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Notizie 1-15 settembre 2021


La soluzione a due stati è praticabile? No, risponde chi odia Israele

Quelli che non credono più alla soluzione a due stati sono coloro che probabilmente non l’hanno mai voluta (perché non tollerano che esista uno stato ebraico).

Alla fine di agosto la rivista Foreign Affairs ha pubblicato un sondaggio tra 64 “esperti”, interpellati circa la loro opinione sulla possibilità che una soluzione a due stati per Israele e Palestina sia ancora praticabile. Agli esperti è stato chiesto di scegliere tra cinque possibili risposte (molto d’accordo, d’accordo, neutrale, in disaccordo, molto in disaccordo) rispetto alla seguente affermazione: “La soluzione a due stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile”. Venticinque intervistati si sono detti d’accordo o molto d’accordo, mentre 32 si sono dichiarati in disaccordo o molto in disaccordo. Sette si sono definiti neutrali....

(israele.net, 15 settembre 2021)


Gerusalemme, rinvenuto peso usato 2700 anni fa per frodare nel commercio

di Ilaria Ester Ramazzotti

Non avere due pesi diversi nella tua borsa: uno pesante e uno leggero – recita il versetto 25: 13-16 del Deuteronomio -. Non avere in casa due misure diverse, una grande e una piccola. Devi avere pesi e misure precisi e onesti, affinché tu possa vivere a lungo nel paese che il Signore tuo D-o ti dà. Poiché il Signore tuo D-o detesta chi fa queste cose, chi agisce in modo disonesto”. Un’altra citazione tratta da Proverbi 20:23 dice: “Il Signore detesta i pesi diversi e le bilance disoneste non gli piacciono”. Sono solo due delle citazioni bibliche che riguardano il reato di truffa attraverso misure e pesi falsati. 
   “La Bibbia indica che il problema dell’inganno legato al peso non è una novità. [Taluni] commercianti imbrogliavano e tenevano separati pesi [da bilancia] pesanti e leggeri, usandoli quando acquistavano o vendevano”. A spiegarlo sono gli archeologi Eli Shukron e Hagai Cohen Kolonimus dell’Università Ebraica di Gerusalemme, riportati da JewishPress.com. L’occasione è stata data dal raro ritrovamento archeologico di un antico peso da bilancia, risalente al periodo del Primo Tempio (589 a.C.), avvenuto nella Città di Davide nella Città Vecchia di Gerusalemme. Shukron, che ha condotto lo scavo, ha comunicato che si tratta di un peso falsato, utilizzato per frodare nel commercio
   L’antico peso calcareo, secondo una unità di misura dell’epoca, dovrebbe infatti pesare due gerah, pari a 0,944 grammi. Lo dichiarano due segni lineari e paralleli incisi sulla sua superficie tondeggiante, ancora ben visibili. Ma i ricercatori, strumenti alla mano, hanno scoperto che il suo peso reale ammonta a più di tre volte tanto: 3,61 grammi.
   A rendere ancora più prezioso il ritrovamento del peso, è la circostanza che si tratta solo del secondo pezzo del suo genere rinvenuto in Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2021)


Eitan, si muove Israele il nonno ai domiciliari. L’ex moglie indagata in Italia

Shmuel Peleg interrogato, poi scatta il ritiro del passaporto e l’obbligo di dimora L’istanza della zia da Pavia per attivare la convenzione dell’Aja

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Al quarto giorno in cui il piccolo Eitan si trova in Israele — "rapito" o "salvato" a seconda delle versioni dei due rami familiari che se lo contendono — le autorità giudiziarie cominciano ad attivarsi. Il nonno Shmuel Peleg, che sabato ha sfruttato la visita di routine per condurre il nipotino in Israele, prelevandolo alla custodia della zia paterna Aya Biran, è stato interrogato ieri dalla polizia di Tel Aviv in seguito alla denuncia per sequestro di minore presentata domenica in Israele dal fratello di Aya, Hagai Biran. Rilasciato con "misure restrittive" fino a venerdì, passaporto trattenuto e obbligo di dimora nella sua abitazione di Petah Tikva, potrà uscire per andare in sinagoga (stasera inizia il giorno del Kippur, una delle date più solenni del calendario ebraico). Non è stato emesso un ordine restrittivo nei confronti di Eitan, «che può stare con il nonno», specifica Gadi Solomon, un portavoce della famiglia, che aggiunge: «il trasferimento di Eitan in Israele è avvenuto in maniera legale e dopo consultazioni con esperti di diritto». Non risulta invece iscritta nel registro degli indagati la nonna Etty Cohen (ex moglie di Peleg), diversamente da quanto stabilito dalla procura di Pavia che la reputa complice del sequestro di minore. Cohen era in Italia sicuramente fino a venerdì e in un’intervista rilasciata lunedì mattina alla radio israeliana 103 ha affermato «di essere appena rientrata dall’estero» e di non conoscere i dettagli della vicenda. Sempre sul fronte italiano delle indagini, emerge che a metà agosto la giudice tutelare Michela Fenucci ha sporto denuncia alla procura perché aveva chiesto al nonno materno il passaporto del piccolo, che non l’aveva restituito: in seguito alla denuncia la procura aveva chiesto alla polizia di tenere d’occhio Shmuel.
   La polizia israeliana, secondo l’emittente israeliana Kan 11,è orientata a considerare il caso «una vicenda civile più che penale», che verrà gestita dal Tribunale per le questioni familiari di Tel Aviv. È in questo foro che ieri mattina l’avvocato Shmuel Moran ha intentato, a nome di Aya, la causa per la restituzione del minore rapito ai sensi della Convenzione dell’Aja. Causa presentata in parallelo anche presso il tribunale di Pavia, che attiverà i canali istituzionali tramite i ministeri della Giustizia dei due Paesi. «Aya è in procinto di arrivare in Israele per assistere alle udienze — che dovrebbero iniziare entro 15 giorni — e chiederemo che le venga affidata la custodia del bambino anche durante il processo », dice l’avvocato Moran a Repubblica.
   Resta l’incognita su dove alloggi Eitan, che avrebbe dovuto iniziare la prima elementare in questi giorni. La famiglia Peleg continua a tenersi lontana dai riflettori, un silenzio stampa imposto in questi giorni dai due assi assoldati dalla famiglia: Ronen Tzur, stratega politico che ha gestito tra l’altro le campagne elettorali dell’attuale ministro della Difesa Benny Gantz, e l’avvocato Boaz Ben Tzur, tra i cui clienti compare anche l’ex premier Benjamin Netanyahu.
   Con un’unica breccia finora: in una breve intervista concessa al canale Kan 11, lo zio materno, Guy Peleg, continua a sostenere che «Eitan è stato salvato, portato a casa come avrebbero voluto i suoi genitori che programmavano di tornare a vivere in Israele». Una foto lo ritrae mentre si fa un selfie con il nipotino sorridente durante i controlli medici all’Ospedale Sheba domenica. «Eitan qui è felice. Vado a dormire con lui tutte le notti e si addormenta con il sorriso», dice lo zio, che sostiene che la famiglia Biran «è invitata a venire a trovarlo». Eppure, una semplice telefonata tra Eitan e Aya che si sarebbe dovuta svolgere ieri, su proposta della stessa famiglia Peleg, non è mai avvenuta.

(la Repubblica, 15 settembre 2021)


*


Gli zii pronti a partire per Israele. ''Adesso andiamo a riprendercelo"

La famiglia paterna che vive a Pavia presenta istanza alla Corte di Tel Aviv denunciando il rapimento del minore "Non ci fermeremo fino a quando il bambino tornerà a casa in Italia e i responsabili del gesto verranno condannati".

I parenti affidatari "Non abbiamo notizie forse lo tengono nascosto in un buco" "Ci hanno scritto pochi messaggi, alle nostre domande non hanno più risposto"

di Niccolò Zancan

PAVIA - «E' solo un inizio. Ma è un buon inizio». La notizia arriva all'ora dei telegiornali della sera. Il nonno che ha rapito Eitan Biran, il signor Shmuel Peleg, è agli arresti domiciliari nella sua casa di Tel Aviv. Nel pomeriggio è stato interrogato dalla polizia israeliana. Quello che aveva cercato di descrivere come un viaggio «fatto d'impulso per il bene del bambino» è stato invece ritenuto un comportamento criminale. Lo stesso tipo di reato ipotizzato dagli investigatori italiani: rapimento di minore. Nelle campagne intorno a Pavia, dentro a una villetta nel piccolo comune di Travacò Siccomario, la famiglia affidataria riceve una telefonata dietro l'altra. Gli zii Aya Biran e Or Nirko rispondono a tutti con gentilezza, anche se sono stravolti. E il primo momento buono dopo quattro giorni da incubo.
   «E un buon inizio. Ma la fine di questa storia sarà soltanto quando Eitan tornerà a casa in Italia e quando tutti i responsabili del rapimento verranno condannati». Voi sapete dove si trova adesso il bambino? «No, ma il nostro avvocato in Israele, Smhuel Moran, sta cercando di ottenere questa informazione». Siete riusciti a parlare con Eitan? «Mai, nemmeno una volta. La zia materna ci ha scritto qualche messaggio non molto chiaro in cui alludeva al fatto che ci avrebbero concesso di sentirlo. Ma alle nostre domande, loro non hanno più risposto. Si rifiutano di dirci dove lo tengono, lo hanno nascosto, forse in un buco».
   È un giorno importante. Eitan Biran, 6 anni, l'unico sopravvissuto nello schianto della funivia del Mottarone, non è più solo nelle mani dell'uomo che gli aveva promesso dei giocattoli e invece lo aveva portato via: in auto verso la Svizzera, passando attraverso la frontiera di Chiasso. E poi su un volo privato, dall'aeroporto di Lugano a Tel Aviv, un viaggio probabilmente pagato con i 140 mila euro raccolti grazie a una campagna di sostegno indetta proprio nel nome di Eitan. Il nonno materno Shmuel Peleg è agli arresti domiciliari in Israele. Qui in Italia è iscritto nel registro degli indagati assieme all'ex moglie Ester Cohen, che potrebbe avere avuto un ruolo nel rapimento. Quello che sta emergendo con sempre maggiore chiarezza è che si è trattato di tutto, tranne che di «un piano improvvisato».
   Gli zii affidatari avevano spiegato i loro timori: avevano paura di quello che poi è successo. La giudice tutelare Michela Fenucci aveva chiesto formalmente al signor Shmuel Pleg di restituire il passaporto israeliano del bambino entro il 30 di agosto. Era stato emesso un divieto di espatrio. Tutte le polizie di frontiera sapevano che Eitan Biran non poteva lasciare l'Italia. Inoltre una segnalazione sul caso era stata mandata in procura a Pavia, procura che a sua volta aveva chiesto alla polizia di controllare gli spostamenti del nonno di Eitan Biran. Era un sequestro a tal punto annunciato e temuto, che i movimenti del signor Shmuel Peleg erano stati - come dicono in gergo - «attenzionati». L'hotel a Milano. Spostamenti per pranzo e per cena. Il rientro in Israele alla fine di luglio, il ritorno in Italia a fine agosto. Ma quell'ordine di restituire il passaporto di Eitan Biran entro il 30 del mese era stato disatteso. E i controlli che avrebbero dovuto intensificarsi, si erano invece fatti meno stringenti. Martedì 7 settembre il nonno è andato a prendere il nipote a scuola, per poi riportarlo a casa. Nella seconda visita concordata con il giudice, sabato 11 settembre, ha parcheggiato lontano da casa. Nessuno ha visto se a bordo ci fosse qualcun altro. Nessuno ha seguito il viaggio di quell'auto presa a noleggio. E il bambino che non poteva passare la frontiera, l'ha passata. E con il passaporto che non avrebbe dovuto avere, il nonno lo ha fatto salire su un Cesna C680 noleggiato forse in Germania e fatto atterrare in Svizzera: 3 ore e 20 minuti di volo per Tel Aviv. Eitan Biran è cresciuto qui a Pavia. La sua prima casa italiana è sulle sponde del Ticino, davanti al Ponte Coperto. La sua seconda casa era accanto a quella degli zii, che l'hanno avuto in affidamento. «Andremo presto in Israele. Ci stiamo organizzando per partire. Vogliamo riportare a casa Eitan». -

(La Stampa, 15 settembre 2021)


Israele verso la 4a dose e nuovo record di casi Lancet dice no alla 3a 

Per la rivista non ci sono ancora evidenze dell'utilità del nuovo richiamo. Nuovo studio Usa: più rischi che benefici tra i 12 e 17 anni 

di Peter D'Angelo 

Sono 2,9 milioni gli israeliani vaccinati con tre dosi, 5,5 milioni con due dosi, e oltre 6 milioni con una. Sono 10.774 i nuovi casi in Israele ieri, un dato trai più alti finora registrati, con un tasso di positività del 6,09%, su 189 mila tamponi. I pazienti in condizioni critiche sono 673 (e oltre 82 mila attualmente positivi). I decessi registrati dal 6 al 13 settembre sono stati 31 con tre dosi, 56 con due dosi, e 95 non-vaccinati. Israele ha tassi di vaccinazione tra i più alti al mondo: tra gli 80-89 anni l'87,2% è vaccinato con due dosi, il 75,3% con 3 dosi; tra i 70-79 anni 1'87,5% ha fatto due dosi, il 77,9% tre; tra i 60-69 anni la media si alza a 87,5% con due dosi, mentre sono il 69,5% con tre dosi; per i 50-59 anni siamo a 83,5% due dosi, 55,9% tre dosi; nella fascia40-49 anni 1'81,4% con due dosi, il 45% tre dosi; tra30-39 il 78,3% ha fatto due dosi, il 37,1% tre dosi; 20-29 anni, 72,6% con due dosi, 24,6% con tre dosi; tra i 16-19 anni, ben il 70,8% ha già fatto due dosi, e il 16,1% ne ha fatte tre.
  E si parla già di quarta dose, a esporsi per primo è stato Salman Zarka, capo dell'Israel Shield, programma ufficiale del ministero della Salute su Covid-19. Israele corre, anche se i dati attuali sono parziali, tant'è che Rochelle Walensky, direttrice dei Centersfor Disease Control and Prevention degli Stati Uniti, ha ribadito in diverse occasioni che non ci sono ancora dati che dimostrino che un terzo richiamo dei vaccini - Moderna o Pfizer - aumenti la protezione contro l'infezione. Ha sottolineato, invece, la speranza che una terza dose riduca la trasmissione, e quindi anche le infezioni. In un recente view point pubblicato su The Lancet, il vicedirettore dell'ufficio responsabile della Ricerca e revisione sui vaccini della Fda, Philip Krause, ha espresso un punto di vista diverso rispetto alle istituzioni israeliane. "Sebbene l'idea di ridurre ulteriormente il numero di casi di Covid- 19 migliorando l'immunità nelle persone vaccinate sia allettante, qualsiasi decisione in tal senso dovrebbe essere basata sull'evidenza e considerare i benefici e i rischi per gli individui e la società: l'evidenza attuale, non sembra mostrare la necessità di una terza dose nella popolazione generale". Una delle motivazioni principali è che potrebbe persistere ''la memoria immunitaria, l'immunità cellulo-mediata, che generalmente sono di durata più lunga", ovvero le cellule Be T Killer che non vengono però attualmente "misurate" né nei guariti né nei vaccinati. Inoltre, "potrebbero esserci dei rischi se i richiami vengono ampiamente introdotti troppo presto o troppo frequentemente, specialmente con vaccini che possono avere effetti collaterali immuno-mediati (come la miocardite, che è più comune dopo la seconda dose di alcuni vaccini mRna, o la sindrome di Guillain-Barre, che è stata associata a vaccini con vettore di adenovirus). Se un potenziamento non necessario provoca reazioni avverse significative, potrebbero esserci implicazioni per l'accettazione del vaccino che vanno oltre i vaccini anti-Covid. Pertanto, un rafforzamento vaccinale dovrebbe essere intrapreso solo se vi sono prove evidenti che sia appropriato". Infine, il viewpoint si conclude con una considerazione inusuale, "sarà necessario un esame attento e pubblico dei dati in evoluzione per garantire che le decisioni sul potenziamento siano informate da una scienza affidabile più che dalla politica". La chiusa è una critica diretta all'ingerenza della politica. Pochi giorni prima della pubblicazione su TheLancet, sia il vicedirettore, Philip Krause, che la direttrice, Marion Gruber - dell'ufficio più importante della Fda in questa fase pandemica - hanno deciso di lasciare l'agenzia il prossimo mese, con una lettera congiunta. Ufficialmente i motivi sono la pensione (la direttrice) e non precisato (il vicedirettore). Tutto questo, proprio mentre si stavano analizzando i dati sulla terza dose e le vaccinazioni pediatriche, stando a alla ricostruzione di Cnn Healt. È stato pubblicato uno studio dell'Università della California, ripreso dal Guardian, in cui si arriva alla conclusione che i ragazzi tra i 12 e i 17 anni sono più a rischio di effetti collaterali dopo il vaccino rispetto al Covid. 

(il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2021)


Vaccinatevi, vaccinatevi! Prima o poi qualcosa si capirà! Nel frattempo si faranno pubblicazioni su riviste scientifiche sovvenzionate da case farmaceutiche, con dati che forse riporteranno anche i danni prodotti dai vaccini. E la  "scienza" progredirà. Insieme ai controlli sulla popolazione. M.C.


Come la scienza si è trasformata in propaganda
Articolo OTTIMO!

di Gerardo Coco

L’essenza di ogni regime è la politicizzazione di tutto, poiché il tutto deve sostenere lo status quo altrimenti ogni parte non politicizzata, quindi libera di dissentire, sarebbe una minaccia. In un regime autoritario non c’è via di mezzo e quindi tutto, letteralmente tutto, deve essere politicizzato per essere trasformato in propaganda e ciò che non può essere politicizzato deve cessare di esistere o essere relegato in una zona oscura, poiché il semplice atto di tentare di riconoscere un’esperienza non politicizzata è di per sé una minaccia allo status quo. In questa zona oscura è ormai discesa anche la scienza della salute pubblica.
  L’essenza di qualsiasi scienza è il dibattito. Uno scienziato propone un’ipotesi che viene poi testata con la sperimentazione. Se i dati empirici tendono a confutare l’ipotesi, può essere abbandonata a favore di una nuova ipotesi. Allo stesso tempo, altri professionisti possono mettere in discussione l’ipotesi o proporre la propria. Il dibattito va avanti fino a quando non si raggiunge un consenso. Ma, anche allora, il consenso può durare solo fino a quando non arriva un’ipotesi ancora migliore e così via. La vera scienza non è mai definitiva, si evolve.
  Questo non è il caso della “scienza” che circonda la pandemia di Covid che, politicizzandosi, è diventata propaganda di regime al punto che molti cittadini non ne hanno più fiducia. Negli ultimi due mesi abbiamo assistito a un completo fallimento dei vaccini che invece di frenare la diffusione del Covid-19 sembrano facilitarla. In diversi Paesi con tassi di vaccinazione molto elevati, come Israele, Gran Bretagna e Seychelles, ad esempio, stanno registrando tassi di infezione più alti in presenza di più varianti del Covid. Eppure, la risposta della “scienza” è sempre la stessa: dobbiamo indossare maschere, essere vaccinati, distanziarci socialmente e magari… rinchiuderci ancora. Ma anche un neofita capisce che il vaccino di oggi non darà necessariamente la stessa immunità né per la variante di oggi né per quella di domani.
  La “scienza” invece spinge per la vaccinazione universale, mentre l’efficacia dei vaccini sta calando. Non volendo accettare la responsabilità di queste contraddizioni, la “scienza” ha cambiato la sua narrativa. Ora ci sta dicendo che, anche se i suoi vaccini non ci proteggono dalle infezioni, sono comunque efficaci nel proteggerci da malattie gravi e dalla morte. Questo nuovo mantra dell’establishment scientifico viene ripetuto in ogni singolo notiziario. “Se sei vaccinato”, ci dicono, “puoi ancora essere infettato, ma non ti ammalerai gravemente o morirai perché i vaccini sono ancora efficaci”.
  L’affermazione che i vaccini proteggano dal Covid e dalla morte, tuttavia, è propaganda che si basa sulla stessa metodologia fraudolenta utilizzata per sostenere le prime false affermazioni sulla loro efficacia e che è oggi è confutata da dati empirici. I numeri ci stanno infatti dicendo che la maggior parte dei casi gravi di Covid e morte sta avvenendo nelle nazioni con programmi di vaccinazione avanzati e tra i vaccinati. Ma la soluzione al problema del “vaccino” (che non è un vaccino) è… ancora più vaccino. Sono necessari richiami, si dice, ogni 5/8 mesi per tenere a bada il Covid. Qual è dunque l’ordine del giorno? Chiaramente, non la salute del pubblico ma i profitti eterni per le case farmaceutiche.
  E così si arriva a capire come la scienza nella salute pubblica sia stata politicizzata, diventando propaganda al fine di spingere e mobilitare il maggior numero verso obiettivi che non riguardano affatto la salute pubblica. In primis, la Comunità della ricerca è stata avvelenata dall’influenza dei finanziamenti. Ciò che guida la scienza oggi sono le sovvenzioni dei governi e delle fondazioni e non più la motivazione e la genialità di studiosi indipendenti come gli Edward Jenner o i Louis Pasteur. Il finanziamento pubblico ha reso ormai la scienza dipendente dallo Stato, cioè dalla politica. Le Università e gli scienziati fanno pressioni affinché i governi diano loro denaro per i loro programmi di ricerca allo stesso modo di come le lobby industriali premono per sussidi. Gli scienziati ottengono i soldi dal Governo ma in cambio devono seguirne le indicazioni.
  Ma c’è di più. Come per la crisi climatica, anche per il Covid il dibattito di politica pubblica ha dimostrato che i cosiddetti scienziati non sono sempre parti disinteressate. Sembrano essere diventati politici e partigiani quanto i politici, utilizzando selettivamente le “prove” scientifiche per giustificare il loro punto di vista ideologico. I modelli di comportamento che promuovono il finanziamento pubblico sono stati sorprendentemente simili a quelli del clima: uso selettivo dei dati, manipolazione del processo di revisione tra pari, censura, persecuzione e demonizzazione dei colleghi dissenzienti per arrivare, alla fine a un falso “consensoscientifico da propagandare a fini politici.
  L’attuale approccio standardizzato alle vaccinazioni di massa, che tratta tutti i riceventi come se fossero organismi identici da processare su una catena di montaggio medica, è tipico dei peggiori regimi totalitari. L’inoculazione universale viene portata avanti senza nemmeno un’adesione rudimentale alla necessità di screening medico e consultazione caso per caso. Ci si è dimenticati di come venivano affrontate le epidemie influenzali molto più gravi della fine degli anni Sessanta e della fine degli anni Cinquanta? Nel grande schema delle cose queste epidemie erano “non eventi” non essendoci a quell’epoca le condizioni per sfruttarle, come si sta facendo oggi, a scopo politico. La questione allora riguardava il rapporto paziente/medico. Ma medici privati hanno cessato di esistere da quando il regime li ha costretti a diventare semplici dipendenti di massicce organizzazioni di “assistenza sanitaria” che si proteggono dalla responsabilità seguendo i protocolli stabiliti dai vari ministeri della salute in combutta con le case farmaceutiche, cosicché i medici finiscono per eseguire essenzialmente gli ordini delle aziende farmaceutiche. I medici indipendenti possono ancora utilizzare la loro formazione e abilità per aiutare i loro pazienti, ma con grande cautela: il regime, dove tutto deve essere politicizzato, potrebbe comprometterne la carriera.
  L’universalizzazione delle vaccinazioni in corso per iniettare e etichettare il bestiame viene ovviamente propagandata, appellandosi al “bene o interesse comune”. Ma solo i grulli dimenticano che sotto questa bandiera sono stati commessi, nel corso della storia, i crimini più spregevoli.

(l'Opinione, 14 settembre 2021)


Egitto-Israele: pragmatismo al vertice

Il premier israeliano Naftali Bennett e il presidente egiziano Al Sisi si incontrano a Sharm el Sheikh. Un vertice che riflette il rapido cambiamento nelle prospettive bilaterali e regionali.

 
Per la prima volta in un decennio, un premier israeliano si reca in Egitto per una visita ufficiale. A interrompere dieci anni di ‘assenza’ è stato il nuovo primo ministro israeliano Naftali Bennett, che ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi a Sharm el-Sheikh, sul Mar Rosso. Sul tavolo, le numerose questioni che agitano il Medio Oriente e che preoccupano il Cairo come Tel Aviv: la stabilità dell'area, la “minaccia” iraniana, il tracollo del Libano e il nodo di Gaza. L’enclave palestinese – isolata da Israele ed Egitto da quasi 15 anni, da quando è governata da Hamas – resta per Israele un problema costante. E che affonda sul nascere ogni speranza di un rilancio del processo di pace con i palestinesi, fermo dal 2014. Ma la spinta per ricucire un filo esile ma inevitabile di rapporti poggia anche sui comuni interessi: dal contenimento del radicalismo ed estremismo islamico, alle rotte del gas e dell’energia. Ieri alle spalle dei due leader svettavano, allineate, le bandiere dei rispettivi paesi. Un passo avanti nel processo di ‘normalizzazione’ in corso da qualche anno tra lo stato ebraico e i paesi della regione. Nelle scorse settimane era stata la volta di altri incontri di livello tra il ministro della Difesa Benny Gantz e il sovrano Abdallah di Giordania e lo stesso Gantz e il premier palestinese Mahmud Abbas. Qualcosa, forse poco, sembra muoversi davvero.

• Un decennio di alti e bassi?
  L'ultimo premier israeliano a visitare l'Egitto nel gennaio 2011 era stato Benjamin Netanyahu. All'epoca, ricorda Radio France Internationale (Rfi), “le televisioni egiziane coprirono l’evento con un servizio breve, fatto di immagini quasi subliminali di due uomini tesi”. Pochi giorni dopo, le proteste di piazza avrebbero rovesciato il trentennale regno di Hosni Mubarak, e inaugurato un decennio turbolento, durante il quale i rapporti tra i due paesi hanno visto alti e bassi. In mezzo c’è stata l’ascesa dei Fratelli Musulmani al Cairo, il golpe militare di Al Sisi, l’Intifada del 2015, innumerevoli violazioni di cessate-il-fuoco e ben due guerre contro Gaza, quella del 2014 e quella del maggio scorso. Anche se in definitiva le relazioni degli ultimi anni sono state segnate soprattutto dalla cooperazione in materia di sicurezza, e in particolare dalla lotta ai gruppi terroristici nel Sinai. L’Egitto – primo paese con cui Israele ha stipulato accordi di pace nel 1979 – e Israele hanno collaborato anche nel settore energetico: dal 2020 lo stato ebraico esporta in Egitto il proprio gas. Inoltre, l’Egitto ha svolto un ruolo chiave nel mediare diverse tregue tra Tel Aviv e il movimento islamico di Hamas a Gaza. 

• Qualcosa è cambiato?
  Se fin qui si sono limitati alla cooperazione su temi di comune interesse, ora la volontà è quella di far fare ai rapporti bilaterali un salto di qualità come dimostrato dalla riapertura del valico di Taba attraverso cui turisti israeliani passano per trascorrere le loro vacanze sul versante egiziano, e l’inaugurazione, da ottobre, di voli diretti Egyptair tra Il Cairo e Tel Aviv. E se la cornice dell’incontro di Sharm el-Sheik è la stessa di dieci anni fa – da anni gli eventi politici di peso in Egitto si tengono a Sharm anziché al Cairo, per questioni di sicurezza – tutto il resto o quasi sembra cambiato. “Israele si sta aprendo ai paesi della regione”, ha detto Bennett con riferimento agli accordi di Abramo inaugurati durante l’amministrazione Trump. Il fatto che dal 2020 quattro paesi arabi – Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan – abbiano normalizzato i legami con lo stato ebraico è stato un punto di svolta. E soprattutto, come osserva il politologo Mostafa Kamel al-Sayed, a differenza dell'era Mubarak, “il regime di Al Sisi è riuscito ad addomesticare l'opposizione” dopo una capillare campagna di repressione: oggi, dopo 19 mesi passati in carcere, lo studente egiziano iscritto all’università di Bologna, Patrick Zaki, è comparso davanti ai giudici di Mansura, cittadina a nord del Cairo. Rischia una condanna a cinque anni per reati minori.

• Pragmatismo vs Pace?
  “L'Egitto sostiene tutti gli sforzi volti a raggiungere una pace globale in Medio Oriente, sulla base della soluzione dei due stati e della legittimità internazionale” ha detto il portavoce della presidenza egiziana al termine dell'incontro. Ma nonostante le aspettative, le speranze di una ripresa del processo di pace restano lontane. Poche settimane fa Bennett aveva riaffermato la sua netta opposizione alla creazione di uno stato palestinese e ha detto di non vedere all’orizzonte alcuna svolta politica” con i palestinesi. Per il premier israeliano, leader del partito della destra ebraica Yamina, se il conflitto non può essere risolto, comunque si può “ridurne la portata dell’attrito”: il suo governo ha già approvato permessi di lavoro per i palestinesi in Israele, autorizzazioni edilizie per i palestinesi in Cisgiordania e permessi di residenza per migliaia di persone. Su questo, i due governi si intendono: il deterioramento della situazione economica a Gaza preoccupa molto l'Egitto, che teme un’esplosione della rabbia palestinese vicino ai suoi confini. Il Cairo ha cercato di realizzare un piano di ricostruzione che ha incontrato molti ostacoli da parte del movimento di Hamas che controlla la Striscia. Il vertice di Sharm emana dunque barlumi di pragmatismo, forse, ma non di pace. E di ‘successi’ personali: per Bennett, che forgia il suo profilo di ‘statista’; e per Al sisi, che vede l’incontro come un modo per ritornare a svolgere il ruolo di mediatore e accreditarsi con Washington. “L'Egitto vede le relazioni con Israele e gli sforzi per ricostruire Gaza come un percorso verso la Casa Bianca”, osserva un funzionario israeliano ad Haaretz, aggiungendo che il Cairo “ne ha bisogno” per deviare la pressione internazionale sui suoi diritti umani.

(ISPI Online Publications, 14 settembre 2021)


Caso Eitan, i media israeliani: il nonno è agli arresti domiciliari

L’accusa è di aver rapito Eitan e di averlo portato in Israele. Indagata anche la nonna materna Ester Cohen Peleg per sequestro di persona.

La polizia israeliana ha messo agli arresti domiciliari Schmulik Peleg, il nonno del piccolo Eitan Biran, 6 anni, unico sopravvissuto alla strage del Mottarone dello scorso 23 maggio. L’accusa contestata è quella di aver rapito Eitan e di averlo portato in Israele, secondo quanto riporta Times of Israel.  «A me risulta che gli sia stato richiesto di restare a disposizione della polizia», spiega invece l’avvocato Paolo Sevesi, che assiste il nonno di Eitan.
  Secondo i media israeliani, l’uomo è stato interrogato oggi dagli inquirenti israeliani. Il nonno era in visita in Italia e presumibilmente avrebbe trasportato in Israele Eitan su un aereo privato. Una volta in Israele ha scritto ai familiari in Italia che Eitan era «tornato a casa» e i familiari tutori del piccolo hanno sporto denuncia sia in Italia che in Israele. A seguito della denuncia, Peleg è stato convocato per essere interrogato. Secondo «Israel Hayom», il nonno del minore ha affermato di non averlo rapito e che i suoi genitori volevano che crescesse in Israele. Al termine dell’interrogatorio è stato inviato agli arresti domiciliari per cinque giorni.
  Intanto procedono le indagini sul caso: oltre al nonno, anche la nonna materna Ester Cohen Peleg è ora indagata nell’inchiesta sul sequestro. Per il resto, silenzio serrato da parte degli inquirenti su un caso che assume sempre più i contorni di una vicenda internazionale, e non solo per questioni meramente geografiche. Tante le risposte che dovranno dare gli investigatori su quanto accaduto sabato, quando una tranquilla giornata nonni-nipote si è trasformata in una fuga all’estero. La vicenda è delicata, non solo perché riguarda un minore, che ha perso mamma, papà, fratello e bisnonni nella gita a Stresa. Di mezzo ci sono due famiglie, entrambe colpite dalla perdita di loro cari, che si contendono il piccolo.
  La zia tutrice Aya affida ai legali il ricorso al Tribunale della famiglia di Tel Aviv per attivare la procedura prevista dalla Convenzione dell’Aja, la via giudiziaria per riportare Eitan in Italia. L’Ambasciata israeliana sembra orientata a questa soluzione e fa sapere che se ne occuperà in collaborazione con l’Italia, a beneficio del minore e in conformità con la legge e le convenzioni internazionali. Lo zio manifesta altre idee, che annuncia ai cronisti davanti alla villetta di Travacò Siccomario: «Serve una soluzione politica, quella legale è troppo lunga, non siamo di fronte a una battaglia tra avvocati, ma a un crimine serio. Le autorità israeliane dovrebbero sapere che è stato rapito». Il suo appello: «Per il benessere e la salute di Eitan fatelo tornare subito in Italia».
  «Le autorità israeliane stanno seguendo questo triste caso e se ne occuperanno in collaborazione con l’Italia, a beneficio del minore e in conformità con la legge e le convenzioni internazionali pertinenti», fa sapere l’ambasciata israeliana in una nota in cui si precisa che si seguiranno «la legge e le convenzioni internazionali pertinenti», con un richiamo chiaro alla Convenzione dell’Aja.
  Lo zio invece attacca il nonno che venerdì scorso ha preso il bambino e l’ha portato in Israele con un aereo privato, tirando in ballo anche un misterioso uomo coi baffi della cui presenza il piccolo avrebbe riferito agli zii. «Nel corso di una visita Eitan è stato tenuto due ore e mezza dentro la macchina da Ester Cohen e interrogato da una persona sconosciuta che non si è mai identificata e che ha detto che il suo lavoro è quello di cambiare i baffi. Gli ha fatto un sacco di domande, Eitan era sconvolto quando è tornato a casa, aveva gli incubi». Il bambino sarebbe stato «in agitazione tutte le volte che incontrava il nonno» che poi l’ha rapito. Dalla parte dell’uomo che l’ha sequestrato, l’avvocato Sara Carsaniga punta alla volontà del bimbo: «Andrebbe chiesto a lui con chi vuole vivere ma il Tribunale ha rigettato la nostra richiesta di sentirlo. Il bambino aveva il diritto a vivere sia in Israele sia in Italia. Tutte e due le famiglie hanno gli stessi diritti di rappresentare le proprie ragioni, la questione andava risolta prima ma il contraddittorio del Tribunale è sempre stato a favore di una persona sola».

(Il Dubbio, 14 settembre 2021)


La leadership ebraica tedesca contro Israele

di Daniel Pipes

Di certo, i partiti politici tedeschi hanno le loro divergenze. Ma sono tutti d’accordo su una cosa: che il nuovo partito civilizzazionista chiamato Alternativa per la Germania, Alternative für Deutschland, (AfD), non dovrebbe avere alcuna rappresentanza nel Bundestag (Parlamento).
Non è difficile capirne il motivo, poiché la sfacciata schiettezza dell’AfD a favore della civiltà occidentale, degli Stati Uniti e di Israele li irrita profondamente. Quindi, mentre le elezioni incombono, gli altri partiti si stanno unendo per screditare Alternativa per la Germania.  E visto che si tratta della Germania, l’unico metodo più potente è quello di marchiarla di antisemitismo. E per farlo nel modo più efficace, gli ebrei devono guidare la carica.
Questo spiega perché il Consiglio Centrale degli Ebrei Tedeschi (Zentralrat der Juden, ZdJ) ha promosso un documento approvato da non meno di altre 68 organizzazioni ebraiche. Intitolato “Gli ebrei contro l’AfD”, il testo invita i tedeschi a votare per qualsiasi partito che non sia l’AfD. Il suo messaggio non è sottile: “Il 26 settembre 2021, votate per un partito indiscutibilmente democratico [zweifelsfrei demokratische Partei] e contribuirete a bandire l’AfD dal Bundestag tedesco”.
Il documento, pubblicato il 9 settembre, accusa l’AfD di “scatenare” il Parlamento e lo definisce una dimora di “antisemiti e di estremisti di destra” che praticano forme di “razzismo e misantropia”. Come se non bastasse, i firmatari dichiarano addirittura di essere “convinti che l’AfD sia un (…) partito antireligioso [religionesfeindliche]”.
Queste organizzazioni includono anche alcuni nomi internazionali importanti e consolidati, tra cui l’ American Jewish Committee, il B’nai B’rith, la Claims Conference, l’European Jewish Congress, il Jewish National Fund, Limmud, i Maccabi Games, la Ronald S. Lauder Foundation, l’Unione degli ebrei progressisti e il Congresso ebraico mondiale.
Innanzitutto, vale la pena notare che tutte le organizzazioni  tedesche e  americane esentasse che appoggiano questo documento violano apertamente la legge affermando come dovrebbero essere espressi i voti elettorali. Il titolo del documento include una grafica infantile di una freccia verso il basso, opposta alla direzione di quella verso l’alto dell’AfD. Stranamente, il Consiglio Centrale degli Ebrei Tedeschi non menziona una sola volta in questo documento il nome del partito, utilizza il suo acronimo “AfD”, come se citare il nome completo lo marchiasse.
Il giorno dopo, l’organizzazione Ebrei nell’AfD (Juden in der AfD, JAfD) ha risposto a questa sferzata. Ha cominciato con l’osservare che il ZdJ ottiene quasi l’intero budget annuale di 13 milioni di euro dal governo, pertanto, ovviamente, si attiene alla linea di governo. Ha inoltre rilevato che “solo le organizzazioni ebraiche [tedesche] finanziate dallo Stato hanno aderito a questo appello. Organi ebraici indipendenti, come il mensile Jüdische Rundschau, e associazioni ebraiche conservatrici, come Chabad Germany, non sono rappresentati”.
E c’è di peggio. Il Consiglio Centrale degli Ebrei, osserva Chaim Noll, un  autore tedesco-israeliano, “è un’istituzione unica che non esiste in altri Paesi ed è sconosciuta anche nell’ebraismo. È una delle istituzioni statali finanziate dal governo federale, e gestisce gli ebrei del Paese. (…) Che gli ebrei siano soggetti alla volontà del governo è la tragedia specifica degli ebrei in Germania; in altri Paesi, le comunità ebraiche sono autonome”.
Quanto alla sostanza, l’organizzazione JAfD sostiene accuratamente che “l’AfD ha fatto di più per proteggere la vita ebraica di qualsiasi altro partito del Bundestag tedesco”. Nello specifico, ha promosso con successo un divieto contro Hezbollah e il movimento BDS, e sta lavorando per finanziare l’UNRWA e abolire i requisiti di etichettatura per i prodotti ebraici dalla Cisgiordania.
Ho assistito personalmente a questo mentre ero seduto in una poltrona del Bundestag il 14 marzo 2019, quando è stata approvata una risoluzione per indure il governo tedesco a  votare a favore di Israele in senso alle Nazioni Unite. L’89 per cento dei membri dell’AfD ha votato per questa mozione, circa 350 volte di più di un quarto dell’1 per cento dei partiti al governo che vi hanno aderito.
Questo screzio mostra una profonda verità sui patetici leader ebrei europei: legati all’establishment, sacrificano la maggior parte delle loro inclinazioni sioniste per rimanere nelle sue grazie. (Per maggiori dettagli su questo schema, si veda il mio articolo “Gli ebrei d’Europa contro Israele”.) S’inchinano così avidamente davanti al governo e hanno persino convinto l’attuale ambasciatore di Israele in Germania,  Jeremy Issacharoff, a infrangere il protocollo diplomatico, ad attaccare apertamente l’AfD e difendere i partiti anti-israeliani tedeschi.
Alla fine, tuttavia, l’indolente leadership ebraica dell’Europa si ritroverà isolata dai suoi stessi elettori e osteggiata dalla   popolazione e dal governo di Israele, i quali finalmente riconosceranno tutti i loro veri amici nella politica tedesca. L’ AfD è tutt’altro che perfetto, ma si adatta meglio a questa descrizione.

(L'informale, 14 settembre 2021 - trad. Angelita La Spada)


Fa riflettere la presentazione che fa Daniel Pipes di questi "patetici leader ebrei europei: legati all’establishment", che per rimanere nelle sue grazie "sacrificano la maggior parte delle loro inclinazioni sioniste". Ma ancor più forte è la frase che segue: "s’inchinano avidamente davanti al governo". E' quello che accade oggi in Italia. E' stupefacente vedere l'"avido consenso" con cui la leadership ebraica italiana esprime a Draghi la sua approvazione. Più che altro fa a gara con altri, come il PD, nello screditare e colpire chiunque sollevi serie obiezioni sull'operato del governo. Si direbbe che una sorta di "libidine di asservimento" abbia colto oggi la cittadinanza italiana. E la leadership ebraica sembra che ci si trovi bene. M.C.


“L'Onu discrimina Israele”: anche il Pd sottoscrive l’appello

Un gruppo di oltre 300 parlamentari punta il dito contro le 17 risoluzioni unilaterali adottate nel 2020 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Le tante risoluzioni delle Nazioni Unite contro Israele rappresentano una “discriminazione sistematica” che porta alla “condanna implacabile, sproporzionata e ricorrente dell’Onu nei confronti dell'unico stato ebraico esistente al mondo”. L’accusa arriva dai 312 membri del gruppo interparlamentare transatlantico “Friends of Israel” (Amici di Israele), al quale hanno aderito anche 26 personalità del mondo politico italiano. 
   La gran parte dei firmatari dell’appello - che chiede ai Paesi dell’Ue di “votare contro l'eccessivo numero di risoluzioni anti-Israele” - proviene dalle fila della Lega e di Forza Italia. Ma la lista degli aderenti italiani include anche tre esponenti del Partito democratico, tra i quali spicca il nome Lia Quartapelle, capogruppo del Pd in commissione Esteri.
   “Nel 2020 - si legge nell’appello - l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato 17 risoluzioni unilaterali contro Israele e solo sei risoluzioni relative a sei degli altri 192 Stati membri per violazioni dei diritti umani”. I firmatari se la prendono soprattutto con “il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu” accusato di essere ossessionato dal Paese del Medio-Oriente. L’organismo “prende di mira un solo stato - Israele - prevedendo in agenda un punto all'ordine del giorno separato e a sé stante, (n. 7), mentre le violazioni dei diritti umani in tutti gli altri paesi sono considerate sotto un unico punto all'ordine del giorno (n. 4)”, si precisa nella dichiarazione. Inoltre, “lo scorso settembre, il Consiglio Economico e Sociale dell'Onu ha condannato solo Israele tra tutte le nazioni per presunte violazioni dei diritti delle donne”.
   Per contrastare quella che secondo i firmatari è una “discriminazione sistematica” nei confronti di Israele si chiede “agli Stati membri dell'Ue e a tutte le altre democrazie” di “votare contro l'eccessivo numero di risoluzioni anti-Israele”, ma anche di “agire per riformare il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu e abolirne il punto 7 dell’Agenda” e “mettere fine ai Comitati e ai Programmi discriminatori delle Nazioni Unite, creati al solo scopo di promuovere un'agenda anti-israeliana e che minano la pace e la prospettiva della soluzione negoziata dei due stati”. 

(EuropaToday, 14 settembre 2021)


Eitan, in campo la diplomazia. Tel Aviv non si schiera e Roma prende tempo

La zia paterna ha presentato in procura un’istanza di rientro

La vicenda familiare che ha coinvolto il piccolo Eitan Biran si è allargata a tal punto da lambire il rapporto bilaterale tra Italia e Israele, tanto che pur mancando – al momento – gli estremi per eventuali interventi da parte dei governi, le autorità sono state chiamate a rilasciare dichiarazioni ufficiali su quanto intendono fare. «Stiamo accertando l’accaduto per poi intervenire», ha detto il ministro degli esteri Luigi Di Maio rispondendo ieri alle domande dei giornalisti. Fonti diplomatiche israeliane fanno sapere che al momento «la vicenda viene seguita da vicino, ma non esiste una posizione ufficiale, non c’è una linea».
   L’ambasciatore israeliano a Roma Drod Eydar preferisce non rilasciare dichiarazioni sull’accaduto, limitandosi ad osservare che al momento si tratta di una questione tra due famiglie, che la vicenda è seguita dai canali giudiziari e che occorre attendere prima di pronunciarsi in un senso o nell’altro.
   Ogni azione israeliana, del resto, non può che essere successiva a quella dell’Italia, che al momento, tramite il Ministero di Giustizia, sta attivando le procedure.
   Quali, precisamente? Ad oggi “il caso Eitan” è gestito solo da un punto di vista giudiziario, su due binari paralleli, quello civile e quello penale. Il procedimento civile è stato avviato nel momento in cui la tutrice legale del bambino, Aya Biran-Nirko, la sorella residente in Italia del defunto padre di Eitan ha presentato alla procura un’istanza di rientro in base alla Convenzione dell’Aja del 1980, che si occupa delle procedure inerenti gli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori e che ha come obiettivo quello di «assicurare l’immediato rientro dei minori illecitamente trasferiti o trattenuti in qualsiasi Stato contraente» e «assicurare che i diritti di affidamento e di visita previsti in uno Stato contraente siano effettivamente rispettati negli altri Stati contraenti». Essendo Italia e Israele entrambi Stati contraenti, la Convenzione rappresenta in definitiva la piattaforma internazionale più corretta per cercare di risolvere questa disputa. Una volta che Israele avrà ricevuto dal ministero della Giustizia italiano tutta la documentazione, sarà a quel punto la magistratura israeliana a doversi pronunciare su un eventuale rientro di Eitan in Italia.
   Secondo quanto rivelato dall’emittente televisiva israeliana Channel 12, un documento di alcuni esperti del ministero degli Esteri di Tel Aviv avrebbe già dato un parere positivo al rientro di Eitan, considerando la sottrazione ad opera del nonno materno un sequestro a tutti gli effetti. Ma si tratta di valutazioni che non sono ancora passate al vaglio della magistratura competente, e che dovranno essere confermate prima di diventare esecutive. C’è poi il procedimento penale, avviato sempre dalla zia paterna presso la procura di Pavia, che denuncia il sequestro del bambino per mano del nonno materno. Se un giudice italiano dovesse ravvisare gli estremi per un sequestro, viste le violazioni sull’orario di visite e la mancata restituzione del passaporto del minore da parte del nonno, potrebbe a quel punto chiedere alle autorità israeliane il rientro di Eitan, da effettuare tramite l’Interpol.
   Malgrado dunque sia piuttosto chiaro che la vicenda sia soprattutto giudiziaria, la politica si sente sotto pressione, perché la storia di Eitan ha tutti gli ingredienti per coagulare su di sé sentimenti ed emozioni dell’opinione pubblica: c’è la questione identitaria – la scuola cattolica a cui Eitan era stato iscritto in Italia e quella ebraica che lo aspetta in Israele – ci sono due Paesi e un bambino conteso, e c’è la realtà di una famiglia dalla doppia radice, che dopo la tragedia del Mottarone si è trovata scissa, spezzata in due, incapace di ricomporre quell’unità che il papà e la mamma di Eitan, morti nell’incidente, avevano immaginato per la vita dei loro figli.
   In questa fase, la politica non può fare altro che vigilare affinché la macchina giudiziaria non si impantani e promuovere una corretta relazione operativa con Israele. Si tratta di Stati amici, non dovrebbe essere difficile.

(La Stampa, 14 settembre 2021)


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Indagato il nonno del piccolo Eìtan. Caccia ai complici del sequestro

Per gli inquirenti qualcuno ha aiutato Shmuel Peleg a fuggire con il nipotino. « Un piano organizzato». I sospetti puntano anche a personaggi legati ai servizi segreti israeliani.

di Giuseppe Guastella

È caccia ai complici, a chi può aver aiutato Shmuel Peleg a fuggire dall'Italia portando con sé il nipotino di sei anni fino in Svizzera e lì imbarcarsi senza che nessuno lo ostacolasse su un aereo privato che qualche ora dopo è atterrato in Israele. Per farlo, il 58enne israeliano, da ieri indagato per sequestro di persona aggravato dalla minore età della vittima, ha eluso il divieto di espatrio che avrebbe dovuto impedire che il bambino lasciasse il suolo italiano nel pieno di una vicenda che assume sempre più i contorni di un intrigo internazionale. 

• Le tracce in Svizzera 
  L'inchiesta della Procura di Pavia guidata da Mario Venditti ha già fatto importanti passi nella ricostruzione di come Peleg si è mosso sabato mattina e presto potrebbe dare luce a nuovi sviluppi. La Polizia sta seguendo le tracce lasciate dall'uomo da Travacò Siccomario fino a Lugano, a 151 chilometri di distanza dal paese in provincia di Pavia dove Eitan stava trascorrendo questo momento difficile della sua breve ma già drammatica esistenza. Non va dimenticato che tutti i protagonisti di questa storia sono vittime dirette o indirette della tragedia della funivia del Mottarone che il 23 maggio scorso è costata la vita di 14 persone che, dopo i lunghi divieti legati alla pandemia, volevano solo trascorrere in montagna la bella domenica di primavera. Nello schianto della cabina, dovuto alla rottura della fune traente e ai freni di emergenza criminalmente disattivati, sono morti i genitori, il fratellino di appena due anni e anche i bisnonni paterni di Eitan, l'unico miracolosamente rimasto solo ferito grazie al padre che gli ha fatto scudo con il proprio corpo. 

• Una famiglia divisa 
  Il dramma ha spezzato in due ciò che è rimasto della famiglia di Eitan. Da una parte i parenti materni che vivono in Israele, dall'altra quelli paterni che, sommando strazio a strazio, si stanno consumando in una battaglia legale sull'affidamento del bambino. Anche se c'è chi intravede maliziosamente dietro la faida l'interesse per i cospicui risarcimenti che otterrà il piccolo e le generose donazioni che ha già ricevuto da tutto il mondo. Sospetti che tutti respingono sdegnosamente. In questo scenario va inquadrata l'azione di Shmuel Peleg che ha perso una figlia, il genero e un nipotino. L'uomo, militare dell'esercito israeliano in pensione e consulente di un'azienda di elettronica, si è presentato poco dopo le n.30 alla porta dell'abitazione della zia patema di Eitan, Aya Biran, dove il bimbo ha vissuto da quando è uscito dall'ospedale, per uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. E l'ultima volta che la zia ha visto Eitan. 

• «Ha agito d'impulso» 
  Peleg e il nipotino si sono allontanati a bordo dell'auto presa a noleggio da Peleg all'aeroporto di Malpensa al suo arrivo in Italia. Ai suoi legali, gli avvocati Sara Carsaniga, Paolo Polizzi e Palo Sevesi, ha detto che appena si è convinto che il bambino era in «cattive condizioni mentali e fisiche», ha deciso di sottrarlo a quel procedimento giudiziario sulla sua tutela che ritiene zeppo di irregolarità e portarlo in un ospedale di Tel Aviv.
   Le azioni di prepotenza sono sempre sbagliate», affermano i suoi legali, secondo i quali il loro assistito ha agito «d'impulso» dopo «aver tentato invano per mesi di portare la voce della famiglia materna nel procedimento civile di nomina del tutore», ma sono convinti che possa ritornare «ad avere fiducia nelle istituzioni Italiane». In un paio d'ore, Peleg ha percorso l'autostrada varcando il confine con la Svizzera quasi certamente a Chiasso. Evidentemente senza alcun controllo, nonostante il Tribunale di Pavia avesse diramato in Svizzera e in tutta l'area Shengen un divieto di espatrio che riguardava il bambino. Nessun problema nemmeno all'aeroporto di Lugano dove nonno e nipote hanno preso il costoso volo decollato nel pomeriggio. 

• Complicità 
  Gli inquirenti sono convinti che una fuga del genere non possa essere pianificata ed organizzata all'ultimo momento da un nonno disperato e, sostiene Or Niko, marito di Aya, con l'aiuto della ex moglie Esther Choen, che al Mottarone ha perso i genitori ma che sarebbe tornata in Israele prima di sabato. I sospetti puntano anche a personaggi legati ai servizi segreti israeliani in rapporti diretti o indiretti con l'uomo. Per fare chiarezza, il procuratore Venditti e il sostituto Valentina De-Stefano potrebbero avviare una rogatoria in Svizzera. 

(Corriere della Sera, 14 settembre 2021)


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Eitan e la sottrazione di minori

Si è parlato molto di Eitan, il bambino sopravvissuto dell'incidente del Mottarone, rapito dal nonno israeliano. Ma sono comuni i casi di figli portati all'estero da uno dei genitori senza consenso dell'altro

di Eleonora Lorusso

Il piccolo Eitan è stato sottratto dal nonno paterno agli zii materni. A questi familiari, israeliani residenti in Italia il bambino era stato affidato dopo aver perso i genitori (anch'essi israeliani residenti in Italia) nell'incidente della funivia del Mottarone. Il suo caso ha attirato l'attenzione per via della storia drammatica vissuta appena pochi mesi fa. Ma come Eitan, ogni anno, sono decine e decine di bambini “contesi” dai familiari che vengono portati fuori dall’Italia, nella maggior parte dei casi da uno dei due genitori. Il problema esplode di solito dopo la fine di un matrimonio misto, cioè dove madre e padre hanno nazionalità differenti.
   Risolvere i casi è estremamente difficile, le leggi ci sono, ma il problema è sempre farle applicare. È ancora più complicato quando il Paese in cui viene portato il minore non ha sottoscritto una convenzione con l’Italia.

• Ci vuol un ordine di rimpatrio
  «Nel caso di Eitan, le autorità israeliane si sono già pronunciate favorevolmente e ci sono i presupposti per il rimpatrio in Italia del bambino. Ma gli organismi che si occupano di questi casi hanno funzione amministrativa: per un ordine di rimpatrio occorre invece un pronunciamento giudiziario, cioè bisogna passare da un giudice che potrebbe non essere d’accordo, non ravvedendo motivi validi, il che complicherebbe di molto la situazione» spiega l’avvocato Lorenzo Puglisi, fondatore di Family Legal, specializzata nel diritto di famiglia.

• Il caso di Eitan e la convenzione dell’Aja
  Eitan viveva a Pavia insieme alla zia paterna a cui era stato affidato temporaneamente dopo la morte dei genitori nella tragedia del Mottarone, il 23 maggio scorso. Sabato scorso aveva ricevuto la visita del nonno materno, Shmuel Peleg, che però non lo ha più riportato a casa, ma si è diretto in auto a Lugano, in Svizzera, e da qui si è imbarcato su un volo privato alla volta di Israele, paese d’origine della famiglia. Così facendo ha violando la Convenzione dell’Aja: «Nel caso di Eitan va fatta una distinzione: esiste un aspetto penale e uno civile del caso. Da un punto di vista penale, il nonno ha violato le norme del nostro codice penale, infatti è stato aperto un fascicolo per sequestro aggravato di minore. Significa che, se dovesse tornare, scatterebbe l’arresto. Ma in questi casi ciò che più conta è l’aspetto civile, cioè la violazione della convenzione dell’Aja del 1980, sottoscritta da diversi Paesi tra i quali Italia e Israele nel 1980» chiarisce Puglisi.

• Come interviene lo Stato
  La Convenzione dell’Aja prevede che in ciascun Paese firmatario si attivi l’organo di riferimento, chiamato Autorità centrale, che per l’Italia è a Roma. Questa si mette in contatto con il corrispondente del Paese in cui è stato trasferito il minore, per avere informazioni: per esempio, dove si trova esattamente, con chi vive o se sono rispettati quelli che sono considerati gli standard minimi. Poi si attiva la negoziazione per il rientro spontaneo – spiega Puglisi – Quando, invece, manca una convenzione o un accordo bilaterale, tutto è rimesso all’attività diplomatica, che è molto più difficile, soprattutto nel caso di Stati del nord Africa. In pratica si avvia un lavoro di intelligence per localizzare i bambini o i ragazzi, poi un’azione diplomatica per ottenere un provvedimento di rimpatrio da parte dell’autorità giudiziaria. Ma il problema è soprattutto farlo eseguire, specie in realtà dove non c’è piena democrazia» spiega l’avvocato.

• Quali sono i problemi più frequenti
  Nel caso specifico di Eitan occorrerà vedere se, come annunciato dai media israeliani, al parere favorevole al rimpatrio di Eitan da parte degli esperti del ministero degli Esteri e della Giustizia di Tel Aviv seguirà un provvedimento in tempi brevi. Ma per tanti altri casi – e sono molti – le cose non sono così semplici: «Tra Paesi europei di solito è più semplice risolvere le controversie a livello internazionale, anche se con alcuni non mancano le problematiche, per esempio con la Germania: lì spesso si ritiene che la scolarizzazione tedesca sia al disopra degli standard di altri Paesi, dunque c’è la tendenza a negare il rimpatrio e non mancano casi si genitori che non riescono più a vedere i figli, di madri o padri ai quali è persino negato vederli – spiega l’esperto - Il problema è che si tratta di una materia molto scivolosa, dove non ci sono automatismi e ogni caso è a sé»

• Troppi casi di “rapimenti” in Italia e in Europa
  La storia di Eitan è unica, anche per il fatto che si tratta di un bambino di appena 6 anni che ha perso entrambi i genitori (oltre al fratello e ai bisnonni) nell’incidente a Stresa. Ma nella maggior parte dei casi, i minori sottratti all’estero sono figli di genitori separati e sono molti: «Sono circa 100 all’anno e la maggior parte sono figli di unioni miste, tra madri e padri di nazionalità differenti. Il fenomeno è diffuso anche in Europa, dove sono circa 1.000 i casi ogni anno» racconta Puglisi. «Ci sono padri che rischiano di non rivedere i figli, ma anche moltissime madri. Io stesso mi sono occupato del caso di Sandra Fardella» racconta il legale. Il padre della piccola Sara Ammar era partito dalla volta del suo Paese d’origine, l’Egitto, con la figlia, rifiutandosi di riportarla in Italia. La bambina all’epoca, nel 2010, aveva 4 anni e risultava irreperibile. La madre si era recata in Egitto per cercarla. Dopo una battaglia legale e diplomatica durata cinque anni Sara e la madre erano tornate in Italia. «Di casi analoghi ce ne sono moltissimi, soprattutto quando i padri, di origine siriana, egiziana o tunisina, decidono di tornare in Patria portando con sé i figli» spiega Puglisi.

• Il passaporto per l’espatrio
  Uno dei nodi, che è emerso col caso di Eitan ma che riguarda potenzialmente tutti i genitori, è quello del passaporto. Perché un minore possa lasciare il Paese d’origine occorre questo documento, firmato da entrambi i genitori. «È chiaro che per Eitan le cose sono diverse perché i genitori sono mancati e il passaporto era in mano al nonno materno, anche se esisteva un provvedimento di affido temporaneo alla zia paterna. Quando la donna ha sporto denuncia, però, era troppo tardi, perché il bambino era già oltre confine e le autorità non hanno potuto far nulla per fermarlo. Tra l’altro, il giudice aveva chiesto la riconsegna del passaporto da parte del nonno, che era stata disattesa – spiega Puglisi – Nella normalità dei casi, invece, non solo serve il passaporto firmato da entrambi i genitori, ma anche un’autorizzazione all’espatrio, di volta in volta, senza la quale né madre né padre possono condurre il figlio all’estero».
   Se però uno dei due ha motivo di temere che l’altro genitore possa allontanarsi senza autorizzazione, può rivolgersi all’autorità giudiziaria: «Si può chiedere che l’altro genitore sia espunto dal passaporto: in pratica, il nome dell’altro viene tolto dal passaporto e, in sostituzione viene rilasciato un altro documento non valido per l’espatrio» avverte Puglisi.

• Tempi troppo lunghi
  Infine c’è il problema delle tempistiche, sempre troppo lunghe: «Quando va tutto bene, quindi ci sono accordi internazionali e pareri favorevoli al rimpatrio, possono bastare poche settimane, ma nella realtà i tempi sono molto più lunghi e variano a seconda dei casi. Dipende molto dall’esito delle discussioni tramite l’autorità centrale, nel caso in cui sia stata sottoscritta la convenzione dell’Aja, ma di rado ci vogliono meno di 6 mesi. Spesso, poi, i giudici vogliono entrare nel merito e capire se il minore possa andare incontro a pregiudizi psicofisici in caso di rimpatrio e per questo occorre un’istruttoria. Insomma i mesi volano» conclude l’esperto di Family Legal.

(Donna Moderna, 14 settembre 2021)


Tokyo 2020, judo: atleta si ritira per non affrontare israeliano, sospeso per dieci anni

di Sofia Cioli

La Federazione internazionale del Judo (Ijf) ha disposto una sospensione di dieci anni nei confronti del judoka algerino Fethi Nourine (categoria -73kg) e del suo allenatore, Amar Benikhlef, in seguito alla decisione presa lo scorso 23 luglio ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020 di ritirarsi per non affrontare un atleta israeliano. Nourine aveva affermato che il suo sostegno politico alla causa palestinese gli aveva reso impossibile competere con Tohar Butbul.
   Dopo una prima estromissione temporanea dalle competizioni per atleta e allenatore, il 24 luglio scorso l’Ijf aveva formato una commissione d’inchiesta che ora ha concluso il suo lavoro: “è evidente che i due hanno utilizzato i Giochi Olimpici come piattaforma di protesta e promozione della propaganda politica e religiosa– si legge in un comunicato della stessa federazione –, che è una chiara e grave violazione degli statuti Ijf, del Codice etico Ijf e della Carta Olimpica. Pertanto, in questo caso non può essere imposta altra sanzione se non una sospensione severa”. Il provvedimento è valido fino al 23 luglio 2031, ed è impugnabile presso il Tribunale arbitrale dello sport.

(Sportface.it, 14 settembre 2021)


Roma, museo della Shoah: retromarcia del Campidoglio, Raggi blocca tutto

Annullata la cerimonia della prima pietra a Villa Torlonia giudicata solo una mossa elettorale

di Lorenzo D'Albergo

Il primo "no", piuttosto secco, non è bastato. Per convincere Virginia Raggi a cancellare la cerimonia per l'avvio dei lavori del Museo della Shoah ne è servito un secondo. Sì, perché dopo la Comunità ebraica di Roma anche l'Unione delle comunità ebraiche italiane si è sfilata dall'appuntamento per la posa della prima pietra del museo della Shoah.
   L'evento originariamente previsto per martedì mattina a villa Torlonia è stato subito bollato come "uno spot elettorale" dai discendenti di chi ha vissuto l'Olocausto. Non a caso, la scorsa settimana, era stata la Cer guidata da Ruth Dureghello a rispedire al mittente l'invito senza troppi ringraziamenti.
   Ora il nuovo strappo. Nella nota diramata dal Campidoglio grillino ieri sera, a poche ore dall'evento, era prevista la partecipazione dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, che ovviamente ricomprende quella romana. Una presenza che Noemi Di Segni, la presidente dell'Ucei, ha subito smentito categoricamente: "Non è vero, non ci sarò. Deve essere un errore del Comune. Abbiamo chiesto al Campidoglio di spostare l'iniziativa per ragioni di opportunità".
   Una risposta che la sindaca Virginia Raggi poteva ampiamente pronosticare. Di Segni, infatti, era già stata contattata nelle ultime ore da palazzo Senatorio. Al telefono aveva ribadito la sua assenza, sempre per motivi di opportunità. Le urne sono troppo vicine per presentarsi alla passerella allestita dalla sindaca uscente.
   Una posizione in linea con quella espressa dall'Unione delle comunità ebraiche italiane durante l'ultimo consiglio di amministrazione della Fondazione Museo della Shoah: "L'avvio dei lavori va rinviato a dopo le elezioni".
   E così sarà. Nella tarda serata di ieri è arrivato il dietrofront di Raggi. I lavori partiranno, ma senza alcun taglio del nastro. Ad annunciarlo ieri sera è stata la stessa sindaca sui social: "Come ho detto giorni fa, non voglio che questo tema diventi terreno di polemiche ingiustificate. Per questo ho deciso che non ci sarà una cerimonia pubblica per l'apertura del cantiere. La Comunità ebraica di Roma ha deciso di non essere presente. Rispetto la decisione, pur non condividendola. Come ho dimostrato in questi anni, non voglio alimentare contrapposizioni che farebbero male alla città e ai romani".
   Soprattutto su un'opera attesa ormai da 24 anni. L'inizio dei cantieri per il museo è stato annunciato per la prima volta nel 1997. La seconda nel 2005, quando in Campidoglio c'era Walter Veltroni. I lavori avrebbero dovuto prendere 18 mesi. Previsioni più che ottimistiche.
   Tornando alla cronistoria dell'opera, nel 2006 vengono almeno individuati gli spazi: il Comune acquista per 15 milioni un'area di villa Torlonia, a ridosso della residenza di Benito Mussolini. Da quel momento in poi, il progetto entra nel vortice dei bandi e dei ricorsi. Invecchia. Per il via libera degli uffici del Comune bisogna attendere il 2020. Quindi l'ultima bagarre. Gerusalemme, Washington, Berlino, Londra e Parigi hanno già un Museo della Shoah. Roma? Tra le polemiche, è ancora alla posa della prima pietra.

(la Repubblica, 14 settembre 2021)


Appello di 300 parlamentari perché le democrazie pongano fine alla discriminazione Onu contro Israele

Nel 2020, su 23 risoluzioni per violazione dei diritti umani 17 erano contro Israele, l’unico paese al mondo condannato dal Consiglio economico-sociale per presunte violazioni dei diritti delle donne.

Più di 300 parlamentari di paesi europei e nord-americani hanno sottoscritto un documento in cui si esortano le democrazie a porre fine al pregiudizio delle Nazioni Unite contro Israele. Nella petizione, pubblicata lunedì dall’AJC Transatlantic Institute, i 312 firmatari, appartenenti a diversi partiti dell’arco politico, chiedono agli stati membri dell’Unione Europea e alle altre democrazie di “aiutare a porre fine alla discriminazione sistematica dell’Onu contro Israele”....

(israele.net, 13 settembre 2021)


Tentato accoltellamento a Gerusalemme Ovest: feriti due civili israeliani e un palestinese

Due israeliani hanno riportato lievi ferite dopo essere stati attaccati da quello che Israele ha definito un “sospetto terrorista” armato di coltello, nei pressi della stazione centrale degli autobus a Gerusalemme, lunedì 13 settembre. L’attentatore, un giovane palestinese, è stato sparato dagli agenti di polizia giunti sul posto, rimanendo anch’egli ferito.
  Le vittime israeliane sono state attaccate mentre si trovavano in un negozio di Gerusalemme, il che ha spinto le forze di polizia di frontiera a precipitarsi sul luogo, dove hanno sparato contro l’attentatore. Il servizio di ambulanza Magen David Adom ha riferito che i due civili israeliani, di circa 20 anni, sono stati sottoposti a cure da parte di paramedici, che li hanno successivamente trasferiti al Shaare Zedek Medical Center. Stando a quanto riportato da fonti mediche, i due uomini, che hanno riportato ferite nella parte superiore, sono in condizioni stabili. L’attentatore, invece, un palestinese di 17 anni proveniente dalla zona di Hebron, versa in gravi condizioni, secondo quanto affermato dal comandante della polizia del distretto di Gerusalemme, Doron Turgeman. Quest’ultimo ha aggiunto che i propri agenti hanno altresì arrestato due uomini che si aggiravano nei pressi della stazione, sospettati di aver aiutato l’assalitore, mentre sono alla ricerca di altri 3 individui, anch’essi presumibilmente coinvolti nell’accaduto.
  “Vi è senza dubbio un’escalation” ha affermato il capo della polizia di Gerusalemme, facendo riferimento a una serie di altri attacchi simili perpetrati di recente. A tal proposito, nella medesima giornata del 12 settembre, un giovane palestinese è stato accusato di un tentato accoltellamento a Gush Etzion, un insediamento posto a Sud di Gerusalemme e Betlemme. Anche in tal caso, i soldati israeliani hanno sparato contro l’assalitore, che, a detta di fonti israeliane, stava correndo contro i militari agitando un coltello e urlando “Allah Akbar”. Nel pomeriggio del 10 settembre, un altro aggressore è stato colpito da colpi di arma da fuoco mentre tentava di accoltellare agenti di polizia nella Città Vecchia di Gerusalemme, alla porta del Consiglio della Città Vecchia. L’attentatore ha poi perso la vita per le ferite riportate.
  Il ministro della Difesa di Israele, Benny Gantz, il 13 settembre, ha elogiato l’ufficiale della polizia di frontiera che ha sparato al “terrorista”, così come i soldati israeliani che hanno sventato l’attacco all’incrocio di Gush Etzion. “Continueremo ad agire con risolutezza contro qualsiasi azione a danno dei cittadini israeliani”, ha dichiarato Gantz. Il gruppo palestinese Hamas, da parte sua, ha affermato: “L’escalation di accoltellamenti nella Gerusalemme occupata, le sparatorie, i crescenti scontri con la popolazione in Cisgiordania e le manifestazioni a Gaza rientrano nel quadro dell’intifada per la libertà lanciata dal popolo palestinese, in solidarietà con gli eroici prigionieri”. “Intensificare il ritmo delle operazioni con vari mezzi e strumenti è l’opzione migliore per affrontare l’occupazione sionista e costringerla a fermare i suoi crimini contro il nostro popolo e i nostri prigionieri”, ha aggiunto Hamas. Anche un portavoce del Jihad islamico palestinese, Daoud Shehab, ha dichiarato che quanto accade in Cigiordania e a Gerusalemme riflette la portata della crescente rabbia della popolazione, che si ribella contro le “politiche di aggressione” condotte da Israele.
  Le tensioni sembrano essersi intensificate in tutta la Cisgiordania a seguito della fuga di sei prigionieri palestinesi fuggiti, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, da Gilboa, una delle strutture di detenzione di massima sicurezza di Israele. Quattro dei sei prigionieri sono stati catturati dalla polizia israeliana, il 10 settembre, ma altri due sono ancora latitanti e i funzionari della sicurezza di Israele ritengono che possano nascondersi in Cisgiordania e ricevere assistenza dalla popolazione palestinese. A tal proposito, il 12 settembre, sono stati uditi colpi di arma da fuoco nella regione di Jenin, nel Nord della Cisgiordania. Secondo quanto riferito da fonti di sicurezza israeliane, questi sono stati sparati nel corso delle operazioni volte a rintracciare i due palestinesi evasi.
  Tra i fuggitivi catturati vi è Zakaria Zubeidi, 46 anni, un leader della Brigata dei martiri di al-Aqsa, affiliata al movimento Fatah. Egli era detenuto dal 2019, dopo essere stato accusato di “diversi attacchi letali”. Zubeidi ha rappresentato una figura di spicco durante la Seconda Intifada e nel 2007 aveva ottenuto l’amnistia da Israele, poi revocata nel 2011, il che ha costretto il leader alla fuga, fino al 2019. In totale, cinque fuggitivi, Munadil Nafayat, Mahmoud e Mohammad al-Arida, Iham Kahamji, e Yaqoub Qadiri appartengono al Movimento per il Jihad Islamico.
  Il carcere di Gilboa si trova a circa 4 chilometri dal confine con la Cisgiordania e ospita i palestinesi accusati o sospettati di aver commesso operazioni a danno di Israele, attacchi letali inclusi. Secondo un’organizzazione non governativa palestinese, Addameer for Prisoner Care and Human Rights, la prigione, istituita sotto la supervisione di esperti irlandesi e aperta nel 2004, è tra le più sorvegliate e gode di un livello di sicurezza “molto elevato”. L’evasione, considerata “estremamente insolita”, è avvenuta tramite un tunnel, di “decine di metri”, scavato dai detenuti stessi, e si pensa che questi abbiano ricevuto anche aiuto dall’esterno, comunicando con presunti alleati tramite cellulari ritrovati all’interno della cella.

(Sicurezza Internazionale, 13 settembre 2021)


Caso Eitan, ministero Esteri Israele: "Non è di nostra competenza"

Smentite le notizie sul parere legale favorevole alla 'restituzione' del piccolo. L'ex ambasciatore: "Israele rispetta le leggi internazionali".

Tragedia della funivia del Mottarone, le autorità israeliane prendono le distanze dalla vicenda del piccolo Eitan, smentendo la ricostruzione dell'emittente Channel 12, secondo la quale il ministero degli Esteri e quello della Giustizia avevano espresso il parere legale che il bambino venisse riportato in Italia e restituito al tutore legale. Lo riporta il Jerusalem Post, riferendo che entrambi i ministeri negano la circostanza. Un portavoce del ministero degli Esteri ha invece riferito al Jerusalem Post che, pur essendo le autorità israeliane informate della vicenda, il caso non riveste aspetti diplomatici o politici e quindi non rientra tra le loro competenze.

• L'ex ambasciatore: "Israele rispetta leggi internazionali"
  "Non so quale sarà la decisione, ma Israele rispetta sempre le leggi internazionali. E' quello che posso dire". Lo afferma ad Aki-Adnkronos International l'ex ambasciatore d'Israele in Italia, Avi Pazner, a proposito dell'attivazione della Convenzione dell'Aja sul caso del piccolo Eitan. La Convezione, datata 1980, prevede - nei casi di sottrazione internazionale - di assicurare il ritorno del minore presso il suo tutore legale e il Paese di residenza.
   "Israele fa sempre bene a rispettare la legge internazionale. Non sono un esperto e non voglio esprimere opinioni personali", aggiunge Pazner.

(Adnkronos, 13 settembre 2021)


Cosa sappiamo del rapimento di Eitan Biran, portato in Israele

È il bambino sopravvissuto all'incidente del Mottarone, affidato ai parenti paterni in Italia e portato via dal nonno materno

La vicenda che vede coinvolto Eitan Biran, il bambino di sei anni unico sopravvissuto dell’incidente della funivia del Mottarone, è complessa e dolorosa e viene raccontata dalla famiglia materna e da quella paterna in due maniere del tutto opposte. Sabato 11 settembre Eitan, che dopo essere sopravvissuto all’incidente aveva vissuto in provincia di Pavia con la zia paterna, è stato portato in Israele dal nonno materno, Shmuel Peleg, che, senza il consenso dell’altro ramo familiare, l’ha condotto fuori dall’Italia prima in auto fino alla Svizzera e poi con un volo privato da Lugano a Tel Aviv. Il ramo familiare paterno parla esplicitamente di «rapimento». Quello materno replica: «Abbiamo rispettato la volontà dei genitori che non ci sono più. Loro volevano far crescere i loro bambini in Israele».
  Il 23 maggio, alle 12.30, la funivia che da Stresa conduce alla vetta del monte Mottarone, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, precipitò per la rottura di una fune (l’inchiesta della magistratura per accertare le responsabilità è in corso). A bordo c’erano 15 persone, morirono in 14. Si salvò Eitan Biran, che perse il fratello Tom, di due anni, il padre Amit Biran, la madre Tal Peleg Biran e i bisnonni Itshak e Barbara Cohen. Eitan è nato in Israele ma è cresciuto in Italia, a Pavia. Il padre, Amit, lavorava alla scuola ebraica di Milano, la madre aveva studiato psicologia a Pavia e stava per iniziare un tirocinio alla clinica Maugeri.
  Dopo l’incidente e dopo aver trascorso parecchie settimane in ospedale, Eitan, che ancora oggi si muove con l’aiuto di un girello a causa dei traumi subiti alle gambe, era andato a vivere con la famiglia della zia paterna Aya Biran, a Trivocò Siccomario, nel pavese, non lontano da dove abitava con i genitori. La zia era stata indicata dal tribunale di Pavia come tutrice legale del bambino.
  Nelle intenzioni della famiglia Biran, Eitan dovrebbe continuare a vivere in Italia: il bambino era stato iscritto a scuola e a Pavia continuava a seguire sedute di fisioterapia e di psicoterapia. Questa settimana avrebbe dovuto fare un controllo in ospedale. La decisione del tribunale italiano era stata contestata duramente dalla famiglia Peleg, cioè il ramo materno: secondo i nonni e le zie, più volte i genitori del bambino avevano espresso la volontà di tornare a vivere in Israele. I Peleg avevano anche detto che Tal e Amit si rivolgevano a Eitan in ebraico, che parlavano in continuazione di Israele e di ebraismo. E a sostegno delle loro affermazioni citavano anche il fatto che Tal e Amit fossero stati sepolti in Israele.
  Il tribunale di Pavia aveva sempre respinto i loro ricorsi e aveva anche intimato al nonno Shmuel Peleg di restituire il passaporto israeliano del bambino (Eitan ha doppio passaporto, israeliano e italiano). Shmuel avrebbe dovuto farlo entro il 30 agosto ma la decisione del tribunale non era stata rispettata. L’11 agosto le sorelle della mamma di Eitan, Gali e Aviv, e il fratello Guy, avevano tenuto una conferenza stampa accusando la zia paterna Aya Biran di non dare loro notizie del bambino e di tenerlo segregato in Italia.
  Sabato mattina Shmuel Peleg ha preso Eitan, l’ha fatto salire su un aereo privato e i due sono volati fino a Tel Aviv. Il nonno si era presentato due ore prima davanti alla villetta dove vive Eitan per una delle due visite settimanali concordate in tribunale. Secondo quanto raccontato dalla zia paterna ai giornali, Shmuel ha detto che sarebbe andato a comprare giocattoli con Eitan e poi non ha dato notizie fino alle 18.30.
  A quel punto sul telefono cellulare di Aya è arrivato un messaggio da parte della zia materna Gali Peleg: «Eitan è a casa», ha scritto. Ora Eitan sarebbe, secondo quanto detto sempre dalla zia materna, a fare dei controlli all’ospedale Tel HaShomer di Tel Aviv.
  A Pavia è stata aperta un’inchiesta: il reato ipotizzato è sequestro aggravato di persona. Secondo l’avvocata Cristina Pagni, che assiste civilmente Aya Biran, Eitan non poteva espatriare, se non accompagnato dalla zia paterna.
  Non è probabilmente casuale che Eitan sia stato portato via proprio il sabato precedente all’inizio della scuola. Il bambino era stato iscritto a una scuola cattolica, una decisione molto contestata dalla famiglia Peleg: «Deve frequentare una scuola ebraica», avevano detto durante la conferenza stampa dell’11 agosto. Alla base dell’astio tra i due gruppi ci sarebbe anche altre questioni, almeno a quanto sostiene Etty Peleg, la nonna di Eitan da parte di madre, secondo cui la sua famiglia, sefardita (cioè originaria della penisola iberica o di altri paesi mediterranei), sarebbe disprezzata dai Biran, di origine invece ashkenazita (cioè originaria dell’Europa orientale): «La loro», aveva dichiarato Etty al giornale isrealiano Israel Hayom, «è la tipica alterigia europea».
  In più ci sarebbero anche ragioni politiche. Sempre Etty aveva detto: «Non ho mai nascosto che noi siamo di destra», alludendo al fatto che invece la famiglia Biran avrebbe simpatie più di sinistra. Etty Peleg nell’intervista ha detto che sua nipote e il marito avevano già comprato un appartamento nella città di Ramat HaSharon, vicino a Tel Aviv, segno evidente della loro volontà di tornare a vivere in Israele.
  La famiglia Peleg non sembra affatto preoccupata di aver violato delle disposizioni di un tribunale italiano. Aya Biran, che non aveva mai replicato prima alle accuse provenienti da Israele, ora chiede l’immediato ritorno del bambino in Italia secondo quanto disposto dalla legge italiana e dalla convenzione dell’Aia in materia di tutela dei minori. La convenzione, a cui aderisce anche Israele, stabilisce che in caso di sottrazione internazionale di minore si faccia ricorso ai giudici dello stato dove è stato condotto il bambino. Se viene riscontrata una sottrazione illecita il giudice deve ordinare il rimpatrio nel paese di residenza. A quel punto le decisioni spettano di nuovo ai tribunali italiani. Per gli avvocati della famiglia Biran non c’è alcun dubbio che si debba seguire quanto stabilito dalla convenzione dell’Aia: l’aver portato Eitan in Israele è una sottrazione illecita perché chi lo ha portato via non aveva la sua custodia.
  Le due famiglie, tra Italia e Israele, si lanciano ora accuse pesanti. Dice Gali Peleg: «Prima il bambino era in condizioni mentali non buone. Al termine delle nostre visite piangeva, chiedeva se aveva fatto qualcosa di male. Quando è sbarcato l’altro giorno a Tel Aviv ha detto: finalmente sono a casa». Ai giornalisti che le chiedevano di replicare, Aya Biran ha detto: «Io, mio fratello e sua moglie abbiamo condiviso la crescita dei bambini, li abbiamo allattati insieme. Sono stati anni di gite con i passeggini, di pomeriggi passati nella piscinetta in giardino. Sono gli scatti dei nostri momenti insieme, tra dubbi, studi, lavoro, le nostre festività, i Shabbat insieme».
  La zia tutrice ha anche detto che Shmuel Peleg è stato condannato in via definitiva in Israele per maltrattamenti all’ex moglie (non c’è però ancora riscontro ufficiale a questa notizia). In una dichiarazione riportata da La Stampa, Aya Biran ha detto: «Siamo molto preoccupati. È un’altra tragedia per Eitan. Un’altra separazione. Io gli lasciavo i miei occhiali quando andavo in bagno per fargli carpire che sarei tornata». Da Isreaele replicano: «Siamo stati obbligati ad agire così, non avevamo notizie sulle sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui. Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto, era felice».
  Dopo quella a Pavia, è stata presentata una denuncia contro Shmuel Peleg per sottrazione di minore anche in Israele, per fare in modo che venga aperta un’inchiesta della magistratura di Tel Aviv. Il prossimo passo probabilmente sarà la richiesta, da parte della magistratura italiana, di una rogatoria internazionale. I tempi, però, non saranno brevi.

(il Post, 13 settembre 2021)


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La guerra delle famiglie "Soffre, fatelo tornare" "No, la sua casa è qui"

AYA BIRAN, sorella di Amit, padre di Eitan
È stato portato via con l’inganno. Da noi era felice, giocava con le mie due figlie
GALI PELEG sorella di Tal, madre di Eitan
Non è un rapimento Abbiamo agito per il suo bene attuando la volontà dei genitori

di Paolo Berizzi, Pavia
e Sharon Nizza, Tel Aviv

«Sembra un film di Hollywood scritto male». Dice così, a metà pomeriggio, la zia paterna Aya Biran. «Siamo sconvolti, l’hanno rapito». Replica della zia materna Gali Peleg, che ad agosto ha annunciato di aver avviato le pratiche per l’adozione del nipotino: «No, non l’abbiamo rapito: l’abbiamo portato a casa. Siamo stati obbligati, non abbiamo più saputo quali fossero le condizioni mentali e di salute del bambino». Ancora Aya, la tutrice: «Eitan stava facendo un percorso di recupero: adesso questo percorso è stato interrotto ». No, ribatte Gali Pelag in un’intervista alla radio israeliana: «Il nostro amato Eitan è tornato in Israele dopo aver perso tutta la sua famiglia, così come volevano i suoi genitori. Dal momento in cui è arrivato qui, è in cura presso l’ospedale Sheba Tel Hashomer dove è trattato da uno staff medico di primo livello, a causa delle condizioni complesse e delicate in cui si trova».
   Due famiglie: quella del papà e quella della mamma di Eitan Biran. Due famiglie e in particolare due zie che, da più di un mese, si contendono il nipotino rimasto orfano. Avvocati, denunce, ricorsi, tribunali: una guerra che pare surreale: un supplemento di pena per Eitan. «Prima il bambino era in condizioni mentali non buone. Al termine delle nostre visite piangeva, chiedeva se aveva fatto qualcosa di male», ha attaccato Gali Peleg. «Eitan stava benissimo qui con noi, giocava con le sue cuginette ed era pronto ad andare a scuola», ribatte Aya. Che le due famiglie avessero idee diverse sul futuro di Eitan si era capito già durante i 19 giorni del ricovero in ospedale a Torino. Nonni e zii materni ipotizzavano il trasferimento a Tel Aviv; zia Aya aveva ribattuto: «Abbiamo condiviso la crescita dei bambini, li abbiamo allattati insieme. Sono stati anni di gite con i passeggini, di pomeriggi passati nella piscinetta in giardino. Sono gli scatti dei nostri momenti insieme, tra dubbi, studi, lavoro, le nostre festività, i Shabbat insieme». Poi i rapporti sono degradati. Quando le hanno domandato della tutela del bambino data dal giudice italiano a Aya, Gali Peleg ha risposto: «A noi il lato legale non interessa. Non ci interessa la convenzione dell’Aja. A noi interessa solo il bene di Eitan. Abbiamo agito solo per il suo bene. Cosa avremmo potuto mai dirgli se, da grande, ci avesse rinfacciato di non averlo riportato in Israele?». Tra un botta e riposta e l’altro, si è aperta un’inchiesta per sequestro di persona. Dice lo zio Or Nirko, marito di Aya: «Io me lo sentivo dall’inizio che quella famiglia avrebbe fatto qualcosa di sporco per aggirare la legge italiana. Ma arrivare al punto di organizzare un sequestro… ». Adesso è battaglia legale. Alla denuncia per sequestro di minorenne presentata sabato da Aya alla polizia italiana, ieri mattina se ne è aggiunta una seconda, sporta in Israele contro Shmuel Peleg, il nonno materno di Eytan che l’ha prelevato da casa di Aya senza farvi più ritorno. La denuncia sul suolo israeliano accelererà l’apertura di un’inchiesta locale, che fino a ieri non era stata avviata in quanto non ancora giunta la richiesta di rogatoria internazionale. Se non interverrà prima l’autorità giudiziaria, il primo confronto tra le parti potrebbe svolgersi il 22 ottobre, quando è convocata al Tribunale per i Minorenni di Milano l’udienza richiesta dalla famiglia Peleg per reclamare la nomina della zia paterna come tutrice del bambino.

(la Repubblica, 13 settembre 2021)


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«L’identità non c'entra: si cresce anche nel deserto» 

Intervista a Mila Hasbani, presidente della Comunità ebraica milanese.

di Fabrizio Guglielmini 

«Il tema dell'identità ebraica non c'entra niente con questo caso, purtroppo molto tormentato, siamo davanti a una dimensione tutta privata e familiare con una svolta che non ci aspettavamo». Il presidente della Comunità ebraica milanese Milo Hasbani prende una posizione netta sulla vicenda del piccolo Eitan. 

- Come giudicate questo atto che coinvolge l’Italia e Israele? 
  «Condanniamo e giudichiamo gravissimo il sequestro di Eitan e ci sembra quasi assurdo dover dire che un buon ebreo può crescere ovunque, anche nel deserto, e spero che la sua vicenda non venga strumentalizzata per fini politici». 

- Sui social si sono susseguiti commenti anche negativi su Israele 
  «Ho letto diversi commenti, alcuni molto poco piacevoli. Le critiche si possono accettare ma stiamo andando fuori contesto: viene messo di mezzo Israele in modo non pertinente». 

- Quale valutazione sulla decisione dell'affido? 
  «Noi viviamo qui e ci sottoponiamo ovviamente alle autorità italiane e alla loro scelta di affido del bambino». 

- Nei mesi scorsi avete aiutato i parenti delle vittime? 
  «Subito dopo il disastro del Mottarone ci siamo attivati su ogni fronte possibile - da quello ospedaliero a quello legale - per dare assistenza a tutti i parenti delle vittime israeliane». 

- Come si è arrivati a un gesto così estremo? 
  «Il tribunale dei minori di Torino ha dato parere positivo per l'affido del piccolo alla zia patema Aya ma questo giudizio è sempre stato contestato dalla famiglia Peleg ed ora assistiamo alle conseguenze di questo scontro». 

(Corriere della Sera, 13 settembre 2021)


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Il caso Eitan e il rabbino capo: «Ospitammo quella famiglia, ora siamo davvero sgomenti»

Il piccolo, sopravvissuto alla tragedia della funivia, rapito dal nonno materno. Ariel Di Porto: «Mai avremmo immaginato questa situazione»

di Massimo Massenzio

«Siamo sgomenti, non pensavamo si potesse arrivare a tanto». Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino, ha commentato così il rapimento del piccolo Eitan Moshe Biran da parte del nonno materno Shmuel Peleg. Il bambino israeliano di sei anni, che nel crollo della funivia sul Mottarone ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni, era stato ricoverato per 19 giorni nell’ospedale infantile Regina Margherita.
   Sin dalla sera della tragedia, avvenuta lo scorso 23 maggio, al suo fianco c’è stata la zia Aya Biran Nirko sorella di papà Amit. Il padre di Eitan aveva scelto di trasferirsi a Pavia proprio per seguire le sue orme e iscriversi alla facoltà di medicina. Da molti anni, infatti, Aya lavora in Lombardia ed è medico del carcere di Vigevano. Il Tribunale di Torino l’ha poi nominata tutrice legale di Eitan, con una decisione che è stata confermata anche dal giudice tutelare di Pavia, ma mai stata accettata dalla famiglia Peleg.
   Sin dai tempi del ricovero al Regina Margherita i genitori e la sorella di Tal Peleg, la mamma di Eitan, hanno sostenuto che i genitori del piccolo avessero intenzione di tornare in Israele.
   A Torino sono stati ospitati in una casa di via Madama Cristina, grazie all’aiuto di una famiglia vicina alla comunità ebraica: «Abbiamo avuto rapporti con entrambe le famiglie e, per quanto fosse nelle nostre possibilità, abbiamo cercato di dare loro il nostro supporto – ricorda Di Porto –. Certe reazioni, a caldo, subito dopo una tragedia enorme, potevano essere anche comprensibili. Ci aspettavamo però che la situazione migliorasse dopo il miglioramento e le dimissioni del bambino. E soprattutto nel suo interesse».
   E invece, dopo le prime schermaglie, un mese fa i legali della famiglia Biran hanno accusato la zia paterna di «tenere in ostaggio in Italia» il piccolo. Annunciando anche la richiesta di adozione del bimbo. Gali Peleg, sorella di Tal, aveva motivato la decisione sostenendo che «Eitan ha diritto di avere una casa nella quale i suoi genitori avrebbero voluto che crescesse. Come ebreo in una scuola ebraica, e non in una scuola cattolica in Italia».
   Con quelle affermazioni i rapporti si sono definitivamente incrinati, ma nessuno si aspettava un epilogo del genere: «Dopo il trasferimento di Eitan da Torino a Pavia la nostra comunità ha mantenuto solo rapporti di cortesia con le famiglie – aggiunge il rabbino -. Saluti, auguri, cose così. Quindi non abbiamo mai avuto informazioni di prima mano, ma i sentori di quello che stava succedendo ci sono arrivati. Non avremmo però mai immaginato una cosa del genere».
   Sabato mattina nonno Shmuel si è presentato nella villetta di Travacò Siccomario, in provincia di Pavia, dove Eitan vive assieme agli zii paterni e alle cuginette. Era in programma un incontro concordato fra i legali e il bimbo avrebbe dovuto fare ritorno a casa nel pomeriggio. Ma la zia Aya non l’ha più visto. Il nonno materno l’ha portato in Israele, forse con un volo privato. Gali ha dichiarato a una radio israeliana di «aver agito per il bene di Eitan», ma la Procura di Pavia ha aperto un’inchiesta per sequestro di persona. «Purtroppo a fare le spese di tutta questa vicenda è proprio Eitan – conclude Ariel Di Porto –, un bambino che sta già affrontando una grande sofferenza».

(Corriere della Sera - Torino, 13 settembre 2021)


Quarta dose Israele, prof. Ash: “Siamo pronti”. “Speriamo che la terza duri più di sei mesi”

In Israele sono già pronti a somministrare la quarta dose di vaccino: ecco il commento del professor Nachman Ash, direttore generale del ministero della Salute.

di Davide Giancristofaro Alberti

Israele è la prima nazione al mondo che ha fatto partire la campagna di vaccinazione anti covid, nonché quella che ha iniziato la somministrazione della terza dose e che ha già in programma una quarta inoculazione. Così come riferito dai media in questi ultimi giorni, Israele si sarebbe portata avanti, garantendosi una fornitura di vaccini sufficiente appunto a coprire un eventuale nuovo richiamo in più dopo la terza dose, così come affermato dal professor Nachman Ash, direttore generale del ministero della Salute, intervenendo nelle scorse ore ai microfoni dell’emittente radiofonica Radio 103FM: “Non sappiamo quando accadrà; spero davvero che non avvenga entro sei mesi, come questa volta, e che la terza dose duri più a lungo”.
   I dati che giungono da Israele sono preoccupanti in quanto il calo della copertura dei vaccini contro il covid è stato drastico, ma ciò, secondo gli esperti, è dovuto principalmente al fatto che il virus che circolava a dicembre 2020/gennaio 2021, era un virus completamente diverso rispetto a quello attuale, rimpiazzato di fatto dalla Variante Delta. “I vaccini svaniscono nel tempo – ha aggiunto ancora Nachman Ash parlando su maariv.co.il – e dopo sei mesi di calo significativo le persone si infettano anche dopo due vaccini”.

• QUARTA DOSE ISRAELE, ASH: «CI STIAMO PREPARANDO, SE NECESSARIO SAREMO PRONTI»
  Quindi sulla quarta dose ha ribadito: “Non sappiamo quando verrà approvato il vaccino, io spero vivamente che non sia entro sei mesi e che il terzo vaccino duri più a lungo. Stiamo iniziando a prepararci in modo da avere scorte di vaccini, se necessario”.
   Il professore ha parlato anche del vaccino anti covid per gli under-12: “Stiamo aspettando l’approvazione della FDA per quanto riguarda i vaccini per bambini, stimo che entro due o tre mesi arriverà”. Secondo il direttore generale del ministero della Salute si tratta di “Una questione delicata e vogliamo essere al sicuro”. Al momento, quindi, per la quarta dose regna l’incertezza, come è giusto che sia del resto.

(ilsussidiario.net, 13 settembre 2021)


"Israele si sarebbe portata avanti, garantendosi una fornitura di vaccini sufficiente a coprire un eventuale nuovo richiamo in più dopo la terza dose". Il richiamo in più arriverà, arriverà, se ne può star certi: lo richiede il mercato gestito dalle multinazionali farmaceutiche. E Israele deve dare al mondo il buon esempio . M.C.


"La casa di Eitan è in Italia". "No è in Israele"

Media israeliani preoccupati per l'evoluzione della vicenda

Toni preoccupati sui media israeliani per l'evoluzione della vicenda legata a Eitan Biran, il piccolo unico sopravvissuto alla strage del Mottarone. Il bambino di sei anni è da mesi al centro di una contesa tra la famiglia materna, che vive in Israele, e quella paterna, che vive a Pavia. Una contesa che ha avuto un'evoluzione drammatica nelle ultime 24 ore, con la decisione del nonno materno, Shmuel Peleg, di sottrarlo alla custodia della zia paterna Aya Biran, nominata sua tutrice legale, e portarlo in Israele. Qui la notizia è stata accolta con stupore e con molta preoccupazione per il benessere del piccolo. Tanti gli aspetti da chiarire in questa vicenda molto delicata e dolorosa, il cui ultimo capitolo è l'apertura di un'indagine per sequestro di persona da parte della procura di Pavia dopo la mossa della famiglia materna. Parte della famiglia che vorrebbe veder crescere e vivere Eitan in Israele. La zia paterna, a cui è stata data la tutela legale dal Tribunale di Torino, ha invece iscritto il bambino nella stessa scuola delle sue figlie nel pavese. La sua casa, ha dichiarato in queste ore Biran, è l'Italia. Eitan è “cittadino italiano, non solo israeliano. Pavia è la casa dove è cresciuto, noi lo aspettiamo qui, siamo molto preoccupati per la sua salute”, le sue dichiarazioni. Il fatto che sia stato portato via, prosegue, è una “mossa unilaterale e gravissima della famiglia Peleg” perché “il nonno materno Shmuel Peleg è stato condannato per maltrattamenti nei confronti della sua ex moglie, la nonna materna e tutti i suoi appelli sono stati respinti in tre gradi di giudizio”.
  In mattinata a parlare era stata invece Gali Peleg, intervistata dalla radio israeliana 103 Fm. “Non lo abbiamo rapito e non useremo quella parola, l'abbiamo portato a casa e abbiamo dovuto farlo perché non avevamo notizie sulla sua salute e la sua condizione mentale”. I due conduttori, Ynon Magal e Ben Caspit, le hanno chiesto con un certo allarme come sia stato portato in Israele il bambino, da chi e dove si trovi ora. Domande a cui Peleg non ha risposto. Secondo fonti dell'agenzia Agi, il trasferimento dall'Italia a Israele sarebbe avvenuto con un volo privato. Un passaggio da chiarire, sottolineano i media di entrambi i paesi, che spiegano come la famiglia materna avesse in custodia il passaporto del bambino, ma che il tribunale italiano ne aveva chiesto la restituzione. “Abbiamo portato a casa Eitan seguendo ciò che i suoi genitori volevano e speravano. - ha sostenuto Peleg alla radio, dichiarando che tra la sorella e Aya non ci fossero molti rapporti nonostante vivessero nella stessa città - Mia sorella e suo marito avevano programmato di tornare quest'anno in Israele, ma a causa della pandemia hanno posticipato un po'. Sei mesi fa abbiamo parlato del loro ritorno. Amit - la sua ricostruzione - si era anche iscritto qui per studiare all'Università di Ariel”. Alla domanda di Caspit - che non ha nascosto una certa perplessità pur evitando di puntare il dito contro nessuno - se non fosse preoccupata per eventuali violazioni della legge e delle stringenti regole della Convenzione de L'Aja (relativa alla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale), la zia materna ha risposto “a noi non interessa la Convenzione, non interessano i tribunali, ma il bene del bambino”.

(moked, 12 settembre 2021)


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"La decisione sul rientro di Eitan spetta ai giudici israeliani. I tempi saranno lunghi"

"Ci sono casi in cui il Paese in cui è stato condotto il minore può rifiutarsi di restituirlo"

di Alessandra Ziniti

ROMA -  Comunque vada la caccia al nonno rapitore, non sarà affatto facile far tornare Eitan in Italia in tempi brevi. Potrebbe passare un anno o forse anche di più. L’avvocato Lorenzo Puglisi del Foro di Milano, specializzato in diritto di famiglia, di sottrazioni di minori portati all’estero ne ha viste parecchie.

- Che succederà adesso ad Eitan?
  «Ci sono due strade che i familiari a cui il bambino è stato sottratto possono seguire: quella della denuncia penale perchè è stato commesso un reato che prevede e l’arresto e la condanna da 1 a 4 anni, e quella civile che passa per la Convenzione dell’Aia del 1980 che è stata firmata da Italia e Israele».

- Se il nonno del bambino venisse arrestato in Israele e l’Italia chiedesse la sua estradizione, Eitan rientrerebbe subito in Italia?
  «No, le due procedure sono slegate. Per il ritorno del bambino serve l’intervento delle Autorità centrali dei due Paesi o un ordine di rientro firmato dal giudice israeliano. E nulla di tutto ciò è semplice e breve».

- Cosa può fare dunque la famiglia italiana per riavere il bimbo?
  «La prima cosa da fare è rivolgersi all’Autorità centrale presso il dipartimento tutela dei minori che prenderà contatto con l’ Autorità centrale israeliana che dovrà cercare di localizzare il bambino e poi avviare un meccanismo di mediazione familiare per il rientro spontaneo del piccolo in Italia».

- Questo presuppone la volontà della famiglia israeliana di restituire Eitan che, viste le circostanze, sembra improbabile. E se non si raggiunge l’accordo?
  «Allora la decisione spetta al tribunale civile israeliano che dovrà aprire un procedimento giudiziario a cui spetta la decisione di un eventuale ordine di rimpatrio naturalmente dopo aver fatto un’istruttoria, sentiti psicologi, assistenti sociali, familiari e verificato l’interesse superiore del bambino».

- Significa che il giudice potrebbe anche decidere di far rimanere Eitan in Israele?
  «Ci sono dei casi in cui il Paese in cui è stato condotto il minore può rifiutarsi di consegnarlo. Ad esempio se i servizi sociali dicono che il bambino in Italia si ritroverebbe in una situazione di rischio o di maltrattamento, o comunque di sofferenza. Ma la famiglia italiana dalla sua ha un affidamento e dovrebbe essere quella israeliana a provare la sua inadeguatezza».

- Nel frattempo saranno passati mesi e il bambino si sarà integrato in un altro contesto.
  «E anche questo, in assenza di familiari di primo grado a cui ricongiungersi conta. Il vero problema è la tempestività, spesso i tempi si dilatano. E poi le modalità di questo rapimento lasciano pensare che il nonno possa avere un certo peso. È verosimile ipotizzare che il giudice emetterà un ordine di rientro ma poi anche per la semplice esecuzione potrebbero passare altri mesi».

(la Repubblica, 12 settembre 2021)


Ministro Gantz: base aerea iraniana usata per “addestrare gruppi terroristici”

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha rivelato la posizione di una base aerea iraniana che sarebbe utilizzata per “addestrare gruppi terroristici”. Lo ha affermato Gantz durante una conferenza sull’antiterrorismo. "L'Iran ha favorito la creazione di gruppi terroristici organizzati che lo aiutano a raggiungere i suoi obiettivi economici, diplomatici e militari", ha detto il ministro. “Uno degli strumenti che l'Iran ha sviluppato sono droni in grado di percorrere migliaia di chilometri situati in Yemen, Iraq, Siria e Libano”, ha proseguito Gantz, evidenziando che Teheran sta cercando di trasferire le sue conoscenze al movimento palestinese Hamas, situato nella Striscia di Gaza.

(Agenzia Nova, 12 settembre 2021)


La sinistra cieca con i terroristi

Forse Massimo D'Alema ignora che la lista dei terroristi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu mette in testa il primo ministro talebano Mohammed Hassan Ahud e a seguire molti altri dei suoi.

di Fiamma Nirenstein

Forse Massimo D'Alema ignora che la lista dei terroristi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu mette in testa il primo ministro talebano Mohammed Hassan Ahud e a seguire molti altri dei suoi. L'ex premier ed ex ministro degli Esteri italiano, schivando questo dato di fatto, snobba l'Onu - che pure dovrebbe essere un suo punto di riferimento - e fa dei talebani, nella sua intervista al Domani, un'organizzazione fondamentalista ma non terrorista, con cui si può, anzi, si deve trattare.
    È un punto di vista costruito sulla presuntuosa illusione etnocentrica che anche il jihadismo islamico più dichiarato si possa dribblare con l'appeasement. Un approccio praticato senza successo dall'Occidente sin dall'inizio del XX secolo, attraverso due guerre mondiali e una guerra fredda. È però molto pericoloso adottare l'idea cardine del pacifismo intransigente, secondo cui l'aiuto economico può tarpare ogni guerra, la legge internazionale è l'antidoto al genocidio e la negoziazione crea «processi di pace». Nasconde la paura di mostrarsi islamofobi e D'Alema - in modo tipico di certa sinistra - cancella la verità: ovvero che, anche se non tutto il mondo musulmano combatte per il Califfato, questa idea è comunque radicata nei testi religiosi e nel perseguimento della sharia. Ed è l'idea alla base non solo dell'Isis e di Al Qaida, ma di Hamas, di Hezbollah, dell'Iran che li nutre e ovviamente anche dei talebani. Tutte organizzazioni che D'Alema si illude non facciano parte della compagine terrorista. D'Alema crede che questi gruppi di assassini seriali di civili siano malleabili, e questa è una cieca perversione. Come quella di rimpiangere che la Fratellanza Musulmana non sieda alla guida dell'Egitto.
    È nella forza della jihad stessa, e non nei tentativi a volte goffi e sbagliati dell'Occidente di tamponarla, che risiede il rischio per tutti noi. La battaglia è contro la sofferenza inferta alla nostra civiltà dal terrorismo. Al contrario, D'Alema ha fornito un mattone alla cultura islamista, per cui il debole nemico in fuga e in confusione sarà sconfitto. Diceva lo storico Walter Laqueur che decenni di discussione sul terrorismo non hanno condotto a una definizione valida per tutti. È vero: il tuo terrorista può essere il mio freedom fighter, il liberatore.
    È un senso di perdita e di incertezza quello che si ricava dalle parole di D'Alema, pervase da un senso di colpa per cui è la nostra incapacità di pacificazione che crea il rischio. Non è così: il rischio consiste nell'utopia post moderna di poter giocare al «negoziato» con una cultura che legge il rapporto con noi solo in termini di vittoria o sconfitta, forza e debolezza.

(il Giornale, 12 settembre 2021)


In Israele aumentano contagi e casi gravi

Dopo alcuni giorni di calo, sono tornati a salire i positivi al coronavirus: una larga maggioranza di persone con sintomi severi non è vaccinata.
   Dopo alcuni giorni di calo, sono tornati a salire i casi di coronavirus in Israele: nelle ultime 24 ore sono stati segnalati 10.084 contagi, con un tasso del 6,6%, a fronte di 155’871 test, un numero alto visto che ieri era shabbat, il tradizionale giorno di riposo ebraico.
   Di nuovo in salita anche il numero dei malati gravi, arrivati a 697, e l’Rt che si attesta ora a 0,96 mentre nei giorni scorsi era sceso a 0,80.
   Continua intanto a crescere la quota di Israeliani che anno ricevuto la terza dose: ad oggi sono 2.800.000. Nei giorni scorsi Sharon Alroy-Preis, direttrice dei servizi di salute pubblica nel Ministero della sanità, ha detto che una larga maggioranza dei nuovi casi gravi si riferisce a «persone non vaccinate».

(Corriere del Ticino, 12 settembre 2021)


Eitan portato in Israele dal nonno. «Rapito usando un aereo privato»

Il bambino scampato al Mottarone. Il legale: «Siamo sconvolti». I pm di Pavia: è un sequestro .

di Giuseppe Guastella

MILANO - Quando hanno cominciato a cercarlo, Eitan probabilmente era già in Israele dove l'ha portato su un volo privato il nonno materno grazie a un colpo di mano che ricorda molto i blitz dei servizi segreti di cui sembra faccia o abbia fatto parte.
   Unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone in cui tra i quattordici morti c'erano i suoi genitori e il fratellino, a sei anni appena compiuti Eitan Biran, che i parenti in Israele hanno sempre sostenuto dovesse crescere nella loro terra, ora è costretto ad affrontare anche lo shock di un trasferimento sul quale la Procura di Pavia indaga per «sequestro di persona».
   Come permesso dal giudice tutelare di Pavia, ieri pomeriggio il nonno materno, Shmulik Peleg, 58 anni, che si era trasferito in Italia dopo la tragedia del Mottarone ha prelevato Eitan dall'abitazione di Pavia della zia paterna alla quale il piccolo è stato affidato dalla magistratura da quando è stato dimesso dall'ospedale dove è rimasto a lungo per le ferite riportate nell'incidente della funivia del 23 maggio. Il rientro era previsto per le 18,30, ma al termine dell'incontro Peleg ed Eitan non si sono ripresentati a casa dei parenti paterni i quali un'ora dopo hanno dato l'allarme. I primi accertamenti della Polizia di Pavia, coordinati dal procuratore facente funzioni Mario Venditti e dal sostituto Roberto Valli, hanno concluso che nonno e nipote si erano imbarcati su un volo privato a bordo del quale il bambino è potuto salire perché - non si sa come - Peleg era in possesso del passaporto del piccolo, che ha permesso l'espatrio.
   Una conferma dello sbarco in Israele è arrivata per vie diplomatiche ai magistrati pavesi i quali domani apriranno formalmente un fascicolo con l'ipotesi di reato di sequestro di persona. .
   Il bambino è finito al centro di una disputa aperta dalla zia materna da Tel Aviv che ha accusato la zia paterna di voler trattenere con sé Eitan in Italia. «Siamo determinati a circondarlo di calore e di affetto», aveva detto la signora da Tel Aviv, aggiungendo che per la sorella «erano importanti l'identità ebraica e quella israeliana» ma che questa sarebbe stata progressivamente «cancellata» da una permanenza del nipotino in Italia.
   «La notizia sconvolge tutti e ci crea grande preoccupazione», dichiara l'avvocato Armando Simbari che con Cristina Pagni e Massimo Saba assiste i familiari pavesi: «E stato strappato alla famiglia con cui è cresciuto, ai medici che lo stanno curando con un evento traumatico che può destabilizzarlo».

(Corriere della Sera, 12 settembre 2021)


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Il dolore della preside: «Per lui la zia Anya è un punto di riferimento fondamentale»

Madre Paola Canziani, superiora dell’Istituto Canossiane di Pavia: «Da una settimana era tornato nella nostra scuola sorridente, con il girello per camminare, era contento. La zia paterna gli è molto legata».

di Eleonora Lanzetti

Eitan stava bene ed era felice di aver incontrato di nuovo i suoi compagni che lo aspettavano con gioia dopo la tragedia che aveva colpito la sua famiglia. Domani, però, il piccolo, unico superstite della sciagura del Mottarone dello scorso 23 maggio, sui banchi di scuola non ci sarà. Il nonno Shmulik Peleg ha deciso di riportarlo in Israele perché possa «rafforzare le sue radici israeliane», togliendolo alla zia Aya, che ne è anche tutrice legale. Un fatto su cui la Procura di Pavia dovrà far luce: aperta un’inchiesta per sequestro di persona.

- La contesa tra le due famiglie
  La notizia ha scosso notevolmente la comunità pavese e la scuola che Eitan e i cuginetti (figli della zia paterna Ayna Biran Nirko, sua tutrice) frequentano, l’Istituto Canossiane di Pavia. Madre Paola Canziani, superiora dell’istituto, addolorata, fatica a commentare l’accaduto. Un colpo di scena, nella contesa tra le due famiglie del bimbo, che nessuno si aspettava. Il dolore è davvero enorme.

- Il ritorno a scuola
  «Da una settimana Eitan era tornato nella nostra scuola - ha spiegato Madre Paola -. Era contento di essere rientrato e di aver ritrovato gli altri bambini. Era sorridente e tenace, con il suo girello che lo aiuta a deambulare per recuperare dai problemi causati dall’incidente».

- Il legame con la zia paterna
  E poi quel legame con la zia paterna, definito come inesistente nel passato dalla zia materna del piccolo, Gali Peri. Di tutt’altro avviso Madre Paola, che ha sottolineato anzi il legame fortissimo tra la zia paterna e il nipotino: «Lei è davvero molto legata al bambino. Per lui la zia è diventata un punto di riferimento fondamentale. È davvero un grande dolore pensare che sia stato portato via così».

- La comunità ebraica
  Il presidente della comunità ebraica di Milano Milo Hasbani domenica mattina ha parlato con lo zio paterno del piccolo, Or Nirko, il marito di Aya, che gli ha spiegato come la famiglia si stia muovendo con le autorità italiane e anche con l’ambasciata italiana in Israele. L’accordo era che i nonni materni ogni tanto venissero dal piccolo. «Di tanto in tanto si vedevano» e per Israele questo è un periodo di feste, con il Capodanno ebraico dei giorni scorsi. Nulla di strano dunque, fino a che i nonni non hanno preso Eitan e invece di riportarlo dalla zia «hanno inviato un messaggio con scritto “il bambino è tornato a casa”. Hanno voluto forzare» ha commentato Hasbani, che a nome della comunità milanese «esprime una decisa condanna nei confronti di questo gravissimo atto che viola le leggi italiane ed internazionali». «L’augurio - ha aggiunto - è che la vicenda si risolva nel più breve tempo possibile nella direzione dell’ottemperanza della decisione del Tribunale dei minori».

(Corriere della Sera - Milano, 12 settembre 2021)


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Il piccolo Eitan portato dal nonno in Israele

Il piccolo Eitan Biran, unico superstite della tragedia del Mottarone, è stato portato in Israele dal nonno materno. Secondo la zia paterna Aya Biran Nirko, a cui il bambino è stato affidato e con cui vive a Pavia, Eitan sarebbe stato “rapito”. La donna avrebbe ricevuto un messaggio dal nonno paterno con su scritto “Eitan è tornato a casa”.
   Eitan è da mesi conteso tra la famiglia paterna, che vive a Pavia e ha il bambino sotto la sua tutela, e quella materna che vive in Israele. Il nonno materno, che si era momentaneamente trasferito a Pavia per stare vicino al nipote, non avrebbe riportato a casa Eitan “all'orario stabilito dopo un incontro con i famigliari della mamma" sostengono i legali di Aya Biran Nirko.
   La tv israeliana Kan ha ricostruito in un servizio l’accaduto: nella mattina di ieri il nonno sarebbe andato a prendere Eitan a casa della zia. Quando la zia non lo ha visto rientrare, come stabilito entro le 18.30, ha provato a chiamare più volte l’uomo, fino a quando non ha ricevuto da lui un messaggio con su scritto “Eitan è tornato a casa”, ovvero in Israele. Il bambino, malgrado la custodia, ha potuto viaggiare con il nonno perché lui era ancora in possesso del passaporto del minore. Aya Biran Nirko ha poi presentato denuncia alla polizia italiana sostenendo che “il bambino è stato rapito dal nonno”.
   Le autorità israeliane, il Ministero degli Esteri ha fatto sapere che sta verificando la fondatezza di tutte le informazioni, e la vicenda sembra ancora da chiarire. La zia materna di Eitan, Gali Peri, che vive in Israele, aveva nei mesi scorsi rivendicato l’affidamento del piccolo, secondo lei “in ostaggio” in una famiglia che non lo conosce, così avrebbe dovuto vivere in Israele “come avrebbe voluto sua madre”. I giudici tutelari avevano affidato Eitan a Aya Biran Nirko, e concesso alla famiglia materna di vedere il bambino due volte a settimana per due ore e mezzo.

(Shalom, 12 settembre 2021)



Il settimo comandamento: Dio protegge il matrimonio
    «Non commettere adulterio» (Esodo 20: 14). 

Per la nostra legislazione civile l'adulterio non costituisce un reato. La società organizzata non si sente chiamata in causa da questo tipo di comportamento sociale, perché ritiene che appartenga alla sfera delle relazioni private. 
   Non era così nel popolo d'Israele. In quella società l'adulterio era un reato «perseguibile d'ufficio» e punito con la massima condanna. 

    «Se uno commette adulterio con la moglie d'un altro, se commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l'adultero e l'adultera dovranno essere messi a morte» (Levitico 20:10). 
    «Quando si troverà un uomo a giacere con una. donna maritata, ambedue morranno: l'uomo che s'è giaciuto con la donna, e la donna. Così torrai via il male di mezzo ad Israele» (Deuteronomio 22:22). 

Prima di affrettarci a inorridire davanti a «simili barbarie», cerchiamo di capire. Il comandamento tiene conto di due realtà: la bontà di Dio e la malvagità degli uomini. Il matrimonio, come legame d'amore profondo tra un uomo e una donna, attraverso cui Dio continua la sua attività creatrice di altri esseri «a sua immagine e somiglianza», era certamente in origine qualcosa di «molto buono». Ma il peccato, che tutto ha deformato, non poteva certo risparmiare questo fondamentale istituto della creazione. Così, anche nel popolo che Dio si era scelto il matrimonio non corrispondeva più al progetto originario di Dio, e l'aspetto principale sotto cui era visto era quello del gruppo familiare a cui deve essere assicurata una discendenza. 
   Tuttavia, con le disposizioni mosaiche collegate al settimo comandamento Dio manifesta la sua volontà di difendere, anche in una società malvagia, l'istituzione originariamente buona del matrimonio. E per quanto la cosa possa suonarci male, dobbiamo dire che Dio «si adattò» alla durezza di cuore degli uomini e fissò dei codici di comportamento, con relative punizioni, che potessero costituire un argine contro il male che minacciava anche il matrimonio. 
   Condannando l'adulterio, Dio voleva dunque proteggere il matrimonio come ordinamento sociale. Il comandamento mosaico, infatti, puniva soltanto il rapporto di un uomo con una donna sposata ad un uomo libero, e non prendeva in considerazione i rapporti con le concubine, le prostitute, le schiave. La colpa dell'uomo adultero era quella di essersi intromesso nella sfera familiare di un altro uomo; la colpa della donna adultera era invece quella di aver tradito il proprio gruppo familiare permettendo l'intrusione di un estraneo. La parte lesa, quindi, era sempre il marito dell'adultera e non la moglie dell'adultero. 
   Ma anche questo non è del tutto esatto, perché in realtà tutta la società si sentiva parte lesa,. e Dio stesso si ergeva contro questo turbamento dell'ordinamento sociale. La questione, infatti, non poteva essere sbrigata in forma privata, mediante il pagamento di un indennizzo al marito ·offeso: la legge richiedeva che i colpevoli fossero messi a morte, perché «così torrai via il male di mezzo a Israele»
   Con Gesù le cose cambiano. Da una parte Egli irrigidisce nettamente la legge di Mosè, abolendo ogni forma di ripudio e di divorzio (Matteo 18:8-9), tanto che ai discepoli maschi viene spontaneo di osservare che se le cose stanno così, allora «non conviene prender moglie» (Matteo 19:10). Dall'altra supera la legge rifiutandosi di consentire alla lapidazione della donna adultera (Giovanni 8:1-11) e concedendole, con il suo perdono, la possibilità di un nuovo inizio. Gesù si rifà all'opera di creazione per spiegare ai discepoli qual era il piano originario di Dio e per indicare quale modello di matrimonio dovessero tenere davanti agli occhi; e si rifà all'opera di redenzione avvenuta nella sua persona per far capire che Dio «è venuto per cercare e salvare ciò che era perito» (Luca 19:10), e quindi che anche coloro che sono caduti nel peccato di adulterio possono essere perdonati e salvati. 

    «Ma al principio della creazione Dio li fece maschio e femmina. Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre, e saranno una sola carne. Così non sono più due, ma una stessa carne. L'uomo dunque, non separi quel che Dio ha unito» (Marco 10:6-9).
    «Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neppure io ti condanno; va' e non peccare più» (Giovanni 8:10-11). 

Dobbiamo capire bene l'atteggiamento di Gesù. Qualcuno potrebbe credere che alle disposizioni restrittive, punitive e un po' terrificanti della legge di Mosè, Gesù abbia contrapposto un atteggiamento più comprensivo, più indulgente, più aperto. Sentiamo allora che cosa ha da dire «il buon Gesù»: 

    «Voi avete udito che fu detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Matteo 5:27-28). 

Neppure il più bacchettone dei moralisti oserebbe oggi sfidare il ridicolo andando a dire alla gente cose simili. E tanto meno aggiungerebbe, come fa Gesù: 

    «Se dunque il tuo occhio destro ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te, poiché è meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, e non sia gettato tutto il corpo nella geenna» (Matteo 5:29). 

Potremmo affrettarci a precisare che Gesù usa un linguaggio figurato e che non pretende che noi seguiamo alla lettera le sue parole. È vero, ma tuttavia l'insopportabile radicalizzazione che Gesù fa del comandamento e il linguaggio decisamente truculento che usa ci fanno capire che Egli non intendeva minimamente diminuire lo spavento che la legge di Dio ha il compito di operare sugli uomini. Chi ha veramente inteso e applicato a sé le parole di Gesù non ha certo il coraggio di pregare come il fariseo: «O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri» (Luca 18: 11). Lo spavento della legge che uccide viene tolto soltanto dalla fiducia riconoscente in Gesù Cristo, morto e risuscitato per noi, e non da una sorridente e illusoria visione della realtà. 
   Come adulteri perdonati, come persone a cui è stata fatta misericordia, possiamo allora riflettere sul proposito originario di Dio intorno al matrimonio, alla luce delle parole e dell’opera di Gesù. 
   Tre elementi sembrano emergere dal racconto della creazione dell'uomo e della donna: 

  1. la necessità di un altro essere, simile ma diverso, con cui avere comunione («non è bene che l'uomo sia solo», (Genesi 2: 18);
  2. la formazione di una nuova personalità di coppia attraverso l'unione totale, e quindi anche fisica, dei due («saranno una stessa carne», (Genesi 2:24); 
  3. la partecipazione della coppia all'opera creatrice di Dio attraverso la procreazione («crescete e moltiplicatevi», (Genesi 1:28). 

La formazione di una coppia è dunque un atto creativo di Dio. Prima ancora di far nascere altri esseri umani, Dio crea la nuova personalità uomo-donna che ha la sua espressione profonda nell'unione fisica. È Dio dunque che originariamente ha unito l'uomo e la donna. 
   Il peccato invece divide l'uomo dalla donna; e questa divisione si esprime nella disgregazione dei tre elementi indicati sopra. Si può quindi desiderare la compagnia di una persona e l'unione fisica con un'altra; oppure si può desiderare la compagnia e l'unione fisica ma non i figli; oppure si possono desiderare i figli, ma non volere la compagnia. 
   In questi e in altri simili casi manca sempre qualcosa rispetto al progetto originario di Dio. Questo progetto prevede un uomo e una donna che si uniscono per sempre a formare una nuova personalità di due esseri che non sono mai interamente riducibili l'uno all'altro, che nell'unione fisica manifestano la loro profonda comunione e nei figli vedono espressa in modo corporeo e visibile l'inscindibilità della loro personalità di coppia e la loro collaborazione all'opera creatrice di Dio. 
   La svalutazione della gravità dell'adulterio e, in generale, la bonaria comprensione con cui si guardano i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio dipendono dalla disgregazione dei diversi elementi che costituiscono l'unione di una coppia e dalla svalutazione degli aspetti legati al corpo. Il sesso oggi non è più segno esterno di realtà profonde dell'animo umano, ma riguarda solo aspetti superficiali della persona: è soprattutto gioco, piacere condiviso; in secondo luogo è strumento tecnico di procreazione. E le due cose vengono accostate tra loro in modo abbastanza meccanico, tanto che il secondo aspetto viene spesso sperimentato come un'imprevista e spiacevole conseguenza del primo. Quanto alla compagnia stabile, cioè al matrimonio vero e proprio, se è possibile trovare anche l'accordo sessuale, tanto meglio, ma non è la fine del mondo se uno dei due o tutti e due hanno occasione di fare esperienze sessuali con altri, facendo naturalmente attenzione ad evitare i figli naturali, che sono sempre una seccatura. Insomma, gioco figli e compagnia sono visti come elementi ben distinti, che solo nei casi più fortunati si trovano tutti e tre insieme. Negli altri casi bisogna avere comprensione e cercare una «civile» soluzione di compromesso. 
   È sempre in questa svalutazione del corpo che trova spazio anche la rivalutazione dell'omosessualità. Nella diversità sessuale non si riconosce un elemento essenziale di diversità e di attrazione. La possibilità del gioco erotico tra persone dello stesso sesso è vista come un dato di fatto che va considerato come tale e non giudicato secondo superati «pregiudizi» moralistici. Se poi i due riescono a trovare un'intesa anche sul piano psicologico, chi dovrebbe avere qualcosa da ridire per il fatto che i loro corpi non si adattano l'uno all'altro e dal loro stare insieme non possono nascere figli?· I figli sono un'altra cosa; e la struttura fisica del corpo non è un fatto fondamentale per decidere se due persone possono mantenere un legame di coppia. 
   Non è il caso di scandalizzarsi troppo davanti a certe forme odierne di «moralità». La ribellione a Dio non è certo una caratteristica esclusiva dei nostri tempi, e le forme in cui l'uomo pecca non sono poi molto diverse rispetto al passato. I cambiamenti culturali hanno soltanto modificato gli argomenti che servono a giustificare la trasgressione ai comandamenti di Dio. 
   Quello che conta è restare ancorati alla parola di Dio, senza lasciarsi sedurre dalle varie proposte di «liberazione» sessuale che giungono da molte parti. Soprattutto, è necessario non permettere che si modifichi il linguaggio, perché con il linguaggio si modificano le cose. 
   I cristiani devono continuare a chiamare «adulterio» l'adulterio, e non «relazione extra-coniugale» o «avventura» o «scappatella». Simili denominazioni alternative del peccato contro il settimo comandamento manifestano bene la nostra tendenza a «comprenderci» e a giustificarci. Ma se ci usiamo misericordia da soli, non conosceremo la misericordia di Dio. 
   La misericordia· di Dio si esprime anche nelle parole con cui Gesù vieta il ripudio dell'altro coniuge (Marco 10: 11-12), mettendo in questo l'uomo e la donna sullo stesso piano. Poiché nel progetto di Dio un aspetto fondamentale del matrimonio è la fedeltà, intesa nel senso più ampio, i tre elementi indicati sopra possono essere tutti presenti solo là dove il rapporto è vissuto come totale, esclusivo e stabile. L'unione sessuale è, nelle intenzioni di Dio, un sì definitivo detto all'altro, un accettare che l'altro entri nella propria vita, e nello stesso tempo è un assumersi la responsabilità dell'altro. L'unione occasionale, provvisoria, sperimentale è un sì con riserva, quando non è un sì e no. Non si è disposti ad assumersi la responsabilità dell'altro e dei figli che potrebbero venire. Si prende e si dà qualcosa, ma non l'essenziale. Restano il dubbio e la paura, da cui non può certamente nascere quella fiducia e quell'abbandono che sono indispensabili per una vera unione. 
   La fedeltà reciproca dell'uomo e della donna deve essere un segno della fedeltà di Dio. Come Dio ha stabilito un patto con l'uomo, così il matrimonio costituisce un patto fra due persone, di cui Dio stesso è testimone e garante. 

    «Perché l'Eterno è testimonio fra te e la moglie della tua giovinezza, verso la quale ti conduci perfidamente, benché ella sia la tua compagna, la moglie alla quale sei legato da un patto» (Malachia 2:14). 

È nella natura di questo patto di essere stabile, duraturo. Ma ogni patto ha un inizio, un gesto simbolico iniziale che lo esprime e lo ratifica. Quale può essere questo gesto? La Bibbia non dice nulla di esplicito a questo riguardo, ma se è vero che il matrimonio non è un fatto puramente privato ma interessa la comunità umana, allora sembra naturale dire che il matrimonio ha inizio con l'impegno pubblico preso davanti agli uomini e, quindi, davanti a Dio. Per chi ha fiducia nel Signore, questo impegno pubblico non è una formalità superflua o un vincolo opprimente che sarebbe meglio non avere per potersi riservare la possibilità di una decorosa marcia-indietro in caso di difficoltà. Per chi crede nel Signore, questo impegno pubblico è una protezione. Come dice Dietrich Bonhoeffer, dopo la stipulazione del patto non è l'amore che sostiene il matrimonio, ma è il matrimonio che sostiene l'amore. Nei momenti difficili, il ricordo di quel patto stabilito davanti a Dio e davanti agli uomini, insieme con la promessa che Dio è il garante dell'unione matrimoniale, può essere un sostegno di importanza decisiva per evitare decisioni avventate e irreversibili. 
   Naturalmente, anche il discorso sul matrimonio non dovrebbe concludersi con la riflessione su quella che è la volontà di Dio, ma dovrebbe proseguire con l'esame di ciò che si può o si deve fare quando questa volontà non è fatta o non è stata fatta nel passato. Gesù stesso sembra accennare a questo quando usa la famosa espressione « salvo che per motivo di fornicazione» (Matteo 5:32) per indicare un'eccezione al divieto del divorzio. Si direbbe che con queste parole si alluda a quelle relazioni pervertite che dietro la forma esterna del matrimonio nascondono una realtà di fornicazione. In casi simili è necessario che il coniuge che vuol fare la volontà di Dio si separi dall'altro. 
   Va ripetuto, comunque, che anche l'adulterio può e deve essere perdonato quando viene riconosciuto come tale. Dalle parole e dall'atteggiamento di Gesù sappiamo che Dio offre sempre, a chi torna a Lui, la possibilità di un nuovo inizio, anche se le conseguenze del passato non possono certamente essere del tutto cancellate. 
   Per il resto, rientra nell'ambito della cura pastorale prendere in esame le varie situazioni anomale che si possono presentare. Tuttavia, la ricerca di soluzioni particolari a casi particolari deve avvenire nell'ambito di una riflessione su tutto il messaggio biblico, senza che per questo si pensi di dover rivedere la forma del comandamento. Ancora una volta, tutti i casi-limite, cioè tutti i casi in cui la realtà del peccato rende problematica l'obbedienza pura e semplice al comandamento di Dio, vanno considerati come casi unici, e le persone coinvolte se ne devono assumere la piena responsabilità davanti a Dio. Il desiderio di fissare casi generali può nascondere l'aspirazione a creare nuove tavole della legge, diverse da quelle date da Dio, e quindi può soltanto favorire la nostra continua tendenza a trasgredire in buona coscienza il comandamento di Dio. 

    «Il matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Ebrei 13:4). 

(da “Le dieci parole”, di Marcello Cicchese)


12 settembre 2021
Nel 57° anniversario del loro giorno di nozze,
Marcello e Lidia testimoniano con gioia:
«Dio protegge il matrimonio».


 

Israele, arrestati quattro dei sei palestinesi evasi

Nella notte bombardamenti alle postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza dopo il lancio del razzo palestinese.

La polizia israeliana ha arrestato quattro dei sei palestinesi evasi da un carcere di massima sicurezza questa settimana, incluso un famoso leader militante le cui imprese nel corso degli anni lo hanno reso una figura ben nota in Israele.
   Stamane, la polizia ha detto di aver catturato due uomini, tra cui Zakaria Zubeidi, nella città araba di Umm al-Ghanam. Zubeidi era un leader militante durante la seconda rivolta palestinese nei primi anni 2000. Sebbene sia stato collegato ad attacchi contro gli israeliani, era anche noto per aver rilasciato frequenti interviste ai media e per l'amicizia che aveva avuto con una donna israeliana. Zubeidi nel corso degli anni aveva ricevuto l'amnistia e frequentato corsi universitari ed era attivo in un movimento teatrale in Cisgiordania prima di essere nuovamente arrestato nel 2019 con l'accusa di coinvolgimento in attacchi. Le foto rilasciate dalla polizia mostrano Zubeidi, ammanettato e con una benda bianca, portato via da due agenti di polizia. Tutti i prigionieri provengono dalla vicina città di Jenin, nella Cisgiordania occupata da Israele.
   Gli arresti hanno arginato una vicenda imbarazzante per Israele che ha messo in luce profonde falle nel suo sistema carcerario e ha trasformato i prigionieri fuggitivi in eroi palestinesi. Nella tarda serata di venerdì, militanti palestinesi nella Striscia di Gaza hanno lanciato un razzo su Israele in un apparente segno di solidarietà, attirando gli attacchi aerei israeliani in rappresaglia.
   Intanto nella notte Israele ha bombardato postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta al lancio di un razzo avvenuto proprio dopo l'arresto dei primi due dei sei palestinesi evasi da un carcere israeliano e intercettato dal sistema difensivo Iron Dome. Lo ha riferito l'esercito israeliano, spiegando che caccia ed elicotteri militari hanno attaccato una installazione utilizzata da Hamas per attacchi con mitragliatrici e un magazzino e un altro complesso militare, dove il gruppo ha «un impianto di produzione di cemento per costruire tunnel sotterranei». Gli obiettivi colpiti si trovavano «vicino a una scuola e a moschee» e «accanto a infrastrutture civili».

(La Stampa, 11 settembre 2021)


Haifa, inaugurato il porto commerciale Made in China che preoccupa gli Usa

Dal primo settembre è operativa la nuova struttura che punta a rilanciare la presenza israeliana nel commercio marittimo. Un investimento da 1,7 miliardi di dollari gestito dalla Shanghai International Port Group. L’obiettivo è quello di diventare un hub regionale, contando sui crescenti legami con le nazioni arabe. Washington contro l’asse Pechino-Gerusalemme.

HAIFA - Israele ha inaugurato un nuovo porto commerciale dedicato agli scambi nel Mediterraneo. Una mossa per rilanciare la competitività e rafforzare la propria presenza in un settore piagato da ritardi e mancate consegne anche a causa della pandemia da Covid-19. L’obiettivo è quello di acquisire sempre più spazi come hub regionale, in una struttura sorta nella baia di Haifa, che sarà gestita dal gigante cinese Shanghai International Port Group (Sipg), frutto di un rinnovato asse fra Gerusalemme e Pechino che è fonte di crescente preoccupazione per Washington.
   Il primo scalo commerciale privato dello Stato ebraico è costato 1,7 miliardi di dollari ed è operativo dal primo settembre scorso. Esso permetterà alle grandi navi cargo, da 18mila container e oltre, di attraccare sulle coste israeliane. Il governo ha avviato la vendita dei porti di proprietà statale, per favorirne la costruzione di nuovi con lo scopo di abbattere i costi e tagliare i tempi di attesa nelle operazioni di carico e scarico.
   Circa il 99% dei beni che entrano ed escono da Israele arrivano via mare e un potenziamento infrastrutturale è necessario e fondamentale al tempo stesso, per sostenere la crescita economica. Il miglioramento nelle relazioni con i Paesi arabi dell’area, dagli Emirati Arabi Uniti al Bahrain, darà luogo a ulteriori opportunità commerciali e Haifa dispone di tutte le caratteristiche necessarie per diventare un hub regionale. A questo si aggiunge la prevista apertura entro fine anno di un porto ad Ashdod, gestito dalla svizzera Terminal Investment Limited.
   Il controllo cinese del porto commerciale di Haifa e i crescenti investimenti di Pechino in Israele costituiscono un elemento di tensione con gli Stati Uniti, che osteggiano un legame che si è andato rafforzando nell’ultimo decennio. Washington teme che la Sesta flotta della marina Usa, che attracca di tanto in tanto al porto di Haifa, possa risultare vulnerabile ai sistemi di spionaggio e sorveglianza dell’intelligence del Dragone che acquisirebbe in questo caso una posizione di dominio nella guerra cibernetica planetaria.
   A dispetto dei legami con la Casa Bianca, negli ultimi anni il governo israeliano guidato dall’ex premier Benjamin Netanyahu ha rafforzato la partnership strategica e commerciale con la Cina. Lo stesso Netanyahu ha incontrato il presidente cinese XI Jinping a Pechino nel 2017 e ha ospitato il vice presidente Wang Qishan a Gerusalemme nel 2018.
   Doron Ella, esperta di questioni cinesi all’Institute for National Security Studies dell’università di Tel Aviv, spiega ad al-Monitor che gli investimenti di Pechino nello Stato ebraico raggiungono a malapena il 10%, di molto inferiori a quelli di Stati Uniti ed Europa. La preoccupazione Usa riguarda però gli investimenti cinesi nei settori tecnologici “sensibili”. Pronta la replica di Pechino attraverso il portavoce dell’ambasciata cinese in Israele, Wang Yongjun, il quale scrive in un articolo sul Jerusalem Post che lo Stato ebraico “non deve schierarsi” nella controversia. “La Cina - aggiunge - è contraria alla mentalità da guerra fredda” e rispetta “l’indipendenza” dei singoli stati “in tutti i campi” negando coinvolgimenti negli attacchi informatici.

(AsiaNews, 11 settembre 2021)


Israele, la "serra" dei terroristi suicidi che l'Occidente non ha voluto vedere

di Fiamma Nirenstein

Mentre gli jihadisti di al Qaeda sequestravano gli aerei che alle 7,59 dell'11 settembre 2001 avrebbero dato fuoco al mondo, Israele era già in un bagno di sangue terrorista che l'Occidente riduceva a mere questioni territoriali. A Gilo le giornate erano ritmate dagli scoppi dei missili che l'Intifada sparava da Betlemme su Gerusalemme. Nei due giorni precedenti, due poliziotti e una decina di civili si erano uniti alle circa 1500 vittime: più o meno la metà di quelle delle Twin Towers. Israele fu una sorta di serra sperimentale del terrorismo suicida, ma il fenomeno rimase incompreso. Oggi, dopo il penoso ritiro americano dall'Afghanistan, è evidente che questo rifiuto occidentale a capire sopravvive come un pericoloso fantasma, che potrebbe risultare mortale per il mondo intero.
   Tanti furono gli episodi ignorati in Medio Oriente, Europa e Usa che avevano segnalato la preparazione di un attentato storico; altrettanto, seguitano ad essere equivocate anche le conseguenze dell'attacco alle Torri, come la presa del potere dei Talebani. Si disse anche che era colpa degli americani; che era possibile parlare coi terroristi; che le loro aspirazioni religiose e sociali erano parte di una cultura diversa ma legittima. Lo si ripete oggi, come lo si è detto di Hamas. Israele aveva subito attentati a migliaia ed era già da tempo una lampada accesa sulla necessità di capire, studiare per combattere il terrorismo, pena la sicurezza del mondo intero. Nel '95 Bibi Netanyahu in un libro metteva in guardia gli Usa: se non vi accorgete di quello che sta accadendo, presto vi ritroverete il World Trade Center spianato. Una profezia? No, solo una visione chiara della natura ideologica, e non territoriale o sociale, del terrore.
   La storia di Israele fa piazza pulita dell'idea che si possa placare l'appettito della jihad proponendo scambi territoriali e miglioramenti sociali e che la democrazia, la libertà, siano l'obiettivo di ogni uomo. Al contrario, le culture fondamentaliste islamiche disprezzano ogni libertà. Esiste un bene superiore che viene realizzato tramite la sharia, e le leadership hanno il compito supremo di farla osservare. Il costante ritorno all'Intifada, al terrorismo capillare, al rifiuto di riconoscere Israele o di rispondere alle profferte di pace è una risposta ideologico-religiosa all'imperativo di cacciare gli infedeli da terre islamiche. La sharia, per affermarsi, ha necessità di combattere il nemico: l'Occidente delle Torri, Israele che occupa la Ummah, la comunità islamica. Non c'è trattativa che tenga. L'assassinio di Anwar Sadat, che aveva osato accettare Israele e stringerci una pace, fa parte di quella dinamica. Abdel Rahman, compagno di Ayman al Zawahiri, dal carcere stilò la fatwa di assassinio e vent' anni più tardi la stilò per l'attacco delle Twin Towers. Per questo Bin Laden, succedendogli, accumula su di sé la rabbia dei palestinesi anti-accordo di pace e quella degli afghani invasi dai sovietici. È la jihad «contro i sionisti e i crociati», l'attacco per riprendersi territori o per allargare la forza della sharia.
   Dopo quell'attacco, i palestinesi festeggiarono con mortaretti e dolci. Yasser Arafat, per salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, in piena Intifada condannò disinvoltamente il terrorismo, continuando però a sostenerlo. Oggi Hamas è stata la prima a congratularsi con i Talebani per il riconquistato potere in Afghanistan, e i palestinesi, hanno festeggiato «il nuovo standard per la resistenza contro Israele». La loro guerra non ha niente a che fare con circostanze politiche, ma è figlia di un'aspirazione ideologica fondamentale e irrinunciabile. I palestinesi hanno potuto contare sul senso di colpa che ha impedito all'Europa e anche agli USA di identificare la componente jihadista nel conflitto israelo-palestinese, di vedere che Hamas e l'Autonomia Palestinese fanno parte dell'esercito jihadista. Per il quale solo la mukawama, o resistenza, può smantellare l'alleanza occidentale che domina il mondo e occupa le terre islamiche: «I Talebani - ha detto Musa Abu Marzuk della direzione di Hamas - hanno rifiutato le mezze soluzioni proposte dall'America. È una lezione per tutti i popoli oppressi» che va «assorbita» da Israele: «L'occupazione di terra palestinese non durerà e finirà».
   Quando Netanyahu descriveva come letale la spirale terroristica, aveva presente la carta geografica del Medio Oriente e del terrorismo che scaturiva sia dall'Iran sciita con gli hezbollah sia da vari gruppi sunniti. La scia di sangue è lunga, dagli attacchi suicidi in Libano alle baracche dei soldati americani (241 morti) a quello ai soldati francesi, 58 morti. Era il 23 ottobre dell'83. La scelta strategica era quella che proibisce all'infedele le terre islamiche. Prima e dopo, fino agli attacchi di Gerusalemme, di Londra, di Parigi, fino alle stragi antisemite in Francia e in America, gli attentati sono tutti illuminati dal lampo gelido dell'11 settembre. Il mondo cambiò, la «lunga guerra» al terrore formò una coalizione, i Talebani vennero cacciati, al Qaeda fu semidistrutta, e Bin Laden fu ucciso, Obama dichiarò vittoria. Ma l'Isis, gli attentati nel mondo, i Talebani, l'odio per l'Occidente e Israele non si sono modificati.
   La trama jihadista è paziente. Per smontarla va decrittata: un progetto ideologico-religioso mondiale. Israele combatte la sua battaglia, e cerca la sua via di pace con gli accordi di Abramo: un riconoscimento rispettoso delle altrui culture, sostenuto da prospettive vantaggiose. La via d'uscita è, almeno in parte, qui. Per il resto, la jihad iraniana sciita e quella sunnita lavorano sott' acqua e non impallidisce il loro sogno.

(il Giornale, 11 settembre 2021)


Chiusure a chi proviene da Israele

Sono già due i Paesi europei che vietano l’ingresso delle persone provenienti da Israele: si tratta di Portogallo e Svezia, che nei giorni scorsi hanno deciso di adottare questa misura dopo l’aumento di casi di Covid-19 nel Paese mediorientale. 
   Dopo la scelta del Portogallo, arrivata il 1 settembre, non si è fatta attendere neppure quella della Svezia: quattro giorni più tardi, anche il Paese nordeuropeo ha optato per la stessa precauzione.
   Una decisione “dovuta” e consigliata dalla stessa Unione Europea per evitare la diffusione dei contagi da Coronavirus. Sono sempre più, infatti, i contagi in Israele, nonostante la popolazione sia quasi completamente vaccinata di cui una buona parte con terza dose. 
   Nel frattempo, Israele ha comunque annunciato nel fine settimana che le persone che non hanno ricevuto una terza vaccinazione di richiamo non saranno in grado di utilizzare i loro passaporti vaccinali.
   Benché sia ormai risaputo che il vaccino non conferisce immunità (e quindi non impedisce il contagio) il ministro dell’Interno svedese Mikael Damberg ha giustificato la scelta di chiudere ai residenti israeliani affermando che il Paese – tra i principali al mondo per inoculazioni – è ancora sede di grandi gruppi di persone non vaccinate che secondo lui avrebbero “permesso la diffusione dell’epidemia” secondo un principio scientifico non meglio chiarito.

(Radio Radio, 11 settembre 2021)


Covid oggi Israele, Crisanti: "Situazione allarmante per varianti"

"La situazione di Israele è allarmante". Vaccini e varianti covid, con la Delta dominante e la Mu che si affaccia: il professor Andrea Crisanti accende i riflettori sull'evoluzione dell'epidemia in Israele. Il paese apripista per le vaccinazioni è alle prese con dati che non lasciano tranquilli. "La maggior parte delle persone è suscettibile, si infetta e trasmette.
Questo potrebbe essere legato al fatto che alcune varianti riescono ad infettare le persone vaccinate. La mortalità è più bassa, ma" in Israele "hanno 1000 casi per milione di abitanti, è il numero più alto del mondo e su questa base hanno iniziato la somministrazione della terza dose.
Se la terza dose risolve, bene. Altrimenti, significa che il problema è legato anche alle varianti. Quindi, terza dose sì ma con vaccino aggiornato", dice Crisanti ad Agorà. "I vaccini - spiega - apparentemente hanno una durata di protezione intorno ai 6-7 mesi. Noi abbiamo immunizzato circa 7 milioni a marzo: queste persone non sono protette come noi immaginiamo. Certo, la letalità è calata di cinque volte e questo è molto positivo. I vaccini sono la soluzione, ma devono essere accompagnati da altre misure. Guardiamo la situazione dell’Inghilterra, dove non vengono adottare altre misure di contrasto: ci sono 30-35.000 contagi e 160 morti".

Statistiche coronavirus in Israele

(Adnkronos, 10 settembre 2021)


La terza dose di vaccino non sarà l’ultima: si va verso quarta dose

Guardando a Israele

La terza dose di vaccino ha avuto il via libera anche dall'Aifa e in Italia si partirà da fine settembre seguendo uno specifico calendario. Si inizierà dagli immunodepressi e soggetti fragili, poi da dicembre toccherà agli over 80 e da gennaio-febbraio al personale sanitario.

- Terza dose vaccino per tutti
   Per tutto il resto della popolazione, non è ancora chiaro se e quando sarà dato il via libera alla terza dose, anche se prima della primavera 2022 non sembra plausibile guardando al calendario proposto dal Governo. A commentare la terza dose e la possibilità molto concreta della quarta dose, una sorta di richiamo stagionale, è stato Massimo Ciccozzi, epidemiologo del Campus Bio-medico di Roma, che ad Huffpost ha dichiarato che “La terza dose non sarà l’ultima. Il covid diventerà come l’influenza stagionale e saranno necessari richiami, ma solo per fragili e over 65”.
   Guardando al caso Israele, dove la terza dose ormai si sta somministrando anche ai giovani, le analisi sembrano confermare che il booster stimola il sistema immunitario, ma nella popolazione che ha più di 60 anni, la protezione non arriva a 6-7 mesi. Secondo Ciccozzi, è chiaro che la terza dose toccherà anche al resto della popolazione e quindi dopo i fragili si procederà per fasce d’età come già accaduto per le prime dosi.
   Possibile anche altri richiami, una sorta di quarta dose
   In tal senso, è facile ipotizzare che gli hub vaccinali non andranno in pensione e saranno ancora attivi nei prossimi mesi. In merito alla tempistica sulla terza dose, il professore, guardando ad Israele, ipotizza il terzo richiamo a sei mesi dalla seconda dose seguendo lo schema del vaccino contro l’epatite B.
   E qui arriva il punto sulla quarta dose: “Penso che per i soggetti fragili, faremo come con l’antinfluenzale, con richiami stagionali. Ma solo per loro e per gli over 65, finché non vedremo che il covid diventerà realmente endemico. Potremmo non vaccinare i giovani e chi è in salute. Ma bisognerà sperare che non si sviluppino varianti più contagiose”. Il coronavirus, infatti, non sarà sradicato, bisognerà imparare a conviverci ma sempre con un occhio a potenziali nuovi varianti che potrebbero nascere in quei paesi dove ci sono pochi vaccinati come l’Africa.

(Investire Oggi, 10 settembre 2021)


Israele. Lapid a Lavrov, ‘non restituiremo alla Siria le Alture del Golan’

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha ricevuto a mosca il collega israeliano Yair Lapid, al quale ha manifestato preoccupazioni per i continui attacchi israeliani sul suolo siriano. Ormai da diversi anni raid israeliani colpiscono obiettivi iraniani in Siria, specialmente convogli sospettati di portare armi agli Hezbollah libanesi, e Lapid ha detto a Lavrov che “non staremo a guardare mentre l’Iran posiziona basi dei terroristi sul nostro confine settentrionale, o mentre fornisce armi alle organizzazioni terroristiche, che poi useranno contro di noi”. Per il ministro israeliano tali interventi rappresentano azioni preventive, ma incalzato dai giornalisti ha affermato che “Israele non considererà mai l’eventualità di restituire le Alture del Golan alla Siria”. Le montagne, strappate alla Siria in occasione della Guerra dei Sei Giorni (1967), rivestono un importante ruolo strategico nella mappatura locale, ma soprattutto rappresentano un importante approvvigionamento idrico in una zona desertica.

(Notizie Geopolitiche, 10 settembre 2021)


Israele teme una nuova intifada. I palestinesi sparano ai militari

Dopo le evasioni, le rivolte nelle carceri.

di David Zebuloni

GERUSALEMME - A differenza degli altri scontri avvenuti sul suolo israeliano, dopo i quali il Paese ha goduto di un periodo di quiete tanto breve e precario quanto efficace e necessario, lo Stato ebraico pare non aver mai realmente terminato la sua ultima battaglia: l'operazione Guardiano delle Mura. Dallo scorso maggio, infatti, quando l'allora governo Netanyahu aveva accettato il cessate il fuoco di Hamas, Israele non è mai più tornata alla normalità. I palloncini incendiari hanno continuato a tormentare i cittadini di Sderot e le tensioni sul confine riesplodono. Solo nell'ultimo mese, durante una dimostrazione violenta organizzata dai terroristi di Hamas e da altri gruppi jihadisti al confine di Gaza, Barel Shmueli, soldato israeliano di 21 anni, è stato colpito alla testa dal proiettile sparato da un palestinese. Subito ricoverato e operato, Barel si è spento una settimana dopo all'ospedale di Beer Sheva.
   Inoltre, anche all'interno del suolo israeliano.la fetta di popolazione araba pare in subbuglio. Centinaia di manifestanti sono scesi in piazza ieri, a Gerusalemme e in Cisgiordania, a sostegno dei sei detenuti palestinesi evasi questa settimana dal carcere israeliano di Gilboa. Il ministro della Sicurezza Interna, Omer Bar Lev, ha definito l'evasione un fallimento delle forze dell'ordine israeliane, ma ha garantito: «Gireremo ogni pietra per ritrovare i prigionieri». E mentre la caccia all'uomo continua, un incendio è stato appiccato dall’altra parte del paese, all'interno della cella numero 7 del carcere israeliano di Ramon. Un episodio non trascurabile poiché lascia presagire che l'evasione da Gilboa non rappresenti solo un singolo fenomeno di rivolta, bensì un vero e proprio risveglio collettivo da parte dei prigionieri palestinesi in Israele. Un risveglio che, secondo il peggiore degli scenari, potrebbe condurre lo Stato ebraico a una terza agognata Intifada.

Libero, 10 settembre 2021)


L'orologio ebraico

di Marcello Cicchese

Negli ambienti evangelici gira da diversi anni, non so quanto conosciuto e letto, un libro che è uscito per la prima volta in francese nel 1957: "Quelle heure est il à l'horloge d'Israël?" Nel 1961 ne è uscita una seconda edizione arricchita da nuovi documenti ricevuti dal "Centre Sioniste d'Informations de Paris", nella cui dedica l'autrice, A. Blocher-Saillens, scrive: "Dedicato alla memoria della mia cara mamma Mme Rubens Saillens, che ci ha dato, fin dall'infanzia, un grande amore per Israele e un profondo interesse per le profezie che lo concernono".
   Di questo libro esiste da tempo anche una traduzione italiana. Qui vorrei  sottolinearne soltanto il titolo, che in sostanza vuole dire due cose:

  1. Dio dirige la storia del mondo dalla sua creazione fino alla sua dissoluzione e ricostituzione;
  2. Dio scandisce temporalmente il suo agire nella storia con interventi che ogni volta, in modo spesso inaspettato, mettono in evidenza Israele.

Di qui la necessità di esaminare e valutare fatti storici di importanza mondiale mettendoli in relazione con quello che avviene in Israele, anche nei suoi rapporti col mondo esterno.
   Darò un esempio - che forse farà gridare allo scandalo - tratto dal mio libro "Dio ha scelto Israele":

    «Theodor Herzl non avrebbe certo potuto prevedere, e tanto meno auspicare, che per arrivare a costituire quello Stato ebraico da lui previsto e progettato, l’umanità avrebbe dovuto passare per due immani tragedie come le guerre mondiali, e il suo popolo subire l’orrore della Shoà.
    Gesù però aveva avvertito: “Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre... ma tutto questo non sarà che principio di dolori” (Matteo 24:6-8).
    Il termine originale usato per dolori può essere tradotto anche con doglie, come in 1 Tessalonicesi 5:3. Non si tratta dunque di generiche sofferenze, ma di doglie che precedono un parto. Si potrebbe dire allora che le due guerre mondiali sono state  due tremende, dolorosissime spinte di un travaglio che ha prodotto il parto dello Stato d’Israele. Proprio questo è l’aspetto di gran lunga più importante di quelle due catastrofi mondiali: l’avanzamento del piano di Dio nel compimento dei  Suoi propositi verso Israele. E anche il cosiddetto Olocausto non deve essere considerato soltanto come una manifestazione particolarmente grave di malvagità umana, ma come il tentativo letteralmente diabolico, e naturalmente non riuscito, di opporsi al progetto di Dio. 
    Se si trascura la comprensione spirituale di questi fatti, e davanti all’avvenuto tentativo di sterminio degli ebrei si reagisce soltanto con umanistica indignazione, si rischia di essere strumentalizzati da quello stesso Satana che li ha istigati. E in parte questo sta già avvenendo. Le accuse di razzismo e di nazismo adesso sono rovesciate sugli ebrei, e il ricordo di quelle persecuzioni offre ai loro nemici una comoda motivazione per tentare di ripeterle, anche se in altra forma.»

L'attuale pandemia è indubbiamente un fatto storico di importanza mondiale, dunque è bene riflettere sull'impatto che ha con Israele. Si può fare a questo riguardo qualche riflessione comparativa su tre fatti che hanno interessato Israele negli ultimi anni:

  1. Gli accordi di Oslo (1993)
  2. Lo sgombero di Gaza (2005)
  3. La campagna vaccinale (2020-?)

Israele ha dovuto combattere diverse guerre e le ha vinte tutte, o quanto meno si può dire che non le ha perse. Questo è in linea col fatto che nazioni o popoli o gruppi religiosi con cui Israele ha combattuto rifiutano la sua presenza su quella terra, e alcuni vorrebbero ancor più che sparisse. Ma poiché Israele è il popolo di Dio, il tentativo diabolico di far sparire Israele da quella terra non è riuscito. E in questo periodo della storia non poteva riuscire.
   Tutto questo ricorda in un certo senso il tentativo di Balak, re di Moab, che cercò evocare le potenze diaboliche ingaggiando il mago Balaam affinché maledisse Israele, con tutte le conseguenze distruttive che ci si poteva aspettare (Numeri, capp. 22-24). La cosa però non funzionò. Però Balaam, servo di Satana, in un secondo tempo riuscì lo stesso ad attirare la maledizione su Israele, non  attraverso la spada, ma attraverso la seduzione di lascive donne madianite che trascinarono il popolo al culto idolatrico di divinità pagane (Numeri 25:1-18, 31:16). La cosa entrò nel ricordo come "il fatto di Baal Peor". 
   Per collegare i tre fatti con l'episodio biblico riportato, si potrebbe dire che:

  1. le guerre vinte di Israele si collegano al tentativo non riuscito del diabolico Balaam;
  2. i tre fatti sopra elencati si collegano al tentativo riuscito dello stesso diabolico Balaam.

Da notare una cosa singolare che hanno in comune i tre fatti: hanno riscosso tutti l'applauso delle nazioni. 

  1. Bravo Rabin a fare l'accordo con Arafat!
  2. Bravo Sharon a sgomberare Gaza!
  3. Bravo Netanyahu ad acquistare vaccini a vagonate dal colosso Pfizer!

Conseguenze:

  1. Arafat si è collocato a Ramallah e di lì ha organizzato la seconda intifada, una stagione di attentati terroristici e stragi suicide;
  2. Hamas si è collocato a Gaza e di lì fa piovere missili su Israele, con attacchi a scadenze indefinite da usare come spada di Damocle e merce di scambio;
  3. Pfizer si è collocato commercialmente in Israele e di lì detta il ritmo delle dosi di vaccino da inoculare a forza agli israeliani.
Il cittadino israeliano aveva creduto che dopo la prima o la seconda dose di vaccino, una volta raggiunto il numero necessario di vaccinati, avrebbe ottenuto lo stato di immunizzazione completa, così da poter riprendere la vita come prima, con la sola condizione di avere la patente verde in tasca da esibire in qualche caso come si fa con la patente automobilistica. "E così oggi Tel Aviv balla per le strade, va al ristorante e al teatro con la patente verde", scriveva Fiamma Nirenstein il 16 marzo scorso; per poi concludere: "Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza".
   No, non è così. Non può essere questa la missione storica di Israele per la comune costruzione della salvezza. Proprio l'altisonanza dei termini usati fa avvertire quanto grande sia l'inganno a cui è sottoposto oggi Israele. E con lui tutte le nazioni che seguono il suo esempio. 
   Nei tre fatti elencati sopra, Israele ha cercato ogni volta di risolvere il suo problema vitale dimenticando il Dio dei suoi padri e stringendo alleanza con il dio delle nazioni, che il Vangelo di Giovanni chiama il principe di questo mondo. Ed è per questo che ha ottenuto ogni volta l'approvazione delle nazioni. 
   Ma come membro di una di queste nazioni, non sono affatto contento di vedere che il principe di questo mondo, nella forma del dio Mammona, sia riuscito a mettere in soggezione lo Stato d'Israele, facendolo apparire come un modello da imitare per il raggiungimento della comune costruzione della salvezza. Seguendo il modello Israele si sta cercando di arrivare all'inoculazione illimitata nel tempo di dosi vaccinali, all'obbligo vaccinale per legge, al controllo coatto di ogni operazione sociale del cittadino. E tutto questo per tutelare la vita del cittadino e il bene della comunità, senza alcun riferimento agli interessi di chi fabbrica, produce e vende vaccini. Cioè al dio Mammona.
   L'ancora di salvezza che lanciano i colossi farmaceutici, raccolto con cura dai governanti delle nazioni e imposto con la forza ai cittadini, è quella radicale cura che si può chiamare "intubazione vaccinale". Con la prima dose si fa l'aggancio al tubo salvifico, dopo di che nessuno ha più il coraggio o l'autorità di staccarlo. No, grazie. 

(Notizie su Israele, 10 settembre 2021)


Israele è pronto a riaccogliere i turisti: da quando e le regole

A partire dal 19 settembre sarà possibile viaggiare in Israele anche per turismo

Il Ministero del Turismo israeliano ha fatto sapere che sta per riprendere il programma turistico indirizzato ai piccoli gruppi organizzati. Infatti, a partire dal 19 settembre, i gruppi turistici organizzati di 5-30 persone provenienti dai Paesi appartenenti alle fasce “verde, gialla e arancione”, potranno tornare a visitare Israele.
   Il programma non prevede un limite di numero di gruppi di turisti stranieri ammessi nel Paese. Tuttavia, per entrare in Israele sarà necessario seguire alcune regole.

VIAGGIO IN ISRAELE, QUALI SONO LE REGOLE
  I gruppi di viaggiatori organizzati dovranno disporre della certificazione che attesta la somministrazione della seconda dose del vaccino negli ultimi sei mesi o di aver ricevuto la terza dose. Chi viaggia dovrà inoltre presentare un test PCR negativo, effettuato fino a un massimo di 72 ore prima dell’arrivo e sarà sottoposto a un PCR e un test sierologico all’aeroporto di Ben Gurion.
   Una volta ricevuti i risultati del PCR e del test sierologico, i turisti potranno muoversi liberamente all’interno del Paese.
   Questo programma pilota, avviato a maggio 2021 con lo scopo di fornire un’opzione di viaggio sicura e controllata, ha riscosso ampio successo, con oltre 2.000 turisti arrivati in Israele, principalmente dagli Stati Uniti e dall’Europa, senza alcun caso di Covid presente.
   La speranza è che anche i turisti individuali possano presto entrare in Israele, fattore che dipenderà dai tassi di morbilità che verranno rilevati prossimamente in Israele e nel resto del mondo.
   Le normative vigenti riguardanti il turismo di gruppo saranno pubblicate quanto prima anche sul seguente sito.

COSA FARE AL RIENTRO IN ITALIA
  Secondo la normativa attuale (valida vino al 25 ottobre 2021) è consentito spostarsi in Israele anche per turismo. Tuttavia, la normativa prevede che all’ingresso in Italia sia obbligatorio:

  • compilare prima della partenza il  Passenger Locator form e mostrarlo a chiunque sia deputato ai controlli;
  • presentare la Certificazione verde COVID-19 in una delle seguenti lingue: italiana, inglese, francese o spagnola; la Certificazione deve attestare una delle seguenti condizioni:

    • aver completato il ciclo vaccinale prescritto anti-SARS-CoV-2, oppure
    • esser guariti da COVID-19 (la validità del certificato di guarigione è pari a 180 giorni dalla data del primo tampone positivo), oppure
    • essersi sottoposti a tampone molecolare o antigenico effettuato nelle 48 ore prima dell’ingresso in Italia con esito negativo. I minori al di sotto dei 6 anni sono esentati dall’effettuare il tampone pre-partenza.

I viaggiatori non in possesso del Green Pass e che abbiano soggiornato per almeno 14 giorni in uno stato dell’Elenco C (tra cui Israele), possono presentare copia cartacea o digitale del referto del tampone molecolare o antigenico effettuato nelle 48 ore prima dell’ingresso in Italia.
   La mancata presentazione anche solo di uno di questi documenti comporta che il soggetto sia sottoposto a isolamento fiduciario per 5 giorni, al termine dei quali verrà effettuato un tampone antigenico o molecolare.
   Si tenga inoltre presente che la certificazione relativamente al completamento del ciclo vaccinale deve riferirsi ad uno dei quattro vaccini approvati dall’Agenzia europea per i medicinali:

(Guida Viaggi, 10 settembre 2021)


Israele non può sempre essere ostaggio dei boss palestinesi

I leader di Hamas non possono più essere intoccabili per qualche sorta di legge non scritta ma devono rientrare tra gli obiettivi legittimi da colpire

di Franco Lonedei

L’esercito e la polizia israeliana sono stati messi in stato di massima allerta per i timori di gravi scontri con i palestinesi dopo che Hamas ha dichiarato oggi la “giornata della rabbia” in solidarietà con i sei terroristi palestinesi evasi all’inizio di questa settimana da un carcere di massima sicurezza israeliano.
   Già nella notte appena trascorsa in Giudea e Samaria (la c.d. Cisgiordania) ci sono stati scontri tra l’esercito israeliano e gruppi di rivoltosi palestinesi scesi a centinaia in strada.
   L’IDF ha annullato tutti i permessi dei militari di stanza in Giudea e Samaria in quanto secondo l’intelligence saranno in molti a rispondere all’appello lanciato da Hamas.
   Proprio Hamas si è detto «disposto a sacrificarsi per il bene dei terroristi evasi» tralasciando che come sempre Hamas fa sacrificare gli altri (spesso anche donne e bambini) piuttosto che i suoi leader, sempre pronti a fuggire quando le cose si mettono male.
   Ed è questo il punto. Israele non può continuare ad essere ostaggio di un manipolo di mafiosi palestinesi che a seconda dei propri interessi alza o abbassa la tensione con Gerusalemme.
   Una volta sono i soldi del Qatar, l’altra gli aiuti (che passano solo per Israele), l’altra ancora qualsiasi cosa sia di intralcio agli interessi dei boss di Hamas.
   Il problema è il senso di sicurezza che questi criminali sentono di avere. Sanno che male che vada non saranno loro a pagare o a “sacrificarsi” come amano dire parlando però degli altri.
   Ecco una cosa che Israele non può più permettere. I leader di Hamas non possono più essere intoccabili per qualche sorta di legge non scritta ma devono rientrare tra gli obiettivi legittimi da colpire. Ovunque essi siano, quindi anche in Qatar e in Turchia dove prontamente fuggono quando le cose si mettono male.
   Ormai sono anni che il sud di Israele è costantemente sotto ricatto dei missili o dei palloni incendiari di Hamas. Milioni di persone che ogni giorno non sanno se possono andare a lavorare o se possono mandare i bambini a scuola.
   Sono anni che la Giudea e Samaria sforna terroristi ed è ormai un bacino di martiri per Hamas, per l’Iran e per chiunque voglia nuocere a Israele.
   Chi istiga questa gente a compiere attentati, chi paga le famiglie dei terroristi, chiunque in qualche modo usi queste persone per nuocere a Israele deve essere un target legittimo. Ed è così che si deve sentire. Deve sapere che qualsiasi cosa faccia o dica porterà con se delle conseguenze.
   Non è più il tempo del politicamente corretto con i leader palestinesi. Questo lasciamolo fare a <a href="https://www.francolondei.it/dopo-ashton-e-mogherini-il-colpo-di-grazia-josep-borrell/">Josep Borrell e a quelli come lui.

(Rights Reporter, 10 settembre 2021)


La Raggi fa arrabbiare anche gli ebrei

La comunità israelita di Roma boicotta la posa della prima pietra del Museo della Shoah di Roma

di Enrico Paoli

Per il sindaco (sindaca nel lessico grillino) di Roma, Virginia Raggi, doveva essere il momento topico della sua campagna elettorale. «Roma avrà un Museo della Shoah, la prossima settimana metteremo la prima pietra e inizieranno i lavori a Villa Torlonia». Un annuncio importante, quello della pentastellata, trasformatosi, però, in una sonante sconfitta.
   La Comunità Ebraica di Roma, non solo non ha gradito lo spot elettorale, ma ha letteralmente scaricato il sindaco uscente. «La concomitanza con la campagna elettorale rende inopportuna una cerimonia per un progetto che sarebbe dovuto essere inaugurato già anni fa», spiega un portavoce della Comunità, senza curarsi troppo di celare il malcontento per questa iniziativa, presa durante la campagna elettorale. «La memoria è un valore imprescindibile che deve unire la città di Roma e non prestarsi a protagonismi elettorali. Per questa ragione la Comunità non parteciperà all' evento, come a qualsiasi altro evento pubblico di natura elettorale», sottolinea l'esponente della Comunità.
   «L’inopportunità» dell'intervento della sindaca è stato sottolineato anche da Matteo Salvini. «Un plauso alla Comunità Ebraica, ennesima figuraccia di una Raggi sempre più disperata», sottolinea il leader della Lega. Piccata la replica, via Twitter, dall'inquilina del Campidoglio. «Salvini puoi attaccarmi quanto vuoi. Non mi piego. E poi ricordati una cosa: Roma non voterà mai lega Nord, non voterà mai chi gridava 'Roma Ladrona' o quei fascisti e razzisti che vi mettete nelle liste». Dopo la scivolata con la Comunità ebraica, una bella caduta di stile, visti i toni via social.
   Duro anche il commento di Roberto Gualtieri, candidato del Pd. «Sembra che la Raggi, dopo 5 anni in cui di Museo della Shoah nelle stanze del Campidoglio si è parlato veramente poco, voglia prodursi in uno spot elettorale alquanto inopportuno».

Libero, 10 settembre 2021)


Oasi di Borgo Allegri, il giardino nel nome di Nirenstein-Lattes

di Maria Cristina Carratù

Sarà inaugurato lunedì 20 settembre il "nuovo" giardino di Borgo Allegri, piccola e sorprendete oasi verde nel cuore del centro storico, a due passi da Santa Croce. "Nuovo" perché sarà intitolato a due figure di spicco del paesaggio culturale fiorentino, i coniugi Alberto Nirenstein (1916-2007) e Wanda Lattes (1922-2018), di cui il Comune di Firenze ha deciso di «onorare la memoria e l'impegno per la libertà e la promozione della cultura». La cerimonia (ore 11) si terrà alla presenza delle figlie e dei nipoti, del sindaco Dario Nardella, di Daniel Vogelmann in rappresentanza della Comunità ebraica fiorentina, e di Ernesto Galli della Loggia, Paolo Ermini, Franco Camarlinghi, Maurizio degli Innocenti, presidente della Fondazione Turati (a cui gli eredi hanno consegnato le carte Nirenstein-Lattes).
   Giornalista, scrittore, nato nel villaggio polacco di Baranow da una famiglia ebraica, emigrato nel 1936 nella Palestina mandataria, sfuggito rocambolescamente dalla Polonia dove era tornato poco prima dell'occupazione nazista (molti suoi familiari sarebbero invece stati sterminati nel campo di concentramento di Sobibor), Alberto Nirenstein era arrivato in Italia durante la Seconda guerra mondiale come combattente della Brigata Ebraica, e aveva conosciuto la futura moglie a Firenze, sposandola nel 1945. Nel dopoguerra, come giornalista, scrittore e ricercatore impegnato nella raccolta di testimonianze sull'Olocausto, fu trattenuto dal governo comunista in Polonia, dove si trovava per una ricerca d'archivio, fino al 1953, anno della morte di Stalin. Wanda Lattes, fiorentina, partigiana combattente nella Resistenza, giornalista e scrittrice, è stata una delle prime giornaliste donne della storia italiana. Ha lavorato al Nuovo Corriere di Romano Bilenchi, al Giornale del Mattino, alla Nazione e dal 1990 al Corriere della sera. Insieme al marito e alle tre figlie, Fiamma, Simona e Susanna, ha firmato "Come le cinque dita di una mano. Storia di una famiglia di ebrei da Firenze a Gerusalemme" (1998), che ripercorre a cinque voci la storia familiare. La richiesta di intitolazione ai coniugi è stata promossa da un gruppo di amici, intellettuali e rappresentanti di alcune delle maggiori istituzioni culturali della città, con una raccolta di firme. Il Comune quindi ha fatto propria l'idea, proponendo il giardino di Borgo Allegri, sede «di vitali attività sociali e ricreative», e non lontano dalla Comunità ebraica di via Farini.

(la Repubblica, 10 settembre 2021)


L’Italia non parteciperà alla prossima Conferenza di Durban

di Paolo Castellano

L’Italia è il dodicesimo paese che non parteciperà alla prossima Conferenza mondiale contro il Razzismo programmata per il 22 settembre a New York, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Lo hanno riportato fonti diplomatiche l’8 settembre.
    Quest’anno verranno celebrati i 20 anni dalla prima Conferenza organizzata a Durban in Sudafrica. Sin dalla prima edizione, l’evento internazionale si è caratterizzato per essersi trasformato in un vertice anti-israeliano e antisemita per la distribuzione di volantini e materiali come I protocolli dei Savi di Sion.
    Durante la Conferenza sul razzismo del 2001 lo Stato di Israele venne persino definito uno “stato razzista e di apartheid“.
    Per timore che il ventesimo anniversario della Conferenza di Durban possa di nuovo replicare gli atteggiamenti passati, anche l’Italia non parteciperà alle celebrazioni. Lo riporta Ansa.
    Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Francia, Germania, Austria, Olanda, Ungheria, Repubblica Ceca e Israele hanno già comunicato che boicotteranno la Conferenza di Durban.
    Queste nazioni hanno già negato la loro partecipazione nel 2011 a New York, e alcune anche nel 2009 a Ginevra.
    Nel 2009, ci fu un vero e proprio comizio anti-israeliano quando sul palco della Conferenza salì l’allora presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Durante il suo discorso, 23 ministri dell’Unione Europea lasciarono la sala.

(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2021)


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L'assenza al summit antisemita? Grande vittoria

La decisione dell'Italia di non partecipare a quella che era stata inappropriatamente chiamata "Conferenza mondiale contro il razzismo" è molto importante.

di Fiamma Nirenstein

La decisione dell'Italia di non partecipare a quella che era stata inappropriatamente chiamata «Conferenza mondiale contro il razzismo» è molto importante. Il nostro giornale è felice e fiero che la sua richiesta sia stata accolta. Si tratta, come abbiamo scritto, della quarta edizione di una delle maggiori conferenze delle Nazioni Unite che si svolgerà il 22 settembre; gli Usa, il Canada, l'Inghilterra, la Germania, la Francia, la Repubblica Ceca, l'Olanda e altri che già avevano boicottato l'iniziativa nelle versioni precedenti sono partner dell'Italia nella decisione.
  Durban è stato un disastro morale per il mondo intero, la patente internazionale per consentire che la cultura, la mentalità vittimista e aggressiva che sta alla base della follia del 2001 rovesciasse i canoni stessi dei diritti umani, usasse come una scura rovesciata l'idea di perseguitati e persecutori, di oppressi e di oppressori. Durban alimenta fino al giorno d'oggi la cultura del vittimismo che rende nemico l'uomo all'uomo sulla base del concetto fantasticato, estremizzato, falsificato di cultura, di religione, di genere, di razza. I terroristi diventano combattenti della libertà, le folle infuriate parametri di giustizia, le accuse pregiudiziali prove provate, le regole pastoie.
  A Durban nel 2001, nel clima entusiasta post apartheid, per le Ong che avrebbero dovuto affiancare la conferenza contro il razzismo, cui io ero presente come corrispondente, gli ebrei diventarono oggetto di caccia addirittura fisica; si distribuivano «I protocolli dei savi di Sion»; folle «antirazziste» marciavano sotto i ritratti di Bin Laden pochi giorni prima del disastro delle Twin Towers; la sala risuonava dei discorsi in cui Arafat, che da poco aveva firmato gli accordi di Oslo, dichiarava Israele e gli ebrei «genocidi» e «colonialisti», dittatori o satrapi come Fidel Castro, Ahmadinejad, Mugabe, incitavano all'odio antisemita e li correlavano alla storia imperialista dell'Occidente, alla sua smania di dominio e di potere.
  Si fondava sotto l'egida dell'Onu una teoria rovesciata dei diritti umani per cui diventi un razzista se non ti metti in ginocchio ad esclamare la tua colpevolezza nei secoli. La conferenza fu programmata per trasferire su Israele i crimini dell'apartheid, con cui non aveva niente a che fare; il termine Olocausto fu usato a destra e a manca includendovi i palestinesi; la stessa impropria vittimizzazione viene usata dai novax che si travestono da prigionieri di Auschwitz. É la vittimizzazione che libera dalla responsabilità, ignora il contesto storico, vede le istituzioni come mezzi per realizzare i propri fini. Per esempio, il Consiglio per i Diritti Umani che si occupa quasi solo di Israele, fidando sull'ignoranza e l'indifferenza di fronte a terrorismo, dittatura, corruzione.
  Dopo l'ultima guerra di Hamas, in cui era chiarissimo chi fosse l'aggressore, e i missili grandinavano su Israele, si è invece avuto una ondata di odio antiebraico e antisraeliano: a Londra bastava avere una kippà in testa per essere aggrediti e così a Parigi, a Bruxelles. Degli ebrei si dice che sono parte del «suprematismo bianco», un altro modo di dichiararne il ruolo di oppressore. Ma anche gli italiani, gli inglesi e i francesi sono suprematisti bianchi, e colonialisti, e razzisti. É la logica della cultura di Durban: ottimo che non ci andiamo.

(il Giornale, 9 settembre 2021)


Ungheria: manoscritti ebraici salvati dall’asta

L'Hungarian Jewish Museum and Archives (HJMA) e la National Library of Israel (NLI) hanno acquistato sette documenti del XIX e XX secolo sulla vita ebraica nell’Ungheria di allora. Lo riportano vari media ebraici internazionali.
    Questi documenti includono atti di nascita, morte e matrimonio nelle comunità ebraiche locali, molti dei quali risalenti al periodo della Shoah e anche dopo la seconda guerra mondiale.
    Gli oggetti sono stati messi all'asta nell'agosto 2021 ma sono stati ritirati dopo varie proteste. L'HJMA e l'NLI adesso lavoreranno per rendere i documenti disponibili gratuitamente online e conservarli negli archivi.
    "Siamo convinti che i documenti, che rappresentano un patrimonio della comunità ebraica, di proprietà privata debbano essere acquisiti dagli archivi e dalle biblioteche pubbliche. – si legge in una nota dell’HJMA - La vendita o la donazione a tali istituzioni pubbliche è la soluzione permanente ideale. Solo archivi professionali con potenzialità digitale attiva, e una dedizione alla conservazione del patrimonio ebraico, possono occuparsi adeguatamente di questi documenti. Incoraggiamo tutti coloro che detengono tali manufatti ad avvicinarsi all'NLI, all'HJMA o ad altri archivi professionali per un accordo simile. Questi non sono il genere di documenti che possono essere tenuti da privati, inaccessibili al pubblico".
    Molti articoli simili sono stati rimossi dall'asta o sequestrati dalle forze dell'ordine nel 2021, e questo rende più difficile la loro adeguata conservazione negli archivi, ha dichiarato poi l'HJMA.

(Shalom, 8 settembre 2021)


La fine di un incubo?

"Ma finalmente è arrivata la fine di un incubo", sta scritto nel sottotitolo di un articolo di Fiamma Nirenstein del 19 aprile scorso in cui si annunciava che "Israele fa sparire le mascherine all'aperto". Era il segnale anticipatore della definitiva vittoria sul Covid.
  "Adesso in Israele per primi nel mondo torniamo a incontrarci, milioni sono vaccinati, un milione guarito su 9 di popolazione complessiva. I tassi di contagio e il numero dei morti bassissimo. E una vittoria meravigliosa, ma non invidiateci: imitateci", si dice nell'articolo.
  Segue un invito alla fede nel farmaco salvatore:
  "Prima di tutto, abbiate fiducia nel vaccino, è talmente evidente che in un ambiente con l'immunità di gregge subito la pandemia si ritira, si restringe, consente di nuovo di andare a scuola e prendere gli autobus."
  Si fa sapere che il prezzo (letteralmente, in senso di soldi) che si è dovuto pagare:
  "Il governo ha comprato i vaccini a prezzo elevato: certo, era meglio pagarli meno. Ma che importa rispetto al prezzo della vita."
  Si sottolinea poi che Israele ha battuto tutti nella corsa a chi riesce per primo a imporre ai cittadini il controllo sociale:
  "Adesso, al chiuso dobbiamo ancora indossare la maschera. Ma abbiamo una «carta verde» sul telefonino che certifica che siamo stati vaccinati. E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì."
  Se sottolineo tutto questo non è per schernire chi sinceramente ha sperato di vedere "la fine di un incubo", si è rallegrato nell'illusione di averla davvero vista, e adesso non può che rattristarsi nel prendere atto che invece l'incubo continua a regime più basso ma a tempo indefinito.
  Chi crede nella Bibbia sa che la storia è sempre "storia di Dio". Non c'è un'altra storia parallela. E poiché il volto con cui Dio ha mostrato agli uomini il suo modo di fare storia ha come elemento fondamentale Israele (in cui rientra l'apparire nella storia della persona di Gesù), è chiaro che quando appaiono fatti che scuotono l'intera struttura del vivere dei popoli, la prima cosa da fare è essere attenti a quello che si muove intorno a Israele. E così è stato anche questa volta. Il covid scuote la vita di popoli e nazioni, e manco a dirlo l'attenzione del mondo si rivolge ancora una volta verso un popolo che secondo umani calcoli avrebbe dovuto sparire qualche millennio fa. 
  Cercheremo di presentare in seguito qualche considerazione sul rapporto fra Israele e covid. Nel frattempo ripresentiamo alcuni articoli riportati in precedenza sul nostro sito. M.C.

(Notizie su Israele, 9 settembre 2021)


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5 FEBBRAIO - Israele si avvicina all'immunità di gregge. Col record di immunizzati (e di lockdown)

Ai 9 milioni di abitanti 5 milioni di dosi: fuori dalla crisi in tre fasi

di Fiamma Nirenstein

Israele non è soltanto il Paese che ha il maggiore numero di vaccinati al mondo e quello ha avuto il maggior numero di lockdown (tre): non sono due dati in contraddizione. È anche il Paese che ha avuto il coraggio e la severità di smontare qualsiasi pensiero ottimista, che ha intrapreso la battaglia contro il Covid come uno scontro fatale, per la vita: uno di quelli cui Israele è stato abituato sin dalla sua nascita. La crisi è costata 4.864 morti, tanti per un Paese di 9 milioni di persone, e 72mila infettati. I malati gravi sono circa 300, in diminuzione da quando le vaccinazione sono schizzate in alto, ma sempre troppi e le critiche al governo non mancano. Fa parte della vicenda del coronavirus: una pioggia di accuse alla classe dirigente.
   Ma non c'è dubbio: è stato a causa della durezza con cui il virus è stato affrontato da un Paese, da un popolo, da un primo ministro, Netanyahu, avvezzi a difendersi da pericoli mortali che Israele è diventato il numero uno nel mondo della lotta contro il Covid; è per questo che i miei amici dall'Italia chiedono se per caso c'è una norma per cui si possa venire a vaccinarsi a Gerusalemme o a Tel Aviv. Due giorni fa in Israele quasi 2 milioni di persone hanno ricevuto ambedue i vaccini, e più di 3 milioni la prima iniezione. Il 77% dei cittadini sopra i 50 anni sono vaccinati, e agli altri 400mila che restano in questa fascia d'età, il premier ha rivolto una supplica perché concludano il percorso: «La mutazione aleggia sul mondo intero - ha detto Bibi - la situazione è grave. in Israele l'80% dei nuovi casi sono dovuti alla variante inglese. Israele riesce a far fronte solo a causa della vastità delle sue vaccinazioni, ma dobbiamo andare avanti parecchio e veloce». E, spiega, fra le persone sopra i 50 anni c'è stata una discesa degli infettati del 26%, mentre il Covid oggi si manifesta di più fra i giovani. Ma alcune parti della società seguono leggi proprie e applicano una sorta di disobbedienza tecnica e morale: due giorni fa 20mila religiosi ammucchiati al funerale di un rabbino, ieri 10mila arabi alle esequie di un giovane. Gruppi sociali ribelli, profondamente convinti delle loro ragioni, che attaccano la polizia quando li blocca o li multa. Ma in tempi di elezioni (il 23 marzo) i politici non osano rompere.
   Ieri il gabinetto ha litigato senza tregua sulla decisione di continuare con il lockdown. Alla fine si chiuderà domenica, dopo un altro fine settimana. La riapertura sarà sperimentale e in tre fasi: subito via libera ad asili ed elementari, servizi alla persona e take-away.
   È una scelta innovativa, come lo è stata l'aggressività del governo nel procurarsi per tempo e contro lo scetticismo i vaccini di Pfizer e di Moderna pagandoli di più del prezzo del mercato: i racconti di Netanyahu che non lascia il telefono cercando i dirigenti delle società farmaceutiche, e discutendo a lungo i tempi di consegna e di pagamento sono ormai leggendari e ricordano un po' come Israele si procurò le armi dalla Cecoslovacchia per combattere l'attacco generalizzato del mondo arabo nel 1948.
   Il ministero della Sanità punta per domenica notte ad avere l'80% degli over 50 vaccinati, e vorrebbe far calare a 100 i malati gravi. La guerra continua.

(il Giornale, 5 febbraio 2021)


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16 MARZO - Israele festeggia la sconfitta del virus

di Fiamma Nirenstein

Il miracolo della vaccinazione, come nella storia ha eliminato il vaiolo, la difterite, il tetano, la polio, porterà alla liberazione dal Covid.
   Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo. Israele ha perso 6mila persone; da un picco di 79 perdite al giorno a gennaio adesso siamo a 16 morti al giorno. Non è finita, ma cala ogni giorno. Da dicembre, accolti dal primo ministro letteralmente trepidante, gli aerei di Pfizer e Moderna hanno portato i flaconi gelati all'aeroporto Ben Gurion e subito una macchina determinata, inventiva, si è messa in moto fra errori e stalli (le celebrazioni dei religiosi, il sospetto dei villaggi arabi). Ma come durante la guerra dei Sei Giorni, Israele ha colpito per primo e ha vinto l'esercito composito del terribile nemico: «Trenta volte mi ha chiamato, sì, letteralmente. Mi ha travolto il suo atteggiamento ossessivo», sorride il ceo Pfizer Albert Bourla. «Una volta gli ho detto Primo ministro sono le tre di notte. Mi ha spiegato - dice Bourla - perché Israele era il Paese più adatto per la missione del vaccino: né grande né piccolo, 9 milioni di abitanti, servizi sanitari capillari, organizzazione ferrea, deciso alla sopravvivenza». Gliel'ha spiegato Benjamin Netanyahu stesso, mentre dalla tv mostrava come si indossa la maschera, come ci si lava le mani, implorando di rimanere a casa per tre lockdown.
   Israele è stata ossessiva negli ordini e nelle multe anche se le manifestazioni si sono moltiplicate, il personale incaricato ha agito come una madre italiana, l'esercito ha mobilitato le reclute. Nel distribuire le dosi, dopo la scala per età, si rispondeva sempre «sì». E così oggi Tel Aviv balla per le strade, va al ristorante e al teatro con la patente verde. Esagera, anche se la prudenza è ancora indispensabile. Già si progetta l'eliminazione delle maschere ed è permesso, all'aperto, riunire cento persone. Al ristorante e al teatro si progetta la verifica rapida per chi non ha patente. Gli aeroporti sono ancora semichiusi, ma in Grecia, a Cipro e in Georgia si può andare in vacanza...
   Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria sul vaccino. Giorno dopo giorno, dal 20 di dicembre si è vaccinato il 90% degli ultra cinquantenni, il 51 fra i 16 e i 19 (gli allievi delle scuole), il 69 fra i 20 e i 29, il 46 fra i 30 e i 39 e l'81 fra i 40 e i 49. Sono 4,2 milioni che hanno ricevuto ambedue i vaccini, 5,1 milioni la prima dose. L'Rt è sceso allo 0,76 e il tasso di positività è caduto al 2,4%.
   Funzionerà? Dipende dal buon senso oltre che dalle varianti: il carattere israeliano ha più inventiva e chutzpa, la speciale impudenza per cui Netanyahu chiamava Bourla alle 3 di notte. Ma Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media; l'alleanza con vari stati europei per progettare una strategia futura; la distribuzioni dei propri vaccini in altri Paesi; i vaccini ai palestinesi. Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza. Che sia subito anche in Italia.

(il Giornale, 16 marzo 2021)


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16 MARZO - Israele è già ora il «rosh hagoim»?
  • Il miracolo della vaccinazione ... porterà alla liberazione dal Covid.
  • Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo.
  • Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria del vaccino.
  • Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media
  • Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza.
Dichiarazioni altisonanti, quasi di tono biblico, quelle di Fiamma Nirenstein nell'articolo che precede. E' un inno alla capacità dell'uomo di pervenire alla "comune costruzione della salvezza" accettando il ruolo di Israele come "leader mondiale nella vicenda" dopo che si è compiuto sulla sua terra "il miracolo della vaccinazione" che profeticamente "porterà alla liberazione dal Covid". Il senso della "missione storica" di Israele è stato "avvertito in modo molto diretto" dalla giornalista nell'ambulatorio il giorno del suo vaccino.
   Si proclama dunque, in un linguaggio profetico, la leadership di Israele nella guerra, dichiarata fin d'ora vittoriosa, che attualmente coinvolge l'intero pianeta.
   Trattandosi di profezia, sia pure in forma laica, si giustifica allora la domanda: Israele è già ora il «rosh hagoim»? Che significa? si chiederà qualcuno. L'autrice lo sa molto bene. Ma per tutti è bene chiarire che «rosh hagoim" è un'espressione che compare nella Bibbia e significa «capo delle nazioni». Dunque sta proprio scritto che Israele è il capo delle nazioni? si chiederà allarmato qualcuno. Sì, sta scritto. E dove? Nel libro del profeta Geremia. Ma in che contesto, a quale proposito? chiederà giustamente chi vuole fare verifiche testuali.
    כי כה אמר יהוה רנו ליעקב שמחה וצהלו בראש הגוים
    השמיעו הללו ואמרו הושע יהוה את עמך את שארית ישראל


    Così parla l'Eterno: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe e mandate grida per il capo delle nazioni; proclamate, cantate lodi e dite: O Eterno, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele (Geremia 31:7).
Ma a chi è rivolto questo invito? A tutti i popoli, alle "isole lontane" che rappresentano i gentili:
    O nazioni, ascoltate la parola dell'Eterno, e proclamatela alle isole lontane, e dite: 'Colui che ha disperso Israele lo raccoglie, e lo custodisce come un pastore il suo gregge' (Geremia 31:10).
Si tratta dunque di una parola profetica che annuncia per Israele un futuro di gloria a cui parteciperanno con gioia le altre nazioni, ma sarà Dio a far entrare nella storia questo futuro, non certo l'opera dell'uomo. E sarà Dio che stabilirà Israele come «capo delle nazioni», ma dopo che tutto il programma di salvezza e giudizio sarà compiuto, per Israele prima e per tutti gli altri dopo.
   Suona male dunque la presentazione di un Israele trionfante che si mette a capo di un programma di salvezza per tutto il mondo. Anticipare i tempi con le proprie forze e solo per i propri scopi è altamente rischioso per tutti, in primo luogo per Israele. "Io però non credo in Dio, quindi il discorso non m'interessa", dirà qualcuno. Il discorso comunque però non è chiuso, perché se la cosa interessa Dio, prima o poi interesserà anche quel qualcuno. M.C.

(Notizie su Israele, 16 marzo 2021)


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19 APRILE - Israele fa sparire le mascherine all’aperto. Sieri e riaperture: un modello da imitare

Come nel resto del mondo le vittime, le sofferenze dei tre lockdown e le ripartenze false. Ma finalmente è arrivata la fine di un incubo.

di Fiamma Nirenstein

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L'importanza di correre
Stadi, centri commerciali, tende montate per strada. Tutto per le iniezioni

Eccoci di nuovo esseri umani, una faccia, un nome, un sorriso, per la strada senza maschera. Non la chiamerò affettuosamente mascherina. E la fascia chiara che ha cancellato i lineamenti, il segnale di paura divenuto quotidiano e indispensabile: ha dato una mano di calce ai baci, al piacere dell'incontro, anche all'espressione della legittima frustrazione. Ha obliterato la bellezza persino dei bambini. Adesso in Israele per primi nel mondo torniamo a incontrarci, 5 milioni sono vaccinati, un milione guarito su 9 di popolazione complessiva. I tassi di contagio e il numero dei morti bassissimo. E' una vittoria meravigliosa, ma non invidiateci: imitateci.
   Prima di tutto, abbiate fiducia nel vaccino, è talmente evidente che in un ambiente con l'immunità di gregge subito la pandemia si ritira, si restringe, consente di nuovo di andare a scuola e prendere gli autobus. Dunque: aprite il vaccino a tutti, sia pure gradualmente qui si è andati dai più vecchi e quindi più fragili fino ai 16enni, e adesso si studia seriamente la possibilità del vaccino ai bambini. Si parla del vaccino senza spaccare il capello sui brevi sintomi delle reazioni, senza agitarci, senza accusare di maligne sperimentazioni Pfizer o Moderna o AstraZeneca. Come in tutte le complicate vicende di Israele la gente è stata la protagonista del processo di guarigione, la sua forza e la sua disciplina, mentre Netanyahu dava il suo meglio capendo che qui si giocava una partita di cui i libri di storia dovranno raccontare.
   Il governo ha comprato i vaccini a prezzo elevato: certo, era meglio pagarli meno. Ma che importa rispetto al prezzo della vita. Questo mentre l'Unione europea non si decideva a un accordo che mettesse in rapido movimento le case farmaceutiche. Appena ne ho avuto bisogno ho potuto ammirare personalmente la mobilitazione del sistema sanitario senza distinzione di mansioni: medici, infermieri, volontari, sia nella verifica delle malattia che nelle distribuzione del vaccino. Il criterio è sempre stato: velocizzare. Stadi, mall, tende montate per strada sono diventate centri per sperimentare modi velocissimi di vaccinare tutti. E stata dura, la sera del 73esimo anniversario della nascita dello Stato sono stati loro, i paramedici e i medici in camice bianco o verde, a cantare la canzone di apertura delle cerimonie nella genuina gratitudine generale.
   Abbiamo fatto tre lunghi periodi di chiusura totale, coi bambini a casa e le mamme e le nonne lontane; i vecchi, persino i sopravvissuti della Shoah, hanno languito in solitudine; abbiamo cercato di fissare l'attenzione dei bambini stanchi e tristi sugli schermi da cui le insegnanti inutilmente facevano del loro meglio; abbiamo intrapreso una battaglia contro schermi, lpad, televisori preservando qualche segno di vita intellettuale e artistica. Tutti hanno protestato contro il governo, l'economia adesso soffre come ovunque di un restringimento anche dovuto ai sussidi che sono stati distribuiti e che a volte invitano la gente a restare a casa invece che a lavorare con più lena, ora che si può. I tentativi di aprire via via in modo «intelligente» sono stati fatti più volte, fra le proteste popolari di chi soffriva i danni spaventosi del Covid, e spesso si è dovuto azzerare e ricominciare da capo. Ma abbiamo ritentato ogni volta di aprire dove era possibile senza tuttavia osare troppo, specie con le scuole e le istituzioni culturali.
   Soprattutto abbiamo inghiottito le lacrime di tanti lutti, abbiamo attraversato tragedie personali impensabili, è stata una guerra che certo porta con sé un grande post trauma anche per la mia stessa famiglia che ha avuto una perdita in Italia e una in Israele. Un importante studio certifica che un bambino su cinque soffre di ansia, e la società israeliana si sta impiegando ad affrontare il problema adesso. Così sarà per tutti. Adesso, al chiuso dobbiamo ancora indossare la maschera. Ma abbiamo una «carta verde» sul telefonino che certifica che siamo stati vaccinati. E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì. Ma una guerra, non è forse una forma di costrizione dell'essere umano a mettersi di fronte al proprio destino con un'arma in mano? Certo che sì. Ma è un'emergenza, una forma di lotta per la sopravvivenza.
   Mi si consenta una conclusione personale: chi proviene da Israele ed è vaccinato, non ha diritto a entrare come un europeo? E specialmente se è italiano? Se sì, non è l'ora di deciderlo come gesto di simpatia e di solidarietà per chi ha aperto la strada a tanto lavoro per battere il virus, tutti i virus, anche nel futuro?
   
(il Giornale, 19 aprile 2021)


Evviva! Il vaccino funziona, che altro c’è da dire? Israele su questo punto ormai è il primo della classe. Nessuno dubita che in molti casi la cosa principale sia il funzionamento, ma siamo sicuri che sia così anche in questo caso? “E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì”, riconosce l’autrice, ma, come diceva Nino Manfredi, “quanno c’è ‘a salute c’è tutto”, oppure, detto in altro modo, “è una forma di lotta per la sopravvivenza”. Timori per la libertà? Non è il caso di lasciarsi andare all’isteria: la libertà è un bene prezioso che per essere adeguatamente protetto deve essere consegnato e custodito in apposite cassette di sicurezza conservate e gestite a livello centrale. Liberi ma sorvegliati. Sorvegliati affinché si possa continuare ad essere liberi. Tutto torna, è sufficiente aggiornare il concetto di libertà e il gioco è fatto. M.C.


Il foro di Israele

Tutti gli errori che hanno permesso ai sei palestinesi di evadere dal carcere

di Micol Flammini

ROMA - Israele sta ancora cercando i sei uomini che lunedì mattina sono evasi dal carcere di Gilboa, che ha fama di essere uno dei più sicuri del paese. Si tratta di sei palestinesi, uno dei quali, Zakaria Zubeidi, è considerato un eroe della Seconda Intifada, gli altri sono tutti affiliati al jihad islamico, uno incriminato per omicidio, e la loro impresa ha suscitato un'ondata di festeggiamenti tra i palestinesi, che hanno esultato, sono andati in giro per le strade a distribuire caramelle e a celebrare lo smacco alla sicurezza israeliana. Mentre Gerusalemme interroga i parenti degli evasi e allarga il raggio della ricerca, i media israeliani si sono dati un gran da fare per capire come sia stata possibile una fuga del genere, così semplice per un carcere tanto sicuro. Hanno individuato una lunga serie di problemi e di inadempienze che hanno permesso l'evasione.
    Il progetto architettonico della prigione era su internet, disponibile sul sito dello studio che lo aveva progettato. I sei sono fuggiti attraverso un foro scavato nel terreno che partiva dal bagno attiguo alla cella di Zubeidi e arrivava fuori dai cancelli. Secondo Walla News i lavori di scavo sono durati un anno e il foro è stato per tutto il tempo coperto da un'asse, di cui a quante pare nessuno si era accorto. Poche ore prima della fuga gli uomini avevano ottenuto il permesso di ritrovarsi tutti nella cella di Zubeidi, da cui poi sono fuggiti, passando davanti a una torre di controllo, dove all'interno una recluta addormentata non si è accorta di nulla. Una volta fuori dai cancelli del penitenziario i detenuti hanno avuto il tempo di cambiarsi e poi si sono separati, probabilmente c'era una macchina ad attenderli.
    I detenuti hanno scavato sotto gli occhi della polizia - 14 agenti sono anche sospettati di aver collaborato - e questo racconto oltre a far male a Israele, sempre cauta nel preservare la propria sicurezza e fiera di mostrare l'infallibilità dei suoi apparati, ha anche rinvigorito i palestinesi, che sono stati molto contenti di poter vedere il lato debole degli israeliani. La fuga inoltre, secondo i media israeliani, avrebbe richiesto l'uso di cellulari che sono vietati e vengono spesso introdotti clandestinamente nelle prigioni. La sicurezza probabilmente sapeva, ma non ha fatto granché per requisirli per paura di proteste dentro al penitenziario. Uno dei fatti più gravi è che c'era già stato un precedente, nel 2014, quando alcuni detenuti hanno cercato di fuggire scavando un tunnel che passasse sotto al carcere. Tra questi detenuti c'erano anche alcuni dei sei uomini che lunedì invece ce l'hanno fatta e che in questi anni non sono stati sorvegliati, né loro né la possibilità che altri detenuti potessero scavare tunnel nel terreno.
    Il sistema penitenziario israeliano è emerso come un punto debole della sicurezza, di quei punti deboli che Israele, ancora meno di altri stati può permettersi. Ora la prima preoccupazione è che gli evasi cercheranno di organizzare degli attentati e più tempo passerà più sarà complesso ritrovarli. Per Israele è una macchia e una ferita, per i palestinesi un motivo di gioia che potrebbe tenere alto il morale dei gruppi terroristici.
    La fuga ha anche delle conseguenze politiche. Il primo ministro Naftali Bennett sa di doversi confrontare sempre con il suo predecessore Benjamin Netanyahu, che ha spesso posto l'accento sulla sicurezza che è riuscito a garantire nei suoi dodici anni di governo. Netanyahu ora è all'opposizione di un esecutivo nato con l'obiettivo di allontanarlo dalla premiership e Bennett si trova nel bel mezzo di due difficoltà: il contenimento della quarta ondata della pandemia e le minacce costanti che arrivano da ogni confine dello stato ebraico. Mostrare debolezza, fare errori: è proprio quello che lo stato ebraico evita da sempre. Le inadempienze del carcere di Gilboa si riflettono anche sul governo, che è formato da istinti diversi, anime contrapposte, e che rischia di venire giù da un momento all'altro.

Il Foglio, 8 settembre 2021)


Il Pentagono inserisce Israele e gli Stati arabi nel CentCom

Il passaggio di Israele dalla zona di Comando USA per l’Europa (EuCom) al Comando per l’area centrale (CentCom) era stato annunciato alla fine del mandato di Trump.
Ora è effettivo.
Il 6 settembre 2021 la marina statunitense e quella israeliana hanno iniziato manovre congiunte nel Mar Rosso.
Il CentCom gestisce già l’insieme del Medio Oriente Allargato, quindi anche tutti gli Stati arabi. D’ora in poi questi ultimi e Israele parteciperanno a esercitazioni congiunte.

(Réseau Voltaire, 8 settembre 2021)


Protezione giù dopo cinque mesi. Israele verso la quarta dose

Gerusalemme si conferma il laboratorio mondiale della lotta al Covid Il governo: «Con la terza iniezione over 60 coperti all'86% dal contagio».

di Aldo Baquis

TEL AVIV - Mentre la quarta ondata di pandemia colpisce il Paese e le cifre dei contagiati raggiungono livelli record, le autorità sanitarie israeliane sono impegnate in una somministrazione di massa della terza dose di vaccino Pfizer. Israele è in questo campo il primo al mondo e molti occhi sono puntati sulla sua esperienza. A monte vi è un'anteprima degli ultimi studi condotti dal Maccabi Healthcare Services e della Yale School of Public Healt che registrano un sensibile calo della protezione vaccinale cinque-sei mesi dopo la chiusura del ciclo d'immunizzazione. Da qui la corsa al secondo richiamo.
  Postazioni di vaccinazione vengono tenute aperte nelle principali città anche 24 ore al giorno e attorno si creano lunghe code. Concepita a fine luglio solo per gli oltre sessantenni, adesso l'immunizzazione viene offerta a tutti quanti abbiano oltre 12 anni, a condizione che siano trascorsi cinque mesi dalla seconda dose. Unità mobili sono incaricate di raggiungere località periferiche del Paese e localizzare anziani e quanti hanno difficoltà di spostamento.
  I numeri sono da capogiro: dal 1 agosto, quando è scattata l'operazione, 2, 7 milioni di Israeliani (su un totale di 9,2) hanno richiesto la terza dose. Sono 5,5 milioni quelli che per ora ne hanno solo due e 6 milioni quelli con una. Intanto all'orizzonte si profila la possibilità che all'inizio del 2022 occorrerà provvedere anche ad una quarta dose. La decisione di somministrare la terza dose è stata molto combattuta. Ancora il 23 luglio, in una drammatica consultazione fra decine di esperti del ministero della sanità, si erano opposte due diverse visioni del problema. Da un lato, vi erano quanti temevano per la incolumità degli anziani, dall'altro quanti invece in assenza di dati solidi suggerivano di non lanciarsi in avventure rischiose.
  Decisivo è stato l'intervento del premier Naftali Bennett che un anno fa ha pubblicato un libro intitolato: 'Come sconfiggere la pandemia'. Essa - sostiene - va contenuta, ma non al costo di bloccare la attività del mercato. Anche da qui la necessità di vaccinazioni a tappeto. In un documento del 19 agosto, il ministero della Sanità ha rilevato «un calo significativo nel tasso di contagio e di ricoveri degli aver 60 che hanno ricevuto la terza dose, rispetto ai loro coetanei che ne hanno ricevute solo due». Per quanto riguarda i contagi, la protezione fra i primi è di «quattro volte superiore» rispetto a quella dei secondi. Per le forme gravi di malattia o eventuali ricoveri, la loro difesa è «5-6 volte superiore».
  Di fronte alla particolare aggressività della variante Delta, anche quanti hanno ricevuto una terza dose di Pfizer rischiano un contagio: ma hanno probabilità molto migliori di uscirne senza gravi conseguenze. Dieci giorni dopo la somministrazione della terza dose, ha rilevato la cassa mutua Maccabi, fra gli aver 60 la difesa dal contagio sale a 86 per cento. Alla variante Delta (che la settimana scorsa ha provocato fino a 10mila contagi quotidiani) Israele oppone dunque una campagna martellante di vaccinazione di massa che è riuscita almeno a tenere sotto controllo il numero dei malati gravi (660- 700, negli ultimi giorni). Ma le incognite restano: la prima riguarda il possibile indebolimento della terza dose, così come già avvenuto per le prime due. Inoltre potrebbero entrare in campo nuove varianti.

(Nazione-Carlino-Giorno, 8 settembre 2021)


Il malaffare farmaceutico. Parla l'ex vicepresidente di Pfizer

Abbiamo trovato in rete un video del dr. Peter Rost, ex vicepresidente di Pfizer. E' datato 3 marzo 2017, dunque quando non c'erano ancora i "no-vax". Sotto il video compare un solo breve commento, segno che non è stato molto visitato, e forse è stato "dimenticato" in rete. Ha la sottoscritta in italiano, ma la riportiamo comunque per esteso. Dice cose che sono note o facilmente immaginabili, ma poiché è considerato immorale chi resiste ai vaccini, è bene che si sappia qual è la base morale che spinge le multinazionali farmaceutiche a promuovere il mercato dei vaccini: i soldi. Soltanto i soldi. Il dio Mammona.

«Le università, le istituzioni sanitarie e tutti coloro che ho incontrato quand'ero a capo di una casa farmaceutica, tutti vogliono soldi. Nessuno ha soldi e tutti ne hanno bisogno. Il governo non ha soldi e le università non ne hanno. Le uniche coi soldi sono le grandi multinazionali, e loro ne hanno tanto, e lo usano per esercitare influenza. Il modo in cui viene fatto è il seguente: dai a queste istituzioni e organizzazioni delle donazioni per ricerche contro il cancro, per fare insieme delle ricerche, sviluppi delle amicizie, ti assicuri che queste istituzioni siano in debito con te. Paghi i professori, i ricercatori e i dottori direttamente, oppure li fai andare in giro per il paese come speaker, per parlare in conferenze, e li paghi 1000, 2000 dollari al giorno, a volte di più... Dai dei soldi che vanno in programmi educativi dai quali queste istituzioni ricavano guadagni, e questi programmi dovrebbero essere indipendenti dall'organizzazione che li ha sponsorizzati. Ma noi sappiamo bene che chi lavora con un badget promozionale di una multinazionale, probabilmente darà quei soldi alle università che fanno programmi che sostengono l'uso del medicinale prodotto da quella multinazionale. E coloro che non lo fanno o che in qualche modo lo criticano non ricevono soldi. Sappiamo tutti che è così che funziona e questo significa che anche se ufficialmente diciamo: "Noi non influenziamo quello che fanno, noi abbiamo solo donato dei soldi, possono fare quello che vogliono", la realtà è che non continueranno a ricevere soldi a meno che non dicano quello che desideriamo. Loro lo sanno, tu lo sai e forse è solo il pubblico che non lo sa. Ed è così che si influenza la classe medica: coi soldi, semplicemente.»
   Si noti in particolare come opera una casa farmaceutica con le istituzioni a cui fa "donazioni": "... ti assicuri che queste istituzioni siano in debito con te". E' la tecnica dello strozzino: spendi pure i soldi che ti ho prestato, quando non sarai più in grado di restituirmeli, sarai costretto a fare quello che ti dico io. Tra le istituzioni a cui le multinazionali farmaceutiche fanno "donazioni" ci sono intere nazioni, che poi devono sottoporsi agli obblighi imposti dai creditori. Ma non è tirannia sanitaria, è soltanto mercato internazionale, così come è stato sempre inteso. Il mercato del dio Mammona. M.C.

(Notizie su Israele, 8 settembre 2021)


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Le industrie farmaceutiche «inventano le malattie», il vecchio documentario Rai diventa un caso

«Mi chiamo Peter Rost, sono un medico, e ho lavorato per circa vent’anni nel settore farmaceutico, in ultimo alla Pfizer come vicepresidente del settore marketing, e dopo essermene andato dalla Pfizer per aver denunciato pubblicamente alcune pratiche illegali, ho lavorato come scrittore, giornalista e consulente negli Stati Uniti. Ho definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”.

Dopo il servizio sui coronavirus dei pipistrelli studiati in Cina, un altro vecchio servizio Rai – ora a quanto sembra non visionabile sul sito dell’azienda ma comunque presente nell’archivio – sta circolando sul web e, in piena pandemia, si può facilmente intuire il perché. Il titolo è «Inventori di malattie» ed è un’inchiesta del giornalista, scomparso di recente, Silvestro Montanaro. Il documentario contiene tra le altre un’intervista al medico ‘insider’ Peter Rost, che ha lavorato per anni ai vertici di importanti case farmaceutiche, in ultimo alla Pfizer (come noto, una delle aziende distributrici di vaccini per il Covid-19 o Virus del Pcc). Quest’ultima è con molta probabilità tra le ragioni ultime per cui il video è diventato virale, ma c’è dell’altro.
  Nell’inchiesta del 2009 del programma Rai "C’era una volta", condotto allora da Montanaro, veniva messo in luce infatti come l’industria farmaceutica sia in qualche modo costretta a ‘creare’ sempre nuove malattie per continuare a generare profitti sempre più grandi. In particolare verrebbero messe in atto strategie con cui si ‘inventano’ malattie già anni prima dell’uscita di un certo farmaco, così da assicurarsi poi i profitti delle vendite di quest’ultimo, dopo un periodo adeguato di marketing e pubblicità. Insomma, niente altro che «farmaci per gente sana». Questo quindi ha portato in molti, soprattutto chi nega l’esistenza del virus Covid-19 (o comunque chi mette in discussione la sua reale pericolosità o gravità, o chi critica le misure di lockdown), a ricollegare l’attuale pandemia alle dinamiche illustrate nel documentario.
  Il fenomeno viene descritto nel video come noto e diffuso e prende il nome di ‘disease mongering’, ovvero la commercializzazione delle malattie. In pratica significa che portando agli estremi la definizione di malattia, si possono produrre altre e nuove malattie, facendo rientrare tra i segnali di queste ultime dei sintomi molto confondibili e/o diverse sensazioni comuni e spesso normali che le persone hanno.
  Il punto sottolineato dal documentario ad ogni modo, non è che non esista alcuna patologia e che tutti i farmaci siano quindi inutili per tutti, ma che spesso e volentieri, in maniera scorretta o per esigenze di mercato, si tende a far leva sulle emozioni di panico e sulla paura per dei sintomi lievi o comunque sopportabili e forse destinati a passare da soli, al fine così di creare una domanda di farmaco più estesa per quella determinata malattia e vendere così più farmaci di quanti realmente ne servirebbero. E questa strategia sembra avere enormemente successo a volte, tanto da generare ingenti guadagni, ma allo stesso tempo anche molti danni. Quegli stessi farmaci potrebbero infatti generare a loro volta nuovi sintomi o effetti collaterali che richiedono nuove cure e quindi nuovi farmaci da poter vendere.
  Tuttavia oltre che a estendere notevolmente la domanda dei farmaci per le malattie già esistenti, si spiega nell’inchiesta, le case farmaceutiche riuscirebbero a creare persino malattie che non esistono pur di vendere un farmaco. Potrebbe sembrare che questo passaggio nel video avalli quindi le idee di quelli che sostengono che il Covid-19 non esista per nulla: ma nell’inchiesta, a tal riguardo, si prendono come riferimenti condizioni di partenza molto diverse dalle dinamiche dei virus, come timidezza, menopausa e invecchiamento, e non si fa riferimento ai virus. Ad ogni modo si dà comunque ampio spazio alla strategia della paura adottata dalle industrie farmaceutiche. Per tale ragione, inevitabilmente e di questi tempi, il video è diventato virale.
  Nell’inchiesta il medico ‘insider’ Peter Rost esordisce così, entrando a gamba tesa contro il settore farmaceutico: «Mi chiamo Peter Rost, sono un medico, e ho lavorato per circa vent’anni nel settore farmaceutico, in ultimo alla Pfizer come vicepresidente del settore marketing, e dopo essermene andato dalla Pfizer per aver denunciato pubblicamente alcune pratiche illegali, ho lavorato come scrittore, giornalista e consulente negli Stati Uniti. Ho definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”. E intendevo dire che – esattamente come il crimine organizzato – il settore farmaceutico è stato dichiarato colpevole di reati molto grossi, e ha pagato multe di miliardi di dollari; è molto potente, e se qualcuno prova a parlare apertamente di quello che succede in quel mondo, viene letteralmente mandato via a calci. E quindi, il settore farmaceutico si comporta e ha un potere sulla politica molto simile alla mafia».
  Poi continua, rincarando la dose e mettendo in risalto la connessione tra case farmaceutiche, business e borsa a livello mondiale: «A Wall Street non importa quanti soldi fai o quali sono gli utili che riesci a ottenere, l’unica cosa che interessa a Wall Street è quanti utili in più farai l’anno successivo. Perciò si instaura una specie di circolo vizioso, per cui i tuoi successi passati, l’enorme successo ottenuto con un farmaco importante significano che devi fare ancora meglio con i nuovi farmaci anche se non hai niente in cantiere, e ciò spinge le aziende a fare cose illegali, cose che non dovrebbero fare».

(Epoch Times, 16 febbraio 2021)


Domanda: le affermazioni di Peter Rost sono tutte false e tendenziose? sono del tutto incredibili? sono espressioni "deliranti" di un incorreggibile no-vax? Se uno risponde Sì, è meglio lasciarlo stare: dorme sonni tranquilli e nel breve tempo non si può fare molto per recuperarlo. La maggioranza invece risponderà No, ma è proprio per questo che si fa di tutto per discreditare e mettere a tacere non solo chi presenta prove documentabili di "malaffare farmaceutico", ma anche chi soltanto osa fare di questo argomento oggetto di discussione. Non si deve discutere, si deve ubbidire. Punto e basta. Si deve innalzare il venerando motto dell'Arma dei Carabinieri: "Usi a ubbidir tacendo e tacendo morir". Anche se di prima dose. O di seconda, o di terza, o di quarta, che importanza ha? Purché mentre si resta in vita si possa girare il mondo col Green Pass in tasca. L'asservimento è bello. L'asservimento protegge. Viva la socioservitù! M.C.


L'Italia non va a Durban. No alla festa dell'antisemitismo

di Giulio Meotti

ROMA - L'Italia, in linea con altri paesi occidentali, non parteciperà alla prossima Conferenza mondiale contro il razzismo di Durban, che si svolgerà a settembre a New York. Nella Conferenza svoltasi nel 2001 in Sudafrica Israele venne definito uno "stato razzista e di apartheid". Dopo Stati Uniti, Canada e Australia, anche il Regno Unito a luglio aveva deciso di boicottare l'evento dell'Onu che si trasformò in una kermesse di pregiudizi anti-israeliani e antisemiti. Gli Stati Uniti hanno annunciato il mese scorso il loro boicottaggio dell'evento, fissato per il 22 settembre, a causa del "sentimento anti-israeliano del processo di Durban, utilizzato come forum di antisemitismo" e per "prendere di mira" Israele in modo unico e pregiudiziale. Poco dopo si sono aggiunti Canada e Australia, con motivazioni analoghe. Nella bozza finale della Conferenza mondiale contro il razzismo del 2001, nota come "Durban I" dal nome della città sudafricana dove si svolse, il caso palestinese era l'unico al mondo espressamente citato nella sezione "vittime di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza". A Durban, il Forum delle ong approvò una risoluzione che definiva Israele uno "stato di apartheid razzista" accusandolo di genocidio. Durante l'evento vennero distribuiti materiali dichiaratamente antisemiti, come i "Protocolli dei Savi di Sion".
   La "strategia di Durban", che gioca sull'impalpabile confine fra critica e istigazione all'odio scavalcato dalle menzogne, si va diffondendo da più di un decennio in occidente in generale e in Europa in particolare. Ci sono i missili di Hamas e Hezbollah sotto l'ombrello pre-nucleare dell'Iran (ieri è evaso da Israele il leader delle Brigate dei martiri di al Aqsa). Poi c'è il campo di battaglia, non meno importante, delle idee, delle università, dei media. E qui è in corso qualcosa di agghiacciante, la facilità seduttiva con cui si dà credito a ogni accusa contro lo stato ebraico nell'insostenibile leggerezza con cui si trasforma l'unica democrazia del medio oriente in un mostro.

Il Foglio, 8 settembre 2021)


Un buco sotto al bagno. L’evasione da film di 6 detenuti palestinesi

Fuga dal penitenziario di massima sicurezza di Gilboa alla vigilia del Capodanno ebraico. Tra i latitanti anche un leader di Al Aqsa

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — Alla vigilia di Rosh Hashanà, il Capodanno ebraico, Israele si è svegliato con la notizia di una delle falle di sicurezza più clamorose della sua storia: nella notte di lunedì, sei prigionieri palestinesi sono evasi dalla prigione Gilboa, nell’area del Lago di Tiberiade. Una fuga sensazionale, «precisa e meticolosa » a detta del ministro della Sicurezza Interna, Omer Bar-Lev, effettuata attraverso un tunnel che collega i sanitari della cella numero 5 e conduce, in una ventina di metri, fuori dalla cinta muraria, esattamente sotto la torretta di sorveglianza, dove i primi agenti arrivati hanno trovato divise abbandonate a coprire lo sbocco di uscita. Gli evasi sono cinque membri della Jihad Islamica condannati all’ergastolo per attentati. Con loro Zakaria Zubeidi, già comandante a Jenin per le Brigate dei Martiri di Al Aqsa affiliate a Fatah, icona palestinese della Seconda Intifada che negli anni aveva beneficiato di un’amnistia, fino a quando non è stato arrestato nel 2019 per aver programmato una serie di attentati.
  Il sospetto è che parte della cellula possa aver già varcato il confine con la Giordania, che a pochi chilometri dal carcere ha diverse brecce note da tempo. La caccia all’uomo continua in tutto il Paese: nelle strade congestionate dagli israeliani che si riuniscono per celebrare la festività, sono stati dispiegati 200 posti di blocco. Nonostante l’allerta rapimenti e attentati, le autorità invitano a proseguire la routine festiva, ma anche «a mantenere gli occhi aperti». E sono proprio gli occhi vigili di alcuni passanti — un tassista e dei contadini che si avviavano verso i campi nell’adiacente valle di Harod — che hanno fatto scattare l’allarme nel corso della notte: due telefonate alla polizia segnalavano «figure sospette» che correvano nei pressi di quello che è definito un carcere di massima sicurezza. Ma solo dopo due ore gli agenti hanno realizzato che all’appello mancavano i sei. Questo è solo uno degli incredibili errori che emergono man mano che le indagini proseguono: uno dei più clamorosi è che, la sera prima, Zubeida aveva chiesto e ottenuto di passare dalla cella 3 alla 5, una mossa considerata obsoleta perché la prassi vuole che i detenuti vengano tenuti separati in base all’affiliazione. Poi è emerso che la planimetria del carcere era reperibile sul sito Internet dello studio di architetti che l’ha progettato. Non solo, il penitenziario è costruito su palizzate che creano delle incanalature sotterranee che, secondo i primi elementi dell’inchiesta, costituirebbero buona parte del tunnel di fuga (scavato quindi solo in parte manualmente, forse con un cucchiaio arrugginito conservato dietro a un poster nella cella, secondo il Jerusalem Post ).La struttura obsoleta del carcere era questione nota almeno dal 2014, quando era stato sventato un tentativo di fuga con modalità simili. Infine, l’agente di turno nella torretta di sorveglianza ha ammesso di essersi addormentata.
  A Gaza e a Jenin sono in corso festeggiamenti per «l’azione eroica», mentre i leader di Hamas e della Jihad Islamica dichiarano che «è dovere morale di ogni palestinese difendere gli evasi» avvertendo che non ci sarà pietà per i delatori. Wafa , l’agenzia stampa dell’Anp, ha fornito un efficace montaggio delle scene del noto film Le ali della libertà sovrapposte alle immagini del tunnel di Gilboa. Ha poi reso noto che il presidente Abu Mazen ha chiamato l’omologo israeliano Herzog e il ministro della Difesa Benny Gantz per gli auguri di Capodanno, auspicando un «rafforzamento delle relazioni». Ecco un primo banco di prova alle porte del nuovo anno.

(la Repubblica, 7 settembre 2021)


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Zubeidi, una fuga eccellente che imbarazza Israele

Evasione da film per l'ex capo delle Brigate al Aqsa e altri cinque prigionieri politici. Per i palestinesi è un «eroe». Per le autorità di Tel Aviv che ora lo braccano un «terrorista». L'ex primula rossa della seconda Intifada, una vita tra lotta armata, teatro e carcere.

di Michele Giorgio 

GERUSALEMME - Non sono evasi calandosi giù con le lenzuola annodate ma la fuga dal carcere israeliano di massima sicurezza di Gilboa, messa in atto domenica notte da sei prigionieri politici palestinesi, tutti di Jenin, è stata ugualmente cinematografica. Per mesi, sfuggendo ai controlli delle guardie carcerarie, hanno scavato un tunnel sotterraneo dalla loro cella, la numero 5 nella sezione 2, fino all'esterno della prigione. E come in un film sono riemersi distanti dal muro esterno trovando ad attenderli, con ogni probabilità, uno o più complici. 
  Ieri sera erano ancora liberi nonostante la gigantesca caccia all'uomo avviata dalle autorità israeliane, con dozzine di posti di blocco allestiti ovunque, in Israele come in Cisgiordania. In particolare, intorno alla vicina città di Jenin e lungo il confine con la Giordania. Mobilitati, oltre alla polizia, anche l'esercito e lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno. 
  «Non si può tralasciare la possibilità che possano compiere un attentato. Da quando sono scappati è passato molto tempo e potrebbero essere in qualsiasi posto del territorio nazionale», ha detto ai giornalisti, provando a nascondere l'imbarazzo per l'accaduto, Avi Bitton, un comandante della polizia. Mentre l'ufficiale parlava, a Jenin, in vari centri della Cisgiordania, a Gaza e sui social, i palestinesi celebravano l'evasione, compresi diversi dirigenti del partito Fatah di Abu Mazen. Hamas e Jihad da Gaza hanno parlato di «azione coraggiosa ed eroica» ed elogiato i fuggitivi. La presidenza dell'Anp e il governo Shttayyeh invece non hanno commentato l'accaduto. 
  Non è la prima evasione di palestinesi da un carcere israeliano ma è la più clamorosa di questi ultimi anni. Per un paese che fa della sicurezza e della forza militare il suo totem e che vanta tecnologie di sorveglianza e controllo tra le più avanzate al mondo, la fuga dal carcere di Gilboa è un duro colpo a una immagine consolidata di efficienza. Invece i giornali e le stesse autorità hanno rivelato ieri che in quella prigione la sicurezza non era poi così «massima» e che i direttori che si sono succeduti in questi anni non hanno saputo risolvere i problemi più evidenti. Diversi i punti deboli e i sei palestinesi hanno saputo approfittarne. 
  Ma ad accrescere in queste ore rabbia e imbarazzo in Israele è anche un nome. Tra gli evasi, cinque sono militanti del Jihad islam. Il sesto è Zakaria Zubeidi, l'ex comandante delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah) a Jenin, una delle figure più note - «famigerate» per Israele - della seconda Intifada palestinese (2000-2005) e personaggio singolare per storia politica e vicende personali. 
  Zubeidi, 45 anni, era stato uno dei piccoli attori del teatro aperto nel campo profughi di Jenin della regista ebrea israeliana Ama Mar, e appare di sfuggita in quel capolavoro che è il documentario I bambini di Ama girato da Juliano Mar, il figlio di Ama, assassinato a Jenin nel 2011 in circostanze mai chiarite. Bambini diventati giovani combattenti, «terroristi» per Israele, all'inizio della seconda Intifada. Di Zubeidi si parlò molto in quegli anni. Israele lo accusa di aver partecipato a un attacco armato palestinese in cui furono uccisi sei attivisti del partito Likud. 
  Per i palestinesi invece è stato per anni una «Primula Rossa», capace di sfuggire più volte alla cattura e a omicidi mirati che però sono costati la vita alla madre e al fratello. Fece parlare di sé fra il 2002 e il 2004 per la relazione che, in latitanza, ebbe con Tali Fahima, una giovane ebrea israeliana di destra convertita al pacifismo e alla sinistra che si innamorò di lui durante una visita al campo profughi di Jenin. Fahima, che si proclamava «uno scudo umano», fu condannata a tre anni di carcere per aver aiutato a decifrare, per conto delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, una fotografia aerea scattata dalle forze armate israeliane e perduta da un soldato, nella quale erano segnalate le abitazioni di alcuni palestinesi ricercati, permettendo così a questi ultimi di sfuggire all'arresto. Lei spiegò di averlo fatto per impedire che quelle persone venissero uccise vista la politica di Israele di eliminare fisicamente gli attivisti palestinesi. «Non mi pento di niente, rifarei di nuovo quello che ho fatto, ne valeva la pena», disse la giovane donna quando uscì dal carcere. Zubeidi dopo il 2005 ebbe una stagione della sua vita «non armata». Rinunciò al mitra approfittando di un accordo raggiunto da Abu Mazen con le autorità israeliane per i combattenti dell'Intifada e decise di dedicarsi al teatro. Fondò con Juliano Mar e altri il nuovo Teatro della Libertà a Jenin, erede in una certa misura, del teatro di Ama che frequentava da bambino. I giornalisti lo incontravano e intervistavano con facilità nelle strade del campo profughi di Jenin che nel frattempo era stato ricostruito (fu distrutto per metà dalle ruspe militari nel 2002 ). Ma forti dissapori con Fatah e l'Anp lo portarono ancora sulla strada della militanza armata. Infine, qualche tempo fa l'arresto da parte delle autorità israeliane. 
  Ora comincia un nuovo capitolo della sua esistenza di «eroe» per i palestinesi e di «terrorista» per Israele. L'ultimo prevedono alcuni. Pochi palestinesi credono che Zubeidi e gli altri evasi riusciranno a sfuggire alla cattura, forse all'uccisione, da parte delle forze armate israeliane intenzionate a rimediare in qualsiasi modo alla figuraccia fatta domenica notte. 

(il manifesto, 7 settembre 2021)


La Serbia acquista armi da Israele

A fine agosto la Serbia ha aperto un ufficio commerciale a Gerusalemme con l’obiettivo di rafforzare i legami economici con Israele. Pochi giorni dopo, l’azienda Rafael ha confermato le trattative per la vendita a Belgrado dei nuovi missili Spike.

di Marco Siragusa

ROMA – Meno di una settimana. Questo il tempo trascorso tra l’annuncio, da parte della Camera di Commercio e dell’Industria serba, dell’apertura di un ufficio commerciale a Gerusalemme e la conferma dell’azienda di stato israeliana Rafael delle trattative per la vendita a Belgrado dei missili anticarro di ultima generazione Spike.
  Anche se la cerimonia ufficiale per l’apertura dell’ufficio avverrà solo a novembre, le autorità serbe non hanno perso tempo nel dedicarsi a rafforzare le relazioni economiche nel campo degli armamenti con Israele. L’obiettivo principale dell’ufficio sarà quello di “creare le condizioni per un accordo di libero scambio tra i due paesi” comprendente diversi settori come quello immobiliare, delle energie rinnovabili, delle infrastrutture e del turismo. E, anche se non esplicitato nelle dichiarazioni ufficiali, quello del commercio di armi. I missili anticarro Spike, al centro della trattativa, sono considerati tra i più moderni e potenti in circolazione. Prodotti in Germania dalla Eurospike, sussidiaria di Rafael, i missili sono già in dotazione delle forze armate di Croazia e Slovenia. Questa nuova tecnologia verrà probabilmente esposta durante l’Adriatic Sea Defense and Aerospace (ASDA), che si svolgerà nella città croata di Spalato dal 29 settembre al 1 ottobre e che vedrà la partecipazione della Rafael ma non della Jugoimport, l’azienda serba coinvolta nella trattativa.
  Non è la prima volta che Serbia e Israele confermano di aver avviato trattative per il commercio di armi. Era già successo nel marzo del 2020 quando il presidente serbo Aleksandar Vučić, partecipando alla conferenza annuale dell’AIPAC, la più grande lobby filo-israeliana degli Stati Uniti, aveva annunciato l’arrivo di “una consegna non da poco” di armi israeliane. In quell’occasione Vučić aveva anche affermato che in Serbia non esiste nessuna campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) verso Israele e che il paese “non è un terreno fertile per messaggi antisemiti”.
  Pochi mesi dopo, nel settembre del 2020, lo stesso Vučić si recava negli Stati Uniti per firmare un accordo con il Kosovo che prevedeva, tra le altre cose, lo spostamento dell’ambasciata serba da Tel Aviv a Gerusalemme entro luglio 2021 e il reciproco riconoscimento tra Kosovo e Israele. Ma mentre Pristina ha dato seguito all’accordo aprendo nel marzo di quest’anno la propria ambasciata a Gerusalemme, la Serbia, dopo le numerose critiche ricevute dall’Unione Europea e dalla Turchia, ha rinunciato almeno momentaneamente allo spostamento della propria sede diplomatica.
  Il riconoscimento del Kosovo da parte di Israele, avvenuto nel febbraio di quest’anno, ha creato non poche tensioni con Belgrado. Il ministro degli Esteri Nikola Selaković aveva pubblicamente espresso il suo disappunto dichiarando di non essere per nulla contento di questa decisione che “influenzerà senza dubbio le relazioni tra i due paesi”. Evidentemente gli interessi economici e dell’industria militare si dimostrano più forti di quelli identitari, sbandierati in maniera strumentale dalle autorità politiche serbe ogniqualvolta si renda necessario compattare l’opinione pubblica attorno ai propri leader.
  Proprio quest’anno ricorrono i 30 anni dall’avvio delle relazioni diplomatiche tra Serbia e Israele. La prima visita ufficiale di un primo ministro serbo è avvenuta nel dicembre 2014 con l’incontro tra lo stesso Vučić, non ancora presidente della Repubblica, e il suo omologo Netanyahu a Gerusalemme. Quattro anni dopo, nel 2018, era toccato al presidente israeliano Rueven Rivlin recarsi in Serbia per la prima visita di un capo di stato israeliano in Serbia. Oggi, le relazioni tra i due paesi possono considerarsi più che ottime, proiettate verso un ulteriore sviluppo dei rapporti economici.

(NenaNews, 7 settembre 2021)


Israele riparte e conta sul trade

Le novità, dal deserto del Negev all’aeroporto di Eilat

Israele punta sul turismo organizzato vaccinato e a rafforzare il rapporto con il trade tra eventi e formazione. Il paese rilancia con l’ingresso a gruppi di turisti provenienti dall’Italia e da altri paesi selezionati, in vista delle prossime festività ebraiche e in considerazione della recente diminuzione dei casi di Covid-19. Inoltre prosegue la campagna promozionale verso i  luoghi meno noti della destinazione, lanciando anche il nuovo aeroporto di Eilat-Ramon. 
  “Non abbiamo mai smesso di lavorare per il turismo – conferma Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia, presentando a Roma  i progetti dell’ente – e ora siamo pronti  per accogliere nuovamente e al meglio i turisti italiani, che rappresentano un mercato importantissimo confermandosi al quinto posto. Abbiamo già ricevuto i primi gruppi per il turismo religioso dopo tempo ed è stata una prima prova di successo. Al momento è solo consentito il turismo organizzato e stiamo proponendo Israele come meta variegata, ampliando l’offerta puntando su zone ancora poco conosciute, come ad esempio il deserto del Negev, che offre anche l’accesso al mar Rosso e al mar Morto. L’area è facilmente raggiungibile proprio dall’aeroporto di Eilat-Ramon e per il quale è pronta una direttiva governativa che partirà a breve con gli incentivi per le compagnie aeree per operare voli su Eilat. Oltre alla cultura e alla storia stiamo valorizzando i prodotti  outdoor, l’enogastronomia e gli eventi, che abbiamo mantenuto in calendario rispettando tutte le norme di sicurezza”.
  Si conferma saldo il rapporto con le agenzie: “In questi mesi abbiamo collaborato molto con il trade organizzando webinar, incontri di formazione con oltre mille agenzie, notando anche richieste da parte di nuovi operatori interessati alla programmazione di Israele – conclude Goren Perry -. Attualmente in Israele è tutto aperto, non solo hotel e ristoranti, ma anche musei, teatri e le attrazioni  fruibili, esclusivamente per chi è vaccinato. Intendiamo ripartire in sicurezza e questi sono i primi passi”.

(Travel, 7 settembre 2021)


La corsa alle cattedre dopo le leggi razziali (e i due che dissero no) 

di Enrico Nistri 

Se la cultura della cancellazione non ha rispettato a Londra nemmeno Churchill, non c'è da scandalizzarsi se a Pisa prende d'assalto la targa stradale che ricorda Giovanni D'Achiardi, che fu è vero uno dei massimi studiosi italiani di mineralogia, ma su cui grava la colpa di aver applicato in quanto rettore dell'Ateneo le leggi razziali, togliendo la cattedra ai docenti ebrei. E poco importa che lo studioso non costruì le sue fortune accademiche sulla politica, anzi, nel 1927, fu rimosso dall'incarico di rettore perché privo della tessera del Pnf, salvo essere reintegrato nel 1935. O che, come si legge nel Dizionario biografico degli italiani, abbia ispirato «una profonda stima nei colleghi universitari e in tutti i cittadini di Pisa». 
  La repulsione nei confronti delle leggi razziali fa sì che, al di là dei meriti personali, la memoria di chi ha collaborato alla loro applicazione sia sottoposta a un processo senza prescrizione. E successo qualche anno fa ad Arrigo Serpieri, insigne agronomo, sottosegretario alla bonifica integrale, rettore dell'Ateneo fiorentino nel 1938, cui il capoluogo toscano ha intitolato una strada fra molte polemiche. Sta succedendo anche a D'Achiardi cui la storia, o meglio la politica, presenta tardivamente il conto. Eppure, se è corretto giudicare, anche tardivamente, chi per intima convinzione o automatismo burocratico privò della cattedra insigni maestri, è doveroso interrogarsi sul perché i posti lasciati vuoti dall'epurazione non rimasero scoperti ma furono subito occupati da studiosi che nelle leggi razziali scorsero non un obbrobrio giuridico, ma un provvidenziale acceleratore di carriere accademiche. Chi si figurasse gli occupanti delle cattedre lasciate vacanti come un manipolo di squallidi e incolti opportunisti si sbaglierebbe. Intanto perché non furono un manipolo, ma quasi un reggimento: ben 895. E poi perché fra loro vi furono, accanto ai cinici approfittatori di ogni regime, studiosi di altissimo livello, che ebbero la debolezza di non tirarsi indietro. Firenze ne conobbe almeno due. Uno fu Giuseppe De Robertis, che dal Conservatorio (la «scuoletta», come la chiamava lui) passò alla facoltà di Lettere prendendo il posto che era stato di Attilio Momigliano, dopo il rifiuto da parte di Massimo Bontempelli, e anche di Luigi Russo, che però l'aveva motivato con la riluttanza di entrare nel «nido di vipere» di piazza San Marco. Con la Voce bianca De Robertis era stato un protagonista della ventura delle riviste letterarie fiorentine e il suo Saggio sul Leopardi è forse quanto di più bello sia stato scritto sul poeta di Recanati. Ma il trapasso fu lo stesso doloroso e il Momigliano reintegrato dopo la guerra era l'ombra di se stesso, tanto che, come ricordava Giorgio Luti, gli studenti preferivano alle sue lezioni quelle di letteratura contemporanea di De Robertis, che aveva conservato la cattedra grazie alla protezione del suo ex allievo Leone Piccioni, figlio di Attilio, esponente di spicco della Dc. 
  Diverso il caso di Eugenio Garin. Quando fu epurato per le leggi razziali Ludovico Limentani, il docente di filosofia morale con cui si era laureato, accettò di sostituirlo con un incarico che senza sgravarlo del tutto dall'insegnamento liceale lo introduceva nell'università. Come ha scritto Luciano Mecacci nel suo saggio La ghirlanda fiorentina (Adelphi), pare che lo stesso Limentani fosse sollevato dal fatto che la sua cattedra andasse a colui che considerava il miglior discepolo. Ma Garin, che era, in senso buono, un delicato (nel 197 4 avrebbe Iasciato l'Università di Firenze per la Normale disgustato dalla contestazione), avvertì prima di morire l'esigenza di confessare pubblicamente quel peccato di gioventù. Il grande storico dell'umanesimo civile fiorentino, che Delio Cantimori paragonava a un nuovo Burckhardt, non si perdonò forse fino all'ultimo di avere approfittato di una legge incivile e inumana.

(Corriere Fiorentino, 7 settembre 2021)


Rosh Hashanah: il suono dello Shofar e la Cabbalà

di Michelle Zarfati

Tutti gli ebrei del mondo festeggiano uno dei momenti più speciali dell’anno: Rosh Hashanah, ovvero il Capodanno ebraico. Un momento spiritualmente importante, di bilancio, in cui si guarda indietro all’anno che è trascorso e si guarda al futuro con speranza. Il suono dello Shofar (corno di montone usato in alcune funzioni religiose) è di fatto uno dei momenti religiosamente più significativi di questo evento. All’interno del Museo Ebraico di Roma, nella teca che spiega al pubblico il gruppo delle festività di Tishrei (settembre) è esposto un libro di Toqea, ovvero la “guida” su cui studia e si esercita colui che possiede la responsabilità di suonare lo shofar. Questo manoscritto, originario di Ivrea e risalente al 1841-1842, possiede all’interno delle sue pagine ingiallite dal tempo riferimenti cabbalistici che lo rendono unico.
  Spiega a Shalom Rav David Sciunnach, Rabbino capo di Ancona, che “il manoscritto in questione, rappresenta un esempio singolare, in quanto si tratta di un libro ad uso esclusivo del Tokea, cioè colui che suona lo shofar. All’interno del libro, si ritrovano tra le pagine molti spunti legati alla Cabbalà Luriana, dunque attribuibile a Rabbi Itzkak Luria, vissuto nel 500 e noto per aver rivoluzionato la visione della mistica ebraica, portando alla luce il principio delle Cavanot, le intenzioni”
  “L’idea- prosegue- è quella di coinvolgere oltre all’azione delle Mitzvot, ovvero i precetti, forze spirituali, invisibili ai nostri occhi, ma presenti nel mondo e nei mondi superiori. Nei libri come questo, ci sono cose che colpiscono particolarmente, come ad esempio i nomi dei patriarchi e quelli di D., che se corredati da una certa punteggiatura, ci dicono a quale livello di spiritualità stiamo ascendendo per “pulire” i canali dei peccati commessi- Secondo la Cabbalà ogni lettera corrisponde ad un canale, in grado di far ascendere la Shefà, dunque l’energia vitale, dal nostro mondo al mondo superiore. Se si analizza attentamente questo manoscritto, si nota che, le lettere delle prime parole evocano nomi sacri, non a caso alcune sono scritte in grassetto” conclude.
  La Mitzvà (precetto) dello Shofar è considerata molto particolare, diversa da tutte le altre Mitzvot come benedire il pane, lavare le mani, o affiggere la Mezuzà.
  Questa Mitzvà esplicita l’obbligo di ascoltare il suono, non di costruirlo, nulla di questo, dunque si configura come non palpabile, quasi passiva. Solo chi suona riveste un ruolo più “attivo”.
  “L’obbligo è di ascoltare il suono, e riguarda anche colui che suona, ed è da qui che parte una spiegazione mistica e cabbalistica che vede lo Shofar come uno strumento dotato di una forza che riecheggia nei mondi superiori, e permette che le Kellipot, i “gusci”, si spezzino e il suono giunga diretto da D.” prosegue Rav David Sciunnach
  Il precetto del suono dello Shofar assume dunque un’importanza particolare, permettendo di abbattere le barriere, dunque i gusci, creati a causa dei nostri peccati, formatosi dai tempi del peccato originale. “I gusci ostacolano il suono, perché trattengono le scintille di santità, dotate della potenza di salire verso il cielo, attraverso le mitzvot, i precetti. Rosh Hashanah, è il giorno del Din, ovvero del giudizio in cu il satan, lo spirito malvagio, porta davanti a D. tutte le azioni negative che abbiamo compiuto, mettendo dunque il singolo alla prova. Tutte le preghiere contenute nel libro in questione sono preghiere che il Tokea, colui che suona, recita affinché il suo suono sortisca un effetto potente nei mondi superiori, riuscendo a far suonare contestualmente anche lo Shofar del mondo celeste” aggiunge Rav Sciunnach.
  Le preghiere contenute all’interno di questo libro, che accompagnano i nomi delle varie suonate dello Shofar, coinvolgono gli angeli, scritti quasi mai all’interno di libri di questo genere, che a loro volta aiutano a suonare lo Shofar correttamente. “C’è un angelo preposto ad ogni triade di suoni che ha il compito di portare il suono fino al trono divino senza che la Kelippá, cioè il guscio, possa arrestarlo. Questi manoscritti possiedono queste caratteristiche, contengono tante preghiere mistiche e cabbalistiche, che generano in chi legge uno stato d’animo molto elevato. I vari versi pronunciati, in queste preghiere, riescono a muovere delle forze sia in colui che suona, sia in colui che ascolta nei mondi superiori” prosegue.
  Sebbene In Italia non ci sia stato un vero e proprio polo di studio di Cabbalà, che in alcune comunità come Ferrara, e Livorno veniva studiata da piccole cerchie di persone, a Roma è rimasto questo retaggio della mistica ebraica, in cui durante talune pratiche religiose, si usa pronunciare i nomi degli angeli, o si usano preghiere con scritti nomi sacri, ma il rito italiano rimane quasi asciutto, senza misticismo.
  Lo Shofar, e chi lo suona, assume quindi un ruolo mistico e spiritualmente elevato, diventando quindi lo strumento attraverso cui riusciamo a superare le barriere spirituali, provando a liberarci dagli errori commessi, e cercando di innalzarci, per sentirci per quanto ci è possibile, vicini al mondo celeste di D.

(Shalom, 6 settembre 2021)


In Israele quarta ondata. «È tutta colpa dei bambini»

Sono i bambini i nuovi diffusori in Israele, alle prese con una quarta ondata di Covid. Nel Paese delle vaccinazioni record, a maggio e giugno non si erano registrati casi, era stato tolto l'obbligo di mascherina e rimosse la maggior parte delle restrizioni. Da qualche settimana, invece, i contagi hanno ripreso a salire, al punto da far temere nuove chiusure. Secondo gli analisti sono i bambini, in particolare i più piccoli, coloro che stanno diffondendo velocemente la variante Delta, che pur causando meno danni alla salute dei contagiati si trasmette più velocemente. L'apertura delle scuole (quelle ortodosse e internazionali sono ripartite ad agosto) ha favorito il diffondersi della malattia. Israele ha immunizzato oltre il 70% della popolazione vaccinabile, vale a dire i cittadini al si sopra dei 12 anni. Ma dal momento che il 25% della popolazione è rappresentata da under 12, il tasso di vaccinazione scende al 60%. Inoltre, poiché la campagna vaccinale è terminata a febbraio, i benefici della seconda dose si stanno esaurendo. Per questo, tra i nuovi contagiati, ci sono bambini e persone già vaccinate. Che, però, non si ammalano in forma grave. Da qui la decisione di provvedere ad una terza dose.

(il Giornale, 6 settembre 2021)


In Israele sono già alla quarta dose. Ci aspetta una vita a fare punture?

Il consulente sanitario del governo annuncia l'ennesima somministrazione. Mentre Crisanti e Rezza ammettono che non ci sono certezze sulla durata dell'immunizzazione. Mattarella spinge: «È un dovere».

di Patrizia Floder Reitter 

Il capo epidemiologo del governo israeliano, Salman Zarka, ha fatto il suo annuncio sabato alla radio pubblica Kan: «Dato che Sars-CoV-2 è qui con noi e continuerà ad esserci, dobbiamo prepararci alla quarta dose». Laconica l'aggiunta: «Questa sarà la nostra vita d'ora in avanti, a ondate». Per la diminuzione d'efficacia dei vaccini e il calo degli anticorpi «ogni pochi mesi, una o due volte l'anno avremmo bisogno di richiami contro il Covid», ha detto il professore, coordinatore della lotta alla pandemia in uno Stato leader mondiale nella vaccinazione contro il coronavirus. 
  Con oltre 6 milioni di israeliani, la stragrande maggioranza della popolazione, che hanno ricevuto almeno una dose del vaccino Pfìzer, mentre 5,5 milioni hanno completato il ciclo e a 2,5 milioni è già stato somministrato il terzo richiamo, il cosiddetto booster, il governo di Naftali Bennett fatica comunque a contenere la quarta ondata con la variante Delta che dilaga. Questa pare dunque la prospettiva: vaccinarsi contro il Covid a più riprese, dimenticando la normalità che era stata promessa dopo due dosi e una volta ottenuta l'immunità di gregge. Una situazione che sembra smontare la narrativa di una terza dose come quella che risolve i problemi e consentirà di rottamare green pass e divieti vari. Invece di risolvere dubbi, o perlomeno ammettere che nulla si conosce di certo su come agiscono nel medio e lungo periodo i vaccini in circolazione contro questo maledetto virus, in Italia si blindano i provvedimenti adottati classificando ogni perplessità come delirio no vax. 
  Ma per fortuna esistono le chiacchierate. Non tra amici al bar ma su un palco, trasmesse in streaming durante l'ultima giornata della festa del Fatto quotidiano. Ieri mattina, a parlare di «Green pass e vaccini: cosa ci attende» c'erano il direttore prevenzione del ministero della Salute, Gianni Bezza, e Andrea Crisanti, docente di microbiologia all'Università di Padova. Ne sono venute fuori delle belle. Per Rezza quello che sta accadendo in Israele «mostra che anche i vaccinati possono infettarsi, trasmettere l'infezione e alcuni di questi sviluppare una malattia grave». Però «non hanno ancora analizzato nel dettaglio il tasso di infezione e il rischio di morte dei vaccinati che si infettano rispetto ai non vaccinati. Questo rimane da capire». 
  Può sembrare banale, e il concetto lo è: ma è anche la prima volta che un pezzo grosso del ministero della Salute ammette che non ci sono dati certi e dichiara che «bisogna sempre esplicitare dubbi quando li abbiamo». Non è però questa la posizione corrente, caro professor Rezza: a fare domande si ricevono solo insulti. Invece il luminare ieri ha ammesso che, per quel che si sa, «il vaccino potrebbe bloccare l'infezione o semplicemente essere in grado di evitare la malattia grave», ma non ci sono certezze. A fronte di queste riconosciute incertezze, rendere obbligatori tali vaccini - anzi, averli già imposti al personale sanitario e a quello scolastico appare sproporzionato. Dall'incontro di fine estate sono emerse altre scomode verità, che meriterebbero di essere comunicate nelle sedi istituzionali, nelle conferenze stampa del governo, su tutti i giornali, e non confinate nella kermesse di un quotidiano, chiamandosi «Gianni» e «Andrea», mentre si parla di Covid. Crisanti ha detto che «i vaccini che abbiamo a disposizione non sono l'unica soluzione», e che quello che sta accadendo in Israele mostra che «l'ìmmunìtà indotta dalla vaccinazione con Pfizer Biontech dura intorno ai sei, sette mesi», ed è di grandissima importanza per capire che cosa succederà in Italia. Se saremo costretti pure noi a fare, quattro, infinite dosi «che poi non hanno questo grande effetto», secondo l'esperto. Crlsanti però si è chiesto come mai, visto che in Israele «le persone hanno iniziato a vaccinarsi a fine dicembre 2020, inizio gennaio scorso», Pfìzer, Moderna e Astrazeneca non erano a conoscenza già a maggio della ridotta durata dell'immunità. «Arrivare a scoprire sul campo che la vaccinazione dura sei mesi è un po' tardi», ha commentato il microbiologo, ricordando «quante volte abbiamo sentito dire che a settembre avremmo ottenuto l'immunità di gregge». Ha aggiunto che è importante sapere se questa ridotta efficacia «è dovuta al vaccino o alle varianti, anche per effettuare delle politiche di sanità pubblica efficaci». 
  Quante volte abbiamo posto questa domanda senza ottenere risposte? Il professor Rezza, ha poi tranquillamente spiegato agli astanti che Pfizer, Moderna, Astrazeneca e J&J «avranno dati di più lunga durata dai trial, dalle sperimentazioni condotte, però è un po' interesse dell'azienda quella di fare la terza dose, quindi non mi sorprende che si nascondano informazioni, diciamo che si ritardino a darle». Avete capito bene? È normale che «abbiano interesse a vendere più prodotti» (e ci mancherebbe altro), ma anche che trattengano dati. Almeno così ha dichiarato Rezza. Poi Crisanti conferma quanto più volte qui scritto: «I dati di Israele dicono una cosa chiara: il green pass non crea ambienti sicuri. Serve a indurre le persone a vaccinarsi». Stesso disco messo anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri durante l'inaugurazione dell'anno accademico all'Università di Pavia ha chiesto apertamente che «non si invochi la libertà per sottrarsi alla vaccinazione perché quell'invocazione» equivale a «mettere a rischio la salute altrui». Il capo dello Stato ha parlato di «responsabilità sociale», facendo riferimento «in questo periodo al dovere, morale e civico della vaccinazione. È lo strumento che in grande velocità la comunità scientifica ci ha consegnato per sconfiggere il virus e sta consentendo di superarne le conseguenze non solo di salute ma anche economiche e sociali». Pazienza se non è dato sapere quante dosi ne dovremo ricevere. 

(La Verità, 6 settembre 2021)


Obbligo, Rezza frena Pass, Crisanti a Draghi: "Non dà la sicurezza"

Il microbiologo: "Dire che il certificato crea zone senza rischi è una baggianata".
L'epidemiologo: "Terza dose? Vediamo che succede in Israele".


di Giacomo Salvini

''Vedremo tra un mese ma l'obbligo vaccinale deve essere l'ultima ratio: prima bisogna provare a convincere le persone, poi ne potremo discutere". Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, non è pregiudizialmente contrario all'obbligo del vaccino annunciato giovedì in conferenza stampa dal presidente del Consiglio Mario Draghi ma pensa che debba essere solo l'ultima soluzione disponibile e che debba passare da un approfondito dibattito pubblico. Che tenga conto anche dei problemi pratici e costituzionali di questa scelta: "Come si applica? A chi, in che maniera, quante volte? - chiede Rezza - Ci sono delle questioni tecniche che andrebbero comunque discusse. Aspettiamo un mese". Più convinto Andrea Crisanti, microbiologo dell'Università di Padova: "Se mi si dicesse che abbiamo un vaccino che copre all'85-90o/o per dodici mesi, direi assolutamente di sì all'obbligo. L'importante è spiegare e comunicare bene le decisioni in modo da non sconcertare nessuno". I due esperti di epidemiologia si sono confrontati ieri mattina alla festa del Fatto intervistati dalla vicedirettrice Maddalena Oliva su tutti i temi fondamentali della lotta alla pandemia: non solo sull'obbligo vaccinale ma anche sull'utilizzo del Green pass, sull'ipotesi della terza dose e sulla situazione di Israele, primo Paese al mondo ad averla somministrata dopo la recrudescenza estiva dei contagi.
   Sull'uso del pass due esperti hanno idee piuttosto diverse. D'altronde, le contraddizioni sono tante: come coniugare il fatto che l'efficacia della copertura vaccinale vada scemando con l'estensione del certificato a dodici mesi? A cosa serve il Green pass se i vaccinati sono contagiosi e contagiabili? Crisanti ha ribadito la sua contrarietà all'utilizzo del certificato verde come strumento di "sanità pubblica" criticando anche l'espressione usata da Draghi nella conferenza stampa di fine luglio secondo cui il pass servirebbe anche per creare ambienti più sicuri. "Dire che il Green pass crea ambienti sicuri è una baggianata - ha spiegato il microbiologo di Padova - è solo uno strumento che incoraggia le persone a vaccinarsi. Per considerarla una misura sanitaria dovremmo misurarne l'impatto". Secondo Rezza, invece, il pass può essere considerato un surrogato dell'obbligo e serve a "convincere qualche indeciso che non vuole vaccinarsi" ma poi ha spiegato che, a suo avviso, si può considerare anche come una misura sanitaria: "Un certo grado di protezione lo dà - ha detto l'epidemiologo molto ascoltato dal ministro della Salute Roberto Speranza - se siamo convinti che con il Green pass si possa andare a fare baldoria senza rispettare le regole, stiamo sbagliando tutto. Se invece siamo tutti vaccinati, stiamo a distanza, abbiamo una certa probabilità in più di essere protetti. Se le alternative sono non prendere misure o mandare all'aria l'economia e i rapporti sociali, allora il Green pass può considerarsi una misura di sanità pubblica. In questo senso il certificato non ci dà la sicurezza al 100% ma in termini probabilistici è una misura utile".
   Per entrambi resta fondamentale completare la campagna vaccinale. Crisanti si appella direttamente a chi non è ancora immunizzato, a partire dai 3,5 milioni di over 50 che non si sono ancora vaccinati: "Con un R0 (il tasso di replicazione del virus, ndr) pari a 6 o 7, nel giro di un paio d'anni si infetteranno tutti i non vaccinati perché uno prima o poi un errore lo fa': Rezza ha aggiunto che, per chi ha più di cinquant'anni, "il rischio di finire in terapia intensiva c'è". Oltre alla "minoranza rumorosa" dei no-vax, l'epidemiologo però ha aggiunto che c'è anche "una larga fascia di persone indecise, influenzabili in qualche misura, che magari non ha la percezione del rischio molto elevato di contrarre la malattia". Poi c'è il caso di Israele dove, nonostante la massiccia copertura vaccinale, nelle ultime settimane i contagi sono risaliti e per questo si è deciso di iniettare la terza dose sulla popolazione. Ieri è stato toccato il tasso più basso di contagi da due settimane a questa parte e gli esperti ritengono che la quarta ondata sia superata ma la preoccupazione rimane. "In Israele - è la spiegazione di Rezza - c'è un aumento impressionante dei casi per un Paese che ha vaccinato tanto e bene. Il loro caso mostra che anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, e che alcuni sviluppano una malattia grave". Per questo, ha concluso, "è normale che si facciano più di due dosi". Più cauto Crisanti secondo cui ''bisognerà capire se la terza dose in Israele sarà efficace". Solo dopo si potrà iniziare a somministrarla.

(il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2021)


"Dire che il Green pass crea ambienti sicuri è una baggianata - ha spiegato il microbiologo di Padova". No, quella del Presidente del Consiglio non è una baggianata, è una menzogna che il Premier ha detto sapendo di mentire. Mario Draghi è tutt'altro che un babbeo: sa quello che vuole e sa come si fa a ottenerlo. Un ministro pentastellare ha avvertito i suoi che scalpitavano contro il governo: chi si mette contro Draghi, perde. Ed è già una delle cose che Draghi è riuscito a ottenere sul piano dell'imbrigliamento del governo. Altre soddisfazioni le otterrà, e in parte le sta già ottenendo, sul piano dell'assopimento della piazza. E' ancora un po' indietro sul piano dell'annebbiamento degli intellettuali, ma ce ne sono già molti che sembrano pronti a mettersi ai suoi ordini. M.C.


Aggredisce turista perché è Israeliano

PISA - Aggredito con le statuette della Torre Pendente, perché israeliano, in un negozio di souvenir nel centro di Pisa. L'episodio, sul quale adesso indaga la Digos, è accaduto nei giorni scorsi ed è emerso solo ieri per la denuncia fatta su un giornale estero. Il giovane, in visita alla città universitaria toscana, era entrato in un negozio in centro. Il venditore gli ha chiesto da dove provenisse e alla sua risposta, il commerciante ha risposto che odiava Israele e gli ebrei. Ha poi cominciato a percuoterlo con la statuetta. Il giovane è finito in ospedale.

(Nazione Toscana, 6 settembre 2021)


Israele dà la caccia a 6 prigionieri palestinesi dopo una “rara evasione”

Le forze israeliane hanno dato il via, lunedì 6 settembre, alla caccia a 6 prigionieri palestinesi, fuggiti, durante la notte, da Gilboa, definita una delle strutture di detenzione più sicure di Israele, situata a Beit She’an, città del Distretto Settentrionale. Per il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, quanto accaduto è un “grave incidente”.
   Il carcere si trova a circa 4 chilometri dal confine con la Cisgiordania e ospita i palestinesi accusati o sospettati di aver commesso operazioni a danno di Israele, attacchi letali inclusi. Dei sei detenuti, quattro stavano scontando l’ergastolo. L’evasione, considerata “estremamente insolita”, è avvenuta tramite un tunnel, di “decine di metri”, scavato dai detenuti stessi, e si pensa che questi abbiano ricevuto anche aiuto dall’esterno, comunicando con presunti alleati tramite cellulari ritrovati all’interno della cella. I fuggitivi sarebbero presumibilmente diretti a Jenin, territorio dove l’Autorità Palestinese eserciterebbe uno “scarso controllo” e dove, per settimane, le forze israeliane si sono spesso scontrate con i palestinesi locali. Motivo per cui, nella mattina del 6 settembre sono stati visti sorvolare aerei israeliani nella zona. Un’altra destinazione potrebbe essere il confine con la Giordania, a 14 chilometri a Est.
   Parallelamente, funzionari di Israele hanno riferito di aver istituito posti di blocco e condotto operazioni di pattugliamento nelle aree circostanti a Gilboa, mentre 400 prigionieri sono stati trasferiti altrove per prevenire ulteriori tentativi di fuga. In tale quadro, Bennett ha parlato di un “grave incidente” che ha richiesto grandi sforzi da parte dei diversi rami dell’apparato di sicurezza israeliano. A tal proposito, il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, in coordinamento con i servizi di sicurezza di Shin Bet, ha ordinato l’invio di rinforzi alle frontiere e si è detto pronto a condurre qualsiasi azione necessaria a catturare i “terroristi”.
   La fuga è avvenuta in prossimità con i festeggiamenti per il Capodanno ebraico. Secondo un’organizzazione non governativa palestinese, Addameer for Prisoner Care and Human Rights, la prigione di Gilboa, istituita sotto la supervisione di esperti irlandesi e aperta nel 2004, è tra le più sorvegliate e gode di un livello di sicurezza “molto elevato”. Per le autorità israeliane, i detenuti potrebbero rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico, sebbene non siano stati dati particolari ordini ai cittadini locali, invitati a condurre la propria routine. Tra i fuggitivi vi è Zakaria Zubeidi, 46 anni, un leader della Brigata dei martiri di al-Aqsa, affiliata al movimento Fatah. Egli era detenuto dal 2019, dopo essere stato accusato di “diversi attacchi letali”. Zubeidi ha rappresentato una figura di spicco durante la Seconda Intifada e nel 2007 aveva ottenuto l’amnistia da Israele, poi revocata nel 2011, il che ha costretto il leader alla fuga, fino al 2019. Gli altri cinque fuggitivi, Munadil Nafayat, Mahmoud e Mohammad al-Arida, Iham Kahamji, e Yaqoub Qadiri appartengono, invece, al Movimento per il Jihad Islamico.
   I gruppi palestinesi, da parte loro, hanno accolto con favore quanto accaduto a Gilboa. Il portavoce del Jihad islamico, Daoud Shehab, ha parlato di un “atto eroico” che, oltre ad essere uno “shock” per il sistema di sicurezza israeliano, rappresenta un duro colpo per l’esercito di Israele e l’intero apparato di sicurezza. Da parte sua, il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha affermato che la fuga dei sei detenuti si inserisce nel quadro della perdurante “lotta per la libertà” contro “l’occupante”, estesa sia dentro sia fuori le carceri. Secondo istituzioni specializzate in affari carcerari, Israele detiene circa 4.850 prigionieri, tra cui 41 donne, 225 bambini e 540 detenuti amministrativi.
   Quanto accaduto nella notte del 4-5 settembre giunge mentre le forze israeliane e i palestinesi in Cisgiordania continuano a essere al centro di violente tensioni. Lo stesso campo profughi di Jenin è stato più volte teatro di scontri e, secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, nella regione è stata registrata la morte di almeno 57 palestinesi dall’inizio del 2021, deceduti durante gli episodi di tensione con soldati israeliani.
   La Cisgiordania è considerata un territorio sotto occupazione militare israeliana da parte delle Nazioni Unite, ed è soggetto alla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949. Tale status è stato riconosciuto ai territori palestinesi dalla comunità internazionale nel 1967, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni. I territori palestinesi sono regolati dagli Accordi di Oslo del 1993, secondo cui la Cisgiordania è divisa in tre settori amministrativi, denominate aree A, B e C. Nello specifico, l’area A, pari al 18% della Cisgiordania, è sotto il pieno controllo civile dell’Autorità Palestinese. L’area B viene amministrata in modo congiunto da Israele e Palestina e rappresenta circa il 22% del territorio palestinese. Infine, l’area C, pari al 61% della Cisgiordania, è controllata da Israele.

(Sicurezza Internazionale, 6 settembre 2021)


Giostra del goal contro l’Austria, Israele avvicina il sogno Mondiale

Ai Mondiali di calcio del 1970 succedevano molte cose, sempre intrecciate ai destini dell’Italia di Valcareggi: brillava in finale, per l’ultima volta, la stella di Edson Arantes do Nascimento detto Pelé; mentre l’emozionante sfida vinta contro la Germania in semifinale passava alla storia, per la sua particolare dinamica e per il suo carico di pathos, come “la partita del secolo”. Nel bene e nel male, sfide leggendarie che gli Azzurri avevano rischiato di non arrivare neppure a disputare a causa del travagliato percorso nel girone eliminatorio conclusosi con un pareggio a reti bianche contro la squadra “materasso” del torneo, alla sua prima partecipazione: Israele. Per l’Israele del pallone, assai poco avvezza ad imprese del genere, sembrava un promettente inizio. E invece, da allora, la nazionale non è stata più in grado di qualificarsi ad alcuna competizione internazionale.
   A oltre mezzo secolo da quel sorprendente Mondiale la speranza dei tifosi è tornata a ravvivarsi grazie al roboante 5 a 2 interno con il quale la squadra di casa si è sbarazzata dell’Austria nel match che ha visto contrapposte le due principali sfidanti per la seconda piazza del girone F (la Danimarca prima a punteggio pieno sembra irraggiungibile) che designerà una delle dodici squadre in lizza per gli spareggi. La classifica, con cinque dei dieci turni disputati, dice: Danimarca 15; Israele 10; Scozia 8; Austria 7; Far Oer 1; Moldavia 1.
   Sugli scudi Manor Solomon, giovane esterno d’attacco che ha già segnato in carriera al Real Madrid ed è sul taccuino di molti grandi club, che ieri ha aperto la giostra del goal. L’arabo-israeliano Moanes Dabour, anche lui a rete. Ed Eran Zahavi, autore di una doppietta, con un passato italiano al Palermo.
   Italia e Israele di nuovo insieme a un Mondiale. Magari è la volta buona.

(moked, 5 settembre 2021)


“Stiamo aggiornando la nostra definizione di cosa significa essere vaccinati”

Riportiamo questo articolo del 30 agosto che abbiamo trovato in rete soltanto oggi perché la questione vaccino-green pass sta diventando davvero seria a tutti i livelli. E al suo centro si trova ancora una volta Israele, che verrebbe presa ad esempio da altre nazioni, a cominciare dalla nostra nazione Italia a trazione Draghi. Al seguito di questo articolo riportiamo un allarmato commento apparso su un altro quotidiano online. Si spera che i lettori non liquidino il tutto dicendo che è "il solito complottismo dei no-vax". A chi lo dice senza altri argomenti si potrebbe rispondere: "la solita dabbenaggine dei sì-vax". NsI

Il Commissario per il coronavirus, Salman Zarka, durante una conferenza stampa tenutasi domenica 29 agosto afferma, tra le altre cose, che in Israele si sta per aggiornare la “definizione di cosa significa essere vaccinati”.
   La terza dose di siero Covid è disponibile per chiunque sia stato completamente inoculato per almeno cinque mesi. Lo fa sapere direttamente il ministro della sanità, Nitzan Horowitz.
   Il ministro aveva già chiarito a Channel 13 che si stava valutando di non rilasciare il green pass a chi non avesse ricevuto la terza dose.
   Nel frattempo due milioni di israeliani hanno già ricevuto il richiamo.
   Nella conferenza stampa di domenica – come riporta The Jerusalem post – che ha visto la partecipazione anche del direttore generale del ministero della Salute, Nachman Ash, del commissario per il coronavirus, Salman Zarka e della dottoressa Sharon Alroy-Preis, Responsabile dei Servizi Sanitari Pubblici del Ministero, si è detto che le persone alle quali è stata somministrata la terza dose o che sono state recentemente vaccinate, saranno esentate dall’isolamento quando arriveranno dall’estero.
   Mentre invece per quanto riguarda il rilascio del green pass – afferma il Commissario israeliano per il coronavirus, Zarka – verrà dato, a partire dal 1 ottobre:

  • solo a coloro che hanno ricevuto la seconda dose negli ultimi cinque mesi,
  • a coloro che hanno ricevuto una terza dose di richiamo,
  • a quelle persone che sono guarite negli ultimi sei mesi o che sono guarite e hanno ricevuto un’iniezione.

La Zarka ha anche detto: “Stiamo aggiornando la nostra definizione di cosa significa essere vaccinati”.
   Coloro che hanno ricevuto un richiamo – afferma Sharon Alroy-Preis – sono 10 volte più protetti da infezioni e sintomi gravi rispetto a coloro che hanno ricevuto due dosi.
   The Jerusalem post ricorda inoltre che nell’ultima settimana, sono stati somministrati più di 100.000 vaccini al giorno nei giorni feriali, per lo più richiami, ma anche prima e seconda dose.
   Gli israeliani che hanno ricevuto almeno una dose sono circa 5,95 milioni, mentre quelli che hanno ricevuto la doppia dose sono 5,46 milioni.
   Questo comunque non ha fermato il contagio, infatti domenica si registravano 726 pazienti con Sars-Cov-2 in gravi condizioni, il numero più alto da marzo. La scorsa settimana invece il numero di pazienti in gravi condizioni erano circa 680/700.
   Più precisamente – scrive Israel news – sabato, 7.071 persone in Israele sono risultate positive al COVID-19, secondo le statistiche del Ministero della Salute. A partire da domenica, c’erano 80.579 casi attivi di COVID in Israele, con 1.175 ricoverati in ospedale, 726 in condizioni gravi, di cui 149 attaccati ai ventilatori. Il bilancio delle vittime dall’inizio della pandemia è stato di 6.958.
   Riguardo invece i positivi, sabato erano 7.071, al momento ci sono più di 80.000 casi attivi e va ricordato che durante il picco della terza ondata i casi attivi erano 88.000.
   Si specifica che il numero di test somministrati sabato è stato inferiore a quello dei giorni feriali, 100.000 anziché 150.000, quindi il tasso di persone con esito positivo è stato superiore al 7%.
   Il prof. Eran Segal, uno dei massimi consiglieri del governo sul coronavirus, ha detto domenica mattina, intervistato da Army Radio, che l’intera popolazione disponibile all’inoculazione dovrebbe ricevere la terza dose di vaccino.
   “Dal momento in cui abbiamo capito che il vaccino sta svanendo, la cosa giusta da fare è somministrare una terza dose all’intera popolazione che è stata vaccinata cinque mesi o più fa”, ha affermato il prof. Segal.
   Ricordiamo che pochissimi giorni fa il ministro della Salute, Nitzan Horowitz, aveva dichiarato a Channel 13 che considerato il fatto che il vaccino “perde la sua efficacia dopo un certo periodo, non c’è giustificazione per dare un lasciapassare verde a qualcuno che non ha ricevuto un’altra dose”.

(Theitaliantribune.it, 30 agosto 2021)


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Israele ha appena cambiato la definizione di “completamente vaccinato”

Questa ridenominazione, degna della miglior neolingua, porterà un controllo più autoritario, enormi profitti per Big Pharma... e costituisce forse il peggiore inganno di tutta la "pandemia".
  Israele è stato in prima linea nel programma di vaccinazione fin dal novembre 2020, quando aveva firmato un accordo con Pfizer per eseguire quelli che essenzialmente è un esperimento medico sulla propria popolazione civile.
  Era stato il primo Paese a lanciare il vaccino Pfizer. Era stato il primo Paese a provare il sistema (tra l’altro già abbandonato) dei “green pass” per la segregazione sanitaria. E ora sono il primo Paese a cambiare i termini del contratto “fatti vaccinare e riavrai la tua libertà.”
  Proprio così. Così come le “tre settimane per appiattire la curva” si sono trasformate in circa 18 mesi (e si va avanti), la “doppia somministrazione” si sta evolvendo in una “tripla somministrazione.”
  Per citare il dottor Salman Zarka, lo “zar del coronavirus” di Israele: “Stiamo aggiornando ciò che significa essere vaccinati.”
  Quindi, ecco come stanno le cose. In Israele, ufficialmente, coloro a cui sono state iniettate due dosi del cosiddetto “vaccino” Pfizer non vengono più conteggiati come vaccinati.
  Cosa significa questo? Beh, prima di tutto, significa che tutte le persone “vaccinate” possono dire addio alle loro libertà recentemente acquisite, a meno che non siano disposte a fare almeno un altro richiamo.
  Secondo il Wall Street Journal: “I possessori del passaporto vaccinale israeliano devono ottenere una terza dose del vaccino Pfizer-BioNTech entro sei mesi dalla loro seconda dose o perderanno il cosiddetto green pass che permette loro un maggior grado di libertà.”
  C’è anche da dire che il terzo richiamo non è considerato l’ultimo. Il Ministero della Salute israeliano “non ha escluso ulteriori richiami in futuro” e il terzo richiamo estenderà la condizione di “vaccinato” solo per sei mesi, non permanentemente.
  Quindi, essenzialmente, è stato creato il precedente che le vostre libertà sono alla mercé dello stato, che può portarvele via quando vuole. E, se vi conformate, useranno semplicemente la vostra conformità come scusa per prendersi libertà ancora maggiori (il gioco di parole è molto voluto).
  Israele è stata la capsula Petri di questo esperimento fin dall’inizio. Se funziona lì, aspettatevi che “l’obbligo dell’iniezione di richiamo” vada rapidamente in vigore in altri Paesi del mondo.
  A tutte le persone che si sono vaccinate e che ora si stanno rendendo conto di aver fatto qualcosa di stupido, beh, ci dispiace, ma abbiamo cercato di avvertirvi che sarebbe successa una cosa del genere.
  Finanziariamente parlando, questa è altra manna in un anno d’oro per Pfizer, che ora può continuare a fornire sempre più dosi della sua sperimentale e inutile terapia genica a persone che sono letteralmente obbligate per legge ad usarla. Se non volete fare il vaccino, potete sempre prendere qualcuna delle nuove magiche pillole anti-Covid di Pfizer.
  Quindi, non preoccupatevi della morte della libertà e della democrazia in nome di una malattia quasi del tutto innocua. Almeno gli azionisti di Pfizer potranno permettersi una seconda isola privata e costumi intessuti d’oro per i loro set di scacchi umani.
  Tuttavia, il prevedibile sequestro delle libertà, e gli ovvi motivi finanziari dietro di esso, non sono nemmeno la parte peggiore.
  La parte potenzialmente molto più cinica verrà dopo. Fra circa tre mesi, quando arriverà la stagione dell’influenza e gli anziani e gli infermi cominceranno a morire, come ogni inverno. Non si chiamerà “stagione influenzale,” ovviamente. Sarà tutto classificato come “Covid.” Insieme a questa nuova definizione di “vaccinato,” la “quarta ondata” o la “variante sigma” (o come la chiameranno) potrebbe essere usata per produrre nuove statistiche manipolate.
  Pensateci: ogni cittadino israeliano che si ammalerà e/o morirà dopo essere stato vaccinato due volte ma non tre, verrà ufficialmente etichettato come “non completamente vaccinato.” Potrebbero quindi affermare che la Covid colpisce soprattutto “i non vaccinati,” anche se la maggior parte delle persone che si ammaleranno avranno avuto due dosi del cocktail mRNA di Pfizer.
  Proprio come hanno usato trucchi linguistici per trasformare le “morti per qualsiasi causa” in “morti per Covid” e i “test positivi asintomatici” in “casi Covid,” ora hanno creato una scappatoia per trasformare le “persone vaccinate” che si ammalano in “persone non vaccinate.”
  Peggio ancora, è possibile che, nel corso del prossimo inverno, le persone che sono state “vaccinate” possano morire ad un tasso ancora maggiore del normale.
  Se si dimostrerà corretta la teoria che i vaccini mRNA possono causare un potenziamento anticorpo-dipendente (ADE), quest’inverno molte persone potrebbero essere uccise dai virus come risultato diretto dell’essere state “vaccinate”… e poi essere usate come prova per sostenere la tesi dell'”efficacia del vaccino.”
  In venti mesi di evidente negligenza scientifica, manipolazione dei dati, disonestà statistica e totale inversione linguistica… potremmo essere sul punto di vedere la bugia peggiore di tutte.
  A questo punto, queste sono tutte supposizioni, è ovvio. Ma, per chiunque là fuori stia pensando che “non lo farebbero mai,” vi ricordo quell’uomo che, dopo essersi sparato in testa, era stato classificato come decesso Covid. Non c’è letteralmente un limite al peggio che i potenti non riescano a superare.
  Anche se il tempo dimostrasse che la mia teoria è sbagliata, la dura ed evidente realtà del sistema basato sulle iniezioni di richiamo è abbastanza brutta: la libertà per sempre sotto una penzolante spada di Damocle è l’ennesimo assalto al linguaggio come parte di una campagna di anni per togliere il significato alle nostre stesse parole.
  E, anche se tutto questo può sembrare incredibilmente cinico e se negli ultimi due anni non siete diventati incredibilmente cinici, allora vuol dire che non eravate abbastanza attenti.

(Termometro Politico, 5 settembre 2021)


Il Boss delle vaccinazioni in Israele: preparatevi per la quarta dose

di Guido da Landriano

Sabato lo “Zar”, il responsabile nazionale israeliano del coronavirus ha chiesto al paese d’iniziare a prepararsi per somministrare infine le quarte dosi del vaccino contro il coronavirus, secondo il Times of Israel.
    “Dato che il virus è qui e continuerà ad esserci, dobbiamo anche prepararci per una quarta iniezione”, ha detto Salman Zarka alla radio pubblica di Kan.
    Non ha specificato quando alla fine potrebbero essere somministrate queste successive iniezioni.
    Zarka ha anche affermato che ila prossima inoculazione potrebbe essere modificato per proteggere meglio dalle nuove varianti del virus SARS-CoV-2 che causa il COVID-19, come il ceppo Delta altamente infettivo.
    “Questa è la nostra vita d’ora in poi, a ondate”, ha detto.
    Zarka ha fatto commenti simili in un’intervista con The Times of Israel il mese scorso: “Sembra che se impariamo le lezioni dalla quarta ondata, dobbiamo considerare la [possibilità di successive] onde con le nuove varianti, come quella nuova dal Sud America”, “E pensando a questo e alla diminuzione dei vaccini e degli anticorpi, sembra che ogni pochi mesi – potrebbe essere una volta all’anno o cinque o sei mesi – avremo bisogno di un altro colpo”.
    Certo, la soluzione potrebbe essere diversa rispetto alle continue iniezioni di Pfizer, ad esempio attendere un vaccino con un copertura molto più prolungata, ma pare che il governo israeliano non valuti questa opzione e abbia deciso di proseguire per la sua strada, cioè con un vaccino, il Pfizer, dalla brevissima efficacia.

(scenarieconomici.it, 5 settembre 2021)


I vaccini gettati alle masse dalle case farmaceutiche come ciambelle di salvataggio si sono rivelati ben presto come cappi al collo. Ogni dose propinata è uno Strattone al cappio per impedire al naufrago di affogare. Se non basta lo Strattone 1, si dà lo Strattone 2; se non basta il 2 si dà il 3, e così via. La serie degli Strattoni però non è infinita: finisce quando il naufrago esce dall'acqua strangolato. L'operazione è riuscita e - nel rispetto dei protocolli - il paziente è morto. M.C.


Crisanti boccia l’obbligo vaccinale: “Da Israele dati preoccupanti su calo efficacia”

Mario Draghi ha detto chiaro e tondo che l’Italia potrebbe andare verso l’obbligo vaccinale per tutti. L’annuncio del premier ha scatenato molte reazioni, tra le quali segnaliamo quella – assai interessante – di Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova: “L’annuncio del premier mi lascia molte riserve”, ha commentato. “Da Israele arrivano dei dati che indicano come l’efficacia dei vaccini si riduca al 70%. Al momento sono preoccupato per questo”, ha dichiarato all’Adnkronos
   Quella di Crisanti è potenzialmente una bomba. Israele, il Paese preso a modello per la vaccinazione, vede di giorno in giorno i contagi triplicarsi, mentre l’intera popolazione è vaccinata con due dose e si procede spediti con la terza. Là, però, stando ai dati citati da Crisanti, l’efficacia dei vaccini sta diminuendo al 70%. La domanda quindi è: se si ha la prova provata che l’efficacia contro il blocco dei contagi è in caduta libera, perché obbligare l’intera popolazione a vaccinarsi? E perché procedere addirittura con una terza dose? È chiaro la questione non è più sanitaria ma politica. 
   Chi pensava che l’Italia non sarebbe mai arrivata all’obbligo vaccinale è un ingenuo o un illuso. O semplicemente ha capito poco di quanto sta succedendo fin dall’inizio della pandemia. Il governo ha proceduto per gradi: prima i sanitari, poi la scuola, ora tutti i dipendenti pubblici. Infine, ieri, in conferenza stampa, il premier Draghi ha sostanzialmente detto che l’obbligo vaccinale non è più un tabù per il governo. Quindi, che si proceda pure. Rispondendo a una domanda che mirava a chiedere se il presidente del Consiglio ritenga che l’obbligo vaccinale possa essere introdotto, e se si vada verso la necessità di una terza dose, Draghi ha risposto – ribadendolo due volte -: “Sì a entrambe le domande”. 
   A dare man forte a Draghi ci ha pensato poi il ministro della Salute Roberto Speranza, aggiungendo: “L’obbligo vaccinale nel nostro Paese è già disposto da una norma primaria per quanto riguarda il personale sanitario, quindi in realtà è già applicato ad un pezzo della nostra società”. E sulla terza dose: “Si inizierà entro il mese di settembre”. Avanti, dunque. Perché ormai è evidente a tutti che non si tratta più di salute, ma di lotta politica: Draghi e il suo governo non hanno combinato nulla finora, non hanno mantenuto nessuna delle promesse che avevano fatto, l’unica cosa che gli è rimasta è la campagna vaccinale.

(Il Paragone, 3 settembre 2021)



Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?

di Marcello Cicchese
    Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano continuamente pregare e non stancarsi. In una certa città v'era un giudice, che non temeva Iddio né aveva rispetto per alcun uomo; e in quella città vi era una vedova, la quale andava da lui dicendo: Fammi giustizia del mio avversario. Ed egli per un tempo non volle farlo; ma poi disse fra sé: Benché io non tema Iddio e non abbia rispetto per alcun uomo, pure, poiché questa vedova mi dà molestia, le farò giustizia, che talora, a forza di venire, non finisca col rompermi la testa. E il Signore disse: Ascoltate quello che dice il giudice iniquo. E Dio non farà egli giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui, e sarà egli tardo per loro? Io vi dico che farà loro prontamente giustizia. Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà egli la fede sulla terra? (Luca 18:1-8)

"Il Figlio dell'uomo verrà", dice Gesù. Questo è un fatto certo, indiscutibile, perché dipende da Dio.
     Ma poi Gesù si chiede: "Troverà Egli la fede sulla terra?" E questo è un fatto incerto, discutibile, perché dipende da noi.
     Gesù sta per tornare, e quando si parla del ritorno di Gesù di solito è l'uomo incredulo che si pone delle domande su Dio, e chiede: "Ma sarà poi vero che Gesù ritornerà?". Qui invece, stranamente, è Dio che si pone delle domande sull'uomo, e chiede: "Troverà Egli la fede sulla terra?"
     E dove cercherà Gesù la fede? La cercherà forse tra coloro che apertamente si professano increduli? No, la cercherà tra coloro che si professano credenti. Ma se Gesù si pone una domanda, è perché ci sono due possibili risposte: sì o no. Gesù tornerà sulla terra, e sulla terra cercherà la fede. La troverà?
     La fede. Non è forse questo uno dei punti forti di noi cristiani evangelici? Non ci vantiamo forse della riscoperta, fatta da Lutero, del ruolo centrale della giustificazione per fede? Non siamo forse noi quelli che abbiamo sempre insistito sulla superiore importanza della fede rispetto alle opere, contrapponendoci in questo all'insegnamento della chiesa cattolica?
     "Il giusto vivrà per fede" diciamo spesso e volentieri, citando la lettera ai Romani. Ma dimentichiamo di aggiungere quello che sta scritto nella lettera agli Ebrei: "... ma se si trae indietro l'anima mia non lo gradisce" (Ebrei 10:38). Possiamo onestamente dire, con l'autore della lettera, che "noi non siamo di quelli che si traggono indietro a loro perdizione, ma di quelli che hanno fede per salvare l'anima"?
     Ed ecco, in questa parabola abbiamo un esempio di persona che non si trae indietro, ma esercita fino in fondo la sua fede: la vedova.
     Ma torniamo al primo elemento del nostro discorso: "Il Figlio dell'uomo verrà". Gesù verrà, e ci sembra di vedere i segni dell'imminenza del suo ritorno. Tra questi, ce n'è uno che merita particolare attenzione: il nervosismo del suo Avversario.
     Sì, il Diavolo dà segni di nervosismo, forse perché, come dice l'Apocalisse, sa di non avere che poco tempo. L'avvicinarsi del Figlio dell'uomo toglie tempo e spazio al suo Avversario. Al Diavolo viene a mancare il tempo, e quindi deve fare tutto con più fretta e agitazione; e viene a mancare lo spazio, e quindi deve cercarselo dovunque gli riesce, anche e proprio tra i figli di Dio.
     Non è il caso di spendere molte parole per confutare coloro che, anche tra i cristiani, anche tra i conduttori di chiese, negano l'esistenza del Diavolo o lo vaporizzano in fumosi concetti. Non vale neppure la pena di mettersi a discutere sul piano teorico: qui non è questione di teoria, ma di pratica. Non saper riconoscere il nemico in tempo di guerra significa rendersi oggettivamente strumenti del nemico. Non si tratta di idee più o meno rispettabili, ma di un grave accecamento spirituale: chi non sa vedere il nemico all'opera è cieco, guida di altri ciechi. Quello che la Scrittura dice in modo chiaro e incontrovertibile oggi è confermato da innumerevoli fatti che diventano sempre più vicini a noi, che non si fermano né davanti alla porta di casa, né davanti alla porta della chiesa.
     Il campo che l'Avversario predilige in questa società e in questo tempo è quello della vita personale e familiare. I grandi discorsi sulla pace e la giustizia non lo infastidiscono molto, purché riesca a intrufolarsi tra marito e moglie, tra genitori e figli; purché riesca a tenere schiave le persone con l'immoralità, con vizi vergognosi, con ambizioni smodate, con bramosie incontrollate, con malattie inspiegabili, con angosce e paure di ogni tipo, con veri e propri legami spirituali.
     Gli attacchi vengono portati nella penombra, lontano dalle luci dei riflettori, in quella zona del personale che appare così piatta e banale alla maggior parte delle persone importanti, anche a molti cristiani impegnati, da non meritare una particolare attenzione.
     E i cristiani sono tutt'altro che al riparo da questi attacchi. Anzi, diversi segni sembrano confermare che sta per venire il tempo, forse è già venuto, in cui non ci si potrà più confessare cristiani a buon mercato. Chi oggi confessa pubblicamente il nome di Gesù Cristo deve aspettarsi di essere sottoposto a tentazioni ancora più forti e tenaci di quelle degli altri uomini, perché l'Avversario, reso furioso dal nome di Cristo che è in gioco, cerca accanitamente ogni lato scoperto della vita dei cristiani per sferrare contro di loro i suoi tremendi attacchi.
     Quando l'apostolo Pietro avverte: "Il vostro Avversario, il Diavolo, va attorno come un leone ruggente, cercando chi possa divorare" (I Pietro 5:8), non fa della poesia, ma descrive efficacemente la realtà: una realtà che può diventare drammatica in tempi di particolare prova.
     Per questo Paolo dice: "Ritraggasi dall'iniquità chiunque nomina il nome del Signore" (II Tim. 2:19), perché chi nomina il nome del Signore entra automaticamente nel mirino dell'Avversario; e se l'Avversario avvista l'iniquità, sa di avere un campo d'azione aperto, perché l'iniquità è dominio suo.
     Può accadere così che singoli cristiani, famiglie cristiane, chiese cristiane vengano mantenute in una posizione di schiavitù, come il popolo d'Israele al tempo dei Giudici. Il Nemico dispone dei figli di Dio.
     E questo è fondamentalmente ingiusto. E' ingiusto perché Gesù Cristo ha trionfato sulla croce di tutti i principati e delle potestà e ne ha fatto un pubblico spettacolo (Colossesi 2:15). Quindi, coloro che sono stati riscattati dal sangue di Gesù Cristo non sono, nel piano di Dio, soggetti alla schiavitù del mondo, della carne e del Diavolo, perché Gesù Cristo ha pagato per loro il prezzo di riscatto, e i vecchi padroni non hanno più alcun diritto su di loro. Solo per la loro ingratitudine e infedeltà i figli di Dio possono rimettersi sotto un giogo che non è per loro. Quando ciò accade, naturalmente l'Avversario ne approfitta, e fa di tutto per ottenere che il nome di Gesù venga schernito e profanato.
     Siamo certi che qualcosa del genere non sia già avvenuto, non stia avvenendo nelle nostre famiglie o nelle nostre chiese? Ricordiamoci in ogni caso che questo non è giusto. Non è giusto perché l'apostolo Paolo dice: "Il peccato non vi signoreggerà, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia" (Romani 6:14); e Gesù promette: "Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi" (Giovanni 8:36).
     Se ci rendiamo conto di stare vivendo in una posizione di schiavitù, noi possiamo e dobbiamo, come il popolo d'Israele al tempo dei Giudici, gridare all'Eterno per essere liberati, dopo aver confessato onestamente i nostri peccati a Dio, e se necessario anche agli uomini. Possiamo essere certi che Dio interverrà, e nella sua fedeltà e giustizia ci libererà "dalle fauci della distretta".
     Tuttavia, è bene sapere che l'Avversario non molla subito la presa: Dio gli concede un certo tempo. E' il tempo che Dio riserva all'umiliazione e alla prova dei suoi figli; il tempo in cui Dio si aspetta da loro la preghiera insistente.
     Ed è proprio qui che la vedova ci è d'esempio. La situazione che la parabola ci presenta non potrebbe essere più sfavorevole: da una parte una vedova, cioè una persona nella massima debolezza sociale; dall'altra un uomo potente e privo di scrupoli, che non ha alcun interesse a favorire l'insignificante vedova per inimicarsi il suo più importante avversario. In questa situazione la vedova poteva scegliere tra due cose: o rassegnarsi alla sua debolezza e riconoscere "realisticamente" che contro la preponderante forza avversa non c'era niente da fare; o far lavorare il cervello e cercare qualche soluzione intelligente per modificare almeno un poco i rapporti di forza, e riuscire a strappare, magari con l'aiuto di qualche amico influente, una soluzione di compromesso che le permettesse di ottenere almeno una parte di quello che le spettava.
     Sono due vie che anche noi cristiani siamo tentati di prendere quando ci troviamo nella schiavitù spirituale: la via della rassegnazione (e la rassegnazione non è fede); o la via dell'attivismo "intelligente" (e anche l'attivismo non è fede).
     La via della fede è un'altra. Essa è semplice e difficile nello stesso tempo: è la via diretta della preghiera insistente. Questa è fede.
     Però non basta dire preghiera, perché sulla preghiera siamo d'accordo tutti: bisogna dire "preghiera insistente". "Giorno e notte", dice Gesù, e anche questa non è un'espressione poetica.
     Ci sono tempi in cui Dio mette alla prova i suoi eletti lasciando che vadano a finire in situazioni da cui non hanno alcuna possibilità di uscita, se non attraverso la preghiera insistente a Dio per ottenere liberazione. E' una posizione estremamente umiliante per noi uomini orgogliosi, gelosi della nostra autonomia. Per questo cerchiamo e troviamo un'infinità di argomenti, pur di non restare in una simile posizione.
     Naturalmente, in una presentazione teorica ordinata della nostra posizione di cristiani, nessuno di noi è contrario a inserire la fede tra gli elementi teologici fondamentali del cristianesimo. Siamo anche pronti a usare la preghiera come cappello introduttivo al nostro umano agire. Ma abbiamo una grande riluttanza a ricorrere alla preghiera insistente come unica espressione di fede per ottenere da Dio che le cose cambino. Siamo molto riluttanti a imboccare questa via, perché è la via che richiede l'ammissione della nostra totale impotenza e della assoluta necessità di dipendere in tutto e per tutto dalla grazia di Dio.
     Eppure, è proprio questo che la vedova ha fatto. Lei non ha fatto grandi discorsi, non ha fatto acute analisi della situazione, non ha fatto tentativi di procurarsi alleanze vantaggiose, non ha cercato di arrivare ad un compromesso con il suo avversario. Con patetica "ottusità" ha scelto la via semplice e diretta: è andata ripetutamente da colui che doveva esercitare la giustizia e ha chiesto giustizia. Non si è lasciata né stancare né intimidire dai rifiuti del giudice; ha superato l'ostacolo del tempo, perché "per un tempo" il giudice non ha voluto farle giustizia. Ma alla fine, nonostante che avesse davanti un faccendiere privo di ogni scrupolo di coscienza, la vedova ha ottenuto quello che voleva e che era oggettivamente giusto.
     E voi - dice Gesù - voi che non dovete rivolgervi a un giudice prepotente e malvagio ma a un Padre amorevole e giusto, voi che non siete dei poveri tapini ignorati e disprezzati ma siete gli "eletti" del Padre vostro, perché vi stancate molto prima di quella vedova? Perché non avete la fede necessaria per credere di poter essere liberati dalle mani del vostro Avversario, visto che quello che chiedete è giusto, e l'Iddio a cui vi rivolgete è il fondamento di ogni giustizia?
     Naturalmente, ci si può aspettare l'obiezione: "Pregare va bene, ma mica si può sempre e solo pregare, e poi starsene con le mani in mano. In fondo, Dio ci ha dato un'intelligenza perché la usiamo e la mettiamo al suo servizio. Quindi, prima preghiamo e poi diamoci da fare".
     Il discorso fila ed effettivamente è applicabile a molte situazioni della vita. A molte, ma non a tutte.
     E qui sta il punto. Perché sono proprio le situazioni a cui questo discorso non si può applicare quelle che possono risultare fondamentali per la nostra vita. Dietro questo impeccabile discorso si annida troppo spesso l'incredulità: un'incredulità teologicamente argomentata, ma che non per questo merita di essere chiamata in modo diverso.
     Senza essere obbligato a dare spiegazioni o preavvisi, Dio può mettere alla prova i suoi eletti per "vedere quello che hanno nel cuore" (Deuteronomio 8:2), e lasciare che cadano in situazioni da cui possono uscire solo gridando insistentemente all'Eterno. E' vero che Dio ci ha dato un'intelligenza naturale perché la usiamo nel modo più opportuno, ma è anche vero che Dio ci dà un'intelligenza spirituale per capire quando la nostra intelligenza naturale non serve assolutamente a niente.
     Guardiamo di nuovo la vedova: il suo comportamento non ha nulla di peregrino e intelligente. Lei ha soltanto la visione di quello che è giusto, e la fiducia di poterlo ottenere con la sua insistenza. E così è stato. Alla resa dei conti, la sua è stata vera intelligenza.
     Gesù ritornerà. Ma quando tornerà, troverà la fede sulla terra? Troverà quella fede che si esprime nel rivolgersi a Lui, e soltanto a Lui, per chiedere con insistenza la vittoria sul male? O troverà delle persone e delle chiese che vegetano in una condizione di semischiavitù spirituale, che tentano di coprire la loro situazione di asservimento al male dietro un polverone di discorsi pieni di razionalistico buon senso religioso?
     Troverà Gesù la fede che lotta in preghiera, che resiste all'azione logorante del tempo che passa senza che apparentemente accada nulla? La fede che non si stanca, che non abbandona la preghiera per trasformarla in chiacchiera teologica, che non nasconde la sua mancanza di fede dietro grandi discorsi sulla "giustificazione per fede", con i quali "giustifica" la sua resa all'Avversario?
     Ci troverà Gesù impegnati in questa lotta di fede che è anche una lotta contro il tempo? Contro il tempo dell'attesa che sembra interminabile, e che l'Avversario cerca di usare abilmente per logorarci e stancarci?
     Ma il tempo è breve. E' breve il tempo che ci separa dal ritorno di Cristo; è breve il tempo che l'Avversario ha ancora a disposizione per sedurre gli uomini e le nazioni; è breve il tempo della nostra prova. Gesù dice che Dio farà "prontamente" giustizia ai suoi eletti. Questo vuol dire che, per quanto il tempo passato in preghiera nella prova possa sembrarci lungo, noi dobbiamo ricordarci che Dio dice che è breve. E se Dio dice che è breve, esso è breve. Perché la fede non permette che sia la propria sensibilità psicologica a stabilire se un certo tempo è breve o lungo, ma lascia che sia Dio, e solo Dio, a stabilirlo. Quindi, se Gesù dice che il Padre "farà prontamente giustizia ai suoi eletti che gridano a lui notte e giorno", vuol dire il tempo passato in preghiera nella prova è breve, anche se a noi le notti e i giorni dovessero sembrare interminabili.
     Alla fine dell'Apocalisse ci viene detto: "Colui che attesta queste cose dice: Sì, vengo in breve". Guardiamoci allora dal misurare il tempo passato e quello che pensiamo dovrà passare prima del Suo ritorno con i nostri metri, per vedere se, secondo noi, quel tempo è breve o lungo. Se Dio dice che è breve, esso è breve, perché il metro giusto è quello di Dio.
     E se siamo in lotta nella preghiera, se stiamo combattendo con insistenza per ottenere giustizia da Dio, il "giusto giudice" (II Timoteo 4:8), possiamo ascoltare di nuovo la parola confortante di Gesù: "Sì, vengo in breve".
     E con la Scrittura possiamo rispondere fiduciosi: "Amen! Vieni, Signore Gesù!"

(da "Credere e comprendere", agosto 1991)


 

Israele chiama Italia: “Pronti ad accogliere gruppi di turisti vaccinati”

di Roberta Moncada

Accogliere nuovamente il turismo organizzato vaccinato, e far scoprire anche luoghi meno noti della destinazione, sfruttando e potenziando scali come il nuovo aeroporto di Eilat-Ramon. Questi, i progetti dell’Ufficio nazionale del turismo di Israele, presentati in occasione di un evento tenutosi a Roma, nella cornice del Singer Palace Hotel, sulla terrazza con vista sul centro storico.
   «Stiamo lavorando per accogliere nuovamente e al meglio i turisti italiani, che per Israele sono un mercato importantissimo – ha detto al nostro giornale Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia – e l’obiettivo è di promuovere e incrementare sempre di più gli scambi turistici Italia-Israele. Ne abbiamo parlato anche durante l’incontro con il ministro Massimo Garavaglia a maggio, e ci siamo trovati d’accordo sull’importanza reciproca dei rispettivi mercati».
   Nel 2019, sono stati circa 200mila gli israeliani che hanno fatto turismo nel nostro Paese, e altrettanti i turisti che dall’Italia hanno visitato Israele.
   Ma non si tratta più solamente di turismo religioso. Israele si sta confermando sempre di più come meta poliedrica, con un’offerta che spazia dalle attività outdoor alle spiagge, al trekking, fino al turismo enogastronomico. E proprio nell’ottica di venire incontro alle nuove richieste del mercato, l’ente del turismo israeliano sta cercando di ampliare l’offerta puntando su zone ancora poco battute, come ad esempio il deserto del Negev, facilmente raggiungibile proprio dall’aeroporto di Eilat-Ramon, scalo per cui una recente direttiva governativa incentiva e potenzia l’offerta anche per i voli internazionali.
   Quanto all’offerta per agenzie e operatori, Goren Perry sottolinea che «noi siamo sempre a disposizione di qualsiasi necessità da parte degli agenti di viaggio. Per aiutarli a conoscere meglio la destinazione, abbiamo creato appositamente diversi programmi di formazione, video e webinar, che speriamo facciano scoprire la ricchezza dell’offerta turistica di Israele».
   Con quasi il 25% della popolazione che ha già ricevuto la terza dose del vaccino anti Covid-19, Israele si conferma come uno dei Paesi più avanti nei tassi di vaccinazione al mondo.

(L'Agenzia di Viaggi, 4 settembre 2021)


Boom di contagi da Covid in Israele, autunno in lockdown per l’Europa?

I dati sul Covid in Israele sono pessimi, malgrado il paese sia tra i più vaccinati al mondo. Cerchiamo di capire cosa ci attenda.

di Giuseppe Timpone

Israele è stato un esempio mondiale di efficienza per la campagna vaccinale contro la pandemia. Già agli inizi di marzo, nel paese erano state somministrate dosi per il 100% della popolazione. Un risultato che l’Europa ha raggiunto solamente nelle ultime settimane. Per questo, il boom dei contagi da Covid è guardato con estrema attenzione e timore. I dati ci dicono che a inizio settembre, i nuovi casi giornalieri in Israele sono saliti ai massimi di sempre, superando quota 16.600. Moltissimi per una popolazione di 9,4 milioni di abitanti. Pensate che a inizio giugno, erano scesi a una media di poco più di una decina. Per quanto sopra accennato, Israele è guardato un po’ come se anticipasse di qualche mese il futuro di cosa attenderebbe anche il Vecchio Continente.
   Fa specie che il boom dei contagi sia arrivato con una campagna di vaccinazione così avanzata. Rischiamo per caso di tornare in “lockdown” nell’autunno che sta per arrivare? Prima di cercare una risposta, dobbiamo premettere che Israele oggi non sia più avanti all’Europa in termini di persone completamente vaccinate. Queste sono circa il 63% della popolazione, solamente qualche punto percentuale in più dei dati europei. L’Italia è già salita al 60,7%, tanto per fare un confronto.
   In effetti, dalla primavera scorsa i ritmi della campagna vaccinale in Israele sono di molto rallentati. Anzitutto, perché oltre una certa soglia, risulta molto più difficile convincere la popolazione residua a vaccinarsi. Stiamo assistendo alla stessa situazione in tutta Europa. Il traguardo del 60% segna quasi una soglia di resistenza, toccata la quale le somministrazioni procedono molto più a rilento. Del resto, con le dosi ormai disponibili da mesi a sufficienza, chi fosse convinto di vaccinarsi, grosso modo lo avrebbe fatto.

- CONTAGI COVID, I PROBLEMI COMUNI A ISRAELE
  Detto questo, Israele pone due problemi. Il boom dei contagi sarebbe alimentato dalla variante Delta, ormai diventata preponderante un po’ ovunque in Occidente. Per fortuna, proprio gli alti tassi di vaccinazione nel paese stanno impedendo una recrudescenza anche dei decessi. Questi sono contenuti a una media di 25 al giorno, pur in drastico rialzo dallo zero centrato a fine giugno. Dunque, la variante Delta si mostra molto più contagiosa, ma grazie al fatto che la maggior parte delle persone sia vaccinata, in pochi starebbero accusando effetti gravi. A febbraio, all’apice della terza ondata, i morti da Covid in Israele superarono la soglia giornaliera di 60.
   C’è un altro problema, però: il caso israeliano suggerisce che l’efficacia del vaccino si riduce a distanza di mesi. Considerato che il grosso delle vaccinazioni nel paese sia stato completato entro marzo, dopo sei mesi già il siero inizierebbe a difendere molto meno il sistema immunitario contro il Covid. Non a caso Gerusalemme ha iniziato a somministrare la terza dose, un ulteriore richiamo per irrobustire l’immunità almeno tra le fasce più a rischio della popolazione.
   Tuttavia, esiste una differenza rilevante con l’Europa. Israele ha puntato tutto su Pfizer, mentre da noi i sieri utilizzati sono stati molteplici. E molti richiami sono stati effettuati già con la cosiddetta “eterologa”, cioè con un siero diverso dal primo. Secondo gli studi, emergerebbe che questo mix garantirebbe un’immunizzazione più forte contro il virus. Per il momento, Israele non sta adottando alcun ritorno alle vecchie restrizioni. Ma qui il fattore sarebbe forse più politico: il nuovo premier Naftali Bennett è contrario ai “lockdown” imposti dal predecessore Benjamin Netanyahu. Resta da vedere se questa opposizione verrà meno nel caso di ulteriore risalita dei contagi.

(InvestireOggi, 4 settembre 2021)


Qualcuno prima o poi dovrebbe chiederselo. Hanno detto che con il vaccino si debella il covid; c'è un paese che l'ha fatto per primo in dosi massicce; il covid continua a crescere e a estendersi; dicono che bisogna continuare come prima e più di prima. Domanda: com'è possibile convincersi e convincere altri che il rimedio migliore se non l'unico per debellare il covid è l'aumento di vaccinati e inoculazioni vaccinali? La difficoltà di riuscire a capire i sottili meccanismi mentali che possono portare le persone ad autoconvincersi così serenamente mi ha suggerito la risposta: è il dualmind. Quello di cui parla Orwell nel suo famoso libro "1984":
    «La mente scivolò via nel mondo labirintico del dualmind. Sapere e non sapere; essere consapevoli della totale veridicità, proprio mentre si raccontano bugie ben costruite; intrattenere simultaneamente due opinioni che si annullano a vicenda, sapendole contraddittorie, ma credendo a entrambe; usare la logica contro la logica; ripudiare la moralità avanzando pretese morali; credere che la democrazia sia impossibile e che il Partito sia l’unico baluardo democratico; dimenticare qualunque cosa sia necessario dimenticare, e poi riportarla alla memoria al momento del bisogno, e in seguito dimenticarsene di nuovo all’occorrenza; e soprattutto, applicare lo stesso procedimento al procedimento stesso. Ecco la sottigliezza definitiva: indurre consapevolmente l’inconsapevolezza; e poi, di nuovo, essere inconsapevoli dell’autoipnosi appena praticata.»
M.C.


Antirazzisti, giù le mani da Israele

Intellettuali lanciano sul Monde un appello contro la distorsione del conflitto.

L'attuale situazione in medio oriente non è solo il risultato di decenni di scontri tra israeliani e palestinesi, ma è anche alimentata da centinaia di anni di persecuzione degli ebrei nei paesi arabi e in Europa". Si apre così sul Monde un appello firmato da molti intellettuali, francesi e no: Michael Walzer, Elisabeth Badinter, Elie Barnavi, Georges Bensoussan, Paul Berman, Jean-François Braunstein, Pascal Bruckner, Elie Chouraqui, Alain Finkielkraut, Jacques Julliard, Mohamed Louizi, Pierre Manent, Pierre Nora, Michel Onfray e Boualem Sansal.
   Un conflitto che non può essere "ridotto alla visione binaria di un confronto tra i `bravi palestinesi' e i 'cattivi israeliani', se non da propagandisti o da ignoranti". Ma è proprio in questa oltraggiosa semplificazione che sono impegnate "diverse organizzazioni - pensiamo ad alcuni rapporti delle Nazioni Unite -, organi di stampa, nonché un numero significativo di intellettuali e artisti, personalità politiche e mediatiche". Con il pretesto dei buoni sentimenti, "si tratta di propaganda di stato, che consiste nell'inventare il crimine per uccidere meglio lo stato con il pretesto di porre fine all'apartheid che non esiste (gli arabi israeliani godono degli stessi diritti degli ebrei israeliani, hanno deputati alla Knesset, un giudice della Corte Suprema, consoli e ambasciatori, medici e infermieri".
   Dietro le accuse di apartheid, dicono, "si è pronti a far uccidere l'ultimo palestinese per servire la propria agenda". Nel 2014, l'autore americano Sam Harris ha pubblicato un episodio sul suo podcast intitolato "Perché non critico Israele?". In realtà l'episodio non risparmiava critiche, ma il saggista americano lo concludeva con una frase che fa pensare: "La verità è che viviamo tutti in Israele. Il problema è che alcuni di noi non se ne sono ancora resi conto". L'inno alla gioia di Hamas e del jihad islamico per la presa del potere a Kabul dei talebani dovrebbe farci non poco pensare.

Il Foglio, 4 settembre 2021)


«Noì ebrei in fuga, ci salvammo la vita riparando a Lugano»

La storia di Ornella Ottolenghi che nel drammatico autunno del 1943 raggiunse il Ticino dall'Italia con i suoi genitori per sfuggire ai massacri dell'esercito tedesco. Quando attraversò il confine aveva solo 14 anni ma ancora oggi i suoi ricordi sono lucidissimi.

La fuga di Ornella Ottolenghi e dei suoi genitori verso il Ticino è una delle quattro vicende di profughi di guerra che sono raccontate al Museo Svizzero delle dogane a Caprino nell'ambito dell'esposizione intitolata Un confine tra povertà e persecuzioni, curata dagli storici momò Adriano Bazzocco e Stefania Bianchi. E qui andiamo a scoprirla dalla viva voce della signora Ornella che ce la racconta dalla sua casa di Milano, città dove è nata e cresciuta e vive ancora oggi all'età di 92 anni. 

- LA FAMIGLIA
  «Siamo ebrei ma prima di tutto in famiglia eravamo convinti socialisti. Mio padre Federico era titolare della fabbrica di pelletteria d'alta moda Ottolenghi, fondata nel 1817 e poi chiusa nel 2009. Quando nel 1938 erano state emanate le leggi razziali, riuscì a salvarla e a conservarla nelle mani degli Ottolenghi trasformandola in una società anonima e facendo figurare fra gli azionisti suoi amici socialisti ma non ebrei. Mia madre si chiamava invece Adriana e fu lei a darsi da fare per organizzare la nostra fuga nell'ottobre del '43». 

- IN PIAZZA SENZA APPLAUDIRE
  «Mio padre, per farmi capire come stavano andando le cose nell'Italia fascista, quando ero bambina mi portò in più occasioni in Piazza Duomo ad ascoltare i discorsi di Benito Mussolini. E ogni volta mi diceva: "Vedrai che tutti battono le mani, ma papà no. E non farlo neppure tu". Più chiaro di così.;», 

- SOTTO LE LEGGI RAZZIALI
  «Il giorno dopo il 5 settembre del '38, data in cui entrarono in vigore le leggi razziali del fascismo, mio padre, che era capitano e aveva fatto la Grande guerra, quella del '14-'18, era stato allontanato dall'esercito, mentre io, figlia unica, lo ero stata dalla scuola pubblica. Gli ebrei milanesi, però, organizzarono subito delle loro scuole che io ho frequentato. E avevamo comunque di che vivere, grazie all'azienda di famiglia. Prima dell'8 settembre del '43 non ricordo chissà quali vessazioni subite da noi Ottolenghi. Rammento però che un giorno, uscita dalla scuola ebraica in zona Sempione, mentre stavo aspettando il tram per tornare a casa dall'altra parte della città, tre ragazzotti si erano avvicinati a me e mi avevano insultata. Pioveva, io ero sotto il mio ombrello e quando mi dissero "ebrea" aggiungendovi un epiteto (non ricordo il termine, ma poteva essere tipo "fottuta") lo richiusi, li presi a ombrellate e scapparono. Avrò avuto 11-12 anni, quando accadde», 

- I GIORNI DEL PERICOLO
  Dopo l'annuncio dell'armistizio i soldati tedeschi e soprattutto le SS iniziarono a dare la caccia agli ebrei. «Nell'ultima settimana del mese di settembre del '43 - spiega la nostra interlocutrice - mia nonna materna, Ada Crema, che insieme al nonno Amilcare viveva a Ispra, telefonò a mia madre dicendo che a Meina, sulla sponda opposta del Verbano, era accad uto un fatto drammatico. Sedici ebrei rifugiatisi nell'albergo che portava il nome del paese erano stati arrestati e quindi trucidati dai soldati nazisti, che poi ne gettarono i corpi nel lago dopo averli zavorrati. In quei giorni, con i miei genitori, ero sfollata a Mandello del Lario, sulle sponde del lago di Como, perché la nostra casa di Milano era stata bombardata. Mia madre, allora, non ci pensò due volte e iniziò a darsi da fare per organizzare la fuga della nostra famiglia verso la Svizzera, per cercare di salvarci la vita».

- IL RESPINGIMENTO A CAPRINO
  Da Mandello gli Ottolenghi salirono fino a Lanzo d'Intelvi, dove li accolse un'amica di famiglia che lì aveva una villa. E da lì ... «Nel buio della notte fra il 27 e il 28 settembre, lungo un pendio ripido e accidentato, scendemmo da Lanzo verso Caprino, insieme a dei nostri mezzi parenti, che di cognome facevano Benaroio e avevano con sé la figlia di soli sette mesi. Al posto di confine di Caprino le guardie di frontiera elvetiche diedero il permesso ai Benaroio di entrar e in Svizzera, cosa che non venne invece concessa a noi Ottolenghi. Infatti, venivano accolte solo le famiglie i cui figli non avevano ancora compiuto i quattordici anni, e io li avevo già compiuti», 

- BUONO IL SECONDO TENTATIVO
  «Mio padre si rifiutò di risalire a Lanzo e riuscimmo a raggiungere l'altra sponda del lago in barca, grazie all'aiuto offertoci da guardie di finanza sarde e antifasciste. Scappammo verso Porlezza, dopo di che mia madre organizzò un secondo tentativo. Io e lei il 10 ottobre entrammo in Svizzera scendendo verso Arogno». In quei boschi le attendeva un certo signor Fischer, salito ad accoglierle con la scusa di andare per funghi. Arrivarono quindi a Bissone, dove presero il treno per Lugano. 

- LA CERTEZZA DELLA SALVEZZA
  E qui? «Dopo essere stati a casa Fischer dove ci offrirono tè e biscotti, ci alloggiarono al Majestic, un albergo di lusso. Non mi parve vero di essere in salvo e mi fece effetto vedere che di là del lago c'era l'Italia da dove eravamo fuggite. Mia madre andò poi alla Gendarmeria per annunciarci e in seguito ci trasferirono a Bellinzona, dove provvisoriamente dormimmo nelle prigioni, su un pagliericcio. Rispetto al Majestic, un cambiamento di scenario un po' truce ma almeno avevamo una certezza: finalmente eravamo in salvo! Come lo fu in seguito mio padre che nella notte fra il 26 e il 27 ottobre sconfinò da Caprino, stavolta senza farsi acciuffare», Pure lui raggiunse Lugano, su una barca che era lì ad attenderlo. 

- ORNELLA CINQUANTUNO
  Siamo ai saluti, ma Ornella Ottolenghi ha ancora un ricordo da raccontare. «Sa qual è il vero trauma che ho subito in quegli anni? Quando i pericoli si erano fatti sempre più concreti, mi avevano nascosto presso delle suore a Oneglia, in Liguria. Per evitare che mi si potesse riconoscere come ebrea, sostituirono il mio cognome con quello di Cinquantuno. Era il numerino che era stato applicato sui miei vestiti e indumenti per riconoscerli quando veniva fatto il bucato. Anche la posta dei miei veniva indirizzata a Ornella Cinquantuno. L'aver perso il mio cognome vero mi aveva fatto davvero male, pur se la sostituzione era stata fatta a fin di bene, per la mia incolumità», 

(Corriere del Ticino, 4 settembre 2021)


Giordania: capo Hamas elogia studentessa universitaria per aver boicottato Israele

Il capo dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha contattato telefonicamente una studentessa palestinese residente in Giordania per ringraziarla di aver boicottato Israele nel corso di una competizione internazionale universitaria.
    La ragazza, Lina al-Hourani, si era rifiutata di fronteggiare un contendente israeliano asserendo di non riconoscere la legittimità del cosiddetto stato di Israele. L'aver accettato di competere, avrebbe significato un riconoscimento de facto di Israele.
    Haniyeh ha elogiato la presa di posizione di al-Hourani e il suo messaggio di rifiutare la normalizzazione dei rapporti con l'entità occupante, lodando "questo gesto nobile e sincero."
    Al-Hourani si è ritirata dal concorso organizzato dall'americana Johns Hopkins University incentrato sul tema della ripresa delle città nel periodo post Covid, rinunciando così al premio da un milione di dollari.
    La ragazza ha dichiarato in un comunicato stampa: "I miei principi non mi consentono di competere con coloro che hanno distorto l'immagine del mio paese in una competizione internazionale che si occupa di bellezza".
    Al-Hourani ha aggiunto: "Il valore del premio, che ammonta a un milione di dollari USA, non mi ha tolto la sanità mentale. Sono stata educata su principi basati sulla Palestina. La mia posizione sulla questione è intransigente, mentre il resto sono dettagli che non mi interessano".

(IQNA, 3 settembre 2021)


Lotta tecnologica alle zanzare, Casale chiede l’aiuto di Israele

Il sindaco Federico Riboldi annuncia la collaborazione con il Paese all’avanguardia nella disinfestazione

di Valentina Frezzato 

CASALE MONFERRATO - L’aiuto, tecnico e tecnologico, per l’eliminazione che sia quanto più definitiva possibile delle zanzare a Casale Monferrato arriverà da Israele.
   Grazie a un’amicizia nata in un contesto culturale (una visita alla sinagoga della città, prima della pandemia), il sindaco Federico Riboldi ha potuto rivolgersi a laboratori di tutto il paese del Medio Oriente e oggi porterà in giunta una proposta concreta: «Un documento – spiega – con cui condividerò quanto successo in queste ultime settimane. Prenderemo poi contatto con le realtà più interessanti del paese che è il più avanti nella lotta alle zanzare». Ma Riboldi guarda già oltre: «È importante fissare un meeting con la Regione perché quello delle zanzare non è solo un problema legato al turismo, ma di carattere sanitario».

- UN PASSO INDIETRO
  Un passo indietro va fatto a due anni fa, al giorno in cui Gianluigi Benedetti, ambasciatore italiano a Tel Aviv che all’epoca ancora non lo era, andò a Casale per vedere e conoscere le bellezze della sinagoga.<
   «In tutto questo tempo – racconta Riboldi – ci eravamo sentiti solo per scambiarci gli auguri per le festività. Grazie a una riflessione con Alberto Drera, che è il consigliere delegato alle zanzare, abbiamo cercato più informazioni e creato un contatto in questo senso».<
   Perché non chiedere a loro, in Israele, qualche suggerimento sul tema? «Ne avevo parlato con l’ambasciatore durante la sua visita in città, poi avevo letto documenti e studiato qualche case history: a Tel Aviv portano avanti iniziative molto interessanti sia per la lotta diretta all’insetto, utilizzando alcuni macchinari che lo eliminano, sia per quanto riguarda la prevenzione», continua Riboldi.

- IL TERZO TURNO
  Proprio oggi in città termina il terzo turno, che era iniziato il 23 agosto scorso, di trattamenti larvicidi nelle caditoie stradali, «quelle presenti su suolo pubblico in tutto il territorio del comune – spiegavano dal municipio pochi giorni fa – nell’ambito del progetto di lotta alle zanzare; i trattamenti sono eseguiti dal personale della ditta Sanatec e nel periodo di tempo intercorso fra i turni di trattamenti il tecnico esegue personalmente azioni di disinfestazione dei tombini nei luoghi in cui ritiene necessario».

(La Stampa, 3 settembre 2021)


Il capodanno ebraico tra rinnovamento e indagine interiore 

«Rosh ha Shanà»: lunedì sera si inaugura l'anno 5782 e un mese ricco di celebrazioni e riflessioni profonde 

Il Shanà, la parola ebraica che significa «anno», ha un senso paradossalmente duplice: la sua radice infatti fa riferimento tanto al concetto di «ripetere» quanto a quello di «cambiare». Un apparente controsenso che la tradizione ebraica si incarica di spiegare: se infatti da un lato la ritualità implica di per sé la ripetizione di parole e la reiterazione di gesti allo stesso tempo, per evitare che si trasformi in retorica vuota di senso, deve contenere in sé la capacità di innovare e di rinnovarsi. 
  Ed è a partire da questa duplice direzione che si inaugura, la sera di lunedì 6 settembre, per la precisione il primo del mese di Tishri, l'anno 5782 del calendario ebraico. Rosh ha Shanà ( che tradotto significa letteralmente «capo d'anno») ha un ruolo centrale e inaugura un mese fondamentale ricco di celebrazioni e riflessioni. I calendari infatti sono diversi: alcuni dipendono dal sole, altri dalla luna, altri ancora - come quello ebraico - combinano il tempo dell'uno e quello dell'altra. Proprio per gli strani casi dei calendari, la sera di lunedì prossimo, in aggiunta alla specifica funzione in sinagoga, gli ebrei di tutto il mondo iniziano il nuovo anno mangiando cose buone e dolci in segno di buon augurio per il futuro eppure, a indicare la duplice direzione di senso, Rosh ha Shanà è anche il «giorno del giudizio» in cui Dio inizia a valutare il comportamento sia del singolo che dell'intera umanità. Resta quindi - anche in questo caso - una coesistenza tra elementi di permanenza e cambiamento. 
  Iniziano allora i dieci giorni penitenziali, di riflessione e di introspezione che conducono a Yom Kippur, il giorno dell'espiazione (quest'anno dalla sera del 15 settembre al tramonto del 16). Dieci giorni in cui, a partire dal ricordo della creazione del mondo si ha una sorta di nuovo inizio di tutti gli inizi che implica un'opportunità di rinnovamento che muove dalla riflessione su di sé. Dieci giorni chiamati « Yamin noraim - i giorni terribili» tale è l'intensità dell'impegno che li caratterizza: un periodo però che non è destinato alla sola riflessione, conservando infatti il senso di duplicità iniziato a Rosh ha Shanà, i dieci giorni penitenziali implicano - e impongono - atti concreti e vincolanti: l'obbligo - ad esempio - di chiedere scusa per i torti inflitti. Ma non si tratta di pentimento come inteso nella cultura occidentale (e cristiana): uno dei grandi maestri della tradizione ebraica, Mosé Maimonide, esegeta e filosofo medioevale, dedica alla ricorrenza il testo Hilkhot ha-teshuvà, di cui una prima ipotesi di traduzione del titolo è monne per il pentimento», ma il significato si presta ad essere indagato con maggior attenzione. «TESHUVÀ» infatti indica piuttosto un ritorno che un pentimento e Hilkoth significa percorsi piuttosto che norme. In aggiunta è significativo rilevare che il titolo è declinato al plurale, «ritorni»: nella metafora rabbinica quindi la traduzione - e l'indicazione che se ne trae - è «percorsi di ritorno»: riconoscendo in questo plurale una molteplicità e varietà di possibilità quale che sia il punto di partenza individuale. «La Teshuvà - scrive il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni nella prefazione dell'opera (Giuntina 2015) - riguarda prima di tutto un moto dell'anima, una decisione radicale che determina tutte le future scelte, ma che pur sempre rimane inizialmente interna e non ancora visibile». Un esito possibile che, ancora una volta, è duplice: da una parte infatti è riparatore dei torti commessi, dall'altra la Teshuvà contiene in sé la possibilità di essere creatrice. Secondo il Maharal di Praga - filosofo, talmudista e matematico del Cinquecento - infatti se una tende a riparare gli errore e le cose sbagliate, la seconda, volta e mossa dall'amor di Dio, crea una cosa nuova e giusta, l'una è quindi volta al passato, la seconda al futuro. Eppure né la Teshuvà - il ritorno - né il giorno di Kippur possono espiare se non le colpe commesse verso il Padre Eterno. Si definisce così anche in questo caso una duplice direzione: una verticale dedicata e implicante la relazione con Dio, l'altra, per così dire, orizzontale che riguarda la relazione con gli altri e la collettività nel suo insieme. 
  Per tutti questi motivi il giorno di Kippur, il giorno del giudizio finale, ci si astiene dal mangiare, dal bere e da altre forme di godimento: sembrerebbe quindi che il distacco dalla dimensione materiale consenta di tornare alla natura intima ed essenziale di ciascuno. Un contesto - che conserva ancora una duplicità di senso - in cui «la colpa» non è intrinsecamente negativa indicando piuttosto un percorso di consapevolezza di ciò che si è stati nel passato e avvia alla trasformazione e alla capacità di reinventarsi il futuro. 

(il manifesto, 3 settembre 2021)


Dagli Emirati al Libano. Per l’imprenditore israeliano Erel Margalit è il business la via per la pace

di Fabiana Magrì

“Sono convinto che, molto presto, il Libano farà parte di questo progetto. La chiamiamo “open fence strategy”, la strategia dei recinti aperti”. Dalla città più settentrionale di Israele, Kiryat Shmona, dove giovedì 1° settembre si è inaugurato il Margalit Startup City Galilee, nuovo hub tecnologico tutto dedicato al foodtech, l’israeliano Erel Margalit, fondatore e presidente della società di venture capital JVP, ha lanciato un appello al popolo libanese. “La terra su entrambi i lati del confine è fertile. Respiriamo la stessa aria. Desidero e attendo con ansia il giorno in cui l’innovazione, la ricerca e la creatività saranno condivise dai due popoli”. “Le nostre porte sono aperte - ha continuato il teorizzato le della “Startup Region” in Medio Oriente - e le nostre braccia tese. Non c'è speranza nella guerra. Un conflitto non porta vantaggi per nessuno. L’innovazione, invece, può cambiare una città e può cambiare un paese. E può anche essere un ponte per l'intera regione”.
   E’ uno degli uomini d'affari più influenti in Israele. Con la Jerusalem Venture Partners, società internazionale fondata nel 1993, Erel Margalit ha investito in oltre 150 società. Era il 2004 quando Forbes l’ha annoverato - primo israeliano - tra i cinquanta migliori imprenditori al mondo per la capacità di creare ricchezza per i propri investitori e l’ha definito il più importante venture capitalist non americano. Dopo aver coltivato l'ecosistema high-tech a Gerusalemme, ha istituito centri di innovazione in altre regioni di Israele, tra cui un Cyber ​​Center a Be'er Sheva e un Digital Health Center ad Haifa, a cui si è aggiunto il Foodtech Center in Galilea. E un International Cyber ​​Center a New York. Margalit è stato uno dei primi uomini d’affari a guidare una delegazione ufficiale di business a Dubai, dopo la firma degli Accordi di Abramo, un anno fa. Ed è stato il primo israeliano ospite della TV pubblica emiratina.
    La sua intenzione è perseguire con il Libano lo stesso obiettivo di normalizzazione delle relazioni che ha avuto successo con i paesi nel Golfo Persico, Emirati Arabi in primis. Tra Gerusalemme e Abu Dhabi, tuttavia, non c’era il trascorso di guerre che ha segnato l’incomunicabilità tra Israele e Libano. E non c’era la longa manus dell’Iran e dei suoi proxy Hezbollah. Questa volta, la sfida lanciata da Margalit è decisamente più azzardata.
    “Prima dei politici - ha continuato - ci sono le piccole attività, gli agricoltori, i commercianti, i produttori. La gente inizia a guadagnare per vivere, lavorando insieme su progetti semplici. Io credo negli inizi a piccoli passi”. Dietro le quinte, lascia intendere Margalit, gli uomini d’affari sono già al lavoro per creare dei varchi in un confine attualmente invalicabile.

(Shalom, 3 settembre 2021)


Decapitarono un giornalista ebreo. Potrebbero essere liberi tra pochi anni

Uno collabora con la giustizia americana, l’altro è “detenuto” in Turchia ma sarà libero (di arruolarsi nell’esercito Jihadista di Erdogan) tra pochissimi anni se non subito

Rapirono, torturarono e decapitarono diversi ostaggi occidentali, tra i quali il giornalista ebreo americano Steve Sotloff, il cui rapimento venne tenuto segreto per oltre un anno dalla sua famiglia e dal governo israeliano nel tentativo di non comprometterne la liberazione.
  Steve Sotloff venne decapitato all’inizio di settembre 2014 in una esecuzione filmata dalla cellula ISIS denominata “Beatle” in quanto i suoi quattro membri erano tutti di origine inglese.
  Tra loro il più famoso era Mohamed Emwazi, noto come “Jihadi John”, ucciso in Siria nel novembre 2015 durante un attacco aereo statunitense.
  Gli altri sono Alexanda Amon Kotey e El Shafee Elsheikh, attualmente detenuti negli Stati Uniti mentre il quarto membro è Aine Davis, imprigionato in Turchia dopo essere stato condannato a sette anni (ripeto, sette anni) con l’accusa di terrorismo.
  Kotey ed Elsheikh sono stati catturati dalle forze curde e consegnati agli americani, mentre Davis è stato catturato dalla polizia turca ad Istanbul.
  Quando turchi e americani hanno chiesto alla Gran Bretagna di prenderli in consegna il Governo britannico ha pensato bene che per non dar loro troppa pubblicità in patria la soluzione migliore sarebbe stata quella di privarli della cittadinanza.
  Così è stato deciso di lasciarli processare negli Stati Uniti e in Turchia a condizione che non fosse inflitta loro la pena di morte e che se la pena fosse stata inferiore all’ergastolo sarebbero stati trasferiti in Gran Bretagna per scontare la pena a vita.
  Ora però si apre una questione davvero curiosa. A parte Aine Davis che dopo sette anni sarà libero di “arruolarsi” nell’esercito Jihadista di Erdogan, ma almeno uno dei due attualmente detenuti negli USA (Alexanda Amon Kotey) avrebbe deciso di collaborare con la giustizia e quindi di patteggiare (forse accusando proprio l’altro).
  Ora, questa eventualità prevede la scarcerazione dopo un massimo di 15 anni ed avendo la Gran Bretagna tolto agli accusati la cittadinanza britannica, un buon avvocato potrebbe chiedere alla giustizia americana di non consegnare l’imputato alla giustizia britannica come prevede l’accordo.
  Quindi, almeno due dei responsabili della tortura e della decapitazione di diversi ostaggi occidentali, tra i quali l’ebreo americano Steve Sotloff nipote di un sopravvissuto ai lager nazisti, potranno essere liberi nel giro di pochi anni. Alla faccia della giustizia.

(Rights Reporter, 3 settembre 2021)


G20 interfaith: il Rabbino Di Segni e Mario Draghi insieme per l’impegno delle religioni

Dal 2 settembre al 14 settembre si terrà a Bologna il G20 interfaith forum 2021, a cui prenderà parte il Rabbino Capo di Roma, Rav Shmuel Riccardo Di Segni, nella stessa sessione del Premier Mario Draghi.
    Il tema scelto del G20 Interfaith è “Time of Heal”, Il tempo della guarigione. Un titolo evocativo, che si riferisce a quello che ormai il Covid-19 ha trasformato a partire dal 2020, modificando profondamente il modo di vivere. Ma non solo, un rifinendo anche alle condizioni sociali e sanitarie che la situazione afghana che portato alla luce.
    Uno spazio per il dialogo religioso ma non solo. Il forum ospiterà infatti più di 200 personalità tra cui rappresentanze religiose e diplomatici. Prenderà parte all’evento anche Il Premier Mario Draghi, incaricato della chiusura del G20 assieme all’arcivescovo di Bologna, al cardinale, al presidente del parlamento europeo David Sassoli, e al presidente del congresso ebraico mondiale Ronald Lauder.
    Il G20 sarà quindi uno spazio aperto alla discussione, in cui si parlerà di una serie di proposte e fra esse una dichiarazione di impegni comuni a tutti, e tutte le religioni.Poche frasi ma molto significative: “noi non ci uccideremo”; “noi ci salveremo”; “noi ci perdoneremo”. Una responsabilità religiosa e politica attraverso cui ognuno si impegna a fare la propria parte.

(Shalom, 3 settembre 2021)


Per gli antisionisti, la “Palestina” non si ferma affatto alla ex-Linea Verde

Quando i nemici d'Israele parlano di "Territori palestinesi occupati" non intendono solo striscia di Gaza e Cisgiordania, e non occorre conoscere la lingua araba per capirlo.

Dopo che l’azienda di gelati Ben & Jerry’s ha annunciato il boicottaggio delle vendite nel “Territorio palestinese occupato”, vale la pena dare un’occhiata più da vicino a questo termine.
   Nel 1964, Ahmad el-Shukairy convocò una conferenza durante la quale creò un movimento terroristico chiamato “Organizzazione per la Liberazione della Palestina” (Olp). L’Olp si mise a compiere attentati terroristici contro i civili israeliani per “liberare la Palestina”. A quel tempo, Giudea e Samaria (la “Cisgiordania”) erano occupate dalla Giordania e la striscia di Gaza dall’Egitto. Ma la campagna terroristica dell’Olp non mirava a cacciare la Giordania o l’Egitto da quelle terre illegalmente occupate. Tutto il terrorismo dell’Olp mirava piuttosto a cacciare gli ebrei da Tel Aviv, Haifa, Ra’anana e da altre città, paesi e villaggi dell’Israele pre-1967, e gettarli “nel mare Mediterraneo”....

(israele.net, 3 settembre 2021)


Operativo il nuovo porto di Haifa

GERUSALEMME - Dai Yuming, ministro consigliere dell'ambasciata cinese in Israele, ha invece dichiarato che il nuovo porto di Haifa è un microcosmo della cooperazione reciprocamente vantaggiosa tra Cina e Israele.
   Nel maggio 2015, l'Israel Port Development and Assets Corporation ha sottoscritto a Tel Aviv un accordo con il Sipg per concedere ufficialmente a quest'ultimo i diritti di gestione del nuovo porto di Haifa per 25 anni, a partire dal 2021.
   La costruzione del porto è stata lanciata ufficialmente nel 2018 e la sua pianificazione si distingueva in due fasi. La prima, che è stata completata, consiste in un terminal lungo 805,5 metri sulla lunghezza della linea di riva mentre la seconda fase è caratterizzata da un terminal di 715,7 metri sulla lunghezza della linea di riva.
   Haifa è un polo israeliano del trasporto e dell'industria nonché un hub ferroviario lungo il Mar Mediterraneo mentre il suo porto, oltre a essere il più grande della nazione è anche uno dei più estesi del Mediterraneo orientale.

(ANSA, 2 settembre 2021)


Via dalla radio i conduttori che osano difendere Israele

A "Radio Statale", emittente (non ufficiale) dell'Università di Milano, tolto dal palinsesto il programma in cui venivano criticati alcuni colleghi che accusavano Tel Aviv di «genocidio».

di Daniel Mosseri

Le parole pesano e i giornalisti più ancora degli altri sono tenuti a saperlo. Anche quelli di Radio Statale, un'associazione di radioamatori autogestiti ai quali l'Università Statale di Milano ha concesso l'uso delle proprie apparecchiature radiofoniche. A volte le parole escono male: può succedere. A chi però cerca di far notare che alcuni termini sono stati usati a sproposito si dovrebbe dare ascolto. A Radio Statale invece chi la pensa diversamente viene silurato. È stato Bet Magazine Mosaico, testata della Comunità ebraica di Milano, a fare luce sulla vicenda. Siamo a metà maggio e da dieci giorni sono riprese le ostilità fra Israele e Hamas: è il movimento terroristico di ispirazione islamica a riaprirle il 6 maggio con una salva di missili su Gerusalemme. Nel giro di pochi giorni Hamas esploderà circa 4 mila missili all'indirizzo dello Stato ebraico. Missili che cadono su abitazioni civili, scuole e autobus quando non vengono intercettati dallo scudo antimissile di Israele. Circa un quarto dei missili ricadrà sulle teste degli abitanti della Striscia di Gaza. Le lsraeli Defense Forces risponderanno anche con bombardamenti di strutture ritenute strategiche per Hamas. Alla fine del conflitto si contano 20 morti israeliani e 200 palestinesi.
   La trasmissione Twitch di Radio Statale del 15 maggio osserva che il termine «conflitto» non si può più utilizzare. Tali sono le «atrocità» degli israeliani che più opportunamente bisogna parlare «di genocidio». Usata assieme al termine «sterminio», la parola ha provocato la reazione di Paolo Castellano e Fabio Simonelli, due collaboratori di Radio Statale, responsabili della trasmissione "Eurovisione". Castellano protesta subito col direttore della testata, Marco Cangelli, che si scusa a titolo personale. «Ho poi chiesto la rimozione del video della trasmissione», racconta Castellano a Libero.
   Dopo quattro giorni tutto tace. Così Castellano e Simonelli il 19 maggio durante "Eurovisione" ricordano che in radio non si usano le parole in libertà ma si fa informazione e che i termini sopracitati non solo non corrispondono alla situazione ma rischiano anche di incitare all'odio anti-israeliano e antiebraico, mettendo a repentaglio gli studenti israeliani dell'ateneo e tanti ebrei italiani.
   «Il 20 maggio ricevo una chiamata da un responsabile dei programmi di Radio Statale in cui vengo accusato di aver "infamato" la radio», riprende Castellano, che mantiene la calma e spiega di aver voluto fare chiarezza sui contenuti. Una settimana dopo le parti, pur dissentendo l'una dall'altra, decidono di eliminare dal sito i due contenuti in conflitto. Pace fatta? Manco per niente. «Ad agosto ricevo una telefonata dal direttore e dal responsabile di programma in cui vengo informato che "Eurovisione" è eliminata dal palinsesto di Radio Statale. Sono accusato di aver fatto like a un post di Calenda e di aver canzonato l'inglese di Renzi in una radio che si vorrebbe apartitica», riprende Castellano. Ma soprattutto «di aver criticato dei colleghi dall'interno», reato gravissimo per i sostenitori del pensiero unico antisionista. L'aggravante: lo stop è stato deciso dal consiglio direttivo dell'emittente nel quale, conclude l'epurato, «siedono anche i due speaker del programma Twitch».
   Del caso si è accorto martedì sera il rettore della Statale, Elio Franzini, che in una nota «stigmatizza toni e accenti impropriamente aggressivi ( ... ) ripromettendosi di vagliare attentamente le diverse posizioni coinvolte, assumendo nel caso gli opportuni provvedimenti». Perché «la natura dell'università è anche quella di palestra di idee». Sempre che a Radio Statale siano d'accordo.

Libero, 2 settembre 2021)


Israele, sul tavolo un maxi accordo petrolifero con Emirati Arabi

Un anno fa, precisamente il 15 settembre del 2020, fu siglato a Washington un accordo storico per gli equilibri del Medio Oriente: il riconoscimento dello Stato di Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Bahrein.Oggi che sono state aperte le ambasciate e i voli tra Israele e le monarchie del Golfo, sono partiti anche gli scambi commerciali. Tra questi c'è anche un possibile accordo petrolifero dall"enorme potenziale", ha spiegato il console generale di Israele a Dubai, Ilan Stzulman Starosta, in una intervista alla Afp. Sul tavolo c'è un accordo che prevede la spedizione via mare del petrolio del Golfo fino al porto di Eilat, sul Mar Rosso, nel sud di Israele. Da qui l'oro nero dovrebbe confluire in un oleodotto attraverso Israele fino al porto Mediterraneo di Ashkelon, da dove sarebbe spedito in Europa.
   "Oggi c'è un problema tecnico ambientale. Il progetto è sospeso perché c'è il timore che questo oleodotto, che è molto vecchio, non sia sufficientemente curato per consentire il passaggio del petrolio e che ci sia un rischio di perdite", ha aggiunto."Il ministero dell'Ambiente ha congelato il progetto. Ma dei tecnici sono all'opera per verificare cosa sia necessario per renderlo sicuro. Spero che l'oleodotto possa essere aperto perché sarebbe un ottimo affare per Israele e per gli Emirati".
   La normalizzazione dei rapporti bilaterali ha già permesso numerosi accordi nel settore del turismo, dell'aviazione e della finanza. Gli scambi commerciali fra Tel Aviv e Dubai hanno raggiunto la quota di 500 milioni di dollari in agosto. E secondo il diplomatico israeliano, se la crisi sanitaria globale lo permetterà, potrebbe raggiungere il miliardo di dollari entro un anno."Sono prudente, penso che potremmo raddoppiare il volume di scambi entro un anno, Covid permettendo, perché il potenziale è davvero enorme per entrambi", ha dichiarato.

(Notizie Tiscali, 2 settembre 2021)


Terza dose, tra chi avanza e chi attende

Potrebbe essere necessario un terzo richiamo per il vaccino anti-Covid. Moderna spinge a ottenere il via libera.

La terza dose di vaccino è il grande argomento di discussione in quasi tutto il mondo. Se da un lato in alcuni paesi, Israele su tutti, si stanno già effettuando le inoculazioni, diversi altri paesi stanno valutando come procedere. In Svizzera per il momento non è prevista una terza dose di vaccino, anche se negli scorsi giorni Christian Münz, membro della Task force scientifica Covid-19 della Confederazione aveva ipotizzato che anziani e persone vulnerabili dovrebbero già ricevere una terza dose di vaccino in autunno. In Israele, ha detto l’immunobiologo, “è ormai stato appurato che le reinfezioni nelle persone vaccinate possono diventare abbastanza frequenti”, da qui la necessità del richiamo.

- C’È CHI NON PERDE TEMPO
  Novità potrebbero arrivare a breve anche dall’Unione europea. Se l’Ema o le agenzie sanitarie nazionali ritengono necessaria una terza dose, l’Ue è pronta grazie alle sue grandi capacità produttive. È il messaggio del commissario Ue per il Mercato interno, Thierry Breton. Chi invece non perderà tempo sono Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Proprio nel paese transalpino ieri è stato il giorno zero per la terza dose alle persone vulnerabili. Mentre a breve nel Regno Unito partirà la campagna, ma solo per gli immunodepressi, almeno in un primo momento. Infine, negli Stati Uniti da ieri le persone a rischio possono richiedere la terza inoculazione: sono oltre un milione i vaccini somministrati nelle prime 24 ore. Moderna spinge
   La società Moderna spinge sulla terza dose del vaccino anti Covid-19, per la quale punta a ottenere il via libera. La società ha presentato all’agenzia federale statunitense per la sicurezza dei farmaci i dati iniziali della sperimentazione, che a breve fornirà anche all’Europa. La terza dose “mostra una robusta risposta di anticorpi contro la variante Delta”, afferma Moderna ribadendo il suo impegno a condividere i dati a sua disposizione per sostenere i governi e le autorità a decidere sulle prossime strategie da adottare per le vaccinazioni.

(Ticinonews.ch, 2 settembre 2021)


«La società Moderna spinge sulla terza dose del vaccino anti Covid-19, per la quale punta a ottenere il via libera.» Per quale motivo spinge? Per la salute dei cittadini e il bene dei popoli?


«La nostra testimonianza per non legalizzare l'eutanasia»

Abbiamo sempre preso posizione chiara contro la Chiesa Cattolica come istituzione, ma abbiamo sempre cercato di distinguere tra l’istituzione e le persone. Riportiamo quindi volentieri questa lettera di testimonianza pubblicata sul periodico "Famiglia Cristiana". NsI

«Il 21 maggio 2021 nostra mamma Ignazia, conosciuta da tutti come Enza, è tornata alla casa del Padre. Da 25 anni lottava con l'artrite reumatoide, una malattia autoimmune che non uccide, ma che rende, nel tempo, totalmente dipendenti dagli altri. In questi anni ha provato tutti i tipi di farmaci necessari a "tenere a bada" la sua malattia che fino ad oggi non ha una cura. Negli ultimi quattro anni era costretta su una sedia a rotelle e quando e se camminava lo faceva solo con l'aiuto di un deambulatore, Ma la mamma era comunque una persona alare, che incoraggiava sempre tutti, aveva una parola di conforto, che non raccontava mai le sue sofferenze, tanto che sembrava sempre che stesse bene.
   Nel novembre dello scorso anno per una frattura spontanea del femore ha subito un altro intervento chirurgico. In pochi giorni è sopraggiunta un'embolia. Mamma ha lottato e ha lasciato l'ospedale dove, per ragioni legate alla pandemia, ha trascorso quasi un mese da sola. Tornata a casa il decorso ci ha riservato una brutta notizia: mamma non avrebbe più potuto lasciare il letto. Ci siamo tutti armati di ulteriore buona volontà e spirito di dedizione, cose che non ci sono mai mancate.
   Ma mamma non ha sorriso più. Non si sentiva a casa nella sua stanza, benché l'avessimo dotata di tutti i comfort e non mancava mai chi le tenesse compagnia. «La mia casa è», diceva, «dove ero abituata a stare prima, attorno al tavolo, vicino alla cucina». Mamma cominciava ad arrendersi. Noi due, tra permessi e congedi, abbiamo messo da parte il lavoro per diventare infermiere e operatrici sanitarie e nostro padre era giorno e notte sempre al suo capezzale.
   Poi l'embolia ha di nuovo preso il sopravvento. In tutto 15 giorni di agonia, senza sapere se lei sentisse le nostre voci. Un «buonanotte» sussurrato sono state le ultime parole che le abbiamo sentito dire. Pregavamo, come abbiamo sempre fatto nella nostra vita, come lei ci aveva insegnato fin da bambine. Pregavamo che il Signore della Vita, il Dio onnipotente che ha pietà dei miseri e ascolta le preghiere dei suoi figli, potesse ancora dire: «Alzati e cammina!». Ma ci chiedevamo anche il perché di tanta sofferenza, specie per una persona che già aveva sperimentato i patimenti di una lunga malattia. Poi abbiamo pregato perché il Signore compisse il suo disegno su nostra mamma.
   Davanti alla sofferenza ci si sente sempre smarriti. E l'impotenza davanti al dolore è straziante. Non c'è dolore più grande che dover vedere soffrire e declinare .giorno dopo giorno, la persona che più si ama e non poter fare nulla per aiutarla. E’ di gran lunga peggio che provare dolore in prima persona. Se sei tu che stai male, puoi arrivare a fartene una ragione. Ma se sei costretto ad assistere al progressivo spegnersi di chi ti è caro, ti torturi inevitabilmente. Faresti qualunque cosa per aiutare chi ami. Toccare con mano la sofferenza vera, la malattia, la fragilità umana ti segna per sempre. Noi lo abbiamo fatto per 25 anni! E continuiamo con nostro padre, anziano, malato di tumore e distrutto dalla morte di nostra madre. Se la legge ce lo avesse consentito, avremmo autorizzato l'eutanasia per nostra mamma? No!! Lo diciamo con forza. Con la forza della fede nel Dio della Vita e con quella della fede nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Oggi, invece, ci si vuole convincere che l'eutanasia è un segno di civiltà. Ma uccidere un essere umano lo è davvero? Perché questa è l'eutanasia, la legalizzazione di un omicidio. L'omicidio di un consenziente che ha deciso che la sua vita non vale la pena di essere vissuta con dignità.
   Ma cosa è una vita che vale la pena di essere vissuta? La vita fatta di benessere, di obiettivi raggiunti, di ricchezza ... Una vita in cui non c'è posto per la sofferenza. Abbiamo paura della debolezza e della fragilità perché il modello consumistico ci ha insegnato a essere belli e vincenti. Perciò tutto ciò che non rientra in questi standard va eliminato. Gli anziani, non più produttivi, i malati, persino i bambini che la diagnosi prenatale annuncia essere portatori di un handicap. E per quest'ultimo caso l'uomo che si crede onnipotente e padrone del mondo fa ricorso all'eugenetica.
   Eutanasia ed eugenetica vanno a braccetto. Non ci inganni il prefisso eu- che rimanda alla dolcezza e alla bellezza. Non c'è nulla di bello in un uomo che elimina un altro uomo, in una coppia di genitori che seleziona le caratteristiche genetiche migliori per il proprio bambino. Per quanto si vogliano controllare, la vita e la morte non ci appartengono. Non sono un prodotto che si può comprare, che possiamo scegliere e regolare a nostro piacimento.
   Con tutto il rispetto per chi vive il dolore in prima persona, ci sentiamo di dire la nostra contro il progetto di legalizzare l'eutanasia nel nostro Paese. Non parliamo per sentito dire. Noi abbiamo visto la sofferenza. E testimoniamo con forza che toccare con mano la sofferenza vera, la malattia, la fragilità umana è abbracciare il Cristo martoriato. Il Cristo che si è fatto obbediente accettando i limiti della condizione umana. Oggi ci chiediamo dov'è Dio: è in ogni fratello e sorella sofferente, ci porge le mani scarne e tremanti perché gliele stringiamo, ci mostra le piaghe affinché le medichiamo, si scioglie in lacrime perché noi possiamo asciugarle. Questa è la vita.
   E in questa vita, anche sopraffatta dal dolore, c'è la dignità dell'essere umano. Gesù Cristo è venuto al mondo come uomo per mostrarci cosa significa essere uomini. È nato piccolo e fragile come tutti bambini in ogni parte del mondo e in ogni tempo. Ed è morto soffrendo per mezzo del peggiore dei supplizi della sua epoca storica. Ma quella croce ha dato dignità alla sofferenza. l legni che la componevano sono essi stessi segni del sacrificio di Cristo. Il legno verticale ha unito l'uomo al cielo, a Dio; il legno orizzontale ha abbracciato il mondo perché tutti ci riscoprissimo fratelli. Gesù ha reso nobile la sofferenza. Questo dovremmo testimoniare, noi cristiani prima di tutto. E condannare tutto ciò che rende vano il sacrificio di Cristo: l'aborto, l'eutanasia e la guerra.»

Rosalba e Martina Giacalone

(Famiglia Cristiana, 2 settembre 2021))


Certamente si può dire molto di più sulla persona di Gesù, sul valore della sua morte per l'espiazione dei peccati e della sua risurrezione per la vittoria sulla morte e la rinascita del peccatore a nuova vita, ma il fatto importante, e che ritengo esemplare, è che per motivare la loro concreta opposizione a una possibile legge dello Stato, le due sorelle abbiano mostrato quello che hanno fatto e si siano riferite esclusivamente alla persona di Gesù Cristo. Tutti noi che ci diciamo cristiani abbiamo qualcosa da imparare. M.C.


Israele riapre al turismo organizzato

di Annarosa Toso

In attesa di Rosh Hashanà, il capodanno ebraico che si terrà nei giorni 7 e 8 settembre e che precede di una settimana il Kippur, l’ente del turismo di Israele si è presentato a Roma esponendo i prossimi progetti, non solo per incrementare il turismo nei luoghi noti come Gerusalemme, il mar Morto o Masada ma puntando sul deserto del Negev, raggiungibile facilmente da Eilat.

VACCINAZIONI: SIAMO ALLA TERZA DOSE
  Kalanit Goren Perry, responsabile dell’ufficio nazionale israeliano del turismo, ha evidenziato che nel maggio scorso, quando i contagi del Covid sembravano esauriti, il Paese aveva riaperto al turismo, ma solo ai gruppi di persone vaccinate. Successivamente sono stati bloccati gli ingressi per turismo, ma alla luce della terza dose di vaccino inoculata al 30% della popolazione e dei buoni risultati ottenuti, dalla fine di settembre si potrà tornare in Israele, ma unicamente con il turismo organizzato.

IL RUOLO DELL’ITALIA
  “Il turismo italiano è importantissimo per Israele – ha sottolineato la manager – . Sarà un passaggio graduale non solo per l’Italia ma per tutto il mondo, perché noi vogliamo garantire la massima sicurezza non solo per i turisti, ma per la popolazione. Nei nostri progetti c’è quello di ampliare la nostra offerta puntando sul deserto del Negev, che dista una trentina di km da Eilat. Desideriamo ampliare i collegamenti proprio sull’aeroporto di Ramon, invitando le compagnie aeree ad investire sui voli con il nostro supporto. E’ pronta una direttiva governativa che partirà a breve con i dettagli e gli incentivi per le compagnie aeree per promuovere e operare voli su Eilat. Mentre su Tel Aviv praticamente da tutta Italia ci sono collegamenti operati da compagnie aeree di linea, quali El Al e Alitalia e low cost come Ryanair, Wizzair e easyJet. Riteniamo giusto che gli italiani conoscano quella zona di Israele e che abbiano la possibilità di voli diretti. Un altro modo di viaggiare e scoprire le molteplici offerte del nostro Pese”.

LA SITUAZIONE DELLE APERTURE
  Kalant Goren Perry ha reso noto che al Timna Park, all’interno del deserto del Negev, a marzo 2022 si terrà “il concerto della pace”, al quale parteciperanno diversi paesi arabi tra cui il Marocco. “E’ un evento al quale teniamo molto in una location straordinaria come quella del deserto. Attualmente in Israele è tutto aperto, non solo hotel e ristoranti, ma anche musei, teatri, concerti. Tutti i divertimenti e le attrazioni possibili sono fruibili, sempre per persone vaccinate. Le scuole hanno riaperto il primo settembre e ci stiamo avviando verso la normalità. Invitiamo – ha concluso la rappresentante di Israele – a conoscere, in sicurezza, le altre zone del nostro Paese”.

(Guida Viaggi, 2 settembre 2021)


Tribunale libanese condanna medico che aiuta palestinesi assieme a Israele ed ebrei

di David Spagnoletto

Un medico coopera con una specifica comunità per consentire a una popolazione in difficoltà di potersi curare in ospedali all’estero.
   Se vivessimo in un mondo normale, il medico sarebbe ringraziato ed elogiato per l’ottimo lavoro svolto. Stesso discorso per la specifica comunità, che riceverebbe plausi per il proprio operato.
   La premessa, però, è quella di vivere in un mondo normale. Perché quando di mezzo ci sono Israele e il popolo ebraico, all’improvviso ciò che era giusto diventa sbagliato, ciò che era elogiabile diventa detestabile.
   Una morsa antisemita da cui gran parte del mondo arabo non riesce a uscire, perché lo Stato ebraico e il suo popolo non possono essere associati a nulla di buono. E allora occorre distruggere, cambiare i propri giudizi e paradigmi. Israele e gli ebrei devono essere radicati nel male e lì devono rimanere.
   In questo schema è rientrato anche il medico libanese Jamal Rifi, che vive in Australia, dove coopera con la comunità ebraica di Sydney al fine di organizzare e promuovere un programma di beneficenza che organizza cure per i palestinesi negli ospedali israeliani.
   Medico che è stato condannato a dieci anni in contumacia per il crimine di “normalizzazione con Israele” da un tribunale libanese. Rifi ha così commentato al programma PM della ABC l’incredibile vicenda che l’ha visto protagonista: “Sono stato informato da mio fratello che un giornalista vicino a Hezbollah in Libano ha annunciato che il tribunale militare libanese mi ha condannato a 10 anni di reclusione per essere un collaboratore e un traditore del nemico”.
   Il nemico, ovviamente, è Israele, a cui non basta curare i bambini di Gaza nei propri ospedali per scrollarsi di dosso l’etichetta di diavolo.
   Perché elogiare il Progetto Rozana, che forma operatori sanitari palestinesi e aiuta a trasferire bambini malati da Gaza e altre aree palestinesi negli ospedali israeliani, evidenzierebbe l’umanità dello Stato d’Israele, facendo cadere in un sol colpo quel castello di carta che regge la propaganda araba e palestinese.
   Perché il Progetto Rozana, che ha fornito ventilatori al sistema sanitario palestinese durante la pandemia covid-19, non ha valenza positiva se c’è Israele.
   Perché l’importante non è aiutare chi ha bisogno, ma attaccare tutto ciò che c’è di israeliano e di ebraico sparso per il mondo.

(Progetto Dreyfus, 31 agosto 2021)


Israele torna a scuola: terza dose a over12, esercito per test su bambini

Due test rapidi a settimana ai prof senza green pass, vaccinazioni a scuola, massimo sforzo sul tracing. Banco di prova per il Governo Bennett

di Alfredo De Girolamo

Israele nella lotta al Covid-19 anticipa tutti, imboccando la strada della terza dose da 12 anni in su. Tema controverso quello del richiamo che ha ricevuto non poche critiche, sia di natura etica che scientifica, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’agenzia delle Nazioni Unite sostiene che tale scelta è prematura, soprattutto quando in intere aree del pianeta la somministrazione dei vaccini procede con ritardi e lentezza. Il piccolo stato del Medioriente ha preso questa decisione in seguito al diffondersi della variante delta, che continua a far registrare statistiche allarmanti.
  Se lo scorso maggio gli studi davano al vaccino Pfizer-BioNTech, distribuito grazie a un accordo di esclusività tra l’ex premier Netanyahu e i vertici della colosso farmaceutico newyorchese, un’efficacia del 95% nella prevenzione delle infezioni sintomatiche, già all’inizio di luglio la percentuale di protezione è crollata drasticamente, fissando la stima di copertura intorno al 64%. Secondo alcuni studi con la terza dose l’asticella risalirebbe al 97%. Il neofita primo ministro Bennett, solcando i passi del suo predecessore, nell’evitare di finire nuovamente impantanato nella pandemia ha optato per affidarsi alle misure restrittive e soprattutto al vaccino.
  Nemmeno a qualche mese dal successo internazionale della campagna vaccinale di Netanyahu, che pensava potesse tramutarsi in una passeggiata verso la vittoria elettorale. A marzo, invece, vuoi il sistema proporzionale puro o l’effetto del cambio di inquilino alla Casa Bianca, vuoi la voglia di riscatto di una pletora di avversari intenzionati a rivoluzionare la leadership della destra, re Bibi ha dovuto alzare bandiera bianca. E cedere la poltrona a un suo ex allievo. L’ascesa del nazionalista Naftali Bennett, vissuta dal centrosinistra come una manna benedetta, è comunque appesa a un filo, molto sottile.
  L’imminente banco di prova è la concatenazione tra apertura delle scuole e un mese di cadenzate festività religiose (capodanno ebraico di Rosh Hashanà, Yom Kippur e infine Sukkot). Il 1 settembre 2021 è il fatidico momento in cui i cancelli si apriranno e gli alunni torneranno in classe. Per i giovani che frequentano le superiori è previsto di sospendere la lezione in presenza e passare alla didattica in remoto nel caso in cui la località dell’istituto venga inserita in zona rossa. Allora, se la classe ha una percentuale inferiore al 70% dei vaccinati scatta automaticamente la didattica a distanza.
  Apparentemente complessa è stata la questione del personale scolastico non vaccinato, tra il 10 e il 15%. Materia su cui Governo, Ministero dell’Istruzione e rappresentanti dei sindacati avevano opinioni divergenti, alla fine il primo ministro ha approvato l’obbligo di due test rapidi a settimana per gli insegnanti non in possesso di Green Pass. Mentre, i presidi più restii hanno dovuto accettare che, previa autorizzazione dei genitori, ci si potrà vaccinare anche a scuola, durante l’orario di lezione. Nel tentativo di mettere in sicurezza le scuole per i più piccoli, è stato schierato l’esercito, con la funzione di mappare il livello immunitario di 1,4 milioni di bambini con età compresa tra i 3 e i 12 anni, a cui estendere il Green Pass.
  Le analisi del titolo anticorpale svolte tramite il prelievo di sangue dal dito, esito in 15 minuti, sono una metodologia clinica dalla precisione ritenuta affidabile. In questo modo si cerca di conoscere la diffusione del virus in quella fetta di popolazione al momento esclusa dalla cura vaccinale. All’interno della quale però ci potrebbe essere una diffusa presenza di infetti asintomatici e non diagnosticati (nell’indagine pilota il 17% dei recentemente testati, in gran parte appartenenti alla comunità religiosa degli ortodossi, è risultata positiva).
  Indicazioni utili che permetterebbero alle autorità israeliane di garantire la ripresa della “normale” quotidianità, evitando ai più piccoli l’isolamento. E alle famiglie di stravolgere gli orari di lavoro. Piano ambizioso con qualche inconveniente di troppo. Per gli scettici si tratta di una risposta caotica e insufficiente a evitare il deragliamento. La credibilità di Bennett è in gioco, un errore di troppo potrebbe venirgli non perdonato.

(L'HuffPost, 1 settembre 2021)


Israele amplia la zona di pesca riservata ai palestinesi

Israele ha annunciato l’estensione di 15 miglia nautiche la zona di pesca riservata ai residenti nella Striscia di Gaza e l’ingresso nel Paese di 5000 lavoratori provenienti dall’enclave palestinese.

di Luigi Pasquariello

Dopo che il Premier israeliano Naftali Bennett, all’indomani dell’incontro tra il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, e il Ministro israeliano della Difesa, Benny Gantz, ha escluso una  ripresa dei negoziati di pace nell’immediato, un’inattesa decisione dello Stato ebraico potrebbe contribuire ad alleggerire la tensione e, perché no, a  gettare le basi per riportare al tavolo dei negoziati i due storici contendenti.
   Israele, infatti,  ha annunciato l‘estensione di 15 miglia nautiche della zona di pesca riservata agli abitanti della Striscia di Gaza e l’ingresso nel Paese di altri cinquemila lavoratori provenienti dall’enclave. ”Queste azioni sono state approvate al livello politico e dipendono dalla volontà di conservare stabilità e sicurezza per un lungo periodo. Una loro estensione sarà presa in considerazione dopo una valutazione della situazione”,  si legge nella nota diramata dal Cogat, Coordinamento delle attività del governo israeliano nei Territori palestinesi.

(MeteoWeek.com, 1 settembre 2021)


Israele, che non è un'isola, con il Covid lo è diventato

Tel Aviv - Milano, andata e ritorno tra due ondate

di Manuela Dviri

Tel Aviv - Milano - Tel Aviv - Un tempo, un volo diretto di più o meno quattro ore. Nulla di più semplice. Non più. In questi mesi ho preso l'aereo per l'Italia due volte. Una volta a giugno e una seconda in agosto. Ed è stata una grande lezione in burocrazia Covid. Il viaggio prevedeva un tampone molecolare negativo eseguito in Israele entro le 72 ore precedenti il volo. Non era chiaro che fosse necessario, ma giravano voci che la compagnia lo potesse richiedere. E comunque ho deciso di farlo anche per essere certa di star bene. Poi c'era da riempire un modulo europeo digitale che chiede informazioni sul mezzo di trasporto e il viaggio, sul contatto normale e di emergenza, l'indirizzo permanente e quello temporaneo, non facilissimo da compilare, ma si impara. E ci voleva anche il certificato di vaccinazione israeliano (riconosciuto in Italia) e il modulo israeliano del ministero della Salute, simile a quello europeo, solo più semplice e amichevole, da inviare esattamente 24 ore prima della partenza. Non un minuto prima.
   E finalmente sei in aeroporto. La sensazione, in Italia e in Israele, è ben strana. Sono semi vuoti, i duty free aperti ma sonnolenti, le hostess di terra imbarazzate dal loro nuovo ruolo di burocrati tra mille regole, diverse per ogni Paese. I passeggeri, abbastanza pochi, alieni con mascherina chirurgica. Per il ritorno in Israele, poi, si ricomincia daccapo: viene chiesto un nuovo tampone molecolare, con numero di passaporto e in inglese, esattamente entro le 72 ore precedenti il volo. Non è facilissimo trovare l'ambulatorio e ricevere il referto, costoso tra l'altro, in tempo. Anche perché in Italia in agosto molti ambulatori sono chiusi per ferie o non fanno referti in inglese. Finisco la saga con l'atterraggio a Tel Aviv: due minuti per un altro tampone molecolare, durante la notte arriva il risultato. Negativo. Questa volta, in agosto, anche 10 giorni di quarantena che posso accorciare a una settimana con l'ennesimo tampone molecolare. Ma da domenica sera sono cambiate di nuovo le regole e per chi ha già fatto il terzo richiamo del vaccino o il secondo vaccino meno di sei mesi fa, qui non è più obbligatorio rispettare la quarantena.
   Complicato? La situazione, ovunque nel mondo, cambia di giorno in giorno, di ora in ora. Come il Covid-19. Bisogna adattarsi.
   Quando in Italia mi chiedevano, in giugno, come fosse la situazione in Israele, rispondevo guardando i numeri dei nuovi malati al giorno e dei vaccinati (a maggio erano morti in Israele solo sette malati, il più basso numero dall'inizio della pandemia con un record di solo 200 nuovi malati al giorno), che la crisi sembrava ormai passata. Quando me lo hanno chiesto in agosto, ho risposto invece che siamo in piena quarta ondata. Solo in questi giorni, anzi ore, grazie al terzo vaccino per tutti, dai 12 anni in su, stanno finalmente scendendo in Israele i numeri dei malati gravi, ma ieri il numero di nuovi contagi ha toccato il record di 10.947, uno su tre sotto i 12 anni.
   Rimane proibito l'ingresso nel territorio agli stranieri, tranne che per ragioni di ricongiungimento familiare, mentre dall'annuncio dell'abolizione della quarantena per i vaccinati tre volte, le prenotazioni di voli sono aumentate del 300%. Gli israeliani adorano viaggiare. Si sentono un po' isolati. Israele non è un'isola, ma è come se lo fosse, avendo il Libano a nord, le alture del Golan e la Siria a nord-est, la Cisgiordania e la Giordania a est, la Striscia di Gaza e l'Egitto a sud-ovest.
   È un Paese piccolo, grande come la Lombardia, con circa nove milioni di abitanti. Come la Lombardia, ma i lombardi possono uscire dalla Lombardia in mille modi. Da Israele è un po' più complicato.

(il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2021)


«Io, ebreo, nella Lega. Comunità amica di Matteo» 

L'esponente politico si confessa a Libero: «Non voglio polemiche e rancori. Si vince se restiamo uniti» 

di Fabio Rubini 

In questi casi di solito si dicono frasi tipo «la notizia era nell'aria da un po'». Non questa volta, visto che fino a pochi giorni fa Filippo Jarach, storico esponente di Forza Italia e della Comunità ebraica milanese, era in lizza per la ricandidatura a presidente del Municipio Uno in quota azzurra. La politica, però, va veloce e allora ecco il suo passaggio a sorpresa nella Lega «dell'amico Matteo Salvini». 

- Jarach, qualcuno dirà che il suo cambio di casacca riguarda la mancata candidatura alla presidenza del suo Municipio. Insomma, un affare di poltrone ... 
  «Nessuno potrà dire una cosa del genere. lo non ho mai chiesto nulla a nessuno. Credevo in passaggi naturali che invece non ci sono stati. Amen. lo sono un liberale, rispetto le idee di tutti, ma voglio che gli altri rispettino le mie». 

- Perché lascia Forza Italia per la Lega? 
  «Lascio gli azzurri nonostante io debba tanto al partito e a Silvio Berlusconi in particolare, ma oggi mi sento più vicino all'ìmpostazione della politica data da Matteo Salvini». 

- È stato un addio senza rancore? 
  «Da parte mia sicuramente sì. Non voglio litigare con nessuno. E poi io sono convinto che il centrodestra vince se è unito, quindi alla fine saremo sempre tutti insieme». 

- Come definirebbe la sua nuova avventura con il Carroccio? 
  «Una bella scommessa che posso vincere».

Scommessa che riparte dalla candidatura a consigliere del Municipio Uno?
  Sì, ho voluto ripartire da zero, avendo bene in mente un progetto preciso per il futuro. Per il quale ringrazio Salvini e Stefano Bolognini. Del resto il mio slogan elettorale è "Lavoriamo oggi per la Milano di domani". Dobbiamo far tornare la politica al centro, per dare ai milanesi una città più sostenibile e sicura. In questi anni tanti che vivevano qui sono andati via perché Milano non dava loro le garanzie che cercavano. Dobbiamo invertire la tendenza». 

- Lei è un esponente della Comunità ebraica milanese ... 
  «E credo anche il primo ebreo a candidami a Milano con la Lega». 

- Ecco, era giusto quella la domanda. La Lega è spesso finita nel mirino della sinistra per una presunta vicinanza con la destra estrema. Non ha paura che la Comunità ebraica possa non capire la sua scelta? 
  «No, è esattamente il contrario. Quando ho deciso di fare il salto, mi sono consultato con quella parte di Comunità che guarda al centrodestra, per capire come l'avrebbe presa». 

- E come è andata? 
  «Bene. Matteo Salvini è un leader politico che nelle diatribe internazionali si è sempre schierato al fianco di Israele. Quindi Salvini e la Lega sono amici della Comunità ebraica, che mi ha garantito totale appoggio in questa nuova avventura», 

Libero, 1 settembre 2021)


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