1. LA NAZIONE PIU' FELICE DELLA TERRA
Una lezione da Israele. Se ha senso la vita vale di più
di Graziano Tarantini
Sembra un paradosso: Israele è la nazione più felice della terra. Un popolo minacciato nella sua stessa esistenza, costretto a vivere in una condizione di guerra permanente, riesce a mantenere un invidiabile grado di serenità. Lo dicono una serie di parametri statistici riportati da Spengler editorialista di punta di Asia Times. Confrontando il tasso di fertilità e quello dei suicidi Israele è in cima alla classifica dei paesi amanti
della vita davanti a ben 35 nazioni industrializzate. È uno degli stati più ricchi, liberi e istruiti del mondo: con molte ore dedicate alla religione e primeggiando nelle discipline scientifiche. E la durata media della vita è più alta che in Germania e Olanda. Un quadro sorprendente se si considera che gli israeliani sono circondati da vicini pronti a uccidersi pur di distruggerli.
Una condizione che non può essere attribuita alle esperienze storiche. Nessun popolo ha sofferto più degli ebrei e avrebbe
giustificazione migliore per lamentarsi. Chi crede nell'elezione divina di Israele vede in tutto ciò una speciale grazia di Dio. Secondo Spengler gli ebrei incarnano "l'idea di una vita fondata su un Patto che procede ininterrotta attraverso le generazioni". Certamente il caso di Israele ci interroga. Rappresenta qualcosa di unico davanti a società europee invecchiate, e non solo in senso demografico. Società dove sono stati "resi eretici l'amore e il buonumore", come disse nel 1974 l'allora professor Joseph Ratzinger. Nella stessa occasione il futuro Benedetto XVI si chiedeva "se la vita sia un dono sensato che si può fiduciosamente continuare a dare, anche se non richiesta, o se essa non sia veramente un peso insopportabile tanto che sarebbe meglio non essere nati". E concludeva che "il primo compito che è importante oggi per l'uomo consapevole della propria responsabilità deve essere quello di risvegliare la ragione assopita".
Interpretare la felicità di Israele come un dato sociologico sarebbe assai limitativo. In realtà è una provocazione che riguarda tutti. Ha a che fare col senso e la prospettiva che diamo alle nostre azioni e passioni. A patto di non aver già liquidato il problema della felicità come una questione da illusi sognatori. Non è un caso che i padri della costituzione americana, più di due secoli fa, abbiano inserito fra i principi fondamentali della nazione che stava sorgendo il diritto alla ricerca della felicità. Evidentemente si tratta di un punto che fa la differenza non solo per la vita dei singoli, ma per l'intera società. Tale ricerca deve partire da una positività riconosciuta, o almeno intuita, nella realtà in cui si vive. Questo richiede la capacità di saper guardare al di là delle apparenze, cosa che nell'immediato può anche comportare un sacrificio dentro però una prospettiva in cui si costruisce e si realizza la persona. E oggi, soprattutto ai giovani, non fa tanto paura il sacrificio, ma piuttosto il fatto che questo possa non avere un senso. Tutto ciò non è né automatico né scontato, ma frutto di un'educazione in grado di appassionare alla conoscenza della realtà partendo da fatti che muovano interesse e affettività. Fatti, non opinioni. Quindi occorre solo una grande lealtà. L'uomo per sua natura cerca qualcosa o qualcuno a cui appigliarsi e che prenda sul serio la sua esigenza costitutiva di felicità. Non c'è alcuna marcia inarrestabile verso il progresso a cui affidare le nostre speranze come, con una buona dose di dogmatismo ideologico, qualcuno ogni tanto vorrebbe farci credere. In questo senso la recente bufera finanziaria ancor prima che per il tracollo economico è motivo di smarrimento perché ormai concepiamo la ricchezza come unica certezza possibile mentre essa da sola oggettivamente non può dare senso e sostanza all'esistenza. Oggi è il momento di un amaro risveglio, ma può essere anche l'occasione per un ritorno a un sano realismo.
(Il Sussidiario.net, 28 settembre 2008)
2. UNA STRANA IRONIA DELLA SORTE
"Fratelli" di guerra, insieme dopo 60 anni
di Mimmo Sammartino
POTENZA - Sessant'anni sono trascorsi da quando si erano visti l'ultima volta. Walter Kleinmann e Rocco Giacomino, fratelli di latte (la mamma di Rocco, Giulia Ruggieri, aveva allattato Walter insieme al fratellino più piccolo, Mario, scomparso precocemente), si erano cercati senza trovarsi per anni, decenni. Per un tempo lunghissimo che sembrava ormai non offrire più speranze.
Rocco era andato anche a New York. Per due volte, ma senza fortuna. Fino a quando, su iniziativa dei Comuni di Potenza e Tito, un gruppo di ebrei della diaspora è tornato, nei giorni scorsi, nei luoghi del confino (come Potenza) e dei campi di concentramento (Campagna, Benevento, Ferramenti).
Tra i «lucani» c'era Walter Kleinmann, figlio del medico polacco Max, ancora ricordato dagli anziani per la competenza professionale e la disponibilità nelle cure che prestava a Potenza, Tito, Satriano: esercitò la professione medica in Lucania fino al 1948. Fu proprio il dottor Max a chiedere formalmente, tra l'altro, al Comune di Potenza, di dedicare un'area del cimitero ai defunti di origine ebraica.
Con Walter Kleinmann sono tornate nei luoghi della loro infanzia altre tre donne nate, in quegli anni bui, a Potenza: Ruth Goldman, Tobias ed Eva Lepehne Rusenfeld. E c'è Cilla Goldman, nata a Tito. Anche quest'ultima è alla ricerca della sua sorella di latte.
Facevano parte delle 150 famiglie ebree che, fra gli anni Trenta e Quaranta, giunsero a Potenza dalla Germania. Passando per luoghi di confino e campi di concentramento. Prima che la «caccia all'ebreo» costringesse molti alla deportazione, alla fuga, alla ricerca di rifugi nascosti, vissero per qualche tempo insieme ai lucani. Conobbero l'ospitalità e lo spirito di accoglienza di questa gente. Gli slanci di generosità. Gente comune, ma anche uomini straordinari come monsignor Augusto Bertazzoni che era in contatto con il vescovo Palatucci, fratello del Palatucci questore di Fiume: uomini appartenenti all'esercito silenzioso dei salvatori di vite umane destinate ai campi di sterminio.
Walter nacque in mezzo a questo inferno. Come Mario Giacomino, fratello di Rocco (di quattro anni più grande). E quando la mamma di Walter si trovò a non avere più latte per nutrire il piccolo Walter, fu la mamma di Rocco e Mario a prendere quel bambino ebreo e ad allattarlo allo stesso seno dal quale allattava suo figlio.
«Mi ricordo di Walter, di mio fratello Mario - dice Rocco Giacomino - e di me bambino, appena un po' più grande di loro. Di quei giorni trascorsi insieme mi è rimasto impresso soprattutto il ricordo della guerra. Mi ricordo di quando la famiglia di Walter arrivò, credo che fosse fuggita dal campo di Campagna. Soprattutto mi sono rimasti chiarissimi nella memoria i tre mesi che trascorremmo a Tito, durante i bombardamenti prima dell'8 settembre 1945. Eravamo tutti accampati nella casa di una signora di Torre Annunziata, mi pare... Noi proteggemmo con affetto sincero quella famiglia ebrea: non facevamo uscire nessuno di loro. Anche a Tito, infatti, c'erano i tedeschi e così da casa uscivo solo io, bambino, per sbrigare le faccende indispensabili. Furono momenti nei quali si creò un rapporto profondissimo. Poi, finita la guerra, il dottor Max, un signore e un vero dottore, rimase in Lucania fino al 1948, quando la famiglia si trasferì prima a Milano e poi da Genova, su una nave polacca, salpò per gli Stati Uniti d'America. Prima del Natale del '48 ci arrivò una lettera da New York dalla famiglia Kleinmann. Fu l'ultima. La conservo ancora. Poi, anche a causa dei vari cambi di indirizzo, ci perdemmo. Per oltre cinquant'anni io ho cercato Walter Kleinmann, ma senza fortuna. Fino a lunedì sera a Campagna, quando è stato possibile riabbracciarci».
Il gruppo di ebrei ora statunitensi ma nati a Potenza e a Tito sono giunti in visita insieme a due italo-americani (Nicolosi e Mormorale) che stanno realizzando un documentario su quella drammatica esperienza. Il sindaco di Potenza, Vito Santarsiero, ha accompagnato la famiglia Kleinmann a visitare, tra l'altro, l'abitazione potentina nella quale vissero in viale Marconi 6. Analoga l'iniziativa del sindaco di Tito, Pasquale Scavone. Poi il ritorno nei posti che ospitarono i campi di concentramento. Per una strana ironia della sorte è stato proprio in un uno di questi luoghi dell'orrore che Rocco Giacomino, dopo una vita trascorsa a cercare, ha potuto riabbracciare Walter, fratello di latte.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 24 settembre 2008)
3. STATISTICHE SULLA POPOLAZIONE DI ISRAELE
Israele ha più di 7 milioni di abitanti, il 20 per cento sono arabi
Secondo l'Ufficio centrale di statistica è maggiore l'attesa di vita per gli ebrei, circa quattro anni più degli arabi. La popolazione è piuttosto giovane, con il 28,4 per cento che ha meno di 14 anni.
GERUSALEMME - Sono 7.337.000 gli abitanti di Israele, di loro 5.542.000, il 75,5%, sono ebrei e 1.477.000 (20,1%) sono arabi israeliani. A questi dati, resi noti dall'Ufficio centrale di statistica dello Stato ebraico, vanno aggiunte 318mila persone qualificate "altro", nelle quali sono compresi 200mila lavoratori stranieri. Rispetto all'anno precedente, il Paese vede aumentare i propri abitanti dell'1,8%.
Degli ebrei, il 34,6% è nato in Israele da genitori anch'essi nati nel Paese; sono ancora in maggioranza (38,5%) quelli originari dell'Europa o dell'America. E' del 15% la percentuale degli ebrei di origine africana, mentre l'11,9% viene da altri Paesi asiatici.
Popolazione piuttosto giovane, visto che il 28,4% degli israeliani ha meno di 14 anni ed il 9,8% ne ha 65 e più. Più donne che uomini, visto che il rapporto complessivo della popolazione è di mille donne ogni 978 uomini. Con riferimento ai soli 75enni, poi, per ogni mille donne ci sono solo 672 uomini. L'attesa di vita è maggiore per gli ebrei che per gli arabi, sia per gli uomini che per le donne. Le donne ebree hanno infatti una vita media di 82,5 anni, 3,8 anni più delle arabe; i maschi arrivano a 78,8 anni, quattro in più degli arabi.
Anche la divisione sul territorio è diversa per ebrei ed arabi. La maggioranza degli ebrei vive nella parte centrale de Paese (il 20,7% nel distretto di Tel Aviv), la maggioranza degli arabi nelle zone settentrionali, nelle quali rappresentano il 53% dei residenti.
(AsiaNews.it, 25 settembre 2008)
4. SALVARONO UNA FAMIGLIA DI EBREI DALL'OLOCAUSTO
Due coppie di veronesi «Giusti tra le nazioni»
Ospitarono tra il 1943 e il 1945 otto ebrei che erano fuggiti da Verona per timore delle persecuzioni anti giudaiche delle truppe nazi-fasciste. In paese tutti sapevano di noi ma nessuno li denunciò ai tedeschi. Lo Stato di Israele ha iscritto i loro nomi nel Giardino dove sono ricordati coloro che aiutarono i perseguitati.
di Elena Cardinali
Salvarono dall'Olocausto una famiglia veronese di religione ebraica. E ora lo Stato ebraico, attraverso lo Yad Vashem, il Memoriale ufficiale di Israele, ne onora la memoria iscrivendo due coppie di coniugi veronesi, Giuseppe e Genoveffa Lonardoni ed Eugenio e Teresa Zenari nel giardino dei «Giusti tra le nazioni», il massimo riconoscimento conferito alle persone che si sono prestate a salvare ebrei durante la persecuzione nazista. A fine anno, tramite gli incaricati del Governo israeliano, saranno consegnate ai figli di queste due coppie due medaglie d'oro in segno concreto di riconoscenza del popolo d'Israele nei confronti dei loro congiunti.
- La storia
A raccontare questa storia che si svolse tra il 1943 e il 1945 tra Verona e Moruri è uno dei protagonisti, Renato Finzi, 70 anni, che fu assessore a Verona tra il 1980 e il 1991. È stato proprio grazie al suo interessamento che lo Stato d'Israele è venuto a conoscenza della vicenda dei coniugi Lonardoni e Zenari, avviando così l'iter per il riconoscimento del loro generoso gesto nei confronti della famiglia Finzi. «Nel luglio del 1943 io e i miei genitori, Silvio Finzi e Adriana Rimini, vivevamo a Verona in piazza Bernardi, non lontano dalla stazione di Porta Vescovo», racconta Finzi. «Ero piccolo, non potevo capire tutto ma intuivo l'angoscia a casa. I mei erano molto preoccupati per i bombardamenti e per l'imminente occupazione tedesca, che per gli ebrei voleva dire deportazione. Fu così che i miei familiari decisero di lasciare la città».
- A Moruri
Renato Finzi, che ha ricostruito la vicenda della fuga dalla città della sua famiglia attraverso ricordi personali e raccolta di testimonianze tra i congiunti che vissero in quel periodo spiega perchè la scelta di Moruri:«Ogni settimana veniva dalle nostre parti, una signora di Moruri, Genoveffa Lonardoni, per fare un po' di commercio con uova, burro e qualche pollo. Con lei s'era instaurata una certa familiarità. E fu a lei che ci rivolgemmo quando, tra l'8 e il 9 settembre del 1943 le forze armate tedesche occuparono Verona. Lei e la famiglia Zenari ci affittarono qualche stanza nelle case in paese e così potemmo lasciare la città».
- Famiglia in fuga
Oltre ai tre Finzi, a Moruri si trasferirono anche i nonni paterni: Giorgio, nato nel 1873, direttore in pensione dell'ufficio Imposte di Verona (nel dopoguerra diventerà il presidente della Comunità ebraica veronese, tra il 1946 e il 1951) e la moglie Ebe Rimini, nata nel 1880. Con loro partirono anche le sorelle di Giorgio, Jolanda, del 1901 e Irma, del 1912. Più tardi arrivò anche la nonna materna di Renato, Elisa Rimini Cases, nata a fine '800. In tutto otto persone trovarono rifugio a Moruri nelle case delle famiglie Lonardoni e Zenari.
- Scelta rischiosa
Nell'inverno tra il 1943 e il 1944 la situazione si fece molto difficile, racconta Finzi. «Lo svilupparsi della guerriglia partigiana nelle prealpi veronesi e vicentine, considerate dai tedeschi naturali vie di fuga, la collocazione a Verona del Comando generale della polizia tedesca e delle SS per l'Italia, il fatto che Verona fosse a tutti gli effetti la capitale della Repubblica Sociale, l'apparire in quei mesi di bandi che minacciavano pesantemente tutti coloro che davano aiuto ai partigiani e agli ebrei, con conseguenze che andavano dalla confisca dei beni, alla distruzione della casa fino alla fucilazione, rendeva tutti ovviamente molto timorosi».
- La decisione
E accadde così qualcosa di eccezionale, forse di miracoloso, dice Finzi:«Le famiglie Lonardoni e Zenari che ci ospitavano fecero una specie di summit con il parroco e altri capofamiglia del paese per capire cosa dovevano fare. La paura era tanta ma quella gente non voleva nemmeno abbandonarci al nostro destino. So, da testimonianze indirette, raccolte in paese, che fu lo stesso parroco a consigliare ai nostri padroni di casa di continuare a tenerci con loro. Sono convinto che l'orientamento favorevole ad aiutare e proteggere gli ebrei da parte di vescovi e parroci ebbe anche a Moruri una grande importanza, perchè nelle zone collinari e montane veronesi e venete la Chiesa cattolica e i suoi sacerdoti erano l'unica autorità realmente riconosciuta come tale e accettata in coscienza».
- Tutti salvi
Nei 18 mesi di permanenza a Moruri le famiglie ospitanti e anche altre del paese offrirono ai Finzi i generi alimentari indispensabili. «Va detto», precisa Renato Finzi, che noi non avevano documenti falsi e che tutti gli 800 abitanti di Moruri erano a conoscenza della nostra presenza in paese. Ma nessuno andò dai comandi nazisti o fascisti a denunciarci per riscuotere i premi in denaro previsti per le delazioni. La mia riconoscenza va quindi a tutti. E aggiungo una curiosità. Seppi poi che il nostro padrone di casa, Giuseppe Lonardoni detto Bin, era stato negli anni Trenta un fervente fascista, sergente dell'esercito, e anche volontario in Etiopia e Spagna. Ma ruppe ogni legame con il Fascismo quando seppe delle terribili condizioni dei soldati sul fronte russo. Nel 1945, con l'arrivo a Verona e a Moruri degli Alleati, tutto finì. Ma la mia riconoscenza per queste persone resterà infinita.
(L'Arena, 28 settembre 2008)
5. LA RIVOLTA DEI COLONI
Israele e il suo fattore "C"
di Paola Caridi
Il rischio di una nuova intifada in Cisgiordania. Gli attacchi ai palestinesi e i casi di "disturbo della pace". Il numero dei coloni negli insediamenti israeliani è in rapida ascesa. Il caso Sternhell.
E' stata l'intelligence israeliana a far filtrare i veri timori di queste ultime settimane, per la tenuta della Cisgiordania. Che a rendere del tutto instabile il pezzo di Palestina controllato dal governo di Ramallah sia il "fattore C", C come coloni. Se non c'è vero terreno fecondo per lo scoppio di una terza intifada, hanno detto fonti della sicurezza a Haaretz lo scorso 29 settembre, "la continua tensione con i coloni - e certamente un attacco terroristico di matrice ebraica contro gli arabi in Cisgiordania - potrebbe fornire la miccia". Così come la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee fornì la spoletta per lo scoppio della seconda intifada. E d'altro canto, visto dalla prospettiva palestinese, i coloni sono diventati il vero bersaglio degli ultimi episodi violenti, dall'uccisione degli studenti della yeshiva a Gerusalemme, la scorsa primavera, sino ai lanci continui di sassi che ormai segnano le notti, lungo le strade della Cisgiordania.
La rivolta dei coloni, insomma, preoccupa le forze dell'ordine israeliane. Che dietro le quinte parlano da mesi di un notevole aumento dei casi di "disturbo della pace", secondo la definizione usata nelle statistiche ufficiali per rubricare gli eventi di questo tipo. 429 episodi registrati nei primi sei mesi di quest'anno, rispetto ai 551 dell'intero 2007. Con una impennata nella scorsa estate, quando in un solo mese sono rimasti feriti dalla violenza dei coloni 35 palestinesi, secondo quanto dice l'ultimo rapporto dell'Ocha, l'ufficio per gli affari umanitari dell'Onu, fonte insostituibile per una descrizione capillare della situazione in Cisgiordania. Campi bruciati, raid nei villaggi, case danneggiate oppure occupate, danni a moschee, ferimenti, molestie per strade, e tanti sassi contro passanti e macchine: questo il catalogo delle violenze per mano dei coloni, alle quali occorre aggiungere, nelle ultime settimane, i raid compiuti in particolare nei villaggi palestinesi attorno a Nablus, e vicino alle colonie israeliane più radicali.
La situazione, però, sembra andare oltre gli attacchi ai palestinesi. E c'è chi, anche all'interno del mondo dei coloni, parla di una precisa tattica usata negli ultimi mesi per evitare che gli avamposti illegali siano rimossi dalle autorità. Allora, per distogliere l'attenzione, si bruciano terreni da un'altra parte, o si dà fuoco ai copertoni per bloccare una strada. Tecniche da intifada, insomma, per evitare una riedizione del disimpegno da Gaza del 2005, e per rinviare quanto più possibile la rimozione dei piccoli insediamenti che non saranno messi sulla (possibile) mappa di un accordo tra israeliani e palestinesi, da raggiungere entro gli ultimi giorni del mandato di George W. Bush.
Il "fattore C", dunque, è ormai parte integrante del dibattito politico israeliano. E non è certo una novità, perché non è la prima volta che lo Stato ebraico deve tenere in debito conto un'impresa, quella delle colonie, sulla quale ha investito decenni di scelte politiche ed economiche. Le cifre, d'altro canto, parlano chiaro. Le ha fornite lo stesso Pinchas Wallerstein, il direttore del potente Yesha Council, la più importante organizzazione dei coloni israeliani nei Territori Palestinesi Occupati. Secondo gli ultimi dati ufficiali rilasciati come d'abitudine prima del capodanno ebraico, i coloni in Cisgiordania sono ora 300mila.
Ben 50mila in più, equivalente a un sostanzioso 20% di aumento, rispetto a quando Ehud Olmert, all'inizio del 2006, divenne primo ministro d'Israele, per sostituire Ariel Sharon colpito da un ictus.
Il numero dei coloni, dunque, è in rapida ascesa anche per le autorità israeliane, e non solo per il governo palestinese di Ramallah, che continua a mostrare un altrettanto crescente disagio sulla questione degli insediamenti. E niente, nelle decisioni del governo israeliano degli ultimi tempi, è stato fatto per invertire la tendenza, che invece vede un fervore evidente nei lavori di ampliamento di colonie popolose, e determinanti dal punto di vista geopolitico, come Maaleh Adumim, sulla direttrice Gerusalemme-Gerico, e Har Homa, esattamente in direzione opposta, sulla strada per Betlemme.
Se l'impatto numerico dei coloni è uno dei fattori primi nelle trattative tra israeliani e palestinesi, l'altro problema - che appare
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sempre di più nella sua ampiezza - è la presenza radicale all'interno del variegato pianeta dei coloni. Presenza radicale sempre più pesante ed evidente. Pesante sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo, con i nuovi immigrati andati a rinfoltire il numero dei coloni, e spesso portatori di posizioni estreme. Evidente negli episodi di violenza ormai quotidiana in Cisgiordania. E nello scontro, di nuovo venuto alla luce, tra la destra radicale e il fronte pacifista, che ebbe nell'assassinio politico di Ytzhak Rabin del 1995 il suo evento più tragico e foriero di conseguenze.
Ora, per la prima volta da allora, si è verificato alla fine di settembre un attentato (per fortuna fallito) contro un esponente del
settore pacifista. Non un politico, bensì un intellettuale, un professore universitario ormai di una certa età, come Zeev Sternhell. La bomba piazzata all'ingresso della sua casetta, in un tranquillo quartiere piccolo-borghese di Gerusalemme, è stata come un colpo di frusta per l'opinione pubblica israeliana, che non aveva percepito quanto si stesse facendo ampio il bacino di utenza della destra radicale.
Il caso Sternhell, invece, ha riportato alla luce lo scontro sempre in atto tra i coloni e i settori pacifisti, dal classico Peace Now sino alle nuove associazioni israeliane che fanno lavoro sul campo all'interno della Cisgiordania (da Breaking the Silence e Tayyush, in diversi modi specializzate su Hebron, ai gruppi che protestano per la costruzione del Muro). Gli scontri fisici ci sono, soprattutto in zone delicate come la città vecchia di Hebron, ma non si era ancora arrivati ai poster con la taglia di oltre un milione di shekel per l'assassinio di un membro di Peace Now. Che si tratti o meno di un fenomeno conchiuso a gruppuscoli dell'estrema destra dei coloni, è certo che il messaggio lanciato in questi ultimi giorni è inquietante. Tanto inquietante da dover mettere la politica israeliana di fronte a un bivio, dopo tanti anni di ambiguità sul sostegno all'impresa dei coloni: se accettare le pressioni dei coloni, da quelli trattativisti sino alle frange estreme, oppure se porre un freno strategico all'espansione degli insediamenti e un freno militare alla violenza dei gruppi radicali di coloni, nei confronti dei quali - sostiene la stampa israeliana - l'esercito presente in Cisgiordania non ha saputo reagire.
(limes, 2 ottobre 2008)
6. I RISCHI DELLA VIA VIOLENTA
Se vengono precluse le vie democratiche
da un articolo di Evelyn Gordon
Si è registrata negli ultimi tempi un'ondata di attacchi da parte di coloni ai danni sia di palestinesi che di soldati israeliani. Non si tratta di violenze casuali, ma di una politica calcolata. L'obiettivo, dicono gli attivisti, è quello di "far pagare un prezzo" ogni volta che viene smantellato un avamposto o una parte di un insediamento, con l'idea di persuadere le autorità che i vantaggi dello smantellamento degli insediamenti non valgono gli svantaggi. Benché solo una minoranza dei coloni sostenga questa tattica, il numero è in crescita e gli addetti alla sicurezza ritengono che le violenze non potranno che aumentare. Si tratta di un fenomeno che nessuna società può tollerare e la necessaria risposta deve chiaramente comprendere un'azione più severa per far rispettare la legge.
Ciò nondimeno l'applicazione della legge da sola non basta per risolvere il problema sottostante: che è dato dal fatto che un crescente numero di coloni è giunto alla conclusione che l'azione per via democratica è inutile, il che apre la strada alla violenza come unica opzione logica. Sembra scandaloso? Certo che lo è. Ma si considerino i fatti seguenti.
Nel 1993 la Knesset approvò gli Accordi di Oslo sebbene Yitzhak Rabin avesse vinto le elezioni, l'anno prima, promettendo che non vi sarebbero stati negoziati con l'Olp. La successiva impennata di attentati terroristici disilluse molti sostenitori di Oslo, per cui la destra intravide una concreta possibilità di sconfiggere nel 1995 gli Accordi Oslo Due. Così la destra fece esattamente ciò che ci si aspetta da ogni buon democratico: fece opera di convincimento sui parlamentari laburisti e dello Shas e riuscì a guadagnare abbastanza voti per vincere. Finché Rabin, facendosi beffe delle regole, comprò apertamente il voto di due parlamentari eletti in una lista di estrema destra assicurandosi in questo modo una maggioranza di 61 a 59. E giacché l'offerta di contropartite (un posto di ministro e di vice ministero, con tutti i relativi benefici finanziari) era allora vietato dalla legge, usò la sua maggioranza appena comprata per emendare la legge e poter così saldare il debito.
Quel che è peggio, questo pervertimento del meccanismo democratico godette del sostegno monolitico di giornalisti, parlamentari di sinistra, accademici e altri autoproclamati campioni dello stato di diritto. La lezione era ovvia: stare alle regole del gioco democratico non serve perché l'altra parte non si fa scrupolo di scavalcarle quando le conviene. Non è un caso se il peggiore incidente di violenza politica della storia di Israele, l'assassinio di Rabin, sia avvenuto giusto un mese dopo. Se le alternative democratiche vengono precluse, la violenza diventa la sola risorsa. E qualcuno inevitabilmente vi fa ricorso.
Facciamo un salto in avanti alle elezioni del 2003, quando i laburisti si battevano per il ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza mentre Ariel Sharon, del Likud, faceva campagna contro questa idea. Di nuovo la destra fece ciò che ogni buon democratico deve fare: votò in massa per Sharon ed ebbe successo: il Likud ottenne una vittoria schiacciante. Undici mesi più tardi Sharon fece dietro-front e adottò l'idea dei laburisti. Tuttavia offrì una scappatoia democratica: un referendum interno nel Likud. Così la destra, ancora una volta, fece ciò che ci si aspetta da un buon democratico: andò a raccogliere i voti porta a porta fra i membri del partito, e ancora una volta ebbe successo: benché i sondaggi prevedessero una facile vittoria per Sharon, il suo piano fu sconfitto 40 contro 60%. Ma Sharon ignorò il verdetto del suo partito, nonostante si fosse impegnato ad onorarlo. E si rifiutò anche di sottoporre il suo piano a un più ampio test democratico, con nuove elezioni generali o con un referendum nazionale. E naturalmente queste sue scelte furono applaudite dagli autoproclamati campioni di democrazia di tutta la sinistra.
Dunque la destra, che aveva ottenuto due vittorie democratiche, nelle elezioni del 2003 e nel referendum del Likud, dovette prendere atto che entrambe risultavano del tutto prive di valore. Quando Sharon gettò nel cestino i risultati del referendum, gli attivisti di destra protestarono inscenando blocchi stradali un po' in tutto il paese: cosa che, benché illegale, costituisce una pratica ben consolidata nella tradizione di molte democrazie, compresa quella israeliana. Il sindacato Histadrut, ad esempio, organizzò blocchi stradali per protestare contro il programma di emergenza economia del 2003; associazioni dei disabili che chiedevano un aumento dei fondi paralizzarono la capitale bloccando tutte le strade principali. Ma né i sindacalisti né gli attivisti disabili vennero arrestati. Viceversa gli attivisti anti-disimpegno da Gaza furono arrestati in quantità e trascorsero lunghi periodi agli arresti. Anche qui la lezione era chiara: gli attivisti di destra sarebbero stati arrestati per aver fatto ricorso a tattiche che altri potevano usare impunemente. In breve, la democrazia non è un campo neutro e alle sue regole è del tutto inutile.
La sinistra spesso ribatte che, quand'anche venissero rigorosamente rispettate tutte le regole del processo democratico, i coloni non ne accetterebbero comunque il risultato. Sarà forse vero per una minuscola minoranza, ma certamente non lo è per la grande maggioranza, come si è visto durante la premiership di Ehud Barak. Barak vinse le elezioni nel 1999 promettendo un ritiro unilaterale dal Libano e negoziati con i palestinesi sulla soluzione definitiva. E puntualmente si è ritirato dal Libano nel maggio 2000 e ha offerto ampie concessioni ai palestinesi a Camp David. Aveva un chiaro mandato democratico sia per il ritiro sia per i negoziati. Inoltre la Knesset, per una volta, assolse il suo compito democratico in modo appropriato: obbligandolo a indire elezioni anticipate, permise all'elettorato di approvare o respingere le specifiche concessioni avanzate a Camp David e successivamente a Washington e a Taba. E, miracolo dei miracoli, non ci fu praticamente nessuna opposizione violenta, sebbene la destra fosse totalmente contraria sia a quel ritiro che a quei negoziati. Messi di fronte a un autentico mandato democratico e ad un autentico processo di ratifica, i coloni hanno rispettato le regole del gioco democratico. Purtroppo la premiership di Barak costituì in questo senso un'eccezione. Si poteva pensare che lo stravolgimento delle regole durante il mandato di Rabin rimanesse un caso isolato, ma Sharon ha dimostrato il contrario.
Ecco perché un numero sempre più alto di coloni, soprattutto giovani, non ha più fiducia nel processo decisionale democratico. A che serve vincere le elezioni se il risultato verrà semplicemente ignorato? A che serve fare campagna presso i parlamentari se qualunque successo verrà ribaltato dalla compravendita di voti?
Probabilmente è troppo tardi per cambiare la testa di quelli che oggi fomentano la violenza. Ma se non vogliamo che i loro ranghi si infoltiscano, dobbiamo ripristinare la fiducia delle giovani generazioni nella democrazia. Un passo in questo senso potrebbe essere la legge attualmente in discussione che prescrive un referendum, elezioni o almeno una maggioranza di due terzi della Knesset per cedere territorio israeliano. Ma altrettanto importante è cambiare la cultura politica del paese, e questo potrà avvenire soltanto se tutti i giornalisti, gli accademici, i giuristi e i parlamentari che proclamano ad alta voce la loro dedizione alla democrazia smetteranno di insabbiare le aberrazioni che ne vengono fatte in nome della "pace", esigendo piuttosto il rigoroso rispetto delle regole del processo decisionale democratico anche quando i risultati sono contrari alla loro parte politica. Altrimenti rischieremo di assistere a un allargamento del circolo della violenza che nessuna azione repressiva riuscirà a spegnere.
(Jerusalem Post, 25 settembre 2008 - da israele.net)
7. LBRI
Paola Frandini, Ebreo, tu non esisti! Le vittime delle Leggi razziali scrivono a Mussolini, Manni, 2007, p. 222, € 16
Il volume raccoglie le lettere che gli Ebrei d'Italia hanno indirizzato a Benito Mussolini, Rachele Mussolini, alla Regina Elena e a esponenti del Regime, nello smarrimento, nell'umiliazione, nella paura derivati dalla promulgazione delle leggi razziali. Sono riportate 95 lettere rinvenute nell'Archivio Centrale dello Stato, scritte tra il 1938 e il 1941. Ci sono insegnanti, militari, operai, studenti, madri, spose, casalinghe, artisti di teatro, cattolici indignati e personalità come Giovanni Agnelli, Maria Pascoli (sorella del poeta), l'attrice Maria Melato e Ardengo Soffici.
Introduzione di Alain Elkann
Il tema trattato da Paola Frandini, le lettere scritte dagli ebrei al Duce di sgomento, di rabbia, di delusione, di angoscia per il suo voltafaccia, la firma delle Leggi razziali e dell'alleanza con Hitler mi riportano indietro a un romanzo che pubblicai nel '75, Piazza Carignano. Il tema era l'ebreo fascista che resta fascista malgrado l'umiliazione appunto delle Leggi razziali che lo hanno messo al bando trasformandolo in un paria.
Egli però non vuoI credere fino in fondo al tradimento e spera che la cosa finisca col risolversi.
Si risolverà purtroppo in modo tragico quando dopo l'8 settembre 1943 lui e tutta la sua famiglia vengono catturati e giustiziati barbaramente dai repubblichini e dai nazisti e verranno bruciati nella caldaia di un albergo vicino a Intra sul Lago Maggiore.
Questa in realtà è la vicenda romanzata realmente accaduta a un mio prozio, Ettore Ovazza, e alla sua famiglia; e di questo dà testimonianza nei suoi libri sugli ebrei e il Fascismo lo storico Renzo De Felice.
Perché mi ha colpito tanto questo libro che raccoglie le lettere scritte al Duce dagli ebrei?
Perché mi ferisce moltissimo l'umiliazione, il tradimento, il pregiudizio... Certo la soluzione finale di Hitler che ha la sua sintesi nel campo di sterminio di Auschwitz è una vergogna, una macchia indelebile per tutta l'Europa e per tutti quelli che sapevano e finsero di non vedere. Per tutti quelli che in modo attivo o che con indifferenza hanno permesso lo sterminio di milioni di ebrei, di zingari e persone disabili senza muovere un dito. Certo ci sono stati gli eroi come Schindler o Perlasca e molti altri meno noti che hanno aiutato, difeso e dimostrato grande coraggio, ma la maggioranza silenziosa ha preferito tacere... Purtroppo gli ebrei sono stati e sono ancora oggi capro espiatorio dei tiranni e dei dittatori che sul tema dell'"odio per gli ebrei" trovano il consenso della folla che ancora vuoI credere all'accusa di "popolo deicida". Purtroppo i pregiudizi sono quasi impossibili da debellare e vanno generalmente di pari passo con la mancanza di libertà e la propaganda che sono tipiche dei regimi dittatoriali... Oggi dall'Iran o da altri paesi si sentono in bocca a uomini con responsabilità di governo parole che ci riportano tragicamente indietro. Il pregiudizio è contro Israele, non contro gli ebrei - dicono senza capire che Israele e gli ebrei della diaspora sono la stessa cosa.
Quando muore in guerra, dentro un carro armato, a poche ore dalla tregua, Yuri Grossmann, figlio di un mio amico, lo scrittore israeliano David Grossmann, mi vengono i brividi... Ma lui è come molti altri ragazzi figli di ebrei che muoiono vittime di una situazione politica in cui c'è chi dice "devono essere cancellati"...
Ebbene quei poveri ebrei italiani che fino al 1938 pensavano ingenuamente che Mussolini non fosse un dittatore come gli altri, anzi, che fosse amico degli ebrei e di animo sionista, si erano ovviamente sbagliati. Tra un'alleanza politica con la Germania che illudeva su una grande e gloriosa vittoria a traino per l'alleato italiano e il destino di poche decine di migliaia di ebrei, la scelta era fatta... Come hanno vissuto quegli ebrei italiani che non potevano più lavorare negli uffici pubblici, esercitare professioni liberali, andare a scuola o insegnare?
Alcuni più fortunati hanno potuto emigrare, altri sono rimasti finché li hanno rastrellati e portati alle Fosse Ardeatine o si sono nascosti miseramente cambiando nome o trovando la pietà di chi aveva coraggio e dignità...
Leggendo le lettere qui pubblicate, mi viene da pensare all'Iran e mi domando per i politici chi oggi non sia più importante: il petrolio o gli ebrei?
Tre esempi di lettere
Roma 7 - 8 - 938 - XVI
Eccellenza
Sogno o son desta? Il nostro Mussolini così umano e giusto che per sedici anni ci ha governato con tanta benignità, oggi ci viene meno con la legge contro gli Ebrei che getterà nel lutto migliaia di famiglie.
Vi siete reso conto Eccellenza, di quanta gente sul lastrico e in conseguenza quanta fame, quanta disperazione e quanti suicidi?
lo sono vecchia e fortunatamente poco ho da vivere, ma i miei figli, i miei poveri figli che ne sarà di loro? Uno ufficiale nell'Esercito, specchio di lealtà e disciplina, combattente di tutta la grande guerra, l'altro impiegato alla B. d'Italia lavoratore indefesso. Essi si troveranno sbalzati dall'oggi al domani sul lastrico, affamati respinti da tutti come cani arrabbiati. Voi siete padre Eccellenza e non Vi strazierebbe il cuore una sorte compagna per i vostri figli?
Avrete certamente le Vostre ragioni per operare in tal modo ma per pochi dei nostri che si sono mostrati avversi al Vostro regime, quante migliaia siamo stati buoni tranquilli, amandovi, sì amandovi e seguendo docili e volenterosi i Vostri dettami? È giusto che per uno ne patiscono mille?
Vi scongiuro mia Eccellenza di ripensarci bene prima che succeda l'irreparabile; perché attirarvi tanti odi e dover rendere conto a Dio di tante lagrime.
Possa Egli ispirarvi benignità e salvarvi da passi falsi e crudeli!
Una vecchia madre
ebrea che si sente italianissima
*
Lettera a Rachele Mussolini
Li 16 settembre 1938.
Nobildonna,
Chi Vi scrive è uno di quelli disgraziati ebrei di cui ora in Italia tanto si parla. Disgraziato non solo perché ebreo, ma peggio ancora perché immigrato in Italia dalla Germania.
Perché immigrato proprio in Italia? Perché sapeva che in Italia fino a poco tempo fa, l'antisemitismo era sconosciuto, almeno nelle forme che si conosceva nella Russia zarista, nella Germania ed in altri paesi. Immigrato in Italia perché l'Italia non ha ostacolato l'immigrazione di ebrei in nessun modo. Quando alla Società Delle Nazioni per la prima volta si discuteva la questione ebraica in Germania, il delegato dell'Italia, dichiarava press'a poco quanto segue: "L'Italia ha accolto i fuggitivi dalla Germania, non ha ostacolato l'immigrazione, più non può fare".
Immigrato in Italia perché credeva che non fosse possibile in Italia un antisemitismo che possa minacciare l'esistenza di un essere umano solo perché nato ebreo. La persona istruita, intellettuale del Duce gli pareva una garanzia contro ogni tale eventualità, il carattere tollerante, universale dei Romani un'altra garanzia.
Abbiamo lasciato la Germania, abbandonando quasi tutto, solo per vivere tranquillamente, modestamente da essere umano e non da bestia. - Da settimane nuovamente viviamo nell'angoscia, la campagna dei giornali scatenata da poco ci lascia temere ogni male. Molti di noi, che non hanno parenti in paesi fuori Europa, non avranno nessun rifugio, non avranno nessuna possibilità di trovare un posto, dove potrebbero rivolgersi. Voi che siete madre di famiglia potete immaginarVi cosa vuoI dire per un uomo temere per la sua moglie, per suoi bambini; dover errare da un confine all'altro senza aver una speranza di trovare una patria. Obligarci di lasciare l'Italia, o impedirci di lavorare e di trovare il pane per la nostra famiglia vuoI dire condannarci a morte, perché altro non ci resterebbe che suicidarsi o morire di fame. Morire non sarebbe per noi un sacrificio, veder morire moglie e figli di fame il più terribile. - Noi attendiamo la nostra sentenza, pena di morte sarebbe una grazia in confronto all' espulsione od al divieto di lavoro.
Pensate alla Vs. famiglia, pensate ai Vs. figli ed aiutateci mitigare il nostro destino. - Nulla possiamo fare noi stessi, dobbiamo attendere e sottometterci, - Possiamo sperare che Voi Vi interessiate presso il Vs. marito? Non è politica, è senso umanitario.
Scusate, se la mia lettera non è scritta in Italiano perfetto e forse un po' confusa. Ascrivetelo alle condizioni nelle quali mi trovo, ai nervi rovinati.
Un infelice.
*
Questa lettera non vi giungerà!
non importa, giungerà a qualcuno che sarà infame come voi. Tanto amore avevate da noi, ora che siate maledetto per tutto il male che ci fate, per quello che fate patire ai nostri piccini, siate maledetto dal Dio unico che ci ascolta, voi e i vostri figli. Che possiate soffrire in questa o nell'altra vita lo strazio di tante e tante Mamme Italiane Ebree
Viva l'Italia!
Vergogna accanirsi in tanti contro pochi, vergogna far soffrire bambini vergogna, vergogna, vigliacchi vigliacchi
8. MUSICA E IMMAGINI
Chosen
9. INDIRIZZI INTERNET
binario 21
Associazione Amici della Brigata Ebraica
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