Documentario da Israele : tutti i fantasmi del vaccino. Morti e danneggiati invisibili
Riceviamo oggi per email il link di un sito creato in Israele contenente video di israeliani che in ebraico, con sottotitoli in inglese, raccontano le esperienze che hanno fatto dopo l'inoculazione del vaccino. Naturalmente non è possibile valutare da qui la corrispondenza al vero dei singoli fatti raccontati, né se dietro questa iniziativa ci sia il desiderio di danneggiare lo Stato d'Israele. Non è comunque moralmente lecito cercare di nascondere i fatti. NsI
Una realtà straziante e tenuta nascosta dai principali media e canali di informazione.
Il dramma di persone gravemente danneggiate dopo la somministrazione del vaccino Covid o che hanno perso i loro cari a causa di questa.
Queste persone vengono messe a tacere, nascoste dai media, sono i nuovi fantasmi, un esercito invisibile.
Nasce in Israele, uno dei Paesi maggiormente coinvolti nella campagna vaccinale di massa e dove le libertà personali sono ormai quasi totalmente subordinate all'inoculazione del vaccino, questo progetto: The testimonies project
(Wix.com, 30 settembre 2021)
"Verso il domani": c’è anche il padiglione di Israele
Dopo gli "Accordi di Abramo"
di Benedetta Paravia
DUBAI — Sono tre i grandi ingressi pronti ad accogliere i visitatori dell’Expo di Dubai: "Sostenibilità", "Opportunità" e "Mobilità". Sono le porte con un’architettura di chiaro richiamo alla civiltà islamica che accoglieranno si pensa fino a 25 milioni di visitatori in sei mesi. Ed è proprio nel distretto dell’Opportunità che sorge l’assoluta novità di questa Expo: il Padiglione Israele. Un progetto che si avvera grazie alla partnership di Israele con gli Emirati Arabi Uniti. «Stiamo vivendo la storia: chi avrebbe pensato solo qualche tempo fa che Israele avrebbe potuto partecipare ad un evento universale in un paese arabo », dice Menachem Gantz, portavoce del Padiglione, «e ciò è stato possibile grazie agli Emirati e alla apertura di relazioni diplomatiche fra i nostri due paesi».
Il padiglione è una tenda aperta, simbolo di ospitalità e crocevia di culture millenarie, in alto si staglia la frase in Aravrit, crasi tra arabo ed ebraico, "Verso il domani". Sul pavimento c’è sabbia, «perché la sabbia, il deserto sono parte del destino comune dei popoli della nostra regione», dice Gantz, «e poco alla volta torneremo a dialogare e a riconoscerci gli uni con gli altri. È la prima volta che un Expo universale viene organizzata in Medio Oriente, ed è la prima volta che Israele partecipa a un evento del genere nel mondo arabo».
La partecipazione di Israele è la tangibile conseguenza degli "Accordi di Abramo", che hanno segnato la pace tra Israele, gli Emirati, Bahrain e più tardi Marocco. Un’intesa che ha aperto le porte a nuovi scenari geopolitici e nuove strategiche alleanze in Medio Oriente. Gli accordi vennero firmati dal ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed Al Nahyan, dal ministro degli Esteri del Bahrain Abdullatif bin Rashid Al Zayani, dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump il 15 settembre 2020, alla Casa Bianca a Washington. La notizia fece in breve il giro del mondo e lasciò sorpresi molti conservatori ed integralisti. Ma il "domani" non può essere fermato.
(la Repubblica, 30 settembre 2021)
Israele e il nuovo governo: Bennett alla prova del fuoco
Quella di Naftali Bennett è una premiership all’insegna del pragmatismo, che puntasulla strategia del “fare squadra”, molto diversa da quella accentratrice di Bibi Netanyahu.Benny Gantz e Yair Lapid lo affiancano negli impegni diplomatici internazionali.
di Avi Shalom
A meno di 50 anni, Naftali Bennett si trova per circostanze fortuite – dovute a sorprendenti sommovimenti nella politica interna – a ricoprire la carica di Primo ministro di Israele. Guida un partito (Yemina) forte di soli sei deputati sui 120 della Knesset. La sua coalizione è composta da otto liste politiche: di destra, di centro e di sinistra, fra cui quella del Movimento islamico. Ma anche così la sua maggioranza in Parlamento, nei giorni favorevoli, è di 61 deputati. Per completare i quattro anni di legislatura dovrà non solo beneficiare di una dose notevole di fortuna, ma anche dimostrare grande maestria. Dalla sua parte c’è una biografia di tutto rispetto: dagli studi a San Francisco alla guida di una unità di elite nell’esercito israeliano, da una avventura nel mondo del High tech che gli ha fruttato 145 milioni di dollari, alla guida idealista del movimento dei coloni. Poi ancora l’apprendistato nell’ufficio di Netanyahu, la conquista dell’invecchiato Partito-Nazional religioso e la sua trasformazione in una forza politica militante e ambiziosa. Quindi incarichi di Ministro dell’Istruzione e poi Ministro della Difesa. Ed infine, in prima linea nella lotta al Covid, con la pubblicazione di una sorta di “manuale” sul contenimento della pandemia. Ciononostante, per lui gli inizi sono stati tutti in salita: perché il suo predecessore Benyamin Netanyahu ha cercato di mettergli i bastoni fra le ruote (fra cui una marcia di ebrei nazionalisti a Gerusalemme est e un avamposto illegale in Cisgiordania), nella speranza di vederlo cadere al più presto, e perché i nemici di Israele hanno approfittato della sua inesperienza internazionale per lanciare continui attacchi da Gaza, dal Libano, in Cisgiordania. Inoltre navi israeliane si sono trovate sotto attacco in acque internazionali, su iniziativa dell’Iran. Bennett, insomma, non ha certo beneficiato dei tradizionali cento giorni di grazia. Nemmeno di una misera manciata di giorni per ambientarsi. Dalla metà di giugno, da quando è entrato in carica, non ha avuto un solo momento di respiro. Le crisi si sono presentate sul suo tavolo in rapida successione, i momenti di soddisfazione sono stati molto rari. Eppure Bennett ostenta una calma interiore. è il primo ebreo osservante a essere diventato Premier di Israele: ricarica le batterie nei week-end che trascorre lontano dai media e dalla rissa politica, assieme alla moglie e ai quattro figli, nella casa privata di Raanana. Per il momento non ha alcuna intenzione di trasferirsi nella residenza ufficiale dei Premier d’Israele, nella celebre Rehov Balfour di Gerusalemme, in quello che era diventato il simbolo del potere della famiglia Netanyahu. Costretto a continui compromessi con i compagni di strada della coalizione, in questi mesi Bennett ha perso buona parte del sostegno della lista di destra-religiosa Yemina. Sulla carta, sembrerebbe un colpo severo alle sue ambizioni politiche. In realtà è la liberazione da una “zavorra” di impegni elettorali divenuti nel frattempo ingombranti. «Per lui un vero miracolo», sostiene l’analista politico di Maariv Ben Caspit. Era già accaduto, all’inizio degli anni Duemila, ad Ariel Sharon con la spaccatura del Likud, il ritiro da Gaza e la formazione del partito centrista Kadima. Finalmente – prosegue Caspit – Sharon era libero di fare quello di cui il Paese aveva bisogno senza dover rispondere ai quadri di partito. Ma per Sharon quell’interludio durò poco, perché fu stroncato da un ictus. Bennett conta di mantenere una linea fondamentale di pragmatismo per almeno i prossimi due anni, nella fiducia di sapersi costruire, gradualmente, consensi sempre maggiori. Al suo fianco ha il leader centrista Yair Lapid, Ministro degli Esteri e fra due anni Premier “alternato”. Per il momento il binomio ha funzionato, senza scricchiolare. Da luglio, molto attivamente assiste ai loro sforzi, dall’esterno, anche il nuovo Capo di Stato Isaac Herzog, ex leader del Partito Laburista. Sul piano internazionale il nuovo governo ha agito a tutto campo. Bennett – in piena crisi afghana – è stato ricevuto a Washington con grandi onori dal presidente Joe Biden. È stato accolto ad Amman da re Abdallah (che di fatto aveva troncato i rapporti con Netanyahu) e nel Sinai dal presidente Abdel Fatah al-Sisi (prima visita pubblica di un premier israeliano in terra egiziana dal 2011). Il suo Ministro della Difesa, Benny Gantz, ha intanto riattivato il dialogo e la cooperazione di sicurezza con Abu Mazen e con l’Autorità Nazionale Palestinese. Lapid ha compiuto visite ufficiali negli Emirati e in Marocco, oltre che in Russia e alla Nato. Ovunque il nuovo governo ha raccolto espressioni preliminari di fiducia. Sui contenuti tuttavia non c’è grande divergenza dalla politica di Netanyahu: Israele continua a opporsi alla formula dei due Stati e continua a sostenere il massiccio progetto di insediamento ebraico in Cisgiordania. Ai palestinesi non offre prospettive d’indipendenza, ma prospetta investimenti economici (anche internazionali) e un miglioramento delle condizioni di vita a Gaza e in Cisgiordania.
• La Questione Iraniana
In primo piano – per Bennett come per Netanyahu – è la questione Iran. Teheran ha compiuto sensibili progressi nei suoi programmi nucleari e fra breve potrebbe disporre della quantità di uranio arricchito necessaria alla confezione di una prima atomica. Prosegue inoltre la sua sistematica penetrazione fra i vicini di Israele (fra cui Siria, Libano, Gaza) e il suo sostegno alla produzione di missili precisi con cui tenere sotto costante minaccia le retrovie di Israele. Da Biden, Bennett ha ottenuto l’impegno che gli Stati Uniti non consentiranno all’Iran di dotarsi di un’atomica, ma ancora le posizioni dei due Paesi non sono identiche. Israele vorrebbe vedere negli Usa una chiara disponibilità al ricorso alla forza, in caso di necessità. Ma finora Bennett non l’ha ricevuta. Anche con Hamas a Gaza Bennett prosegue di fatto la politica di Netanyahu. Si sintetizza nella formula: “La calma in cambio della calma”. E se da Gaza partono razzi, nelle ore successive l’aviazione di Israele colpisce postazioni deserte di Hamas. Nei mesi passati i maggiori successi (peraltro parziali) registrati dal governo Bennett si sono avuti nella programmazione economica (affidata a Avigdor Lieberman) e nella lotta al Covid (sotto la direzione del Ministro di sinistra Nitzan Horowitz). Negli ultimi tre anni, per ragioni di convenienza politica di breve termine, Netanyahu si era astenuto dal far votare alla Knesset la Legge Finanziaria, ossia il bilancio per l’anno venturo. I ministeri hanno dovuto barcamenarsi con bilanci definiti nel 2018 e da allora rinnovati ad hoc, anno per anno, anche di fronte a una situazione economica molto alterata dalle profonde conseguenze del Covid sul mercato. La finanziaria per gli anni 2021-22 è stato il primo obiettivo che Bennett ha scelto per il suo governo ed è riuscito a raggiungerlo, almeno in prima lettura. Il voto definitivo sarà a novembre. Il secondo fronte su cui il governo ha agito con grande determinazione è stato la lotta al Covid. A luglio, fra molte titubanze degli stessi esperti di sanità, Bennett ha deciso che Israele sarebbe stato il primo Paese al mondo nella somministrazione di massa della terza dose di vaccino Pfizer, in quanto in 5-6 mesi l’effetto delle prime due si era molto affievolito. La campagna ha avuto un successo insperato: in un mese e mezzo quasi tre milioni di israeliani di età superiore ai 12 anni si sono immunizzati. Ma nel frattempo, nel Paese dilagava la aggressiva variante Delta, con tassi di contagio fino al 7-8 per cento al giorno. La distribuzione massiccia della terza dose è servita ad assorbire in parte e ad allentare la pandemia. Ma anche così nel mese di agosto si sono avuti quasi 1000 decessi. Gli appelli martellanti di Bennett a due milioni di israeliani non vaccinati di andare a ricevere le loro iniezioni sono rimasti inascoltati. Ma in diversi Paesi “l’esperimento Israele” sulla terza dose è stato un punto di riferimento importante per le decisioni nazionali da adottare. Sul piano interno, infine, l’effetto del governo Bennett-Lapid si è fatto sentire nettamente nelle reti sociali e nei media. Il tono costantemente aggressivo mantenuto da Netanyahu e dai suoi collaboratori contro chiunque dissentisse dalla sua linea (fossero essi singoli o istituzioni) è stato sostituito da Bennett con messaggi dai toni concilianti. A differenza di Netanyahu (che amava presentarsi come l’artefice unico di ogni successo), Bennett appare invece come uomo di squadra e non esita a elargire complimenti, nel caso, ad altri membri del governo. La sensazione maturata fra molti israeliani è dunque che Bennett stia radicalmente invertendo la marcia intrapresa da Netanyahu verso una premiership accentratrice e autoritaria. Se così fosse, sarebbe forse questo l’aspetto più significativo del governo Bennett-Lapid.
(Bet Magazine Mosaico, 30 settembre 2021)
Da “Shtisel” a “I nostri fantasmi” – l’attrice Hadas Yaron si racconta
di Nicola Roumeliotis
Arriva nelle sale, dopo la presentazione all’ultimo festival di Venezia, il film di Alessandro Capitani “I nostri fantasmi”. E su Netflix potete trovare la terza stagione di “Shtisel”, serie israeliana di grande successo. Denominatore comune? La presenza dell’attrice Hadas Yaron. La Yaron non è nuova nei contesti cinematografici del nostro paese. Già nel 2012 aveva vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile con lo straordinario “La sposa promessa” della regista israeliana Rama Burshtein. Ha fatto parte della giuria al Torino Film Festival e proprio in quel contest ha vinto anche un premio per il suo film “Felix et Meira”. E dopo l’internazionale “Maria Maddalena” dell’australiano Garth Davis, ecco ben quattro titoli tutti italiani, tra cui il film di Capitani è l’ultimo in ordine cronologico. Di tutto questo e di molto Shalom ha parlato (via zoom) con la giovane attrice israeliana. In un italiano, ormai, diremmo perfetto.
- Hadas, ci racconta come è iniziata questa sua avventura italiana? In un modo strano. Dopo che ho vinto la Coppa Volpi a Venezia mi ha scritto un’attrice israeliana, un’amica, che mi ha detto “Devi imparare l’italiano e devi lasciare Israele alle spalle. Qui succede poco, anzi niente. Non ci sono soldi per il cinema e devi approfittare di questo Premio e cercare di crescere altrove!”. Io non sapevo cosa pensare ma quando un anno dopo mi ha scritto Gianni Zanasi per propormi una parte nel suo film “La felicità è un sistema complesso” ho capito che cosa dovevo fare!
- Cosa? Beh, mi sono applicata. Ho imparato la lingua ed ho cominciato a leggere in italiano. Devo dire che il mio rapporto con l’Italia è come una storia d’amore. Ogni volta che vengo qui respiro un’aria familiare. Mi trovo benissimo.
- Ma anche se in Israele non succede niente (o quasi) da un punto di vista cinematografico come ha detto la sua amica attrice, “La sposa promessa” è un film bellissimo ed ha avuto un grande successo un po’ ovunque. Certo. Quel film è un film speciale, e non solo per me. Ma se devo essere sincera la situazione dell’industria cinematografica israeliana non è tra le migliori. Il paese è piccolo, i soldi non sono tanti e anche se le opportunità non mancano non ti permettono di vivere in modo soddisfacente. In altre parole, non c’è tanto futuro.
- Eppure la terza stagione della serie “Shtisel”su Netflix, e una sfilza di altre serie tv israeliane che hanno avuto dei remake internazionali, più o meno di successo, raccontano un’ altra storia. “Shtisel” racconta da un punto di vista non politico ma quotidiano una comunità ebraica ortodossa, ed è molto innovativo. Ci sono situazioni piene di ironia, dove di solito troviamo anche tristezza e conflitti, e personaggi ben approfonditi. Personaggi con cui, nonostante la loro rigidità, è difficile non riconoscerci. Tra me e il protagonista Akiva, interpretato da Michael Aloni, si è instaurato un bellissimo rapporto. C’erano molte scene di tensione ma dopo tutto dalla tensione nasce la verità. È Libbi, il mio personaggio, che lo spinge a continuare la sua arte. Un’esperienza molto bella attraverso cui ho scoperto quanto l’intolleranza sia pericolosa e nociva.
- Allora per lei “Shtisel” è stato, è, fondamentale…. È stato grandioso. La gente ha cominciato a riconoscermi per strada. Libbi, il mio carattere, questa giovane ebrea ortodossa, è diventato quasi un simbolo per molte donne ebree. E’ la cosa più strana, e allo stesso momento meravigliosa, che mi sia successa!
- Ma il suo personaggio non c'è in questa terza stagione …. No, no, c'è, anche se in una maniera un po’ particolare! (ride)
- Tornando per un momento al “suo” film “I nostri fantasmi” di Alessandro Capitani, che cosa l'ha convinto a prenderne parte? Quando ho letto la sceneggiatura ho subito pensato “Macché, mi hanno mandato un horror?”. Ma poi è stato questo mix singolare tra realismo e fantastico che mi ha convinto che fosse qualcosa di diverso. Il mio personaggio non doveva essere una israeliana ma poi il regista lo ha adattato per me!
- Grazie! È stato un piacere….
(Shalom, 30 settembre 2021)
Cresce il fronte dei lavoratori contro il pass
Grande soddisfazione del gruppo «CoScienze critiche» per l’adesione dei prof: «Faremo sentire ancora la voce a difesa dei principi costituzionali»
Il fermento è in tutto il mondo accademico. Gli studenti
di Venezia, Firenze e Bergamo contrari al foglio verde si sono mobilitati scrivendo ai rettori
di Mauro Bazzucchi
Anche i portuali di Trieste si oppongono all'obbligo di certificato, chiedono test gratuiti e sono pronti allo sciopero dal 15 ottobre. Intanto, l'appello dei docenti universitari anti discriminazioni ha raggiunto il migliaio di firme. Proteste pure tra i camionisti.
Più l'ora x dell'obbligo generalizzato del green pass si avvicina, più la protesta contro questa misura monta e assume contorni che solo uno sprovveduto o un tendenzioso potrebbe definire folkloristici.
Come è noto, dal 15 ottobre dovranno esibire la certificazione anche i lavoratori del settore pubblico e privato, che si aggiungeranno alle categorie per cui l'obbligo è già cosa fatta, come ad esempio quanti sono impiegati nei settori sanitario e scolastico. Ma è proprio da quest'ultimo ambito, e più precisamente dal mondo universitario, che continua ad arrivare la spinta più autorevole e più significativa (anche in termini di impatto sull'opinione pubblica) contro le nuove norme e l'obbligo surrettizio di vaccinazione.
Se infatti l'appello di un gran numero di docenti universitari e intellettuali, tra i quali spiccava il «mostro sacro» Alessandro Barbero, storico e divulgatore tra i più cari all'intellighenzia di sinistra, non a caso uscita letteralmente sconvolta e stizzita da questa presa di posizione, aveva colto nel segno, l'impatto di tale appello è andato anche oltre.
Sono arrivate infatti a 1.000 le firme dei sottoscrittori del documento, che insiste sia sulla illegittimità delle nuove norme, sia sul regime di discriminazione che hanno introdotto in un ambiente che per vocazione dovrebbe essere inclusivo fino alla fine, evitando ogni possibilità di discriminazione all'accesso. Un risultato riguardevole, se si considera il clima da «caccia alle streghe» per i critici dell'obbligo e il fatto che l'appello abbia fatto proseliti in un contesto che inizialmente veniva dato come impermeabile a questo tipo di argomenti.
E invece, la cosa è andata oltre le aspettative più rosee, come rivendicato dai promotori, che sono tornati sulla questione ribadendo di voler «lanciare un chiaro segnale al governo e all'opinione pubblica: basta divisioni, basta dibattito inquinato». «Si torni - hanno aggiunto gli accademici autori del documento - a norme sensate e a guardare all'estero, dove in nessun altro paese democratico per studiare e lavorare si deve presentare un pass sanitario i cui limiti sono evidenti a tutti. Esso comporta rischi e discriminazioni intollerabili e gravissime, che già molti dei nostri studenti, colleghi e personale tecnico stanno vivendo sulla propria pelle .. Non è questione di vaccino o non vaccino - hanno proseguito - le misure che oggi colpiscono chi ha deciso in piena libertà e coscienza di non vaccinarsi, domani colpiranno chi ha già completato il ciclo vaccinale. Occorre - concludono - subito cancellare il green pass: ne va della nostra libertà presente e futura».
Grande la soddisfazione anche dal gruppo universitari «CoScienze critiche», che nei mesi scorsi avevano sottolineato più volte - anche sul nostro giornale - le sofferenze costituzionali della nuova normativa: «Continueremo a far sentire la nostra voce - hanno affermato in un duro comunicato stampa - contro l'inaccettabile strumento ideologico del green pass, che non ha alcun fondamento scientifico, mentre è moralmente e socialmente dannoso, tanto più che ora viene esteso a nuove categorie di cittadini».
«Uno strumento - viene definito il green pass - vessatorio contrario ai principi stessi della scienza e della conoscenza, principi che le nostre istituzioni dovrebbero promuovere e difendere invece che mortificare, sanciti nella Costituzione italiana e nei Trattati e Carte di valore internazionale».
Le iniziative contro l'obbligo del green pass non sono giunte solo dagli Accademici: nelle scorse settimane molti sono stati gli studenti che hanno contestato la misura e hanno chiesto a presidi o rettori di non accettarla supinamente. In particolare. a Firenze, con una lettera aperta gli «studenti uniti contro il green pass» hanno chiesto alla rettrice di non applicare le norme entrate in vigore a metà settembre, per non rendersi «complice della prevaricazione dell'etica e del declino della civiltà». Anche dagli studenti bergamaschi e veneziani sono state firmate missive simili indirizzate ai rettori.
Al di fuori dell'ambiente scolastico e universitario spicca quanto accaduto a Trieste, dove i lavoratori portuali, al termine di un'accesa assemblea, hanno espresso la propria netta contrarietà all'obbligo del green pass per poter lavorare. Non solo: per far pesare il proprio punto di vista, i lavoratori del capoluogo giuliano hanno aderito al corteo di protesta previsto per domani e, come estrema ratio, valutano di indire il blocco del lavoro.
Una misura che fa il paio con quello che avevano deciso alcuni gruppi di camionisti contrari al green pass, che però non hanno potuto contare sull'appoggio dei sindacati di categoria, a differenza di quanto accaduto nell'assemblea di Trieste. Tutto lascia pensare, però, che la protesta di lunedì scorso sia solamente il preludio a quanto potrebbe accadere a partire dal 15 ottobre.
(La Verità, 30 settembre 2021)
Green Pass: da domenica 1 milione di israeliani a rischio di perderlo
Green Pass: molti non saranno in grado di accedere a determinati luoghi e raduni pubblici senza un test del virus negativo dopo il cambiamento di politica che richiede una vaccinazione di richiamo sei mesi dopo il secondo vaccino COVID19.
Da domenica, più di un milione di israeliani perderanno il loro Green Pass dopo che un cambiamento di politica ha dettato che è necessario un richiamo del vaccino contro il COVID19 sei mesi dopo aver ricevuto le prime due dosi. I dati del Ministero della Salute di lunedì hanno mostrato che a 4.710.716 israeliani sono stati vaccinati con due dosi sei mesi fa, ma solo a 3.243.641 è stata somministrata la dose di richiamo. Anche sottraendo le centinaia di migliaia di contagiati da COVID19 negli ultimi sei mesi, il che significa che non avrebbero bisogno della terza dose di vaccino, il numero di persone che non avranno più un cosiddetto Green Pass rimane superiore a un milione. Il Green Pass è valido solo da una settimana dopo aver ricevuto l’ultima dose richiesta e per sei mesi dopo. Il documento, in possesso di coloro che sono vaccinati o guariti dal COVID19, consente l’accesso a molti luoghi ed eventi pubblici, inclusi ristoranti e musei. Un Green Pass temporaneo può essere ottenuto attraverso un test del virus negativo, che deve essere pagato a meno che l’individuo non sia idoneo alla vaccinazione. Separatamente, il ministero ha annunciato questa settimana che i pazienti guariti da COVID19 dovranno ricevere una singola dose di vaccino contro il COVID19 dopo essere stati diagnosticati, al fine di rimanere idonei a ricevere un Green Pass. Inoltre, a partire dalla prossima domenica, le persone infette dopo aver ricevuto un vaccino manterranno il loro pass solo per altri sei mesi. Quindi, il ministero riesaminerà successivamente, di volta in volta, quei casi. Israele, il primo paese a offrire ufficialmente una terza dose, ha iniziato la sua campagna di richiamo COVID19 il 1° agosto, inizialmente estendendola a chi aveva più di 60 anni. Ha poi gradualmente abbassato l’età di ammissibilità, estendendola infine a tutti coloro che hanno un’età superiore ai 12 anni. e su chi ha ricevuto il secondo vaccino almeno cinque mesi fa. Dall’ultima riunione del gabinetto del coronavirus, oltre 600 israeliani sono morti di COVID19. Il numero di casi complessivi gravi è leggermente inferiore rispetto a allora, con 760 registrati il 30 agosto, rispetto ai 641 dello scorso lunedì. Lunedì, i dati del governo hanno posizionato il tasso di riproduzione di base del virus, che misura la trasmissione, a 0,78. Qualsiasi numero superiore a 1 indica che le infezioni sono in aumento, mentre una cifra inferiore segnala che un focolaio sta diminuendo. Mentre la quarta ondata di infezioni in Israele ha registrato un numero record di casi giornalieri, il numero di pazienti che necessitano di ricovero in ospedale è rimasto inferiore rispetto ai precedenti, che gli esperti attribuiscono agli alti tassi di vaccinazione del paese. Il bilancio delle vittime dall’inizio della pandemia è salito lunedì a 7.684. Settembre è il secondo mese consecutivo in cui Israele ha registrato almeno 500 morti, dopo che agosto ha visto 609 decessi attribuiti al COVID19.
(israel360.com, 28 settembre 2021)
Il processo alla verità
Intervista a Georges Bensoussan, il grande storico trascinato in tribunale per aver detto che l’antisemitismo permea i “Territori perduti della Repubblica”. “Instaurato un clima di paura e censura”.
"In Francia gran parte della vita intellettuale si riduce a rintracciare gli 'scivoloni' degli avversari"
"In 500 quartieri una popolazione di cinque milioni di persone subisce oggi la pressione islamista"
"Dopo le stragi del 2015 abbiamo detto: 'Non avrete il nostro odio'. Ma questa debolezza incita al jihad"
"La Francia è sconvolta da uno shock demografico le cui conseguenze politiche supereranno la Rivoluzione"
di Giulio Meotti
La vita di Georges Bensoussan cambia il 10 ottobre 2015. Il celebre storico francese, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e fra i massimi studiosi di antisemitismo e medio oriente (i suoi libri sono pubblicati in Italia da Einaudi), è ospite della trasmissione radiofonica Répliques, su France 2. Si parla di fallimento dell’integrazione nelle periferie francesi, su cui Bensoussan ha curato il famoso libro Les Territoires perdus de la République: “Non ci sarà alcuna integrazione fino a quando non ci saremo liberati di questo antisemitismo atavico”, dice Bensoussan. “Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia è risaputo – ma nessuno vuole dirlo – che l’antisemitismo arriva con il latte materno”. La vita e la carriera di Bensoussan subiscono una traumatica battuta d’arresto. Saranno anni di tormento. Il Movimento contro il razzismo e per l’amicizia fra i popoli, che aveva già fatto processare Oriana Fallaci per La rabbia e l’orgoglio, annuncia che trascinerà Bensoussan in tribunale per “istigazione all’odio”. Sarebbe nato anche un libro attorno al suo caso, Autopsie d’un déni d’antisémitisme, con le testimonianze di storici come Pierre Nora e scrittori come Boualem Sansal. Il Memoriale, che non lo ha mai difeso in due anni, gli ha dato poche ore per liberare l’ufficio. “Mi hanno trattato come un delinquente”. Al primo piano del Palais de Justice a Parigi, fra gli accusatori dello storico c’è anche la Lega dei diritti dell’uomo, creata nel 1898 per difendere il capitano ebreo ingiustamente accusato di tradimento Dreyfus. L’avvocato Noëlle Lenoir, ex giudice costituzionale, dichiara: “Esprimo la mia ribellione e la mia costernazione nello scoprire che nella Francia del XXI secolo un intellettuale può essere portato davanti a un tribunale penale per una citazione sociologica. Questo processo è un altro passo in una strategia di intimidazione rivolta a tutti coloro che denunciano l’ascesa più allarmante di una nuova forma di antisemitismo in Francia e di orribili crimini commessi nel suo nome”. Di fronte al giudice c’è anche il Collettivo contro l’islamofobia, emanazione della Fratellanza musulmana. A distanza di quattro anni dalla fine dei processi, Bensoussan ripercorre la vicenda in un libro, Un exil français. Un historien face à la justice (L’Artilleur). Per riparare a un’ingiustizia? “Riparare un’ingiustizia? Ciò che è fatto è fatto”, dice Bensoussan al Foglio. “Volevo capire come si poteva mettere in atto una procedura così lunga, quasi quattro anni, e tre gradi di giudizio, che hanno tutti confermato la sconfitta dei miei avversari. E sulla base di cosa? Da una frase estrapolata dal contesto, quella di un programma radiofonico, un dibattito in cui ho citato un sociologo francese di origine algerina che ha detto la stessa cosa ma usando una metafora diversa. A proposito dell’antisemitismo familiare nelle famiglie arabe lui parlava dell’‘aria che respiriamo’ mentre io del ‘latte materno’. In entrambi i casi, la metafora si riferiva all’impregnazione culturale attraverso l’educazione, non alla trasmissione attraverso il sangue. Tuttavia, i miei accusatori, e per un certo periodo almeno lo stesso sociologo, hanno trasformato il latte in sangue al solo scopo di stabilire l’accusa di razzismo. Da quel momento, parte una denuncia sotto forma di petizione, poiché in Francia, oggi, gran parte della vita intellettuale si riduce, per alcuni, a rintracciare gli ‘scivoloni’ dei loro avversari, contribuendo così all’installazione di un clima di paura e autocensura. Il mio processo per il reato di opinione è stato reso possibile dalle leggi che hanno creato il reato di ‘incitamento all’odio razziale’. Io denuncio l’antisemitismo di una parte dell’immigrazione magrebina, quindi sono accusato di razzismo contro questa stessa immigrazione. Se denunciare un pericolo è un ‘incitamento all’odio’, nessun avvertimento è possibile. Paradossalmente, l’aggressore si troverà confortato nella sua stessa violenza. Originariamente destinata a proteggere le vittime, la legge diventa lo scudo dei colpevoli che possono affermare di essere vittime di ‘incitamento all’odio’”. Parlando di esilio, ha mai pensato di trasferirsi in Israele, come molti altri ebrei francesi? “Nel gennaio 2017, alla fine del processo, ho parlato del sentimento di esilio che ho provato dopo aver sentito le sciocchezze delle parti civili, impantanate nella malafede o, nel caso di alcuni, nella stupidità. Sì, ero tentato di andare in esilio nonostante il mio attaccamento carnale alla Francia. Dal 2000, quasi 60 mila ebrei hanno lasciato la Francia per Israele e altri per il Canada, gli Stati Uniti e altrove. L’antisemitismo in Francia è diventato un luogo comune. Quelli che erano percepiti quasi venti anni fa come preoccupanti segni clinici, al momento della pubblicazione dei Territoires perdus de la République sono diventati un ‘antisemitismo atmosferico’, soprattutto in quei quartieri difficili (500, ci dicono), dove la legge repubblicana non significa più molto. Come minimo, una popolazione di cinque milioni di persone, la prima a subire la spinta islamista e l’iper-violenza dei banditi. La ragione profonda di questa deriva antisemita in un paese dove l’antisemitismo tendeva a regredire dalla Seconda guerra mondiale è dovuta essenzialmente a due fenomeni. Da un lato, una crisi politica che mostra una società senza presa sul suo destino e che si sente espropriata del suo futuro. Una democrazia che si è spezzata, dove le elezioni sono segnate da tassi di astensione record. Una democrazia in cui gran parte delle decisioni sono prese da organismi tecnocratici non eletti e che influiranno sulla vita di milioni di persone, ma probabilmente non sui decisori che sono pochi, immagino, a vivere in queste città difficili dove tanti abitanti sono agli arresti domiciliari per mancanza di mezzi finanziari per lasciarle. Parte della classe politica, così come la parte più rilevante dei media, ignorano ciò che vive questa gente comune, che abbiamo visto uscire dal silenzio nel novembre 2018 con i gilet gialli. E’ su questa muta disperazione che prospera il pensiero cospirativo, che porta inevitabilmente all’incriminazione della figura dell’‘ebreo’ demonizzata per tanto tempo dalla cultura occidentale. Nelle società che non vedono più alcun futuro per se stesse, abitate dalla sensazione che la loro civiltà stia affondando, le menti poco allenate alla razionalità cominciano a cercare i colpevoli”. La seconda ragione è il cambiamento demografico che la Francia ha subìto negli ultimi cinquant’anni. “Se l’immigrazione africana rappresenta oggi più della metà dell’immigrazione legale (tra 200 mila e 240 mila persone ogni anno), gran parte di questo flusso proviene dal Maghreb, da paesi che sono ormai senza ebrei, nonostante i tremila che vivono ancora in Marocco e meno di mille in Tunisia (mentre alla fine della Seconda guerra mondiale, il Maghreb aveva quasi 500 mila ebrei). L’antigiudaismo era presente nella cultura popolare prima della comparsa del movimento sionista. Nel migliore dei casi il disprezzo, nel peggiore la violenza, erano spesso la sorte comune di questi ebrei nordafricani, specialmente dei più poveri. I numerosi immigrati maghrebini portarono in Francia questa cultura del disprezzo, che a volte si trasformò in cultura dell’odio quando l’antigiudaismo tradizionale fu aggravato dallo shock dell’immigrazione e dell’acculturazione nonché dalle sfide che la modernità lanciava a un mondo tradizionale in rovina. Lo scontro tra due civiltà ha portato alcuni di questi immigrati a rifiutare il mondo occidentale. Questo rifiuto era spesso accompagnato da una reislamizzazione, sinonimo di un’esacerbazione dell’antigiudaismo tradizionale. Gli ebrei sono stati resi responsabili delle difficoltà di integrazione in Francia, a volte visti come un ostacolo all’integrazione. E’ la convergenza tra una crisi politica e la sfida migratoria”. Cosa è cambiato sul terreno da quando hai scritto sui “territori perduti della Repubblica”? Gli islamisti stanno vincendo in molte aree? Scuole, periferie, proliferazione di moschee… “Gli islamisti stanno effettivamente guadagnando territorio per ragioni principalmente (ma non solo) demografiche. Se prima la Francia poteva integrare piccoli numeri di una popolazione straniera con la quale il divario culturale era immenso, ora non può più farlo visto che si tratta di milioni di persone provenienti da un mondo governato dall’islam, che non ha una storia di minoranze. Nel 1965, la Francia aveva cinque moschee, oggi ne ha più di 2.500. A questo si aggiunge il caso particolare dell’immigrazione algerina, spesso caratterizzata da un potente risentimento contro la Francia, ma mescolato all’ammirazione e in equilibrio tra il desiderio di integrazione e quello di prenderne le distanze. In una società scristianizzata come questa, la ricerca di senso che è propria di ognuno di noi trova nell’islam una risposta all’angoscia del mondo moderno. Tanto più tra le popolazioni musulmane sradicate, raggruppate in periferie remote che favoriscono i fenomeni di comunitarizzazione, o addirittura di secessione. Le condizioni sono mature perché gli ex ‘territori perduti della Repubblica’ diventino, come scrive Bernard Rougier, i ‘territori conquistati dell’islamismo’”. Appare evidente una sproporzione tra la sfida che stiamo affrontando e i mezzi e la volontà dimostrata dalle nostre élite. “La sproporzione tra il conflitto di civiltà che stiamo affrontando e i mezzi e la volontà per affrontarlo è lampante. I mezzi esistono, ma la legge deve essere ripensata; è inadatta a un’immigrazione di questa portata. Ciò che manca soprattutto, però, è la volontà di difendere un modello di società libera da una colpa che indebolisce l’occidente di fronte a giovani nazioni. Giovani nazioni, alcune delle quali convinte di avere una vendetta da compiere sull’ex colonizzatore. Una debolezza francese che si può riassumere in tre parole: il rifiuto di combattere. Dopo i 130 morti della notte del 13 novembre 2015, abbiamo visto fiorire nelle strade di Parigi questo cartello: ‘Non avrete il mio odio’. Era un’ammissione di debolezza di fronte a coloro che ci designavano come il nemico, un’ammissione di ignoranza anche in termini di antropologia culturale dell’islam. Perché, lungi dal calmare l’avversario, questo atteggiamento lo spinge verso il jihad, addirittura lo costringe al jihad quando è in una posizione di forza”. Paralizzati dal “senso di colpa” e dalla “cattiva coscienza”? “Quello che è certo è che questa debolezza alimenta la disperazione popolare”, continua Bensoussan. “Le grandi guerre civili europee del XX secolo, che sembrano aver esaurito il Vecchio continente, hanno fatto precipitare un rifiuto della guerra e del nazionalismo. Combinate con l’edonismo, l’individualismo e il consumismo, le società occidentali, frammentate e atomizzate – la Francia in particolare, minata dalla negazione della realtà – appaiono come un ventre molle indifeso”. Da Boualem Sansal a Pierre Manent, molti hanno lanciato l’allarme sul futuro della Francia. Una balcanizzazione della società? Una “libanizzazione”? “Alcuni hanno parlato di una guerra civile tra immigrati e ‘nativi francesi’”, ci dice Bensoussan. “Ha senso? Non credo. La scissione è ideologica, divide tra loro sia i ‘francesi nativi’ sia i discendenti degli immigrati che sono diventati francesi. Questa prima linea oppone due visioni del mondo e due visioni della Francia che sembrano inconciliabili. Data la lentezza della società francese e la depressione collettiva che ammanta il paese di un’atmosfera di insoddisfazione e tristezza, credo che si vada verso una balcanizzazione della società, che si tradurrà in una sorta di divisione geografica. Le comunità di origine straniera vivranno sempre più ai margini della nazione. La nozione di ‘arcipelago francese’ divulgata da Jérôme Fourquet mi sembra pertinente. Si va verso un ‘arcipelago’ della società francese con zone in cui le leggi della Repubblica sono solo vagamente rispettate: convivono con la legge islamica da una parte e la legge dei briganti dall’altra, prosperando sui traffici di ogni tipo. La frammentazione del territorio e la frammentazione del corpo sociale sono già realtà. In un grande paese d’immigrazione questa configurazione è forse sostenibile. Questo non è il caso della Francia, una vecchia nazione costruita dallo stato fin dall’XI secolo. A questo proposito, chi può escludere definitivamente un’eruzione di violenza da una parte della società? O anche l’esercito? L’unico punto d’accordo oggi è una consapevolezza generale della grave crisi che sta affrontando una nazione che è stata sconvolta da uno shock demografico le cui conseguenze politiche, secondo alcuni, sono forse più importanti della rivoluzione francese di più di due secoli fa”. Il prossimo anno la comunità ebraica di Tolosa ricorderà i dieci anni dalla strage alla scuola ebraica. La comunità al tempo contava 20 mila persone. Oggi sono rimasti in 10 mila e il vicesindaco di Tolosa, Aviv Zonabend, ha detto che “il futuro del popolo ebraico in Europa è senza speranza”. Nel 1977 in Francia c’erano 700 mila ebrei. Si sono dimezzati. Questo il calo delle famiglie ebraiche in molti distretti negli ultimi cinque anni: Stains da 250 a 50, Saint-Denis da 350 a 100, La Courneuve da 300 a 80, Le Blanc-Mesnil da 300 a 100, Pantin da 1200 a 700, Rosny-sous-Bois da 300 a 200, Bondy da 300 a 100, Livry-Gargan da 200 a 130, Aulnay sous-Bois da 600 a 100, Clichy da 400 a 80, Neuilly-sur-Marne da 275 a 100… Intanto venivano uccisi sacerdoti (Jacques Hamel), fedeli cattolici (basilica di Nizza) e ogni giorno una media di due chiese francesi venivano profanate. Ai benpensanti non piace, ma la barbarie multiculturale prende molto sul serio l’espressione “giudeo-cristianesimo”.
Il Foglio, 29 settembre 2021)
"Odiare Israele non rende woke"
Così il premier Bennett all'Onu. Avviso all'Iran: "Non avrai l'atomica"
Israele è un faro di luce e libertà e sostenerlo è una scelta morale. Attaccare Israele non rende moralmente superiori. Combattere l'unica democrazia in medio oriente non fa diventare woke". Lo ha detto il primo ministro israeliano Naftali Bennett all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, tre giorni dopo la conclusione della conferenza di Durban boicottata dalle democrazie. Perché in democrazia oggi fa "woke" aggredire moralmente e politicamente lo stato ebraico. Parlando proprio di Durban, Bennett ha detto: "Quella conferenza era originariamente pensata contro il razzismo, ma si è trasformata negli anni in una conferenza razzista contro Israele e il popolo ebraico. E il mondo ne ha avuto abbastanza. Ringrazio i 38 paesi che hanno preferito la verità alle bugie e hanno evitato la conferenza". Bennett ha ringraziato specificatamente gli Stati Uniti come "un amico fidato di lunga data".
Il premier israeliano ha parlato poi di Iran: "Sta violando gli accordi di salvaguardia dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica e la fa franca". Arricchisce l'uranio al 60 per cento, cioè a un passo dall'uso militare. "Le parole non impediscono alle centrifughe di girare. Alcuni leader mondiali considerano ormai inevitabile l'acquisizione di armi nucleari da parte dell'Iran, ma Israele non può permettersi questo privilegio". Poi Bennett ha citato tutti i paesi dove Teheran ha messo piede: Iraq, Siria, Libano, Yemen, Gaza... "Come il tocco di re Mida della mitologia greca - ha ironizzato - il regime iraniano ha il `tocco dei mullah': ogni luogo toccato dall'Iran va in rovina". Ha detto molto, il premier israeliano. Che il "woke", da cui promana la "cancel culture", è una minaccia culturale per Israele, ma in generale per la cultura occidentale. E che l'Iran, che minaccia Gerusalemme direttamente, è fonte di caos per tutti.
Il Foglio, 29 settembre 2021)
Marocco - Normalizzando i rapporti con Israele il re potrà avere i suoi droni kamikaze
Pugno duro contro il dissenso a Rabat. E spesa militare cresciuta del 56% negli ultimi 6 anni
di Roberto Persia
Il 10 dicembre 2020 il Marocco, per volontà di Mohammed VI, è entrato a far parte degli accordi di Abramo, con buona pace della causa palestinese. In un tweet Donald Trump definì l'accordo «un grandissimo passo in avanti per la pace in Medio Oriente». Una ragione in più per non sorprendersi se dietro l'accordo si celassero importanti accordi di natura militare.
Israele sarebbe pronto a fornire al paese amico brevetti e un supporto tecnico per la realizzazione di droni kamikaze. Si tratterebbe dei Loitering Munition Harop prodotti dalla Israel Aerospace Industries (lai). L'Harop è un loitering munition, cioè è in grado di sorvolare una zona alla ricerca di un bersaglio e una volta individuato lo attacca scendendo in picchiata e "sacrificandosi". I droni kamikaze sono un nuovo tipo di arma, veicoli aerei senza equipaggio che funzionano come bombe, senza bisogno di attentatori suicidi alla guida.
Due aspetti hanno fortemente condizionato la reggenza di Mohammed VI, soprattutto nell'ultimo decennio: la percezione oltre i suoi confini del Paese e la creazione di un solido comparto militare. Secondo il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), la spesa militare del Marocco è cresciuta del 56% negli ultimi 6 anni e del 29% negli ultimi due. Per la cura della propria immagine invece il re si è affidato al controllo delle fonti di informazione e a un pugno duro sempre pronto a colpire i dissidenti. Oggi con l'uscita di scena del partito islamista del Pjd e l'arrivo di Akhennouch, il tycoon liberale che ha vinto a valanga le recenti elezioni, le relazioni e la loro normalizzazione potrebbero ricevere una netta accelerazione. Dopo un primo ordine di 13 droni da poter armare con bombe anticarro diretto alla Turchia, con l'aiuto di Israele il Marocco potrebbe realizzare finalmente il sogno di Mohammed VI e prodursi in casa i suoi droni da guerra.
Proprio con un accordo per armi informatiche con la società israeliana Nso, il re permetteva ai servizi segreti del regno, attraverso lo spyware Pegasus, di spiare politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani dentro e fuori il paese. Oggi però tutte le attenzioni di "M6" sembrano concentrate sui droni da guerra, e anche qui in suo soccorso potrebbe arrivare Israele. Se da una parte è confermata la dotazione dell'esercito del regno di droni di sorveglianza, non si conosce la reale dotazione di quelli armati. Quello che si sa con certezza è che ad aprile del 2021 Addah Al-Ben dir capo di stato maggiore della gendarmeria del Fronte Polisario, è stato ucciso da un attacco di droni marocchini a Tifariti.
Secondo Hicham Mansouri, giornalista investigativo e membro della Moroccan Association for Investigative Journalism (Arnji), «il Marocco ha bisogno di sviluppare rapidamente la sua normalizzazione con Israele mostrandone i benefici economici. Per questo, Rabat ha proposto il rapporto culturale e storico attraverso gli ebrei marocchini. La normalizzazione può essere anche fatta attraverso l'agricoltura, il turismo ma anche l'industria, compresi gli armamenti».
(il manifesto, 29 settembre 2021)
Il XX settembre di Ernesto Rossi
di Tommaso Todaro
Anche quest’anno il XX settembre è scivolato via in silenzio. Unica manifestazione, il 68° Raduno Nazionale dei Bersaglieri a Roma, domenica 26 settembre, con la solita deposizione della corona all’Altare della Patria e – novità – nella sfilata, lo sfoggio del cannone che sparò il primo dei colpi che aprirono la breccia di Porta Pia.
Alla cerimonia hanno preso parte anche il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, e il Rabbino Capo Di Segni.
Non solo per i romani, ma anche per gli ebrei di Roma il XX settembre ha rappresentato la liberazione e il riscatto dal servaggio dal governo papalino.
Un sistema di governo caratterizzato da persecuzioni, galere, pubbliche esecuzioni (mannaia, forca, ghigliottina, mazzolata), la vita regolata dal codice canonico, educazione dei giovani riservata ai preti e alle monache, nepotismo, corruzione e ruberie in tutti gli uffici, censura severissima, finanze pubbliche perennemente dissestate, dovunque preti, feste, processioni, miracoli, spionaggio, ignoranza e superstizione....
(Nuovo Monitore Napoletano, 28 settembre 2021)
Israele è entrato nell’era post-Netanyahu
di Anna Maria Bagaini, Università di Nottingham
Israele si affaccia su questo ultimo trimestre del 2021 cercando di lasciarsi alle spalle una crisi multidimensionale: sanitaria, economica, sociale e governativa. La formazione di un nuovo governo a giugno scorso, fa sperare in un superamento dell’impasse politica degli ultimi due anni che permetta di affrontare tematiche importanti per la sicurezza e la stabilità dello stato. I nodi che il nuovo esecutivo dovrà tentare di sciogliere non riguardano solo la gestione della quarta ondata di coronavirus o i rinnovati negoziati sul nucleare tra Iran e Stati Uniti, ma anche il bisogno interno di rafforzare istituzioni e il tessuto sociale, affiancato alla necessità di riconsolidare alleanze cruciali con Washington, Amman e Il Cairo.
• QUADRO INTERNO
Gli ultimi tre mesi sono stati intensi per la vita politica israeliana, caratterizzati dall’elezione del nuovo presidente Isaac Herzog e dalla formazione del nuovo governo, guidato da Naftali Bennett (in rotazione con Yair Lapid). Il governo Bennett-Lapid è sostenuto da otto dei tredici partiti che hanno vinto seggi alle elezioni del 23 marzo, per un totale previsto di 61 voti nella Knesset (composta da 120 membri): C’è Futuro (17 seggi), Blu e Bianco (8), Yisrael Beytenu (7), Partito Laburista (7), Destra (6 dei suoi 7 parlamentari), Nuova Speranza (6), Meretz (6) e Lista Araba Unita (4).[1] La coalizione rappresenta un mix di partiti senza precedenti, da destra (Destra, Nuova Speranza e Yisrael Beytenu) a centro (C’è Futuro e Blu e Bianco), a sinistra (Partito Laburista e Meretz), oltre al partito islamico conservatore Lista Araba Unita. I loro leader, che si sono uniti in opposizione a Benyamin Netanyahu, hanno promesso di lavorare attraverso il consenso per sanare le spaccature nella società israeliana, senza superare però le proprie linee rosse ideologiche. Nel frattempo, il bipartitismo ha vinto anche nelle elezioni presidenziali israeliane: Isaac Herzog, ex presidente dell'Agenzia ebraica, moderato di centro-sinistra, è riuscito a raccogliere il sostegno di 87 su 120 deputati. Il nuovo presidente succede all’uscente Reuven Rivlin che è stato una importante figura unificante in questi anni e che si è sempre espresso a favore dell’inclusione di tutte le parti della società israeliana. A sua volta Isaac Herzog potrebbe diventare una figura chiave per l'opinione pubblica israeliana nei prossimi anni. Tradizionalmente, il presidente cerca di rimanere politicamente neutrale ed evita di favorire una parte o l'altra, ma alla luce della crisi politica di lunga durata in corso, Herzog può permettersi di prendere iniziative nel tentativo di impedire la caduta del governo e di favorire il compromesso tra i membri del governo di coalizione. La prima tempesta per il nuovo governo è subito arrivata a luglio, quando Israele ha nominato un team interministeriale per valutare i rapporti pubblicati da un'indagine condotta da Forbidden Stories e Amnesty International[2], secondo cui il software Pegasus dell’Nso Group sarebbe stato acquisito da governi autoritari come arma spyware per hackerare smartphone appartenenti a giornalisti, oppositori politici e attivisti per i diritti umani in tutto il mondo (circa 180 casi). La correlazione tra l'elenco dei clienti di Nso e lo sviluppo delle relazioni diplomatiche di Israele con questi paesi è al centro della bufera e sembra che lo stato israeliano abbia lavorato in modo proattivo per far sì che le aziende israeliane di armi cibernetiche, in primis Nso, operassero in questi paesi, nonostante i loro record problematici in materia di democrazia e diritti umani. Israele sta ora indagando sulle accuse di un massiccio uso improprio della tecnologia spyware e le ricadute del caso Pegasus sono state un test importante per il ministro della Difesa Benny Gantz che ha dovuto gestire le crisi diplomatiche che ne sono scaturite. Intanto, il sottocomitato per l'intelligence della commissione per gli Affari esteri e la Difesa della Knesset, dovrebbe ritrovarsi per discutere la politica israeliana sulle esportazioni cibernetiche. Sul fronte dei successi del nuovo establishment invece vi è l’approvazione tanto attesa del bilancio statale 2021-22 nella sua prima lettura. Il 2 settembre la Knesset ha infatti concordato i quattro disegni di legge separati che compongono il pacchetto legislativo che regola il bilancio statale; si tratta di un obiettivo importante per la coalizione perché, non solo pone fine all’assenza di un budget per Israele, ma anche perché ha scongiurato la caduta del governo stesso (la mancata approvazione del bilancio era infatti una clausola per lo scioglimento della coalizione). Il bilancio statale biennale include riforme radicali delle certificazioni kosher[3], dell'industria agricola[4] e cambiamenti considerevoli alle politiche di importazione; questi sono interventi che sono stati attesi per anni, ma che non hanno mai potuto prendere forma a causa della resistenza di gruppi industriali o varie fazioni politiche. Il budget prevede di allocare 432,3 miliardi di shekel (Nis) per quest'anno e altri 452,5 miliardi di shekel per il 2022, insieme a un tetto del debito del 3% che dovrebbe salire al 3,5% l'anno prossimo. Il budget più consistente va al ministero della Difesa, con 73,3 miliardi di shekel, insieme a 70 miliardi di shekel per l'istruzione. La salute rimarrà a 44,8 miliardi di shekel. In sottofondo permane la gestione della pandemia da Covid-19, infatti Israele si trova ad affrontare una quarta ondata di coronavirus nella sua variante delta. Le statistiche diffuse dal ministero della Salute in agosto sono state motivo di particolare preoccupazione e hanno richiesto misure di controllo da parte del governo sulla diffusione del virus; prima tra tutte, la ripresa della campagna vaccinale che ha iniziato la somministrazione di una terza dose di vaccino. Anche in questo caso la gestione della pandemia diventa teatro principale dello scontro politico: nella scorsa campagna elettorale, Bennett aveva presentato la principale opposizione alla gestione di Benjamin Netanyahu della crisi del coronavirus, guadagnando grande popolarità (ha persino creato un governo ombra sulla gestione del Covid-19 e ha scritto un opuscolo, "Come battere una pandemia”). Ora Netanyahu ha colto l’occasione per restituire il favore al primo ministro, chiamando il Ceo di Pfizer Albert Bourla di nascosto a Bennett, per discutere appunto della terza dose, e mettendo in imbarazzo il premier pubblicizzando la chiamata effettuata.
• RELAZIONI ESTERNE
In politica estera il governo Bennett-Lapid sta costruendo la sua agenda diplomatica e il tema più sfidante è senza dubbio il tentativo statunitense di riaprire i colloqui sull’accordo nucleare con l’Iran (si veda Focus paese Iran). La posizione ufficiale del nuovo esecutivo non sembra si stia discostando dalla linea tenuta dall'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ma c’è una differenza fondamentale: mentre Netanyahu aveva combattuto pubblicamente contro l'accordo formulato dal presidente Barack Obama, il governo Bennett-Lapid vorrebbe lavorare con l'amministrazione Biden per migliorare la posizione di Israele, soprattutto alla luce di alcuni cambiamenti avvenuti sul campo che hanno sollevato molteplici domande, quali: Israele è in grado di influenzare la politica degli Stati Uniti sul programma nucleare iraniano? È ancora fattibile un’opzione militare israeliana indipendente nei confronti del programma nucleare iraniano? Gli Stati Uniti e Israele possono concordare un piano d'azione congiunto nel caso in cui l'Iran violi i termini del suo rinnovato accordo nucleare con le potenze mondiali? Ma soprattutto, come sottolineato da Lapid e Gantz, Israele deve evitare a tutti i costi gli errori commessi a suo tempo da Netanyahu entrando in uno scontro pubblico con gli americani sulla questione nucleare iraniana; Israele può esprimere critiche su un ritorno all’accordo e persino una forte opposizione, ma una campagna frontale contro Biden sarebbe un errore fatale. Anche nello scenario peggiore di un ritorno allo stesso identico accordo che il presidente Barack Obama aveva firmato con l’Iran, Israele farebbe meglio a cercare di raggiungere un accordo separato con l’amministrazione americana che lo risarcisca e stabilisca corsi d’azione futuri. Questo è stato uno dei temi discussi il 27 di agosto scorso durante il primo incontro tra il presidente Biden e il primo ministro Bennett, nel quale si è parlato non solo dell’Iran, ma anche della questione palestinese, della pandemia e dell’inclusione di Israele nel Visa Waiver Program. Nonostante le loro differenze politiche, entrambi i leader hanno mostrato la volontà di ripristinare e rafforzare un legame bilaterale che ha mostrato segni di tensione.[5] Ma, nonostante questo avvicinamento tra le due posizioni, è emersa un’altra possibile minaccia per le relazioni israelo-americane, ovvero la Cina. Israele ha individuato questo paese come un potenziale mercato di riferimento per le vendite di sistemi d'arma avanzati ma, negli anni, due importanti accordi sono stati bloccati dalle preoccupazioni e dalle obiezioni americane.[6] Per quanto riguarda gli investimenti cinesi in Israele, si sono concentrati sulle infrastrutture, come per esempio l’impianto di desalinizzazione dell'acqua a Soreq, il porto di Haifa e il sistema di metropolitana leggera di Tel Aviv. Il contratto di desalinizzazione è stato infine vinto da una società israeliana, sulla società cinese, dopo che gli Stati Uniti hanno espresso il proprio disappunto. Nell'ultimo anno le relazioni sino-israeliane si sono gradualmente raffreddate: prima è arrivata la partnership strategica di 25 anni e 400 miliardi di dollari che la Cina ha stretto con l'Iran, poi è arrivata la recente presa di posizione su Gaza in sede al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Se si collegano questi episodi con la tangibile pressione degli Stati Uniti su Israele per ridimensionare le relazioni economiche con la Cina e i legami in espansione di Israele con l'India (rivale della Cina), emerge il quadro di una relazione che si sta contraendo. Il dilemma per Israele consiste nel non essere costretto a fare una scelta tra Stati Uniti e Cina che, in termini di importanza per Israele sono essenzialmente asimmetrici: la Cina è una superpotenza in ascesa, gli Stati Uniti sono un pilastro della sicurezza di Israele. Ma più la rivalità tra Stati Uniti e Cina diventa radicata e diffusa, più aumentano le probabilità che Israele si possa trovare a dover scegliere quale relazione favorire. Nel loro colloquio il presidente Biden e il primo ministro Bennet hanno ribadito l’importanza delle partnership di Israele con Egitto e Giordania, cruciali per la stabilità regionale. Non è quindi un caso se il nuovo governo Bennett-Lapid si sia mosso per ristabilire i rapporti con questi due attori non appena insediato, in particolare sul fronte giordano. Il primo ministro ha incontrato il re Abdullah all'inizio, aggiornando l’accordo per la fornitura di acqua tra i due paesi.[7] Secondo fonti diplomatiche, Israele sta pianificando una lunga lista di incontri con il regno hashemita per riabilitare i rapporti e ripristinare diversi aspetti della cooperazione. Questi gesti arrivano dopo anni di scarsa comunicazione tra il primo ministro israeliano e il re giordano. Per entrambi gli stati è di vitale importanza la solidità dell'accordo di pace del 1994: per Israele dal punto di vista della sicurezza nazionale, per la Giordania perché dipende da Israele in molti aspetti significativi, come per esempio l’approvvigionamento di acqua e la cooperazione militare. Alcuni analisti hanno a lungo sostenuto come sia il potere israeliano l'unico deterrente ai tentativi di forze radicali come lo Stato islamico (IS) o altri elementi sovversivi di spodestare ed espellere la famiglia hashemita dalla Giordania.[8] Per quanto riguarda l’Egitto, il 13 settembre si è tenuto al Cairo il primo incontro tra Bennett e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Si tratta della prima visita di un primo ministro israeliano in Egitto da oltre un decennio. Durante il vertice, ritenuto positivo da entrambe le parti, si è discusso di una lunga lista di argomenti cruciali per i due paesi e per la stabilità della regione, tra cui hanno spiccato la mediazione israeliana nella crisi tra Egitto ed Etiopia per la diga sul fiume Nilo e l’assistenza egiziana per raggiungere un accordo a lungo termine con la Striscia di Gaza. A fare da volano alle relazioni israelo-egiziane, vi sarebbe anche la preoccupazione del Cairo di rinsaldare i propri legami con Washington; in tale senso, la collaborazione con Israele su più fronti si spera possa essere accolta positivamente dagli americani e invertire così il trend attuale. Il sito web Politico[9] ha riferito infatti che il governo americano congelerà il 10% dei suoi aiuti militari annuali all’Egitto alla luce delle preoccupazioni sui diritti umani. Resta da vedere se la delusione egiziana influenzerà la buona volontà che al-Sisi dimostrerà negli sforzi verso un accordo con Gaza, il problema più spinoso per Israele. Sul versante palestinese, infatti, Bennett ha mantenuto la sua promessa a Biden di migliorare le condizioni dei palestinesi e ridurre le tensioni politiche. Il 29 agosto il ministro della Difesa israeliano Gantz ha incontrato il presidente palestinese Mahmoud Abbas a Ramallah; questo è il primo incontro di alto livello tra le due parti in oltre un decennio e riflette appunto la linea che Bennett ha presentato alla Casa Bianca: gesti di buona volontà verso i palestinesi e manovre economiche per rafforzare l’Autorità palestinese. L’interesse del nuovo governo a rafforzare l’Autorità palestinese serve a prevenire lo scoppio di violenze in Cisgiordania e a indebolire Hamas. Ciò spiega perché è stato il ministro della Difesa a essere inviato a Ramallah, mentre Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid non hanno in programma di incontrare Abbas. In realtà però questo incontro è stato fonte di tensioni tra Bennett e Gantz, accusato di aver richiamato l’attenzione sull’incontro, cercando di creare l'impressione che oltre a questioni economiche e di sicurezza, lui e Abbas avessero discusso di questioni diplomatiche e politiche. Il governo vuole assicurarsi che il presidente palestinese mantenga il controllo dell'apparato di sicurezza in Cisgiordania e, come parte della sua strategia in corso di “contenimento del conflitto” è interessato ad aiutare finanziariamente l’Autorità palestinese. L'obiettivo principale di Gantz, quindi, è stato stabilire il meccanismo con cui il Qatar trasferirà gli aiuti alla Striscia di Gaza per garantire che il denaro raggiunga i beneficiari palestinesi bisognosi piuttosto che Hamas, come successo in passato. Nella speranza di coinvolgere Abbas nel piano, Gantz ha portato con sé un impressionante pacchetto di benefit, tra cui: prestiti da 500 milioni di shekel (155 milioni di dollari) e permessi di costruzione nell’area C. Inoltre, Israele ha annunciato una serie di quelli che ha definito "passi civili" per alleviare le condizioni dei palestinesi, inclusa l'espansione della zona di pesca vicino a Gaza; permettendo ad altri 5.000 commercianti palestinesi di operare in Israele; e consentendo l’ingresso di più materiali da costruzione e altri 1,3 miliardi di galloni d’acqua a Gaza. Questi colloqui non sembrano però aver migliorato la situazione politica del presidente palestinese, la cui popolarità e legittimità sono in declino in Cisgiordania a seguito del rinvio delle elezioni del maggio scorso e dell'uccisione da parte dei servizi di sicurezza del critico dell’Autorità palestinese Nizar Banat a giugno. Sul fronte gazawi, rimane in vigore il cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas, iniziato il 21 maggio a seguito di 11 giorni di combattimenti. Tuttavia, Hamas è tornata a organizzare manifestazioni violente e a lanciare palloni incendiari dal confine; Yahya Sinwar, il leader dell'organizzazione a Gaza, vuole imporre concessioni a Israele senza pagare un prezzo pesante. Funzionari di Hamas e della Jihad islamica hanno affermato che le richieste delle fazioni si concentrano su questioni sia politiche sia umanitarie. Questa conclusione rivela quindi come l’operazione di maggio condotta dall’esercito israeliano non abbia raggiunto alcun obiettivo specifico. Vi è quindi il rischio di una ripresa dei combattimenti e Bennett deve essere consapevole della possibilità che l’audacia di Hamas possa trascinarlo in un’altra operazione militare in un momento in cui il suo governo non è ancora stabile.
[1] The Knesset, (https://main.knesset.gov.il/EN/mk/government/Pages/governments.aspx?govId=36) [2] Amnesty International, (https://www.amnesty.org/en/latest/research/2021/07/forensic-methodology-report-how-to-catch-nso-groups-pegasus/) [3] Il sistema statale di certificazioni kosher è stato un monopolio chiuso a lungo protetto dai partiti harediShas ed Ebraismo Unito della Torah, diventando così un terreno fertile per la corruzione e una fonte di frustrazione infinita per le industrie alimentari e dell'ospitalità israeliane. La certificazione garantisce che la struttura offre un servizio che rispetta le regole alimentari e non della kashrut. [4] La nuova riforma indebolirebbe costantemente le restrizioni sulle quote di importazione sui prodotti agricoli e semplificherebbe i processi tramite l’adozione di standard europei per molte categorie di prodotti. [5] Readout of President Joseph R. Biden, Jr.’s Meeting with Prime Minister Naftali Bennett of Israel, 27 agosto 2021, The White House, Statements and Releases, ( https://www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2021/08/27/readout-of-president-joseph-r-biden-jr-s-meeting-with-prime-minister-naftali-bennett-of-israel/) [6] La vendita dei radar Phalcon di allerta aerea nel 2000 e l'accordo sui droni armati Harpy del 2005 sono stati appunto annullati. [7] Bennett ha comunicato al re che Israele venderà al regno hashemita più acqua della quota prevista dall'accordo di pace bilaterale del 1994. La Giordania ha bisogno dell'accordo per far fronte a una consistente carenza d'acqua. [8] B. Caspit, “New Israeli government on mission to rehabilitate ties with Jordan”, Al-Monitor, 20 luglio 2021. [9] N. Toosi, “Biden to withhold, restrict some military aid to Egypt”, Politico, 13 settembre 2021.
(ISPIonline, 28 settembre 2021)
Direttrice Musei Civici Venezia: "Si torna alla normalità ma i frutti si vedranno nel 2021"
"Siamo molto soddisfatti, è un bel segnale di ritorno alla normalità, anche se devo dire che i nostri musei a Venezia già a settembre avevano fatto registrare un deciso aumento di affluenza di pubblico". Così all'Adnkronos la direttrice dei Musei Civici di Venezia, Gabriella Belli commenta la decisione di liberalizzazione agli ingressi nei musei da parte del Cts.
Perché, spiega, "per molti mesi abbiamo viaggiato al 50% di pubblico rispetto al 2019, a settembre stiamo registrando un aumento al 60% , ora la flessibilità che ci permette di arrivare all'80% di visitatori ci porta vicino alla normalità., soprattutto per le prenotazioni dei gruppi: nei mesi addietro abbiamo infatti dovuto limitare molto il numero dei componenti dei gruppi a 5-10 persone, un vero ostacolo dato che molto spesso sono più numerosi. Ora possiamo allentare queste limitazioni, e quindi questa ultima misura del Cts è molto importante, siamo più che soddisfatti", ribadisce la direttrice dei Musei Civici di Venezia.
"Un segno di ritorno alla normalità, che però darà i suoi frutti solo l'anno prossimo, e per Venezia, il primo appuntamento importante sarà quello del Carnevale a febbraio 2021- sottolinea Gabriella Belli - e comunque già oggi Venezia è ben frequentata dal turismo europeo, sono tornati i turisti da tutti i paesi europei, ma si vedono anche russi e cinesi e stanno tornando anche gli americani, provenienti spesso da Spagna e Francia". E la cosa importante sottolinea ancora la direttrice dei Musei Veneziani è che "sono spariti la paura e il timore che si vedevano nei loro occhi all'inizio della pandemia: oggi, grazie al Green Pass e ai vaccini siamo tutti molto più sicuri e tranquilli, noi e loro, pur mantenendo sempre le misure di prevenzione, come l'uso della mascherina e l'igienizzazione delle mani".
(Yahoo Notizie, 28 settembre 2021)
La crisi del Libano al centro delle faglie regionali
di Marina Calculli, Università di Leiden
Il Libano è oggi un paese incastrato in molteplici crisi: economico-finanziaria, politica, sociale, umanitaria e infrastrutturale. Queste crisi sono intrecciate tra di loro e difficili da districare e risolvere per ragioni interne ed esterne al paese: da una parte, il forte scollamento tra classe politica e società al livello domestico richiederebbe una riforma radicale del sistema politico e, più in generale, del patto sociale che regge lo stato libanese che tuttavia non è all’orizzonte. Dall’altra, potenze esterne – regionali e internazionali – stanno strumentalizzando la crisi libanese per estendere la propria influenza sul paese, esacerbando così gli effetti dell’impasse.
• QUADRO INTERNO La crisi attuale non è solo il risultato di sviluppi recenti, ma il culmine di politiche economiche, fiscali e sociali che hanno strutturalmente favorito una crescita trainata dal debito pubblico e sistematicamente favorito gli interessi dell’élite che ha dominato il paese nel periodo postbellico [i.e. successivo alla fine della guerra civile (1975-90)]. Tuttavia, negli ultimi anni queste due storture del sistema economico e finanziario libanese sono state messe a nudo al punto da provocare una vera e propria rottura del patto sociale. Il 2019, in particolare, ha marcato un punto di non ritorno. In quell’anno il debito pubblico raggiunse un livello critico senza precedenti (circa 170% del Pil), facendo precipitare la crisi finanziaria sull’economia reale, ovvero provocando un aumento dell'inflazione e della disoccupazione e, dunque, abbattendosi principalmente sulle fasce medie e basse della popolazione libanese. La crisi del debito si è poi formalizzata nel marzo 2020, quando il Libano ha dichiarato bancarotta, non riuscendo a ripagare la prima tranche di debito su un eurobond emesso nel 2010. La conseguenza immediata di questa crisi finanziaria è stata la svalutazione della lira libanese rispetto al dollaro, con effetti sociali devastanti. Dal punto di vista formale, si è rotto il regime di cambio fisso ‘1500 lire=1 dollaro’ fissato nel 1997 da Rafik Hariri, che aveva garantito per oltre due decenni una parvenza di stabilità finanziaria volta ad attrarre capitali e investimenti esteri: la parità di cambio artificiale ha infatti contribuito in modo cruciale a far lievitare il debito pubblico. Il regime di cambio è passato così dalle 6.000 lire per un dollaro nel 2020, alle 10.000 lire nella primavera del 2021, fino all’inimmaginabile 20.000 lire nell’estate del 2021. L’aspetto più violento di questa svalutazione è duplice: da una parte, i beni importati sono diventati estremamente cari; dall’altra i salari reali sono stati svalutati nel giro di pochissimi mesi. L’aumento incontrollato dell’inflazione dipendente da diversi fattori. In primo luogo, c’è la decisione di Riad Salameh, governatore della Banca Centrale libanese (accusato, tra l’altro, di aver dirottato capitali pubblici nei suoi conti esteri) che, tra giugno e luglio del 2021, ha deciso – senza preavviso – di rimuovere i sussidi sul carburante, sui medicinali e su alcuni beni alimentari, provocando così un aumento incontrollato dei prezzi. A questo si aggiunge la speculazione delle compagnie che si occupano di importazione e distribuzione di medicinali e combustibili (fondamentali sia per la mobilità, sia per alimentare i generatori di corrente che suppliscono all’assenza strutturale di fornitura dell’elettricità da parte dello stato) unita al contrabbando verso la Siria, soprattutto dopo l’imposizione delle nuove sanzioni americane nel 2020, che ha significativamente fatto aumentare i prezzi. Per esempio, il combustibile per i generatori di corrente (mazout) è passato da 0,75 lire al litro prima del 2019 alle attuali 5/6 lire al litro. Oltre a questo, la penuria di medicinali (da quelli di uso corrente come il paracetamolo a quelli vitali come i chemioterapici) e carburante sul mercato non ha solo messo a rischio il funzionamento di alcuni servizi essenziali, come la sanità (messa a dura prova negli ospedali senza medicine ed elettricità) ma si è anche comprensibilmente tradotta in una generalizzata isteria sociale: le file fuori dalle farmacie e ai distributori di benzina hanno marcato la primavera e l’estate del 2021 in modo drammatico, scatenando una serie di incidenti e scontri (anche armati) in una popolazione esasperata. Basti pensare che il potere d’acquisto medio si è ridotto fino al 90% e che circa il 74% della popolazione vive oggi al limite della soglia o già sotto la soglia di povertà. Il perno di queste crisi stagnanti e intrecciate tra loro resta tuttavia l’immobilismo politico. È infatti evidente che, abbattendosi sull’economia reale, la crisi finanziaria si è tradotta in una catastrofe sociale, ma quest’ultima si è solo aggravata dal 2019 ad oggi soprattutto per via dell’impasse politica che ha reso lo stato immobile sia nel prendere misure di protezione sociale sia nell’arginare l’azione degli speculatori che continuano ad approfittare della crisi per arricchirsi ulteriormente. Occorre a questo proposito ricordare che il Libano è sprofondato in un (apparente) vuoto di potere, marcato dall’incapacità di formare un governo, per 13 mesi: dall’esplosione del 4 agosto 2020 fino a settembre 2021 quando l’uomo d’affari sunnita Najib Mikati, già primo ministro in passato, è riuscito a mettere in piedi un esecutivo. La crisi politica, tuttavia, non è tanto da ricercarsi nell’impasse di questi mesi. Quest’ultima è semmai il sintomo di una assai più profonda delegittimazione del sistema politico, cui il nuovo governo difficilmente potrà fornire una cura efficace. Il crollo di legittimità del sistema politico confessionale libanese, fondato sulla spartizione del potere tra gruppi religiosi che detengono quote in parlamento e nelle istituzioni, si è plasticamente rivelato in tutta la sua magnitudine nell’ottobre 2019, quando la popolazione è scesa in piazza per protestare contro la vetusta élite al potere, ma soprattutto per chiedere un nuovo sistema. Sotto il segno dello slogan “killon yane killon” (‘tutti vuol dire tutti’), da interpretarsi come la richiesta rivolta a tutti i componenti della classe dominante – senza esclusioni – di farsi da parte per lasciare spazio alla rifondazione del sistema politico, la protesta del 2019 ha scosso le fondamenta dello stato libanese. La protesta ha vissuto varie ondate dal 2019 a oggi, con una forte ripresa nell’agosto 2020 a seguito dell’esplosione di 270 tonnellate di ammonio nitrato al porto di Beirut che ha provocato oltre 200 vittime e centinaia di feriti e ha sfidato i divieti governativi durante la pandemia di Covid-19. Tuttavia, la carica potenzialmente ‘rivoluzionaria’, ovvero foriera di un vero rovesciamento del sistema politico, si è spenta per vari fattori: in primo luogo, la protesta spontanea non è riuscita a mobilitare risorse tali da poter sostenere una leadership in grado di confrontare l’élite in carica. In essa convergono il potere economico e il potere politico dello stato libanese. Questo binomio, che regge al contempo il sistema capitalista predatorio e la struttura di potere del paese, dota l’élite di una enorme capacità di ricatto e rende la loro capacità di autoconservazione estremamente difficile da scalfire. Non a caso, nonostante le richieste di dimissioni e la sete di giustizia espresse dalla protesta sociale, nessun concreto cambiamento politico si è realizzato dal 2019 al 2021. Il primo ministro Mikati, nominato dal presidente della Repubblica a settembre 2021, è infatti espressione di quel sistema di potere economico-politico responsabile della débâcle sociale del paese. Di conseguenza, la protesta si è quasi del tutto spenta, lasciando spazio a manifestazioni di rabbia sociale come l’organizzazione di blocchi stradali in cui simbolicamente si bruciano copertoni, che se creano disagio generale non articolano tuttavia alcuna domanda politica. Oltre alla dissipazione interna della protesta organizzata, c’è poi un altro fenomeno sociale preoccupante: una nuova ondata di diaspora, possibile per coloro che hanno legami con la diaspora libanese di vecchia generazione (del periodo della guerra civile) o hanno già un passaporto straniero e, soprattutto, i mezzi per emigrare. Questo fenomeno non solo sancisce per molti versi il fallimento della protesta ma sta trasformando e infragilendo rapidamente il tessuto sociale del paese.
• RELAZIONI ESTERNE Come è avvenuto già in passato nella storia dello stato libanese, la crisi interna attuale è stata presto internazionalizzata, ovvero strumentalizzata da potenze esterne per perseguire contrastanti fini politici sia in Libano sia nella regione. Le due potenze che maggiormente interferiscono dall’esterno della gestione interna della crisi sono la Francia e gli Stati Uniti, cui si aggiungono le principali potenze regionali: Israele, l’Iran e l’Arabia Saudita. La Francia ha cercato sin dall’estate del 2020 di avere un ruolo di primo piano in Libano, proponendo un piano di transizione politica, sponsorizzando un prestito del Fondo monetario internazionale (Fmi) che permetterebbe al Libano di pagare i suoi debiti, seppur indebitandosi ulteriormente. La cosiddetta “iniziativa francese” si è però arenata per le divergenze tra i vari partiti libanesi, ma anche per una certa interferenza degli Stati Uniti che, prima con l’amministrazione Trump e poi con l’amministrazione Biden, hanno reclamato il loro ‘primato imperiale’ in Medio Oriente rispetto alle ambizioni francesi, entrando sia nelle negoziazioni tra l’élite libanese e il Fmi sia ponendo nuove condizioni al paese. In sintesi, l’approccio francese si è presentato sin dall’inizio più inclusivo di tutti gli attori politici interni, in particolare del partito e movimento armato sciita Hezbollah, a differenza degli Stati Uniti che hanno posto il veto sulla formazione di un nuovo governo che includesse Hezbollah. L’approccio statunitense, da questo punto di vista, è da ritenersi co-responsabile della lunga impasse politica che ha bloccato il paese per oltre un anno, dato che Hezbollah – nonostante venga considerato un gruppo terrorista dagli Stati Uniti e alcuni dei suoi alleati – resta tuttavia un attore chiave degli equilibri sociali e politici interni. L’approccio americano, in particolare, si è materializzato nell’imposizione di sanzioni ad alcuni politici e businessmen libanesi che potessero indebolire Hezbollah e i suoi alleati, sia per costringerlo a farsi da parte sia per invogliare i suoi alleati storici a isolare il ‘Partito di Dio’. Gli Stati Uniti hanno fatto pressione anche sull’Unione europea perché adottasse a sua volta – come poi è avvenuto – un quadro di misure restrittive e sanzioni per indirizzare, attraverso la coercizione economica, una transizione politica favorevole agli interessi occidentali nella regione – ovvero volto a isolare l’Iran e favorire gli interessi di Israele e dell’Arabia Saudita nel Levante. Israele ha in realtà favorito l’impasse politica in Libano per diverse ragioni. In primo luogo, Israele, in linea con la narrazione saudita, ritiene il Libano uno “stato soggiogato da Hezbollah”. Dal momento che la delegittimazione del sistema politico libanese dopo il 2019 ha intaccato la forza e l’immagine del ‘Partito di Dio’ (di fatto, suo arbitro principale), la stagnazione politica libanese – e soprattutto le implicazioni morali di quest’ultima per la popolazione – si sono ben sposate con l’interesse israeliano di vedere Hezbollah debole in un Libano debole. Il deterioramento morale del potere libanese ha avuto dei risvolti materiali importanti nell’ottica dell’interesse israeliano. Israele ha particolarmente beneficiato dell’assenza di un governo a Beirut per portare avanti il suo piano di sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque contese tra i due stati, senza che sia ancora avvenuta una risoluzione della disputa sul confine marittimo. A corollario di questo approccio verso il Libano, Israele ha anche incrementato le violazioni israeliane dello spazio aereo libanese, spingendo lo stato libanese a presentare un ennesimo rapporto alle Nazioni Unite ad agosto 2021. Dal suo canto, l’Arabia Saudita – pur essendosi fortemente disimpegnata dal Libano negli ultimi anni, a seguito del fallimento di Riyadh di marginalizzare Hezbollah in Libano e, più in generale, l’Iran nel Levante arabo – resta tacitamente interessata agli sviluppi politici che avvengono a Beirut. Questo sia perché l’Arabia Saudita è ora interessata a raggiungere una parziale e tacita riconciliazione con l’Iran, sia per non lasciare che la Turchia soppianti la sua influenza perduta sulla fascia sunnita della popolazione libanese, in particolare nel nord del paese dove la Turchia è sempre più presente con associazioni caritatevoli confessionali. Di fronte a una generale ostilità internazionale e regionale, tuttavia, Hezbollah si è rivelato ancora una volta particolarmente resiliente. Da un lato, Hezbollah non ha mai del tutto perso il favore della sua tradizionale base sciita interna. Dall’altro, il partito ha beneficiato particolarmente del sostegno esterno iraniano nel contrastare in particolare gli effetti della svalutazione della lira libanese: Hezbollah ha infatti continuato a pagare la maggior parte degli stipendi in dollari, grazie alla fornitura di questa valuta da parte dell’alleato iraniano. Inoltre, Hezbollah ha comprato carburante dall’Iran nel momento di picco della penuria di benzina nel paese, presentandolo come un regalo a tutta la popolazione libanese e non solo alla base sciita del partito. Sebbene il carburante iraniano non sia servito a soddisfare la domanda interna, esso ha certamente dato a Hezbollah la possibilità di contrastare il discorso occidentale ma anche di mostrare i limiti del regime di sanzioni americano ed europeo. Il cargo di benzina iraniana è stato infatti bollato come “illegale” da gran parte della comunità internazionale e da alcuni attori interni libanesi, ma la capacità di Hezbollah di importare benzina nel paese sotto sanzioni in un momento così critico per il paese, ha semmai confermato che la sua forza all’interno dello stato libanese ha retto il colpo della crisi domestica post-2019. Lo sblocco (per lo meno momentaneo) dell’impasse politica con la formazione del governo Mikati, è d’altronde, il risultato del fallimento di escludere Hezbollah dal governo e, dunque, della decisione di congelare le divergenze interne tra i partiti politici. Najib Mikati si è rivelato, come aveva già fatto in passato, un trait d’union tra l’establishment tradizionale sunnita e Hezbollah, ma anche tra diversi interessi esterni al paese. La formazione del governo attuale ha senza dubbio una matrice “internazionale”. Sullo sfondo, c’è innanzitutto un accordo tacito tra l’Iran e la Francia, come ha rivelato il quotidiano francofono libanese l’Orient Le Jour. Nel contesto di una crisi fortemente internazionalizzata, si deve inoltre presumere che gli Stati Uniti abbiano dato il loro consenso implicito al governo Mikati, nonostante Hezbollah sia stato uno dei suoi principali promotori. Per quanto le dichiarazioni di Washington siano state fortemente critiche verso Hezbollah e le cisterne di benzina iraniana giunte nel paese in concomitanza con l’insediamento del nuovo esecutivo, gli Stati Uniti hanno interesse perché si concretizzi presto un accordo tra il Libano e il Fmi, cosa che non può accadere senza un governo che abbia ottenuto l’approvazione del parlamento libanese. Dal suo canto, Hezbollah – seppure sempre critico verso il Fmi – non si è mai del tutto opposto all’ipotesi della rinegoziazione del debito. Questo sia perché l’accordo con il Fmi è l’oggetto centrale della negoziazione tra Hezbollah e i suoi rivali (e dunque il leverage che il Partito di Dio ha utilizzato per ottenere a sua volta concessioni) sia perché Hezbollah non ha mai proposto un’alternativa percorribile. Il nuovo equilibrio politico in Libano in nessun modo pone fine alla crisi che il paese sta attraversando dal 2019. Soprattutto perché questa crisi ha un’origine strutturale e non è il prodotto di circostanze contingenti e, dunque, superabili con un mero cambiamento del contesto. Essa richiederebbe una riforma del sistema politico che la protesta sociale organizzata nel 2019 aveva con forza domandato, ma che non si è mai materializzata. Quello che tuttavia va rilevato, nella dialettica tra società ed élite politica, è una sostanziale sconfitta della prima a vantaggio della seconda. Nel frattempo, il collasso finanziario dello stato libanese ha riaperto una dialettica internazionale e regionale, i cui principali referenti restano gli Stati Uniti da una parte e l’Iran dall’altra, rendendo visibile un’altra caratteristica tradizionale dello stato libanese: la sua natura coloniale, che rende il paese subordinato cronicamente agli interessi esterni.
(ISPIonline, 28 settembre 2021)
Gran Bretagna, i laburisti approvano una mozione a sostegno delle sanzioni contro Israele
La risoluzione condannando gli attacchi israeliani ai palestinesi, chiede la fine dell'occupazione della Cisgiordania e del blocco di Gaza...
Gran Bretagna, i laburisti approvano una mozione a sostegno delle sanzioni contro Israele
In Gran Bretagna, il partito Laburista ha approvato una mozione a sostegno dell'imposizione di sanzioni contro Israele.
Il partito Laburista dell'opposizione britannica, ha approvato la mozione secondo cu Israele sta imponendo un regime di discriminazione razziale contro il popolo palestinese, definito come apartheid.
La risoluzione sostiene le sanzioni contro Israele e invita la Gran Bretagna a porre fine al commercio di armi con quel Paese.
La risoluzione condannando gli attacchi israeliani ai palestinesi, chiede la fine dell'occupazione della Cisgiordania e del blocco di Gaza.
Inoltre, la risoluzione chiede anche la fine del commercio con gli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati.
La risoluzione non è vincolante per la leadership del partito Laburista.
(TRT, 28 settembre 2021)
Al Palazzo di Vetro Bennett copia Netanyahu e minaccia la guerra all'Iran
L'opzione militare prende il posto della carta diplomatica scelta da Biden.
di Michele Giorgio
All'Assemblea generale dell'Onu Naftali Bennett ieri non ha portato disegni di bombe sul punto di scoppiare come fece qualche anno fa il suo predecessore Benyamin Netanyahu per denunciare il programma nucleare iraniano.
Ma il tono da guerra che il premier israeliano ha usato per gran parte del suo discorso non lascia dubbi sulle sue intenzioni. Il programma nucleare iraniano, secondo Bennett, «è a un punto critico. L'Iran sta violando gli accordi di salvaguardia dell'Aiea e se la cava. Gli iraniani maltrattano gli ispettori, sabotano le loro indagini e la fanno franca. Arricchiscono l'uranio al 60% e la passano liscia». A suo dire Teheran vorrebbe controllare la regione con l'arma nucleare ma, ha avvertito, «se pensate che possa toccare Israele vi sbagliate. Non permetteremo all'Iran di acquisire l'arma nucleare».
All'Onu Bennett non ha solo voluto ribadire che il suo governo non esiterà ad attaccare l'Iran se e quando lo riterrà necessario, anche senza la partecipazione degli Usa, ma che questa opzione si è fatta più concreta e vicina. Il «Piano B», l'attacco militare, discusso qualche settimana fa con Joe Biden alla Casa bianca, giorno dopo giorno prende il posto del «Piano A», la diplomazia, sulla quale l'amministrazione Usa ha detto di voler puntare per rilanciare il Jcpoa, l'accordo sul programma nucleare iraniano da cui gli Usa sono usciti nel 2018 per decisione di Donald Trump. Ma il negoziato stenta a dare risultati, la distanza tra Stati uniti e Iran resta ampia e, secondo Bennett, le possibilità di arrivare a nuovo accordo si sono assottigliate. E questo lascia sul tavolo solo l'opzione militare, anche se l'Iran nega di volersi dotare di ordigni nucleari e non ci sono prove che lo stia facendo in segreto come denuncia Tel Aviv. Piuttosto sarebbe Israele a possedere in segreto, lo dicono fonti internazionali, tra cento e duecento bombe atomiche.
Bennett ha pronunciato 23 volte la parola Iran e non ha mai fatto riferimento ai palestinesi sotto occupazione militare israeliana da 54 anni. E, come nelle previsioni della vigilia, non ha speso una parola per replicare al presidente palestinese Abu Mazen che la scorsa settimana, nel suo discorso all'Onu, aveva intimato a Israele di ritirarsi entro in anno dai Territori palestinesi occupati. Bennett ha preferito elogiare il suo paese, descritto come un «faro in un mare in tempesta, un faro di democrazia» e parlato degli israeliani come di un popolo «che vuole condurre una buona vita» e contribuire a un «mondo migliore». Significa, ha aggiunto, che di «tanto in tanto (gli israeliani) potrebbero aver bisogno di lasciare il loro lavoro e dire addio alle famiglie per correre sul campo di battaglia».
Un tono assolutorio scelto a poche ore dall'avvio della campagna repressiva nella Cisgiordania occupata dopo l'uccisione di cinque palestinesi, descritti dall'esercito israeliano e dallo stesso Bennett come militanti di Hamas sul punto di compiere un grave attentato. E l'escalation più significativa da maggio, quando le proteste nelle città palestinesi all'interno di Israele, in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono sfociate in un nuovo conflitto armato tra lo Stato ebraico e Hamas.
Ieri sono stati arrestati cinque palestinesi a Biddu, nove a Jenin, Arrabe e altre località cisgiordane. Ha lasciato il carcere invece la deputata palestinese e dirigente del Fronte popolare (sinistra) Khalida Jarrar, detenuta per circa due anni.
(il manifesto, 28 settembre 2021)
Le violazioni comparate dello Stato di diritto per il Covid-19
di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
Dopo le ripetute restrizioni governative, con l’ennesima decretazione di urgenza degli aggiornamenti sul Green pass, non possiamo esimerci dal fare un raffronto con ciò che accade, con i relativi provvedimenti legislativi statuiti, nelle altre nazioni, per fronteggiare la pandemia del Covid-19. Nelle altre nazioni europee i provvedimenti presi sono stati decisamente meno stringenti e meno duri, in quanto il Green pass non è un certificato obbligatorio in tutta Europa. L’Unione europea ha scelto di non prendere una decisione univoca e di conseguenza ogni Stato ha stabilito delle proprie regole e norme interne. Tra i diversi Stati che hanno scelto di intraprendere una politica che non prevedesse l’istituzione del certificato verde, oltre al Regno Unito, ormai estraneo all’Unione europea, si possono annoverare gli stati europei come la Danimarca e la Spagna. Infatti nel Regno Unito, mentre il governo di Boris Johnson ha deciso di non rendere obbligatorio il certificato verde in Inghilterra, in Scozia, invece, a partire dal 1° ottobre 2021, entrerà in vigore l’obbligo di possedere il Green pass per frequentare i locali e le discoteche e per partecipare ad eventi sportivi, spettacoli e concerti. In Danimarca hanno preso la decisione drastica di abolire tutte le misure relative al contrasto della pandemia del Covid-19, compresa l’abolizione dell’obbligo del Green pass. In Svezia, verranno abolite quasi tutte le restrizioni per fronteggiare il Covid-19 entro il 29 settembre, riservando l’obbligo di possedere il certificato verde solo a coloro che provengono dall’estero. In Svizzera, a partire dal 13 settembre, è obbligatorio mostrare il Green pass, fin dai 16 anni di età, per frequentare i luoghi chiusi, gli alberghi e gli esercizi di ristorazione in generale, oltre a musei, teatri, concerti, piscine, sale da gioco e zoo e tutti quegli eventi siano svolti in locali pubblici. I datori di lavoro possono obbligare i propri dipendenti ad avere il Green pass, come personale obbligo di tutela. La Francia ha imposto il Green pass ovunque, con relative sospensioni senza stipendio per i dipendenti che non si vaccineranno, ma ha ritirato l’obbligo della mascherina. La Germania ha non ha imposto l’obbligo vaccinale, prevedendo l’obbligo del Green pass per accedere agli ospedali, alle case di cura, alle palestre, piscine e ristoranti al chiuso e per gli alberghi, ma ciascun lander può decidere autonomamente sulle restrizioni riguardanti la scuola. In Austria è previsto l’obbligo del Green pass per accedere ai musei, ristoranti, alberghi e locali notturni, ma non c’è l’obbligo di indossare la mascherina, mentre i turisti devono mostrare un tampone negativo o il Green pass. In Estonia, Lituania e Lettonia, vige l’obbligo del Green pass per la frequentazione di palestre, cinema, teatri e ristoranti. In Portogallo è obbligatorio mostrare il Green pass in ogni luogo con più di mille persone all’aperto e con oltre 500 persone al chiuso e alle feste e battesimi con più di 10 persone. In Grecia vige l’obbligo di utilizzo del Green pass per fruire dei treni a lunga percorrenza e per frequentare i teatri e tutti i luoghi pubblici (dal 13 settembre) e non basta mostrare la certificazione di un tampone negativo. Per i lavoratori pubblici o privati vige l’obbligo della vaccinazione o del doppio tampone settimanale e l’obbligo vaccinale per il personale delle Rsa e per tutti gli operatori sanitari. In Spagna non vige alcun obbligo del Green pass, prevedendo solo l’utilizzo delle mascherine al chiuso e lasciando alle singole regioni il potere decisionale sull’obbligo del Green Pass per frequentare bar, ristoranti e i locali notturni. Infine, dulcis in fundo, in Italia vige il sistema più restrittivo e illegittimo di tutta Europa e non solo, il presidente del Consiglio Mario Draghi, ha esteso l’obbligo del Green pass a tutte le categorie e in ogni dove, con poche eccezioni, dimostrando tutta la sua indifferenza nei confronti del rispetto dei principi costituzionali e dell’articolo 32 dellaCostituzione italiana, riguardo in particolare all’ultimo comma in cui si afferma che “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Dopo più di un anno di reiterata violazione della Costituzione con il Governo Conte che ha legiferato norme riguardanti principi inviolabili come la libertà di circolazione e la libertà economica con degli atti amministrativi, come sono i Dpcm, che hanno esautorato completamente il Parlamento e quindi la sovranità popolare, che esso, per la stessa Costituzione, rappresenta, perché eletto direttamente dal popolo, assistiamo all’invereconda reiterata violazione delle nostre libertà inviolabili e anche alla violazione del diritto alla salute, cercando di imporre la somministrazione di un farmaco, chiamato impropriamente vaccino, che è ancora sperimentale almeno fino al 2023 ( secondo quanto stabilisce l’Ema) e la cui efficacia nel tempo ed i suoi effetti collaterali nel medio e lungo termine sono sconosciuti, come afferma lo stesso protocollo consegnato all’Aifa dalla Pfizer, riguardo al suo farmaco a mRna. La situazione è tanto surreale quanto preoccupante, la progressiva deriva impositiva che viola ogni conquista costituzionale dei principi inviolabili si sta dimostrando senza limiti, tanto quanto la pusillanime accettazione di tutto ciò, da parte di una popolazione terrorizzata e disinformata da una stampa e dai mas media in generale, complici e acritici e pronti a silenziare o ghettizzare qualsiasi voce autorevole scientifica o intellettuale che pone dei dubbi a tutta questa macchina da guerra di certezze, che tutto sono tranne che scientifiche, ma semmai esclusivamente politiche. L’Italia è una nazione ormai commissariata da un potere non rappresentativo di nessun interesse e volontà popolare, ma esecutore e rappresentativo di interessi che appartengono a lobby sovranazionali, è ormai una nazione negletta senza neanche più quella tutela costituzionale che avrebbe dovuto svolgere l’Organo costituzionale dellapresidenza della Repubblica, (il maggiore garante del rispetto della Costituzione), una nazione progressivamente sempre più indebitata e impoverita con il Pil che cade a picco e il numero di poveri che cresce in modo esponenziale, mentre ogni giorno viene raggiunta illegalmente da centinaia di clandestini, a cui non viene imposta nessuna restrizione e nessun vaccino o Green pass, pur trovandosi l’Italia in un forzato stato di emergenza, prorogato dall’attuale Governo fino al 31 dicembre del 2021. L’Italia, che è un Paese in cui è sempre più difficile ricorrere al voto popolare, quando cade un Governo, perché viene sempre procrastinato dai “giochi di palazzo”, ormai è una nazione stanca, depressa, con un tasso di natalità quasi inesistente e inversamente proporzionale al tasso di senilità, che cresce sempre maggiormente, con in relativi costi, che il nostro sistema pensionistico contributivo non può sostenere. Il nostro Paese vive una situazione sociale ed economica tanto stagnante quanto drammatica, che le politiche governative illegittime e le sue altrettante restrizioni incostituzionali hanno peggiorato, portando sul lastrico milioni di italiani e le loro rispettive famiglie, mentre l’atavico strumento del “Panem et circenses” (più circenses che panem), come quello dei Campionati di calcio e delle Olimpiadi, viene utilizzato per assuefare e distrarre la massa dalla consapevolezza del proprio progressivo “de profundis”.
(l'Opinione, 28 settembre 2021)
Con il progetto "Mustaqbaluna" 791 palestinesi hanno avviato un'attività imprenditoriale
Giunge a conclusione Mustaqbaluna, il progetto triennale nato con l’obiettivo di accrescere le opportunità lavorative delle fasce più deboli della popolazione, tramite iniziative di innovazione sociale e imprenditorialità inclusiva. Iniziato nel 2018, il progetto è stato finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), con il supporto del Ministero del Lavoro palestinese, e implementato dall’ong AVSI e BASR (Bethlehem Arab Society for Rehabilitation), in partenariato con la Regione Emilia Romagna (RER), la Cooperativa Nazareno, la Young Women’s Christian Association (YWCA), il Palestinians Shippers’ Council (PSC), la Palestinian Fund for Employment and Social Protection (PFESP) e l’Arab Center for Agricultural Development (ACAD). Diversi i punti di forza del progetto: la creazione di attività proprie da parte di 108 persone con disabilità; l’aumento delle vendite e l’acquisizione di nuove competenze grazie al conseguimento del diploma di Supply Chain Management da parte di 9 cooperative di donne su 12 totali; la partecipazione a corsi di formazione da parte di 12 artigiani per sviluppare competenze commerciali, creando ricadute economiche positive anche per le loro famiglie; la formazione di 21 persone portatrici di handicap con l’assunzione a fine corso da parte di imprese locali; l’apertura del negozio "Hamed Helo"; gestito dalle 12 cooperative di donne coinvolte nel progetto, un luogo a Gerico dove vendere i loro prodotti per diventare più indipendenti finanziariamente; il sostegno grazie a un workshop, la ristrutturazione dei laboratori e un programma di formazione a 12 artigiani del legno d’ulivo nella zona di Betlemme che hanno sofferto la riduzione del flusso turistico dovuto alla pandemia. La conclusione del progetto sarà celebrata con l’evento finale che si svolgerà presso la Scuola di Terra Santa di Gerico, in Palestina. Saranno presenti Giuseppe Fedele, console generale d’Italia a Gerusalemme, Guglielmo Giordano, direttore di AICS Gerusalemme e Mirella Orlandi, direttrice del dipartimento cooperazione e aiuto umanitario della Regione Emilia-Romagna. L’evento finale del progetto Mustqbaluna è stato selezionato dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo per far parte della programmazione del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2021, organizzato da ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) al fine di sensibilizzare e mobilitare cittadini, giovani generazioni, imprese, associazioni e istituzioni sui temi della sostenibilità economica, sociale e ambientale. “Da questo progetto abbiamo imparato una lezione fondamentale, – rileva Giampaolo Silvestri, segretario generale di Fondazione AVSI – che è l'impegno di tutti noi insieme, beneficiari, istituzioni, partner locali e istituzionali, il motore del vero cambiamento. Senza la costante dedizione di ciascun partner sarebbe stato impossibile raggiungere i risultati ottenuti”.
(Vita, 28 settembre 2021)
Memoria dell’Aliyah Bet, l'associazione Italia-Israele organizza una cerimonia a Vado Ligure
L'appuntamento è fissato per martedì 5 ottobre, alle ore 10.30, presso i Giardini Marinai d'Italia
Martedì 5 ottobre 2021, alle ore 10.30, presso i Giardini Marinai d’Italia, a Vado Ligure, si celebrerà la Memoria dell’Aliyah Bet, cerimonia organizzata dall’Associazione Italia-Israele di Savona, con il patrocinio della Regione Liguria, della Provincia di Savona e del comune di Vado Ligure.
"L’Aliyah Bet fu il grande piano di immigrazione clandestina di migliaia di Ebrei, in prevalenza dell’Est Europa, ex internati dei campi di sterminio nazisti, che, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, tra il 1945 e il 1948, dopo essere stati raccolti per mesi in campi anche nel Nord Italia, partirono clandestini per raggiungere la Terra d’Israele" spiega il presidente dell'associazione Cristina Franco.
"Sopravvissuti privati della famiglia, strappati ai propri affetti, spogliati della casa e dei loro beni, del lavoro, delle proprie anime, da quella macchina folle e omicida nazista, che vedevano ora in Israele una meta da raggiungere per cominciare una nuova vita. Un popolo in fuga, reduce dalla sua più grande tragedia e disposto a tutto pur di ritornare a Eretz Israel. Migliaia di loro partirono dall’Italia, e fu grazie all’aiuto di tantissimi valorosi cittadini italiani insieme alla Brigata Ebraica, se 34 imbarcazioni – spesso meri pescherecci di fortuna – con a bordo oltre 20 mila persone, poterono partire dai nostri porti, come Vado Ligure, con la collaborazione della popolazione locale e dei gruppi partigiani, sfuggendo al controllo dei britannici che consentivano ingressi limitati nei territori medio orientali sotto il loro mandato".
"Da qui nasce la volontà dell’Associazione Italia – Israele di Savona, nel solco del ricordo dei 100 anni di Israele in Liguria, di riportare alla Memoria questa pagina della storia del ponente ligure, mai ricordata in 75 anni. Mentre si conosce la storia delle partenze da La Spezia, chiamata appunto la Porta di Sion, pochi ricordano o conoscono la storia drammatica e insieme piena di speranza delle partenze da Vado Ligure. La memoria di quegli eventi, che testimoniano un profondo messaggio di solidarietà e umana compassione dopo decenni di barbarie, segna un passo importante nella costante lotta all’antisemitismo portata avanti dalla nostra Associazione e contribuisce a contrastare l’odio e la discriminazione di qualsivoglia natura. Quegli eventi sono una parte importante della nostra storia e una testimonianza del profondo legame che unisce la nostra Regione allo Stato di Israele: un legame iniziato oltre un secolo fa, nel 1920 con la Conferenza di Sanremo, in cui si posero le fondamenta giuridico internazionali del futuro Stato di Israele, del diritto del popolo ebraico, in forza della sua connessione storica con quella terra, di ricostruivi un proprio stato nazionale".
"L’Associazione Italia Israele di Savona ha iniziato con un evento a Savona nel febbraio del 2020 a celebrare i “100 anni di Israele in Liguria” ripercorrendo il fil rouge della storia, dalla Conferenza di Sanremo del 1920, all’Alyiah Bet dai nostri porti ed infine alla adozione da parte della Regione, nel gennaio 2020, prima istituzione della Repubblica Italiana, della definizione operativa di antisemitismo deliberata dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto. Ad aprile, lo Stato di Israele, tramite la sua Ambasciata in Italia, ha donato al nostro ospedale savonese due sofisticati dispositivi sanitari".
"Durante la cerimonia del 5 ottobre, che vedrà la presenza di S.E. l’Ambasciatore di Israele in Italia e tutte le Autorità regionali, civili, politiche, militari e religiose, verrà installata una targa memoriale dedicata alle migliaia di Ebrei sopravvissuti che partirono dal porto di Vado Ligure e per ricordare l’aiuto della popolazione locale e il coraggio dei capitani, come Giovanni Battista Mezzano, e degli equipaggi liguri che li condussero per mare sino all’arrivo, a volte drammatico, in Terra d’Israele. L’evento sarà accompagnato da canti che segnano il passaggio dal dramma della Shoah, le partenze verso la nuova vita e l’arrivo in Israele - conclude - Si lavora anche per l’installazione di due monumenti alla Memoria".
(SavonaNews.it, 28 settembre 2021)
Caccia ad Hamas, blitz in Cisgiordania. Bennet: preparavano attacchi terroristici
Almeno cinque palestinesi sono rimasti uccisi ieri mattina in una serie di scontri a fuoco con le forze di sicurezza israeliane nel corso di arresti di elementi di una cellula di Hamas in varie parti della Cisgiordania. Nell'operazione anche due soldati israeliani sono rimasti feriti in modo grave. Gli scontri a fuoco sono avvenuti a Burgin, Jenin, Qabatiya, Kafr Dan e a Kafr Bidu, vicino Ramallah, mentre le forze di sicurezza erano a caccia di elementi della cellula.
L'ondata di arresti - che ha portato agli scontri a fuoco - aveva come obiettivo una cellula di Hamas sulle cui tracce erano da giorni le forze di sicurezza israeliane, secondo le quali stava preparando attentati terroristici. E ora non si può escludere che dalla Striscia non parta un nuovo lancio di razzi in rappresaglia. Il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha ribadito che le forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania si sono mosse contro gli agenti di Hamas «che stavano per eseguire attacchi terroristici, e che i soldati sul campo «hanno agito come ci si aspettava che agissero» e che il suo governo ha dato loro pieno sostegno.
(La Stampa, 27 settembre 2021)
Israele rilascia una deputata palestinese, condannata a due anni di reclusione
Dopo aver trascorso circa tre anni in prigioni israeliane, la deputata palestinese donna è considerata tra le figure di spicco del Fronte popolare di liberazione della Palestina (FPLP), un’organizzazione palestinese di estrema sinistra classificata da alcuni Paesi, tra cui Stati Uniti e Israele, come terroristica. Jarrar, deputata palestinese di 58 anni, era stata arrestata dalle forze israeliane il 31 ottobre 2019, mentre si trovava nella sua abitazione a Ramallah, in Cisgiordania. L’arresto era avvenuto nel corso di un’operazione che aveva portato alla detenzione di decine di membri della FPLP, accusati di essere responsabili di un attacco “terroristico” perpetrato nel medesimo mese, che aveva causato la morte di una ragazza israeliana di 17 anni, Rina Shnerb. Prima di essere condannata, a marzo 2021, a due anni di reclusione, Jarrar era stata trattenuta in carcere più volte sotto detenzione amministrativa senza processo, da luglio 2017 a febbraio 2019. Tale procedura, spesso impiegata con i palestinesi, consente alle forze di sicurezza israeliane di detenere i sospetti per periodi rinnovabili di sei mesi senza accuse. Seppur condannata da organizzazioni per i diritti umani, per i funzionari israeliani la misura mira a prevenire ulteriori crimini e a impedire la diffusione di informazioni di sicurezza “sensibili” mentre le indagini sono ancora in corso. Per Jarrar l’accusa principale è stata di affiliazione alla FPLP, una “organizzazione illegale”, mentre l’esercito israeliano non è riuscito a trovare prove che dimostrino il coinvolgimento della deputata in atti violenti. L’appartenenza al FPLP ha portato a periodi di detenzione a più riprese, da aprile 2015 a giugno 2016, a seguito dei quali la deputata si è dichiarata colpevole per evitare una condanna più lunga. In tal caso, Jarrar era stata accusata di aver tenuto un discorso, nel 2012, durante una manifestazione per prigionieri palestinesi in cui avrebbe chiesto il rapimento di soldati israeliani. Dal 2006, la donna è stata membro del Consiglio legislativo palestinese, il Parlamento dell’Autorità palestinese, come esponente del Fronte popolare di liberazione della Palestina, dove ha spesso portato avanti cause riguardanti i diritti delle donne e la sicurezza dei prigionieri nelle carceri israeliane. È stato proprio il FPLP ad accogliere con favore il rilascio di Jarrar, il 26 settembre, definendo la donna una “compagna d’armi”, nota per la sua pazienza e tenacia. Anche il capo del Palestinian Prisoners Club, Qadura Faris, la governatrice di Ramallah e al-Bireh, Leila Ghannam, e decine di giornalisti palestinesi hanno accolto Jarrar al cimitero di Ramallah, dove la deputata si è recata per rendere un omaggio alla figlia defunta, Suha. Quest’ultima è morta nel mese di luglio scorso per un improvviso attacco cardiaco, ma a Jarrar non era stato consentito di partecipare ai funerali. “Ho sempre sognato di correre alla tomba di Suha per abbracciarla dopo che mi avevano impedito di dirle addio”, ha dichiarato Jarrar, aggiungendo: “Molti prigionieri vivono in condizioni difficili, a causa della perdita dei loro cari. Ciò che chiedono è libertà. Sono esseri umani, ma l’occupazione criminale non conosce l’umanità”. Dal 1967, il Ministero della Difesa israeliano ha bandito più di 411 organizzazioni, tra cui i principali partiti politici palestinesi, incluso il partito Fatah legato al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas. Secondo Human Rights Watch, l’esercito israeliano ha privato generazioni di palestinesi in Cisgiordania dei diritti civili fondamentali, compresa la libertà di assembramento, associazione ed espressione, facendo leva su ordini militari emessi per preservare l’ordine e la sicurezza. Ad essere applicati sono anche i regolamenti di difesa del 1945, emanati dalle autorità del mandato britannico per sedare i crescenti disordini. Tali regolamenti autorizzano le autorità, tra le altre cose, a dichiarare come “associazione illecita” gruppi che porterebbero “odio, disprezzo o disaffezione” contro le autorità israeliane e criminalizzano l’appartenenza a tali gruppi così come il possesso di materiale legato ad essi, anche indirettamente.
(Sicurezza Internazionale, 27 settembre 2021)
La passione di Hamas, Al Qaeda e Isis per le criptomonete
Le transazioni con criptovalute stanno diventando un meccanismo di finanziamento molto accessibile per i terroristi. Un’analisi di Chainalysis indica che nel 2020 sono stati registrati movimenti per fini illegali per circa 10 miliardi di dollari, l’1% delle attività totali di criptomonete.
L’organizzazione terroristica palestinese Hamas ha raccolto circa un milione di dollari in criptomonete, grazie ad un appello lanciato sul loro sito web e i canali Telegram. Si tratta della raccolta più grande in monete digitali, secondo un report di Coinbase, una piattaforma di commercio di criptomonete con sede a San Francisco, che segue i movimenti finanziari di gruppi come Al Qaeda e Stato Islamico attraverso i blockchains.
“Hamas chiede attivamente donazioni principalmente in Bitcoin sul loro sito e sui canali Telegram”, si legge nel report di Coinbase. Gli esperti considerano gli sforzi di Hamas per la raccolta fondi come “sorprendenti”, in comparazione con altre organizzazioni. Coinbase conclude il rapporto spiegando le strategie di prevenzione per evitare le campagne di raccolte-fondi da parte degli estremisti, tra cui ci sono il blocco di indirizzi associati al finanziamento terrorista e un maggior controllo digitale da parte delle autorità.
L’impegno per la crescita economica di Hamas è cominciato nel 2018, ma la maggior parte delle donazioni sono arrivate a maggio del 2021, dopo gli scontri tra Israele e Hamas. Solo quel mese, le organizzazioni terroristiche palestinesi hanno ricevuto 500.000 dollari. In un messaggio pubblicato in rete, e identificato dal Middle East Media Research Institute, un gruppo siriano legato ad Al Qaeda chiede donazioni in Bitcoin Dark Wallet. Per il Middle East Media Research Institute l’uso di criptomonete da parte dei jihadisti è il “fenomeno recente più significativo e pericoloso del terrorismo globale”.
Gli analisti avvertono che le transazioni con criptovalute stanno diventando un meccanismo di finanziamento molto accessibile per i terroristi. Un’analisi di Chainalysis di febbraio indica che nel 2020 sono stati registrati movimenti per fini illegali per circa 10 miliardi di dollari, l’1% delle attività totali di criptomonete l’anno scorso. L’Interpol invece ha individuato transazioni in monete virtuali da parte di terroristi per circa 1 miliardo di dollari nel 2020.
Il Dipartimento del Tesoro americano ha cominciato ad applicare sanzioni per combattere le transazioni illegali in criptomonete, limitando piattaforme probabilmente coinvolte in cyber-attacchi.
Yaya Fanusie, ex analista della Cia, ha spiegato a Infobae che “le criptomonete non sono state create per finanziare il terrorismo, ma fanno questa funzione […] Da sei anni i terroristi islamici fanno questi investimenti. E stanno diventando, sempre di più, transazioni sofisticate e difficili di identificare”.
(Formiche.net, 27 settembre 2021)
Palestinesi stop a rivendicazioni. Meglio i soldi che una nazione
La "teoria Goodman". Il consigliere del premier israeliano Bennett suggerisce
di "ridurre l'intensità del conflitto piuttosto che risolverlo". Il vecchio leader Abu Mazen vede una possibilità per migliorare l'economia dei Territori.
di René Backmann
Autorità palestinese concederà a Joe Biden e a Naftali Bennett ciò che ha sempre rifiutato a Donald Trump e a Benjamin Netanyahu: di abbandonare cioè il progetto di Stato nazionale in cambio di promesse di uno sviluppo economico? In effetti non si è
parlato mai così poco della creazione di uno Stato palestinese e della fine dell'occupazione, obiettivi storici dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), come da quando Biden è alla Casa Bianca e Naftali Bennett è primo ministro di Israele. Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell'Autorità, sembra pronto a cambiare strategia ora che si prospettano dei piani di sviluppo economico per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
I palestinesi sono sempre più isolati. Dalle rivolte arabe, poi con la guerra civile in Siria, il conflitto in Yemen, la destabilizzazione dell'Iraq, le guerre contro Al-Qaeda prima e l'Isis poi, le tensioni tra l'Iran e il suo vicini, la questione della Palestina è stata oscurata da crisi più spettacolari e urgenti. Come era successo negli anni 60, prima che Yasser Arafat prendesse il controllo dell'Olp nel 1969, i dirigenti attuali degli Stati Arabi e del Golfo hanno preso in mano la questione palestinese, senza consultare i diretti interessati. All'incontro del Cairo di gennaio, per rilanciare i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, in presenza dei ministri degli Esteri egiziano, giordano, francese e tedesco, nessun rappresentante palestinese era stato invitato. Inoltre, dagli accordi conclusi tra Israele e Sudan, Marocco, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, su iniziativa di Trump, e sui quali Biden non è mai tornato, lo Stato ebraico appartiene ormai al blocco degli alleati locali degli Stati Uniti contro l'Iran. Nel suo primo incontro col nuovo premier israeliano, Biden si è limitato a chiedere a Bennett di agevolare la vita dei palestinesi, dicendosi pronto a contribuire finanziariamente. Malgrado la presenza nel governo di Bennett di personalità del centro-sinistra, della sinistra sionista e anche di un ministro islamista, le radici ideologiche del nuovo potere israeliano non sono diverse da quello precedente di Netanyahu. L'influenza della destra nazionalista e religiosa e dei coloni resta dominante. Bennett è ostile quanto il suo predecessore alla creazione di uno Stato palestinese. La continuità è confermata dai dati dell'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA): in Cisgiordania, 57 palestinesi, tra cui 12 bambini, sono stati uccisi dall'esercito israeliano dall'inizio dell'anno, e 31 edifici di proprietà di palestinesi sono stati demoliti a Gerusalemme Est. Questo porta il totale degli edifici palestinesi distrutti da gennaio a più di 650. In nove mesi, le Nazioni Unite hanno anche registrato più di 300 attacchi di coloni contro palestinesi. Una differenza tra il governo di Bennett e quello di Netanyahu però c'è. Influenzato da un suo consigliere, il filosofo Micah Goodman, sembra che Bennett abbia deciso di impegnarsi a "ridurre l'intensità del conflitto con i palestinesi piuttosto che di risolverlo". Non si tratta di porre fine all'occupazione. Goodman, che risiede lui stesso in una colonia, Kfar Adumim, spiega, in un'intervista a Haaretz, che ''la maggior parte degli israeliani, anche di destra, non vuole dominare i palestinesi, ma teme che un ritiro israeliano dai territori occupati permetta ai palestinesi di minacciarli". Per risolvere questo problema, Goodman consiglia di combinare "incentivi economici" nei territori occupati a meccanismi di "autogoverno" palestinese. Si ipotizza, in particolare, la creazione di "corridoi" per collegare i diversi territori e che permettano l'accesso a un posto di frontiera con la Giordania. "In questo modo - spiega Goodman - i palestinesi avrebbero la sensazione di autogestirsi, ma non sarebbero in grado di minacciare Israele".
È alla luce di questa strategia di "riduzione del conflitto" che vanno interpretate alcune "misure" sorprendenti avanzate da Bennett in favore dei palestinesi: un prestito di 156 milioni di dollari, a titolo di anticipo sulle tasse doganali raccolte da Israele, la regolarizzazione di migliaia di palestinesi che vivono illegalmente in Cisgiordania, il rilascio di 15.000 permessi di lavoro, mille permessi di costruzione in Cisgiordania in "Zona C" e 5.000 permessi per i commercianti palestinesi per lavorare in Israele. A Gaza, governata dal movimento islamista Hamas, dovrebbero essere ripristinate le linee elettriche e la distribuzione del gas.
Dovrebbe inoltre essere costruito un impianto di desalinizzazione dell'acqua di mare e, a termine, un nuovo collegamento con la Cisgiordania. In cambio, le autorità palestinesi, compreso dunque Hamas, si devono impegnare a mantenere una "calma di lunga durata". Ciò significa, per Hamas smettere di lanciare razzi su Israele e per l'Autorità di Ramallah accettare l'occupazione e rinunciare alla sua lotta storica.Non sappiamo cosa ne pensi davvero Mahmoud Abbas. "Perché non approfittare delle buone disposizioni degli israeliani, sostenuti da Washington, per risollevare la nostra economia?" avrebbe detto uno dei suoi consiglieri. "Questa rassegnazione è spregevole - osserva un docente universitario di Ramallah, ex consigliere di Yasser Arafat-. Perché toccherebbe a noi, che viviamo sotto occupazione, accettare delle misure per rassicurare l'occupante?" Come ha fatto l'Autorità palestinese ad arrivare a questo punto? Forse perché la sua situazione politica non è mai stata così disastrosa. Alla testa dell'Autorità c'è un uomo di 86 anni, dalla salute precaria e senza più alcuna legittimità democratica. Giovani e intellettuali lo denunciano nelle strade, al prezzo di una repressione degna delle peggiori dittature. Alla fine di agosto, 30 attivisti sono stati arrestati in 48 ore per aver manifestato contro il regime. A Hebron, due mesi prima, è morto un dissidente di 40 anni, Nizar Banat, padre di cinque figli, colpevole di aver "denunciato sui social network la corruzione del regime". Eletto nel 2005, per un mandato di quattro anni, Mahmoud Abbas non ha mai lasciato il potere.
Le divisioni interne agli stessi palestinesi, tra Fatah a Ramallah e Hamas a Gaza, non hanno mai permesso di organizzare elezioni credibili. Annullando il voto dello scorso luglio, per timore di essere battuto dal candidato di Hamas, Mahmoud Abbas ha distrutto l'ultima occasione di una riconciliazione inter-palestinese.
È dunque per tentare di risanare la loro situazione politica, rivendicando i meriti di un eventuale miglioramento economico, alimentato dai dollari israeliani e statunitensi, che i due più stretti consiglieri di Mahmoud Abbas - e possibili successori del presidente palestinese - hanno scommesso sulla "strategia Goodman"? Hussein al-Sheikh, 61 anni, è responsabile dal 2007 degli ''Affari Civili" dell'Autorità, ovvero dei rapporti con il governo israeliano. Majed Faraj, 58 anni, capo dei servizi segreti dell'Autorità dal 2007, è membro della delegazione che gestisce i negoziati di riconciliazione con Hamas. Sembra che sia Faraj che al-Sheikh svolgano un ruolo molto attivo nella politica di "riduzione del conflitto" adottata da Bennett e accettata, almeno tacitamente, da Mahmoud Abbas. Come se i futuri dirigenti dell'Autorità, che ancora non si rivendicano tali, fossero convinti che uno Stato palestinese non potrà mai esistere, così come non esisterà mai uno Stato democratico binazionale, e che, allo stesso tempo, date le tensioni geopolitiche regionali e la posizione statunitense, anche l'ipotesi dell'espulsione dei palestinesi, cioè di una nuova Nakba, sia almeno provvisoriamente esclusa. Non ci sarebbe quindi altra via d'uscita che accettare il vecchio schema coloniale, con i territori occupati trasformati in serbatoio di mano d'opera per l'occupante? Imporre la nuova governance implica di mettere a tacere le critiche e le resistenze. Questo spiegherebbe la violenza utilizzata contro le opposizioni e l'allontanamento di alti funzionari, noti per la loro competenza, ma anche per loro libertà di parola.
(il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2021)
Hosh’anà Rabbà, Sheminì Atzeret e Simchà Torah: usi e costumi degli ebrei di Roma
Intervista Sandro Di Castro
di David Di Segni
L’ultimo giorno della festa di Sukkot è detto Hosh’anà Rabbà, che rappresenta la chiusura di un ciclo iniziato con Rosh Ha Shanà: in questa occasione viene posto il sigillo al giudizio divino. Per questo, è detto anche “piccolo Kippur” e, per tutta la notte che lo precede, è usanza rimanere svegli e leggere il libro di Devarìm. Una fonte storico-religiosa ci fornisce però informazioni diverse riguardo questa usanza. Infatti “Tzetkià Ben Avraham, rabbino romano vissuto nel 1240 - spiega Sandro Di Castro, responsabile del Tempio dei Giovani - scriveva nello Shibolè HaLechet:”C’è chi usa, nella notte del giorno del salice, rimanere sveglio ad occuparsi di Torah, iniziando da Bereshìt fino a Vezòt HaBerachà, l’ultima Parashà”. Siccome oggi sono pochi coloro che passano la notte a leggere per intero la Torah, si fa solamente il libro di Devarìm fino alla prima Parashà di Bereshìt”. La notte di Hosh’anà Rabbà si legge anche il Tiqqun, un testo kabbalistico che conclude l’opera di pentimento, la Teshuvà. Attualmente, a Roma, questo brano si legge nei templi, ma prima “si faceva solamente in alcune case. Una ventina di anni fa lo si leggeva in quella di “Zio” Angelino Della Torre, dove partecipavano tutti i Rabbanim. È un momento di incontro, che nelle Sinagoghe viene accompagnato dall’usanza di suonare lo Shofar sette volte, con inni e canti che ricordano anche le Selichòt”. Come da tradizione, a Roma si intona anche lo “Yedid Nefesh”, un canto suggestivo e profondamente tradizionale, tramandato dai rabbini Morè Della Rocca e Morè Nello. La mattina di Hosh’anà Rabbà è la rappresentazione della gioia, le Sinagoghe si popolano “come al momento di Neilà nel giorno di Kippur” all’insegna dell’armonia e della profonda ritualità. “Mi capitò una volta, mentre giravo dietro ai Sefarìm con altri rabbini, sentire degli israeliani dire ‘sembra come il Bet HaMikdash’. Infatti, nel Santuario di Gerusalemme, era il giorno della felicità per eccellenza. È scritto che ‘chi non ha visto la gioia dello Yom HaAravà nel Bet HaAmikdash, non ha visto la vera gioia’ “. Un sentimento che, grazie al forte collegamento con Gerusalemme, viene in parte rievocato. Su un libro di Halakà romana, scritto da un rabbino-medico della famiglia degli “Anav” tra il 13° ed il 14° secolo, sono riportati usi e divieti sull’utilizzo della Aravà, del salice. È proibito, infatti “prenderne i rami dopo averlo sbattuto, poiché le foglie cadute simboleggiano i peccati, e godere della pianta: non si può bruciare o utilizzarla per farci degli “shippudìn”, spiedini, da mangiare con la carne. All’epoca c’era questa tradizione. Non si può nemmeno godere del Cedro, ed al termine della festa si dovrebbe poggiare la Aravà nel capo del letto”. A Sheminì Atzeret non ci sono tradizioni o Mitzvòt rilevanti. È detta “ottavo di chiusura, ed è paragonata al giorno seguente delle grandi feste o matrimoni, in cui padrone di casa desidera rimanere con gli amici più stretti: allo stesso modo il Signore si riserva uno spazio per restare solamente con il popolo ebraico”. Per l’occasione, a Roma, nella preghiera serale di Arvìt, si recita il canto di “Kol HaBechor”. Infine, dopo Sheminì Atzeret, c’è Simchà Torah: la festa in cui si conclude e si inizia nuovamente la lettura della Torah. “Il Sefer HaTadir, il testo di un rabbino romano vissuto tra il 1373 – 1390, dice che un’altra usanza di questo giorno era quella di prendere i cedri e mangiarli col miele o cose dolci per celebrare la dolcezza della Mitzvah”. La sera della festa si fanno le Haqqafòt, i sette giri coi Sefarìm attorno all’altare. Nel momento in cui si estraggono i rotoli della Torah, tra i vari canti si intona anche lo Yafuzu Oyevecha, il cui attuale testo “è stato riproposto dal maestro Claudio Di Segni per il Limud del Morè Eliseo”. Composto proprio in occasione di Simchà Torah, lo Yafuzu è stato poi usato anche per Kippur “grazie a Rav Della Rocca, che lo propose come canto aggiunto poiché in anticipo nell’itinerario delle preghiere rispetto al suono dello Shofar”. Feste ricche di tradizioni ed usanze antiche, che gli ebrei di Roma conservano con molto affetto, attenzione e rispetto. L’obiettivo è di tramandarle, come accaduto finora, affinché non vadano perdute. Un lungo filo che dura da millenni, e che non è intenzionato a finire.
(Shalom, 27 settembre 2021)
LG acquisisce Cybellum, l’azienda israeliana di soluzioni per la valutazione del rischio di cybersecurity dei veicoli
di Maria Mosca
Il consiglio di amministrazione di LG Electronics (LG) ha approvato l’acquisizione di Cybellum, società leader nelle soluzioni per la valutazione del rischio di cybersecurity dei veicoli. L’accordo permette a LG di assumere una partecipazione di circa il 64% nella società, per un valore di 140 milioni di dollari, una mossa strategica che migliorerà le capacità di cybersecurity di LG e accelererà i suoi sforzi per diventare un Innovation Partner per la Mobilità Futura.
Le azioni rimanenti saranno acquisite prossimamente a seguito della valutazione finale e l’importo totale dell’investimento sarà confermato di conseguenza. Oltre a questo investimento iniziale, LG si è impegnata per un SAFE (Simple Agreement for Future Equity) per l’investimento di altri 20 milioni di dollari in Cybellum alla conclusione del processo di trading nel quarto trimestre.
Fondata nel 2016 a Tel Aviv, Cybellum è un’azienda leader nella cybersecurity dei veicoli, con circa 50 dipendenti e sta attualmente collaborando con i principali attori del settore, offrendo con successo le proprie soluzioni a produttori e fornitori di veicoli in tutto il mondo. Oltre a Israele, Cybellum opera in Giappone, Germania e Nord America. Cybellum rimarrà un’entità e un marchio indipendente, continuando a crescere e a sostenere i propri clienti e partner con lo stesso livello di impegno e gli stessi standard a cui questi sono abituati.
Con l’aumento del numero e della tipologia di minacce alla sicurezza informatica e con l’industria automobilistica globale che sta passando all’era dell’auto connessa, in cui è essenziale poter contare su una connettività sicura, la necessità di una maggiore sicurezza informatica del veicolo che soddisfi gli standard internazionali non è mai stata così elevata. Inoltre, la cybersecurity dei veicoli diventerà sempre più importante nel tempo, dato che le auto si stanno evolvendo in sistemi organicamente connessi con complesse interrelazioni tra i loro vari componenti. Cybellum consentirà a LG di essere tra i primi ad entrare all’interno di un settore in rapida crescita come quello della cybersecurity automobilistica e di fornire più valore in aree chiave come la progettazione, lo sviluppo e il funzionamento dei componenti, ottimizzando la sicurezza del software.
Una delle soluzioni più avanzate di Cybellum per proteggere i veicoli dalle minacce alla sicurezza informatica è la piattaforma Cyber Digital Twins, capace di creare una rappresentazione dettagliata dei componenti software di un veicolo, senza accedere al codice sorgente, esponendone quindi automaticamente tutti i rischi potenziali. La piattaforma si basa sul rilevamento delle minacce in tempo reale per verificare le vulnerabilità e offrirne una valutazione completa, oltre a indicare le soluzioni raccomandate.
Prima acquisizione per LG in Israele e nel settore della cybersecurity, questo investimento svela l’importanza di questa categoria in crescita ed è una parte fondamentale della strategia di LG per rafforzare il proprio business portfolio attraverso acquisizioni strategiche, alleanze e partnership, con una forte attenzione al business dei componenti per veicoli. Nell’agosto 2018, LG ha acquisito l’austriaca ZKW Group, attore leader nel mercato dei sistemi di illuminazione automobilistica. A luglio, LG ha lanciato una joint venture con Magna International, il terzo fornitore mondiale di auto, per creare LG Magna e-Powertrain, aumentando la competitività e il potenziale di crescita futuro di entrambi i partner.
“Siamo entusiasti di questa partnership con LG e del grande vantaggio che siamo stati in grado di offrire ai nostri stakeholder”, ha detto Slava Bronfman, CEO di Cybellum. “Cybellum ha sviluppato l’offerta di cybersecurity più completa del settore e unire le forze con LG ci permetterà di accelerare ulteriormente la realizzazione della nostra visione. Ci aspettiamo di crescere significativamente nel prossimo futuro”.
“Non è un segreto che il software giochi un ruolo critico nell’industria automobilistica e, con esso, lo gioca anche la necessità di soluzioni efficaci di cybersecurity,” ha detto il Dr. Kim Jin-yong, presidente di LG Electronics Vehicle component Solutions Company. “Questo accordo rafforzerà ulteriormente la solida base di LG nella cybersecurity, permettendoci di essere ancora più preparati per l’era delle auto connesse”.
Fondata nel 2013, la Vehicle Solution Company di LG ha registrato un fatturato di 5,18 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento del 6,1% rispetto al 2019. Attraverso il suo investimento nella cybersecurity dei veicoli, LG si sta impegnando ad aumentare la competitività dei suoi sistemi di infotainment, dei propulsori per veicoli elettrici e delle soluzioni per l’illuminazione dei veicoli, i tre pilastri dell’industria dei componenti automobilistici.
(AndroidStyleHD, 27 settembre 2021)
Quattro palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania
Almeno 4 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante un’operazione condotta in Cisgiordania all’alba di domenica 26 settembre. Le incursioni dei militari di Tel Aviv sono finite in scontri a fuoco nelle aree di Jenin e Gerusalemme. Secondo quanto riferito dalle Forze di difesa israeliane (Idf), l’obiettivo dell’operazione era quello di catturare membri di Hamas.
Il Ministero della Sanità dell’Autorità nazionale palestinese ha confermato il bilancio delle vittime. Mohammad Hleil, portavoce del Ministero, ha specificato che 3 sono stati uccisi nel villaggio di Biddu, a Nord-Ovest di Gerusalemme, e sono stati identificati dalle loro famiglie come Ahmad Zahran, Mahmoud Hmaidan e Zakariya Badwan. Il quarto era un residente del villaggio di Burqin, a Sud-Ovest della città di Jenin, ed è stato identificato come Osama Soboh, di 22 anni. Hleil ha aggiunto che ci sarebbero notizie di un quinto palestinese rimasto ucciso, ma ha dichiarato che non si hanno ancora conferme. Il portavoce del Ministero della Sanità dell’Autorità palestinese ha specificato che i corpi delle vittime di Biddu sono in custodia dell’esercito israeliano. Osama Soboh è invece morto nell’ospedale Ibn Sina di Jenin. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa, quest’ultimo sarebbe stato ucciso dopo che le forze israeliane hanno fatto irruzione a Burqin e circondato una delle case, provocando un pesante scontro a fuoco. Anche Zahran, Hmeidan e Badwan sarebbero stati uccisi durante un confronto armato con l’esercito israeliano a Biddu.
In una dichiarazione pubblica, il primo ministro dell’Autorità palestinese, Mohammad Shtayyeh, ha espresso il suo cordoglio per i quattro palestinesi uccisi. “Pazienza e conforto per le loro famiglie e i loro cari, e libertà per il nostro popolo da questa occupazione criminale e dalle sue continue violazioni”, ha affermato la dichiarazione. Il Museo Palestinese nella città di Birzeit, vicino a Ramallah, ha confermato ad Al Jazeera che Zakariya Badwan lavorava da loro come dipendente a tempo pieno. Il museo ha riferito in un post sui social media di aver “ricevuto la notizia con totale shock e immensa tristezza”. “Ricordiamo il nostro caro Zakariya per il suo carattere amabile, la sua cordialità e il suo volto sempre sorridente e allegro”, si legge nel messaggio, in cui si specifica altresì che il museo sarebbe rimasto chiuso oggi, domenica 26 settembre, “in lutto per il martire Zakariya e i martiri della Palestina che sono stati uccisi all’alba”.
Secondo i media israeliani, anche due soldati sono rimasti “gravemente feriti” negli scontri armati esplosi durante l’operazione dell’esercito e sarebbero attualmente ricoverati in ospedale. Raid e arresti sono stati segnalati anche nei villaggi di Kufrdan e Yaabad. Le catture e gli scontri a fuoco sono stati condotti in tutta la Cisgiordania, principalmente dall’unità antiterrorismo d’élite militare Duvdevan e dalle unità antiterrorismo della polizia israeliana e della polizia di frontiera, insieme al servizio di sicurezza Shin Bet. Mentre le operazioni militari di Tel Aviv nelle città e nei villaggi della Cisgiordania sono una realtà quasi quotidiana, negli ultimi mesi, i raid dell’esercito nell’area di Jenin sono stati contrastati con la resistenza e gli scontri armati dai residenti palestinesi.
Il 16 agosto, a Jenin, 4 giovani palestinesi avevano perso la vita a seguito di scontri con le forze israeliane, le quali avevano condotto un’operazione presumibilmente volta ad arrestare un individuo coinvolto in attività “terroristiche”. A detta delle fonti palestinesi, le “forze di occupazione” avevano preso d’assalto il campo profughi, alimentando scontri con i giovani locali. Gli agenti israeliani avrebbero aperto il fuoco contro i palestinesi, i quali, a loro volta, avrebbero lanciato pietre contro i militari.
(Sicurezza Internazionale, 26 settembre 2021)
Abbas duro su Israele. Ma nessuno gli crede
"Il discorso della resurrezione"
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Il discorso della resurrezione, così come lo avevano presentato i media dell'Anp, non ha scosso le masse palestinesi. E da Israele, almeno sino a ieri sera, non è arrivata alcuna reazione all'ultimatum che il presidente dell'Anp Abu Mazen ha lanciato venerdì in un discorso registrato per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
«Israele ha un anno di tempo per ritirarsi dai Territori palestinesi occupati nel 1967», ha intimato Abu Mazen, minacciando di rivolgersi alla Corte penale internazionale e di revocare il riconoscimento di Israele da parte dell'Olp avvenuto dopo la firma degli Accordi di Oslo. L'occupazione israeliana «impedisce il raggiungimento di una soluzione a Due Stati», ha spiegato Abu Mazen aggiungendo che, se non ci saranno cambiamenti, la comunità internazionale e le circostanze sul campo «imporranno diritti politici uguali per tutti sulla terra della Palestina storica, all'interno di un unico Stato». Quindi si è detto pronto a negoziare, durante i prossimi 12 mesi e sulla base delle risoluzioni internazionali, i confini dello Stato palestinese che dovrà sorgere accanto a Israele. Il risveglio ieri mattina non ha portato i risultati che il presidente dell 'Anp e il suo entourage (forse) si attendevano. A parte gli applausi scontati del premier Mohammed Shtayyeh - che ha definito il discorso all'Onu la «road map» della fine dell'occupazione israeliana - e del gruppo dirigente del partito Fatah, l'ultimatum non ha generato interesse in Cisgiordania e Gaza.
Anzi i toni insolitamente bellicosi di Abu Mazen sono stati accolti da molti palestinesi con scetticismo e qualche sorriso. Sui social con sarcasmo alcuni hanno scritto che il presidente dell'Anp ora è pronto alla lotta armata. Nessun palestinese crede che Israele prenda in considerazione l'ultimatum e accetti di ritirare i suoi soldati e centinaia di migliaia di coloni in appena 12 mesi. «Gli israeliani sono stati presi dal panico dopo l'ultimatum del presidente» ha ironizzato su Twitter Akram Maslamanì, uno studente.
La popolazione palestinese è abituata ai proclami altisonanti dell'Anp mai seguiti da azioni concrete. Ne è una testimonianza l'annuncio fatto più volte in questi ultimi anni della interruzione di ogni rapporto dell'Anp con Israele che non è mai sfociato nella sospensione del coordinamento tra i servizi di intelligence delle due parti che pure è chiesta da tutti i palestinesi. Abu Mazen, lo pensano in tanti, ha scelto l'approccio battagliero nel tentativo di recuperare consensi. La sua popolarità è ai livelli più bassi e secondo un sondaggio l'80% dei palestinesi vuole le sue dimissioni. Un dato su cui pesa la dura repressione delle proteste di migliaia di palestinesi per l'omicidio compiuto dai servizi di sicurezza dell'Anp di Nizar Banat, un oppositore del presidente.
Ma Abu Mazen ha forse voluto lanciare anche un messaggio a Joe Biden che, proprio all'Onu a inizio settimana, ha da un lato ribadito il sostegno alla soluzione a Due Stati e dall'altro ha detto ai palestinesi di aspettare, schierandosi di fatto sulle posizioni del premier israeliano Naftali Bennett secondo il quale al conflitto non c'è soluzione nei prossimi anni.
Il governo israeliano per ora non commenta e non è detto che Bennett risponda all'ultimatum di Abu Mazen quando domani interverrà a sua volta alle Nazioni Unite.
(il manifesto, 26 settembre 2021)
In occasione del 150° anniversario della breccia di Porta Pia - 68° raduno nazionale dei bersaglieri
di Michelle Zarfati
Questa domenica, in occasione del 68° Raduno Nazionale dei Bersaglieri a Roma, si è svolta la cerimonia di deposizione della corona all’Altare della Patria a cui è seguita una sfilata dei bersaglieri. L’itinerario è partito dalle Terme di Caracalla, per giungere a via dei Fori Imperiali, terminando in piazza Venezia. Durante la cerimonia, accanto ai bersaglieri ha sfilato anche il cannone che sparò il primo colpo aprendo la breccia di Porta Pia nel 1870.
"Le Fiamme Cremisi si sono sempre distinte, al servizio del Paese e della comunità internazionale, in Italia e nelle aree di crisi, riscuotendo ammirazione e riconoscenza in particolare nelle realtà più disagiate. Sono certo che l’incontro rappresenterà un’opportunità per rinnovare, tra i Bersaglieri in servizio e in congedo, la memoria del passato e per stimolare una riflessione sul futuro dell’Associazione”. Ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella al Presidente dell’associazione Nazionale Bersaglieri, Generale di Brigata, Ottavio Renzi- in un messaggio.
I Bersaglieri rappresentano anche oggi, una delle componenti portanti dei contingenti militari italiani impegnati nelle missioni internazionali di sicurezza.
Hanno preso parte alla cerimonia anche il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, e il Rabbino Capo Di Segni.
(Shalom, 26 settembre 2021)
Ocasie-Cortez piange
Dem americani spaccati sui soldi per il sistema israeliano Iron Dome (quello che para i razzi)
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di Daniele Raineri
ROMA - Questa settimana c'è stata una crisi dentro al Partito democratico americano che riguarda Israele. Martedì era prevista l'approvazione di un pacchetto di spese del governo americano da parte della Camera dei rappresentanti, ma tra le varie voci c'era anche un miliardo di dollari di finanziamento per il sistema antimissilistico Iron Dome di Israele. Spaccatura istantanea: la Squad, il gruppo di deputati democratiche considerate l'ala radicale del partito e capeggiate da Alexandria Ocasio-Cortez, ha ottenuto lo scorporo del finanziamento a favore di Iron Dome dal resto del pacchetto "altrimenti non lo votiamo e fermiamo tutto". I vertici del partito, che invece appartengono al blocco moderato, hanno accettato l'insurrezione senza fare troppo rumore e hanno spostato il finanziamento di Iron Dome all'approvazione di un altro pacchetto di spese - che è considerato blindato, nel senso che passerà di sicuro, ma sarà votato soltanto fra qualche mese.
Poi i vertici si sono resi conto che così la polemica si sarebbe trascinata per molto tempo, ci hanno ripensato e hanno calendarizzato l'approvazione del finanziamento per giovedì, con un singolo voto speciale dedicato al sistema Iron Dome. Il finanziamento è passato con una maggioranza fortissima, più di quattrocento voti a favore e soltanto nove voti contro, e la Squad si è spaccata. Rashida Tlaib, Ayanna Pressley e Ilhan Omar hanno votato contro. Jamaal Bowman, il solo uomo della Squad, ha votato a favore. Ocasio-Cortez ha votato "present", che non è un "no" e poi ha pianto consolata da una collega. Lei stessa, in altre occasioni, aveva detto in polemica con altri politici che votare "present" è un espediente ipocrita "perché siamo alla Camera per essere decisivi". La crisi fra l'ala radicale del Partito democratico e i vertici moderati che riguarda la politica estera è rientrata, ma lo spettacolo è una novità. Ocasio-Cortez potrebbe avere calcolato che votare no avrebbe danneggiato le sue ambizioni politiche sul lungo termine.
Chi è a favore del finanziamento sostiene che gli Stati Uniti spendono molto denaro in aiuti militari internazionali e quello per Iron Dome è speso meglio di altro: il sistema tecnologico, diventato famoso durante le periodiche guerre tra Israele e il gruppo Hamas nella Striscia di Gaza, riesce a intercettare una percentuale altissima dei razzi sparati contro le città israeliane e contribuisce a tenere basso il numero delle vittime. Non lo fa soltanto in modo diretto - distruggendo in aria i razzi di Hamas- ma anche in modo indiretto, perché grazie alla protezione di lron Dome il governo israeliano reagisce in modo differente durante i conflitti. Chi non è a favore del finanziamento sostiene che Israele dovrebbe pagarsi Iron Dome con i suoi soldi oppure, come dice Rashida Tlaib, perché non vuole "aiutare lo sforzo per rendere possibili crimini di guerra e abusi umanitari" - ma Iron Dome è un sistema puramente difensivo.
Il Foglio, 25-26 settembre 2021)
Spettri alla ricerca di un senso di sé
Una antologia datata dal 1901 al 1915 fa emergere gli aspetti religiosi di una comunità tutta letteraria, in quella alternanza di effetti comici e drammatici che è tipica di Sholem Aleichem: da Bollati Boringhieri.
di Roberta Ascarew
Al centro dell'opera di Sholem Aleichem c'è uno shtetl mitico e comico, Kasrilevke, luogo immaginario in cui si moltiplicano le piccole storie di una inattuale, tenera e spesso tragica vita ebraica.Anche se non figura nelle carte geografiche dell'0stjudentum, Kasrilevke è una cittadina come tante altre, popolata da poveri diavoli dignitosi e allegri che sanno preservare il rispetto di sé e il senso della loro comunità. In fondo, rassomiglia molto a Voronkov, il luogo in cui lo scrittore (registrato negli archivi rabbinici come Salomon Rabinovitz) trascorse i primi, «splendidi e pazzi anni» dell'infanzia e da cui si allontana con malinconia: «Non esisteva - scrive in terza persona - un villaggio al mondo che avesse altrettanto fascino. Era un luogo indimenticabile, un luogo che avrebbe ricordato per sempre». A lungo incerto tra la professione di letterato e quella di rabbino, Salomon cominciò a scrivere in ebraico e in russo, del tutto insensibile al fascino dello jiddisch, requisito ancora dalla religiosità magica ed esoterica dei chassidim e dalla istruzione dei più umili. La conversione verso il nuovo nome e la 'vecchia' lingua dei suoi capolavori - da Tewje il Iattivendo!o a Menachem Mendel - nasce da suggestioni diverse: l'ammirazione per l'opera pioneristica di Mendele Moicher Sforim e la lettura di un testo rivoluzionario, Autoemancipazione di Leon Pinsker pubblicato dopo il pogrom di Odessa del 1881 e destinato a diventare il breviario di un radicale rinnovamento dell'ebraismo orientale.
• ECHI DAL VASTO MONDO
Erano spettri secondo Pinsker gli ebrei dispersi tra le terre d'Europa, inquietanti tra i popoli e indefiniti a se stessi. Per muoverli verso la conquista di una patria e della libertà era necessario che vedessero in modo più problematico e realistico la loro vita.
Pio, 'illuminato' e sionista quanto basta, Salomon si mette al servizio di questo progetto. Sceglie per nome una formula di saluto (in ebraico Sholem Aleichem significa «la pace sia con voi) così falsa da tracciare un progetto esistenziale e letterario: lo scrittore entra benedicente in un contesto che solo in parte gli appartiene e vi porta, insieme all'eco del vasto mondo, una nuova consapevolezza della condizione ebraica, tesa tra la critica dell'immobilismo e il sospetto 'nietzschiano' per gli inganni della modernità e del progresso (America compresa). Per questo Kasrilevke, popolata da un manipolo di uomini semplici, i Meyer, gli Schneidel, i Seidel, con santi rabbini, qualche donna sbiadita e neanche un chassid, ha ben poco dell'idillio «amabile e struggente» (così Magris) del buon mondo antico, e si configura invece come eccezionale laboratorio di scrittura e di pedagogia letteraria. Dell'immensa saga, Panico nello shtetl, Bollati Boringhieri (a cura e per la traduzione dal tedesco di Giulio Schiavoni, pp. 28, €19,00) propone una ampia antologia di racconti scritti tra il 1901 e il 1915 e scelti in modo che emergano le tante modulazioni di un affresco infinito. Solo tre, irrinunciabili novelle ricalcano quelle pubblicate nelle meritorie edizioni di Bompiani del 1962 e del 1982; per il resto, Schiavoni pubblica frammenti della vita di Kasrilevke 'inediti' in Italia, attento soprattutto agli aspetti religiosi di quella comunità tutta letteraria e a dosare gli effetti comici e drammatici che tanto caratterizzano la scrittura di Sholem Aleichem. Intrecciando da raffinato modernista centri e periferie, realtà e affabulazione, tempo e eternità, Sholem Aleichem racconta in tutte le lingue dell'ebraismo mitteleuropeo le vicende di questo shtetl con affettuosa e ironica distanza. Le descrive come i protagonisti o anche dei semplici osservatori avrebbero potuto narrarle, facendo attenzione alle pause, all'ammiccare furbesco, alle modulazioni della voce, ma sempre molto attento a non sostituirsi al narratore.
• MOLTI E CONFUSI SPUNTI DI ATTUALITÀ In questa distanza c'è spazio per la risata, complice e liberatoria e per la storia, quella ebraica come anche quella del vasto mondo, considerate senza i fremiti rivoluzionari di altri scrittori dello shtetl, da Isaac Meir Weissenberg a Semën An-ski. Sono molti e un po' confusi i frammenti di attualità che giungono fino a Kasrilevke: la guerra dei Boeri, le vicende della Cina, l'assassinio di Obrenovic, le idee rivoluzionarie, le sconvolgenti notizie sui pogrom. Gli abitanti ne parlano con eccitata partecipazione perché «per quanto piccola, povera, misera e dimenticata da Dio possa essere, Kasrilevke è legata al resto del mondo come da un filo invisibile: se lo si tira da un'estremità, lo si può sentire immediatamente anche dall'altra». Anche l'affaire Dreyfus Semën An-ski- in «Dreyfus a Kasrilevke » - ha una eco tutta particolare: il piccolo e il grande si confrontano, i giudizi morali si sovrappongono ai fatti e i cittadini dello shtetl dimostrano di condividere le emozioni degli «occidentali», mentre l'idea di un riscatto sembra impossessarsi infine di questa comunità bizzarra e moderatamente arroccata.
(il manifesto, 26 settembre 2021)
L'uomo doppio, iniquo e bugiardo
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 6.
L’uomo da nulla, l’uomo iniquo,
cammina con la falsità sulla bocca;
ammicca con gli occhi, parla con i piedi,
fa segni con le dita;
ha la perversità nel cuore,
trama del male in ogni tempo,
semina discordie;
perciò la sua rovina verrà all’improvviso,
in un attimo sarà distrutto, senza rimedio.
Sei cose odia Signore,
anzi sette gli sono in abominio:
gli occhi alteri, la lingua bugiarda,
le mani che spargono sangue innocente,
il cuore che medita disegni iniqui,
i piedi che corrono frettolosi al male,
il falso testimone che proferisce menzogne,
e chi semina discordie tra fratelli.
L’uomo da nulla, l’uomo iniquo,
cammina con la falsità sulla bocca;
L'uomo da nulla
(lett. "l'uomo di Belial") è molto di più che un poco di buono. La figura che qui si ha in mente è quella di una persona che non solo fa il male ma prende gusto a pervertire il bene con parole false e atteggiamenti ambigui e fraudolenti. Il suo desiderio principale sembra essere quello di riuscire a far cadere i giusti e a dimostrare così di essere non il più malvagio, ma il più furbo. E' un tipo particolarmente pericoloso, perché ama mimetizzarsi e inserirsi anche negli ambienti migliori. A lui fare il male non basta: il suo maggior piacere è riuscire a corrompere il bene. In questo senso, la dicitura "uomo di Belial" (2 Corinzi 6.15) gli si addice perfettamente.
ammicca con gli occhi, parla con i piedi,
fa segni con le dita;
Le parole che escono dalla bocca dell'uomo da nulla possono essere belle e suonare bene, ma sono false. Il suo modo di comunicare autentico passa attraverso altri organi del corpo, creati per scopi ben diversi: occhi, piedi, dita. Si tratta in sostanza di un linguaggio cifrato che può servire a inviare messaggi a un complice o a intimorire un avversario. In ogni caso manifesta l'esistenza di un animo doppio, che usa il linguaggio delle parole per nascondere le sue vere intenzioni e il linguaggio dei segni per eseguire i suoi propositi malvagi.
ha la perversità nel cuore,
trama del male in ogni tempo,
semina discordie;
Ogni uomo nasce nel peccato e il suo cuore è "insanabilmente maligno" (Geremia 17.9). Ma la perversità nel cuore è qualcosa di più grave: è la volontà determinata di compiere il male e di diffonderlo (cfr. 2.14); è l'odio per tutto ciò che è giusto, onesto e buono; è desiderio di corrompere il bene e farlo diventare male. L'uomo da nulla non compie azioni malvagie soltanto quando vuol perseguire, sia pure illegittimamente, particolari interessi, ma trama del male in ogni tempo, al solo scopo di compiere il male. Non contende con il prossimo solo quando vuole ottenere qualcosa a cui anche altri sono interessati, ma gode della lite in sé, al punto che si compiace quando riesce ad aizzare l'uno contro l'altro. L'uomo da nulla non è soltanto una persona spiritualmente malata: è una malattia spirituale, da cui bisogna guardarsi come dalla peste.
perciò la sua rovina verrà all’improvviso,
in un attimo sarà distrutto, senza rimedio.
All'improvviso ... senza rimedio: il giudizio di Dio sull'uomo che non solo fa il male ma anche si compiace in esso e lo diffonde, arriverà senza preavviso e senza possibilità di appello. Quando Dio interverrà, non ci sarà spazio per un ripensamento, né prima né dopo. L'aspetto subitaneo e irrevocabile del giudizio di Dio compare diverse volte nella Scrittura (1.27, 29.1; Salmi 73.19; 1 Tessalonicesi 5.3). L'uomo deve saper riconoscere che il tempo della misericordia di Dio è proprio quello in cui gli viene concesso di peccare senza che la sentenza su di lui si esegua immediatamente (Ecclesiaste 8.11). Una volta che il tempo è scaduto, alla misericordia segue il giudizio. Inesorabilmente. La sapienza di Dio avverte, affinché chi ha ancora la grazia di poter ascoltare ne tenga conto.
Sei cose odia Signore,
anzi sette gli sono in abominio:
Non è chiaro il motivo per cui nei cosiddetti "proverbi numerici" (presenti soprattutto nel capitolo 30) vengano usati due numeri successivi (2/3, 3/4, 6/7). Il fatto che siano state date diverse spiegazioni fa capire che non ne esiste una che si sia imposta con certezza. Potrebbe trattarsi di una forma letteraria che facilita all'allievo l'apprendimento e lascia aperta la lista delle cose elencate. Particolarmente importanti sono le parole che precedono l'elenco, perché esprimono il giudizio chiaro e netto di Dio sugli oggetti enumerati. In questo caso l'attenzione del discepolo viene attirata sul fatto che ci sono cose che il Signore odia e sono per Lui un abominio. Sorge spontanea la domanda: quali sono queste cose? L'elenco fornisce la risposta.
gli occhi alteri, la lingua bugiarda,
le mani che spargono sangue innocente,
Varie parti del corpo vengono nominate e messe in relazione con atteggiamenti spirituali: agli occhi viene collegata la superbia, alla lingua il parlare menzognero, alle mani le azioni violente. Troppo spesso l'attenzione sul male viene risvegliata soltanto dal fatto violento, e non si pensa che per arrivare a colpire fisicamente bisogna partire da adeguati atteggiamenti interni. Con arrogante alterigia si comincia ad avere una considerazione sprezzante del prossimo; si passa poi a diffondere calunnie sul suo conto per rovinarne la reputazione e indurre anche altri ad esprimere disprezzo; e si finisce con l'azione violenta con cui si vuole uccidere, far sparire definitivamente la persona odiata. Dio ha in abominio queste cose perché sono caratteristiche del suo Avversario, colui che nel principio si è ribellato al Creatore e alla fine comunicherà i suoi abominevoli atteggiamenti all'anticristo, "colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio" (2 Tessalonicesi 2.4).
il cuore che medita disegni iniqui,
i piedi che corrono frettolosi al male,
L'uomo saggio si propone obiettivi di giustizia, e al fine di ottenerli medita con calma sulla situazione che gli sta davanti, e dopo aver fatto le dovute scelte passa senza indugio all'azione. Qui viene descritto l'atteggiamento diametralmente opposto. L'uomo intimamente malvagio comincia con il meditare nel suo cuore progetti iniqui ; dopo di che non si lascia arrestare da scrupoli di coscienza, ma con sicura decisione si affretta a mettere in atto i suoi scellerati propositi (cfr. 1.16). Dio odia una volontà di male così fermamente espressa e mantenuta nel tempo.
il falso testimone che proferisce menzogne,
e chi semina discordie tra fratelli.
La falsa testimonianza è una precisa infrazione di un comandamento di Dio (Esodo 20.16). Il falso testimone colpisce il prossimo, ma non apertamente e con le sue proprie mani, come il violento omicida: con l'uso della menzogna induce la società a colpirlo per mezzo di tribunali e magistrati (1 Re 21.1-16). Commette dunque ingiustizia servendosi di strumenti stabiliti per fare giustizia, e quindi non solo fa il male, ma anche perverte la giustizia. E poiché è Dio stesso Colui che ha "stabilito il diritto" ed esercita "il giudizio e la giustizia" (Salmi 99.4), il falso testimone offende Dio, direttamente e personalmente. E per questo Dio lo odia.
La falsa testimonianza, nella forma solo apparentemente meno grave della calunnia e della maldicenza, è anche uno strumento efficacissimo nelle mani di chi semina discordie tra fratelli. Sta scritto che "l’uomo perverso semina contese, il maldicente disunisce gli amici migliori" (16.28). L'esperienza di tutti i giorni conferma continuamente la verità di queste parole.
M.C.
Sudan filo sionista: sequestrati tutti i beni di Hamas
KHARTOUM – Le autorità sudanesi hanno sequestrato i beni redditizi in possesso del movimetno di resistenza islamico palestinese o delle societa' che secondo Khartoum sarebbero collegate a Hamas.
L’acquisizione di almeno 12 società mira a contribuire ad accelerare il riallineamento del Sudan con l’Occidente (cioe' gli Usa). Una mossa con cui Khartoum intende accontentare il nemico non solo del popolo palestinese che delle popolazioni arabo-islamiche, ovvero il regime sionista. E a dare la notizia per prima e' infatti l'emittente israeliana Kan.
Da quando Bashir è stato rovesciato (2019) il Sudan e' riuscito a "vincere" la rimozione dall’elenco dei paesi sponsor del terrorismo (SST) degli Stati Uniti. Poi il regime sudanese ha visto la cancellazione di un suo debito pari a oltre 50 miliardi di dollari.
I sequestri, ha spiegato un funzionario della task force sudanese preposta all'operazione, sono citati in un rapporto interno, nel quale si precisa che i beni confiscati includono società immobiliari, hotel a Khartum, un'emittente televisiva e oltre 1 milione di acri di terreni agricoli. Secondo quanto dichiarato da funzionari della task force che lavora su queste confische, le persone arrestate hanno ottenuto un trattamento preferenziale nelle gare d'appalto e condoni fiscali, oltre ad essere stati autorizzati a trasferirsi ad Hamas e a Gaza. Un membro del Consiglio sovrano sudanese ha a sua volta confermato l'operazione, aggiungendo che le autorità di Khartoum intendono smantellare altre attività di questo genere.
(Pars Today, 25 settembre 2021)
Truppe italiane ed ebrei nella Francia occupata
Lettera a "il Giornale"
A seguito dello sbarco in Marocco degli americani nei primi giorni di novembre 1942, i tedeschi occuparono anche la Francia meridionale, quella del governo di Vichy, assegnando all'Italia tutta la zona a est del fiume Rodano, dall'alta Savoia fino a Nizza e Montecarlo. Migliaia di ebrei, essendo a conoscenza del trattamento umanitario ricevuto dai loro correligionari in altre aree d'Europa occupate dagli italiani, si riversarono nella zona italiana. Per fare un esempio, quando la polizia di Vichy, su ordine dei tedeschi, effettuò una serie di retate davanti alla Sinagoga di Nizza arrestando degli ebrei da portare in alcuni campi di concentramento, il comandante dei Carabinieri di zona, colonnello Mario Bodo, e i suoi capitani Salvi e Tosto, piantonarono i luoghi con l'ordine di arrestare, se fosse stato il caso, i membri della polizia di Vichy. E la polizia francese dovette cedere. Il ministero degli Esteri italiano a tal proposito scriveva in un telegramma: «Riteniamo di precisare che non è possibile permettere che nella zona occupata dalle truppe italiane, le autorità francesi costringano gli ebrei a spostarsi nelle zone occupate dalle truppe tedesche. Le misure di protezione degli ebrei sono di competenza dei nostri organi». Il ministro degli Esteri tedesco, Von Ribbentrop, in visita a Roma, sollevò con Mussolino la questione, parlando di intesa fra militari italiani ed ebrei. Mussolini sembrava quasi dare ragione ai tedeschi e nominò una Commissione per la questione ebraica con a capo l'ispettore generale Lospinoso e il suo vice, questore Luceri. Ma questi due, invece di collaborare con i tedeschi, preferivano la compagnia del signor Donati, un ebreo italiano che viveva in Francia, ma che aveva mantenuto preziosi rapporti con le autorità italiane. Riuscirono a far trasferire più di mille ebrei in alcuni alberghi della Savoia, ove essi poterono organizzare anche una certa vita sociale. Tutto precipitò con l'8 settembre 1943. Quando le truppe italiane, ovviamente, dovettero abbandonare precipitosamente tutta la zona di loro competenza, i tedeschi entrarono tranquillamente in Nizza e per gli ebrei fu la fine. Si dice che la caccia all'ebreo sulla Costa Azzurra sorpassò in orrore e ferocia tutto ciò che, in quel momento, era noto nell'Europa occidentale. È possibile pensare che le autorità militari italiane agissero in quel modo senza il consenso del governo di Roma, in sostanza di Benito Mussolini? Credo che sarebbe stato impossibile.
Giovanni Cattani Creazzo (Vicenza)
(il Giornale, 25 settembre 2021)
Il movimento di Hamas scomunica definitivamente gli arabi al governo in Israele
di Irene Agovino
È notizia di ieri da parte di Hamas di una sorta di fatwah contro i leader di Raam, movimento islamista nella coalizione del governo israeliano per le dichiarazioni di Walid Taha di non aver nulla a che vedere con il movimento di Gaza, considerato terrorista. Nel comunicato ufficiale Walid viene definito “sionista” e responsabile delle ultimi aggressioni a Gaza. Il leader di Raam, Abbas, ha dichiarato che affermare cio’ significa essere menzogneri e che comunque il movimento Raam potrebbe far cadere il governo in caso di ulteriori strette contro Gaza.
(DailyMuslim, 24 settembre 2021)
L’incontro tra Bennett e Al-Sisi ha smarcato il nuovo corso delle relazioni tra Israele ed Egitto
di Francesco Paolo La Bionda
Lo scorso 13 settembre, il Primo Ministro israeliano Bennett si è recato in Egitto per un incontro con il Presidente egiziano Al-Sisi, nella prima visita ufficiale di un capo dello stato ebraico nel paese arabo da oltre un decennio. L’ultimo precedente risaliva al 2010, prima che le Primavere arabe sconvolgessero il Medio Oriente, quando l’allora presidente egiziano Mubarak ospitò per un vertice Netanyahu a inizio premierato, l’ancora oggi leader palestinese Abbas e Hillary Clinton, al tempo Segretario di Stato americano. Bennett e Al-Sisi hanno inaugurato il nuovo capitolo delle relazioni tra i due paesi a Sharm el-Sheikh, dove per motivi di sicurezza le autorità egiziane preferiscono tenere tutti gli incontri diplomatici. I due si sono fatti immortalare dai fotografi seduti uno accanto all’altro sotto le rispettive bandiere nazionali e il colloquio è stato incentrato sulla sicurezza regionale, a partire dalla gestione di Gaza, e sulla cooperazione bilaterale. Il Cairo negli ultimi mesi ha pubblicizzato il proprio ruolo di mediatore tra Israele e Hamas, che pur classifica come organizzazione terrorista, e dopo il conflitto di questa primavera tra lo stato ebraico e gli islamisti ha promesso un sostanzioso aiuto di 500 milioni di dollari per la ricostruzione della Striscia, finalizzato anche a far riconciliare le diverse fazioni palestinesi. Se quest’ultimo proposito lo vede in opposizione alla volontà del premier israeliano, il primo è invece allineato con la strategia di Bennett, che alcune settimane fa ha proposto un contributo israeliano al ripristino delle infrastrutture di Gaza se dall’enclave palestinese le armi continueranno a tacere.
• GLI OBIETTIVI DELL’EGITTO
Secondo i commentatori, l’interesse egiziano per giocare un ruolo da protagonista nel tentativo di risoluzione del conflitto tra le due parti è mossa anche da un duplice fine di politica internazionale. In primo luogo, Il Cairo è preoccupato di venire scalzato dal proprio ruolo di interlocutore privilegiato di Israele per il mondo arabo a seguito degli Accordi di Abramo. Poiché gli Emirati Arabi Uniti restano uno dei grandi finanziatori del governo egiziano, quest’ultimo deve tuttavia adottare un approccio morbido, attraverso una cooperazione intensificata con Israele, per controbilanciare la normalizzazione delle relazioni israelo-emiratine. Il Cairo inoltre, mostrandosi ben disposto con Gerusalemme, vuole ingraziarsi l’amministrazione americana guidata da Joe Biden, ben più critico del suo predecessore verso le indiscutibili gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dagli uomini di Al-Sisi e il cui interesse verso gli alleati mediorientali, quali quello egiziano, è calante in virtù del focus sullo scontro tra America e Cina nell’Indo-Pacifico.
• IRAN E TURCHIA, AVVERSARI COMUNI
La fiducia reciproca tra governo israeliano e controparte egiziana è comunque cresciuta in modo sincero nel corso dell’ultimo decennio. Israele ha accolto con favore nel 2013 la deposizione da parte di Al-Sisi del suo predecessore Morsi, appartenente ai Fratelli Musulmani a cui è legata Hamas, mentre l’egiziano ha apprezzato il sostegno continuato nel corso degli anni a fronte dell’opposizione al suo mandato di molti paesi sia musulmani sia occidentali. Nel rinnovato scacchiere regionale inoltre sia Egitto sia Israele si trovano oggi ad avere un nemico e un avversario comuni. Il primo è l’Iran, elemento destabilizzante la cui influenza è cresciuta in modo preoccupante negli anni grazie alle milizie dislocate in Iraq e in Siria, oltreché all’alleanza storica con gli Hezbollah libanesi. Il secondo è la Turchia, che sotto l’influenza panislamista del suo presidente Erdoğan si scontra con Israele sulla questione palestinese e con l’Egitto su quella libica. Ankara lo scorso anno ha infatti offerto un sostegno decisivo per la vittoria, tramite accordo di pace, del governo libico guidato da Al-Sarraj contro quello del generale Haftar, sostenuto dal Cairo. Un’influenza del modello tracciato dagli Accordi di Abramo è riscontrabile anche nel nuovo interesse di Israele ed Egitto per la cooperazione economica, relegata in secondo piano dalla pace “fredda” dei decenni precedenti. Tra gli sviluppi più significativi degli ultimi tempi: l’accordo pluriennale da 15 miliardi di dollari in base al quale dallo scorso anno il gas naturale israeliano viene importato nei terminali egiziani per essere ri-esportato verso l’Europa; la riapertura del valico di Taba ai turisti israeliani e l’avvio, previsto per ottobre, di voli di linea diretti tra Il Cairo e Tel Aviv; la decisione di ampliare la Qualifying Industrial Zone (QIZ) in Egitto (si tratta di aree industriali speciali presenti anche in Giordania, legate ad accordi tariffari agevolati con Israele).
• ALCUNE OMBRE
Restano naturalmente alcune incognite che gravano sul rapporto tra i due paesi. Israele resta nettamente impopolare presso l’opinione pubblica egiziana, nella quale è largamente diffuso e accettato anche l’antisemitismo; solo l’efficacia degli apparati governativi nello stroncare dissenso e opposizione mantiene per ora sedato il malcontento per i rapporti con lo stato ebraico. Sul versante israeliano, il governo capeggiato da Bennett guida una maggioranza risicata ed è inoltre frutto dell’accordo con Yair Lapid, che si avvicenderà nel ruolo di premier tra due anni e la cui visione geopolitica non è del tutto coincidente con quella del collega. Al netto di questi fattori, resta però indubbio che le relazioni tra Israele ed Egitto abbiano raggiunto un punto di svolta radicale, che qualsiasi sviluppo futuro non potrà riportare nel passato.
(Bet Magazine Mosaico, 24 settembre 2021)
Nasce l’Associazione degli Accademici e Scienziati italiani in Israele (AISSI)
Su impulso dell’Ambasciatore d’Italia in Israele, Gianluigi Benedetti e grazie all’iniziativa di due docenti della Ben Gurion University, Cristina Bettin e Aaron Fait, un gruppo di professori, ricercatori e dottorandi italiani ha dato vita alla “Association of Italian Scholars and Scientists in Israel” (AISSI).
La neonata Associazione, che ha carattere no-profit, persegue la finalità di dare maggiore visibilità e rilievo alla qualificatissima presenza scientifica italiana nel panorama accademico israeliano, sia nel settore umanistico sia in quello della scienza e tecnologia, rappresentandone unitariamente gli interessi. AISSI promuoverà le relazioni con la comunità accademica israeliana, sosterrà i giovani ricercatori e studenti italiani al loro arrivo in Israele e contribuirà, in stretto raccordo con l’Ambasciata, all’intensificazione e ampliamento delle relazioni tra le Istituzioni accademiche e di ricerca dei due Paesi. Al riguardo, il Comitato scientifico di AISSI costituirà un punto di riferimento per l’Ambasciata nelle attività di elaborazione delle priorità italiane nel settore della collaborazione bilaterale accademica, scientifica e tecnologica.
L’Ambasciatore Gianluigi Benedetti, che rivestirà la carica di Presidente onorario dell’Associazione, ha sottolineato che “la creazione di AISSI assicurerà ai tanti eccellenti studiosi e ricercatori italiani in Israele una maggiore visibilità, valorizzandone il ruolo di ‘ponte’ a sostegno delle relazioni accademiche e scientifiche fra i due Paesi.
(Ambasciata d'Italia a Tel Aviv, 24 settembre 2021)
La rinascita degli ebrei in Sardegna
di Nathan Greppi
“Ogni sardo ha del sangue ebreo che scorre nelle sue vene”: con queste parole si apriva nel luglio 2015 un articolo del giornale sardo Vulcano Notizie, che raccontava la storia degli ebrei in Sardegna: dopo che sin dai tempi dei romani ospitò una comunità numerosa, tutto finì con la cacciata nel 1492 voluta dalla corona spagnola, che all’epoca dominava anche l’isola. La maggior parte degli ebrei rimasti si sono totalmente assimilati, e da allora non ci sono più state comunità ebraiche.
Questo fino a poco tempo fa: negli ultimi anni, ha iniziato a ricostituirsi una presenza ebraica organizzata a Cagliari, sotto la guida dell’associazione Chenabura – Sardos pro Israele (Chenabura significa “venerdì” in sardo), che organizza molte attività per riportare alla luce un passato rimasto sepolto troppo a lungo (se si eccettuano alcuni saggi storici sul tema, ad esempio dell’artista Elio Moncelsi e della storica Cecilia Tasca). Ne parla a Mosaico il presidente dell’associazione, Mario Carboni.
• Come è nata l’associazione? È stato circa 10 anni fa; in origine era solo un gruppo su Facebook, per chi si interessa di ebraismo e Israele, ma l’accoglienza ricevuta era talmente favorevole che dopo un po’ abbiamo registrato legalmente l’associazione, che oggi conta circa 1.000 soci tutti sardi. Organizzando varie attività, siamo entrati in contatto con un gruppo di amici a Cagliari che festeggiavano lo Shabbat: era composto da 3 israeliani e da 4 o 5 sardi che stavano facendo la conversione. A poco a poco il gruppo si è ampliato, e abbiamo conosciuto ebrei da ogni parte del mondo: italiani, israeliani, francesi, americani, e anche un tunisino, che si trovavano a Cagliari per motivi di studio o lavoro. C’erano anche coppie miste, di ebrei fidanzati o sposati con sardi. Infine, 5 anni fa è avvenuta la prima accensione all’aperto delle candele di Chanukkah, nel Quartiere Castello di Cagliari. Pensavamo che saremmo stati in pochi, e invece vennero circa 300 persone.
• Quanti sono gli ebrei in Sardegna oggi? Non ci sono censimenti, ma di quelli attivi nelle nostre attività ce ne sono almeno 20 a Cagliari, e una quarantina in tutta la Sardegna. Siamo entrati in contatto con ebrei residenti in varie località, tra cui Oristano, Alghero, Sassari, Nuoro e Siniscola. Non c’è una comunità ebraica vera e propria, ma c’è un nucleo ebraico che sta tornando dopo oltre 500 anni dalla cacciata. Inoltre, nell’ultimo periodo ci sono diversi ebrei francesi che si stanno trasferendo qui, perché in Francia non si trovano più bene.
• In che rapporti siete con le istituzioni, ebraiche e non? Siamo in contatto con l’UCEI e con la Comunità Ebraica di Roma, tanto che per 5 anni di fila abbiamo organizzato a Cagliari la Giornata Europea della Cultura Ebraica. Le istituzioni locali ci trattano con rispetto: oggi abbiamo una sede dentro il Quartiere Castello anche grazie ad un contributo della Regione Sardegna. Di recente abbiamo allestito, in collaborazione con il Comune di Cagliari, una mostra sulla pittrice Eva Fischer. Inoltre, sempre il Comune ci sta aiutando a realizzare un piccolo museo di cultura ebraica.
Tra le nostre attività, a volte organizziamo visite guidate nel vecchio quartiere ebraico, per raccontare la vita che vi si faceva prima del 1492. Un altro nostro progetto è il Juharia Karalitana, una piattaforma digitale che documenta i nomi e le città d’origine degli ebrei vissuti a Cagliari tra il ‘300 e il ‘400.
• La Sardegna è tra le regioni italiane con più affiliati al BDS. Avete mai subito discriminazioni? Antisemitismo non ne abbiamo mai subito. All’Università di Cagliari ci sono un po’ di esaltati, oltre all’associazione Sardegna-Palestina che ha molti soldi, ma sono corpi estranei al sentimento popolare. La cultura ebraica riceve molta simpatia da parte dei sardi, che si sentono molto vicini ad essa. Va aggiunto che l’Università ha un rapporto stretto con atenei israeliani in termini di collaborazioni, e ci sono anche diverse aziende israeliane che operano qui, soprattutto nei campi dell’informatica e dell’agricoltura.
(Bet Magazine Mosaico, 24 settembre 2021)
Aya oggi potrà abbracciare Eitan: Pronta la casa del fratello a Zikhron
Lo zio paterno vive in una cittadina a 80 chilometri a nord di Tel Aviv. Le due famiglie hanno concordato il silenzio.
di Sandro Barberis
La zia paterna Aya Biran potrà riabbracciare già oggi il nipotino Eitan. Sarà la 41enne medico di Travacò ad avere per prima a disposizione i giorni di custodia (inizialmente 5 per lei, poi tre a testa tra le due famiglie) in Israele del nipotino di 6 anni ed unico superstite della strage del Mottarone. Tra le due famiglie in lotta c’è un accordo di non belligeranza. Quindi niente interviste, niente dichiarazioni. «Per il bene del bambino» fanno sapere. Da Israele filtrano però notizie. Un caso diventato troppo mediatico per poter sparire con un colpo di spugna.
• L’appoggio dal fratello di Aya
Aya Biran ha un punto d'appoggio, un porto sicuro, ad 80 chilometri a nord di Tel Aviv. Si tratta della cittadina di Zikhron Ya'aqov, dove vive il fratello Hagai Biran. Un luogo dove Eitan potrebbe quindi passare delle giornate in compagnia dei due zii paterni, fratelli del padre e medico Amit morto il 23 maggio nella strage del Mottarone. A breve Aya potrebbe essere raggiunta dal marito Or Nirko, ieri ancora nella casa di famiglia a Travacò Siccomario. Eitan passerà tre giorni con il ramo paterno della famiglia, e poi di nuovo tre giorni con il ramo materno dei Peleg che vivono in un sobborgo elegante di Tel Aviv. Un'alternanza che durerà fino all'8 ottobre quando è prevista la ripresa delle udienze sulla richiesta di Aya di rimpatriare il bambino. Un'imposizione al silenzio rispettata subito dalle due famiglie. Aya Biran, la zia pavese, ieri all'uscita del tribunale di Tel Aviv è stata bombardata di domande dai cronisti. Nessuna risposta. Così come non hanno risposto nemmeno Shmuel Peleg, il nonno accusato del rapimento in Italia, e la figlia e zia di Eitan Gali Peleg. Entrambi sono stati intercettati dai media israeliani, con cui hanno interloquito spesso nelle ultime due settimane, ma hanno rispettato la consegna del silenzio stampa. Accordo valido anche in Italia. Or Nirko, marito di Aya, ieri era ancora a Travacò con le sue due figliolette. «C’è un accordo tra le famiglie per mantenere da questo momento il silenzio stampa. Non so fino a quando durerà» ha spiegato proprio lo zio di Travacò davanti alla villetta di famiglia. La casa è quella alla frazione Rotta dove ha vissuto anche Eitan dallo scorso 10 giugno, quando è stato dimesso dall'ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino, fino all'11 settembre quando è stato portato via dal nonno materno Shmuel Peleg. Eitan avrebbe dovuto iniziare la scuola entrando in prima elementare all’istituto delle Canossiane di Pavia il lunedì seguente, continuando un percorso dato che aveva già frequentato la materna dalla suore di corso Garibaldi.
• «Eitan ora è al centro»
Gli unici commenti per ora sono arrivati dall'Italia dove gli avvocati dei Peleg li hanno descritti «contenti» della decisione scaturita da Tel Aviv. Una conclusione - ha detto l' avvocato Sara Carsaniga, legale sul fronte civile di Shmuel Peleg - che «va in un senso molto positivo, perché il giudice ha posto l'interesse del minore al centro, per un rapporto paritario con entrambi i rami familiari, rapporto che al ramo materno è stato sempre negato». Il bambino, ha proseguito il legale, «ha una famiglia composta da due rami e tutti hanno diritto di capire assieme cosa è meglio per il minore». «Noi ora - ha sottolineato - accogliamo con gioia il fatto che il giudice in Israele sta applicando la Convenzione dell'Aja nell'interesse del minore», ha aggiunto. Nelle «due ore di udienza» a Tel Aviv - ha spiegato - «si è posto al centro il bambino ed è stata data una rappresentazione della situazione e del suo interesse». Da parte dei Biran, appare intatta la speranza che nelle udienze di ottobre sia stabilito che il bambino torni in Italia in base alla Convenzione dell'Aja sulle sottrazioni internazionali di minori.
Ieri in aula comunque il confronto tra i due rami della famiglia di Eitan sarebbe durato due ore e mezza, il bambino non c’era. «Al centro di tutto c’è finalmente il bene del bambino, le due famiglie ora ce l’hanno ben chiaro» hanno riferito i legali israeliani di entrambe le famiglie.
(La Provincia Pavese, 24 settembre 2021)
Da Washington un miliardo in più per l'lron Dome
Israele avrà il miliardo di dollari che ha chiesto agli Usa per rifornire di missili intercettori le sue batterie Iron Dome impiegate massicciamente lo scorso maggio nell'escalation con Hamas a Gaza. La presidente della commissione per gli stanziamenti della Camera, Rosa DeLauro, mercoledì ha presentato un progetto di legge ad hoc per il finanziamento straordinario. Si aggiunge al miliardo e 600 milioni di dollari già stanziati dagli Usa per Iron Dome e ai tre miliardi di dollari di aiuti annuali.
Ma Israele non canta vittoria: la corrente più progressista dei Democratici, guidata dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortes, si è opposta con forza e per giorni, ricordando le vittime palestinesi degli attacchi aerei israeliani su Gaza. «la maggioranza dei Dem sostiene Israele ma il gruppo radicale si sta facendo più forte», ha commentato il ministro della Diaspora, Nacham Shai.
(il manifesto, 24 settembre 2021)
Eitan, intesa in tribunale: - metà settimana con i Peleg, l'altra metà con la zia Aya
Il bimbo per ora resta in Israele. Nuova udienza l’8 ottobre
TEL AVIV - Shmuel, Etty, Gali. I Peleg arrivano per primi ed entrano insieme nell'aula. Aya Biran è accompagnata dall'avvocato - il marito Or è ancora in Italia - e dice solo poche parole: «Sono preoccupata per Eitan, voglio che ritorni a casa il più presto possibile».
E per questa definizione di «casa» che le famiglie si sono presentate ieri mattina davanti alla giudice Iris Ilotovich Segal, che ricopre la carica nella corte di Tel Aviv per la famiglia dal 2017. Dopo due ore e mezza le porte si riaprono con quello che i legali di tutte e due le parti definiscono un compromesso per il bene del bambino sopravvissuto all'incidente sul Mottarone: «Passerà metà della settimana con Aya (oggi sarà con lei, ndr) e l'altra metà con i Peleg», non specificano dove, di sicuro non in una struttura protetta. Fino all'8 di ottobre quando è prevista l'udienza - già estesa ai due giorni successivi - sull'istanza presentata dalla zia materna ( e nominata tutrice legale dal tribunale italiano) che chiede il rientro del piccolo a Travacò Siccomario (Pavia) sulla base della convenzione dell'Aia e di quello che prevede per il sequestro internazionale di minori.
È su questo punto - spiega Yuval Sasson al quotidiano Haaretz da ex capo dell'ufficio questioni internazionali per il procuratore dello Stato - che ruotano tutti gli elementi legali. «L'affidamento è complicato. I genitori erano israeliani, Eitan è vissuto in Italia da quando aveva un mese. Ma l'8 ottobre il tribunale dovrà affrontare e poi decidere dove debba essere discussa la custodia. Se c'è stata un'azione come un rapimento, di solito l'approccio è che il bambino venga rimandato nel Paese da dove è stato portato via e lì venga definito a chi affidarlo. In generale Israele vuole rispettare la sovranità dell'Italia e del suo sistema legale perché si aspetta lo stesso trattamento».
Aya e Shmuel - indagato dalla Procura di Pavia per sequestro di persona e che è stato interrogato dalla polizia israeliana - sono stati i due parenti ammessi all'udienza a porte chiuse. Non hanno dovuto rispondere a domande della giudice - laureata all'università Bar-Ilan, è stata anche docente - che si è basata sugli interventi e i documenti presentati dai legali. Gli avvocati chiedono ai media di rispettare in queste due settimane la privacy delle famiglie, che si impegnano «al silenzio stampa» dopo un periodo di presenza costante sui media internazionali.
Lo stratega della comunicazione assunto dai Peleg è andato all'offensiva da quando il nonno lo ha portato a Tel Aviv sabato 11 settembre con un volo privato via Lugano: interviste nei programmi televisivi più seguiti a lui, alla nonna Etty e a Gali, sorella di Tal, la madre di Eitan morta sul Mottarone. È Gali - uscita dall'udienza tremando e con lo sguardo fisso a terra - ad aver iniziato la pratica di adozione in Israele. Assieme ai genitori (divorziati) ha ripetuto che «Eitan non è stato rapito, è ritornato a casa, deve crescere in questo Paese». I Peleg si sono opposti alla decisione di iscriverlo a una scuola cattolica, la scelta era però già stata fatta dal padre e dalla madre prima della strage sulla funivia. Fino ad ora i Biran avevano potuto vedere il bambino di 6 anni, che è cittadino italiano, solo una volta una settimana fa. Haggai - fratello di Aya e Amit, morto nell'incidente - lo aveva incontrato a casa di Shmuel. Aveva riconosciuto che fosse «in buone condizioni di salute» ma i legali avevano espresso la sua preoccupazione che fosse in atto «un lavaggio del cervello» con idee «inculcate nella testa del piccolo».
(Corriere della Sera, 24 settembre 2021)
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Caso Eitan, l'intesa è a tempo. Ora il caso agita (anche) Israele
di Fiammetta Martegani
Rimandata all'8 ottobre la prossima udienza sull'affidamento del piccolo Eitan Biran, sei anni, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone. Fino ad allora, come stipulato dal giudice Iris Ilotovich Segal nel corso della prima udienza - tenutasi ieri mattina, a porte chiuse, presso il tribunale di Tel Aviv - il bambino resterà in Israele, sotto la supervisione dell'equipe medica dell'ospedale Tel Hashomer e in doppio affidamento - alternato - tra le due famiglie che hanno, provvisoriamente, dato il mutuo consenso. Non sono mancate le tensioni in aula tra le due parti, rappresentate dalla zia paterna Aya Biran - la prima a cui è cui stata affidata la custodia temporanea - e il nonno materno Shmuel Peleg accusato di sequestro di persona per aver portato in Israele il nipote, senza il consenso di Biran, sua tutrice legale per decisione del tribunale di Torino.
Proprio su questo verte il caso, poiché Peleg avendo sottratto il nipote all'insaputa della tutrici stando alla Convenzione internazionale dell'Aia avrebbe compiuto "sottrazione di minore", ragion per cui, tornato in patria, è stato immediatamente interrogato dall'unità antifrode che lo ha rilasciato a condizione che rispettasse gli arresti domiciliari. In sua difesa, l'avvocato Yuval Sasson sostiene che l'imputato, mentre era in Italia per occuparsi del funerale della propria figlia, sia stato messo di fronte al fatto compiuto dell'affidamento paterno senza che gli venisse permesso di consultare alcun legale. Il caso è particolarmente complesso in quanto nessuna delle famiglie ne ha la custodia "naturale"e le precedenti sentenze, in merito alla Convenzione dell'Aia, solitamente affrontano dispute tra genitori in vita. Alla luce di tutte le prove che verranno fornite ed esaminate nelle prossime settimane, i giudici israeliani decideranno, definitivamente, le sorti del piccolo. Nel frattempo i legali delle due famiglie stanno cercando di fare il possibile per portare le parti a un compromesso e porre fine a questo conflitto ai danni del bimbo.
In attesa del verdetto finale il Paese è già diviso in due. Da una parte c'è chi vede nella figura della zia e della famiglia rimasta in Italia - in cui il bambino vive da quando ha un mese - una casa accogliente e sicura, dove potrà finalmente trovare protezione e conforto, e continuare la prima elementare; iniziata una settimana prima che avvenisse il sequestro. Dall'altra chi reputa Israele, "madrepatria" di Eitan e dei suoi genitori, l'unico luogo possibile in cui ricostruire le proprie origini e la propria identità di cittadino ebreo israeliano.
Su questo punto, in particolare, non sono mancati dibattiti tra i media locali, anche questi divisi su due fronti. Nei giorni scorsi i due principali canali televisivi (Chanel 12 e 13) hanno intervistato a lungo i membri della famiglia materna per mostrare il loro punto di vista che insiste nell'appartenenza del piccolo allo Stato ebraico e vede nell'Italia solo una breve tappa - seppur accogliente - della sua vita.
Tuttavia Shany Littmaan, editorialista del quotidiano Haaretz, ha dichiarato che la retorica dei due programmi - e della stessa famiglia Peleg - ha strumentalizzato il legame unico tra Israele e l'ebraismo, per legittimare il rapimento del bimbo, sperando, attraverso quest'operazione retorica, di fare breccia sull'opinione pubblica e, soprattutto, sui giudici israeliani: «Questo non è affatto il giudizio di Salomone - ha commentato la giornalista - È il terribile abuso di un bambino sfortunato». Qualunque sarà il verdetto, infatti, che si decida per il rientro in Italia o si stabilisca di farlo rimanere in Israele, questo processo potrebbe causare - e su questo concordano tutti i media locali - un ulteriore trauma per il piccolo Eitan, dopo tutto quello che ha già subito.
(Avvenire, 24 settembre 2021)
Come funzionano i servizi segreti israeliani
di Andrea Muratore
Israele è per antonomasia la nazione associata al mondo delle operazioni coperte, dell’intelligence e dello spionaggio. Fin dalla sua nascita, nel 1948, lo Stato ebraico si è costituito come “caserma” del Medio Oriente e come nazione fortemente pronta a respingere sfide e minacce sfruttando gli strumenti di hard power a sua disposizione. L’intelligence ha più volte svolto il ruolo di punta di lancia della sua proiezione.
• UNA STRUTTURA TRIPARTITA L’intelligence di Israele ha una struttura tripartita, che differenzia in forma chiara tra sistemi legati allo spionaggio interno ed estero e apparati militari. Sul primo fronte si collocano l’intelligence per l’estero, il celebre Mossad, e la sua controparte interna, lo Shin Bet, mentre l’Aman è il corpo di intelligence militare dell’Israel Defence Force. L’intelligence agisce al servizio del governo di Tel Aviv e su sua iniziativa promuove le proprie operazioni, ma al contempo è strettamente guardata a vista da una serie di contropoteri che non solo garantiscono il diritto delle opposizioni a essere informate sui fatti, come accade negli Usa e in Italia, ma permettono anche che la Knesset, il parlamento israeliano, possa avere voce in capitolo. Di fatto il Mossad e gli altri apparati dell’intelligence dello Stato ebraico, nonostante una nomea che spesso li paragona a corpi autonomi dotati di proieizione pressoché indipendente e sregolata, non agiscono mai senza il beneplacito degli apparati politici e securitari di Tel Aviv. E proprio la loro pervasività d’azione segnala quanto il loro apporto sia fondamentale per la strategia nazionale del Paese.
• LO SHIN BET, PRESIDIO CONTRO IL TERRORISMO La proiezione parte dalla garanzia della sicurezza interna. E Israele non potrebbe essere la vera e propria fortezza che è diventata negli anni senza il ruolo di scrutinio del servizio interno di difesa e controspionaggio. Esso è lo Shabak, meglio conosciuto come Shin Bet (abbreviazione di “Servizio di sicurezza”). Lo Shin Bet opera nell’analisi previsionale, nella controinsorgenza, del monitoraggio contro criminalità organizzata e, soprattutto, terrorismo in Israele e nei territori occupati del West Bank. Il cuore della sua attività sta nel “dipartimento arabo” impegnato nell’antiterrorismo e il controspionaggio sia interno al Paese che nei territori della West Bank come di Gaza. Esso rappresenta il pivot di un sistema a cui si aggiunge un dipartimento chiamato a monitorare i movimenti radicali ed estremisti della politica israeliana per vegliare sulle minacce all’ordinamento del sistema-Paese e un raggruppamento dedicato alla difesa di infrastrutture critiche, luoghi di aggregazione, palazzi istituzionali, figure di vertice degli apparati di potere. A queste sezioni di Intelligence si va ad aggiungere un’unità operativa, la Yamas, una forza di manovra formalmente inserita nell’organico della polizia di frontiera che è di fatto sottoposta alla direzione operativa dello stesso Shin Bet. I suoi agenti operano prevalentemente in borghese, sfruttando la loro professionalità per agire laddove situazioni di pericolo e minaccia rischino di verificarsi.
• IL BRACCIO ARMATO DELL'INTELLIGENCE L’Aman e il Mossad sono il vero e proprio asset operativo su cui si basa la proiezione di Israele come grande potenza dell’intelligence globale. Lo Stato ebraico conta apertamente sul servizio militare e su quello estero per compiere operazioni al limite, spericolate e spesso “corsare” e facilitare la sua azione negli scenari caldi del Medio Oriente. L’Aman, forse il meno noto tra i gruppi di intelligence, ha però un ruolo fondamentale come raccoglitore e elaboratore di dati e informazioni sfruttate appieno dalle Idf nel progettare campagne militari e operazioni coperte. Negli ultimi anni ha aumentato la sua capacità operativa anche e soprattutto nel campo della cyberintelligence. Spicca in tal senso l’Unità 8200, dedicata alle operazioni nel dominio cyber, definita da John Reed del Royal United Service Institute come la migliore agenzia tecnica di signal intelligence al mondo, protagonista sia della definizione della cyber-difesa degli asset israeliani sia di vere e proprie operazioni offensive come il raid di Stuxnet destinato contro il nucleare iraniano del 2010.
• COS'È E COME FUNZIONA IL MOSSAD Il Mossad è il vero e proprio sovrano dei servizi segreti israeliani. Nella sua storia di oltre settant’anni ha promosso operazioni coperte, omicidi mirati, sommovimenti e infiltrazioni per realizzare sul terreno gli obiettivi di Israele. Il Mossad opera su iniziativa del primo ministro di Israele e ha al suo interno dipartimenti per le operazioni sul terreno, centri di raccolta informativa e unità che si dedicano alla destrutturazione delle reti economiche e finanziarie dei terroristi (operazione Harpoon) e perfino un fondo di venture capital che nella massima segretezza promuove e finanzia start-up tecnologiche per acquisirne le competenze. Dall’infiltrazione della super-spia Eli Cohenai vertici del regime siriano negli Anni Sessanta alla guerra “ombra” condotta negli ultimi anni contro l’Iran e il suo programma nucleare, il Mossad ha registrato una serie di colpi importanti: la collaborazione coi servizi segreti francesi ha permesso la conquista di segreti nucleari, lo stanziamento di agenti in Europa la vendetta dopo la strage alle Olimpiadi di Monaco 1972 e la caccia all’uomo contro i membri del gruppo palestinese Settembre Nero, le azioni dalla Tunisia al Libano la caccia all’uomo contro i membri di Hamas e Hezbollah. Una sequela notevole di azioni a cui si sono aggiunti fallimenti, come l’incapacità di prevedere spesso la capacità di reazione delle truppe dei gruppi libanesi e palestinesi, e che hanno avuto il loro compimento negli ultimi anni con la costruzione di un rapporto diretto e di scambio di informazioni tra Tel Aviv e le monarchie del Golfo. Vera e propria consacrazione della dottrina della difesa in profondità della sua integrità e dei suoi interessi che Israele persegue grazie ai suoi strumenti di hard power. Impossibili da sdoganare senza la proiezione e le informazioni garantite dai suoi servizi.
(Inside Over, 24 settembre 2021)
I tunnel che attraversano l’Israele di Rutu Modan
di Emilio Cirri
Se si dovessero elencare gli autori contemporanei che più sono stati in grado di narrare la recente storia di Israele e il suo rapporto con le tragedie del popolo ebraico, Rutu Modan dovrebbe avere sicuramente un posto di rilievo. Con il suo mix unico di umorismo caustico e sensibilità emotiva, un tratto impregnato di ligne claire, una straordinaria capacità di costruzione della tavola e di storytelling, l’autrice israeliana ha raccontato il dramma e le contradizioni delle infinite guerre che coinvolgono il suo paese e stravolgono la vita del suo popolo (con Exit Wounds, tradotto per Coconino col titolo Unknown/Sconosciuto, premio Eisner come miglior graphicnovel e nominato Les Essentiels d’Angoulême nel 2008) e la complessa eredità lasciata dalle persecuzioni naziste e dalla diaspora (ne La Proprietà, premio Gran Guinigi nel 2013). In questa produzione, Tunnel si inserisce come nuovo capitolo di un ideale percorso socio-politico che, partendo da Israele, racconta gli stravolgimenti del Medio Oriente, sconvolto dalla guerra di conquista dell’Isis, e di come i rapporti di forza in questa parte di mondo (e ben oltre) siano più intrecciati e complessi di quanto si pensi. Partendo dal ruolo che il commercio (illegale) di reperti archeologici e la connivenza di esperti, studiosi e mercanti d’arte, hanno avuto nel finanziamento dello Stato Islamico, Modan costruisce una commedia degli equivoci con tinte di noir e di avventura che attraverso l’ironia restituisce l’immagine, unica e controversa, del proprio paese. Come nei lavori precedenti, le vicende famigliari hanno un ruolo centrale: è la voglia di rivalsa a spingere Nili Broshi, figlia del famoso professor Israel Broshi, a cercare nuovamente quell’Arca dell’Alleanza che il padre stava per scoprire. Il fatto che le coordinate di questo Sacro Cimelio lo collochino al di là del muro antiterrorismo eretto da Israele per sancire il confine con Gaza mette in moto eventi incontrollabili, che coinvolgono mercanti d’antichità senza scrupoli, ebrei ultraortodossi, goffi terroristi islamici, nonché il fratello Nimrod, accademico succube dell’influenza del direttore del dipartimento Rafi Sarid, ex collaboratore del padre dei due e segnato da un infantile complesso di inferiorità nei confronti di Israel. La struttura del racconto è quella tipica del genere, ricca di misteri e colpi di scena, alternando momenti divertenti ad altri di azione ad altri ancora di commozione. Rispetto alle opere precedenti, Modan decide di puntare tutto su una comicità che va dallo slapstick al satirico e corrosivo, lasciando da parte le punte di grande emotività toccate ne La Proprietà: una lente narrativa che non risparmia nessuna delle parti e che, attraverso la risata, lancia messaggi di denuncia forti e chiari. Ogni personaggio appare inizialmente con un ruolo ben definito, quasi stereotipato e pensato come bersaglio per la critica a un ben preciso modello umano (l’arrivista frustrato, l’avido mercante, il radicale ultraortodosso, il capriccioso compratore occidentale, i jihadisti ottusi); nel corso dell’opera tuttavia ognuno di loro segue un percorso di crescita, di realizzazione, anche di rovina. Un elemento dinamico che sicuramente giova al racconto e che contrasta con una trama, che in alcuni punti sembra arenarsi e non trovare appigli per procede in maniera più spedita. A dare spessore e fluidità alla storia ci pensa una regia chiara e certosina, realizzata (come da prassi per l’autrice) con l’aiuto di veri attori, che vengono rappresentati grazie a uno stile più stilizzato rispetto ai precedenti lavori, in cui la linea chiara appresa da Hergè e Jacobs viene contaminata dall’espressionismo dell’underground USA. Questa scelta, se da una parte riduce l’eleganza e la tenerezza raggiunte in La proprietà, dall’altra esalta in chiave comica le reazioni esagerate dei protagonisti (occhi spalancati come in un cartoon, lacrime che si fanno dense come melassa). Se confrontato con altri lavori, Tunnel appare certamente fin troppo denso e carico di tematiche: i mille rivoli che si disperdono dalla trama principale vengono spesso lasciati inespressi, e questo dà all’opera un senso di minor coesione, quasi di incompiutezza. Anche il climax finale e la risoluzione appaiono eccessivamente forzati, quasi a voler raccogliere quanto più possibile di quello che è stato seminato, non riuscendoci. Però forse anche questi difetti possono offrirci una chiave di lettura possibile, un’immagine frammentata di una realtà particolare molto complessa e a noi non pienamente chiara come quella israeliana, che si interfaccia con una macrorealtà (regionale, ma anche mondiale) a sua volta percorsa da mille tensioni e profondi cambiamenti. Solo una grande autrice come Rutu Modan, quando anche non al suo meglio, può riuscire a farci ridere, a farci riflettere e a farci discutere.
(Lo Spazio Bianco, 24 settembre 2021)
Covid, il 25% delle famiglie israeliane a rischio insicurezza alimentare
Uno studio della organizzazione Leket mostra che due milioni di persone non raggiungono livelli “sufficienti” sul piano nutritivo. Pandemia e prezzi elevati fra i fattori determinanti. Attesi nuovi sostegni dal governo. Mons. Marcuzzo: fondamentale rispondere al problema occupazionale, turismo e pellegrinaggi ancora fermi. E la situazione in Palestina e Gaza è ancora peggiore.
GERUSALEMME - Il 25% circa delle famiglie israeliane con figli a carico sperimenta condizioni di insicurezza alimentare, per un totale di circa due milioni di persone che non raggiungono livelli ritenuti “sufficienti” sul piano nutritivo. È quanto emerge dal rapporto annuale elaborato dagli esperti di Leket, la più autorevole ong anti-povertà del Paese per servizi assistenziali in materia di cibo. Secondo l'organizzazione, 774mila bisognosi sono bambini, pari a un terzo dei minori in tutto Israele. Almeno 663mila famiglie non dispongono poi di risorse sufficienti per soddisfare le esigenze quotidiane in tema di dieta.
“Un dato che stupisce” sottolinea ad AsiaNews l’ex vicario patriarcale di Gerusalemme dei Latini mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, secondo cui “la situazione in Israele è comunque migliore rispetto alla Palestina o Gaza”, dove i tassi d'indigenza e povertà sono “drammatici”. Sul livello di benessere delle famiglie “ha influito l’emergenza sanitaria innescata dal coronavirus”, soprattutto a livello lavorativo per quanti operano “nel settore del turismo o dei pellegrinaggi in Terra Santa. In questo periodo critico, il governo è intervenuto per quanto possibile nel tentativo di rispondere ai bisogni”.
Secondo lo studio, il costo elevato della vita e la crisi economica, acuita dalla pandemia di Covid-19 con le restrizioni agli spostamenti e alle attività economiche, sono i fattori che hanno contribuito ad accrescere l’insicurezza alimentare. Il coronavirus avrebbe spinto 155mila individui in una condizione d'indigenza, quasi al limite di una soglia di povertà mai sperimentata prima. Eran Weintrob, amministratore delegato di Leket, spiega che i nuclei familiari più colpiti sono quelli “a basso reddito, già in sofferenza prima della pandemia”.
“Sebbene il governo abbia stanziato 100 milioni di Nis (circa 26 milioni di euro), il denaro necessario per risolvere questa situazione critica - avverte - è di un miliardo”. Intanto il ministero israeliano del Welfare ha promesso di distribuire ulteriori fondi per venire incontro alle esigenze dei più bisognosi, ma sinora si parla solo di promesse sulla carta.
Un rapporto del Centro di ricerca e informazione della Knesset (il Parlamento israeliano) di agosto afferma che alla fine del 2020 solo 200mila famiglie soffrivano di carenza di cibo. Un dato che è, in realtà, tre volte inferiore alla cifra reale come controbatte un’inchiesta dettagliata pubblicata dal Times of Israel. “Vi sono 200 enti di beneficienza - prosegue Weintrob - che sostengono ogni giorno 80mila famiglie in condizioni di insicurezza alimentare. Queste associazioni sono in attesa dei finanziamenti governativi, per far fronte ai crescenti bisogni”.
All’insicurezza alimentare si lega infine il problema disoccupazione, che ha visto oltre un milione di persone escluse dal mercato del lavoro durante il periodo più buio della pandemia e, ancora oggi, a dispetto di una timida ripresa centinaia di migliaia di persone sono in cerca di lavoro. “Dal turismo religioso, alle guide, i trasporti, gli addetti ai luoghi santi - conferma mons. Marcuzzo - sono tantissime le famiglie che hanno sofferto in quest’ultimo periodo. Qualcosa è ripartito a livello di turismo, ma stiamo parlando di viaggi individuali o spostamenti interni mentre i pellegrinaggi restano ancora bloccati". La pandemia ha inferto un colpo durissimo, conclude il religioso, "e ora stiamo cercando per quanto possibile di ripartire”.
(AsiaNews.it, 24 settembre 2021)
Israele: i primi 100 giorni di bugie e fallimenti del Governo Bennet
Se un giornale importante e notoriamente ostile a Netanyahu come Yedioth Ahronoth sbatte in prima pagine un articolo del genere, un motivo ci sarà.
di Franco Londei
Questa mattina su Yedioth Ahronoth, notoriamente progressista e non certo amico di Benjamin Netanyahu, è apparso un articolo a firma Arye Erlich che non ti aspetteresti mai da tale testata. Parla dei primi 100 giorni del Governo di Naftali Bennet che descrive, udite udite, come un «governo costruito su bugie e inganni». Intendiamoci, non che si possa fare diversamente considerando che, come ci racconta l’autore giusto per dirne una, «il partito politico del primo ministro Naftali Bennett ha speso decine di migliaia di shekel in spese legali nel tentativo di impedire al partito islamista Ra’am di partecipare alle ultime elezioni parlamentari, ma ora Ra’am è un membro stimato della coalizione». Scrive ancora Arye Erlich: «i politici mentono, è nella loro natura. Molti primi ministri in passato hanno attuato politiche diverse dalle loro promesse elettorali. Ma mai un primo ministro si è spianato la strada al potere con bugie [come ha fatto Bennet n.d.r.]». Erlich ricorda anche che un “periodo di grazia” si concede ad ogni governo, quei primi 100 giorni nei quali si aspetta di vedere la linea che imporrà alla sua politica. Ebbene, scaduti i primi 100 giorni «i fallimenti di questo governo sono evidenti, e sono ancora più spettacolari di quanto alcuni temessero». Scrive ancora Arye Erlich: «in una democrazia, la maggioranza degli elettori determina il proprio governo. Milioni di israeliani hanno votato quattro volte negli ultimi due anni e Bennett non è mai emerso come vincitore né si è nemmeno avvicinato ad esso. In uno di questi scrutini il suo partito Yamina non è riuscito nemmeno a raggiungere la soglia minima richiesta per entrare alla Knesset». E poi ci va giù durissimo quando afferma che: «il voto dei milioni di sostenitori del Likud e dei partiti ultraortodossi è stato messo da parte come se le loro voci non avessero peso». E ancora: «il ministro delle finanze Avigdor Liberman ha promesso di caricare gli haredim sui carri e di buttarli via come spazzatura. Ora il governo sta portando a compimento questo impegno contro coloro che vivono una vita di fede e di culto». E infine dice quello che tutti realmente pensano e cioè che «il governo non promuove nessuno dei valori che gli elettori hanno chiesto loro. La coalizione è venuta al mondo per non fare altro che rimuovere Benjamin Netanyahu dall’incarico». Perché ho raccontato tutto questo? Perché se una testata importante come Yedioth Ahronoth che non ha mai dimostrato simpatia per Netanyahu, sbatte in prima pagina un articolo del genere vuol dire che la situazione è davvero al limite e anche dalle parti della sinistra se ne sono accorti. La chiusura dell’articolo poi è senza appello: «questa è l’antitesi di una coalizione unitaria, priva di ogni valore di verità e responsabilità. Deve essere sciolta e prima è, meglio è».
(Rights Reporter, 23 settembre 2021)
Il congresso americano rifiuta il finanziamento di Iron Dome: un voto che apre prospettive allarmanti
di Ugo Volli
Gli Stati Uniti non vogliono più finanziare Iron Dome, il sistema d’arma difensivo che ha garantito la sicurezza di Israele nell’ultimo decennio. Lo ha deciso la Camera dei rappresentanti, subendo il ricatto della “squadretta” dell’estrema sinistra del partito democratico composta da deputati come Ilhan Omar, Alexandria Ocasio-Cortez, Mark Pocan, Rashida Tlaib, Ayanna Pressley, tutti sotto l’ala protettiva dell’ex candidato alla presidenza Bernie Sanders. Martedì scorso si trattava di votare un provvedimento economico di grande importanza per il rilancio dell’economia dopo il Covid. In questo provvedimento era contenuto il budget per rifornire Israele dei razzi antimissile Tamir che sono lo strumento con cui Iron Dome concretamente abbatte i missili diretti contro le città israeliane. Il costo stimato di ognuno di questi razzi è intorno ai 20 mila dollari; ma a causa della necessità di mirare a ogni missile nemico con almeno due Tamir per sicurezza e anche dei colpi a vuoto o inutili, si stima che ogni abbattimento costi circa 100 mila dollari. Ne vale la pena, visto che si tratta di vite umane, di case, di scuole; ma è un costo enorme per Israele. Bisogna aggiungere inoltre che in seguito agli accordi con gli Stati Uniti i Tamir si producono solo in Usa, non in Israele.
Dunque il finanziamento previsto nel progetto di legge era molto consistente, circa un miliardo di dollari, che dovrebbe consentire ai costi attuali circa diecimila abbattimenti: sembrano tanti ma sono decisamente pochi in proporzione ai 20.000 razzi in mano a Hamas e ai 130 mila che si dice stiano nei depositi di Hezbollah. Vale la pena di aggiungere che questi soldi avrebbero sì garantito la sicurezza di Israele, ma sarebbero stati spesi in Usa, dando lavoro all’industria aeronautica americana. L’ultima considerazione, ma forse la più importante è che i Tamir e tutto il sistema Iron Dome sono solo armi difensive, che servono a salvare vite umane, non a distruggerle. E non si tratta solo di vite israeliane: senza l’antimissile Israele sarebbe costretto a contrattaccare le basi degli aggressori in maniera molto più energica per limitare le stragi che farebbero i terroristi se non fossero fermati dall’antimissile, trascurando tutte le procedure che oggi servono a proteggere i non combattenti a Gaza. Il risultato sarebbe una guerra senza limiti, con costi umani terribili da entrambe le parti.
La squadretta di estrema sinistra non si è fatta impressionare da queste considerazioni e ha minacciato di far bocciare l’intero progetto di legge, con gravi conseguenze economiche, se non fosse stato eliminato il capitolo su Iron Dome. E la leadership democratica, volente o nolente, ha piegato la testa e ha obbedito. E’ probabile che, come ha rassicurato il ministro degli esteri israeliano e uomo forte della coalizione di governo a Gerusalemme Yair Lapid, prima o poi il Congresso troverà il modo di restituire questi fondi a Iron Dome. Dopotutto la cifra del miliardo di dollari era stata promessa personalmente da Biden dopo la fine dei combattimenti a Gaza a primavera, e ci sono anche forti interessi economici americani in gioco. Ma il colpo è comunque molto grave. Perché innanzitutto il voto della Camera americana dimostra che non è affatto vero che l’appoggio a Israele sia tornato bipartisan, dopo la chiusura dell’epoca di Netanyahu e Trump, come sosteneva lo stesso Lapid. Esattamente come un anno fa, per Israele si battono i repubblicani, contro Israele l’ala più combattiva del partito democratico; gli altri democratici sono quantomeno tiepidi o incapaci di imporsi. In secondo luogo si vede che l’opposizione a Israele non è umanitaria o pacifista, perché se c’è un sistema d’arma civile e pacifico questo è proprio Iron Dome. Il voto mostra un pregiudizio ideologico, un odio feroce che non si ferma neppure davanti alla prospettiva di vittime civili indifese: per dirla tutta, nel Partito Democratico prevale oggi un antisemitismo bello e buono.
Infine, bisogna ricordare che la realizzazione dell’armamento atomico iraniano è lontana appena qualche settimana, secondo le valutazioni condivise dagli esperti. E’ chiaro che l’America non ha il tempo e la determinazione per fermarlo con mezzi diplomatici, ammesso che ciò sia possibile, e che dunque un ricorso alle armi è probabilmente la sola possibilità. Ma gli Stati Uniti - tutto il suo sistema politico, non solo l’amministrazione balbettante ma anche gli estremisti che comandano al Congresso - non sono affatto disposti a prendersi questa responsabilità. Anzi mostrano l’intenzione chiara di impedire a Israele di provarci. Lo stato ebraico d’altro canto ha un governo debole, confuso, con la presenza di estremisti di sinistra non poi troppo diversi dalla squadretta di Washington. Bennett ha promesso a Biden di informarlo in anticipo di ogni iniziativa militare rilevante.
È probabile dunque che fra un mese o due, quando Teheran farà capire di avere la bomba atomica, nessuno avrà fatto niente per impedirlo e sarà troppo tardi per provarci, Israele si troverà di fronte un nemico mortale, fornito di deterrenza nucleare, e non sarà affatto sostenuto dagli Stati Uniti, anzi sarà oggetto a tentativi di boicottaggio militari come quello di questi giorni. E’ una prospettiva difficilissima. Possiamo solo sperare che sia decisiva la grande capacità di resistenza di Israele e del popolo ebraico, che certo non ha intenzione di subire la sorte dei filo-occidentali dell’Afghanistan. Certamente si preparano tempi difficilissimi.
(Shalom, 23 settembre 2021)
Bahrain, Israele, Emirati Arabi Uniti e Marocco guidano una dichiarazione congiunta al Consiglio per i diritti umani su donne, pace, diplomazia
GINEVRA, 22 set 2021 - Durante la 48a sessione del Consiglio dei diritti umani di mercoledì, l'ambasciatore Yusuf Abdulkarim Bucheeri del Bahrain ha rilasciato una dichiarazione congiunta a nome del Regno del Bahrain, degli Emirati Arabi Uniti, di Israele e del Regno del Marocco, l'Università della Pace e oltre 50 paesi, sul ruolo delle donne nella pace e nella diplomazia. La "Dichiarazione congiunta su donne, pace e diplomazia" ha riaffermato il ruolo fondamentale delle donne nei processi di pace e nella prevenzione dei conflitti e ha invitato tutti gli Stati a impegnarsi con forza per garantire il progresso delle donne nella diplomazia preventiva e nella costruzione della pace. L'Ambasciatore Yusuf Abdulkarim Bucheeri, rappresentante Permanente del Bahrain, ha commentato: "Questa dichiarazione congiunta è coerente con la distinta esperienza del Bahrein in termini di responsabilizzazione delle donne del Bahrein e di rafforzamento del loro ruolo guida nel gettare le basi per la pace e la sicurezza internazionali attraverso la loro notevole e rinomata presenza diplomatica nelle sedi internazionali. Inoltre, trasmette un importante messaggio di pace derivante dai valori profondamente radicati della società del Bahrein, dalla visione della sua saggia leadership e dalla sua esperienza pionieristica nel campo della convivenza pacifica e della tolleranza religiosa". L'ambasciatore Meirav Eilon Shahar, rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha dichiarato: "Questa dichiarazione congiunta è la prima iniziativa formale nell'arena multilaterale tra Israele, Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Marocco. Sono particolarmente lieta che l'importante questione delle donne nei processi di pace sia al centro di questa dichiarazione e credo che sia una testimonianza della nuova dinamica che vogliamo promuovere nella nostra regione e oltre". L'Ambasciatore Omar Zniber, rappresentante permanente del Marocco, ha dichiarato: "L'iniziativa è in linea con la volontà e la necessità di lavorare comunitariamente e attivamente per costruire pace e sicurezza, basate sui rapporti tra le persone e sulle opportunità, mettendo le donne al centro della azione per la costruzione della pace e la risoluzione dei conflitti. Molto lieto come delegazione marocchina di promuovere tale azione." L'ambasciatore Ahmed Aljarman, rappresentante permanente degli Emirati Arabi Uniti, ha osservato: "In linea con la politica nazionale degli Emirati Arabi Uniti sull'emancipazione femminile, abbiamo compiuto notevoli progressi per far avanzare l'agenda delle donne, della pace e della sicurezza, incluso il lancio dell'Iniziativa di Sceicca Fatima per le Donne, la Pace e la Sicurezza e lancio del primo piano d'azione nazionale degli Emirati Arabi Uniti in risposta all'UNSCR 1325 nel marzo 2021. La Missione degli Emirati Arabi Uniti presso le Nazioni Unite continua a lavorare con tutte le missioni su questa importante agenda". L'ambasciatore David Fernandez Puyana, osservatore permanente dell'Università per la pace, ha commentato: "Divenendo parte di questa innovativa iniziativa interregionale, UPEACE adempie al suo mandato" con la chiara determinazione di fornire all'umanità un'istituzione internazionale di istruzione superiore per la pace e con l'obiettivo di promuovere tra tutti gli esseri umani lo spirito di comprensione, tolleranza e pacifica convivenza, di stimolare la cooperazione tra i popoli e di contribuire ad attenuare gli ostacoli e le minacce alla pace e al progresso mondiali, secondo le nobili aspirazioni proclamate nella carta delle Nazioni Unite". (Carta dell'UPEACE, Risoluzione 35/55 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 5 dicembre 1980) La Dichiarazione Congiunta è stata consegnata nell'ambito del Dibattito Generale del Punto 3: Promozione e protezione di tutti i diritti umani, civili, politici, economici, sociali e culturali diritti, compreso il diritto allo sviluppo, durante la 48a sessione regolare del Consiglio dei diritti umani.
(WAM Italian, 23 settembre 2021 - trad. Hussein Abuel Ela)
Eitan: intesa tra le famiglie: resta in Israele fino all'8 ottobre, tre giorni con il nonno e tre con la zia
di Sharon Nizza
La decisione del giudice israeliano dopo la prima udienza a porte chiuse a Tel Aviv. Shmuel Peleg, il nonno materno di Eitan Biran, e la zia paterna Aya Biran, che si contendono il bambino, hanno chiesto il silenzio stampa fino alla ripresa del processo in tre sedute: 8, 9 e 10 ottobre
C'è un'intesa tra la famiglia Biran e la famiglia Peleg per "gestire" la routine di Eitan da oggi all'8 ottobre. Lo hanno annunciato gli avvocati della famiglia Biran al termine della prima udienza al tribunale di Tel Aviv. Al tempo stesso il giudice ha stabilito la ripresa delle udienze a partire dall'8 ottobre per 3 giorni consecutivi. Nel frattempo - hanno aggiunto gli avvocati - le famiglie hanno chiesto il totale silenzio stampa per proteggere il bambino. Allo stato attuale, quindi, Eitan resta in Israele, almeno fino alla ripresa delle udienze.
Al termine dell'udienza durata due ore, gli avvocati Ronen Dlayhau per la famiglia Peleg e Shmuel Moran per la famiglia Biran hanno rilasciato una "dichiarazione congiunta e concordata da entrambe le parti, come suggerito dalla giudice": "La nostra priorità è il bene del bambino, la sua sicurezza e stabilità mentale. La corte ha fissato l'udienza a partire dall'8 ottobre, per tre giorni. Fino ad allora abbiamo raggiunto un accordo sulle disposizioni di visita temporanee del bambino, i cui dettagli non verranno diffusi, per raccomandazione del giudice. Abbiamo concordato anche che non verrà trasmesso nessun dettaglio sulle condizioni del bambino. Ci rivolgiamo alla stampa, in Israele, in Italia e nel mondo perché rispetti la privacy del bambino, e non diffonda informazioni sulle sue condizioni fisiche e mentali. Vi preghiamo di non pubblicare foto del bambino, che ha solo bisogno di silenzio ora. Quello che è stato fatto finora è sufficiente. Dimostrate la sensibilità umana richiesta dal caso. Diffonderemo informazioni al termine delle procedure, ora chiediamo di rispettare il piccolo e le famiglie che stanno già vivendo una situazione tragica. In questa fase tutte le decisioni prese sono concordate tra le parti".
Secondo persone informate dell'accordo, il bambino trascorrerà metà settimana con i Peleg e metà con i Biran. Aya Biran, che aveva ricevuto per oggi una deroga eccezionale, si trova in quarantena fino a sabato. Dopodiché il bambino trascorrerà con lei tre giorni. Eitan potrà alloggiare anche a casa del nonno Shmuel Peleg, indagato sia in Italia che in Israele per il suo sequestro. La Corte in sostanza oggi non ha affrontato la questione del rientro del bambino secondo la Convenzione dell'Aia, ma si è concentrata sul nodo del diritto di visita tra le parti rimandando all'8 ottobre la delibera sul rientro del bambino, che potrebbe essere risolta in tre udienze serrate, secondo quanto affermato dagli avvocati al termine della seduta.
E' una donna, Iris Ilotovich Segal, il giudice incaricato a esprimersi sulla vicenda del piccolo Eitan. Nel luglio 2017 è stata nominata giudice del tribunale della famiglia del distretto di Tel Aviv.
(la Repubblica, 23 settembre 2021)
Eitan, anche Haaretz sta con gli italiani
di Luisa Perri
I presunti sequestratori di Eitan Biran "non meritano la nostra compassione". Così s'intitola un commento pubblicato dal sito di Haaretz che attacca le interviste televisive "piene di empatia" fatte questo week end ai Peleg, i nonni materni del bambino, "persone che non meritano una briciola di comprensione". L'articolo si scaglia contro le domande "ridicole" o "irrilevanti" poste ai due nonni. Sia l'emittente Channel 12 che Channel 13 hanno chiesto se i Peleg non temevano che un giorno il bambino avrebbe scoperto, digitando su Google, i dettagli della battaglia sulla sua custodia. "Ma la domanda - scrive Haaretz- doveva essere un'altra. Dove avete trovato il fegato di sconvolgere la fragile vita di questo bambino che sua zia e la sua famiglia erano riusciti a ricreare, dopo un tale trauma?". Pubblicato in ebraico e in inglese, il giornale di Tel Aviv è un importante riferimento per politici e intellettuali ed è considerato il quotidiano più autorevole in Israele. "I Peleg, che appaiono totalmente laici, sono veramente preoccupati che Eitan si allontani dal giudaismo o da Israele, o stanno usando questa contorta scusa per volgere a loro favore l'opinione pubblica e, ancora più importante, quella dei giudici?", si chiede Haaretz. L'avvocato Zion Amir ha usato il cliché del giudizio di Salomone. Ma questo non è un giudizio di Salomone. È un terribile abuso di un bambino sfortunato".
(Il Secolo d'Italia, 23 settembre 2021)
La voce della Torah: "Chi rapisce un uomo, sia che lo venda, sia che gli si trovi ancora fra le mani, sarà messo a morte" (Esodo 21:16).
Israele rimanderà Eitan in Italia. Un avvocato spiega perché
di Cecilia Scaldaferri
"Eitan verrà rimandato in Italia. Lì, un giudice dovrà decidere, sulla base dell'interesse del bambino, con chi vivrà". È la convinzione di Abraham Dviri, avvocato israeliano specializzato in diritto di famiglia.
Parlando all'AGI, il legale non lascia margini: "La Convenzione dell'Aja sostiene che portare via un bambino dal luogo dove vive è rapimento e il minore deve tornare lì. Non permette di farsi giustizia da soli e richiede che il bambino torni dove vive e lì un giudice è chiamato a decidere".
"Pertanto, io ritengo che Eitan verrà rimandato in Italia e sarà un giudice italiano, con un processo in Italia, a decidere" tra le due famiglie che se lo contendono.
Un parere che l'avvocato Dviri basa sulla sua esperienza, un caso in particolare: "Alcuni anni fa rappresentai un americano di New York, che viveva nella Grande Mela con la moglie israeliana e il figlio. La moglie decise di andare in Israele per le vacanze di Pesach e portare con sé il bimbo, ottenendo il permesso dal marito di stare via tre settimane. Ma trascorso questo tempo, la donna non rientrò negli Stati Uniti e rimase con il figlio in Israele. Ebbene, il giudice israeliano ordinò il rientro del bimbo negli Usa, nel luogo dove viveva".
Cruciale è la tempistica, proprio per il bene del bambino: nel caso di Eitan, non si può sapere quando arriverà la decisione, ma "non ci vorrà molto", ha assicurato Dviri. "La Convenzione dell'Aja dice che la sentenza deve essere emessa molto velocemente" per evitare che la situazione pesi sempre di più sul bambino via via che il tempo passa.
(AGI, 22 settembre 2021)
Rapito” o “Finalmente a casa”? Ora il destino del piccolo Eitan si decide in tribunale
C’è attesa per l'udienza di giovedì 23 a Tel Aviv, fissata dopo l'istanza della zia tutrice che ha chiesto l'immediato rientro in Italia del bambino di 6 anni. In aula le posizioni delle due famiglie.
Quale sarà il destino di Eitan Biran, al momento, non si sa. Il piccolo di sei anni, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, resta conteso tra i nonni materni e gli zii paterni. I primi, che vivono in Israele, lo vogliono tenere con loro, gli altri, invece, residenti in provincia di Pavia, ne chiedono il rientro immediato in Italia.
Da settimane le due famiglie si lanciano accuse, rilasciano dichiarazioni alla stampa o interviste in tv, chiedendo «giustizia» e rivendicandone «l’adozione». Una vicenda intricata, troppo complicata per un bambino che nella vita ha già pagato un prezzo troppo alto per la sua età. Perché Eitan una famiglia ce l’aveva: un padre, una madre e un fratellino. Ha vissuto con loro fino al 23 maggio scorso, giorno in cui il destino, in pochi secondi, gli ha tolto tutto, quando la funivia Stresa-Mottarone è precipitata. Un impatto violento, costato la vita a 14 persone, tra loro anche il papà Amit Biran, la mamma Tal Peleg Biran, il fratellino Tom, e i bisnonni Itshak e Barbara Cohen. Lui è stato l’unico a sopravvivere allo schianto sulla montagna ai piedi del Lago Maggiore. Non senza conseguenze.
• Cosa è successo dopo la tragedia del Mottarone Il bimbo è stato ricoverato all'ospedale Regina Margherita di Torino, e tenuto in coma farmacologico per giorni. Poi, dopo il risveglio, ha iniziato un difficile percorso di riabilitazione, sia fisica che psicologica. La zia paterna, Aya Biran, sposata e con due figlie, poco dopo la tragedia è stata nominata tutrice pro tempore di Eitan. A deciderlo, prima il Tribunale di Torino, poi quello di Pavia. Diversi i motivi: la vicinanza con la casa dei genitori dove il piccolo aveva vissuto fino ad allora, gli zii vivono a Travacò Siccomario, a poca distanza da dove il piccolo abitava, e l'ottimo rapporto che Eitan ha con loro. Il piccolo è praticamente cresciuto con le cugine e quindi la soluzione individuata dal giudice tutelare di Pavia è sembrata la più naturale.
• Il nonno porta via Eitan senza il consenso della zia tutrice Ma il nonno materno, Shmuel Peleg, nove giorni fa ha portato Eitan in auto a Lugano e poi messo su un volo privato diretto in Israele. Per questo è indagato a Pavia per sequestro di persona assieme all'ex moglie e nonna materna Etty, e ad un autista israeliano che guidava la macchina. L’inchiesta punta anche su altre complicità e su chi ha consentito che il piccolo viaggiasse malgrado il divieto di espatrio, e il passaporto (del bimbo) che doveva essere riconsegnato dal nonno, su ordine del giudice di Pavia.
• Le rivendicazioni delle due famiglie La zia paterna Aya, tutrice legale, chiede che i giudici israeliani affrontino la questione del «rapimento del bambino» sulla base della Convenzione dell'Aja, e facciano tornare al più presto Eitan in Italia. Ha anche richiesto che il bimbo le venga temporaneamente affidato in Israele prima della decisione definitiva sul ritorno a Pavia. Il ramo materno, invece, ribadisce le sue richieste, tanto che la zia Gali, che vive a Tel Aviv, ha presentato un'istanza in Israele per chiedere l'adozione del bimbo. Non si abbassa, dunque, ma pare aumentare lo scontro tra le due famiglie che passerà per le decisioni del Tribunale di Tel Aviv.
• Al via la causa presso il Tribunale di Tel Aviv Giovedì 23 settembre, alle 9 (ora locale), presso il Tribunale di Tel Aviv è prevista la prima udienza sul caso del piccolo Eitan. Il dibattimento, secondo fonti informate, «avverrà a porte chiuse» presieduto «da una giudice donna». La causa è stata aperta dalla zia affidataria Aya Biran-Nirko, dopo che il piccolo è stato portato in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg senza alcun avvertimento. La zia paterna del piccolo è arrivata in Israele domenica scorsa e attualmente si trova - in base alle disposizioni israeliane sul covid - in quarantena. Dovrebbe, comunque prendere parte al dibattimento, stando a quanto riferito da Cristina Pagni, uno dei suoi avvocati. Mentre un portavoce della famiglia Peleg, in Israele, ha dichiarato che «Shmuel sarà in aula». «Siamo ottimisti sull'andamento della vicenda giudiziaria. Abbiamo fiducia nella giustizia israeliana», ha sottolineato.
• Le accuse In un’intervista al Corriere della Sera, la nonna materna Esther (Etty) Peleg Cohen ha dichiarato che Eitan «ripete di voler restare in Israele, nessuno lo ha convinto. Aya gli ha chiesto in una telefonata se non gli mancassero le sue cugine, ha risposto di sì ma che può vederle qui». «Andiamo in giro tutto il giorno - racconta la nonna - e ogni sera dorme con mia figlia Gali», la sorella della madre Tal che ha iniziato in Israele le procedure di adozione per il bambino. Per Etty «il sistema giudiziario italiano ha ignorato la nostra esistenza», dice a Repubblica aggiungendo: «ho potuto vedere per la prima volta Eitan il 29 giugno». «Sono ottimista. Eitan è qui con noi – aggiunge – è circondato dall'affetto della nostra famiglia». La donna respinge le accuse di «lavaggio del cervello» mosse dalla famiglia paterna del bambino: «Eitan ha 6 anni, ma sembra un 13enne. Dice quello che pensa» ha affermato. Etty Peleg Cohen ha ancora raccontato «di aver potuto vedere per la prima volta Eitan solo il 29 giugno scorso», ma secondo gli zii paterni, in realtà, la donna è rimasta in Israele per sua «scelta», mentre il nonno Shmuel, che era in Italia, andava a trovare il piccolo nella loro casa tre volte a settimana, e loro hanno sempre concesso le visite, fino all'ultima, quella di sabato 11 settembre, quando il 58enne lo ha preso e portato in Israele con un volo privato da Lugano.
• Le dichiarazioni dello zio paterno dall’abitazione nel Pavese Intanto, dalla sua abitazione di Travacò Siccomario, nel Pavese, Or, zio paterno del bimbo e marito della sua tutrice legale Aya, in vista dell'udienza davanti al Tribunale di Tel Aviv, rincara le accuse, dichiarando che il ramo materno della famiglia di Eitan, sta facendo una «guerra sulla pelle di un bambino che ha subito gravissimi traumi», perché ha perso padre, madre, fratellino e bisnonni; è stato in ospedale ed è stato «rapito» e portato in Israele dal nonno Shmuel. Per Or la famiglia materna, nelle dichiarazioni che sta rilasciando, sta mettendo in fila una serie di «affermazioni false», attribuendole a volte anche al minore, se non ai suoi genitori che sono morti nella tragedia. Il tutto per cercare di dimostrare che il piccolo «deve restare in Israele, mentre la sua casa, i suoi amici, la sua vita sono a Pavia, da quando aveva poco più di un anno». Ha poi ribadito che «non è vero che i genitori di Eitan avessero in progetto di tornare nell'immediato in Israele. Amit aveva almeno due anni per laurearsi e poi voleva fare la scuola di specializzazione in psicologia a Milano. Con la moglie Tal progettavano di acquistare una casa in questa città».
• Come finirà? Le fonti legali riferiscono che solo un'intesa tra le due famiglie, favorita da canali diplomatici, potrebbe risolvere il caso in tempi rapidi. Lo zio paterno ha anche ribadito: «In Israele devono decidere sulla Convenzione dell'Aja. Sul profilo dell'adozione è competente il Tribunale italiano. Noi rispettiamo la legge - ha detto - e più di questo non possiamo fare, mentre gli altri non lo fanno». E ha chiarito che qualcuno «dovrà anche controllare» perché «la zia materna non è idonea all'adozione, per motivi che non posso dire per ragioni di privacy».
• In Italia 22 ottobre il processo reclamato dai nonni materni contro la tutela Sul fronte del procedimento italiano è fissata, davanti al Tribunale per i minorenni di Milano, un'udienza per il 22 ottobre per discutere il reclamo della famiglia materna contro la nomina di Aya come tutrice.
(La Stampa, 22 settembre 2021)
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Di qua i diritti, di là la tradizione. E Israele si scopre divisa sul nuovo giudizio di Salomone
di Meir Ouziel
TEL AVIV - Ci sono tragedie in cui il cuore si spezza e, quando per un attimo si intravede uno spiraglio di luce, si spezza ancora di più. È il caso della terribile vicenda che vede coinvolto, a suo scapito, Eitan Biran, 6 anni, l’unico superstite della tragedia del Mottarone, in cui ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni. Il disastro quel 23 maggio è stato immenso, ma poi è emerso, come in un giudizio di Salomone dei nostri tempi, che la contesa tra i due rami della famiglia del bambino si è trasformata in un’ulteriore tragedia che ha portato a un atto indicibile, il rapimento di Eitan dall’Italia verso Israele. Dove dovrebbe crescere il bambino? È la domanda sulla bocca di tutti. Con i nonni e gli zii materni in Israele, che hanno presentato domanda di adozione in Israele e sostengono che questo è il futuro che avrebbero voluto per lui i suoi genitori, o con il ramo paterno della famiglia in Italia, il luogo in cui è cresciuto quasi dalla nascita?
In questi giorni Israele è immersa dall’atmosfera speciale di Sukkot, la festa delle Capanne, che il piccolo di certo non avrebbe potuto vivere in Italia come in Israele. Per una settimana si mangia all’interno di queste capanne colorate che la maggior parte delle famiglie costruisce, arreda, decora e sono sparse un po’ ovunque in tutte le città. È importante che Eitan cresca in un ambiente ebraico? La risposta a questa domanda si inquadra nell’ambito delle spaccature congenite della società israeliana.
Divisioni che Fanya Oz, la figlia dello scrittore Amos Oz, ha sintetizzato su Twitter in poche parole, un po’ generalizzanti e forse non del tutto fondate, ma di certo molto incisive: «Fate attenzione al ruolo della politica: con poche eccezioni, la sinistra sta con i Biran, la destra con i Peleg. Lo Stato di diritto con i Biran, il nazionalismo ebraico con i Peleg».
Parole che sono di per sé politiche. Ma descrivono in pieno la realtà? In Israele, la questione non occupa le prime pagine e finora nessun politico si è espresso in merito, nemmeno quelli più provocatori che non attendono altro che situazioni del genere per guadagnarsi un po’ di facile sostegno da tifoseria da stadio. L’opinione generale è che la risposta sia nelle mani del Tribunale della famiglia di Tel Aviv. Ma uno sguardo ai social dà il polso di quanta sensibilità vi sia per l’aspetto ebraico della vicenda.
«È semplicemente scioccante e illogico volere che il bambino rimanga in Italia, e per giunta studi in una scuola cattolica»; «Solo un cuore crudele può pensare di impedire a un bambino ebreo orfano di crescere da ebreo» sono alcune delle reazioni tipiche che si leggono sui siti più vicini alla destra.
Per molti ebrei basta il connubio delle parole "scuola" e "cattolica" a sollevare grande preoccupazione per il futuro identitario di questo bambino.
D’altra parte, in molti difendono il ramo della famiglia che vive in Italia, spiegando che la scuola dove è iscritto Eitan non impone necessariamente i dettami della fede cattolica. Il rabbino Benny Lau, una delle figure più prominenti dell’ebraismo israeliano, condivide il suo punto di vista con Repubblica :«In questa fase, è una questione umana, non di ebraismo. Ciò che va tenuto presente è solo il bene del minore. Dove riceverà maggiore sicurezza e protezione? Questa è la domanda principale, così è stato nel corso della nostra storia di ebrei per secoli. Le voci che esprimono preoccupazione per il fatto che il bambino verrà cresciuto in Italia invece che in Israele tentano di mettere in secondo piano il benessere del piccolo rispetto a valori assoluti, identitari. Ma io lo dico senza remore: il bene del bambino è la nostra tradizione più antica».
Parlando con lo scrittore Abraham Yehoshua della scissione automatica tra destra e sinistra, mi ha detto senza mezze parole: «Su questo argomento, c’è solo una cosa da dire: si tratta di rapimento. Il bambino è cresciuto in Italia e lì deve rimanere. Dove sta il dibattito qui? Il nonno avrebbe potuto convincere con le sue argomentazioni, ma agire con la forza? È sconvolgente».
Il futuro di Eitan va stabilito dalla legge e l’afflato emotivo sui social, in Israele come in Italia, non ha spazio in questa diatriba. Eitan non appartiene a Israele né all’Italia.
Eitan non è l’incarnazione della legge civile, religiosa o del diritto internazionale, non è parte della frattura tra laici e religiosi in Israele.
È solo un bambino di sei anni su cui si riversa ora un groviglio legale, umano, religioso e nazionalistico.
(la Repubblica, 22 settembre 2021)
«Su questo argomento, c’è solo una cosa da dire: si tratta di rapimento. Il bambino è cresciuto in Italia e lì deve rimanere. Dove sta il dibattito qui? Il nonno avrebbe potuto convincere con le sue argomentazioni, ma agire con la forza? È sconvolgente». Queste parole di Abraham Yehoshua confermano che questa volta la sinistra ha ragione. M.C.
Israele: calano i casi, ma aumentano i ricoveri gravi
Il paradosso del paese più vaccinato al mondo
di Guido da Landriano
Come riporta il media israeliano Arutz Sheva il numero di contagi da covid-19 in Israele cala, ma aumentano i ricoveri per casi gravi.
Un totale di 4.800 nuovi casi di coronavirus sono stati diagnosticati in Israele martedì, secondo i dati diffusi mercoledì mattina dal Ministero della Salute, in calo rispetto agli 8.782 nuovi casi segnalati lunedì scorso.
La percentuale di positività ai test è scesa dal 5,11% di lunedì al 4,70% di martedì. Ora ci sono 74.898 casi attivi noti del virus in Israele, inclusi 1.123 pazienti ospedalizzati con COVID. Dall’inizio della pandemia, sono stati segnalati 1.244.580 casi confermati del virus, circa il 13% della popolazione del paese, cioè numeri importanti.
Tutte buone notizie? No, ce ne sono anche di cattive. Il numero di pazienti gravemente malati è salito mercoledì a 723, rispetto ai 708 di martedì. Di questi, 251 sono in condizioni critiche, con 172 sui respiratori.
Finora, in Israele sono stati registrati un totale di 7.582 decessi correlati al coronavirus, inclusi nove decessi martedì e cinque mercoledì mattina.
Questo appare molto strano nel paese che si presenta con i più alti tassi di vaccinazioni al mondo. Su 9 milioni di abitanti, con i dati di mercoledì mattina, 6.073.103 israeliani hanno ricevuto almeno una dose del vaccino Pfizer-BioNTech, o il 65,31% della popolazione, con 5.593.597, o il 61,15% della popolazione, che ha ricevuto due dosi, e 3.104.708, o il 33,39% della popolazione, avendo ricevuto tre dosi. Una fetta della popolazione molto elevata con già tre dosi cioè booster compreso. Eppure l’andamento delle infezioni sembra calare più per un andamento naturale, simile alle precedenti ondate:
Dato che la copertura vaccinale dovrebbe aiutare specialmente dalle ospedalizzazione e che Israele viene a essere il paese al mondo che ha più insistito su questa terapia, dovremmo vedere un calo, non un aumento dei contagiati. Inoltre la mortalità non è poi molto diversa da quella italiana: 12 morti su 9 milioni di abitanti ieri, contro 67 su 60 milioni per noi. Pare che la super confidenza sul vaccino non dia esattamente i risultati attesi.
(Scenarieconomici, 22 settembre 2021)
Stati Uniti: i democratici bloccano il finanziamento per Iron Dome
Il Ministro Lapid minimizza, ma il problema per Israele potrebbe diventare molto serio
Gli Stati Uniti hanno bloccato il finanziamento di un miliardo di dollari destinato a rifornire l’importantissimo sistema di difesa israeliano Iron Dome. Anche se il Ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, ha minimizzato sostenendo di aver parlato con il leader della maggioranza alla Camera degli Stati Uniti, Steny Hoyer, il quale gli avrebbe garantito che si tratterebbe di un “problema tecnico”, il blocco del finanziamento preoccupa moltissimo Israele. A chiedere il blocco per il finanziamento del sistema che difende i civili israeliani dagli attacchi terroristici, sono state le deputate Alexandria Ocasio-Cortez e Betty McCollum. A loro si sono aggiunte Rashida Tlaib, Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Pramila Jayapal che hanno minacciato di votare contro il disegno di legge per aumentare il tetto del debito se il finanziamento all’Iron Dome fosse stato incluso. Il disegno di legge per aumentare il tetto del debito è cruciale per le sorti degli Stati Uniti e il presidente della Camera, Nancy Pelosi, aveva inserito il finanziamento per Iron Dome in quel disegno di legge per invogliare i repubblicani a votarlo. Purtroppo senza successo. Quindi possiamo affermare che il mancato finanziamento destinato al rifornimento del sistema Iron Dome è figlio di una lotta politica interna agli Stati Uniti di cui le deputate Dem hanno potuto approfittare mettendo nei guai Israele. Moltissime le voci repubblicane indignate per questa decisione. Il senatore Ted Cruz ha scritto: «Tragico. La leadership democratica si arrende alla sinistra antisemita. Odiano Israele così tanto che i Democratici stanno togliendo 1 MILIARDO di dollari in finanziamenti per Iron Dome, un sistema puramente difensivo che protegge innumerevoli civili innocenti dai razzi di Hamas. Qualche Dem avrà il coraggio di denunciare?» Il leader della minoranza alla Camera Kevin McCarthy ha twittato: «I democratici hanno appena ritirato i finanziamenti a Iron Dome, il sistema di difesa missilistico che ha salvato innumerevoli vite in Israele dagli attacchi missilistici di Hamas. Mentre i democratici capitolano di fronte all’influenza antisemita dei loro membri radicali, i repubblicani staranno sempre con Israele».
(Rights Reporter, 22 settembre 2021)
Addio allo storico Klaus Voigt Studiò l'esilio degli ebrei in Italia
Ha insegnato a Bologna e Siena. Fra i suoi lavori più noti il libro sui ragazzi salvati a Villa Emma di Nonantola, di cui era cittadino onorario.
È morto a Berlino all'età di 83 anni lo storico Klaus Voigt, noto per i suoi studi su esuli e oppositori del nazismo. Molto legato all'Italia, Voigt ha insegnato nelle Università di Siena e Bologna e svolto ricerche pubblicate in numerosi volumi. Le sue opere più conosciute sono Il rifugio precario (La Nuova Italia, in due volumi), dedicato all'esilio ebraico in Italia dal 1933 al 1945, e Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga 1940-45 (La Nuova Italia), sulla vicenda dei giovani ebrei salvati a Nonantola, la cittadina in provincia di Modena di cui diventò cittadino onorario. Nel 2004 curò a Firenze la mostra Klaus Mann-Eduard Bargheer. Due esuli tedeschi nella Firenze liberata; faceva parte del Comitato scientifico del Museo della deportazione di Prato.
Nelle ultime settimane si è tornati ancora una volta a parlare di una riapertura del processo di pace tra israeliani e palestinesi dopo una serie di incontri tra i rappresentanti del governo di Tel Aviv, l’Autorità nazionale palestinese (ANP) ed Egitto, ma inutilmente. Il premier israeliano, Naftali Bennett, ha presto escluso ogni possibile ripresa del dialogo con i palestinesi, riducendo così la portata degli incontri succedutisi negli scorsi giorni ed arrivando anche a minacciare una nuova offensiva contro Gaza. In realtà la formula scelta dal governo di coalizione guidato da Bennett per affrontare la questione palestinese è quella degli aiuti economici in cambio di pace, sulla scia dell’Accordo del secolo sponsorizzato dall’ex presidente americano Donald Trump. Per il primo ministro, quindi, non c’è spazio per un accordo politico con i palestinesi, né per una discussione sul diritto al ritorno. Tutto ciò a cui i residenti di Gaza da una parte e l’ANP dall’altra possono aspirare sono ingenti aiuti economici, come dimostrano il piano del ministro degli Esteri, Yair Lapid, e l’incontro tra Abu Mazen e Benny Gantz, capo della Difesa. Il progetto di Lapid, non ancora in discussione a livello governativo, prevede degli investimenti pluriennali nella Striscia in cambio della cessazione delle ostilità da parte di Hamas, che secondo il ministro dovrebbe anche arrivare a deporre le armi. Nello specifico, l’idea di Lapid prevede in una prima fase la riparazione delle linee elettriche e del gas, la desalinizzazione dell’acqua per aumentare l’approvvigionamento idrico della Striscia, miglioramenti significativi al sistema sanitario e la ricostruzione di case e della rete stradale. Tutte infrastrutture che sono state distrutte o danneggiate durante gli scontri tra Hamas e Israele ed impossibili da ricostruire a causa dell’embargo imposto da Tel Aviv sulla Striscia. «Se la prima fase dovesse procedere senza intoppi», ha specificato Lapid, «Gaza assisterebbe alla costruzione di un’isola artificiale al largo delle coste che consentirebbe la creazione di un porto» e potrebbe ottenere anche un «collegamento di trasporto» con la Cisgiordania. Nelle parole del ministro degli Esteri, quindi, tutto dipende da Hamas, la cui posizione anti-israeliana rappresenta il vero motivo per cui i gazawi sono costretti a vivere «in povertà, miseria, violenza, disoccupazione, senza alcuna speranza». Con questo piano, Lapid spera di mettere Hamas alle corde e di convincere la popolazione della Striscia a ribellarsi contro il Movimento, costringendolo ad accettare gli aiuti israeliani in cambio della fine delle ostilità. Ma Hamas non è l’unico a cui Israele è disposto ad offrire soldi per avere maggiore tranquillità. A fine agosto si è tenuto uno storico incontro tra Abu Mazen e il ministro Gantz, il primo dopo dieci anni tra un rappresentante del governo israeliano e il capo dell’ANP. I due hanno discusso di sicurezza ed economia, raggiungendo un primo accordo per la concessione di 15.000 permessi di lavoro per manovali palestinesi e di altri 1.000 per i dipendenti dell’industria turistica, oltre ad aver trovato un’intesa per riconoscere i diritti di residenza di centinaia di persone straniere sposate con palestinesi e che si trovano in un limbo giuridico. In ultimo, Israele è anche pronta a versare all’ANP 500 milioni di shekel come anticipo sulle tasse che riscuote per conto dei palestinesi per ridurre i problemi economici dell’Autorità. Così facendo, Bennett spera di rafforzare anche la debole leadership di Abbas, con l’obiettivo ultimo di evitare cambi di potere nell’ANP e minare ulteriormente Hamas. Sempre in quest’ottica rientra anche il tentativo del premier israeliano di trovare un’alternativa all’invio di denaro contante dal Qatar alla Striscia per evitare che i fondi finiscano nelle mani del Movimento. I rapporti tra Hamas e Israele quindi restano tesi, come affermato chiaramente dallo stesso Bennett. Il premier infatti non ha escluso la possibilità di lanciare una nuova operazione contro la Striscia, assicurando che l’uso della forza resta sempre un’opzione per Israele in caso di aumento della tensione con il Movimento. In realtà una nuova escalation sarebbe controproducente per il governo di coalizione non solo per la presenza al suo interno di un partito arabo, ma soprattutto perché in questi giorni il Parlamento è alle prese con la legge di bilancio. Dopo tre anni di attesa, le forze politiche hanno finalmente trovato un primo accordo sulla manovra economica e la sua definitiva approvazione rafforzerebbe la tenuta di un governo particolarmente variegato. Un nuovo scontro con Hamas in un momento tanto delicato è uno scenario che Bennett deve cercare di scongiurare il più possibile, se non vuole fare la fine del suo predecessore.
(Treccani, 21 settembre 2021)
Presi gli ultimi due evasi palestinesi ma la «Grande Fuga» resta un mito
La cattura domenica di Iham Kamamji e Munadil Enfayat non ha scalfito il mito dell'impresa compiuta dai prigionieri politici in carcere in Israele. Ma c'è anche delusione per la facilità con cui le forze israeliane hanno catturato i fuggitivi.
di Michele Giorgio
Per tanti palestinesi non è facile digerire la cattura di Iham Kamamji e Munadil Enfayat, avvenuta domenica a Jenin poco prima dell’alba, dopo una caccia all’uomo durata 13 giorni. Era diffusa la speranza, non solo nei Territori occupati, che i due, a differenza degli altri quattro evasi dal carcere di Gilboa ripresi quasi subito, fossero nelle condizioni di sottrarsi a polizia ed esercito di Israele, proprio perché nascosti nella loro città, Jenin, ben nota roccaforte della resistenza armata palestinese. Ad ogni modo i sei protagonisti della «Grande Fuga» restano un mito e la loro cattura non offusca agli occhi dei palestinesi l’impresa della fuga, scavando un tunnel come nei film, da una prigione israeliana di massima sicurezza. Peraltro, la questione dei prigionieri politici resta centrale per la società palestinese che già segue con partecipazione i 62 giorni di sciopero della fame in carcere di Meqdad Qawasmeh che protesta contro la «detenzione amministrativa», senza processo. Altri cinque prigionieri politici attuano il digiuno: Kayed Fasfus, Alaa al Araj, Hisham Abu Hawash, Rayeq Bisharat e Shadi Abu Aker.
Non mancano gli interrogativi. Gli abitanti di Jenin si attendevano un raid militare di Israele, con centinaia di uomini e con mezzi corazzati, per stanare Kamamji ed Enfayat. Poliziotti e soldati invece hanno circondato il nascondiglio dei due che si sono arresi senza resistere alla cattura. «I due terroristi sono usciti senza aprire il fuoco. L’arresto è stato condotto senza intoppi», ha commentato visibilmente soddisfatto Alon Hanoni, l’ufficiale responsabile per l’esercito israeliano dell’area di Jenin. Dove erano domenica, si domandano molti, i militanti delle organizzazioni armate, a cominciare dal Jihad islami a cui appartenevano i due fuggitivi, che appena qualche giorno fa avevano annunciato la difesa all’ultimo sangue degli «eroi di Gilboa»?
Israele sostiene di aver attirato i palestinesi armati inviando truppe in un’altra zona di Jenin e di aver impiegato un piccolo commando quando Kamamji ed Enfayat sono rimasti soli, senza protezione. Scontri con le forze israeliane sono avvenuti solo dopo il diffondersi della notizia della cattura e hanno visto in strada soprattutto civili e pochi militanti armati. Altri ancora si domandano quanto sia ampia la rete di collaborazionisti a Jenin e in Cisgiordania visto che il rifugio dei due evasi è stato individuato subito dall’intelligence israeliana. E non pochi puntano il dito verso l’Autorità nazionale palestinese, legata ad accordi di sicurezza con Israele, che però sin dal giorno della fuga da Gilboa ha escluso categoricamente di poter cooperare con Israele nella cattura degli evasi.
Ben diverso è lo stato d’animo degli israeliani che ritengono di aver rapidamente ricucito la lacerazione causata all’orgoglio nazionale dall’evasione del 6 settembre. Il premier Bennett ha parlato in un’operazione «impressionante, sofisticata e rapida da parte dell’agenzia di intelligence, della polizia e dell’esercito».
(il manifesto, 21 settembre 2021)
Il capo Covid di Israele chiede che inizino i preparativi per la quarta dose di vaccino
Il coordinatore nazionale della pandemia, Salman Zarka, ha affermato sabato che Israele dovrebbe iniziare i preparativi per l’eventuale lancio della quarta dose di vaccino contro il coronavirus, senza specificare quando ciò avverrà.
Sabato lo zar nazionale del coronavirus israeliano ha chiesto al Paese di iniziare a pianificare la possibile somministrazione della quarta dose di vaccino contro il coronavirus.
• LA QUARTA DOSE DI VACCINO IN ISRAELE
Il professor Salman Zarka, che è stato nominato direttore del Covid-19 in Israele a luglio, ha parlato alla radio pubblica israeliana Kan della necessità di una seconda iniezione di richiamo, ma non ha proposto un calendario per questo.
«Poiché il virus è qui e continuerà ad esserci, dobbiamo anche prepararci per la quarta iniezione», ha detto Salman Zarka alla radio pubblica di Kan.
Zarka ha anche affermato che la futura iniezione di richiamo potrebbe essere modificata per proteggere meglio dalle nuove varianti del virus SARS-CoV-2, che causa il COVID-19, come il ceppo Delta altamente infettivo. «Questa è la nostra vita d’ora in poi, a ondate», ha detto.
«Sembra che se impariamo le lezioni della quarta ondata, dobbiamo tenerne conto [possibility of subsequent] va con le nuove varianti, come quella nuova in Sud America», ha detto in precedenza, riporta Times of Israel.
«E considerando questo e il calo dei vaccini e degli anticorpi, sembra che ogni pochi mesi, potrebbe essere una volta all’anno o cinque o sei mesi, avremo bisogno di un’altra iniezione».
Zarka ha previsto che entro la fine del 2021 o l’inizio del 2022 Israele somministrerà vaccini specificamente progettati per far fronte alle varianti.
Israele, il primo paese a offrire una terza dose, ha iniziato la sua campagna di richiamo COVID il 1 agosto, estendendola a tutte le persone di età superiore ai 60 anni. Poi l’età di ammissibilità è diminuita gradualmente, fino a scendere a chiunque abbia più di 12 anni a cui hanno sparato almeno cinque mesi fa la scorsa settimana.
Più di 2,5 milioni di israeliani hanno ricevuto la loro terza dose da venerdì.
• SISTEMA DI ATTRAVERSAMENTO VERDE
Il Ministero della Salute ha anche annunciato la scorsa settimana che il sistema del «Green Pass» – un documento che consente l’ingresso in determinati incontri sociali e luoghi pubblici per coloro che sono stati vaccinati o guariti dal coronavirus – scadrà sei mesi dopo che il titolare ha ricevuto la seconda o la terza dose, che comporta la somministrazione di una quarta dose in sei mesi.
Venerdì scorso il ministero della Salute ha segnalato 11.269 nuovi contagi da coronavirus. La cifra di giovedì è stata leggermente inferiore al record giornaliero di 11.274 infezioni confermate mercoledì.
Nonostante l’aumento dei tassi di infezione, i casi gravi hanno iniziato a diminuire da un picco di 753 di domenica e il Ministero della Salute ha riferito che 654 persone erano in condizioni critiche a partire da venerdì pomeriggio a causa di complicazioni.
Giovedì, il tasso di positività al test è stato dell’8,43 percento, il più alto durante l’attuale ondata di morbilità. Il bilancio delle vittime è stato di 7.129.
(wikitechnews.net, 21 settembre 2021)
Covid, Pfizer chiede l’ok per il vaccino ai bambini dai 5 agli 11 anni
Gli Stati Uniti aprono ai viaggiatori dall’Unione Europea. Da inizio ottobre Green Pass obbligatorio per entrare in Vaticano
Pfizer e Biontech chiederanno a Fda e Ema di approvare il vaccino per i bambini nella fascia di età tra i 5 e gli 11 anni. Secondo gli studi clinici presentati dalle sue società il siero a Rna messaggero, a dosaggio inferiore rispetto a quello somministrato agli adolescenti, sarebbe «sicuro e ben tollerato», con una risposta «robusta» contro l’infezione da coronavirus. La notizia di un vaccino per i bambini era attesa da tempo. Ma non tutte le reazioni sono positive. Roberto Burioni su Facebook esulta per la notizia, ma avverte: «I dati si riferiscono a uno studio su 2200 bambini. Pochi». E sembra mettere le mani avanti anche la presidente della Società italiana di pediatria. «La valutazione va confermata dalle agenzie regolatorie preposte», dice Annamaria Staiano confermando che i bambini vanno immunizzati «a fronte di un vaccino autorizzato». A breve anche Moderna potrebbe chiedere l’autorizzazione per il siero per i bambini.
Intanto il Vaticano introduce il Green Pass dal primo ottobre per cittadini, residenti, personale e visitatori, unica eccezione chi partecipa alla messa. Novità anche negli Stati Uniti: da novembre i viaggiatori vaccinati potranno entrare nel Paese. Via libera a chi arriva da Europa, Gran Bretagna, Cina, Iran e Brasile. Oltre alla documentazione, prima dell’imbarco bisognerà presentare un test negativo effettuato nei tre giorni precedenti.
Intanto in Italia contagi sono in calo. Il bollettino di ieri registrava 2.407 casi, a fronte di un numero più basso di tamponi, 122.441. Il tasso di positività sale al 2% con ancora 44 decessi. Sono già oltre tremila le terze dosi somministrate ai pazienti fragili. E per il commissario Francesco Figliuolo non si dovrà attendere molto per i richiami anche per gli ottantenni e i sanitari, i primi ad essere stati immunizzati.
(La Stampa, 21 settembre 2021)
Dunque le multinazionali. farmaceutiche Pfizer e Biontech, seguite presto da Maderna, chiedono alle autorità sanitarie internazionali Fda e Ema di autorizzare la vaccinazione dei bambini tra i 5 e gli 11 anni usando naturalmente i loro prodotti, che devono pur essere venduti, se hanno investito tanti capitali per produrli, no? Lo fanno per il bene dell'umanità? M.C.
Lo zio paterno a Tel Aviv: «Eitan torni in Italia». Giovedì l'udienza
Se la zia paterna Aya, tutrice legale, chiede che i giudici israeliani affrontino una sola questione, il «rapimento» sulla base della Convenzione deII'Aja, e facciano tornare al più presto Eitan in Italia, il ramo materno rilancia nelle sue richieste. La zia Gali, infatti, ha presentato un'istanza in Israele per chiedere l'adozione del bambino. E non si abbassa, dunque, ma pare aumentare lo scontro - con al centro il piccolo, unico a salvarsi nella tragedia del Mottarone in cui morirono padre, madre, fratello e bisnonni - tra le due famiglie e che passerà per le decisioni del Tribunale di Tel Aviv. I «giudici israeliani devono toglierlo dalle mani dei suoi rapitori e riconsegnarlo alla tutrice e poi sull'adozione si deciderà in Italia», ha spiegato Or, zio paterno di Eitan e marito di Aya, che ha la tutela del bambino e che è già in Israele in vista dell'udienza fissata per giovedì sulla base dell'istanza con cui ha chiesto l'immediato rientro in Italia. La nonna Etty respinge le accuse dei familiari paterni di «un lavaggio del cervello» al bimbo e sostiene che hanno il «permesso del Comune per iscriverlo a scuola».
(Nazione-Carlino-Giorno, 21 settembre 2021)
Oltremare – Sinestesia
di Daniela Fubini
Delle molte cose di cui non smetto di stupirmi in Israele, una è sicuramente quella che definirei l’estrema sinestesia del Kippur, che si esprime in tre modi distinti e indipendenti.
La sua prima espressione è quella della narrativa del Yom Kippur prima della ricorrenza. Lo si chiami tutto meno che “festa”, per cortesia, visto che ogni anno preghiamo per uscirne vivi, letteralmente, fino alla chiusura delle porte celesti verso l’ora di Neilà. In Israele, da 48 anni a questa parte non è possibile separare il Kippur religioso (ma anche molto laico, come vedremo dopo), vissuto vestendo di bianco in sinagoga, o in giardini e terrazze oggigiorno, in tempi di pandemia, da quello specifico del 1973, quando tutto il paese si è trovato all’improvviso in guerra, e il numero altissimo dei caduti da quel giorno fino alla fine di quella guerra serve a tutt’oggi per misurare i peggiori disastri. Non esiste un Kippur prima del quale non vengano rese pubbliche nuove testimonianze, nuovi documenti, vecchie e nuove teorie sulla prevedibilità del conflitto, tutto accompagnato dalla riproposizione di una intera colonna sonora datata 1973/74 per giorni e giorni da ben prima di Rosh HaShana.
Quando poi bene o male si arriva al giorno di Kippur, e il cessare di tutta questa informazione supplementare è quasi una liberazione, a questa prima sinestesia di sentimenti e storie se ne sovrappongono altre due legate ai costumi. Prima di tutto, già dalla sera Israele è invasa da bambini in bicicletta, o su qualunque mezzo a due o più ruote. Mentre gli adulti, o almeno una parte di essi, eleva il “Kol Nidre” in piena concentrazione, subito fuori dalle sinagoghe le strade sono già diventate piste ciclistiche a decine di corsie, nella totale assenza di alcuna regola del traffico, anche visto che i bambini di solito non hanno ancora la patente. Suoni, grida di bambini e canti dalle sinagoghe si mescolano in una sinfonia surreale, che riempie la totale assenza dei normali rumori della città.
E quando infine volge al termine la giornata stessa del Kippur, e contrariamente a quello del 1973 si è riusciti a pregare senza che scoppiasse una guerra a metà pomeriggio, tutti si raccolgono brevemente per ascoltare lo shofar e poi via, ciascuno al proprio livello di osservanza o non osservanza dei precetti. In quell’ora di Neilà, alla chiusura dei cieli sopra a noi, ebrei dentro la sinagoga pregano con trasporto, ebrei fuori dalla sinagoga chiacchierano origliando in attesa dello shofar, bambini continuano a scalmanarsi liberamente, e all’apparenza non sono scesi dalle biciclette ancora dalla sera prima, e si fermano senza darlo troppo a vedere anche adulti in tenuta sportiva che hanno passato la giornata facendo sport, appunto, ma che con l’avvicinarsi dell’ora dello shofar arrivano anche loro a posizionarsi abbastanza vicino ad una sinagoga per sentirlo. Questi ultimi sono gli unici che non fanno rumore, ma la loro presenza timida si sente tanto quanto tutte le voci intorno.
(moked, 20 settembre 2021)
Eitan, i parenti israeliani chiedono di adottarlo
La mossa della zia materna, quella paterna è arrivata a Tel Aviv.
di Davide Frattini
TEL AVIV - Gli agenti della sicurezza l'hanno scortata fuori dall'aeroporto Ben Gurion perché il caso del piccolo Eitan sta diventando in Israele anche disputa politica e, a parole, anche violenta. Aya - dice il marito Or Nirko dall'Italia - «ha avuto bisogno della protezione per le minacce e gli insulti scritti contro di lei sui social media» da quelli convinti che un bambino ebreo debba crescere solo qui.
Adesso la zia paterna - il fratello Amit è morto nell'incidente sul Mottarone - deve rispettare la quarantena di almeno una settimana prevista per chi arriva dall'estero. Potrà però essere presente alla prima udienza per discutere l'affidamento, un'eccezione concessa in situazioni speciali. Al suo fianco l'altro fratello Haggai. I legali della famiglia Biran sono riusciti ad anticipare l'udienza a giovedì, mentre prima era prevista per il 29. A questo incontro preliminare chiederanno che il bambino di sei anni venga subito riunito ad Aya - il tribunale italiano le ha dato la tutela legale - in attesa delle prossime sedute: chiedono il rientro in Italia sulla base della Convenzione dell'Aja e di quello che prevede per «il sequestro internazionale di minori», su questo punto si sono rivolti ad Avichai Mandelblit, il procuratore generale dello Stato, di fatto il consulente legale del governo e il rappresentante delle autorità israeliane in tribunale.
«Chiediamo il rientro non per domani o dopodomani ma per oggi» dice l'avvocato Avi Chimi alla radio 103FM. «Da quando è nato ha vissuto là, è il suo luogo naturale». Spiegano che «Aya è molto preoccupata per la salute psicologica del bimbo, per quello che gli è stato fatto in questo periodo». Haggai ha potuto vederlo per un'ora sabato mattina e dopo la visita i legali hanno accusato la famiglia materna di «lavaggio del cervello e di inculcare messaggi nella sua testa».
Per ora Eitan resta a casa del nonno materno Shmuel Peleg che dieci giorni fa lo ha prelevato e portato in Israele su un jet privato, per questo è indagato dalla Procura di Pavia (sequestro di persona) ed è stato interrogato dalla polizia israeliana. Dopo l'intervista al nonno trasmessa in prima serata venerdì scorso, continua l'offensiva decisa dagli strateghi della comunicazione assunti dai Peleg. Gal - sorella di Tal, anche lei morta sul Mottarone-è stata ascoltata dal quotidiano Israel Hayom, sostenitore della destra .e dell'ex premier Benjamin Netanyahu. Annuncia di aver presentato la pratica per l'adozione di Eìtan ( «io e mio marito non abbiamo ancora figli, con noi crescerà circondato dall'amore») e in qualche modo rivela che uno degli obiettivi - quando Shmuel lo ha portato qui - era trasferire le decisioni legali in Israele: «Vogliamo che il dibattito avvenga in una lingua che tutte e due le parti comprendono allo stesso modo».
Sa di parlare agli stessi lettori-commentatori che in questi giorni stanno infiammando il dibattito digitale attorno alla vicenda. «Eitan è nato ebreo ed è importante per noi che resti ebreo. Ci accusano di averlo tolto dal suo ambiente naturale, ma non è vero: il fatto che mia sorella e suo marito Amit vivessero vicino ad Aya non significa che fossero legati. Le famiglie erano profondamente divise sulle questioni religiose. I Biran guardavano Tal dall'alto in basso per ragioni etniche tra ashkenaziti e sefarditi. Aya lo ha mandato a una scuola cattolica, siamo rimasti sconvolti». In realtà - spiegano amici dei Biran - Tal e Amit avevano già iscritto il bambino nell'istituto «perché lo consideravano il migliore da quelle parti».
Che lo scontro stia diventando ideologico è chiaro a Pania Oz-Salzberger, figlia del romanziere Amos Oz: «Stiamo ricadendo nelle solite spaccature - scrive su Twitter -. La sinistra con i Biran, la destra con i Peleg, il diritto e il rispetto della legge con i Biran, il nazionalismo ebraico con i Peleg. Stiamo sprofondando nell'abisso sulle spalle di un orfano».
(Corriere della Sera, 20 settembre 2021)
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La frase choc di zio Ron: «Un sostegno segreto dietro la fuga con Eitan»
Post pubblicato dal cognato di nonno Peleg ma subito cancellato su consiglio dei legali.
di Nino Materi
Troppo «suggestiva» per essere abbandonata. È la pista dei «servizi segreti israeliani» che - un giorno sì e l'altro pure - torna in campo nella partita, sicuramente truccata, del sequestro di Eitan. Lui, 6 anni, l'«orfano del Mottarone» (nella strage del 23 maggio scorso ha perso genitori, fratellino e bisnonni) rimane al centro di una faida familiare che finora non gli ha risparmiato nulla: compreso il trauma (non bastasse lo choc patito su quella maledetta funivia) di un rapimento dai contorni di una spy story alla Tom Clacy. Protagonista Shmuel Peleg, 58 anni, il nonno materno ex - presunto - «collaboratore del Mossad» che, con un blitz «dalla tecnica militare» tanto perfetto da non escludere «aiuti e supporti esterni», in una manciata di ore è riuscito sabato 11 settembre a trasferire in Israele il nipotino, portandolo via dall'Italia dove viveva con la zia patema sua tutrice legale. Un raid che è costato a Peleg (e anche alla sua ex moglie) l'imputazione di «sequestro di persona aggravato» da parte della Procura di Pavia che, proprio ieri, ha iscritto nell'elenco degli indagati anche l'autista dell'auto su cui «nonno Shmuel» ha trasportato Eitan dalla frazione Rotta di Travacò (Pavia) all'aeroporto di Lugano dove ad attenderli c'era il jet privato con destinazione Tel Aviv. Ora si scopre che anche questo misterioso autista israeliano, proprio come il Shmuel Peleg, sarebbe «vicino ai servizi segreti». Se entrambe queste «vicinanze» in odore di 007 con la Stella di David fossero vere, si rafforzerebbe l'ipotesi delle possibili «complicità» in «alto loco» su cui i Peleg avrebbero contato per realizzare il loro piano di kidnapping of child. Uno scenario, al momento più cinematografico che reale, rilanciato però da uno strano post ( subito cancellato) pubblicato l'altro giorno da zio Ron Gali appartenente al ramo materno di Eitan (contrapposto a quello paterno) in risposta a una donna che sui sodai criticava aspramente l'operano dei Peleg. Ecco il messaggio firmato Ron Gali: «Aspetta di sapere chi ha dato un sostegno e un aiuto al sequestro di Eitan. E poi vedrai che starai zitta». Parole criptiche che possono significare tutto e nulla. Resta la domanda chiave: chi, come, dove e quando ha garantito a nonno Shmuel «supporto» e «aiuto»? Da oggi a Tel Aviv è arrivata dall'Italia zia Aya Biran (la sorella del papà defunto di Eitan) cui i Peleg hanno «scippato», con l'inganno, il nipotino che era stato affidato in custodia alla donna dopo la sciagura del Mottarone. Aya Biran è decisa a riprendersi il bambino per riportarlo a casa nel Pavese dove da mesi viveva serenamente con i suoi due cuginetti; lì, se non fosse stato rapito, avrebbe dovuto iniziare anche a frequentare la scuola cattolica dove era stato iscritto: circostanza motivo di dissidio con l'altra componente ebraica della famiglia, intenzionata invece a far studiare e crescere il nipote in una scuola ebraica di Tel Aviv secondo i dettami più tradizionali della propria dottrina religiosa e culturale. Poi c'è lo spinoso tema del ricco patrimonio di Eitan, al quale tutti dicono di non essere interessati. Ma sarà vero? Intanto le accuse reciproche continuano. I Biran vanno giù duro: «I Peleg gli stanno facendo il lavaggio del cervello. Eitan va salvato al più presto». I Peleg rispondono a tono: «Noi Eitan lo abbiamo salvato. Con i Biran le sue condizioni di salute fisica e mentale erano pessime». L'udienza al tribunale di Tel Aviv per l'affido del piccolo è fissata per il 29 settembre. Fino ad allora, i colpi bassi saranno tutt'altro che proibiti.
(il Giornale, 20 settembre 2021)
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La ragione non sta sempre nel mezzo
Ci sono oggi in Israele due famiglie in lotta, due contendenti "l'un contro l'altro armati", e la gente intorno che fa il tifo. "La sinistra sta con i Biran, la destra con i Peleg", dice con amarezza Pania Oz-Salzberger, figlia del romanziere Amos Oz. E Pania per chi sta? si chiederanno in Israele. La figlia del romanziere non si pronuncia; si limita a rammaricarsi che il tutto avvenga "sulle spalle di un orfano". E' vero, ma questo non esime dal dire qualcosa che possa aiutare altri a pensare ed eventualmente a intervenire là dove è possibile. Molti amano dire che le ragioni non stanno mai tutte da una parte sola, ma devono essere suddivise opportunamente tra i due contendenti. Sostengo invece che in quasi tutti i conflitti umani in un dato momento c'è una parte che ha ragione e l'altra che ha torto. Questo non significa che chi ha ragione non abbia anche dei torti, e che chi ha torto non abbia anche delle ragioni. Tuttavia, uno dei due ha ragione (al singolare, in senso primario), pur avendo probabilmente anche dei torti (al plurale, in senso secondario), e l'altro ha torto (in senso primario), pur avendo probabilmente anche delle ragioni (in senso secondario). Se per mancanza di conoscenze si pensa di non avere motivi per dire chi ha ragione e chi ha torto, è meglio riconoscerlo e astenersi dal fare giudizi, piuttosto che mettersi col bilancino a misurare la percentuale di ragioni e torti che competono all'una e all'altra delle due parti ("I faziosi di centro" ).
Quando Ariel Sharon ordinò lo sgombero di Gaza, era sorto in Israele un conflitto di opinioni tra la sinistra (che appoggiava lo sgombero) e la destra (che non lo voleva). Senza esitazioni feci a quel tempo la mia personale valutazione esterna: la destra ha ragione e la sinistra ha torto.
Esprimo ora la mia personale valutazione anche nel caso di Eitan: allo stato attuale delle mie conoscenze, la sinistra ha ragione e la destra ha torto.
Ho espresso ieri i motivi giuridici per cui il sequestro di Eitan ha messo il nonno Shmuel Peleg in una grave posizione di torto, rimediabile soltanto con il ritorno alla situazione precedente e la punizione di chi ha tentato in quella maniera di modificarla.
Aggiungo oggi un riferimento al tanto invocato "bene del bambino". Qualunque sia il destino che gli adulti possano desiderare per lui, è da criminali assoggettare un bambino che ha già avuto il trauma tremendo della perdita in quel modo dei genitori ad un altro trauma della portata di quello che ora si comincia soltanto a vedere, adducendo come motivo che si desidera "il suo bene" futuro nel momento stesso in cui gli si fa del male nel presente.
Dispiace poi sapere che in Israele ci sono molti che parteggiano per i sequestratori invocando la difesa dell'ebraicità e la necessità inderogabile di far crescere il bambino ebreo in Israele. Mi chiedo che cosa ne pensino gli ebrei della diaspora.
Purtroppo questo fraudolento colpo di mano non gioverà né al bene del piccolo Eitan né al buon nome di Israele. M.C.
(Notizie su Israele, 20 settembre 2021)
Cosa farà il Marocco sui droni per Israele
Israele vuole produrre droni in Marocco in grandi quantità e ad un prezzo molto più basso, e posizionarsi nei mercati di esportazione.
di Giuseppe Gagliano
Il Marocco svilupperà l’industria dei droni kamikaze per Israele. A luglio, il National Cyber Directorate israeliano ha annunciato che il suo CEO, Yigal Unna, aveva firmato un accordo di cooperazione con le autorità marocchine che avrebbe aiutato le aziende israeliane a vendere conoscenza e tecnologia, secondo i media israeliani. È stato il primo accordo di difesa informatica tra i due Paesi dalla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Marocco e Israele. Lo scorso mercoledì, la pubblicazione francese Africa Intelligence, specializzata in informazioni politiche, diplomatiche ed economiche sui paesi africani, ha rivelato che entrambi i paesi stanno attualmente lavorando per sviluppare un progetto per produrre droni kamikaze in Marocco. In questo modo gli israeliani potranno produrre droni in Marocco in grandi quantità e ad un prezzo molto più basso, e posizionarsi nei mercati di esportazione. Sebbene non vengano offerti dettagli sul tipo e sul prezzo, a parte il fatto che sono “dispositivi relativamente semplici da costruire e con conseguenze devastanti”. La testata francese spiega che il lancio di questo settore in Marocco arriva dopo diversi mesi di trattative con il gruppo Israel Aerospace Industries (IAI). Precisamente, BlueBird Aero Systems è la filiale del gruppo specializzato nella produzione di questi droni. I droni Kamikaze sono un nuovo tipo di arma, veicoli aerei senza equipaggio che funzionano come bombe, senza la necessità di avere attentatori suicidi davanti. Possono viaggiare a circa 150 chilometri all’ora, rimanere in aria per un’ora e contenere una testata esplosiva che esplode da sola quando si scontra con il suo bersaglio, che è stato precedentemente identificato attraverso una telecamera di ricognizione. Gli Stati Uniti guidano l’industria dei droni kamikaze, che Israele, Turchia e Iran hanno già testato sui campi di battaglia e alla quale si è unita anche la Cina. Possono essere utilizzati per operazioni di sorveglianza, sebbene il loro obiettivo principale sia l’attacco. E quindi costituiscono un nuovo modo di fare la guerra. In effetti, si sono già affermati nel Nagorno-Karabakh. La maggior parte della cooperazione in materia di sicurezza tra Marocco e Israele avviene in segreto e riguarda principalmente lo scambio di informazioni di intelligence. Inoltre, nel 2013, Rabat ha acquisito tre droni Heron che sono stati consegnati via Francia nel 2020. I media internazionali hanno anche ripreso l’arrivo di una stazione di trasporto aereo C-130 alla base aerea di Hatzor a luglio, alla vigilia dell’esercitazione militare internazionale Bandiera blu. Era la prima volta nella storia delle relazioni tra i due Paesi che un aereo militare marocchino atterrava sul suolo israeliano. Questa forma di cooperazione nel campo dell’industria militare è possibile grazie all’evoluzione della legislazione marocchina. Il 28 giugno il Consiglio dei ministri ha adottato il decreto attuativo della legge sui materiali e gli equipaggiamenti, le armi e le munizioni per la difesa e la sicurezza. Il testo tratta della nascita di un’industria militare e della difesa in Marocco e stabilisce le modalità di fabbricazione, commercio, importazione, esportazione, trasporto e transito di materiali e attrezzature militari. Questa unione tra Marocco e Israele è guidata dallo stesso re Mohamed VI, che ha inviato anche una lettera al presidente Isaac Herzog, in cui ha espresso la speranza che il rinnovo dei legami tra i paesi favorisca la pace regionale, secondo le informazioni diffuse dall'Ufficio del presidente israeliano.
(Startmag Web magazine, 20 settembre 2021)
Aldous Huxley: le nuove democrazie, i totalitarismi mascherati"Con Mario Draghi al comando, i partiti non hanno più voce in capitolo".
di Luca Crisci
In tutte le democrazie del mondo i cittadini stanno accettando quasi inconsciamente che gli uomini al potere non li rappresentino veramente. Spesso bisogna scegliere il meno peggio, è successo con l’ultima elezione del presidente degli Usa e accade in quasi tutti i Paesi, sviluppati e non. In questo secolo, dobbiamo seriamente affrontare un problema di democrazia, perché è evidente a tutti che non è questo che intendevamo con l’istituzione di un ordinamento democratico. A tal proposito è interessante leggere le parole di Aldous Huxley ne Il Ritorno al mondo nuovo (1958): “Le Costituzioni non si abrogheranno e le buone leggi resteranno nel codice; ma tali forme liberali serviranno solo a mascherare e ad abbellire una sostanza profondamente illiberale. Sotto la spinta continua della sovrappopolazione e della super-organizzazione, crescendo l’efficacia dei mezzi per la manipolazione dei cervelli, le democrazie muteranno natura; le antiche forme ormai strane rimarranno: elezioni, Parlamenti, Corti Supreme, eccetera. Ma la sostanza, dietro di esse, sarà un nuovo tipo di totalitarismo non violento. Tutti i nomi tradizionali, tutti i vecchi slogan resteranno esattamente com’erano ai bei tempi andati. Intanto l’oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere”.
Dalle parole di Huxley possiamo capire molto e renderci conto che la piega che stanno prendendo le nostre società non è per nulla incoraggiante. Molte persone pensano che i tiranni siano sempre degli esseri spregevoli e crudeli, con perversioni pericolose e instabili mentalmente. Persone, in breve, che si riconoscono immediatamente. Purtroppo non è così. Per difendere le nostre democrazie, inoltre, dobbiamo capire che non bisogna difendersi soltanto dai tiranni, ma anche da uomini che con il loro modo di fare ostacolano il processo democratico pur stando nel pieno rispetto delle leggi. Ad esempio, non è accettabile che da anni in Italia non ci sia un premier veramente scelto dagli italiani, e non è accettabile neanche se tutto ciò avviene nel completo rispetto delle leggi. Oramai in Italia puoi votare chi vuoi ma poi i partiti con quei voti fanno praticamente quello che vogliono, facendo venire meno il rapporto tra eletti ed elettori. Giuseppe Conte era stato messo come intermezzo tra Lega e Cinque Stelle, poi è diventato lui stesso il padrone della nave senza che nessun italiano gli abbia dato la fiducia. Con Mario Draghi la situazione è peggiorata, perché con lui al comando i partiti non hanno davvero più voce in capitolo.
Difendere la democrazia è quindi un compito più arduo di quanto si possa pensare ed è complicato capire dove veramente essa risieda. Quello che dobbiamo fare è stare attenti, prima che un sistema ampiamente antidemocratico ci entri nelle ossa e sia impossibile liberarsene.
(l'Opinione, 20 settembre 2021)
Il "sistema ampiamente antidemocratico" ci sta già entrando nelle ossa. Proprio a questo si dedica ogni giorno con tenacia il nostro attuale premier, emissario di spicco di quell'elite finanziaria europea che considera tutto l'armamentario democratico di partiti, elezioni, parlamenti, corte supreme e altri annessi come un intralcio di cui liberarsi o da rendere semplicemente innocuo. In questo senso il nostro premier sta lavorando in modo egregio. E' probabile che stia assumendo un ruolo di apripista nella cerchia dei super-democratici. M.C.
Israele: catturati tutti i palestinesi evasi dal carcere di Gilboa
Gli ultimi due prigionieri palestinesi evasi dalla prigione di Gilboa sono stati arrestati a Jenin nella notte di sabato. L’arresto di Munadil Nafayat e Iham Kahamji mette così fine ad una caccia all’uomo durata quasi due settimane, in cui i primi quattro evasi erano stati arrestati nei giorni scorsi.
L’operazione di sabato notte è stata portata a termine dall'IDF, dallo Shin Bet e dalle forze speciali della polizia. Dopo aver circondato la casa dove erano nascosti, le forze in campo hanno spinto i palestinesi evasi ad arrendersi: i due sono usciti disarmati, arrendendosi.
“I due terroristi si sono arresi e sono usciti senza aprire il fuoco. L'arresto è stato condotto senza intoppi”, ha detto dopo l'operazione il tenente colonnello Alon Hanoni, vice comandante del comando regionale dell'IDF, responsabile dell'area di Jenin. Anche due palestinesi coinvolti nella fuga, sono stati arrestati dall’IDF.
Gli ultimi due evasi arrestati, Ayham Kamamji (35 anni) e Munadel Infeiat (26 anni) sono terroristi della Jihad islamica. Kamamji era stato arrestato nel 2006 e condannato all'ergastolo per il rapimento e l'omicidio del giovane israeliano Eliahou Asheri. Infeiat era stato arrestato nel 2020 per le sue attività all'interno della Jihad islamica.
“Tutti e sei i terroristi sono stati catturati e riportati in prigione, in un'operazione impressionante, sofisticata e rapida da parte del Gss, della polizia e dell'IDF. – ha detto il Premier Naftali Bennett - Ringrazio le forze dell'ordine che hanno lavorato, giorno e notte, anche sabato e festivi, per portare a termine l'operazione. Ciò che è andato male può essere riparato".
(Shalom, 19 settembre 2021)
«A Eitan stanno lavando il cervello»
Lo zio paterno in Israele lo ha incontrato per un'ora: è convinto di essere qui per una vacanza.
LA DENUNCIA
Il legale: il bambino ha pronunciato frasi fuori contesto, gli sono state inculcate
LA MOSSA
Il nonno in tv adesso prova a mediare: sediamoci a parlare, dovevamo farlo prima
di Davide Frattini
TEL AVIV - «Lavaggio del cervello». «Incitamento». A questo punto per la famiglia Biran le «condizioni di buona salute» non sono più l'unica preoccupazione. Che il bambino stia bene «d'aspetto» lo riconosce subito lo zio Haggai - fratello di Aya, tutrice legale, e del padre Amit, morto nell'incidente sul Mottarone. Lo ha incontrato ieri mattina per la prima volta da quando è stato portato in Israele - dove Haggai vive - dal nonno materno Shmuel Peleg. Un'ora per giocare insieme, lasciati soli, senza la presenza dell'altra famiglia coinvolta nella battaglia legale e diplomatica.
Quello che viene presentato dai Peleg come un gesto distensivo - «gli abbiamo anche offerto di chiamare Aya» - è stato visto dall'avvocato che assiste qui la zia come un'altra mossa «di una famiglia che diffonde comunicati sulla vita del bambino come se partecipasse a un reality show». Così la reazione: «A tratti Eitan ha pronunciato frasi fuori contesto, messaggi che gli sono stati chiaramente inculcati. È in atto un lavaggio del cervello che sta creando dei danni», spiega il legale Shmuel Moran. Haggai - che è andato con la moglie - avrebbe rifiutato l'offerta di contattare Aya e i nonni paterni che vivono in Israele per non pesare troppo sull'emotività del piccolo.
La famiglia Biran è infuriata per l'intervista concessa da Shmuel Peleg al Canale 12 e trasmessa in prima serata venerdì in uno dei programmi di attualità più seguiti in Israele. Come ha spiegato dall'Italia lo zio Or Nirko, marito di Aya: «Eitan non capisce che cosa stia succedendo, è convinto che il nonno lo abbia portato in Israele per una vacanza. Quando scoprirà la verità, ci saranno conseguenze psicologiche». Shmuel - che è agli arresti domiciliari fino a oggi, dopo essere stato interrogato dalla polizia israeliana mentre in Italia è indagato per sequestro di persona aggravato - ribadisce «un giorno mio nipote mi dirà: nonno mi hai salvato».
Oggi Aya dovrebbe atterrare a Tel Aviv, prima di poter partire ha dovuto rinnovare il passaporto israeliano e aspettare che il Paese ritornasse alle attività normali dopo Yom Kippur e lo Shabbat. L'avvocato Moran ha già annunciato di voler chiedere ai giudici israeliani di affidare Eitan alla zia in attesa dell'udienza prevista il 29 settembre: i Biran hanno invocato la Convenzione dell'Ala e quello che prevede sulla «sottrazione internazionale di minori», sperano di ottenere il via libera dal tribunale per rientrare in Italia con il bambino di sei anni.
Eitan sta in questi giorni nell'appartamento del nonno a Petah Tikva, cittadina non lontana da Tel Aviv, e la famiglia di Tal (la madre morta sul Mottarone) ha fatto circolare foto del piccolo sul balcone, in braccio a Shmuel, sorridente. È per contrastare queste mosse piazzate dalla squadra di Ronen Tzur, lo stratega delle pubbliche relazioni assunto dai Peleg, che i legali dei Biran hanno deciso di rendere pubbliche le paure dello zio Haggai. I Peleg ripetono «di averlo riportato a casa, non è stato un rapimento», durante la lunga intervista Shmuel invita Aya «a sedersi e parlare, avremmo dovuto farlo fin dall'inizio».
(Corriere della Sera, 19 settembre 2021)
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«Stanno plagiando Eitan». Le nuove accuse al nonno
I parenti di Pavia stanno per partire; cresce l'attesa per la prima udienza fissata il 29 settembre
Lo zio paterno vede il bimbo a Tel Aviv: «Sta subendo un lavaggio del cervello»
Sospetti su Peleg, ex generale del Mossad «In Italia gli appoggi per rapire il piccolo»
di Cristiana Mangani
• LO SCONTRO
ROMA - Da una parte il nonno paterno e la sua famiglia, dall'altra i parenti della mamma. Una guerra familiare che difficilmente troverà una soluzione "pacifica". La storia del piccolo Eitan Biran, unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone, sembra complicarsi ogni giorno di più. Il bambino che ha sei anni e fatica ancora a muoversi per i postumi dell'incidente, ieri ha incontrato lo zio paterno, Hagai Biran. «Anche se Eitan appare in condizioni fisiche buone, è preoccupante notare nel piccolo chiari segni di istigazione e di lavaggio del cervello - è l'allarme lanciato dal parente che lo ha visitato nella casa del nonno Shmuel Peleg a Petah Tikva, a pochi chilometri da Tel Aviv. Lo stanno plagiando, il suo ritorno in Italia appare più urgente che mai», ha affermato. Per gli zii, Eitan ha parlato usando frasi fuori dal contesto e messaggi che - a loro dire - gli sono stati inculcati perché istigato. «Si tratta di un danno vero e proprio», hanno spiegato gli avvocati della famiglia Biran in Israele, Shmuel Moran e Avi Chini. Contrariamente alla famiglia dei rapitori che riferiscono in tempo reale della vita del minore come se partecipasse a un reality, noi e la famiglia Biran pensiamo che in questo momento la cosa più opportuna e necessaria sia di proteggere la privacy e l'intimità di Eitan».
• LA STRATEGIA
L'intervento dei legali e della famiglia Biran è seguito a una nota che era stata diffusa da Gadi Solomon, portavoce della famiglia Peleg in Israele, nella quale si dava notizia della visita. «Questa mattina - ha detto Solomon - Hagai e sua moglie hanno visitato il piccolo nella casa di Shmuel Peleg. I due sono stati con Eitan in privato e hanno giocato con lui un po' più di un'ora. Durante la visita è stato proposto loro di telefonare ad Aya in Italia o ai genitori di Amit (che vivono in Israele,ndr) ma loro hanno preferito non gravare oltre Eitan».
Il nonno materno, dunque, non sembra proprio voler mollare. E mostra una strategia molto accurata: ha aperto la porta della sua casa a chiunque - della famiglia e dell'ambasciata italiana-, volesse vedere il piccolo. E poi, ha fatto dare dal portavoce un puntuale resoconto delle visite alla stampa, con la precisa volontà di mostrare quanto il nipote stia bene e quanto sia contento di rimanere con i parenti della mamma. Chiunque lo ha visto, infatti, ammette che Eitan non ha la percezione di essere stato sequestrato. Nonostante abbia espresso il desiderio di rivedere la zia Aya, alla quale i giudici italiani hanno affidato la tutela, non sembra mostrare sofferenza. Una carta questa che il nonno Shmuel giocherà certamente davanti al tribunale israeliano già il 29 settembre, data fissata per la prima udienza. Quando saranno presenti anche gli zii paterni, Aya Biran e Or Nirko, in partenza per Tel Aviv.
• EX 007 DEL MOSSAD
Del resto, chi sia Shmuel Peleg si è capito sin dal giorno del rapimento, quando per portare via il nipote dall'Italia ha messo in atto una vera e propria operazione militare. Ex generale del Mossad, il servizio segreto israeliano, ha pianificato nel dettaglio il sequestro del bambino, grazie anche a una rete di complici sui quali stanno indagando la procura di Pavia e la Polizia. Gli inquirenti stanno ricostruendo la rete di appoggi su cui il nonno ha potuto contare. La Polo sulla quale hanno viaggiato è stata parcheggiata in una strada laterale quando Peleg è sceso per andare a prendere il nipote. Inoltre, l'ex 007 deve essere stato ospitato da qualcuno mentre organizzava l'operazione: in Italia dal 4 settembre, ha dormito solo un paio di notti in albergo. E ieri, sul profilo Facebook di Ron, zio materno di Eitan, in un messaggio rivolto a una donna che polemizzava con lui, scriveva: «Aspetta di sapere chi ha dato un supporto e un aiuto al sequestro e starai zitta». Il messaggio è stato poi cancellato. Lo zio Ron è marito di Gali, zia materna di Eitan, che vive in Israele, e che già da mesi aveva lanciato appelli per chiedere che il bambino tornasse a vivere lì.
(Il Mattino, 19 settembre 2021)
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«Eitan sequestrato? Le "radici ebraiche" non c'entrano»
Lettera al Corriere della Sera
Leggo gli interventi sulla vicenda di Eitan Biran, unico sopravvìssuto alla tragedia del Mottarone (avvenuta il 23 maggio scorso), e sento di dover reagire.
Si tratta di un bambino di sei anni che ha subito il trauma della perdita dei genitori e del fratello e che è stato sequestrato dal nonno materno, ex militare, con un volo privato e sottratto alla zia paterna, suo tutore legale.
Questo «signore» è indagato dal Tribunale di Pavia per sequestro di persona ed è agli arresti domiciliari in Israele, dove il bambino è stato portato. L'atteggiamento indulgente verso il nonno che ha riportato Eitan nel luogo delle sue «radici ebraiche» è inaccettabile e, tra l'altro, nega secoli di storia e teoria della Diaspora. E' necessarìo convincersi che essere ebrei è cosa molto diversa, per natura, dall'essere Israeliani. Senza questo passaggio ogni discussione su Israele diventa ideologica; la vicenda di Eitan ci parla, invece, di leggi e reati che devono lasciare poco spazio all'interpretazione.
Se il gesto dell'uomo fosse motivato dalla disperazione di un padre che ha perso il figlio e che cerca di trattenere il suo ricordo, dovrebbe suscitare compassione ma se, come alcuni sostengono, fosse un surreale ritorno alle radici ebraiche, sarebbe da condannare senza se e senza ma,
Il fatto che Eitan si trovi ora in un altro Paese democratico non deve far ragionare, né ebrei né non ebrei, diversamente da come si farebbe se ad essere rapito fosse stato un bambino zoroastriano portato in Iran o musulmano portato nel Maghreb.
Sylvia Bartyan
(Corriere della Sera, 19 settembre 2021)
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L'imbarazzo di un amico di Israele
di Marcello Cicchese
Il caso Eitan mette a disagio molti, ma forse non tutti si decidono a esprimerlo apertamente, soprattutto fra gli ebrei italiani e gli amici di Israele. Da almeno vent'anni mi presento pubblicamente come amico di Israele, e anch'io ho esitato prima di esprimere chiaramente la mia posizione. Perché? per non favorire troppo quelli che cercano ragioni per dare contro a Israele, ben sapendo che in questo caso possono trovarle. L'ho fatto in privato, con una cara amica ebrea israeliana propensa a giustificare "ideologicamente" l'operato del nonno rapitore. Non ho avuto risposta, quindi la ripresento pubblicamente nella parte che riguarda il fatto di Eitan:
«E' chiaro che la maggior parte dei giornali cerca di insistere su quello che può mettere in cattiva luce Israele, come lo stupido riferimento al fatto che quel nonno è un ex-soldato, ma questo lo si sa, e non può essere sottolineato ogni volta per difendere qualsiasi cosa faccia Israele. Ha fatto bene il governo israeliano a dare il parere dei suoi legali, anche se non ha valore operativo, ma al di là di quello che giudicheranno i tribunali, questa è la posizione giusta che doveva tenere il governo israeliano nei confronti di un'altra nazione come l'Italia. Non basta condannare genericamente "il comportamento estremo del nonno" sostenendolo con generici riferimenti al mantenimento dell'ebraicità del piccolo. Quel nonno, insieme alla sua famiglia, e non si sa chi altro, ha commesso atti gravi sotto molteplici aspetti, facendo sorgere sospetti (che non si possono dire campati in aria) di interessi economici e di rapporti oscuri con poteri forti in Israele. Quindi come prima cosa bisogna condannare apertamente e dettagliatamente tutti i fatti che hanno permesso quella riprovevole azione, poi si possono fare altri discorsi sulla giustizia che funziona male o altro.»
I sospetti sopra accennati sono tutt'altro che scomparsi con il passare dei giorni e ad essi si è aggiunta un'inaccettabile dichiarazione del nonno rapitore: "non mi fido della giustizia italiana". A questo punto le persone in imbarazzo potrebbero essere molte di più, a cominciare dall'ambasciatore di Israele in Italia, per continuare con le autorità israeliane che dovranno pronunciarsi sul caso, per finire con tutti gli ebrei israeliani che per vari motivi di studio o di lavoro sono ospiti in terra italiana. Fare tra amici al bar una dichiarazione come "non mi fido della giustizia italiana", è una cosa; altra cosa è presentarla come plausibile spiegazione di un reato commesso in terra italiana da uno straniero. In questo modo viene fuori un'inaccettabile arroganza che poi può essere facilmente estesa a tutto Israele da quelli che non hanno in simpatia gli ebrei. Che purtroppo sono molti. Ed è proprio per questo che gli amici di Israele dovrebbero prendere chiaramente le distanze dal riprovevole comportamento di quel nonno. Proprio perché sono amici di Israele.
(Notizie su Israele, 19 settembre 2021)
"Un robot killer in Iran così Israele ha ucciso il super scienziato"
Il New York Times: il capo del programma nucleare Fakhrizadeh colpito da un cecchino distante migliaia di chilometri da Teheran.
di Anna Lombardi
NEW YORK — Una mitragliatrice telecomandata capace di sparare 600 colpi al minuto, montata su un camioncino e azionata da remoto: Mohsen Fakhrizadeh, il fisico considerato la mente del programma nucleare iraniano, fu ucciso così il pomeriggio del 27 novembre 2020 nei pressi della sua casa di campagna di Absard, villaggio a est di Teheran dove usava trascorrere il fine settimana come buona parte dell’élite iraniana. Con un’arma-robot, raffinata e precisa – capace di risparmiare la moglie che viaggiava con lui – azionata quasi certamente da uomini del Mossad grazie a un collegamento satellitare. Lo dice una mega inchiesta pubblicata ieri dalNew York Times e basata sì sulle dichiarazioni rilasciate ai media dalla donna superstite e dal figlio, ma anche su colloqui con agenti americani e israeliani.
Certo, nessuno dei due governi ha mai confermato pubblicamente l’uso di un’arma guidata da intelligenza artificiale per portare a termine l’agguato. E il camioncino su cui era caricata la micidiale arma è stato fatto esplodere subito dopo nel tentativo di cancellare ogni prova. Ma l’esplosione ha distrutto solo in parte la mitragliatrice prodotta in Belgio – unica pecca del piano – e, sopravvissuta al rogo, ha permesso di puntare il dito su agenti israeliani. Una squadra che di sicuro, al momento dell’attacco, era già lontana migliaia di chilometri. Il grilletto premuto, sì: ma dallo schermo di un computer oltre confine.
L’intelligence iraniana, in realtà, aveva avvertito più volte Fakhrizadeh: a Gerusalemme lo volevano morto da almeno 14 anni, certi che fosse proprio lui a guidare gli sforzi iraniani per realizzare l’atomica. Ma lo scienziato «voleva una vita normale» come dicono le fonti del quotidiano. E, dopo essere stato per anni al centro di minacce e complotti «non vi prestava più molta attenzione». Insistendo per guidare la sua auto da solo, invece di girare circondato da guardie del corpo su un veicolo blindato. Era scortato, è vero: ma da uomini che viaggiavano su un’auto al seguito. Eppure a partire dal 2007 già cinque suoi collaboratori erano stati uccisi (e un altro ferito), con l’intento evidente di bloccare ad ogni costo il programma segreto di costruire una testata nucleare, sfidando il problema tecnico di realizzarne una abbastanza piccola da stare in cima ai missili a lungo raggio dell’Iran. E nel 2011 era stato ucciso anche il generale Hassan Tehrani Moghaddam, insieme a 16 uomini della sua squadra, responsabile del programma di sviluppo missilistico.
In realtà dopo la morte di Fakhrizadeh si sono sovrapposte testimonianze confuse e contraddittorie di soccorritori e vicini: tanto che, quando i giornali locali hanno iniziato a parlare di robot, molti sui social hanno deriso la storia, ritenendola una sorta di diversivo per coprire la brutta figura dei servizi segreti incapaci di proteggere il suo scienziato più utile e illustre. E invece, scrive ancora il New York Times , «l’arma robot esisteva davvero». E «l’uccisione pianificata a Washington durante una serie di incontri a inizio 2020 tra il direttore del Mossad, Yossi Cohen, e alti funzionari americani: compreso l’allora presidente Donald Trump, il segretario di Stato Mike Pompeo e l’allora capo della Cia Gina Haspel».
Un piano poi affrettato, dopo la sconfitta elettorale del repubblicano: «Per uccidere un alto funzionario iraniano, atto potenziale di guerra, serviva l’assenso degli Stati Uniti» scrive ancora il giornale. «Ciò significava agire prima che Biden entrasse alla Casa Bianca. Nella speranza di far così anche fallire ogni possibilità di resuscitare l’accordo nucleare».
(la Repubblica, 19 settembre 2021)
Khamenei: gli atleti non diano la mano agli israeliani
«Gli atleti iraniani non possono stringere la mano agli atleti del regime criminale sionista e riconoscerli ufficialmente in questo modo solo per l'interesse di una medaglia»: lo ha detto la Guida spirituale Ali Khamenei in un incontro con i vincitori di medaglia olimpica e paralimpica iraniana ai Giochi di Tokyo 2020, ricordando ancora una volta il divieto di competizione per gli atleti iraniani con gli israeliani, in vigore dalla Rivoluzione islamica del 1979. Per anni, gli sportivi dell'Iran hanno fatto in modo di evitare di incontrare i colleghi di Israele facendosi squalificare. li leader ha anche criticato le atlete iraniane emigrate per protestare contro i divieti e che hanno preso parte ai Giochi sotto la squadra dei rifugiati.
(Avvenire, 19 settembre 2021)
La sfida "cool" di Soho House all'ombra degli scontri
di Fabiana Magrì
La classe creativa di Tel Aviv ha una nuova casa. Soho House, la catena globale di club esclusivi che a luglio ha debuttato alla Borsa di New York, ha scelto di stabilirsi a Giaffa, in un edificio costruito verso la fine del XIX secolo e rimasto vuoto per molti anni. La filosofia del brand punta sull'armonia - difficile da azzeccare - tra freschezza ed esclusività, diversità e inclusione. La città di Tel Aviv ha molto da offrire, ma il suo tessuto sociale rappresenta anche una sfida. Che si è presentata subito a ritardare l'inaugurazione del club, lo scorso maggio, durante gli scontri violenti tra estremisti arabi ed ebrei che infuocarono Giaffa nel contesto dell'ultimo round di conflitto tra Israele e Hamas. I disordini e i posti di blocco della polizia erano proprio alle porte dell'ex convento D su Yefet Street, mentre all'interno, nel cantiere della Soho House già rallentato dalla pandemia, si completavano le rifiniture in vista del soft opening. A distanza di quattro mesi, mentre i primi soci iniziano a frequentare la piscina, il bar e il giardino di ulivi centenari portati dalla Galilea, la sfida sembra lasciata alle spalle. Ma resta da vedere se la composizione mista di Giaffa, troverà espressione nella comunità degli iscritti oltre che nelle opere d'arte alle pareti e nella carta del ristorante. In tutto il mondo le Soho House sono una trentina e l'autunno riserva nuove inaugurazioni per Roma e Parigi.
Per il marchio di Nick Jones, Tel Aviv è la seconda apertura in Medio Oriente, dopo Istanbul nel 2015. Ma la vibrante città sul Mediterraneo era già nota agli inquilini globali del club, fin da quando - prima città a prendere parte al programma - entrò nella rete delle "Cities Without Houses", un format che è una sorta di preliminare per quelle località senza una sede ufficiale, ma in cui c'è una comunità attiva che organizza eventi in stile "Soho". Il successo della Casa di Giaffa è dato per scontato, e si inserisce in un trend post pandemia che ha fatto crescere l'attesa per altre aperture (e ri-aperture) chic, dal dirimpettaio "The Jaffa al Six Senses Shaharut", vera e propria cattedrale del lusso nel profondo deserto del Negev.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Eitan, accuse incrociate. La guerra per l’affido a colpi di interviste tivù
Il nonno che l’ha rapito "Non mi fidavo della giustizia italiana" Revocati i domiciliari
di Paolo Berizzi, Pavia
e Sharon Nizza, Tel Aviv
La battaglia legale sul destino del piccolo Eitan si riverbera sugli schermi televisivi. Due versioni contrastanti, due lunghe interviste ai canali concorrenti: a parlare sono il nonno materno Shmuel Peleg — indagato per sequestro di minore e ieri rilasciato dai domiciliari dopo quattro giorni — e Aya Biran, la zia paterna, tutrice legale del bambino unico superstite della tragedia del Mottarone. «È uscito di casa in maglietta e pantaloncini, pensava di andare a comprare dei giochi, ma è stato strappato al nucleo familiare con cui vive da quando ha subito il trauma », dice Aya nell’intervista al Channel 13. «Siamo decollati in via del tutto legale per Israele» sostiene il nonno che una settimana fa ha prelevato Eitan da casa della zia per la visita di routine, salvo condurlo in Israele con un aereo privato da Lugano. Ma se è così sicuro della legalità dell’atto, perché non prendere un volo di linea, chiede la giornalista di Channel 12? «Lo volevo portare qui quanto prima, senza esporlo alla gente». E la convenzione dell’Aja? «Non mi intendo di convenzioni. Io sono il nonno. Il bene del bambino viene prima del mio interesse personale ». E il suo bene è in Israele, dice, dove Amit e Tal, nella ricostruzione dei Peleg, avrebbero voluto fare rientro a breve.
«Per guarire completamente Eitan deve tornare alla routine che conosce da quando ha un mese di vita ed è arrivato a vivere in Italia — dice Aya — Eitan è un bambino. Non un monumento alla memoria".
Sulla sentenza definitiva che lo ha condannato a 15 mesi con la condizionale nel 2006 per maltrattamenti verso l’ex moglie Esther Cohen (anche lei indagata in Italia per sequestro), Peleg dice che «sono fatti di 20 anni fa avvenuti durante il divorzio e non hanno impedito che ricevessi la custodia congiunta dei figli ». Le voci secondo cui la guerra tra le famiglie sarebbe motivata da interessi economici (l’eredità del bisnonno, il risarcimento dell’assicurazione) fanno capolino anche a Tel Aviv. «Abbiamo chiesto di congelare i beni di Eitan fino ai 18 anni, gli avvocati di Aya si sono opposti. Perché? ». Dal canto suo, Aya che domani partirà per Tel Aviv, respinge le insinuazioni: «Non è affatto una questione di soldi, non ricevo uno stipendio dallo Stato come tutrice, o Eitan un sussidio da orfano».
«Quando Eitan crescerà un giorno mi dirà "Nonno, hai fatto tutto il possibile per me, mi hai salvato" —non ha dubbi Shmulik, che afferma di aver «perso la fiducia nel sistema giudiziario italiano». «E mia figlia — dice con la voce interrotta dal pianto — quando un giorno ci incontreremo in cielo, sarà fiera di me perché l’ho riportato a casa». Un’affermazione a cui reagisce Or Nirko, marito di Aya: «Ora Eitan non si rende conto di quello che è successo, crede che il nonno lo abbia portato in vacanza in Israele, ma più avanti capirà e ci saranno conseguenze psicologiche ». Nella casa di nonno Peleg, a Petah Tikva, Eitan sta bene, continuano a dire i familiari materni. Lo conferma anche l’ambasciata d’Italia in Israele dopo una visita del console avvenuta ieri, alla presenza del nonno: «Il piccolo Eitan è apparso in buone condizioni di salute». In vista dell’inasprirsi delle tensioni nei prossimi giorni, quando i Biran arriveranno in Israele e chiederanno attraverso i loro legali che la custodia di Eitan passi a loro anche durante il processo che si aprirà il 29 settembre, la famiglia Peleg offre gesti distensivi. Ieri si è svolta una terza telefonata tra Eitan, gli zii e le cuginette di Pavia, e oggi il fratello di Aya che vive in Israele, Hagai Biran, incontrerà per la prima volta il bambino.
(la Repubblica, 18 settembre 2021)
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Il nonno di Eitan e la fuga in auto. A Lugano fu fermato per un controllo
Si indaga su possibili coperture e complicità. Alla guida della Golf un misterioso autista israeliano. In aeroporto Nessun controllo pur non avendo alcun documento valido per portare con sé il nipote.
di Giuseppe Guastella
Nessun ostacolo al confine con la Svizzera, tutto liscio all'aeroporto di Lugano,. ora si scopre che Shmuel Peleg ha superato indenne perfino il controllo di una pattuglia della polizia elvetica che lo ha fermato mentre fuggiva su un'auto guidata da un misterioso autista israeliano e sulla quale c'era il nipotino che aveva rapito nel Pavese e nei cui confronti era stato diramato l'allerta internazionale per impedire che lasciasse l’Italia. Man mano che le indagini sul rapimento di Eitan Biran vanno avanti, si addensano sempre più i sospetti che Peleg abbia potuto contare su una rete di complicità per portare a termine il rapimento del nipotino di 6 anni, unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone, per il quale la Procura di Pavia lo accusa di sequestro di persona aggravato insieme con la ex moglie, Bsther Athen Coen, 57 anni. Tenente colonnello dell'esercito israeliano in pensione dopo 25 anni di servizio nei reparti delle telecomunicazioni, consulente di un'importante azienda elettronica nel suo Paese, 58 anni, Peleg preleva Eitan alle 11,30 di sabato scorso dall'abitazione di Travacò Siccomario (Pavia) in cui il piccolo vive con la famiglia della zia Aya, alla quale è stato affidato dal giudice tutelare dopo l'incidente in cui ha perso il padre, la madre Tal (figlia di Peleg), il fratellino di 2 anni e due bisnonni. Se le cose non prendessero poi una piega del tutto diversa, dovrebbe trattarsi di uno degli incontri periodici autorizzati dal giudice Michela Fenucci per garantire al bambino, che è stato investito da un trauma enorme, l'affetto di tutti i suoi parenti. Come il nonno materno che dal 23 maggio, giorno dell'incidente del Mottarone, ha trascorso lunghi periodi in Italia per stargli accanto anche nell'ospedale di Torino, dove per più di un mese è stato ricoverato per le fratture che aveva riportato nello schianto della cabina della funivia. L'uomo è stato registrato per brevi permanenze, uno o due giorni, il 24 e il 30 maggio in due alberghi di Torino e il 3 luglio in un hotel nei pressi della stazione Termini di Roma. Non c'è alcuna registrazione, invece, per i lunghi periodi che ha trascorso a Milano, sembra in un albergo vicino alla stazione centrale che si dice sia frequentato da personaggi legati ai servizi segreti, e in un bed&breakfast. Invece di riportare il bambino dalla zia entro le 18,30 come previsto, l'incontro di sabato si trasforma in un ritorno in patria Gli investigatori, diretti dal procuratore facente funzioni Mario Venditti, stanno acquisendo i tabulati del cellulare di Shmuel Peleg, le immagini delle telecamere di sorveglianza e i dati dei passaggi autostradali per ricostruire i contatti dell'ex ufficiale prima del rapimento e i movimenti del veicolo nei 150 chilometri che separano Travacò Siccomario da Lugano. L'auto è una Volkswagen Golf blu noleggiata il giorno prima all'ufficio della Europcar dell'aeroporto di Malpensa Peleg risulta entrato in Italia l'ultima volta il 2 settembre scorso, quando è stato identificato agli «Arrivi» di Malpensa. Se non è tornato in aeroporto il 10 ottobre, la Golf potrebbe essere stata affittata da un'altra persona che rischierebbe l'accusa di complicità nel sequestro. Già dalla metà di agosto la Procura di Pavia, su indicazione del giudice tutelare, aveva segnalato alla Polizia e alla Prefettura il rischio che Peleg, che contesta energicamente l'affidamento di Eitan alla zia Aya, potesse abbandonare l'Italia portandosi dietro il nipote. Nonostante un preventivo comunicato diramato in area Schengen e in Svizzera, intorno alle 13,30 la Golf varca senza alcuna difficoltà il confine italo-svizzero, forse alla dogana di Chiasso; Dopo una trentina di chilometri, viene fermata dalla Polizia svizzera nei pressi dell'aeroporto di Lugano-Agno per quello che sembra essere un normale controllo. Vengono identificati Peleg, Eitan e il conducente, G. A. A., 50 anni, cittadino israeliano su cui non risultano annotazioni nelle banche dati in uso alle forze dell'ordine italiane. Sono le 14,10, Peleg ha fretta. È in ritardo sull'orario d'imbarco del costoso volo privato per Tel Aviv fissato per le 13,45. Oltre al suo passaporto israeliano, esibisce quello del nipotino, lo stesso del quale la zia paterna aveva denunciato la scomparsa. Quando disse che il documento lo aveva lui, il giudice lo invitò a consegnarlo ad Aya Biran entro il 30 agosto. Non l'ha mai fatto. Nessuna verifica neppure ai controlli all'imbarco, dove Peleg si presenta con un minorenne senza un documento che gli consenta di portarlo con sé. Alle 18,25 il Cessna 680 atterra a Tel Aviv.
(Corriere della Sera, 18 settembre 2021)
Sputi sulla targa e danni all'auto. «Soffiano venti di antisemitismo»
La denuncia alla Digos: due vandalismi ravvicinati ma probabilmente non collegati fra loro
La macchina era parcheggiata sotto la stazione. Gli investigatori passano al setaccio le telecamere
di Stefano Brogioni
FIRENZE - Un vilipendio e ripetuti atti vandalici contro il consolato d'Israele a Firenze e il suo rappresentante, Marco Carrai. La targa posta all'ingresso della sede, nella centralissima via della Spada, è stata presa a sputi. Alla macchina di servizio, parcheggiata alla stazione di Santa Maria Novella sono stati infranti i finestrini, probabilmente con lo scopo di mettere a segno un furto, anche se chi voleva rubare, quando l'allarme ha cominciato a suonare, si è dileguato. Probabilmente, questo secondo episodio, non è attribuibile a qualcuno che voleva colpire direttamente la rappresentanza in città dello Stato ebraico, ma il primo sì, senza alcun dubbio. I due episodi insieme, poi, destano una certa preoccupazione.
«Il consolato di Israele a Firenze condanna fortemente questi atti antisemiti e anti israeliani che nuovamente soffiano anche nel nostro territorio», dice una nota. La prefettura, ieri, ha assicurato che sono stati disposti «immediati e puntuali accertamenti da parte delle forze di polizia e che sono stati intensificati i servizi di vigilanza dedicati.
Il sindaco Dario Nardella ha subito preso le distanze e condannato il gesto, al momento opera di ignoti. «Esprimo a nome mio personale e della città di Firenze la più ferma condanna per gli episodi di vandalismo contro la sede del consolato di Israele a Firenze e l'auto consolare», ha detto, rivolgendo anche «all'ambasciatore israeliano a Roma Dror Eydar la mia totale solidarietà e vicinanza per questi gesti vigliacchi - ha continuato Nardella -. Sono fatti che non avrei mai voluto vedere in una città civile, aperta e universale come Firenze. Mi auguro che gli inquirenti individuino al più presto i responsabili di questi gesti e rispondano di quanto commesso».
La Digos, diretta da Domenico Messina, è al lavoro. Fondamentali sono le immagini di alcune telecamere che sono state subito acquisite. Meno apprensione, come detto, suscita l'episodio avvenuto nel parcheggio sotterraneo della stazione di Santa Maria Novella. L'Audi di rappresentanza era parcheggiata lì sotto. I filmati documentano l'avvicinarsi di alcuni soggetti, che hanno infranto il finestrino ma così facendo hanno innescato la sirena dell'antifurto e se la sono dati a gambe. Probabilmente volevano cercare qualcosa di valore a bordo, visto che la macchina non porta alcun segno che riconduce al consolato di Israele.
Sempre la settimana scorsa, ma non in contemporanea, qualcuno ha però sputato all'indirizzo della targa posta sull'edificio che ospita la sede. Sono al vaglio le telecamere della zona per verificare se l'autore del gesto è rimasto intrappolato in qualche frame. E stavolta, il caso non c'entra.
(La Nazione - Firenze, 18 settembre 2021)
Europei di Baseball - L'Italia si arrende a Israele in semifinale
Gli azzurri perdono 11-5 e sfideranno la Spagna per il bronzo
Una partenza a suon di fuoricampo, tre nei primi due attacchi, non basta all'Italia per superare Israele nella semifinale dell'Europeo. Gli azzurri devono arrendersi nettamente (11-5) contro una squadra cinica, che ha sfruttato molto bene anche i problemi di controllo dei lanciatori che si sono alternati sulla collinetta e che hanno messo in base per ball qualcosa come tredici battitori. Un bottino troppo pesante, anche se il line-up avversario è stato bravo a capitalizzare i corridori in corsia: tutti gli uomini hanno battuto almeno una hit, con due doppi di Lowengart e Glasse da tre punti ciascuno che alla fine hanno fatto la differenza.
(Rai Sport, 18 settembre 2021)
Nessuno risponde ai miei interrogativi. Ma mi sospendono dall'Ordine dei medici
"Ho rifiutato di essere sottoposta all'inoculazione di farmaci sperimentali con effetti collaterali soltanto in parte conosciuti".
di Silvana De Mari
Sono stata sospesa dall'Ordine dei medici di Torino. Potrei essere di nuovo integrata se accettassi l'inoculazione di farmaci che, come il premio Nobel Luc Montagnier e innumerevoli altri, considero discutibili. Assolutamente sbagliata è la costrizione. Ho rifiutato di essere sottoposta all'inoculazione di farmaci sperimentali con effetti collaterali solo in parte conosciuti, che in molti casi hanno causato la morte, che non impediscono la trasmissione della malattia, che hanno un'efficacia molto dubbia e che dovrebbero servire a contrastare una malattia che curo con successo da mesi con l'uso di farmaci di basso costo che maneggiamo da decenni. Essendo in pensione la cosa non mi crea nessun problema dal punto di vista economico. Dal punto di vista etico è invece un vantaggio, perché trovo imbarazzante essere iscritta all'Ordine dei medici, essendo gli Ordini diventati carrozzoni politico-burocratici, braccia armate del potere statale, mentre erano nati proprio per contrastare ogni potere che si abbattesse sui medici e sul loro diritto dovere di curare al meglio propri pazienti. Per me è irrilevante, ma per un medico nell'esercizio delle sue funzioni questo è catastrofico.
Riporto il testo delle domande che avevo posto nella mail inviata all'Ordine e al quale nessuno si è degnato di rispondere. Chiedo ancora delucidazioni.
Il vaccino non blocca la trasmissione della malattia. Ne diminuisce solo l'intensità dei sintomi e non nelle vantate percentuali.
Qual è l'esatto meccanismo di funzionamento del trattamento sanitario in oggetto? Che rischi di complicazioni future a breve, medio e lungo termine ci sono?
Come è stato affermato addirittura in Senato si tratta di farmaci in fasi completamente sperimentali che possono essere inoculati solamente dove non esistano terapie alternative. Le centinaia di migliaia di pazienti guariti brillantemente con le terapie domiciliari a base di vit D, vit C zitromicina, idrossiclorochina, cortisone ed eparina, per quale motivo non sono stati considerati una prova? Dato che nessuno ha verificato se ho già avuto la malattia, e che gli anticorpi alti non sono considerati un motivo di esenzione, chi si assume la responsabilità penale e civile casomai io sviluppi una sindrome Ade dopo l'inoculazione?
Dato che questo trattamento è ritenuto a questo punto obbligatorio per la mia categoria lavorativa, il farlo senza specificare a chi rivolgersi per la domanda di risarcimenti è un ulteriore passo verso una incredibile illegalità. Se dovessi sperimentare una grave reazione avversa, con effetti a lungo termine (ancora sconosciuti) che portano anche alla morte, derivanti dalla vaccinazione io (o la mia famiglia) saremo risarciti? Posso avere nome, cognome e numero di polizza della persona che potrò denunciare e sapere fino a che cifra copre la sua polizza? Quale sarebbe il motivo per cui sono obbligata a farmi iniettare un siero tenendo presente che l'inoculazione di questi farmaci non blocca la trasmissione della malattia? Secondo l'articolo articolo di Peter Doshi pubblicato il 4 gennaio sul British medicai journal «i cosiddetti sieri Pfizer e Moderna non intervengono sull'infezione ma solo sulla malattia, diminuendone l'intensità dei sintomi non del 95% come millantato ma di un banalissimo e squallido 25 %» (shorturl.at/iwEXZ).
Ho chiesto che mi venisse comunicato per scritto, con firma leggibile e numero di polizza assicurativa, su chi potersi rivalere in caso di eventi avversi. Silenzio...
Per inciso sono in grado di diminuire quei sintomi del 99% mediante la prescrizione di zitromicina, idrossiclorochina, cortisone ed eparina, la stessa formula con cui ho guarito innumerevoli pazienti mentre altri colleghi si limitavano alla prescrizione disastrosa di tachipirina e vigile attesa. I sieri che definite vaccini mi risulta non prevengano la malattia, non risulta nemmeno a Peter Doshi, purtroppo non risulta nemmeno ai molto vaccinati popoli della Gran Bretagna e di Israele, che hanno dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che aver subito entrambe le dosi quando con tre non diminuisce il contagio e non risulta nemmeno alla Public health England, che ha appena condotto una ricerca che ha evidenziato in un rapporto di 40 pagine che ha dimostrato una carica virale uguale tra vaccinati e non vaccinati. I sieri attualmente in uso quindi non prevengono l'infezione come la legge prescrive (dl.44 Conv L 76/2021) dunque non vi è alcun obbligo di ricevere quel siero, perché non fa ciò che la legge richiede, e chiedo, anzi pretendo, in quanto cittadino di uno Stato democratico che mi garantisce una libertà pagata lacrime e sangue, che qualcuno mi spieghi dove è la logica, o che si scusi per la mancanza di logica. Potete certificarmi che nessuna delle sostanze che volete inocularmi sia stata preparata usando cellule umane di feti abortiti? Esercito a tutti gli effetti piena obiezione di coscienza. Ci risulta che i farmaci Astrazenica e Jonshon & Jonshon sono ufficialmente coltivati su cellule di feto abortito, in realtà neonato molto prematuro vivisezionato, mentre i sieri Pfizer e Moderna sono testati su cellule della stessa origine. Nel caso possiate contestare questa affermazione potrei avere una dichiarazione con una firma leggibile sotto che dimostri su quali tipi di cellule sono stati testati gli Rna Pfizer e Moderna? Esigo mi certifichiate che non c'è rischio di reazioni iatrogene, che per nessun motivo potrei avere una paralisi di Belle, una sindrome di Guillain Barré, una trombosi; il foglietto illustrativo scrive che «non sono stati effettuati studi di genotossicità né di cancerogenicità». Se non sono stati effettuati studi, come sapete che non è cancerogeno? Mi obbligate a un farmaco che potrebbe essere cancerogeno per quanto ne sapete voi? Pretendo che mi certifichiate inequivocabilmente e in buona fede, in conformità con l'articolo 13 della Convenzione di Oviedo, che questa tecnologia non ha il potenziale di modificare il Dna umano attraverso la cosiddetta trascrittasi inversa o la polimerasi delta. Da dove deducete con certezza assoluta che io non abbia in nessuna delle mie cellule trascrittasi inversa o polimerasi delta che permette esplicitamente il trasferimento di informazioni dall'mRna al Dna? Se non lo sapete con certezza come vi viene in mente di iniettarmi dell'Rna? Chiedo che mi certifichiate che il siero non contiene una qualsiasi forma di nanotecnologia. Chiedo che mi certifichiate che tutti i parametri medici per i test e gli studi richiesti sono stati rispettati inclusi i tempi di osservazione di almeno 3 anni indispensabili per mettere a fuoco le reazioni a distanza. Esigo di sapere se dopo la vaccinazione posso smettere di usare la mascherina, posso evitare il distanziamento, sono immune, ho la certezza che non posso più morire o essere ospedalizzata per Sars 2 Covìd-19 e, soprattutto, se mi vaccino, sarò contagioso/a per gli altri? Vorrei risposte per scritto e con firma leggibile e numero di polizza per il risarcimento se, Dio non voglia, qualcuno ha raccontato cose che non si sono avverate, qualcuno cioè ha spacciato opinioni discutibili per scienza inoppugnabile.
(La Verità, 17 settembre 2021)
Naturalmente anche articoli come questo possono essere presi di mira da chi si dedica alla caccia dei no-vax segnalando pericoli di sollevazioni di scatenati no-green pass, o facendo comparire articoli che titolano «Tutte le risposte a chi nutre dubbi sui vaccini anti-Covid». Ciascuno decida il valore da dare a questi articoli, ma in ogni caso non si può non vedere che l'attuale situazione sanitaria non giustifica affatto tutto lo zelo che si mette per spingere la popolazione a vaccinarsi e a farlo subito. Per spiegare questa singolarità non è necessario immaginare misteriosi "complotti" di oscuri personaggi che lavorano nell'ombra, è sufficiente tener presente che le multinazionali farmaceutiche hanno la possibilità di comprarsi persone di tutti i tipi: politici, virologi, medici e giornalisti. E di questo ci sono numerose documentazioni, tra cui articoli che non compaiono sui grandi media e libri che non vengono reclamizzati. I soldi, da che mondo è mondo, hanno una forza reale: decidere di non tenerlo presente è da ingenui o da mistificatori. E' Mammona oggi il Grande Medico che si preoccupa della salute di noi tutti, uomini bisognosi incapaci di prendersi cura della propria salute e di quella degli altri. Chi pensa, pur non essendo convinto, di dover cedere alla pressione vaccinale per validi motivi, lo faccia, e nessuno lo biasimi. Riprovevoli sono invece quelli che per soldi o per paura spingono gli altri a farlo e denigrano chi non lo fa. M.C.
Israele - Il direttore del Ministero della Sanità: la diffusione del coronavirus raggiunge livelli record
Poiché vengono diagnosticati oltre 10.000 nuovi casi, Nachman Ash dice ai legislatori che aveva sperato che la recente tendenza al ribasso continuasse.
di Stuart Winer
Il direttore generale del Ministero della Sanità, Nachman Ash, martedì ha dichiarato che l'attuale ondata di infezioni da coronavirus sta superando qualsiasi livello visto nei precedenti focolai e che è deluso dal fatto che una recente tendenza al ribasso sembra essersi invertita.
Le osservazioni di Ash tramite videochiamata al comitato della Knesset Costituzione, Legge e Giustizia sono arrivate quando i dati del Ministero della Sanità hanno mostrato che il giorno prima sono stati diagnosticati oltre 10.000 nuovi casi di COVID-19 e che il tasso di positività ai test stava aumentando.
Sottolineando che c'è una media di 8.000 nuove infezioni ogni giorno, con picchi occasionali superiori a 10.000, ha detto: "Questo è un record che non esisteva nelle ondate precedenti", inclusa la massiccia terza ondata alla fine dello scorso anno.
Ash ha espresso un certo pessimismo, anche se ha osservato che, smentendo i timori, non c'è stato un grande picco di infezioni dopo la festa di Rosh Hashanah della scorsa settimana - il capodanno ebraico - o l'apertura dell'anno scolastico all'inizio del mese.
Dopo aver ridotto le infezioni giornaliere a poco più di una dozzina a giugno, Israele ha combattuto per controllare una rinascita di COVID-19 in quella che è stata la sua quarta ondata di infezioni dall'inizio della pandemia globale.
“Una settimana fa eravamo in una chiara tendenza al ribasso; negli ultimi giorni abbiamo assistito a un arresto del declino e il numero di riproduzione del virus è [di nuovo] superiore a 1", ha detto Ash sul cosiddetto numero R, che indica quante persone infetterà ciascun portatore di virus. I valori sopra 1 mostrano che l'epidemia è in crescita, sotto 1 che si sta riducendo.
"Speravo di vedere un calo più netto, ma ancora non lo vediamo", ha detto.
Ash ha anche detto che il numero di malati gravi oscilla tra 670 e 700. Ogni giorno 70-80 nuovi pazienti si ammalano gravemente, leggermente meno rispetto alle ultime settimane.
Il numero di pazienti sui ventilatori è aumentato negli ultimi dieci giorni da 150 a 190, mentre il numero di quelli sulle macchine ECMO più critiche è passato da 23 a 31, ha affermato.
Nonostante i numeri, Ash ha affermato che la cosiddetta restrizione del Green Pass sarebbe stata rimossa dalle piscine all'aperto, in parte per aiutare i genitori a cercare attività per i propri figli durante il periodo delle vacanze quando le scuole sono chiuse. Il periodo delle vacanze, compreso il festival di Sukkot, che dura una settimana e termina il 28 settembre.
(The Times of Israel, 14 settembre 2021)
Vaccinatevi, vaccinatevi, e presto raggiungeremo il contagio di gregge. M.C.
Come rendere schiave le persone
Al processo di Norimberga fu chiesto al gerarca nazista Hermann Göring: "Come avete fatto a convincere il popolo tedesco ad accettare tutto questo?" Risposta: "E' stato facile e non ha nulla a che fare con il nazismo, ha a che fare con la natura umana. Si può fare in un regime nazista, comunista, socialista, in una monarchia o in una democrazia. L’unica cosa che devi fare per rendere schiave le persone è impaurirle. Se riesci a trovare un modo per impaurire le persone, puoi fargli fare quello che vuoi".
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impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo
Le fazioni palestinesi unite per difendere i due terroristi ancora in fuga
Per la prima volta nella loro storia Hamas, Fatah e Jihad Islamica formano una unica fazione contro Israele.
di Franco Londei
Le fazioni palestinesi hanno annunciato ieri la formazione di “una sala operativa congiunta” a Jenin. Le ali militari di Fatah, Hamas e Jihad islamica sono tutte coinvolte, è la prima volta che i tre movimenti uniscono le forze in una simile azione congiunta.
Alcune fonti hanno citato un combattente delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, un gruppo affiliato a Fatah, che ha affermato: “non c’è spazio per parlare [con Israele] se non con i proiettili. Siamo pronti a combattere e non ci ritireremo”.
La fonte ha precisato che erano presenti anche uomini armati mascherati che indossavano le insegne delle Brigate Izz Al-Din Al-Qassam, il braccio armato di Hamas.
Secondo un combattente delle Brigate Al-Quds della Jihad islamica, “Nel campo è stata annunciata una mobilitazione generale e tutte le fazioni sono pronte a combattere. L’esercito israeliano vedrà quello che non si aspetta se pensa di entrare nel campo”. Ha spiegato che “combattenti della resistenza” da diverse parti della Cisgiordania sono arrivati nel campo di Jenin “in preparazione di qualsiasi battaglia”.
La sala delle operazioni congiunte sembra essere una risposta al fatto che si ritiene che due dei fuggitivi dalla prigione di Gilboa in Israele stiano cercando di raggiungere il campo profughi di Jenin. Il capo di stato maggiore israeliano, Aviv Kochavi, ha detto mercoledì che se i due raggiungeranno davvero Jenin, l’esercito israeliano attaccherà la città in forze per arrestarli, anche se l’operazione colpisce il resto della Cisgiordania.
“Il campo spera che i prigionieri fuggitivi, Mujahid Yaqoub Nafi’at e Ayham Fouad Kammaji, arrivino qui”, ha detto il combattente delle Brigate Al-Quds. “Li proteggeremo con i nostri corpi e tutto ciò che abbiamo”.
(Rights Reporter, 17 settembre 2021)
Germania, volevano colpire la sinagoga
La polizia: "Matrice islamica". Fermati quattro uomini, grazie a una soffiata dall’estero Due sono siriani
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO — La strage era prevista durante le celebrazioni dello Yom Kippur. Di nuovo un terrorista avrebbe voluto macchiare di sangue la più sacra festa degli ebrei. Non un neonazista, come due anni fa a Halle: stavolta è stato un fondamentalista islamico ad aver tolto il sonno alla Germania nella notte di mercoledì. E la tragedia è stata sventata per un pelo.
L’altro ieri sera la città renana di Hagen si è tinta per ore delle sirene della polizia: gli agenti hanno perquisito l’appartamento di un sedicenne siriano - arrestato insieme ad altri tre sospetti - che viveva dal padre e si era fatto notare per alcuni messaggi su una chat. Ieri sera la polizia ha fatto sapere di non aver ancora trovato esplosivi e l’analisi dei dispositivi elettronici e dei computer sequestrati durante la perquisizione è ancora in corso.
La Procura generale non sa ancora, insomma, se riuscirà a trovare prove sufficienti per tenere dietro le sbarre il ragazzo, sospettato di aver programmato l’attacco alla sinagoga. L’aspirante stragista è stato interrogato a lungo dalla polizia. Nelle conversazioni intercettate da agenti segreti stranieri, parlava di esplosivi e aveva espresso l’intenzione di piazzare una bomba. Secondo la soffiata dell’intelligence, il giovanissimo fondamentalista pianificava di far saltare per aria il tempio. E i commentatori tedeschi si sono già scatenati ieri contro i servizi segreti che sarebbero stati salvati – e non è la prima volta – da un’indagine partita all’estero e dal fatto che i colleghi dell’intelligence straniera sarebbero riusciti a comunicare l’esatta identità dell’attentatore, il luogo e l’ora dell’attacco. Ai colleghi tedeschi non era mai saltato agli occhi. ß“‘“
Il ministro dell’Interno del Nordreno- Westfalia Herbert Reul (Cdu) ha parlato di una «seria minaccia estremista» e del «pericolo di un attentato alla sinagoga di Hagen». Il sedicenne sarebbe arrivato nel 2015 dalla Siria via Beirut, grazie ai ricongiungimenti. Da allora viveva in un appartamento con il padre e due fratelli al centro di Hagen. I vicini, interrogati da alcuni giornali tedeschi, parlano di una famiglia «molto povera » ma che non avrebbe mai dato segni di fanatismo. Il sospetto è che il sedicenne si sia radicalizzato in rete.
(la Repubblica, 17 settembre 2021)
«Il nostro Eitan tornerà in Israele. Il nonno sui social prima del blitz
Ma il giudice confermò la zia tutore del bimbo: «È bene che resti in Italia»
di Giuseppe Guastella
Si può quasi pesare con mano il profondo dolore che dal giorno della tragedia della funivia del Mottarone devasta la famiglia allargata dei Biran, sfogliando le carte del procedimento che ha rigettato la richiesta dei nonni di Eitan di revocare la nomina della zia paterna a suo tutore. Quattro udienze sofferte da fine maggio a inizio agosto di fronte al giudice tutelare di Pavia Michela Finucci che alla fine inviterà il nonno materno Shmuel Peleg, 58 anni, a riconsegnare il passaporto del bambino dopo che l'ufficiale in pensione dell'esercito israeliano prima del 6 agosto aveva già annunciato sui social che Eitan «sarebbe tornato in Israele», cosa che ha organizzato lui stesso con il rapimento di sabato scorso per il quale ora è bloccato in casa a Tel Aviv dalla Polizia israeliana e indagato dalla Procura di Pavia con la ex moglie per sequestro di persona.
Affiorano sensibilità diverse: i nonni che vivono in Israele, i quali vogliono caparbiamente che il piccolo cresca e maturi nella religione e nella cultura del Paese d'origine; la zia per la quale un trasferimento sarebbe un ulteriore choc (idea condivisa dal giudice). Peleg si è trasferito in Italia il 24 maggio, giorno dopo l'incidente in cui sono deceduti la figlia, il genero, un altro nipotino e gli ex suoceri. Eitan è l'unico superstite tra 14 morti. L'uomo si trova in un Paese straniero di cui non comprende lingua e cultura, cova rancore perché si è «sentito ingannato» quando, dopo aver riconosciuto i corpi dei suoi cari morti, ha accettato senza opporsi, e senza comprenderla fino in fondo, la nomina a tutrice di Aya Biran, la sorella del genero. Come la ex moglie Esther Athen Cohen, accusa Aya di limitare i rapporti con il nipote. E anche questo che lo spingerà a rapirlo. «Questa tragedia accomuna due famiglie. In una volta sola abbiamo perduto tre generazioni», dichiara a verbale. Sottolinea quanto (lo farà ripetutamente anche l'ex moglie) ha sempre aiutato economicamente sua figlia e il marito Amit Bìran quando sei anni fa si trasferirono in Italia per studiare ed afferma che dal 2020 la coppia progettava, anzi, «sognava» di tornare in Israele dove «crescere i figli». Volere da rispettare.
Esther Athen Cohen, 57 anni, ingegnere alla guida una società di consulenza, nell'incidente ha anche perso il padre: «Il mio mondo è andato in pezzi. Quando ti succede, non sai neanche come ricominciare a riprenderti», dice in uno dei lunghi interventi che con comprensione le concede il giudice. Anche per lei è fuori discussione che il bimbo resti in Italia. «Mìa figlia lo ha cresciuto come io ho cresciuto lei» in un «mondo ebraico ed israeliano». Deve tornare in Israele anche perché, sostiene, i genitori avevano scarsissimi rapporti con la cognata la quale, addirittura, «si vergognerebbe di essere ebrea».Aya, invece, dovrebbe vergognarsi per il padre che lei, Esther, ha visto «travestito da Babbo Natale». Ripete che il bimbo deve crescere avvolto dal loro «calore e affetto» nel «suo popolo tra israeliani e tra ebrei e non, come sta crescendo adesso, come cattolico».
I toni di Aya Biran, psicologa al carcere di Pavia, appaiono più pacati mentre descrive come la famiglia del fratello fosse perfettamente inserita nella comunità pavese tra italiani e israeliani, così come il bambino che parla italiano, ha frequentato le materne e lunedì avrebbe affrontato il suo primo giorno alle elementari. Rivendica di seguire con il marito i precetti più importanti della religione ebraica e di aver tentato di affrontare il dopo-tragedia includendo i nonni, nell'interesse del nipotino. Il 9 agosto il giudice Fenucci rigetta le richieste dei nonni che, però, vuole siano sempre presenti nella vita di Eitan, il quale deve continuare a stare a Travacò Siccomario (Pavia) con Aya, lo zio e le due cuginette, anche perché non ci sono elementi per dire che i Biran volessero tornare in Israele. I nonni non possono fare i tutori perché non parlano italiano, non risiedono in Italia, ed Eitan deve essere curato qui, e non vivono insieme. Per lui è più adeguata una famiglia, quella degli zii. La nonna, per di più, focalizza la sua attenzione «sulla necessità di trasmettere la cultura, la religione ebraica e israeliana» che è solo «uno degli interessi» del minore. «Ciò che sorprende in senso negativo è come questa esigenza sia valutata in modo assoluto, senza considerare il complesso dei bisogni e interessi del piccolo». Invece, tutti insieme dovrebbero essere, o meglio, avrebbero dovuto essere per Eitan, afferma il giudice, «dei salvagenti, delle boe, ognuna con le sue peculiarità e caratteristiche che lo aiutino a stare a galla».
(Corriere della Sera, 17 settembre 2021)
L’auto cambiata in corsa così il nonno di Eitan ha beffato la polizia
Una vettura affrancata dai controlli satellitari, complici a Lugano e Tel Aviv Il piano di Peleg per il blitz: sfruttato un buco nel database europeo sui minori.
di Paolo Berizzi
PAVIA — Una Volkswagen Polo "affrancata" dal controllo satellitare e un jet Cessna 680 Citation Sovereign. Sono i due mezzi — entrambi a noleggio — con cui Shmuel Peleg ha prelevato il nipotino Eitan trasportandolo dalla casa di Rotta di Travacò, in provincia Pavia, a Tel Aviv. Due come i "jolly" — chiamiamoli così — che hanno permesso al nonno sequestratore di mettere a segno il suo blitz internazionale. Il primo: un decisivo cambio di auto. Il secondo: un presunto "buco" nel database europeo (SIS) dove vengono inseriti i dati delle persone segnalate dalle autorità di polizia e alle quali i doganieri —in questo caso dell’aeroporto di Lugano — possono impedire di lasciare un paese Schengen (la Svizzera). Andiamo con ordine. Le indagini condotte dalla Squadra mobile di Pavia e dallo Sco — coordinati dal procuratore Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano — stanno facendo luce su quelli che gli investigatori ritengono essere stati i passaggi cruciali del piano di Peleg. Da una parte le "sponde", e dunque gli eventuali complici che quasi certamente ci sono stati (l’altra indagata per sequestro di persona è l’ex moglie di Peleg, Esther Cohen); dall’altra, le "falle". Un combinato disposto che ha spianato la strada al nonno di Eitan. Prima via terra, poi nei cieli.
Ricostruiamo. Si sa ora che l’uomo era tenuto d’occhio dalla polizia da molto prima dello scorso 11 settembre, giorno in cui si concretizza quello che per la Procura è un rapimento aggravato. Nel suo primo periodo italiano — dopo la strage del Mottarone — Peleg noleggia un auto. Noleggio a lungo termine. La usa per spostarsi tra Milano, dove alloggia, Torino, dove Eitan è ricoverato fino al 10 giugno all’ospedale Regina Margherita, e Rotta di Travacò, dove andrà a far visita al nipotino a casa della zia Aya Biran. Sull’auto a noleggio di Peleg la polizia ha installato un Gps. Serve a tenere l’uomo, cautelativamente, sotto controllo. Il motivo: le continue tensioni tra le due famiglie di Eitan: gli "italiani" Biran, e i Peleg israeliani. Al centro, ovviamente, la contesa per la tutela del bambino. Una situazione borderline dietro la quale il giudice tutelare di Pavia, Michela Fenucci, aveva intravisto il rischio di un colpo di mano (che poi c’è stato).
Dopo l’ennesimo scambio di accuse, il 6 agosto, la procura decide di monitorare ancor più da vicino Shmuel Peleg: oltre al Gps sull’auto, passaggi di pattuglie. Succede però che verso fine agosto Peleg rientra qualche giorno in Israele. Prima di imbarcarsi all’aeroporto di Malpensa consegna l’auto a noleggio. Addio Gps. L’ex militare specializzato in telecomunicazioni rientra poi in Italia. E noleggia un’altra auto: una VW Polo. Non si sa come né perché, il "pedinamento" finisce qui. Una beffa? Più o meno. Gli itinerari lombardi del nonno materno — che non alloggia più nell’hotel in zona stazione Centrale a Milano —, non sono più tracciabili. È a bordo della Polo che sabato 11 settembre Peleg passa a prendere Eitan a Pavia. Ha in mano illecitamente il passaporto israeliano del bambino che avrebbe dovuto consegnare entro il 30 agosto.
Alla dogana di Ponte Chiasso passano lisci: primo ostacolo superato. A Lugano, ad attenderli, l’aereo privato. C’è anche una donna con loro? Non è ancora escluso (e non può essere la nonna materna, rientrata il giorno prima in Israele). Ma il punto cruciale sono i controlli. «Per i minori è previsto il controllo minimo: il solo passaporto», spiegano dall’Amministrazione federale delle dogane. Già. Ma il nome di Eitan Biran doveva essere inserito nel SIS. Il bambino non poteva espatriare: ordine del giudice. Perché ha potuto salire sull’aereo?
(la Repubblica, 17 settembre 2021)
«Tutta l'Italia con il Green Pass»
E' arrivata la bufera, è arrivato il temporale...
"Via libera al decreto. Certificato obbligatorio per i lavoratori pubblici e privati, comprese colf e baby sitter. I No Vax sospesi dallo stipendio. Draghi: non mi fermo, è quello che serve al Paese". Questi alcuni dei sottotitoli all'articolo di Repubblica di cui abbiamo riportato il titolo, comparso sul giornale con caratteri che una volta si usavano per annunciare la discesa in guerra della nazione. E la cosa si addice, perché quel titolo può assumere il senso di una dichiarazione di guerra. Draghi sta acquistando giorno dopo giorno sempre più sicurezza e spavalderia. Ha assunto ormai il cipiglio del condottiero. "Il premier tira diritto: «Le cose vanno fatte perché si devono fare non per tornaconto immediato»", si leggeva giorni fa nel sottotitolo di un altro giornale. Notevole anche un titolo di ieri su Repubblica: "Green Pass, lite sui tamponi il no di Draghi ai sindacati. “Non possono essere gratis”. Vale la pena di riportare un brano dell'articolo:
"A questo punto la discussione vira sul tampone. «Non siamo disposti a far pagare ai lavoratori i costi della sicurezza sul lavoro», attacca Pierpaolo Bombardieri (Uil). «I costi del tampone sono tutt’altro che calmierati: per venire qui ho speso 22 euro in farmacia ». Anche Angelo Colombini (Cisl) incalza: «I prezzi sono troppo alti, perché non sperimentiamo una gratuità finché dura l’emergenza, fino al 31 dicembre?». La reazione di Draghi è netta: «La vostra proposta è inopportuna, non è questo il momento di sperimentare, ma di spingere la vaccinazione."
La vostra proposta è inopportuna", così risponde il capo del governo ai sindacati. Che è come dire: "Come vi siete permessi di fare una simile domanda? Non sono io che devo dare risposte a voi, siete voi che non dovete osare fare certe domande a me". Reagire in questa forma ad una motivata richiesta sindacale, una volta sarebbe stato non solo inaccettabile, ma neppure concepibile. E venire a sapere che il segretario di quello che una volta fu il partito dei lavoratori, il PD, è uno dei più accesi sostenitori di questo governo, fa capire quanto sia grande e radicale il cambiamento che sta avvenendo oggi nella nostra società. Ormai dovrebbe essere chiaro: la spinta ricattatoria alla vaccinazione fatta con l'arma minacciosa del Green Pass non ha motivazioni sanitarie, ma puramente politiche. Ed è una politica che ha come scopo ultimo non la vittoria sulla pandemia, ma la sua strumentalizzazione fino ai limiti del possibile. Cosa che Draghi mostra di saper fare alla perfezione. E' guerra. Guerra dell'Europa finanziaria, che nell'ex Presidente della Banca Centrale Europea ha un esponente di spicco, contro la Nazione Italia. Si era detto e temuto che le imposizioni sanitarie avrebbero potuto portare ad un regime totalitario. Bene, non ci siamo ancora del tutto, ma siamo ben avviati. Passo dopo passo, il condottiero salito in sella sa come si devono addomesticare i cavalli riottosi: è già riuscito a mettere le briglie al cavallo e adesso le sta aggiustando. Il resto arriverà in seguito. Aspettiamocelo.
Quando scende in ciel la sera
Ed infuria la bufera
Più non canta capinera,
è finita primavera,
vi saluta e se ne va...
L'acqua scende e bagna tutti,
siano belli siano brutti,
siano grandi oppur piccini,
metà prezzo ai militar...
Con l'acqua che scende, che scroscia e che va,
pierino in angosce calosce non ha...
È arrivata la bufera,
è arrivato il temporale,
chi sta bene e chi sta male,
e chi sta come gli par...
Nella notte profonda,
sembra che uno glielo avesse detto, e invece non glielo aveva detto
che poi anche se glielo avesse detto quello lì non ci sentiva
sai come succede in queste cose qua...
È arrivata la bufera
È arrivato il temporale
Senza pepe senza sale
La minestra non si fa...
SECONDA STROFA
Nel suo morbido lettino,
dorme placido pierino
e suo zio ch'è di Voghera
sta danzando l'habanera
mentre infuria il temporal
il suo babbo è minatore
e ogni dì gli batte il cuore
ma se un dì non batterà
quasi certamente, forse chi sa, può darsi che morirà...
È arrivata la bufera
È arrivato il temporale
Chi sta bene e chi sta male
E chi sta come gli par...
Un uomo si scuote,
fa un salto mortale
Il padre lo bacia,
lo bacia suo padre,
gli dà un altro bacio
e una scarpa sul naso
e poi un altro bacio,
poi ci ripensa e gli dà un'altra scarpa sul naso
e poi se ne va...
È arrivata la bufera
È arrivato il temporale
Chi sta bene e chi sta male,
e chi sta come gli par....
E' arrivata la bufera
La vecchiaia ha molti svantaggi, ma anche qualche vantaggio: un'enciclopedia di esperienze e ricordi che non si possono acquistare in commercio, neanche via amazon. Ricordo allora una trasmissione televisiva degli anni '50 in cui Renato Rascel presentava ed eseguiva una sua canzone scritta nel 1939: "E' arrivata la bufera". Rascel ha spiegato di aver tratto spunto da una sua conversazione con il gerarca fascista Italo Balbo che in quel tempo era Governatore della Libia, dove era stato mandato perché non era allineato con le intenzioni di Mussolini. Gli aveva chiesto, interpretando le preoccupazioni di tutti gli italiani in quel momento: "Eccellenza, ma allora andremo in guerra anche noi?" Balbo rispose con il suo tipico accento emiliano: "Mo senta mo bene Rassel, come vuole che entriamo in guerra se non abbiamo nemmeno... " e lì si mise ad elencare quello che mancava all'esercito italiano per poter entrare in guerra". Rascel ne fu rincuorato: "Certo, se lo dice Lei, Eccellenza... grazie!" Quando pochi mesi dopo sentì che Mussolini aveva dichiarato guerra a Gran Bretagna e Francia, capì che una bufera si stava addensando sulla sua nazione. E non potendo esternare pubblicamente i suoi timori, scelse la via che gli era congeniale: una canzone che si presentava come spiritosa, ma aveva anche un senso velato che qualcuno avrebbe potuto capire. La cantò anche in un teatro di Roma nel periodo in cui c'erano i nazisti. Il pubblico rimase quasi in silenzio. Poiché la canzone si presentava come allegra e spiritosa, dopo lo spettacolo un militare tedesco presente in sala gli chiese: "Come mai non hanno riso". "Beh, forse non l'hanno capita", fu la risposta di Rascel. E invece evidentemente l'avevano capita.
Ci vorrebbe anche oggi un Rascel che annunci, anche se solo in forma artistica, che la bufera si sta avvicinando. Ma se lo facesse, quanti lo capirebbero? M.C.
(Notizie su Israele, 17 settembre 2021)
Nove aziende israeliane aiutano a combattere la crisi climatica
di Michelle Zarfati
Il mondo si trova da tempo a fronteggiare l’emergenza climatica e l’impatto che questa ha sul nostro pianeta. Queste 9 aziende israeliane stanno contribuendo a rendere il mondo un posto migliore, concentrando i loro sforzi su nuove tecnologie e servizi progettati per combattere la crisi climatica. Lo riporta la rivista israeliana Calcalistech. Aziende pronte a combattere per il pianeta, spesso nate da idee diverse, o con scopi differenti ma che contribuiscono sinergicamente ad affrontare una delle sfide più ardue dei nostri tempi. Didi Horn, CEO di SkyX, , ha deciso di fondare l'azienda nel 2016, dopo essere aver assistito a molti disastri ecologici in tutto il mondo. Quando si è reso conto che non c'era una soluzione tangibile alle fuoriuscite di petrolio, ha deciso che avrebbe potuto sviluppare un prodotto in grado di aiutare a risolvere il problema e prevenire ulteriori disastri ecologici. La soluzione di SkyX, si basa su droni che rilevano problemi con oleodotti in luoghi non raggiungibili in tutto il mondo, e grazie alla loro capacità di rimanere in aria per diverse ore, a differenza di altri droni, sono in grado di affrontare i problemi in modo efficace e ottimale. Un drone dotato di una tecnologia unica nel campo dell'elaborazione delle immagini e dell'analisi dei dati. Tomorrow.io è un’azienda che aiuta paesi, aziende e individui ad affrontare le sfide della sicurezza climatica e aiuta a prendere decisioni relative a eventi meteorologici estremi. L'azienda fornisce ai propri clienti informazioni e consigli che aiuteranno le aziende a evitare danni e interruzioni, risparmiando milioni di dollari grazie alla loro tecnologia. Tra i suoi clienti troviamo artisti del calibro di Uber, Delta, Ford, Via, Facebook e altri. I fondatori: Shimon Elkabetz, Rei Goffer, e Itai Zlotnik hanno attualmente più di 160 dipendenti. Razor Labs (TASE: RZR) è ormai leader del settore per quanto riguarda l’intelligenza artificiale. Il suo prodotto di punta, DataMind AI, è un prodotto basato su dati SaaS che trasforma macchinari industriali pesanti in macchine intelligenti. DataMind AI ottimizza i processi di produzione, prevede in anticipo i malfunzionamenti e segnala le esigenze di manutenzione. Razor Labs è una società quotata alla Borsa di Tel Aviv. La tecnologia di SeeTree ha sviluppato una rete di droni, algoritmi di apprendimento automatico e una tecnologia sensoriale per fornire agli agricoltori informazioni utili per aiutarli nel loro lavoro, specialmente per quanto riguarda i raccolti. La piattaforma di SeeTree consente agli agricoltori di prendere decisioni basate su piccoli e grandi dati che collegano le loro azioni a risultati reali ottenuti sul campo. Così SeeTree aiuta a risparmiare acqua, tempo, denaro ed energia. La piattaforma IoT di Augury monitora lo stato meccanico delle macchine industriali tramite una rete di sensori che misurano vibrazioni, temperature e altro. I dati vengono continuamente raccolti e caricati su un cloud dove vengono analizzati con algoritmi che combinano modelli meccanici e operativi. L'analisi sul cloud confronta i dati attuali con quanto precedentemente raccolto dalle stesse macchine, oltre a decine di migliaia di macchine simili, e riconosce schemi di comportamento irregolari che potrebbero indicare un malfunzionamento. Il sistema consiglia inoltre il modo migliore per risolvere il problema. Grid4C utilizza l'intelligenza artificiale e l'apprendimento automatico per fornire analisi predittive. Ciò significa che l'azienda analizza i dati di milioni di contatori intelligenti insieme ai dati dei clienti, ai dati meteorologici e altro ancora, per assicurarsi che gli utenti e i fornitori di energia possano beneficiare di approfondimenti e previsioni. Simpliigood si occupa invece di raccogliere spirulina fresca nell'arida regione desertica di Arava all'interno di serre appositamente attrezzate. La Spirulina aiuta a regolare i livelli di colesterolo, aiuta il sistema immunitario ed è antinfiammatoria. Simpliigood non utilizza pesticidi e i suoi prodotti assorbono l'anidride carbonica dall'aria, sono trattati con il 98% di acqua riciclata e hanno zero sottoprodotti di scarto. "Ciò che mi spinge ogni mattina a fare ciò che faccio in Simpliigood è l'idea di lasciare il mondo un posto migliore per i miei figli e per le generazioni future. Coltiviamo la spirulina, che è in realtà la proteina più efficiente che si trova oggi in natura, e stiamo essenzialmente trasformando i raggi del sole in una proteina completa", ha spiegato Lior Shalev, CEO di Simpliigood. Windward è un'azienda che si occupa di intelligence predittiva, che fonde AI e big data per digitalizzare l'industria marittima globale e consentire alle organizzazioni di raggiungere la prontezza aziendale e operativa. La soluzione, basata sull'intelligenza artificiale di Windward, consente alle parti interessate (incluse banche, commercianti di materie prime, assicuratori e le principali compagnie energetiche e di navigazione) di prendere decisioni e previsioni basate sull'intelligence in tempo reale. Questa infrastruttura intelligente offre una visione a 360° dell'ecosistema marittimo e del suo più ampio impatto su sicurezza, protezione, finanza e affari. Fondata nel 2013 e precedentemente nota come Utilis, ASTERRA è leader mondiale nell'intelligence dell'infrastruttura basata su satellite SAR. Il metodo brevettato dell'azienda per il rilevamento dei tipi di umidità del suolo sottoterra porta sul mercato un prodotto unico nel suo genere, risparmiando miliardi di litri di acqua in tutto il mondo. Utilizzando le immagini SAR, ASTERRA rileva i "punti di interesse" - potenziali fonti di perdite d'acqua, nonché accumuli di acqua che potrebbero causare danni a infrastrutture come ferrovie e dighe.
(Shalom, 15 settembre 2021)
Yom Kippur e Sukkòt, il mondo ebraico in festa e preghiera
Oggi è il giorno più sacro e solenne del calendario ebraico, mentre da lunedì 20 inizierà la festa delle capanne
«Il calendario ebraico è luni-solare: le feste, i giorni, i mesi e gli anni si basano sul tempo impiegato dalla luna per la sua rivoluzione attorno alla Terra, le stagioni sul tempo impiegato dalla Terra per la sua orbita intorno al Sole. Anno lunare e solare differiscono di circa dieci giorni. Per recuperarli, furono creati alcuni anni embolistici, con 13 e non 12 mesi», ricorda il sito itinerariebraici.it.
Oggi 16 settembre, il dieci del mese di Tishrì viene celebrato lo Yom Kippur, il giorno più sacro e solenne del calendario ebraico.
Un giorno interamente dedicato alla preghiera e alla penitenza e che «vuole l’ebreo, consapevole dei propri peccati, chiedere perdono al Signore». È il giorno in cui secondo la tradizione: «Dio suggella il suo giudizio verso il singolo». « […] Prima di Kippur devono essere stati saldati i debiti morali e materiali che si hanno verso gli altri uomini. Si deve chiedere personalmente perdono a coloro che si è offesi: a Dio per le trasgressioni compiute verso di Lui, mentre quelle compiute verso gli altri uomini vanno personalmente risarcite e sanate», si legge sul sito dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei).
A partire dal 20 settembre sarà invece la Festa di Sukkòt, detta anche «Festa delle capanne».
Sono appunto le capanne a caratterizzare questa ricorrenza gioiosa che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto: quaranta anni in cui abitarono in dimore precarie, accompagnati però, secondo la tradizione, da «nubi di gloria». «Nella Torà – sempre sul sito dell’Ucei – (Levitico, 23, 41-43) infatti troviamo scritto: “E celebrerete questa ricorrenza come festa in onore del Signore per sette giorni all’anno; legge per tutti i tempi, per tutte le vostre generazioni: la festeggerete nel settimo mese. Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele risieda nelle capanne, affinché sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli di Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto”. La festa delle capanne è una delle tre feste di pellegrinaggio prescritte nella Torà, feste durante le quali gli ebrei dovevano recarsi al Santuario a Gerusalemme, fino a quando esso non fu distrutto dalle armate di Tito nel II secolo e.v. Altri nomi della festa sono “Festa del raccolto” e anche “Festa della nostra gioia”, poiché cade proprio in coincidenza con la fine del raccolto quando si svolgevano grandi manifestazioni di gioia. Questa festa è detta anche “festa dei tabernacoli” e il precetto che la caratterizza è proprio quello di abitare in capanne durante tutti i giorni della festa. Se a causa del clima o di altri motivi non si può dimorare nelle capanne, vi si devono almeno consumare i pasti principali. La capanna deve avere delle dimensioni particolari e come tetto del fogliame piuttosto rado, in modo che ci sia più ombra che luce e dal quale si possano vedere le stelle. Si usa adornare la sukkà con frutta, fiori, disegni. La capanna dev’essere costruita sotto il cielo così che chi vi risiede possa avere la mente e lo spirito rivolti verso l’alto. Una giornata vissuta e condivisa nello spazio pubblico grazie alla realizzazione e alla costruzione di capanne nei quartieri maggiormente abitati dalle comunità ebraiche. Gli eventi principali si tengono davanti alle sinagoghe delle piccole e grandi città.
E si costruirà una capanna particolare nel giardino del Museo di Ferrara che a cielo aperto vedrà decine di ospiti prestigiosi (dal 23 al 26 settembre) alternarsi per omaggiare la cultura ebraica: dallo scrittore israeliano Eshkol Nevo, al professore emerito Luciano Canfora, dal politico ed economista Romano Prodi, agli scrittori Igiaba Scego e Alessandro Piperno e Edith Bruck e Elena Loewenthal. Torna infatti (inaugurata dalla presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche Noemi Di Segni), la XII edizione della Festa del Libro Ebraico, uno dei principali eventi culturali ideato e organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-Meis di Ferrara.
(Riforma.it, 16 settembre 2021)
Minacce alla sinagoga di Hagen. Arrestate quattro persone, tra cui un 16enne siriano
La polizia di Hannover ha reso noto che i fermi sono avvenuti nell'ambito delle indagini sulla preparazione di un attentato con esplosivo alla sinagoga di Hagen, nel Land tedesco del Nordreno-Vestfalia
La polizia tedesca è intervenuta in maniera massiccia per fronteggiare la minaccia contro la sinagoga della città di Hagen, nel Nord Reno Westfalia. Tutto si è consumato a ridosso della cerimonia per la festività ebraica dello Yom Kippur, celebrazione sospesa per precauzione. La polizia di Hannover ha reso noto su Twitter che "complessivamente sono quattro i fermi "avvenuti finora nell'ambito delle indagini sulla preparazione di un attentato con esplosivo alla sinagoga. Fra questi anche un giovane siriano. Gli inquirenti parlano anche di perquisizioni in corso. In base a indizi su una"possibile situazione di pericolo", ieri sera era stata disdetta la preghiera dello Yom Kippur e le forze dell'ordine si erano mobilitate attorno all'edificio in un'operazione durata fino a tarda notte. Dopo una serie di indiscrezioni che facevano trapelare un nulla di fatto, è stato il Ministro dell'Interno del Land - secondo quanto riferiscono Dpa (Deutsche Presse-Agentur) e Der Spiegel - ad annunciare l'arresto di un 16enne siriano sospettato di voler attaccare la sinagoga con dell'esplosivo. La polizia nella città tedesca di Hagen ha "presumibilmente sventato" un attacco contro la sinagoga. Ad annunciarlo è stato il ministro dell'Interno del Land, Herbert Reul. Le operazioni di controllo si sono concluse in mattinata, con la presenza delle forze dell'ordine ridotta e con le autorità che hanno mantenuto il massimo riserbo - per motivi di sicurezza - sulla perquisizione del complesso e di un ambulatorio di un medico nelle vicinanze. Diversi agenti armati sono comunque rimasti sul posto: il quotidiano 'Westfalenpost' ha riferito che al culmine dell'operazione centinaia di poliziotti erano presenti nella zona. Il sindaco di Hagen, Erik Schulz, ha assicurato alla comunità ebraica la sua solidarietà di fronte alla minaccia. "Per quanto poco sappiamo della situazione esatta, i nostri pensieri sono con la comunità ebraica di Hagen", ha detto al Westfalenpost. Due anni fa un estremista di destra tentò di irrompere con la forza in una sinagoga ad Halle, in Sassonia-Anhalt dove si stava per celebrare una cerimonia per lo Yom Kippur. Non riuscendo a sfondare il portone di ingresso e compiere la strage che aveva programmato, uccise due passanti e ne ferì altri due. È stato condannato all'ergastolo.
(RaiNews, 16 settembre 2021)
Lo zio di Eitan: «Vado a riprenderlo»
Lo scontro tra Italia e Israele per il superstite del Mottarone. I parenti pronti a partire e a «trattare» col nonno che lo ha rapito. L'ambasciatore: «L'evento più difficile che ho vissuto».
Andremo in Israele ma non vi dico la data», anche se la partenza della famiglia Biran per Tel Aviv sembra imminente. A parlare è Or Nirko, determinato più che mai a riportare a casa suo nipote Eitan - 6 anni, unico superstite della strage del Mottarone e sottratto alla sua tutrice dal nonno materno, che sabato scorso lo ha portato con sé a Tel Aviv a insaputa dei parenti paterni.
«C'è la possibilità - ha dichiarato Nirko ieri - che Aya (sua moglie, zia paterna di Eitan, nda) possa vedere il bambino. Abbiamo fatto richiesta, tramite i legali israeliani, per arrivare a interloquire anche con i politici».
È un punto di svolta nell'intricata vicenda che vede contrapposti i due rami della famiglia è arrivato martedì sera, quando la polizia israeliana ha posto agli arresti domiciliari Shmuel Peleg (nonno materno di Eitan), dopo averlo interrogato in merito al presunto rapimento del nipote.
La linea dei Biran - Nirko, legali affidatari del piccolo, è chiara: in occasione dell'udienza del 29 settembre presso il Tribunale di Tel Aviv il ramo paterno della famiglia chiederà «l'immediata restituzione di Eitan. Questo - ha dichiarato ieri Shmuel Moran, legale in Israele dei Biran - è un sequestro, un rapimento dall'Italia, contro la legge italiana, contro la legge civile, contro le decisioni del tribunale italiano, contro la legge criminale. Il bambino deve essere restituito all'Italia il prima possibile».
• TRIBUNALE ITALIANO
Ciononostante, a detta del ramo paterno della famiglia la decisione deve spettare al Tribunale italiano «perché il centro della sua vita è l'Italia. Eitan - ha dichiarato lo zio paterno - parla molto meglio l'italiano dell'ebraico e i suoi ricordi di Israele sono quelli relativi alle vacanze».
Un altro passo in avanti potrebbe arrivare dalle autorità israeliane: secondo quanto riportato ieri dall'agenzia Ansa, il governo Bennett avrebbe risposto a una nota verbale inviata dal ministero degli Esteri italiano giorni fa, confermando che Eitan Biran è arrivato nel loro paese l'11 settembre e che «Israele agirà in cooperazione con l'Italia, per il bene del minore». Le autorità italiane starebbero «seguendo il caso e gestiranno qualunque richiesta, pervenuta attraverso i canali appropriati, in conformità della legge e dei trattati internazionali pertinenti».
Nella serata di martedì, inoltre, gli zii paterni hanno potuto parlare al telefono con il bambino: un breve colloquio che preferiscono tenere riservato. A dispetto di quanto dichiarato nei giorni precedenti, i Biran si sono persino detti disposti a dialogare con i Peleg, per arrivare a un accordo che preveda il rientro in Italia di Eitan.
• I PERMESSI
Entrando nel merito dell'operazione che ha portato al trasferimento del bambino da Pavia a Tel Aviv, secondo Or Nirko «il ruolo della nonna materna (anch'essa indagata per sequestro di persona aggravato come l'ex marito Shmuel Peleg, nda) è importante», ma i due «hanno avuto tanti complici che gli hanno dato una mano», anche perché «partire dall'aeroporto di Lugano non è semplice, richiede permessi specifici occorre essere dei vip».
Sul fronte opposto, i legali di Shmuel Peleg (che secondo alcune indiscrezioni potrebbe essere liberato su cauzione prima di domani) hanno fatto riferimento a un presunto errore giudiziario, sostenendo che ai Peleg non siano mai stati notificati né il divieto di espatrio né tutti i provvedimenti relativi alla vicenda dal 10 agosto in poi.
Intervenuto nel corso della puntata di Porta a Porta di ieri sera, l'ambasciatore di Israele a Roma Dror Eydar ha dichiarato che la vicenda legata al piccolo Eitan è «l'evento più difficile che ho vissuto da ambasciatore, e lo porterò con me per tutta la vita. Seguiamo e assistiamo per quanto possibile le autorità competenti in Israele e in Italia, in conformità con la legge e le convenzioni internazionali, inclusa la Convenzione dell' Aja, per il bene del bambino».
Libero, 16 settembre 2021)
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Hotel, spostamenti, appoggi. I mesi del nonno in Italia prima del sequestro di Eitan
L'inchiesta di Pavia. La Farnesina: contiamo che Israele collabori. È in corso l'acquisizione dei tabulati dei telefoni di Shmuel Peleg e della ex moglie.
di Giuseppe Guastella
MILANO - Come si è mosso Shmuel Peleg dal 24 maggio, quando si precipitò in Italia per lo strazio di riconoscere i corpi dei suoi familiari morti il giorno prima nella tragedia del Mottarone, fino a sabato scorso, quando ha rapito il nipotino di 6 anni per portarlo con sé in Israele? Accertarlo è l'obiettivo delle indagini della Procura di Pavia, assieme a quello di scoprire le complicità che potrebbero avergli consentito di arrivare indisturbato fino all'aereo privato decollato dalla pista dell'aeroporto di Lugano per Tel Aviv. I risultati degli accertamenti potrebbero presto dare una svolta decisiva all'inchiesta diretta dal procuratore facente funzioni Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano.
Da quel tremendo giorno, Peleg, tenente colonnello in pensione dell'esercito israeliano, è stato sempre in Italia, tranne alcuni giorni intorno al 27 e 28 maggio quando è dovuto tornare in patria per i funerali della figlia Tal, del genero Amit Biran (genitori di Eitan), del nipotino Mosche Tom di appena due anni (l'altro figlio della coppia) e degli ex suoceri, tutti morti nello schianto della funivia costò la vita a 14 persone e nel quale Eitan si salvò grazie al padre che gli fece scudo con il proprio corpo. La polizia sta acquisendo la documentazione sulla presenza del 58enne in un albergo nei pressi della Stazione Centrale di Milano pare frequentato da personaggi legati ai servizi segreti e nel quale Shmuel Peleg ha soggiornato per circa un mese prima di trasferirsi in un bed&breakfast. Sono in corso le acquisizioni anche dei tabulati dei telefonini dell'uomo e della ex moglie Esther Athen Coen, 57 anni, che più volte è stata in Italia dopo la tragedia ed è indagata con Peleg per sequestro di persona aggravato. E' sospettata di aver partecipato all'organizzazione del rapimento, ma i pm stanno accertando se abbia viaggiato anche lei fino in Svizzera con Peleg e il nipotino da Travacò Siccomario (Pavia) dove, alle 11 e 30 di sabato mattina, il bambino è stato prelevato dal nonno per uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. Ci sono poi da esaminare le immagini delle telecamere di sorveglianza dei tratti autostradali fino al confine con la Svizzera e i dati dei passaggi ai caselli.
Sono due, però, le questioni cruciali alle quali l'inchiesta vuole trovare una spiegazione definitiva. Shmuel Peleg aveva il passaporto israeliano di Eitan che non aveva riconsegnato alla zia Aya, tutrice del piccolo, nonostante l'invito che gli aveva fatto formalmente il giudice tutelare di Pavia Michela Fenucci. Con quel documento, prima questione, è riuscito a varcare senza problemi la dogana assieme al nipote, probabilmente quella di Chiasso, e ad imbarcarsi sul volo per Tel Aviv senza che nessuno lo bloccasse, come sarebbe dovuto avvenire (oltretutto il solo passaporto non basta a far espatriare un minore in mancanza di un documento che attesti che il maggiorenne che lo accompagna è espressamente autorizzato a portarlo con sé). Ma soprattutto, seconda questione, come ci è riuscito visto che era in vigore uno specifico divieto di espatrio per Eitan Biran diramato in tutti i Paesi del trattato di Schengen e in Svizzera dopo che la Procura aveva allertato Questura e Prefettura di Pavia temendo che Shmuel Peleg e l'ex moglie potessero tentare di trasferire il bambino in Israele, visto che nelle tumultuose udienze di fronte al giudice tutelare avevano espresso il desiderio che il nipote crescesse con loro in patria.
Martedì scorso la Polizia israeliana ha ordinato a Peleg di non lasciare l'abitazione in attesa di chiarire la sua posizione.
Intanto, in una nota all'ambasciata a Roma, il ministero degli Esteri scrive di contare «sulla collaborazione di Israele per una soluzione concordata della vicenda, nell'interesse superiore del minore». Immediata la risposta israeliana: «Agiremo in cooperazione con l'Italia».
(Corriere della Sera, 16 settembre 2021)
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"Questione di eredità". Il pesantissimo sospetto: cosa c'è dietro la "guerra d'Israele" tra i familiari?
Dietro alla lotta senza esclusione di colpi tra i familiari di Eitan Biran ci sarebbe una squallida questione di soldi, una guerra per mettere le mani sull'eredità che spetta al bimbo di 6 anni rimasto orfano di entrambi i genitori nel tragico incidente della funivia Stresa-Mottarone, lo scorso maggio. Una sciagura in cui perse la vita anche il fratellino del bimbo, di soli 2 anni, e i bisnonni. Oggi Eitan è in Israele, dopo essere stato "rapito" con un autentico blitz a Pavia dal nonno materno Shmuel Peleg, indagato ufficialmente per sequestro di persona e intenzionato a far crescere il nipote in Israele, secondo le tradizioni ebraiche, "come desiderato dalla mamma". Il ramo paterno, con la zia Aya Biran riconosciuta come tutrice legale del piccolo, sta facendo di tutto per riportarlo in Italia, dov'è nato e cresciuto. "Andremo in Israele e sarebbe bello poter tornare con Eitan", ha spiegato Or Nirko, zio paterno di Eitan, che avrebbe già fissato un volo per Tel Aviv. Il 29 settembre è stata fissata un'udienza per l'affidamento del bambino. "Speriamo di poter vedere il bambino in Israele - ha sottolineato lo zio al Quotidiano nazionale -, noi lo abbiamo chiesto tramite i legali, per arrivare a interloquire anche con politici". Il caso da privato è diventato velocemente diplomatico. L'Italia, secondo quanto riportato da una nota verbale inviata dal nostro Ministero degli Esteri all'ambasciata israeliana a Roma, "conta sulla collaborazione di Israele per una soluzione concordata della vicenda, nell'interesse superiore del minore". Aya ha visto Eitan in videochiamata, i nonni materni l'hanno invitata in Israele per un confronto. Ma nei rapporti tra i due rami della famiglia, scrive sempre il Quotidiano nazionale, "si insinuano anche precedenti dissidi tra i Peleg e i Cohen". Secondo la zia Aya, "sia il nonno materno Shmuel Peleg, che la ex moglie Esther Cohen, entrambi indagati dalla procura di Pavia per il presunto sequestro aggravato dalla minore età della vittima, non sarebbero mai venuti in Italia a trovare la figlia Tal Peleg e il nipotino Eitan prima della tragedia del Mottarone", dov'è morto anche il bisnonno materno Itshak Cohen, "particolarmente legato" alla nipote. "E forse proprio a lei potrebbe aver lasciato in eredità una parte prevalente del suo ingente patrimonio, per il quale l'orfano Eitan sarebbe il primo in discendenza diretta per l'eredità", conclude il Quotidiano nazionale alimentando un nuovo, tristissimo dubbio in una storia già di per sé terribile.