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Notizie su Israele 309 - 24 agosto 2005

1. La guerra continua
2. Rumori di guerra provenienti dai palestinesi
3. Intervista con un leader di Hamas
4. E i palestinesi studiano all'Università dei coloni
5. Il ritiro da Gaza
6. Ritrovati i resti di un'antica sinagoga
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 44:21-22. «Ricòrdati di queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo; io ti ho formato, tu sei il mio servo, Israele, tu non sarai da me dimenticato. Io ho fatto sparire le tue trasgressioni come una densa nube, e i tuoi peccati, come una nuvola; torna a me, perché io ti ho riscattato.»
1. LA GUERRA CONTINUA




E' fatta! I territori "occupati" dagli insediamenti ebraici sono stati sgomberati. I "coloni" si sono lasciati "trasferire" più velocemente e più pacificamente del previsto. La comunità internazionale ha applaudito, i potenti della terra si sono congratulati con i capi d'Israele per la relativa calma con cui il tutto è avvenuto. «E' un avanzamento verso la pace», hanno detto, mentre in realtà è un arretramento del fronte in una situazione di guerra. Ed è una guerra feroce, quella che conducono gli arabi, simile a quella che Hitler scatenò contro la Russia. Una guerra in cui non è in gioco la terra, ma le persone. E' guerra contro un tipo umano, non contro una nazione. Proprio la calma in cui il "trasferimento" è avvenuto dovrebbe far riflettere e provocare forse qualche problema di coscienza, soprattutto negli spettatori internazionali che hanno guardato e applaudito lo spettacolo. I prepotenti "coloni" erano dunque gente tranquilla, a quel che sembra. Perché se ne sono dovuti andare? Perché il prodotto di anni di lavoro, case, aziende, piantagioni, tutti beni di cui anche altri avrebbero potuto godere, hanno dovuto essere distrutti? Si conosce la risposta: perché su quella terra deve nascere il futuro stato palestinese, il quale, dopo le dovute "prove di buona volontà" da parte dei vicini ebrei, vivrà in pace con l'attuale stato israeliano. E perché mai in uno stato arabo che vivrebbe in pace con lo stato ebraico non potrebbe vivere una piccola minoranza di ebrei, quando nel vicino stato ebraico vivono da anni centinaia di migliaia di arabi? Sembra che per far nascere uno stato palestinese sia assolutamente indispensabile che sulla sua terra non si trovi traccia di ebrei. E la cosa sembra ragionevole, anche a molti ebrei. Ma è questo il significato della parola "pace"? Vivere in pace per gli arabi significa non essere disturbati dalla presenza di ebrei? Si dirà che i "coloni" volevano il grande Israele, e che occupavano illegittimamente un territorio non loro. Potrebbe anche essere, ma quanto alle intenzioni, sarebbe stato sufficiente far sapere loro che erano desideri destinati ad essere vanificati; e quanto alla legittimità della loro presenza su quella terra, era una cosa che poteva e doveva essere verificata soltanto dopo avere costituito uno stato di diritto, e non prima. Su questo avrebbe dovuto esercitare la sorveglianza la comunità internazionale: avrebbe dovuto esigere che prima di tutto su quella terra si costituisca uno stato di diritto, in cui l'autorizzazione a vivere in certe zone sia stabilita dalla legge, e non dagli attentati terroristici. I capi delle nazioni avrebbero dovuto dire: «Nascerà uno stato palestinese soltanto quando gli arabi avranno dato prova di saper accettare sulla loro terra anche la presenza di ebrei, e non solo come turisti, ma anche come cittadini dello stato o come cittadini stranieri che hanno dei possedimenti in una nazione estera, come accade in tutte le parti del mondo.» Avrebbe dovuto essere questa la "prova di buona volontà" da richiedere ai palestinesi. Ma questo non è stato fatto. «Prima di tutto gli ebrei se ne devono andare, poi si potrà parlare», questa è la filosofia corrente.
Nessuno s'illuda: la guerra continua.

Marcello Cicchese





2. RUMORI DI GUERRA PROVENIENTI DAI PALESTINESI




Il rischio di una terza intifada

Conversazione con Hafez Barghouti, direttore di Al-Ayat al-Jadida

di Emanuele Giordana

Non dà un grande peso Hafez Barghouti alla telefonata che il leader palestinese Abu Mazen, dopo aver chiamato lunedi Ariel Sharon, ha fatto ieri al capo dello stato di Israele. Il presidente dell’Anp ha alzato il telefono per congratularsi con Moshe Katsav del rapido completamento dell'evacuazione dei coloni dagli insediamenti nella striscia di Gaza. Dal suo ufficio a Ramallah, il direttore di Al-Ayat al-Jadida (vita nuova), quotidiano da sempre vicino all’Autorità nazionale palestinese, sostiene che si è trattato di una “normale telefonata” che “non contiene poi un granché”.

Non lo considera dunque un gesto distensivo che prepara uno scenario migliore per la pace?
La scelta di evacuare Gaza non si può certo definire un passo che va contro la pace ma è inutile farsi illusioni

In che senso?
Il piano di evacuazione da Gaza è un piano di Sharon e non ha nulla a che vedere con la pace. Risulta evidente del resto se si guarda alla situazione in Cisgiordania, il vero nocciolo del problema. A Gaza Israele voleva semplicemente liberarsi da un problema, separarsi dai palestinesi che gli creano un’ossessione sulla sicurezza. Ma non ha invece nessuna intenzione, e non è una novità, di cedere territorio in Cisgiordania, dove ha in mente di rinchiudere i palestinesi nelle “loro” città. Città isolate, separate da strade che restano controllate dall’esercito israeliano. Eppoi Sharon stesso ha detto pubblicamente che gli insediamenti in Cisgiordania resteranno. Gaza è un fazzoletto di terra e in Cisgiordania Israele controlla un territorio enorme che continua a sottrarre col muro ai palestinesi. In realtà Sharon si è limitato a esportare il problema sicurezza ai confini, agli egiziani e ai giordani. Ci pensino loro a tenere a bada i palestinesi. Alla fine il ritiro non è stato che una grande rappresentazione drammatica per rafforzare i piani sulla Cisgiordania. Un dramma collettivo per lasciar intendere che non si potrà ripetere

Non vede vie d’uscita?
No se non si risolve il problema della Cisgiordania, dove l’Autorità nazionale palestinese non può controllare nemmeno metà del territorio. E un’Anp debole va bene a Sharon anche se questo vorrà dire problemi, violenze e forse una terza Intifada…

…che scoppierebbe in Cisgiordania…
Non solo: anche in Libano o in Siria dove migliaia di palestinesi sperano di tornare sulle loro terre legittime. Cosa faranno quando si renderanno conto che non è possibile?

Torniamo a Gaza e ai problemi dell’Anp? La Jihad islamica è contraria a parlare con Israele, Hamas ha la sua linea e le sue armi…
Al momento la situazione è tranquilla e credo che tale resterà. E il disarmo di Hamas non è all’ordine del giorno. C’è un accordo tra le varie anime palestinesi. E credo che sarà rispettato. Ovviamente è necessario che l’Anp sia forte. E qui torniamo al problema precedente. Israele fa pressioni sull’Egitto perché al valico di Refah (al confine tra Gaza ed Egitto ndr) non passino armi per l’Anp. Ma un’Anp debole non aiuta la stabilità. Per questo dicevo che il piano di Sharon è solo quello di scaricare la responsabilità della sua sicurezza sui paesi arabi confinanti

Sharon resta un interlocutore?
Non è da lui che ci si può aspettare qualcosa perché i suoi piani non c’entrano con la road map. Tutto dipende in realtà dalle pressioni che gli Stati Uniti potranno e vorranno esercitare su di lui

(Lettera 22, 24 agosto 2005)





3. INTERVISTA CON UN LEADER DI HAMAS




«Fate che Israele muoia». Firmato: Hamas

di Federico Steinhaus

Lo scorso 18 agosto, nel pieno delle drammatiche attività di sgombero degli insediamenti israeliani nella striscia di Gaza, il leader di Hamas Mahmoud Al-Zahar ha rilasciato un'intervista ad Asharq Al-Awsat. Questa intervista è particolarmente illuminante sulla tattica e la strategia di Hamas, e ne chiarisce a fondo i motivi. Riteniamo di rendere un servizio al nostro pubblico di lettori pubblicandone alcuni estratti dal testo inglese diffuso da MEMRI.

"Il nostro progetto non è di liberare la striscia di Gaza, o la Cisgiordania o Gerusalemme. Il nostro progetto nella sua prima fase è di liberare le terre occupate nel 1967. Coloro che ritengono si tratti di una visione strategica e coloro che ritengono che si tratti di una soluzione provvisoria si sono trovati d'accordo su questo progetto. Pertanto noi non ci riprenderemo la striscia di Gaza per viverci in pace mentre il nemico sionista tiene prigionieri migliaia dei nostri figli ed occupa la Cisgiordania. La resistenza deve spostarsi nella Cisgiordania per espellere gli occupanti". Alla domanda se Hamas riprenderà le sue operazioni contro città israeliane dopo il ritiro da Gaza la risposta è stata: "In primo luogo non esistono città israeliane. Quelli sono insediamenti di coloni. Se l'aggressione e l'occupazione continueranno il popolo palestinese non avrà altra alternativa che difendersi. Il popolo palestinese non uccide gli occupanti o sé stessi per divertimento o follia..."

Domanda:" Lei parla di attacchi sul territorio palestinese come se riconoscesse l' esistenza di Israele".
Risposta: "Sono fortemente in disaccordo con quanto dice. Noi non riconosciamo e non riconosceremo mai un cosiddetto stato di Israele. Israele non ha diritti su neppure un pollice di territorio palestinese. Questa è una affermazione importante. La nostra posizione deriva dalle nostre convinzioni religiose. Questa è terra sacra. Non è proprietà dei palestinesi o degli arabi. Questa terra è proprietà di tutti i musulmani in ogni parte del mondo. Noi consideriamo la striscia di Gaza, Gerusalemme e la Cisgiordania come una unità geografica, come citano le risoluzioni ONU 242 e 238, che non sono state applicate...".

Nelle fasi successive dell'intervista, il leader di Hamas mette a fuoco i difficili rapporti fra la sua organizzazione e l'Autorità Palestinese, condannando i tentativi di sbloccare la situazione con l'uso della forza da parte di Abu Mazen ed auspicando un dialogo fra le due componenti palestinesi che conduca alla costituzione di un potere forte ed unitario che lotti da pari a pari contro Israele. Nel corso di questa intervista, il leader di Hamas precisa alcuni altri punti del programma che intende realizzare: "...Nel campo dell'educazione noi vogliamo insegnare al popolo la nostra storia, ed insistiamo che il popolo deve imparare il Corano. Anche se il Corano attacca gli ebrei in alcuni dei suoi versetti, il popolo lo deve leggere.Non possiamo accettare una nel campus manipolazione del Corano e della religione. Noi siamo contrari ad ogni cooperazione economica con Israele... Vogliamo ampliare ed allargare la cultura della resistenza... Cambieremo i nomi degli insediamenti per onorare i martiri morti attaccandoli... Diremo ai turisti che l' onesto fucile è stato capace di conquistare la vittoria". Hamas intende - afferma il suo leader- partecipare a future elezioni palestinesi sulla base di un programma che ponga fine agli accordi di Oslo. Hamas è parte del movimento internazionale islamico ed è in questa prospettiva che vanno considerate le sue decisioni anche per quanto riguarda la partecipazione ad elezioni palestinesi.

Infine, la domanda: "Gli israeliani temono che Gaza possa diventare la terra di Hamas dopo il ritiro", e la lapidaria risposta: "Fate che Israele muoia".

prosegue ->
"Noi non cederemo mai il nostro diritto al ritorno. Tutta la Palestina è nostra. Quando una parte qualsiasi di essa è liberata, qualsiasi palestinese e musulmano avrà il diritto di stabilirvisi... Noi non consideriamo l'Occidente come un nemico ma crediamo che il sionismo cristiano sia criminale".

A ben considerare, questa intervista non contiene novità sostanziali. L'aspetto che la rende interessante è il contesto: essa viene rilasciata dal leader di Hamas ed è destinata al pubblico arabo ed islamico; viene rilasciata nel pieno dello sgombero di Gaza e prefigura lo scontro con l' Autorità Palestinese per il predominio politico in questo primo vero nucleo di stato; delinea la strategia non solo riferita alla politica interna ma anche ai progetti educativi ed ai rapporti con l'occidente. Adesso si tratta di verificare se l'occidente, come aveva fatto in passato con Hitler e Stalin, vorrà girare altrove lo sguardo dicendo che quelle sono solo parole, o se vorrà dare loro il peso reale di un programma politico che Hamas ha la capacità e la forza di imporre, in una prospettiva non tranquillizzante di fusione ideologica ed operativa con le strategie globali dell'Islam radicale, si chiami Al Qaeda o Iran.

(Informazione Corretta, 22 agosto 2005)





4. E I PALESTINESI STUDIANO ALL'UNIVERSITÀ DEI COLONI




Ala Fakhory frequenta la facoltà di Ingegneria elettronica nell'ateneo di Ariel, nei Territori: «Siamo in 350 arabi. Qui non c'è razzismo»

ARIEL — Ancora prima di superare il test d'ammissione, cancellare i dubbi e trovare i soldi per la retta, Ala Fakhory ha dovuto affrontare il no dei genitori. Che si opponevano non tanto per ideologia (un palestinese che va all'università dei coloni), quanto per paura: «Non è che scorrazzano uomini armati?» gli hanno chiesto.
    Ala, 24 anni, è uno dei trecentocinquanta studenti arabo-israeliani che hanno scelto di frequentare i corsi ad Ariel, insediamento di oltre ventimila abitanti sulle colline della Cisgiordania. Una vera e propria città con palazzi di dieci piani, che Ariel Sharon ha assicurato non abbandonerà mai. Tre volte la settimana arriva quassù da Gerusalemme Est per seguire le lezioni, se tutto va bene fra un anno si laurea in ingegneria elettronica, poi vuole continuare con il master. «Mio padre e mia madre credevano fosse un avamposto pieno di estremisti, dicevano che avrei subito attacchi razzisti. Non immaginavano ci potesse essere un college».
    In maggio l'associazione dei docenti britannici aveva lanciato una campagna di boicottaggio dell'università Bar-Ilan di Tel Aviv perché i suoi professori insegnano ad Ariel. La politica non interessa ad Ala. Si considera palestinese, ma non crede di legittimare gli insediamenti pagando tasse universitarie che vengono reinvestite qua e non teme che i vicini di casa lo accusino di essere un collaborazionista. «Il mio futuro è più importante. Non avrei potuto scegliere il politecnico di Haifa perché i test di ammissione sono troppo alti. Ho bisogno di guadagnare per la retta, a Gerusalemme lavoro in un'azienda che produce componenti elettronici».
    Rfaat Sweidan (un master in sociologia alla Bar-Ilan) è il coordinatore per gli studenti arabo-israeliani. Arrivano per la maggior parte dai villaggi attorno ad Hadera, nel nord del Paese, ottanta di loro restano a dormire ad Ariel. «Il 25-30% del totale sono ragazze, girano tranquillamente per il campus indossando il velo. Non c'è razzismo». Spiega che il college offre programmi speciali per preparare ai corsi di livello superiore. «Per molti questa università è l'unica alternativa, non potrebbero mai permettersi altri atenei».
    Tutt'e due hanno visto la notizia sui giornali: i coloni evacuati lunedì da Netzarim hanno trovato un accordo per installarsi nei dormitori del college. Almeno per l'estate, quando non ci sono lezioni. Sorridono imbarazzati, leggendo le parole del leader della comunità sgomberata da Gaza: «Non sappiamo se rimarremo in Cisgiordania. Siamo un gruppo con una forte motivazione ideologica e stiamo cercando una missione da compiere».

(Corriere della Sera, 24 agosto 2005)





5. IL RITIRO DA GAZA




Una democrazia che si auto-distrugge

di Daniel Pipes

Il trasferimento da parte del governo israeliano dei propri cittadini da Gaza è uno dei peggiori errori mai commessi da una democrazia.
    Questo provvedimento è di per sé il peggiore che si poteva adottare, visto che è stato auto-imposto, piuttosto che essere il risultato delle pressioni esercitate da Washington. L'amministrazione Bush reagì con indifferenza quando nel dicembre 2003 apprese per la prima volta che il primo ministro israeliano Ariel Sharon aveva deciso unilateralmente il ritiro delle truppe e dei civili da Gaza. Ci vollero mesi per convincere la Casa Bianca della bontà dell'iniziativa.
    Il danno causato sarà triplice: lederà Israele, i rapporti con i palestinesi e avrà conseguenze a livello internazionale.
    Nel gennaio del 2003 Sharon riportò una vittoria schiacciante sul suo avversario che perorava un ritiro unilaterale da Gaza. Il Premier israeliano condannò esplicitamente questa idea sostenendo che "un ritiro unilaterale non è una formula per ottenere la pace. Esso favorisce la guerra". Per delle oscure ragioni, alla fine del 2003, Sharon appoggiò l'idea del suo rivale del ritiro unilaterale da Gaza rinnegando così le sue promesse, tradendo i suoi sostenitori e recando un danno permanente alla vita pubblica israeliana.
    Per i palestinesi che non accettano l'esistenza di Israele, un ritiro israeliano sotto il fuoco nemico lancia un segnale inequivocabile: il terrorismo funziona. Così come il ritiro israeliano di cinque anni fa in Libano provocò una recrudescenza della violenza, anche il ritiro da Gaza sortirà il medesimo effetto. I palestinesi ignorano tutto il verbalismo che ruota intorno al concetto di "disimpegno" e lo considerano per quello che realmente è: un ritiro israeliano sotto il fuoco nemico. In realtà, i leader palestinesi hanno già manifestato la loro intenzione di utilizzare aggressioni simili a quelle di Gaza per sottrarre la Cisgiordania e Gerusalemme al controllo israeliano. Se questa campagna dovesse aver successo, Haifa e Tel Aviv saranno i prossimi obiettivi, dopo di che Israele scomparirà.
    Il governo Sharon è altresì venuto meno al suo dovere nei confronti dei suoi alleati nella guerra al terrorismo. Se altri Stati, come la Gran Bretagna, mostrano di essere seriamente impegnati in materia di controterrorismo, i politici israeliani liberano centinaia di terroristi riconosciuti colpevoli e si ritirano sotto il fuoco nemico a Gaza, incoraggiando così il terrorismo.
    Israele non è l'unico paese ad aver commesso degli errori – si pensi all'appeasement francese nei confronti della Germania, negli anni Trenta, oppure alla politica americana dei piccoli passi in Vietnam – ma nessun altro Stato ha mai messo in pericolo la stessa esistenza del suo popolo.

(USA Today, 15 agosto 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)






6. RITROVATI I RESTI DI UN'ANTICA SINAGOGA




Il 4 settembre si potranno visitare i resti della sinagoga

di Emiliano Fruciano

SIRACUSA - L'area della chiesa di San Giovannello fino al 1492 - anno dell'espulsione degli ebrei da Siracusa - ospitava una sinagoga. Solo successivamente gli spagnoli avrebbero fatto costruire sul sito una chiesa cattolica, di cui ancora oggi è possibile osservare le vestigia. La scoperta è della studiosa siciliana Angela Scandagliato. Attraverso un atto notarile dell'epoca e una lapide fissata sui ruderi della struttura religiosa è riuscita a ricostruire una parte fondamentale della storia medievale di questo sito.
    I resti della sinagoga saranno aperti al pubblico il 4 settembre in occasione della giornata internazionale della cultura giudaica, una manifestazione che coinvolge le comunità ebraiche di tutto il mondo. Nella nostra provincia, attualmente, non esiste una comunità giudaica. A farsi carico della riscoperta e della valorizzazione delle tradizioni di questa religione è da circa un decennio l'associazione onlus "Siracusa terzo millennio", che promuove e organizza proprio la visita all'ex sinagoga della Giudecca. Presidente dell'associazione è Amalia Daniele, che è anche la proprietaria del bagno ebraico di Via Alagona alla Giudecca, l'antico quartiere ebraico di Ortigia.
    "Siracusa terzo millennio" organizza visite guidate a questa struttura sotterranea, un bene di immenso valore storico e culturale che non trova eguali in nessuna parte del mondo. È, infatti, l'unico bagno ebraico risalente al primo secolo dopo Cristo. I lavori di restauro di questo "spazio" sotterraneo - completati 12 anni fa - hanno reso questo sito uno dei pezzi rari del patrimonio architettonico della nostra provincia. Il bagno ebraico si può visitare tutti i giorni feriali e nei giorni festivi solo previa prenotazione.
    L'appuntamento per quanti volessero ammirare i resti dell'ex sinagoga è, invece, il 4 settembre alle 9 davanti all'ingresso della Chiesa di San Giovanello alla Giudecca, in Ortigia. Una guida fornirà cenni storici sull'edificio religioso e illustrerà i contenuti della scoperta. Sarà un'occasione per conoscere uno dei luoghi più significativi del patrimonio della nostra città.

(La Sicilia, 24 agosto 2005)





MUSICA E IMMAGINI




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