese. Sembra che ora ogni israeliano conosca qualcuno che ha contratto il Covid-19 e lo scetticismo e la sospettosità sono aumentati.
   Molti sono critici nei confronti della gestione da parte del governo della emergenza. Le linee guida sono complicate, spesso contraddittorie e in continua evoluzione. Uno dei motivi della gravità della seconda ondata che da inizio agosto ha fatto oltre 700 vittime e portato il totale a quasi 1.200. I casi sono ormai oltre 170mila, al ritmo di 5mila al giorno. Lo Stato ebraico 9,2 milioni di abitanti, ha un bilancio più pesante rispetto alla Cisgiordania, 225 decessi per 3 milioni di abitanti, o a Gaza, 13 vittime per 2 milioni di persone. Il premier Benjamin Netanyahu è tornato dal viaggio trionfale a Washington in un Paese di nuovo in allarme rosso e dove si sta acuendo la tensione tra gli ultra-ortodossi, gli haredim, e la popolazione laica. Per mesi, tutti gli esperti hanno spiegato che la principale fonte di infezione è nei raduni affollati al chiuso e che cantare e parlare ad alta voce in quegli spazi aumentano considerevolmente i rischi.
   Ora, con questo secondo lockdown, per la prima volta in un Paese dall'inizio della pandemia, un gran numero di restrizioni si applica alle attività meno rischiose all'aperto; mentre le limitazioni alle attività nelle sinagoghe sono relativamente lievi e molti haredim non nascondono la loro intenzione di ignorarle. Nei giorni scorsi il ministro ultra-ortodosso dell'Edilizia Yakov Litzman si è dimesso proprio perché contrario al lockdown. Israele attraverserà un capodanno con il cuore pesante e molte incognite.

(il Giornale, 19 settembre 2020)


Libano - Il governo Adib non decolla e resta ostaggio di Hezbollah

I morti per l'esplosione al porto salgono a 200

Mustafa Adib
Il governo del premier Mustafa Adib sembra morto ancor prima di nascere. Il primo ministro aveva preso l'impegno di formare l'esecutivo in tempi brevi, ma sono già passati quattro giorni in più dalla scadenza e il Libano resta un naufrago alla deriva, immerso nella sua disperazione fatta di proteste sociali e mancanza di servizi primari. A sorvegliare a vista Beirut è la Francia, tanto che ieri il presidente Macron ha sollecitato di nuovo l'omologo Aoun a darsi da fare: in ballo c'è un tesoretto che Parigi ha ancora destinato alle riforme dei Paese dei cedri, ormai ostaggio della peggiore crisi economica e politica degli ultimi 30 anni. Proprio durante l'ultima visita di Macron nella capitale libanese, l'1 settembre, i leader dei vari partiti e lo stesso Aoun avevano assicurato che in due settimane il governo avrebbe preso forma. Ma questo non è accaduto e ora alcuni giornali libanesi - fra cui il Daily Star - ipotizzano che il premier incaricato possa farsi da parte. Il suo nome era stato annunciato come quello della svolta, un tecnico capace di farsi largo fra le invidie e le gelosie della società libanese, ma così non sembra. Innanzi tutto, c'è sempre l'ombra di Hezbollah, il movimento armato sciita che è espressione dell'Iran, e che aspira a controllare alcuni dicasteri di prima importanza, fra cui le finanze, da cui passa la gestione degli aiuti umanitari dopo l'esplosione del 4 agosto nel porto di Beirut, e dei negoziati col Fondo monetario internazionale che dovrebbe concedere una somma adeguata per uscire dalla crisi economica.
   A proposito della deflagrazione che ha raso al suolo una parte consistente del porto, salgono a 1931 le vittime ufficiali, anche se, calcolando i dispersi, le autorità libanesi indicano un numero complessivo a 200. Tornando al premier Adib, tutta la sua esperienza di diplomatico sembra infrangersi sullo scoglio di chi comanda davvero in Libano. Ambasciatore in Germania dal 2013, Adib aveva ottenuto 90 voti su 119 ricevendo l'appoggio dei principali blocchi politici del Paese, tre settimane dopo che il governo di Diab si era dimesso in blocco sull'onda delle proteste popolari seguite all'esplosione. Ma le buone intenzioni sembrano rimaste tali e la sua dichiarazione subito dopo aver accettato l'incarico - "Il compito che ho accettato si basa sul fatto che tutte le forze politiche sono consapevoli della necessità di formare un governo in tempi record, e di iniziare ad attuare le riforme, partendo da un accordo con il Fondo monetario internazionale" - suona come una nota stonata.

(il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2020)


Esplosivo e armi, i depositi di Hezbollah nei porti Ue

Allarme degli Usa a poco più di un mese dall'esplosione di Beirut: a rischio anche l'Europa

di Chiara Clausi

BEIRUT - Depositi di armi e di nitrato di ammonio in Europa, da utilizzare per attacchi ordinati dall'Iran. È l'accusa formulata dagli Stati Uniti per voce del coordinatore dell'antiterrorismo del Dipartimento di Stato, Nathan Sales, contro Hezbollah. Washington ha chiesto che i Paesi europei adottino una linea più dura nei confronti del movimento islamico sciita libanese. La notizia arriva a sei settimane dall'esplosione del 4 agosto nel porto di Beirut, causata proprio da nitrato di ammonio che ha provocato 193 morti e 7 mila feriti. «La presenza di Hezbollah in Europa» ha sostenuto Sales, «è radicata dal 2012. Dalle nostre informazioni l'organizzazione paramilitare libanese ha diversi depositi di nitrato di ammonio in tutta Europa, lo ha trasportato nascondendolo in kit di pronto soccorso».
   Sales ha poi continuato, in videoconferenza all'American Jewish Committee: «Importanti depositi di nitrato di ammonio sono stati scoperti o distrutti in Francia, Grecia e Italia. Abbiamo motivo di credere che questa attività sia ancora in corso. Nel 2018, si sospettava ancora la presenza di depositi di nitrato di ammonio in tutta Europa, forse in Grecia, Italia e Spagna». Gli Stati Uniti nel frattempo hanno chiesto un'indagine completa, aperta, trasparente sull'esplosione di Beirut. «Speriamo di vederne presto i risultati» ha commentato Sales.
   L'Unione europea considera soltanto il braccio armato di Hezbollah una organizzazione terroristica, ma non il partito politico. La Gran Bretagna e la Germania considera terroristico l'intero gruppo. E gli Stati Uniti fanno pressione perché anche gli altri Stati europei facciano lo stesso. «Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e attuale per gli Stati Uniti oggi. Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e presente per l'Europa» ha precisato Sales. Per questo Washington ha imposto sanzioni a un funzionario di Hezbollah e a due società con sede in Libano accusate di essere collegate al gruppo sostenuto e foraggiato dall'Iran.
   Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato di aver inserito nella lista nera Arch Consulting e Meamar Construction, due società con sede in Libano che hanno aiutato a nascondere i trasferimenti di denaro sui conti del gruppo, contribuendo ad arricchire la leadership di Hezbollah. Anche Sultan Khalifah Asad, un alto funzionario del Consiglio esecutivo di Hezbollah, è stato colpito dalle sanzioni. «Attraverso lo sfruttamento dell'economia libanese da parte di Hezbollah e la manipolazione di funzionari libanesi corrotti, le società associate all'organizzazione terroristica ottengono contratti governativi», ha affermato il segretario al Tesoro Steven Mnuchin. L'azione statunitense congela tutti i beni americani di coloro che sono stati inseriti nella lista nera e chi si impegnerà in transazioni con questi soggetti rischierà di essere colpito da sanzioni secondarie.

(il Giornale, 19 settembre 2020)


E un ragazzo di 26 anni tenta di far volare di nuovo El Al

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Eli Rozenberg ha 26 anni, è immigrato in Israele da New York cinque anni fa, fino a pochi mesi fa passava le giornate — e soprattutto le notti —piegato sui sacri testi Da studente di una yeshiva, le scuole religiose a Gerusalemme, l'invito a diventare il proprietario della El Al gli sarebbe arrivato da un rabbino: «Compra e non fare domande», avrebbe intimato Pinchas Abuhatzeira a lui e al padre. I 150 milioni di dollari (quasi 130 milioni di euro) necessari a prendere il controllo dell'orgoglio israeliano nei cieli — orgoglio malconcio, non vola da marzo, i conti sono disastrati — li ha messi Kenny Rozenberg, che si è arricchito negli Stati Uniti con le case di cura e di riposo. Ha affidato al figlio l'operazione perché solo un cittadino israeliano può essere l'azionista di maggioranza della società.
   L'El Al ha dovuto lasciare a casa senza stipendio il 90 per cento dei dipendenti ed entro la fine di settembre deve rimborsare ai viaggiatori israeliani 80 milioni di dollari in biglietti cancellati, oltre a 190 milioni di debito verso turisti stranieri. Nel consiglio di amministrazione Rozenberg si è portato Jason Greenblatt, l'ex inviato di Donald Trump per il Medio Oriente, che ha un rapporto stretto con il premier Netanyahu. Il governo garantisce un prestito da 250 milioni di dollari per il salvataggio e ha anche acquistato le azioni della compagnia rimaste sul mercato dopo l'offerta di mercoledì. Così lo Stato rientra nell'El Al, che aveva scelto di privatizzare 15 anni fa: adesso gli analisti riconoscono il buco causato nella casse dalla pandemia di Covid-19, ma accusano anche la gestione di Tamar Mozes-Borovich, che proviene da due delle famiglie più ricche in Israele e ha cercato di fermare la scalata dello studente. Eli Rozenberg ha promesso ai piloti una partecipazione azionaria, anche perché vuole tomare a volare al più presto: il primo cargo dovrebbe decollare entro la fine del mese e le tratte per passeggeri ripartire a ottobre.

(Corriere della Sera, 19 settembre 2020)


Capodanno ebraico 2020: come si festeggia

Il Capodanno ebraico è una festività molto importante nella tradizione ebraica, e la sua data varia ogni anno, infatti per il 2020 si festeggia il 19 settembre. Ma quali sono gli usi e le tradizioni legate all'importante evento? Tutte le curiosità e la storia sul Rosh haShana.

 Capodanno ebraico 2020
Il calendario ebraico è definito come calendario lunisolare. Calcola, perciò, i giorni e i mesi in modo diverso rispetto al calendario gregoriano. Proprio per questo il Capodanno Ebraico cade in giorni e periodi diversi rispetto a quello "occidentale"
Il Capodanno ebraico, meglio noto come Rosh haShana, è uno dei tre capodanno previsti nel calendario ebraico.
Nella Torah vi si fa riferimento definendolo "il giorno del suono dello Shofar" . La letteratura rabbinica e la liturgia descrivono Rosh haShana come il "Giorno del giudizio" ed il "Giorno del ricordo".
Questo è la più importante delle tre festività, proprio perché da questo viene effettuato il calcolo degli anni e delle festività, come l'Anno Sabbatico ed il Giubileo.
In genere, la festività cade intorno ai mesi di settembre e ottobre, ovvero il primo giorno del mese di Tishrì. Una volta conclusi i festeggiamenti, iniziano i 10 giorni di penitenza nel quale i fedeli chiedono perdono a Dio per i peccati commessi durante l'anno.
I 10 giorni terminano con lo Yom Kippur, il giorno che segna l'espiazione finale dei peccati.

 Date del Capodanno
  Quello che si festeggia quest'anno è il capodanno 5781. Il Rosh haShanah cade 162 giorni dopo il primo dei giorni di Pesach.
Nel calendario gregoriano non può cadere prima del 5 settembre. Inoltre, a causa della differenza tra il calendario ebraico e quello gregoriano, dal 2089 di quest'ultimo, Rosh haShana non potrà più cadere prima del 6 settembre.
Per il 2020, il Rosh haShana cadrà il 18 settembre e finirà il 20 settembre. Infatti, la festa dura due giorni.

 La tradizione
  Secondo la tradizione, i festeggiamenti del Rosh haShana sono caratterizzati dal suono della shofar, il piccolo corno tipico degli usi ebraici. In alcune comunità viene suonato tutte le mattine del mese di Elul, l'ultimo prima del nuovo anno. Il significato di questa usanza è quello di risvegliare il popolo ebraico dal torpore e ricordargli che sta per avvicinarsi il giorno in cui verrà giudicato con Yom Kippur. Nei giorni precedenti, vengono recitate le selichot, o preghiere penitenziali.
A seconda della tradizione delle varie correnti, la recitazione delle selichot inizia in momenti diversi, dai 30 ai 10 giorni prima della festività di Rosh haShana. Queste composizioni poetiche sono molto importanti e alcune di queste, chiamate piutim, sono inserite all'interno della normale liturgia. Nel pomeriggio che precede l'inizio della festività si usa fare il tashlikh, un lancio di oggetti su uno specchio d'acqua per liberarsi di ogni residuo di peccato.
La cena della prima sera di Rosh haShana è detta Ser di Rosh haShanà. Durante la cena, assieme alla recitazione di piccole formule di preghiera, si usa consumare sia qualcosa di dolce, come mela intinta nel miele, sia cibi che diano l'idea di molteplicità, come il melograno, per augurarsi un anno dolce e prospero.
Tra i vari piatti che si servono durante questa cena non può mancare qualche parte di animale che faccia parte della testa, a simboleggiare il capo dell'anno. Solitamente viene portata in tavola anche una forma di pane, la challa, tonda, a simboleggiare la circolarità dell'anno.
Nel pasto della seconda sera, col secondo Seder come il primo, vengono servite più varietà possibili di frutta, perché vengano incluse nella benedizione di shehecheyanu. Si tratta della benedizione che si recita la prima volta che si assaggia qualcosa nell'anno.

(Viaggiamo, 18 settembre 2020)


Il Capodanno ebraico e la speranza di serenità

di Ruth Dureghello*

Questa sera gli ebrei si ritroveranno a celebrare l'inizio di un nuovo anno ebraico. Un rito che si ripete da 5781 anni. Seppur con le limitazioni che oggi le norme ci impongono, a causa della pandemia che stiamo vivendo, il popolo ebraico si radunerà nelle case e nelle sinagoghe per celebrare il passaggio dalla fine di un anno terribile a un anno che auspichiamo sarà dolce e prospero.
   Dobbiamo avere la consapevolezza che le nostre preghiere e l'impegno a migliorare i nostri comportamenti sono gli strumenti che possono incidere sugli accadimenti nel mondo. Un tema attuale, quello delle buone pratiche, soprattutto in un periodo in cui assistiamo al preoccupante aumento di contagi, non solo in Italia ma anche in Israele dove si è ripiombati nel lockdown.
   Fede e scienza non sono in contrapposizione: mentre aspettiamo che gli scienziati facciano il loro lavoro per lo sviluppo di un vaccino, noi preghiamo, così come insegnano i nostri maestri, affinché questo anno finisca con le sue maledizioni e inizi con le sue benedizioni. Curiosamente, sono diversi gli spunti e gli insegnamenti che possono derivare dal rapporto tra le festività ebraiche e il periodo che stiamo vivendo. In primo luogo, il Capodanno ebraico si trova nel mezzo di un periodo di quaranta giorni di pentimento e crescita che porta fino allo Yom Kippur, il giorno dell'Espiazione in cui gli ebrei digiunano. Una vera quarantena che serve a riflettere sul rapporto con Dio e con il prossimo. Quaranta giorni in cui invece di isolarci, recuperiamo le relazioni umane, imparando a chiedere perdono ai nostri vicini per gli errori commessi nell'anno che sta per concludersi. Spetta a noi meritarci il mondo in cui viviamo e possiamo farlo solo se ci sentiamo responsabili nei confronti del Creato e del Creatore. In questo senso, i quaranta giorni ricordano il periodo di attesa di Mosè per ricevere le seconde tavole della legge, dopo che le prime erano state rotte a causa del peccato di idolatria commesso dal popolo. Una seconda opportunità in cui impariamo quanto è grande la misericordia di D-o nel perdonare, purché sia sempre presente in noi la forza di volontà di crescere e di cambiare affinché gli errori del passato non si ripetano.

* Presidente della Comunità ebraica di Roma

(Corriere della Sera - Roma, 18 settembre 2020)


Rosh ha Shanà 5781: con il capodanno ebraico parte il nuovo anno ricco di sfide per Israele

di Ugo Volli

 
Questo Sabato e Domenica il popolo ebraico celebrerà Rosh Ha Shanà, il capodanno (o meglio la prima delle quattro date che la tradizione ebraica considera iniziali, con il capodanno degli alberi, quello della liberazione del popolo all'inizio del "primo dei mesi" in cui cade Pesach, la Pasqua ebraica; e quello delle primizie a Shavuot o Pentecoste). Ma il capodanno per antonomasia è proprio questo autunnale, in cui finisce la lunga estate della Terra di Israele, parte un nuovo ciclo agricolo ed è insomma il momento per trarre le somme di quel che è successo e prepararsi al meglio per il futuro. Tant'è vero che in Rosh Ha Shanà coesiste un aspetto festivo (con una cena tradizionale in cui si mangiano cibi di buon augurio e si esprimono speranze per l'anno nuovo), e un aspetto penitenziale, per cui questa data segna l'inizio dei dieci "giorni temibili" in cui ciascun ebreo e il popolo collettivamente sono chiamati a meditare sugli errori fatti, a chiedere scusa per le offese, a volgersi verso il pentimento e il ritorno al giusto comportamento.
  Questo è dunque anche il momento di fare un bilancio politico e di cercare di formulare qualche previsione e qualche augurio per il futuro, almeno per quanto riguarda Israele. Gli eventi principali dell'ultimo anno si possono sintetizzare in quattro filoni. Il primo da citare riguarda purtroppo la pandemia scoppiata a Febbraio. Israele ha retto molto bene alla prima ondata del contagio, anche grazie alla tempestiva chiusura dei viaggi e alla vigilanza elettronica dei contagi. Purtroppo poi l'epidemia ha avuto una seconda fase di forte diffusione, ancora in corso. Complessivamente Israele ha subito quattro volte più contagi in rapporto alla popolazione dell'Italia (17 per mille contro i 4 dell'Italia), ma sei volte meno morti. Questi numeri sono un segno della forte efficienza della sanità israeliana, ma le preoccupazioni dei responsabili sono abbastanza gravi da aver imposto una nuova chiusura del paese nelle prossime settimane. E' difficile fare previsioni su questo tema, possiamo solo sperare che l'epidemia sia sconfitta il primo possibile.
  Il secondo tema è quello della politica interna. Dopo il fallimento delle elezioni di Aprile e Settembre dell'anno scorso vi è stato un terzo scrutinio il 2 Marzo 2020, che come i precedenti non ha dato alla sinistra, anche alleata con i partiti antisionisti arabi, la maggioranza per sostituire Netanyahu come progettava. Quando gli israeliani pensavano di essere avviati a un quarto turno elettorale, il leader degli anti-Bibi Gantz ha rotto il suo partito per costituire il 17 Maggio un governo di unità nazionale con Netanyahu, accettando di essere il suo successore designato a partire da ottobre 2021. La conflittualità in questa maggioranza però non è affatto cessata, perché, al di là dell'ostilità più o meno sepolta per Netanyahu, i Bianco-Blu hanno posizioni effettivamente assai diverse dal Likud. Non è detto che alla turnazione dei primi ministri si arrivi mai, anche perché i sondaggi dicono che nel paese si è consolidata ulteriormente una maggioranza di destra che sarebbe tradita da un governo guidato da Gantz e Ashkenazi. E' dunque prevedibile una nuova crisi politica a Dicembre, quando bisognerà approvare il bilancio e Netanyahu avrà l'ultima occasione per arrivare a nuove elezioni sotto la sua guida.
  Un sotto-filone importante della politica interna è quello della tensione fra apparato giudiziario e poliziesco e sistema parlamentare. Sullo sfondo di tutta la politica israeliana c'è il processo contro Netanyahu, la cui fase dibattimentale inizia a Gennaio. Ma ci sono state alcune sentenze e ordinanze della Corte Suprema in diretta contraddizione con le scelte parlamentari e le decisioni governative, che hanno suscitato forti polemiche, per esempio quella che in mezzo alle trattative per l'unità nazionale ha costretto il presidente della Knesset a mettere in elezione la sua carica prima della formazione del governo, stabilendo un vantaggio per la sinistra, contro una prassi che dura dalla fondazione dello stato; o le altre in materia di diritti di proprietà e di edificazione in Giudea e Samaria, materia incandescente. Insomma, è emerso con grande chiarezza che la Corte Suprema conduce una sua politica, senza sentirsi legata alla sovranità popolare o alle leggi emesse dalla Knesset (che anzi, senza nessuna base legislativa, da un paio di decenni si è arrogata il potere di annullare). E sono emersi alcuni casi molto preoccupanti di collusione fra funzionari di polizia e dell'apparato giudiziario per manipolare le inchieste, comprese quelle delicatissime su Netanyahu. E' probabile che su questo punto Netanyahu possa decidersi a proporre alla Knesset una legge costituzionale che assicurino la prevalenza delle decisioni del parlamento, per esempio la possibilità di restaurare disposizioni annullate dalla Corte Suprema e che su questo si apra uno scontro con Gantz. Ed è proprio su questo punto che potrebbe cadere il governo.
  Finiti i temi preoccupanti, bisogna rendere conto delle grandi vittorie di Israele sul fronte militare e diplomatico della politica estera. Si può partire dall'ultimo grande successo diplomatico: la normalizzazione delle relazioni diplomatiche, economiche e culturali con gli Emirati Arabi e il Bahrein è stata appena sancita ufficialmente ed è probabile che nuovi stati presto si uniranno. E' una rottura importante del secolare assedio arabo a Israele, la cui importanza non può essere sottovalutata. Salta il presupposto esplicito della politica seguita da tutto il mondo, incluso Israele, nell'ultimo mezzo secolo, e cioè che la pace si può fare solo a partire dai "palestinesi" e col loro accordo. Trump e Netanyahu hanno mostrato che c'è un'altra strada, basata sull'accettazione di Israele nella regione da parte dei suoi vicini, che può portare vantaggi economici e militari a tutti e in prospettiva preparare la pace anche coi palestinesi. Si spiazza così il potere di veto ostinatamente opposto dalla dirigenza dell'Autorità Palestinese a ogni trattativa di pace; ma anche la posizione di ciò che in Israele si chiamava "campo della pace" e che oggi si rivela per un gruppo conservatore alleato alla sinistra internazionale. L'assenza di proteste di piazza nei paesi arabi ha dimostrato che la mossa era matura e che è possibile che cada l'odio seminato da decenni. Per ottenere questo risultato Israele ha dovuto mettere fra parentesi la dichiarazione di sovranità su parti della Giudea e Samaria, di cui si era molto discusso. Anche questa mossa era largamente simbolica, non avrebbe cambiato nulla sul terreno; prima o poi andrà compiuta, ma probabilmente dopo che si saranno consolidati nei fatti i rapporti appena emersi. Non possiamo attenderla per l'anno che si apre.
  Per ora si può prevedere (e sperare) che si sviluppi il cambiamento del panorama geopolitico della regione, con uno schieramento diplomatico, economico e politico che raggruppi i paesi arabi sunniti e Israele, una sorta di Nato del Medio Oriente che contrasti i paesi revanscisti e sovversivi, cioè l'Iran e la Turchia e i loro satelliti. Questo schieramento già si vede in azione nel Mediterraneo Orientale in appoggio alla Grecia minacciata da Erdogan e sostanzialmente abbandonata dall'Unione Europea (ancora una volta schierata dalla parte sbagliata o assente). Tutto ciò deriva, oltre che dalla tela diplomatica pazientemente tessuta da Netanyahu e dal coraggio innovativo di Trump, dalla forza militare israeliana, che da anni ormai conduce un guerra di attrito contro l'espansione iraniana in Siria e non si fa intimidire né dalla presenza russa, né dalle minacce terroristiche di Hamas, Hezbollah, Fatah. Senza i bombardamenti delle basi iraniane da parte dell'aviazione israeliana sfidando le armi dell'Iran e quelle russe della Siria, senza l'eliminazione americana di Soleimani appoggiata da Israele, senza Iron Dome, non vi sarebbe stato questo accordo che fa sperare nella pace. Sul piano interno, progressi dell'esercito israeliano hanno minimizzato l'arma terrorista dei tunnel e dei missili, è pensabile che stiano cominciando a bloccare la minaccia dei palloni esplosivi di Hamas, insomma lasciano ai terroristi spazio solo per attacchi individuali, orribili, sanguinosi, ma privi di impatto strategico. Anche su questi piano è prevedibile che i progressi continueranno.
  Riassumendo, la posizione israeliana nell'anno che si conclude è migliorata negli ambiti fondamentali della diplomazia e della difesa. L'economia è stata ferita dal Covid, ma meno del resto del mondo; è ragionevole pensare che essa possa rapidamente riprendersi alla fine dell'epidemia. I rischi vengono da una politica interna molto nevrotizzata, personalizzata, spesso molto miope; e dalle invasioni di campo nella politica del sistema giudiziario e della polizia. Sono anomalie israeliane che in parte derivano da meriti del sistema, dalla sua capacità di rappresentare le tante minoranze di cui è fatto il paese e dal suo amore per la giustizia e la moralità. La speranza (questa volta solo una speranza, non una previsione) è che anche questa tensione interna si allenti, che torni la fisiologia della divisione dei poteri e della collaborazione fra le forze politiche sui temi fondamentali.
  Noi dalla diaspora non possiamo che ribadire per l'anno prossimo il nostro totale appoggio a Israele, che non è solo amore incondizionato, ma anche stima ragionata per una politica che ha permesso al piccolo stato ebraico di superare tanti ostacoli e difficoltà. L'augurio è dunque di un anno 5781 buono e dolce per i nostri lettori, per gli ebrei italiani e di tutto il mondo, per Israele e per tutta l'umanità.
  Shanà Tovà!

(Progetto Dreyfus, 17 settembre 2020)


"Hezbollah ha depositi di armi ed esplosivo in Europa"

Gli Stati Uniti hanno accusato il movimento islamico sciita libanese di Hezbollah di avere depositi di armi e di nitrato di ammonio in Europa, da utilizzare per attacchi ordinati dall'Iran. A puntare il dito è stato il coordinatore dell'antiterrorismo del Dipartimento di stato, Nathan Sales, che ha chiesto che i Paesi europei adottino una linea più dura nei confronti di Hezbollah. L'accusa arriva a sei settimane dall'esplosione lo scorso 4 agosto nel porto di Beirut, causata proprio da nitrato di ammonio.
   Parlando dei magazzini con le armi di Hezbollah, Sales ha detto in videoconferenza all'American Jewish Committee che ''posso dire che tali depositi sono stati spostati in Belgio, Francia, Grecia, Italia, Spagna e Svizzera. Posso anche rivelare che importanti depositi di nitrato di ammonio sono stati scoperti o distrutti in Francia, Grecia e Italia". Dicendo di avere ''motivo di credere che queste attività siano ancora in corso'', Sales si è chiesto ''perché Hezbollah dovrebbe accumulare nitrato di ammonio sul suolo europeo? La risposta è chiara. Può condurre importanti attacchi terroristici ogni volta che i suoi padroni a Teheran lo ritengono necessario".
   L'Unione europea ha inserito il braccio armato di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, ma non il partito politico. La Gran Bretagna e la Germania ha invece considerato terroristici l'intero gruppo e gli Stati Uniti premono perché anche gli altri stati europei facciano lo stesso. ''Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e attuale per gli Stati Uniti oggi. Hezbollah rappresenta un pericolo evidente e presente per l'Europa'' ha affermato Sales.
   ''La conclusione è che l'approccio che l'Unione europea sta adottando dal 2013 non ha funzionato. La designazione limitata della cosiddetta ala militare di Hezbollah non ha dissuaso il gruppo dal prepararsi per attacchi terroristici in tutto il continente. Hezbollah continua a vedere l'Europa come una piattaforma vitale per le sue attività operative, logistiche e di raccolta fondi. E continuerà a farlo fino a quando l'Europa non intraprenderà un'azione decisiva, come hanno fatto il Regno Unito e la Germania", ha aggiunto Sales.

(Adnkronos, 18 settembre 2020)


Trump sta facendo la storia, anche se i soliti noti provano a far finta di nulla

di Roberto Penna

Recentemente, e in un lasso di tempo piuttosto breve, Donald Trump ha, per così dire, portato a casa una serie di risultati che non è esagerato considerare d'importanza cruciale e storica. Ebbene sì, proprio colui che è sembrato, all'inizio della propria carriera politica, come un personaggio troppo controverso ed eccentrico per guidare gli Stati Uniti, "unfit" come si dice oltreoceano, oltreché incapace di sconfiggere una veterana del sistema del calibro di Hillary Clinton, ha raggiunto determinati traguardi di portata storica, ritenuti quasi impossibili da conquistare solo fino a qualche tempo fa, che non solo rimarranno nella memoria collettiva, ma andranno a modificare le dinamiche politiche internazionali. In un mondo ancora concentrato perlopiù sulla pandemia, il presidente americano ha dimostrato che si può continuare a vivere, che è possibile fare altro e farlo bene, anche in presenza del Covid-19.
  Il così battezzato Accordo di Abramo, siglato alla Casa Bianca da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, e spinto naturalmente da Trump, non solo permetterà l'avvio di nuove relazioni e di una vera e propria distensione fra lo Stato ebraico e le due monarchie del Golfo, bensì ridisegnerà numerosi equilibri dell'area mediorientale. Altri attori della regione potrebbero aggiungersi ad Abu Dhabi e Manama con il medesimo obiettivo di una svolta profonda nei rapporti con Israele, e non è da escludere neppure un avvicinamento da parte dell'Arabia Saudita, che già non si è rivelata ostile all'Accordo di Abramo del 15 settembre scorso. Le monarchie sunnite del Golfo, già sostanzialmente vicine, pur con qualche contraddizione, all'Occidente, in particolare agli Usa per diverse ragioni, supererebbero così un importante ostacolo che le separa dalle democrazie occidentali, ovvero la questione dell'esistenza e del diritto alla sicurezza dello Stato d'Israele. L'Accordo di Abramo isola tutti coloro i quali non aspirano di fatto ad una vera pace in Medio Oriente, dall'Iran degli ayatollah ai terroristi di Hezbollah e Hamas, e passando per l'ambiguo ed inconcludente Abu Mazen, al quale tutto sommato conviene lo status quo per ragioni anche economiche, vista la corruzione e considerato il facile arricchimento da parte delle dirigenze dell'Anp e del partito Al-Fatah.
  Da Teheran a Ramallah e Gaza è tutto un coro che all'unisono accusa di tradimento quegli arabi che intendono normalizzare le relazioni con Israele, e non mancheranno nuove minacce ed episodi di violenza, ma il clima generato dall'accordo voluto da Trump indebolisce chi persegue la distruzione dello Stato ebraico. Ma l'attivismo trumpiano delle ultime settimane ha prodotto effetti incoraggianti anche nel Vecchio Continente. Quasi contemporaneamente all'annuncio della svolta da parte degli Emirati e del Bahrain, Serbia e Kosovo hanno reso pubblica la decisione di aprire le loro rispettive ambasciate a Gerusalemme, e con questo di dare inizio ad un rapporto diverso e migliore con Israele.
  Anche in questo caso non si tratta di un cambiamento banale e trascurabile perché la Serbia, com'è noto, si è sempre trovata soprattutto nell'orbita russa ed è un bene che Belgrado accetti anche qualche suggerimento proveniente da Washington, mentre il Kosovo, com'è altrettanto risaputo, è un Paese a maggioranza musulmana. L'informazione, in particolare quella in mano ai detrattori del presidente americano, attivi in America come in Europa, non ha volutamente attribuito un valore storico a questi importanti cambiamenti promossi da Donald Trump, perché l'ordine di scuderia è quello di sminuire o criticare a priori questo leader politicamente scorretto, ma, nonostante la faziosità liberal e radical-chic, l'America trumpiana ha già fatto e sta facendo la Storia. La candidatura per il Premio Nobel per la pace, proposta per il tycoon, appare sempre meno come una boutade estemporanea.

(L'Opinione, 18 settembre 2020)


Riportare a casa una delle tribù perdute?

Intervista con il rabbino Michael Freund, fondatore di Shavei Israel

di Tzvi Fishman

 
Il ministro israeliano Aliyah e assorbimento Penina Tamanu-Shata ha detto al rabbino Michael Freund in un recente incontro che sta andando avanti con i piani per il trasferimento in Israele di altri 722 membri della comunità Bnei Menashe [Figli di Manasse, ndr] dell'India nord-orientale.
  Negli ultimi due decenni, Freund - fondatore e presidente di Shavei Israel - è stato in prima linea negli sforzi per aiutare Bnei Menashe, che afferma di discendere da una delle dieci tribù perdute, a tornare nel popolo ebraico. In effetti, grazie soprattutto agli sforzi di Shavei Israel, più di 4.000 Bnei Menashe vivono ora in Israele.
  Freund, cresciuto a New York, si è laureato alla Princeton University, ha conseguito un MBA presso la Columbia University ed è coautore di due libri.

- The Jewish Press: Chi sono esattamente i Bnei Menashe?
  Rabbi Freund: sono discendenti della tribù di Menashe, una delle dieci tribù perdute che furono esiliate dalla Terra di Israele più di 27 secoli fa dall'impero assiro. Attualmente risiedono nella parte nord-orientale dell'India, principalmente nello stato di Mizoram e Manipur, lungo i confini con la Birmania e il Bangladesh.
  Nonostante abbiano vagato in esilio per così tanto tempo, non hanno mai dimenticato chi erano o da dove venivano e non hanno mai dimenticato dove un giorno speravano di tornare: Sion. Incredibilmente, nonostante siano stati tagliati fuori dal resto del popolo di Israele per generazioni, si sono aggrappati alla loro identità, hanno continuato a praticare il giudaismo e non hanno mai perso la fede che alla fine si sarebbero riuniti con il resto del popolo ebraico.

- Quanti Bnei Menashe ci sono e che tipo di giudaismo praticano?
  Finora, abbiamo avuto la fortuna di portare più di 4.000 Bnei Menashe in aliya in Israele, e ce ne sono ancora altri 6.500 in India che aspettano di venire. I Bnei Menashe sono distribuiti in più di 50 comunità in tutto il nord-est dell'India, ognuna con la propria sinagoga.
  Per secoli hanno praticato una forma biblica di giudaismo, osservando il sabato, osservando il kosher, celebrando le feste e seguendo le leggi della purezza familiare. Stavano ancora eseguendo i riti sacrificali anche quando furono scoperti dagli inglesi oltre un secolo fa.
  È interessante notare che non erano a conoscenza né di Purim né di Chanukah, che commemorano entrambi eventi avvenuti secoli dopo che i loro antenati furono esiliati. Negli anni '80, quando entrarono in contatto per la prima volta con il defunto rabbino Eliyahu Avichail di Gerusalemme, abbracciarono l'ebraismo ortodosso contemporaneo, che praticano fedelmente fino ad oggi.
  Ho visitato le loro comunità numerose volte in India ed è davvero uno spettacolo straordinario. Tutti gli uomini indossano yarmulke e molti hanno tzitzit penzoloni da sotto le camicie, mentre le donne si vestono con modestia.

- Come sei stato coinvolto per la prima volta con i Bnei Menashe?
  Ho fatto l'aliya da New York nel 1995, e quando Benjamin Netanyahu è stato eletto premier nel 1996, mi ha nominato suo vice direttore delle comunicazioni nell'ufficio del primo ministro sotto David Bar-Illan, di benedetta memoria.
  Un giorno, nella primavera del 1997, arrivò una piccola busta arancione indirizzata al primo ministro dai leader della comunità di Bnei Menashe. Ha attraversato la mia scrivania, quindi l'ho aperto e ho letto la lettera. È stato un appello molto emotivo, chiedere che ai Bnei Menashe fosse permesso di tornare in Israele dopo 2.700 anni.
  Ad essere onesti, all'inizio ho pensato che fosse pazzesco. Ma c'era qualcosa di molto sincero e sentito nella lettera, quindi ho scelto di rispondere. Poi, una volta che ho incontrato i membri della comunità, ho appreso di più sulla loro storia, tradizioni e costumi, mi sono convinto - per quanto fantasioso possa sembrare - che in realtà sono i nostri fratelli perduti e che dovevamo aiutarli.
  Così ho iniziato a combattere attraverso le barriere della burocrazia e ho organizzato grandi gruppi di Bnei Menashe per fare l'aliya .

- Tutti li accettano come ebrei?
  Mi sono avvicinato al rabbino capo sefardita di Israele Shlomo Amar nel 2004 e gli ho chiesto di studiare la questione. Dopo averlo fatto, in una riunione nel marzo 2005, il rabbino Amar ha dichiarato che i Bnei Menashe sono " Zera Yisrael " - o discendenti di Israele come gruppo collettivo - ma questo perché sono stati tagliati fuori dal resto del popolo di Israele per così a lungo, ogni individuo dovrebbe sottoporsi a un processo di conversione formale, che è esattamente la procedura che viene seguita.
  Tutti i 4.000 Bnei Menashe in Israele sono stati convertiti dal Capo Rabbinato di Israele, quindi sono ebrei quanto te o me.

- È affascinante che un gruppo tagliato fuori per così tanto tempo stia ora tornando in Israele.
  Apri uno dei libri dei Profeti e vedrai che parlano tutti del raduno degli esiliati, inclusi Giuda e Israele, ovvero le Dieci Tribù Perdute di Israele. Isaia dice: "E in quel giorno sarà suonato un grande shofar e verranno quelli che si erano smarriti nel paese di Assiria" (27:13). Questo è un riferimento esplicito alle tribù che furono esiliate dagli Assiri.
  E in Geremia (3:18), Hashem promette: "In quei giorni, la casa di Giuda camminerà con la casa d'Israele e si uniranno da una terra a nord alla Terra che ho dato ai tuoi padri come eredità. "
  Il ritorno dei Bnei Menashe, discendenti della casa d'Israele, è l'inizio dell'adempimento di queste promesse millenarie. Quindi, credo che sia un significativo passo avanti nel processo di redenzione.

- Come descriveresti il loro assorbimento nella società israeliana?
  Grazie a Do, nel complesso, è stato un successo. La maggior parte degli immigrati Bnei Menashe ha almeno un diploma di scuola superiore, alcuni hanno diplomi conseguiti in college e università indiane e molti parlano inglese. Hanno tutti uno smartphone in India, quindi hanno familiarità con i modi occidentali e seguono da vicino le notizie in Israele.
  Tutti i giovani uomini della comunità servono nell'IDF, con molti volontari per le unità di combattimento d'élite. Un numero crescente di giovani nella comunità si è laureato in college israeliani con diplomi che vanno dal lavoro sociale all'ingegneria, e alcuni giovani hanno ricevuto l'ordinazione rabbinica.
  Ovviamente, come nuovi immigrati, devono affrontare molte sfide, ma i Bnei Menashe sono sionisti impegnati ed ebrei osservanti e sono determinati a farlo funzionare.

- Quando il prossimo gruppo di Bnei Menashe farà l' aliya ?
  Nel mio recente incontro con Aliyah e il ministro dell'Assorbimento Penina Tamanu-Shata, ha chiarito che dovremmo iniziare i preparativi per portare il primo gruppo di 250 immigrati sul totale di 722 che sono stati approvati, a novembre. Il resto arriverà nel 2021. Ma dipende, ovviamente, dai finanziamenti.
  Secondo l'accordo con il governo, Shavei Israel deve coprire vari costi, come il biglietto aereo e il trasporto del Bnei Menashe dall'India a Israele, che ammontano a $ 1.000 per immigrato. Quindi dobbiamo raccogliere i fondi necessari.

- Oltre ai Bnei Menashe, lavori anche con altre comunità "perdute". Puoi parlarci un po' di loro?
  Ho fondato Shavei Israel con l'obiettivo di raggiungere le tribù perdute e le comunità ebraiche nascoste e aiutarle a riconnettersi con le loro radici. Oltre al Bnei Menashe dell'India, abbiamo lavorato per molti anni con gli ebrei cinesi di Kaifeng, in Cina; i Bnei Anousim (o "Marranos") di Spagna, Portogallo e Sud America; gli ebrei nascosti della Polonia dall'Olocausto; gli ebrei Subbotnik della Russia, così come altri.
  Lo facciamo perché sento che abbiamo la responsabilità storica, morale e religiosa di aiutare coloro che un tempo facevano parte del nostro popolo a tornare. Come sappiamo, il popolo ebraico è stato perseguitato e torturato, massacrato ed espulso più di qualsiasi altra nazione sulla terra negli ultimi 2000 anni. Lungo la strada, molte persone sono state strappate via da noi, ma in qualche modo sono riuscite a preservare un senso di coscienza o connessione ebraica.
  E negli ultimi decenni, un numero crescente di discendenti ebrei ha bussato alla nostra porta collettiva, cercando di riconnettersi con il popolo ebraico. Dopo tutto quello che hanno sopportato i loro antenati - sia per mano dell'Inquisizione, dei comunisti o dei nazisti - come possiamo voltare loro le spalle?

(Shavei Israel Italia, 14 settembre 2020)


"Vendo il club agli Emirati". Israele, la favola del calcio che sfida gli ultrà anti arabi

La svolta del presidente del Beitar Gerusalemme. La tifoseria è stata spesso accusata di razzismo

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — L'accordo Israele-Emirati sta dando frutti anche sui campi di calcio: Hapoel Beersheva, I campioni in carica, ha già invitato per un'amichevole l'omologa emiratina. Ma è l'interessamento di un uomo d'affari degli Eau a investire nel Beitar Yerushalaim, la storica squadra di Gerusalemme, ad aver spiazzato un po' tutti. «Apprezzo la tifoseria del Beitar, così devota al club. Presto capiranno che la gente degli Emirati cerca pace e coesistenza», ha detto alla tv Kanll l'imprenditore, per ora rimasto anonimo. Eccentrica o coraggiosa, è una scelta decisamente non convenzionale, considerato che Beitar è la squadra che ancora non ha rotto il tabù di reclutare un giocatore arabo, nonostante a Gerusalemme rappresentino il 38% della popolazione. E fa i conti con una tifoseria radicale di ultrà razzisti, che ha scelto di chiamarsi La Familia, «perché tutto deve restare in casa». Non mancano le squadre in cui giocano insieme musulmani, cristiani ed ebrei, ma lui ha scelto proprio i nero-gialli.
   «La proposta rispecchia valori per cui ho deciso di acquistare il Beitar», dice a Repubblica Moshè Hogeg. L'imprenditore 39enne, che si è costruito da solo con una serie di investimenti azzeccati nel bitcoin e in start-up di successo, nel 2018 ha acquistato il club non perché fosse la squadra del cuore - lui che viene dalla periferia di Beersheva - ma per fare "una rivoluzione sociale". Un repulisti. Ha stampato il motto "Amerai il tuo prossimo come te stesso" sulle maglie dei giocatori, «la frase più importante dell'ebraismo. A Beitar c'è chi l'ha infangata». Ha iniziato a citare in giudizio i tifosi estremisti "per diffamazione del club". Con Hogeg, Beitar è anche tornata a giocare alla presenza delle tifoserie avversarie nelle partite contro la squadra a maggioranza araba Bnei Sakhnin, dopo due anni di punizione per via degli scontri violenti tra i rispettivi ultrà.
   Hogeg partirà a breve per gli Eau per concludere la trattativa, sponsorizzata da Sulaiman al Fahim, mediatore nell'acquisto del Manchester City da parte degli Emirati. La Familia ha sbottato: «Stanno svendendo i nostri principi per soldi. Vogliamo una squadra forte, ma non a ogni costo». Hogeg non si lascia impressionare. «Abbiamo condotto un sondaggio tra il nostro pubblico e il 92% è a favore. È fantastico. Se andrà in porto, dovremo confrontarci con quell'8%, ma non ho dubbi che vinceremo: sono dei miseri razzisti oscurantisti, che utilizzano slogan irrazionali come "Beitar pura per sempre"». E lo slogan che esibirono quando nel 2013 la proprietà precedente ingaggiò due giocatori ceceni, musulmani, e qualcuno arrivò pure a dare alle fiamme la sala dei trofei del club. «Quella però fu una scelta forzata. Erano pessimi giocatori. Io non sceglierò mai un calciatore in base alla religione, ma solo perché è il migliore. Per questo ho portato Ali Mohamed, che è stata una scelta vincente». II centrocampista nigeriano ha forse rappresentato anche un banco di prova per Hogeg. Padre musulmano, madre cristiana. I tipi di La Familia hanno stabilito che è cristiano per placare gli spiriti, ma c'era tra loro chi chiedeva che cambiasse il nome: «Un Mohamed da noi non ci sarà». «Investire nel calcio, e in particolare nel Beitar, la squadra di Gerusalemme, città santa per noi e per loro, con la tifoseria più numerosa, è il segnale più netto che c'è la volontà di una pace vera, dal basso. Ed è un passo critico nell'educazione delle nuove generazioni di tifosi».

(la Repubblica, 18 settembre 2020)


Questo è un trattato vero

L'uccisione trumpesca del generale Suleimani doveva far scoppiare la guerra, invece ha portato a una pace non cinica fra Israele e i paesi arabi (e i sauditi sono in attesa).

di Daniele Raineri

L'Amministrazione Trump ha tentato di raggiungere quattro accordi di pace. Uno con il dittatore della Corea del nord, Kim Jong Un, ma la stretta di mano storica non ha portato a nulla e il programma atomico coreano è ancora lì, pericoloso come all'inizio del mandato e forse di più. Un secondo accordo è con i talebani in Afghanistan e sembra molto più a portata di mano, ma più che un accordo di pace storico è un "noi ci ritiriamo, adesso vedetevela fra di voi". Le premesse non sono buone, dieci giorni fa una bomba è esplosa mentre passava il convoglio del vice presidente Amrullah Saleh, ex capo dell'intelligence, un duro della fazione anti talebani, e ha ucciso dieci persone. I talebani hanno negato ogni responsabilità, ma se anche fosse vero vuol dire che è stata una delle fazioni altrettanto violente che loro non controllano. Gli americani firmano e lasciano il paese, non è un accordo di pace. Il terzo tentativo riguarda l'Iran, il presidente americano Donald Trump aveva promesso un accordo sul nucleare con gli iraniani "molto meglio di quello fatto da Obama", che era "il peggior accordo della storia", ma non ci è riuscito, per quanto tenesse molto a essere protagonista di una scena che sarebbe senz'altro stata storica: la stretta di mano tra un presidente americano e un leader dell'Iran. Il quarto tentativo di pace riguardava paesi arabi e Israele e in questo caso il successo è stato pieno e innegabile, anche se le due parti si erano già avvicinate da tempo senza darlo troppo a vedere.
 
  Quando due giorni fa Trump ha firmato i cosiddetti Accordi di Abramo assieme ai ministri degli Esteri degli Emirati arabi uniti e del Bahrein e al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in molti hanno storto il naso, non sono accordi di pace come quelli fra Israele e l'Egitto prima e Israele e la Giordania poi, è una sceneggiata perché si tratta di paesi che non erano in guerra con Gerusalemme. E' vero che non c'era una guerra e che anzi c'era una cooperazione discreta, ma questi nuovi accordi sono molto più profondi e incredibilmente più impegnativi di quelli firmati da Israele in precedenza. Al momento della firma sul prato della Casa Bianca il testo era ancora segreto, ma qualche ora dopo è stato distribuito e si è capito che ha l'ambizione di creare una visione totalmente nuova del medio oriente - e ci sono anche aspetti controversi, come vedremo più avanti. Orde Kittrie, un professore americano che ha lavorato per undici anni al dipartimento di Stato dove si occupava della parte legale nei negoziati nucleari, nota che il patto tra Israele e Giordania del 1994 era intitolato ''Trattato di pace tra lo Stato di Israele e il Regno hashemita di Giordania" e questo è intitolato "Trattato di pace, relazioni diplomatiche e piena normalizzazione tra gli Emirati arabi uniti e lo stato di Israele". Respinge il grande tabù che ha dato forma al medio oriente per decenni, l'odio verso la normalizzazione con Israele, fin dal titolo (e in questi giorni tatbieh, normalizzazione, è diventata una delle parole più frequenti sui siti di notizie in arabo). Secondo l'accordo i due paesi accettano di promuovere la pace "forgiando relazioni più strette tra le persone" e "coltivando programmi interpersonali ... e scambi culturali, accademici, giovani~ scientifici e di altro tipo tra i loro popoli". Inoltre "promuoveranno la cooperazione turistica tra loro come componente chiave ... per lo sviluppo di legami culturali e interpersonali più stretti", inclusi "viaggi di studio reciproci" e l'utilizzo di "budget di marketing nazionali per promuovere il turismo reciproco". Siamo arrivati all'Erasmus tra israeliani e arabi e questo dovrebbe far capire cosa sta succedendo. Non sono più accordi pratici tra vicini che non    no fare la guerra, c'è l'intento di provocare uno choc culturale senza ritorno nelle teste della regione, sia in Israele sia nei paesi arabi.
  C'è anche un aspetto interessante dal punto di vista militare. In un passaggio, Emirati arabi uniti e Israele concordano "di impedire qualsiasi attività terroristica o ostile l'uno contro l'altro sui o dai rispettivi territori, nonché negare qualsiasi supporto per tali attività all'estero o consentire tale supporto su o dai rispettivi territori". In questi anni abbiamo visto come l'Iran sia riuscito in pratica ad arrivare fin sul confine con Israele perché ha preso il controllo della Siria- il regime di Assad deve all'Iran la vittoria nella guerra civile. Oggi gli iraniani sono al confine del Golan, a pochi chilometri dalle prime case israeliane. Con la nuova intesa, Israele oggi ha a disposizione un alleato che - e qui serve guardare una mappa - è come un cuneo dentro al territorio dell'Iran. C'è soltanto l'acqua dello Stretto di mezzo. Viene da pensare che nel giro di qualche anno gli israeliani potrebbero avere una base in quella zona, detta adesso sembra una follia ma è chiaro che stiamo assistendo a una corsa senza precedenti. Alcuni dei problemi che riguardano una possibile operazione israeliana in Iran sono logistici, come la distanza e la necessità di fare rifornimento per gli aerei, e forse il territorio emiratino fornisce la soluzione. L'alleanza in chiave anti Iran è in fondo proprio il motivo principale di questo accordo.
  Tuttavia a leggere il Trattato si vede che non è un "turiamoci il naso e stiamo assieme contro la minaccia comune dell'Iran, poi si vedrà". C'è un cambio di paradigma. C'è una nuova strategia a lungo termine, spiegata con un nuovo linguaggio, dice Kittrie. Se fino a due giorni fa i paesi arabi non riconoscevano nemmeno l'esistenza dello stato di Israele, adesso c'è un primo Trattato che vuole "tracciare insieme un nuovo percorso per sbloccare il vasto potenziale dei loro paesi e della regione". E chiede di concludere il prima possibile accordi bilaterali in tutto un elenco lungo di settori che include finanza, investimenti, aviazione, innovazione, commercio, sanità, scienza, turismo, cultura, sport, energia e ambiente. C'è persino un allegato che parla di esplorazione spaziale condivisa.
  Michael Stephens, un esperto del Golfo persico che lavora al think tank britannico Rusi, due giorni fa parlava di "strategie and emotional shift". La gente dei regni del Golfo - giovane in stragrande maggioranza - in questi anni ha visto la Primavera araba, ha fatto esperienze internazionali, ha cominciato a seguire temi nuovi, non ha più lo stesso interesse di prima alla divisione manichea tra stati arabi e Israele, ai regolamenti bizantini per evitare che merci israeliane finiscano nei paesi arabi e viceversa e a tutta la finzione dello stato di guerra permanente. I dati di Netflix dicono che "Fauda", la serie non agiografica su una squadra dei reparti speciali israeliani che lavora sotto copertura nei territori palestinesi, è stata prima per spettatori in Libano, terza negli Emirati, sesta in Giordania. Lior Raz, protagonista e creatore della serie, dice che negli Emirati ha bisogno di una guardia del corpo non per protezione ma per gestire "gli arabi di tutti i paesi che mi chiedono di fare un selfie assieme".
  Il Trattato è un disastro con i palestinesi, soprattutto se ci sarà come è probabile un effetto domino e altri paesi arabi aderiranno. Stabilisce la pace e la piena normalizzazione ma non pone alcuna condizione, funziona già così a tutti gli effetti. La causa palestinese è menzionata per dire che Emirati e Israele si impegnano a "continuare i loro sforzi per raggiungere una soluzione giusta, globale, realistica e duratura al conflitto israelo-palestinese", che è proprio il minimo che ci si potesse aspettare. Il professor Kittrie nota che l'accordo non menziona il ritiro di Israele dai territori oppure la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede il ritiro e fu inclusa nell'accordo Israele-Giordania e che in pratica è diventata una formula rituale quando si parla di relazioni tra arabi e Israele. E infatti ieri il sito del movimento Bds, che ha come obiettivo il boicottaggio di Israele e dei prodotti israeliani, diceva che l'accordo equivale a "vendere i palestinesi". Per paradosso, adesso il movimento Bds sarà più forte in alcuni paesi dell'Unione europea che in alcuni paesi arabi.
  Questo tipo di effetto domino che cambia il volto della regione è stato aiutato da una delle operazioni più criticate di tutto il mandato di Trump: l'uccisione del generale iraniano Qassem Suleimani con un drone, avvenuta sulla strada dell'aeroporto di Baghdad, in Iraq, a gennaio. Molti analisti dipinsero quell'evento come la scintilla non necessaria che avrebbe fatto sprofondare l'intera regione e forse il mondo nella follia
  di una guerra (alcuni si spinsero a descrivere Suleimani come un normale diplomatico, come se fosse stato l'ambasciatore svizzero e non il comandante corsaro di tutte le operazioni di guerriglia finanziate dall'Iran in paesi terzi). Invece si trattò soltanto di un aggiustamento dei rapporti di forza tra gli Stati Uniti, che da molti anni segue una linea politica remissiva e non più aggressiva, e l'Iran che invece compie spesso attacchi al di sopra delle proprie possibilità (come quelli delle sue milizie alle basi americane in Iraq). Trump, che aborre le guerre all'estero, si chiese perché mai l'America dovesse tollerare uno stillicidio di aggressioni contro i suoi soldati quando ha la capacità di lanciare raid molto più pesanti. O forse lo convinsero i generali. Fatto sta che dimostrò di nuovo perché ha senso fare accordi con gli americani. Con la morte di Suleimani acquistò in via definitiva il favore e l'attenzione dei regni arabi del Golfo, che dell'Iran sono nemici.
  L'effetto domino è aiutato anche da un'altra decisione di Trump, ancora più controversa dell'assassinio di Qassem Suleimani. L'Amministrazione americana si è schierata a difesa del principe ereditario Mohammed bin Salman anche quando è stato chiaro che era responsabile per l'uccisione di Jamal Khashoggi, un saudita che scriveva sul Washington Post e che fu attirato, ucciso e fatto a pezzi con un seghetto dentro il consolato saudita di Istanbul. Persino i senatori repubblicani, che di solito sono molto obbedienti a Trump, uscirono sconvolti da un briefing a porte chiuse organizzato dalla Cia per parlare della responsabilità del principe saudita. Ma Trump, con la stessa noncuranza strategica che poi dimostrerà davanti al Covid-19, decise di ignorare la faccenda, "Gli ho salvato il culo", dice ai suoi, riferendosi al principe Bin Salman - secondo il libro appena uscito di Bob Woodward,
  L'accordo tra paesi arabi e Israele porta verso un nuovo medio oriente, ma è anche frutto di patti e intese tra interlocutori cinici. Prendiamo per esempio la Libia, dove gli Emirati arabi uniti hanno armato e finanziato il generale Haftar per spazzare via il governo di Tripoli, che è alleato dell'Italia. Per più di un anno l'Amministrazione Trump non ha detto quasi nulla sulla guerra civile in corso e ora si capisce che è possibile non volesse disturbare gli Emirati, perché voleva da loro un accordo storico con Israele. Torniamo al principe saudita Bin Salman, che per un poco è stato il paria del mondo. E' molto ragionevole pensare che tutta questa catena di accordi diplomatici con Israele partita con gli Emirati e il Bahrein e che andrà avanti mediata dall'America - i prossimi saranno probabilmente Oman e Sudan - sia partita soltanto grazie all'assenso dell'Arabia Saudita, che di questa catena sa di essere il pezzo principale e più importante e che quindi si tiene per ultima.

(Il Foglio, 17 settembre 2020)


In politica estera Trump è stato enormemente meglio di Obama

di Pierluigi Magnaschi

Capisco perché i giornali italiani (soprattutto quelli più grandi; quelli provinciali invece sono quasi sempre di un equilibrio esemplare ) siano cosi faziosi nel favorire l'una o l'altra parte dello schieramento politico nazionale. Per gli interessi delle loro proprietà o dei loro direttori, che sono intimamente legati, non è infatti indifferente che, in Italia, vinca uno schieramento politico o un altro. Non capisco invece come mai questi grandi media (che dovrebbero fare dell'oggettività la loro divisa e il loro pregio, se non altro sul piano del marketing) siano quasi tutti cosi pregiudizialmente faziosi nel seguire in genere la politica estera e, nel caso specifico, la competizione politica che è in atto negli Stati Uniti per arrivare alla designazione del futuro inquilino della Casa Bianca.
   Non capisco questo atteggiamento perché solo in Italia i giornalisti, specie quelli gallonati o che si ritengono tali, pensano che i loro articoli sulla nostra stampa (o le loro comparsate nei vari tg) possano influenzare anche per solo lo 0,0001 per mille, il voto a stelle e strisce. Per dare un esempio di questo incomprensibile atteggiamento basta prendere il quotidiano italiano più diffuso che, nella sua edizione di ieri, ha presentato il risultato dell'intesa dell'amministrazione Usa con due paesi musulmani del Medio oriente, come se esso fosse una risibile bazzecola, anche se si tratta, come spiegheremo più avanti, di un accordo assolutamente storico, indipendentemente da chi è riuscito a realizzarlo.
   Ebbene questo grande quotidiano ha presentato in prima pagina l'intesa in Medio oriente con un titolo a una colonna, seguito da un inizio di pezzo di 5 righe. Lo stesso spazio (titolo a una colonna e inizio pezzo da 5 righe) lo ha dedicato alla vicenda del dissidente avvelenato in Russia, Alexei Navalny, sul quale il giornale sta parlando da un mese tutti i giorni, e per di più, in questo specifico caso, si tratta anche di una notizia che non esiste («respiro da solo»), visto che questa notizia era già stata data una settimana fa dai sanitari tedeschi che lo hanno in cura.
   Di fronte a questa enormità della sottovalutazione, i colleghi del giornalone potrebbero essere scusati dalla fretta con la quale tutti i quotidiani sono confezionati. Ma non è questo il caso, visto che l'articolo relativo all'accordo storico è stato relegato, con quindi una doppia decisione, addirittura a pag. 15. Pertanto in questa gerarchia non c'è stato un errore, sempre possibile e sempre comprensibile, ma è stata una scelta deliberata.
   Vediamo, a questo punto, di che cosa si tratta. Gli stati musulmani degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, a seguito di un'azione efficace (efficace nel senso che ha raggiunto l'obiettivo che si poneva) svolta dall'amministrazione Trump, hanno deciso di firmare un accordo di pace e di collaborazione con lo stato di Israele. Il fronte compatto dei paesi musulmani pregiudizialmente avversari di Israele, da loro considerato il nemico assoluto, si sta quindi sgretolando, nel senso che si è ripreso il processo che si era interrotto tanto tempo fa, da quando cioè, nel 1979, l'Egitto riprese le sue relazioni con Tel Aviv e da quando poi, nel 1994, fece questa scelta anche il Regno di Giordania. Ma queste due intese (quanto mai utili, intendiamoci bene) venivano dopo una guerra contro Israele che era stata persa in modo rovinoso da entrambi ì paesi che l'avevano iniziata con la certezza di annientare Israele e che invece, dopo solo pochi giorni, l'avevano conclusa in maniera indignitosa, con la loro armate annientate e la loro faccia nella sabbia.
   Con gli Emirati e il Bahrein invece non c'è stata, prima di questo accordo, una sconfitta militare ma una decisione consapevole, basata sulla reciproca convenienza. Da una parte infatti c'è Israele (un piccolo paese ma anche l'unica democrazia di quest'area, incuneata fra paesi nemici, sostanzialmente dittatoriali e armati fino ai denti). Dall'altra ci sono gli Emirati e il Bahrein. Lo stato di Israele è in guerra da quando è stato creato, cioè ininterrottamente da 72 anni, e adesso, come ha anche detto a Washington il premier Netanyahu, interpretando il desiderio di quasi tutti i suoi concittadini, è «stanco di stare in guerra»,
   Emirati e Bahrein invece hanno capito che il loro sviluppo è basato sugli scambi e la collaborazione con Israele. Essi infatti dispongono di risorse economiche immense che provengono dall'estrazione del petrolio ma hanno anche la necessità di diversificare lo loro economia in vista di una stagione molto più ecologica a livello mondiale che tende quindi a ridimensionare il petrolio come risorsa energetica. Essi già puntano sul turismo che, al netto del Covid, stava sviluppandosi molto bene. Ma puntano anche sullo sviluppo tecnologico soprattutto nei settori elettronici e medicali. In questi settori la collaborazione con Israele diventa la leva più efficace per entrare nel futuro.
   Molto interessanti, per tutti questi tre paesi, sono anche le prospettive turistiche. Per gli israeliani (che distano solo tre ore di volo) Dubai, con le sue magiche notti da favola, diventa adesso una meta interessante e soprattutto possibile (visto che oggi non la è). E Israele, da parte sua, si aprirà al turismo religioso spalancando le porte della Spianata delle Moschee ai fedeli musulmani dei paesi che sono interessati al pellegrinaggio in questo che è considerato il terzo luogo per loro più sacro.
   Trump, nel presentare questo accordo veramente storico, ha detto (forse facendo lo sbruffone) che altri «quattro o cinque paesi mediorientali sono pronti a seguire questi passi». Anche se quest'ultima notizia non fosse vera, è vero però che essa è molto probabile, nel senso che si inserisce in un trend che l'accordo con gli Emirati e il Bahrein ha portato alla luce del sole. Ovviamente, questo trend, che è già robustamente delineato, incontrerà fortissime resistenze, soprattutto quelle pilotate e finanziate dall'Iran. Basti pensare che mentre questo accordo stava per essere firmato negli Usa, dalla Striscia di Gaza sono stati sparati tre razzi (come dice la stampa occidentale sempre minimizzante anche se sarebbe più esatto parlare di missili) sulla città di Ashold, nel Sud di Israele, che hanno colpito sei cittadini. Se poi si pensa che il Libano, a Nord di Israele, è controllato da Hezbollah, un'organizzazione ufficialmente terroristica composta da fanatici che usano le armi contro Israele da tre generazioni e non sanno fare altro, si capisce che il processo di pace in Medio oriente è ancora lungo. Ma è anche vero che con questi ultimi accordi si è superato uno snodo molto significativo.

(ItaliaOggi, 17 settembre 2020)


La strana alleanza tra Israele e Arabia saudita contro l'Iran

Dopo l'accordo Israele-Emirati-Bahrein

di Mario Giro

 
A fini interni il colpo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump è grosso: la foto con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e i due ministri degli esteri di Emirati e Bahrein serve per liberarsi dalle strette del movimento Black Lives Matter e dare un'immagine da leader globale durante la campagna. Per il premier israeliano, a pochi giorni dal secondo lockdown nazionale causa Covid, si tratta di un trionfo: aver snobbato a suo tempo Barack Obama alla fine lo ha favorito. La comunità ebraica americana non potrà che tenerne conto nelle urne. Ma il vero terremoto geopolitico è in Medio Oriente: con questa mossa l'Arabia Saudita avanza le sue pedine per divenire il dominus assoluto tra i paesi arabi. Non c'era più scelta, Siria e Iraq sono distrutti o fuori gioco; l'Egitto in preda a divisioni interne e alle prese con l'interminabile guerra di Libia; Algeria in crisi e i regni moderati Marocco o Giordania sostanzialmente allineati. Israele non ha più nemici se non l'Iran sciita perché dunque proseguire con la linea perdente dei palestinesi? E' la domanda che si sono fatti a Riad e che ha provocato la svolta. I paesi del Golfo sono gli unici paesi arabi efficienti e dinamici, economicamente stabili, senza particolari crisi socio-economiche interne. Il solo neo è l'alleanza del Qatar con la Turchia e ora il presidente turco Recep Tayyp Erdogan dovrà decidere cosa fare. Intanto si è fatta la fila per normalizzare i rapporti con Israele: Oman, Sudan Marocco ecc. Stufa di andar dietro alle velleitarie rimostranze dell'autorità palestinese incapace di scegliere la pace, l'Arabia manda avanti i suoi alleati per andare a vedere le carte. D'altronde tutti sono preoccupati da Teheran: meglio allinearsi.
   Ovviamente il resto del mondo vuole sapere se si tratta di una svolta reale o soltanto di arguzia orientale. Gli Emirati ci hanno da tempo abituato a fuochi d'artificio geopolitici originali e spericolati. Il piccolo Bahrein rappresenta invece una cartina di tornasole: se ha accettato la normalizzazione con Israele significa che c'è stato il via libera di Riad. Quest'ultima prende tempo. Da un punto di vista formale il re Abdallah, predecessore di Mohammed Ben Salman (MBS), aveva già nel 2002 definito la dottrina: due Stati con Gerusalemme est capitale palestinese. Su tale faglia è fissata la linea ufficiale di Riad.
   L'Arabia vuole capire se Washington sarà capace di imporre tale svolta ad Israele. Le normalizzazioni con Emirati e Bahrein mostrano che in cambio si può ottenere la fine della guerra con gli Stati arabi. A impedire la pace non esistono più i blocchi ideologici del passato. Da Israele le monarchie del Golfo desiderano anche altro, per loro più vitale: un impegno a difenderle dall'Iran, ìl comune nemico. Invece di protestare inutilmente contro l'arma nucleare "ebraica" (mai ammessa ufficialmente), a Riad hanno capito che è meglio mettersi sotto il suo ombrello. In questo senso anche da Washington pretende qualcosa per esempio i caccia F35 fino ad ora negati. Il punto non è se tutti gli Stati del Golfo riconosceranno Israele, ma quando. Per ora Netanyahu in cambio ha offerto l'ennesimo congelamento degli insediamenti e soprattutto della paventata annessione. Sembra poco ma è molto: da cosa dipenderà in futuro la sicurezza di Israele? Se l'alleanza con i paesi del Golfo sarà confermata, per la prima volta Gerusalemme potrebbe avere addirittura dei potenziali alleati in zona

 Le incognite per MBS
  Gli esperti definiscono tale situazione come "esercizio di equilibrismo": il corridoio aereo che unisce ora Israele con gli Emirati passa sopra i cieli d'Arabia, roba mai vista prima. Non vi è dubbio che alla protettrice di Mecca e Medina fa anche gola la possibilità di accedere liberamente a Gerusalemme, terzo luogo santo dell'Islam. Tuttavia anche la più ardita geopolitica non basta e Riad rimane prudente: la composizione sociologica del paese è molto diversa da quella dei micro-stati attorno. Non è detto che la popolazione saudita, molto conservatrice e segnata dal wahabismo, accetti la svolta con favore. Pesano moltissimo i decenni passati a odiare l"'entità sionista". il gioco spericolato di MBS può essere ostacolato da uno dei suoi innumerevoli cugini che lui stesso ha fatto mettere agli arresti domiciliare. La famiglia reale è spaccata non è difficile immaginare che qualcuno possa riprendere la vecchia bandiera anti-sionista e far scattare i vecchi riflessi arabi. Di conseguenza l'Arabia Saudita non può mostrarsi alla sequela di Stati più piccoli: deve ottenere da Israele qualcos'altro, di convincente e definitivo. Intanto ha bisogno di un sostegno di intelligence e tecnologia nella guerra in Yemen che si trascina da tempo senza vittoria.
   Intanto MBS ha dichiarato che Neom, la futurista città ecologica del suo programma Vision 2030, sarà costruita davanti a Eilat un altro modo per tendere una mano agli ex nemici. Cosa farà ora Ankara? Erdogan ha appena ricevuto Ismail Haniyeh, il leader di Hamas che si poi è recato a Beirut da Hassan Nasrallah, il capo degli Hezbollah filo-iraniani Ciò che resta del fronte del rifiuto ha ricominciato a parlarsi. Ma l'avvicinamento tra Iran e Turchia è il modo migliore per spingere Riad e Gerusalemme ad intendersi.

(Domani, 17 settembre 2020)


La guerra dopo la pace: razzi di Hamas su Israele, Tel Aviv bombarda Gaza

Due feriti per il lancio di missili. Il premier Netanyahu: «Colpiremo chi ci fa del male»

Il leader dell'Anp
Abu Mazen: «Niente sicurezza senza uno Stato palestinese»
Gli accordi di Abramo
Il leader della Jihad islamica contro l'intesa: «Troppa arroganza»

di Chiara Clausi

Due razzi sono stati lanciati contro due città israeliane meridionali proprio mentre il primo ministro Benjamin Netanyahu e i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein erano sul prato della Casa Bianca, per firmare storici accordi di normalizzazione dei rapporti tra i tre Stati con la mediazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Le sirene hanno suonato nella città portuale di Ashdod e nella città costiera di Ashkelon, a nord di Gaza. L'offensiva di Hamas è poi continuata ieri all'alba con altri tredici ordigni lanciati sempre verso il Sud di Israele. Due persone sono state ferite dai detriti di vetro ad Ashdod. Un uomo di 62 anni è stato moderatamente ferito al torso e un ventottenne agli arti. Sono stati portati in un vicino ospedale. Altre quattro persone sono sotto shock
   È un nuovo ciclo di violenze tra i militanti palestinesi di Gaza e Israele. L'esercito israeliano ha precisato che otto dei tredici razzi sono stati intercettati con successo dal sistema di difesa missilistica Iron Dome.L'esercito israeliano ha poi risposto con raid su obiettivi di Hamas nel nord e nel centro di Gaza in risposta. Gli aerei ed elicotteri da combattimento di Tel Aviv hanno colpito «una fabbrica di armi ed esplosivi», «una postazione di lancio di razzi» e una «infrastruttura sotterranea» del movimento islamista. Tuttavia, sembra che Israele abbia scelto di utilizzare una risposta relativamente moderata per evitare una escalation e stabilizzare la situazione a Gaza.
   Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato chiaro e ha affermato senza giri di parole: «Colpiremo tutti coloro che alzano una mano per farci del male e tenderemo la mano a tutti coloro che ci porgono la mano della pace». Mentre il presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen ha avvertito che «la pace, la sicurezza e la stabilità non saranno raggiunte nella regione fino alla fine dell'occupazione israeliana e la creazione di uno Stato palestinese».
   Anche l'esercito israeliano si è espresso con durezza. «L'organizzazione terroristica di Hamas è responsabile di ciò che accade a Gaza e di ciò che emana dal suo territorio, e sopporterà le conseguenze degli atti di terrorismo contro i cittadini israeliani». Così come l'ala militare di Hamas, le Brigate Ezzedin al-Qassam, ha ribadito che «Israele pagherà un prezzo molto alto se continuerà con la sua aggressione contro il popolo palestinese». In una dichiarazione congiunta, le fazioni palestinesi nella Striscia di Gaza hanno affermato che «non permetteranno a Israele di continuare la sua aggressione», aggiungendo che sono «preparate per qualsiasi scenario».
   Mustafa Barghouti, leader della Palestine National Initiative e membro del Consiglio centrale dell'Olp, invece ha sostenuto che l'evento a Washington era una mera esibizione utile solo a Trump e Netanyahu. Secondo Barghouti, la presenza alla cerimonia della firma dei ministri degli esteri degli Emirati e del Bahrein piuttosto che dei leader dei Paesi è stata la prova che anche gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein ritengono che era tutto soltanto uno spettacolo.
   Circa tre ore dopo gli attacchi, il capo dell'ufficio politico della Jihad islamica, Mohammad al-Hindi, ha detto che il lancio del razzo era un messaggio da Gaza contro l'arroganza dimostrata da Stati Uniti e Israele alla cerimonia della firma degli accordi di Abramo, e che i palestinesi sapranno come sconfiggere quell'arroganza. Hamas invece ha affermato che «gli accordi tra Israele e Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti non valgono l'inchiostro versato o la carta su cui sono stati firmati. Il popolo palestinese è determinato a continuare la lotta per ottenere tutti i suoi diritti e tratterà questi accordi come se non esistessero».

(il Giornale, 17 settembre 2020)


Cellulari calati da drone per carcerati palestinesi: cinque arresti

Con un drone tentavano di far calare su una prigione israeliana cellulari a detenuti palestinesi. Questa è la motivazione per l'arresto di tre presunti miliziani della Jihad islamista palestinese, accusati assieme a due esponenti del gruppo già detenuti, come riferiscono questa mattina media israeliani.
"Tre membri della Jihad islamica sono stati arrestati dopo aver tentato di introdurre telefoni cellulari nella prigione di Gilboa (Nord dello Stato ebraico) usando un drone", ha riferito il sito News israeliano Ynet.
Il drone e altre attrezzature sono state sequestrate durante l'arresto. Anche due prigionieri coinvolti sono stati arrestati, secondo quanto riportato dal sito web.

(askanews, 17 settembre 2020)



The Loft. La nuova aula autogestita dagli studenti del liceo ebraico 'Renzo Levi'

di Giorgia Calò

 
The Loft
Con l'inizio del nuovo anno scolastico, gli studenti del Liceo Ebraico Renzo Levi introducono un'importante novità: l'inaugurazione di un'aula ricreativa interamente gestita dagli studenti che prende il nome di "The Loft".
Uno spazio di svago, ma anche di incontro, riflessione e confronto; un centro ricreativo, ma soprattutto un centro di comunicazione: è proprio sui divani di The Loft che avverrà il restyling del Renzo Levi Journal, lo storico organo di comunicazione dei ragazzi del Liceo, e tanti altri progetti che la Rappresentante d'Istituto Martina Pavoncello ha deciso di raccontarci.

- Avete recentemente inaugurato questa nuova aula autogestita del Liceo Renzo Levi. Di cosa si tratta?
  "L'iniziativa è nata circa due anni fa, quando Educating for Impact, un'associazione che collabora con la scuola e che ha realizzato diverse iniziative con altre scuole d'Europa, ha proposto il progetto che ovviamente la Comunità ha immediatamente abbracciato e Alfie Tesciuba, il responsabile Change Manager si è subito interfacciato con la rappresentanza degli studenti, che ha collaborato affinché fosse possibile avere questa aula autogestita.
Nonostante alcuni intralci a livello burocratico, siamo riusciti ad avere quest'aula, che inizialmente avrebbe dovuto essere inaugurata a Marzo, ma a causa del Covid è stato tutto rimandato.
Questo sarà uno spazio autogestito dagli studenti: già una settimana prima dell'inizio della scuola noi stessi siamo andati a sistemare i mobili (ovviamente ci siamo interfacciati con un architetto): lì dentro si respira quella che da un po' di tempo a questa parte è l'aria del Renzo Levi, un clima di unione e desiderio di realizzare grandi cose per questa scuola".

- Come mai avete sentito il bisogno di realizzare quest'aula?
  
"Non parliamo tanto di bisogno, quanto di necessità: la dirigenza scolastica ci ha sempre permesso grandissima libertà creativa nella realizzazione delle cose, ma ad un certo punto abbiamo sentito la necessità di avere uno spazio tutto nostro dove dare sfogo ai nostri spunti creativi; The Loft, il nome che abbiamo scelto sarà il fulcro di tutta la comunicazione del Renzo Levi: le riunioni del giornalino scolastico si terranno lì, stiamo inoltre dando vita al progetto di un podcast, in cui inviteremo ospiti e tratteremo di argomenti di ogni genere e taglio".

- Il progetto del Renzo Levi Journal esiste da tanti anni, ma voi lo avete sviluppato, se non addirittura migliorato. Come avete fatto crescere questo giornale? E come utilizzerete questo spazio per la Comunicazione?
  "Il Renzo Levi Journal è un progetto che esiste da tanti anni: crediamo sia davvero un prodotto di qualità, apprezzato anche da componenti esterni alla scuola, ma ci siamo posti un dubbio: il nome canalizza il giornale ad una nicchia specifica, perché Renzo Levi Journal significa "Il Giornale del Renzo Levi", e vorremmo invece dargli un nuovo nome, "The Skool", che possa abbracciare tematiche per tutti; il prodotto sarà sempre lo stesso: di qualità, realizzato con dedizione, però crediamo che la nostra scuola sia pronta per allargarsi a nuovi orizzonti e a nuovi progetti di livello più ampio, che vengano indirizzati a persone non necessariamente della scuola.
Per quanto riguarda la collaborazione tra The Loft e il giornalino, questo punto creativo accoglierà le riunioni. Ogni anno quando all'assemblea d'istituto vengono eletti i nuovi rappresentanti, viene sempre presentato un piano: quest'anno per via del Covid abbiamo dovuto anche reinventare il concetto di rappresentanza: non sarà più possibile fare le storiche assemblee d'istituto, quindi vogliamo comunque dar voce ai nostri bisogni, di parlare con ospiti e argomentare tematiche, perciò speriamo che il nuovo podcast sia il mezzo giusto per farlo. Apriremo un canale Youtube, inviteremo persone a parlare. Continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto ma in maniera alternativa e creativa".

- Cosa vi aspettate da tutti questi cambiamenti e dai nuovi progetti? Quali sono gli obbiettivi che vorreste raggiungere?
  
"La quarantena ci ha messo a dura prova: abbiamo subito sentito un'urgenza di fare nuove cose. Il cambiamento è solo il risultato di un lavoro che va avanti da anni e speriamo possa fare quel salto di qualità e permettere tante cose nuove, belle e positive per la scuola. L'Aula è stata dedicata alla memoria di Roberto Di Veroli z.l. , una persona che si è sempre dedicata agli altri: oggi Rav Carucci ha ripreso un suo vecchio post su Facebook, che Roberto aveva scritto in vista delle Elezioni UCEI, in cui ribadiva l'importanza delle scuole ebraiche; quindi quello che ci auguriamo è che questo posto possa prendere il concetto di bene che lui aveva sempre fatto per le persone e che possa essere un centro che accolga le persone come faceva Roberto quando era in vita".

(Shalom, 17 settembre 2020)



Israele, Emirati, Bahrein: nuovo asse in Medio Oriente

La firma alla Casa Bianca. Salgono a quattro i Paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con lo Stato israeliano.

Anche Trump lo sa bene. Nel travagliato Medio Oriente avere un nemico comune da combattere insieme è la strada principe per forgiare alleanze e creare amicizie a prima vista impensabili. Gli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein rispondono anche, e forse soprattutto, a creare un asse comune, compatto e coeso, contro l'Iran e la minaccia poste dalle milizie sostenute da Teheran nella regione.
   Ieri è stato dunque il gran giorno. Tanti sorrisi. Non troppe mascherine e il circolo Trump al completo. Con una cerimonia festosa, verrebbe da dire più a uso e consumo interno, alla Casa Bianca è stato sancito quello che il presidente Donald Trump ama definire «uno storico giorno per la pace in Medio Oriente». «Siamo qui per cambiare il corso della Storia», ha dichiarato con una certa enfasi.
 
Trump consegna una chiave d'oro della Casa Bianca a Benjamin Netanyahu, come "segno di amicizia" verso il premier israeliano
   In presenza del presidente americano, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ufficializzato con i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein i due accordi che segnano la ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche e commerciali. Nello Studio Ovale Trump ha consegnato una grande chiave d'oro contenuta in una scatola di legno descrivendola come «la chiave per la Casa Bianca, per il nostro Paese». «Tu hai la chiave per aprire il cuore del popolo israeliano», ha replicato Netanyahu.
   I Paesi arabi che ora riconoscono ufficialmente Israele sono così saliti a quattro. L'ultima cerimonia di questo tipo avvenuta a Washington risale al 1994, quando, davanti all'allora presidente americano Bill Clinton, un altro primo ministro israeliano, Yitzhak Rabin, firmò una dichiarazione con il re di Giordania Hussein, che spianò la strada per uno storico accordo di pace qualche mese più tardi. Una firma che costò la vita al premier israeliano. Prima ancora, nel 1979 a Washington, a firmare un altro storico accordo di pace, davanti a un altro presidente democratico, Jimmy Carter, furono il capo di Stato egiziano, Answar Sadat (anche lui assassinato due anni dopo proprio per quella coraggiosa pace) ed il primo ministro israeliano Menachem Begin.
   A meno di due mesi dal voto per le presidenziali, ancora in difficoltà e in netto svantaggio nei sondaggi rispetto allo sfidante democratico Joe Biden, Trump sta cercando di recuperare consensi finalizzando una serie di successi diplomatici di notevole portata. Una mossa per rafforzare il consenso soprattutto tra gli influenti gruppi cristiani evangelici, vicini ad Israele.
   Nessuno mette in dubbio che un accordo di normalizzazione tra due monarchie sunnite del Golfo con Israele sia un evento molto importante. Ma quella che vuole essere venduta come una svolta storica è decisamente meno simbolica e importante di quanto accadde in passato. Giordania e soprattutto Egitto erano due nemici di Israele. Con cui Israele aveva combattuto più guerre. In quel caso si trattò di storici e duraturi accordi di pace tra due nemici, che durano ancora. Oggi non si tratta di guerra o pace. Ma di una ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche che, nella fattispecie di questi due Paesi arabi sunniti, andavano comunque avanti sotto traccia. Senza contare l'aspetto, potenzialmente importante, delle relazioni economiche e commerciali.
   Per Netanyahu quella di ieri è una piccola boccata di ossigeno nel periodo forse più difficile della sua interminabile carriera politica. Il premier più longevo di Israele (al quinto mandato, anche se stavolta in un Governo "a rotazione") continua ad essere contestato da centinaia di migliaia di israeliani per quella che è considerata una pessima gestione della pandemia di coronavirus e per il processo penale che lo vede imputato per tre casi di corruzione. Mai nella storia di Israele si erano viste proteste così diffuse, trasversali, e soprattutto così lunghe. Sono ormai 12 settimane che i manifestanti invocano le dimissioni del premier, leader del partito conservatore Likud.
   Al ritorno da Washington, alle 14 di venerdì prossimo, Israele si chiuderà in un totale lockdown nel tentativo di ridimensionare la recrudescenza dell'epidemia di Covid 19, che nell'ultima settimana ha toccato punte di quasi 5mila contagi al giorno (in un Paese con nove milioni di abitanti). Sembra quasi uno scherzo del destino; ma i due "nuovi" amici - Israele e Bahrein - sono rispettivamente anche i primi due Paesi al mondo con il più alto numero di contagi in rapporto al numero di abitanti. Le tre settimane di chiusura totale, si tratta del primo Paese al mondo a reimporla, rischiano di costare all'economia israeliana oltre cinque miliardi di dollari Cifra che si aggiunge ad una crisi economica senza precedenti, con la disoccupazione vicina al 20 per cento e l"inflazione che vola a livelli impensabili. Il lockdown si preannuncia molto difficile. Anche perché copre tutte le festività ebraiche che cominciano proprio venerdì con il Capodanno. L'accordo di normalizzazione vorrebbe andare in aiuto all'immagine di Bibi, "il premier dalle sette vite". Ma gli israeliani sono molto più preoccupati, ed in parte furenti, per la gestione della pandemia e per la crisi economica.
   Fonti vicine alle trattative sostengono che l'accordo con gli Emirati, annunciato il 13 agosto, sia stato fortemente voluto dal loro potente principe reggente Mohammed bin Zayed, alleato degli Usa e dei Sauditi (in chiave anti-iraniana). In cambio Netanyahu avrebbe sospeso il piano di annettere la Valle del Giordano ad Israele entro l'estate. In verità Emirati e Israele da tempo hanno avviato contatti sotto traccia, in funzione antiiraniana. Lo stesso dicasi per il Bahrein, la cui leadership è sunnita ma la popolazione per due terzi sciita. Inoltre entrambi I Paesi ospitano basi militari e flotte della marina americana. Se vi erano Paesi più disposti ad altri a normalizzare le relazioni con Israele, erano proprio questi due.
   Trump è fiducioso che altri Paesi arabi, a suo avviso almeno cinque, seguiranno gli Emirati e il Bahrein. Già corre voce, non ufficiale, di iniziative simili da parte di Oman, e forse di Sudan e Marocco. Ma il vero peso massimo, la cui normalizzazione dei rapporti con Israele sconvolgerebbe gli equilibri mediorientali, resta l'Arabia Saudita. Che ora non è pronta. Non ancora. Come gli altri suoi predecessori, anche Trump voleva passare alla storia come il presidente che aveva messo fine al conflitto più incancrenito degli ultimi 100 anni: quello israelo-palestinese. Il suo "accordo del secolo" è strato accolto da Israele con entusiasmo, ma rigettato dalla controparte palestinese. «Stiamo dialogando con i palestinesi, anche loro lo faranno», ha detto Trump. Dichiarazione che non convince. Non potendo fare la pace con i palestinesi, Trump ha voluto così spostare l'attenzione su altri Paesi arabi, facendo accordi con Israele. Non è tuttavia la stessa cosa.

(Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2020)


Emirati e Bahrein rivoluzione in Medioriente. «Una nuova alba di pace»

Trump esulta alla firma sull'intesa: «Presto altri cinque o sei Paesi arabi si uniranno. I leader arabi chiedono "la soluzione a due Stati». Apertura pure sugli F 35»

di Fiamma Nirenstein

 
Le quattro sigle storiche. Da sinistra il ministro degli Esteri del Barhein Khalid bin Ahmed Al Khalifa, il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu, il presidente americano Donald Trump e il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed, rotagonisti del 'patto di Abramo' alla Casa Bianca
Altri cinque o sei Paesi « presto si uniranno a questo grande slancio di pace». Saranno l'Oman? II Sudan? I loro rappresentanti erano alla cerimonia. Non si sa. Ma Trump ieri alla firma di pace è stato grandioso, ha promesso che più avanti l'Iran e finalmente anche i palestinesi capiranno che è tempo di pace e di prosperità. Vittorioso nonostante le consuete critiche, questa volta non è stato né sbruffone né bugiardo come lo vuole la lettura classica, ha invece portato a casa, poco prima delle elezioni, un risultato impensabile, la pace fra Israele e due Paesi arabi importanti come Emirati e Bahrein alla Casa Bianca. Costata uno sforzo ulteriore dopo mesi di lavorio incessante, concessioni, rinunce, voli notturni, segreti; quello di non darsi la mano in tempi di coronavirus.
   Lo slancio entusiasta dei partecipanti, senza mascherina, li ha quasi gettati gli uni nelle braccia degli altri durante l'incontro sulla porta dove li attendeva il presidente americano, poi nel corso dei colloqui preventivi e alla firma. Gli accordi sono brevi, specie quello col Bahrein, ancora da definire in molte parti, ma carichi di un futuro rivoluzionario. Trump è fiducioso persino sulla fornitura degli F-35 agli Emirati, sarebbe «una cosa facile» dice, nonostante le resistenze di Netanyahu.
   La cronista, che ha visto con lacrime di gioia anche la stretta di mano fra Rabin e Arafat sotto l'ala di Clinton (con Shimon Peres, che Rabin non voleva assolutamente portare con sé e poi dovette arrendersi, al contrario di Bibi che ha insistito per andare da solo fino in fondo, ed è stato criticato per questo) sul prato della Casa Bianca il 13 settembre '93, ricorda come le mani si strinsero ma tutto il linguaggio corporeo di Rabin, una persona intera e un patriota senza ombre, espresse la perplessità, il dubbio, persino la contrarietà verso il corpo fisico del nemico giurato del popolo ebraico, del terrorista armato. In effetti, dopo Oslo, il maggiore sforzo dei palestinesi è stato quello di negarlo tramite gli attentati.
   Qui ieri è stato provato che, pur mantenendo anche la prospettiva di una pace coi palestinesi richiamata dal ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed, il desiderio di equilibrio di pace di progresso di tanti Paesi mediorientali va molto al di là. Antonio Guterres, il segretario generale dell'Onu, ha detto che il conflitto israelo-palestinese rimane la chiave della questione mediorientale. Niente di più falso: chi oggi fuma la pace sa che i milioni di morti, dispersi, profughi, le rivoluzioni interne e le repressioni spietate, l'Isis, l'imperialismo iraniano, la politica di Erdogan, niente hanno a che fare con la vicenda palestinese. Ed è da questa maledizione che il Medioriente positivo vuole emanciparsi: non dimentica i palestinesi, ha anche ottenuto di bloccare la sovranità sui «territori» del primo piano Trump, ha spinto di nuovo a offerte e profferte di Israele e americane, ma se si guarda la sua stampa si capisce che per i palestinesi la porta si sta chiudendo, che tutte le accuse di tradimento di cospirazione rivolte ai Paesi arabi sono ritenute inaccettabili, i giornali arabi pubblicano articoli di dura critica ai palestinesi.
   Trump a fianco di Melania, prima della firma, accanto a Netanyahu, si è slanciato fino a prevedere che sia i palestinesi che perfino l'Iran alla fine accetteranno l'ingresso tramite «la porta intelligente», come l'ha chiamata. «Pace» ha ripetuto Trump con i rappresentanti degli Emirati e del Bahrein (Khalid bin Ahmed Al Khalifa) che hanno caldeggiato la soluzione «due Stati». E Netanyahu di nuovo ha parlato del «circolo della pace» e fa molto pensare che oggi questo circolo possa essere individuato a destra. Il mondo liberal o le istituzioni che ne sono dominate, come l'Onu o soprattutto come l'Ue, non sanno più festeggiare la pace, anche quando è storica. Fa male che non ci fossero rappresentanti europei alla cerimonia, solo l'Ungheria era presente. Come lo si può spiegare?

(il Giornale, 16 settembre 2020)


Gli errori strategici dell'Europa che resta irrilevante

di Yossl Klein Halevl

L'accordo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain si scontra con le convinzioni fondamentali sul processo di pace in Medio Oriente condivise dai capi di Stato europei sin dagli anni Settanta.
   La prima è che la chiave di volta della pace sia da ricercarsi nella costituzione di uno Stato palestinese. Oggi, invece, gli Emirati e il Bahrain stanno normalizzando le relazioni con lo Stato ebraico senza che la regione abbia fatto passi avanti sulla questione. E uno scenario diverso dagli esiti ipotizzati dai leader europei: anziché arrivare alla pace con il mondo arabo tramite la creazione di uno Stato palestinese, le speranze oggi si appuntano sull'alleanza tra Israele e il mondo arabo, per arrivare a uno Stato palestinese. A questo avrebbero dovuto puntare gli europei sin dall'inizio.
   La seconda convinzione errata dell'Europa riguarda Israele, ritenuto cardine della questione della pace in Medio Oriente. Si è sempre sostenuto che occorreva esercitare pressioni sullo Stato ebraico per ottenere concessioni nei confronti del palestinesi. L'accordo tra Israele e gli Stati del Golfo rappresenta un argomento formidabile a sostegno della tesi opposta. Ancora a giugno, il primo ministro israeliano Netanyahu minacciava l'annessione del 30% della Cisgiordania, una mossa che avrebbe inferto un colpo tremendo alla soluzione del due Stati. I leader europei pensavano a sanzioni economiche, ma il governo israeliano non si è lasciato smuovere. Solo quando gli Emirati Arabi Uniti hanno offerto di normalizzare i rapporti con Israele in cambio della sospensione dell'accorpamento territoriale, Israele ha fatto un passo indietro. L'unica strada per convincere gli israeliani che la soluzione dei due Stati è nell'interesse del loro Paese sta nella rinuncia, da parte dei leader palestinesi, a rivendicare il diritto di «ritorno» per i rifugiati, il rientro in Israele dei discendenti dei profughi che dovettero lasciare il Paese dopo la guerra del 1948.
   La terza convinzione errata dell'Europa è che la stabilità della regione dipende da un atteggiamento conciliante nei confronti dell'Iran, quando in realtà è stata la volontà condivisa di arabi e israeliani nell'opporsi all'Iran ad aver spianato la strada all' accordo. Il consenso — ignorato dall'Europa — è che l'Iran debba essere arginato, non ingraziato.
   L'Europa ha ragione quando parla dell'esigenza di uno Stato palestinese, ma ha travisato la realtà mediorientale e così non è stata d'aiuto alla causa palestinese: finché non ammetterà i suoi insuccessi, resterà irrilevante nel processo di riconciliazione tra arabi e israeliani.

(Corriere della Sera, 16 settembre 2020 - trad. Rita Baldassarre)


Saeb Erekat: "Ma non trattino per noi palestinesi"

"Siamo adirati con gli arabi perché hanno violato il loro impegno nei nostri confronti Noi siamo in guerra non certo loro".

Saeb Erekat
GERUSALEMME — «L'hanno chiamato 'accordo di pace' ma non ricordo guerre tra Israele ed Emirati o Bahrein. Il conflitto è tra israeliani e palestinesi». Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp, è risoluto nel ripudio del "nuovo Medioriente" inaugurato a Washington. Storico capo negoziatore dell'Autorità palestinese, fu stratega degli accordi di Oslo, firmati il 13 settembre di ventisette anni fa sullo stesso prato della Casa Bianca in cui oggi a stringersi la mano sono Israele, Emirati e Bahrein.

- È la morte della solidarietà araba, ha detto il premier Shtayyeh.
  «Siamo arrabbiati con gli arabi. Hanno violato il loro impegno nei confronti dei palestinesi: non c'è normalizzazione senza la fine dell'occupazione. Invece di 'pace per territori' hanno fìrmato'pace per protezione'».

- Cioè?
«Credono che Israele li difenderà dall'Iran. Un'illusione. I problemi di sicurezza degli arabi, palestinesi inclusi, vanno trattati in seno al mondo arabo».

- Emirati e Bahrein hanno ribadito il loro impegno per lo Stato palestinese. Sostengono che ora hanno più possibilità di spingere Israele a rinunce, come è successo con l'annessione.
  «Non hanno diritto di negoziare a nostro nome. Hanno minato la nostra posizione e premiato il governo israeliano più estremista di sempre. Devono smettere di utilizzare palestinesi per giustificare un accordo che ha più a che fare con la rielezione di Trump che con la liberazione di Gerusalemme».

- Nell'ultima sua visita Pompeo ha detto che il Presidente Abu Mazen ha rifiutato una proposta di coinvolgimento in una conferenza dl pace, senza precondizioni.
  «Pompeo sa che quando hanno deciso di introdurre il cosiddetto 'Accordo del Secolo' e spostato l'ambasciata a Gerusalemme, hanno dettato i risultati delle trattative. I confini, Gerusalemme, i rifugiati e le risorse idriche sono i punti cardine concordati in accordi passati. Da lì deve partire qualsiasi dialogo».

- Qual è la strategia ora? Si arriverà alla riconciliazione Fatah-Hamas?
  «Chiediamo una conferenza di pace internazionale basata sugli accordi passati, il diritto internazionale e le risoluzioni Onu. La riconciliazione è un processo in corso in cui riponiamo fiducia. Il nostro obiettivo è andare a elezioni affinché la popolazione decida».

- Cosa vi aspettate dalla Ue?
  «La Ue è il primo partner commerciale di Israele e ha molti mezzi per fare pressione su Israele. Ci aspettiamo che i consoli generali a Gerusalemme non siedano solo in prima fila alla messa di Natale alla Natività, ma adottino un approccio proattivo contro il tentativo di ebraicizzare i quartieri occupati di Gerusalemme Est». La Lega Araba non sembra più essere un punto di riferimento.

- Cina, Turchia, Iran sono nuovi partner?
  «Con la Cina abbiamo da sempre ottime relazioni. La Turchia è uno dei nostri principali sostenitori, l'Iran vota con noi nelle istanze internazionali. Ma contiamo anche su Russia, Sud Africa, Irlanda, Lussemburgo, Svezia, tra gli altri».

(la Repubblica, 16 settembre 2020)



La furia palestinese per l'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele è solo uno "spettacolo mediatico"

"La leadership palestinese vive di inganni, imbrogli e menzogne. È leader e madre della normalizzazione. Vogliono che la Lega Araba condanni quello che stanno già facendo. Questo è solo uno spettacolo mediatico."

di Motasem A. Dalloul

Prima della riunione della Lega Araba di mercoledì, il ministro degli Esteri dell'Autorità Palestinese (AP) Riyad Al-Maliki ha invitato i suoi omologhi arabi a rifiutare l'accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti (EAU) e Israele.
   L'accordo è stato dichiarato da Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Israele il 13 agosto, sorprendendo i palestinesi e la popolazione araba e creando invece soddisfazione tra i funzionari e la popolazione israeliana.
   Rivolgendosi ai suoi omologhi, Al-Maliki ha dichiarato: "Di fronte all'accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti e Israele, è diventato necessario per noi assumere una posizione per rifiutare questa mossa; altrimenti, il nostro incontro sarà considerato come una benedizione o una complicità della normalizzazione".
   Successivamente, i ministri degli esteri arabi si sono incontrati in videoconferenza e hanno discusso per tre ore la questione dell'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele, mediato dagli Stati Uniti, che sarà celebrato ufficialmente a Washington il 15 settembre. L'incontro virtuale ha portato alla conclusione che ogni Paese arabo è libero di esercitare come desidera la propria politica estera , ha detto ai media il segretario della Lega Araba Ahmed Aboul Gheit.
   "La discussione su questo punto è stata seria ", ha detto a un giornalista Hossam Zaki, Segretario Generale aggiunto della Lega Araba, dopo l'incontro. "È stata completa e ha richiesto del tempo. Ma alla fine non ha portato ad un accordo sulla bozza di risoluzione che era stato proposta dalla parte palestinese".
   Parlando ai media palestinesi, l'ambasciatore palestinese presso la Lega Araba Muhannad Al-Aklouk ha confermato che l'Autorità Palestinese ha compiuto molti sforzi per convincere la Lega Araba a condannare la normalizzazione con l'occupazione israeliana, ma gli sforzi sono stati purtroppo vani. "In risposta, la Palestina ha presentato una bozza di risoluzione che condanna l'accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti e Israele". "I Paesi arabi, tuttavia, hanno votato contro il progetto e alcuni hanno fatto del loro meglio per legittimare la normalizzazione con Israele.
   Parlando all'Agenzia Anadolu, il membro del Comitato Esecutivo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Ahmed Majdalani, ha dichiarato: "Quello che è successo è chiaro e prevedibile. La coalizione che sostiene gli Emirati Arabi Uniti è la più forte e influente nella Lega Araba. L'incapacità di condannare gli Emirati Arabi Uniti significa che è stata adottata una nuova politica nella Lega Araba che consente a qualsiasi Paese arabo di stabilire relazioni con Israele e aggirare l'Iniziativa di pace araba del 2002 ".
   Dati gli sforzi compiuti dalla leadership palestinese per delegittimare la normalizzazione, gli osservatori della questione palestinese potrebbero ritenere che vi sia un cambiamento nella posizione ufficiale palestinese di lunga data rispetto all'occupazione israeliana. Ma ci sono molte ragioni che dimostrano il contrario.
   Ad esempio, come possiamo spiegare la rabbia palestinese per l'accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele e il ritiro dell'ambasciatore palestinese da Abu-Dhabi, quando Egitto e Giordania hanno accordi di pace e buoni rapporti con Israele, e ciascuno di questi Paesi arabi ha un ambasciatore a Tel Aviv, e Israele ha ambasciatori ebrei nelle loro capitali?
   In aggiunta a questo, molti funzionari palestinesi e dell'OLP hanno case ad Amman e detengono la cittadinanza giordana, tra cui l'AP, l'OLP e il presidente di Fatah Mahmoud Abbas, che possiede due appartamenti, una villa e altri immobili in Giordania, secondo il capo redattore di Rai Al-Youm, Abdel-Bari Atwan.
   Come possiamo spiegare il continuo coordinamento della sicurezza tra AP e Israele quando a maggio la leadership palestinese aveva ufficialmente dichiarato che avrebbe cessato tale collaborazione, come parte della rinuncia a tutti gli impegni palestinesi ai sensi dell'accordo di Oslo?
   Naturalmente, il Ministro degli Affari Civili dell'AP Hussein Al-Sheikh lo ha spiegato al New York Times, quando ha dichiarato che i servizi di sicurezza palestinesi avrebbero continuato a: "Mantenere la legge e l'ordine e combattere il terrorismo". L'AP definisce la resistenza palestinese "terrorismo" e combatterla come "mantenere la legge". Ha sottolineato: "Preverremo la violenza e il caos. Non permetteremo spargimenti di sangue. Questa è una decisione strategica. " L'AP si riferisce alle manifestazioni anti-israeliane e alle attività pacifiche come "violenza" e "caos", al fine di giustificare la repressione.
   Il New York Times non ha risparmiato alcuno sforzo per fornire esempi di queste spiegazioni, citando un incidente avvenuti fuori dalla città di Jenin in Cisgiordania, quando la sicurezza dell'AP ha sventato un potenziale atto di resistenza palestinese contro le truppe israeliane che pattugliano l'area palestinese occupata. Questo unitamente a quando un grande convoglio di truppe israeliane ha scortato centinaia di fedeli ebrei alla tomba di Giuseppe, nella città occupata di Nablus in Cisgiordania, e gli ufficiali dell'Autorità Palestinese a guardia del sito, nel veder arrivare gli israeliani, se ne sono andati per poi riprendere i loro posti solo dopo che questi se ne erano andati..
   A parte questo, il tentativo dell'AP di convincere la Lega Araba a condannare l'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele è inutile, e la leadership palestinese riconosce chiaramente che un tale sforzo è impossibile da realizzare, perché la Lega Araba prende le sue decisioni all'unanimità. "Se uno Stato non supporta una determinata decisione, viene automaticamente abbandonato", riferisce il professore di scienze politiche Abdul-Sattar Qasem. "Quindi , come poteva la Lega Araba condannare gli Emirati Arabi Uniti per questo accordo, essendo un membro dell'organizzazione? In aggiunta a ciò, ci sono due Stati membri che mantengono accordi con Israele e molti altri Stati che hanno già accolto l'accordo ".
   Giustificando le azioni dell'Autorità Palestinese, Qasem ha affermato: "La leadership palestinese vive di inganni, imbrogli e menzogne. È leader e madre della normalizzazione. Vogliono che la Lega Araba condanni quello che stanno già facendo. Questo è solo uno spettacolo mediatico. "
   Qasem ha sottolineato: "L'Autorità Palestinese ritirerà la sua opposizione all'accordo Emirati Arabi Uniti-Israele e si getterà di nuovo nelle braccia dell'occupazione israeliana. In seguito, in cambio di un po' di soldi, potrebbe addirittura chiedere scusa ad Abu-Dhabi ".
   Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all'autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Middle East Monitor, 11 settembre 2020 - trad. Lorenzo Poli, Invictapalestina.org)


Il rifiuto palestinese degli accordi tra paesi arabi e Israele. E della pace

Se la dirigenza palestinese continua a rifiutare ogni occasione di pace, il popolo palestinese dovrebbe rifiutare questa dirigenza.

Con la cerimonia di martedì alla Casa Bianca Israele ha firmato un trattato con gli Emirati Arabi Uniti e uno con il Bahrein che solo il venerdì precedente aveva annunciato la decisione di normalizzare i rapporti. Domenica l'Oman ha elogiato i due accordi e sembra probabile che altri paesi arabi seguiranno prima o poi l'esempio.
Tutto questo merita d'essere festeggiato. Non solo pone fine a una situazione di relazioni ostili, ma offre a tutti i paesi l'opportunità di operare insieme e condividere conoscenze, tecnologie e risorse a beneficio di tutti. Si possono facilmente intravedere possibili rapporti in una vasta gamma di settori, dalla sanità all'agricoltura, all'ambiente, al turismo, alle telecomunicazioni, alla cultura e persino nella ricerca spaziale....

(israele.net, 16 settembre 2020)


Medioriente, Netanyahu: "Colpiremo chi ci fa male"

GERUSALEMME- L'esercito israeliano ha colpito obiettivi di Hamas nella Striscia di Gaza in risposta al lancio di razzi verso Israele la notte precedente, coinciso con la firma degli accordi di normalizzazione delle relazioni tra Israele e Bahrein ed Emirati Arabi alla Casa Bianca. Al suo ritorno da Washington, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto di non essere sorpreso dall'attacco missilistico né dalla tempistica scelta. "Vogliono riportare indietro la pace ma non ci riusciranno", ha sottolineato specificando che "colpiremo duramente tutti coloro che cercano di farci del male e tenderemo una mano in pace a tutti coloro che ci tendono la mano".

 I fatti
  Il lancio di missili contro Israele è iniziato ieri sera mentre era in corso la cerimonia a Washington ed è continuato durante la notte, con le sirene che hanno continuato a suonare nel sud del Paese. I militari hanno riferito che cinque missili sono atterrati in aree aperte, mentre altri sono stati intercettati dal sistema di difesa missilistico israeliano. In risposta, l'esercito ha fatto sapere di aver colpito circa 10 postazioni di Hamas a Gaza, tra cui una fabbrica di armi ed esplosivi, infrastrutture sotterranee e un complesso di addestramento militare.
  Il recente lancio di razzi da entrambe le parti ha offerto un duro promemoria che gli ultimi sviluppi ottenuti a Washington probabilmente serviranno a poco per cambiare il conflitto tra israeliani e palestinesi. Oltre agli accordi bilaterali firmati da Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, tutti e tre hanno firmato un documento soprannominato gli 'Accordi di Abramo'. I palestinesi sono contrari agli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrein, considerandoli un tradimento della loro causa da parte dei Paesi arabi, che hanno accettato di riconoscere Israele senza assicurarsi concessioni territoriali. Né il presidente Donald Trump né il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno menzionato i palestinesi nelle loro osservazioni alla cerimonia della firma, ma sia i ministri degli esteri degli Emirati Arabi Uniti che quelli del Bahrein hanno parlato dell'importanza di creare uno stato palestinese.

(LaPresse, 16 settembre 2020)


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