1. PEDAGOGIA ISLAMICA
Palestina: la crociata dei bambini
Bambini con armi giocattolo a Jenin
Una collina di sabbia e cespugli riarsi alla periferia di Khan Younis, Striscia di Gaza. Fino all'estate 2005 era una delle 17 colonie ebraiche di Gush Katif, smantellate per ordine di Ariel Sharon. Ora è uno dei campi di addestramento dei Comitati di resistenza popolare, le milizie che dall'inizio della seconda intifada raggruppano le formazioni armate palestinesi.
Le macerie dell'insediamento israeliano sono un percorso di guerra ideale per gli "shebab" della Brigata Salah ad-Din, che in tuta mimetica e volto coperto da un passamontagna nero
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Macerie della sinagoga di Netsarem a Gaza |
imparano a maneggiare kalashnikov e lanciarazzi: strisciano nei solchi lasciati dai carri armati, passano carponi sotto rotoli di filo spinato, sparano su quanto resta delle serre e delle case demolite. Dicono tutti di avere 16 anni. Ma tra di loro ci sono anche bambini che recitano la lezione imparata a memoria: "Voglio distruggere Israele", "Quando sarò grande combatterò per cacciare gli occupanti che hanno rubato la nostra infanzia", "Il mio sogno è vendicare mio padre e mio fratello".
Il corso di guerriglia comprende tattiche di attacco e difesa, fabbricazione di ordigni esplosivi e rapimento di soldati nemici. "Approfittiamo dell'attuale tregua per preparare i giovani allo scontro" dice un istruttore. "I missili israeliani non fanno distinzione tra adulti e bambini. E allora anche i bambini sono mujahiddin".
I campi di addestramento per i minorenni sono l'inquietante risvolto di una campagna di indottrinamento che Hamas ha intensificato dopo il golpe del giugno 2007, quando il movimento integralista ha espulso dalla Striscia le milizie di Al-Fatah fedeli al presidente Mahmud Abbas. Come in tutte le guerre, anche nel conflitto arabo-israeliano le armi della disinformazione e della propaganda sono ampiamente utilizzate per creare consenso nell'opinione pubblica e demonizzare l'avversario. Ma a Gaza il potere assoluto che Hamas esercita in scuole, università, moschee e media sta plasmando una nuova generazione del rifiuto e della guerra a oltranza, una cultura refrattaria a qualsiasi ipotesi di dialogo e di compromesso.
Nelle moschee e nelle madrase, come nei discorsi dei rabbini ultraortodossi, l'uso politico della religione è sistematico. Nei sermoni del venerdì gli imam citano a profusione il Corano per instillare l'odio nei confronti degli ebrei. Le radio e i siti internet esaltano le gesta dei kamikaze ed elogiano il martirio. I giornali insultano i "traditori" che negoziano con Israele e Stati Uniti. E i video di Al-Aqsa, la tv di Hamas, predicano la jihad fino alla liberazione di tutta la Palestina e all'annientamento dell'"entità sionista".
Il più seguito programma per bambini, I pionieri di domani, è condotto da Saraa Barhoumi, 12 anni, che ospita in studio una serie di pupazzi. La serie del topolino Farfour, che esortava a combattere Israele in nome dell'Islam, è stata abolita l'anno scorso, dopo le proteste degli stessi genitori palestinesi. Non prima, però, che Farfour fosse assassinato da uno "sporco agente israeliano".
Il topolino è stato sostituito dall'ape Nahoul che, gravemente malata, è morta a causa del blocco della Striscia di Gaza. La nuova star è il coniglio Assud, che giura di "mangiare tutti gli ebrei, se Dio vuole", e di essere pronto al sacrificio.
"Questa propaganda di morte rivolta ai bambini ha gravi conseguenze sociali" afferma Iyad Saraj, psichiatra, fondatore della Commissione palestinese indipendente per i diritti civili e responsabile dei centri per la salute mentale a Gaza. "Ma la cultura della guerra è il prodotto di decenni di occupazione militare, di bombardamenti, di distruzioni. Da bambini, invece che a indiani e cowboy, giocavamo ad arabi ed ebrei: invece di piantare il seme della pace gli israeliani hanno coltivato la pianta dell'odio. Non c'è da stupirsi se la dittatura di Hamas, come ogni dittatura, usa argomenti razzisti per giustificare la violenza e si serve della propaganda per il lavaggio dei cervelli".
Lo zio della piccola Saraa, Fawzi Barhoumi, è il portavoce di Hamas e riceve Panorama all'interno di una moschea. "Forse abbiamo commesso alcuni errori" ammette. "C'è un comitato che controlla i programmi della tv: non riconosciamo lo stato di Israele, ma non siamo contro gli ebrei. Però i pupazzi di mia nipote esprimono i sentimenti e la rabbia della gente: uomini e donne che hanno perso il padre, la madre, i fratelli. I miei figli devono sapere che l'occupazione è un crimine".
Al terzo piano di una palazzina nel centro di Gaza, Majid Jundiyah sta completando il montaggio del primo film a soggetto prodotto da Hamas. Titolo: Imad Aql, il fondatore delle Brigate Ezzedin al-Qassam, ucciso da un commando israeliano nel '93. La sceneggiatura è di Mahmud Zahar, il leader di Hamas nella Striscia. Sul monitor scorrono le immagini: la vita nel campo profughi di Jabaliya, i rastrellamenti, le torture, i soldati che sparano sui ragazzini disarmati, le imprese eroiche del giovane Imad.
"La propaganda è necessaria" afferma Ahmad Yousef, consigliere politico del capo del governo di Hamas Ismail Haniye, "per preparare i giovani alla resistenza. In ogni caso non possiamo competere con la potente e sofisticata macchina propagandistica israeliana".
In Cisgiordania televisioni e giornali controllati dall'Autorità palestinese usano un linguaggio più moderato. Anche se Ruham Nimri, responsabile del monitoraggio dei media palestinesi per Miftah (l'iniziativa per la promozione del dialogo e della democrazia sostenuta da Ue e Onu), non risparmia critiche: mancanza di professionalità, autocensura, sudditanza al potere politico, terminologia impropria. "Qualche progresso è stato fatto. Però è scandaloso continuare a chiamare martiri i terroristi che uccidono i civili israeliani".
Sessant'anni di guerre, attentati, abusi, speranze tradite, fallimenti diplomatici hanno lasciato il segno: arabi ed ebrei imparano a detestarsi sui banchi di scuola. I libri di testo israeliani esaltano la superiorità morale del popolo eletto e ribadiscono il suo diritto divino alla patria biblica. Quelli palestinesi sono pieni di riferimenti all'indole "sleale e codarda" degli ebrei.
Le carte geografiche israeliane inglobano la Cisgiordania e sorvolano sul muro di separazione, sulle 162 colonie nei territori occupati, sui 96 insediamenti non autorizzati, sui 500 posti di blocco fortificati, barriere e ostacoli fissi che hanno trasformato la Cisgiordania in una sorta di "bantustan". E nelle mappe palestinesi non c'è traccia dello stato ebraico.
(Panorama, 17 ottobre 2008)
2. SITO DI HAMAS A TEMA UNICO: LA DISTRUZIONE DI ISRAELE
Addestramento e martirio, Hamas fa proseliti
con AqsaTube
di Umberto De Giovannageli
BENVENUTI in «AqsaTube», ultima trovata «internauta» di Hamas. Il movimento islamico palestinese sbarca in rete e lo fa in grande stile. «Aqsatube» è un portale con logo e grafica simili a YouTube dove sono pubblicati filmati dedicati all'addestramento militare, alla propaganda e al martirio. Secondo l'Intelligence and Terrorism Information Center, AqsaTube è registrato sotto il nome di Abu Nasser Skandar del Dubai, e il suo internet provider è la società francese OVH. Abbiamo provato a chiedere lumi via e-mail alla OVH, senza ottenere, finora, risposta. AqsaTube va ad aggiungersi ai più di venti siti web, in otto lingue diverse, gestiti e diretti da Hamas.
L'Unità è entrata nel sito. Scoprendo cose interessanti. La prima, è che anche i duri e puri dell'Intifada devono piegarsi alle logiche del mercato. Sacro e profano: ecco allora aprirsi una «finestra» sopra i video jihadisti con annunci pubblicitari di biancheria intima femminile. Ma «AqsaTube» non va sottovalutato. Perché, dal punto di vista «tecnico», è un prodotto ben fatto. E per questo più insidioso. I filmati sono suddivisi in categorie: movimento Hamas, Fatah, bambini di Al-Aqsa (vale a dire, bambini indottrinati all'ideologia di Hamas), Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (l'FPLP di George Habbash), Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (l'FDLP di Nayef Hawatmeh) ecc. Il sito contiene molti video prodotti dall'ufficio informazione di Ezzedin al Qassam, l'ala militare di Hamas, che documentano attentati e addestramento di terroristi. Tra questi, uomini a volto coperto che lanciano razzi e si addestrano all'uso di armi da guerra. Uno dei filmati è dedicato alle unità speciali di Ezedin al Qassam ed è accompagnato da una canzone che incoraggia a compiere attentati suicidi: «Oh unità degli attentatori suicidi, oh eroi degli attacchi, la nostra grande speranza è la morte in nome di Allah». In homepage (www.aqsatube.com) compaiono infinite teorie di «martiri», uomini mascherati, esercitazioni militari, esplosioni di varia natura, razzi Qassam sparati con successo, funerali, drappi verdi, tombe, istruzioni per indossare una cintura esplosiva, accompagnati da marce militari, sermoni e canti di battaglia. Sono i contributi degli utenti, postati secondo le stesse regole che governano YouTube.
È tutto in arabo, ma il linguaggio delle immagini in questo caso è davvero universale. Tra i numi tutelari un poutpourri di ispiratori. Arafat, ma anche, e soprattutto, il fondatore di Hamas Ahmed Yassin e il suo successore Abdel Aziz Rantisi. Più un commosso omaggio a Yihia Ayash, l'ingegnere di Hamas che nella prima intifada confezionò una serie di ordigni particolarmente micidiali. Tutti vittime degli omicidi selettivi israeliani, ma non prima di essersi fatti precedere nel'aldilà da un numero impressionante di vittime civili.
Chi visita «AqsaTube può anche seguire i programmi della televisione al-Aqsa, l'emittente di Hamas a Gaza che ora è rilanciata on line in mondovisione e dedica una grande varietà di programmi, dai film ai cartoni animati per bambini, a un unico tema: la distruzione di Israele.
Fino a martedì AqsaTube aveva venduto spazi pubblicitari a ditte commerciali attraverso il programma per inserzioni AdSense di Google, che pubblica automaticamente gli annunci pubblicitari sulle pagine web. Per via dell'automatismo, alcune inserzioni erano persino di ditte israeliane. Dopo essere stata contatta dal Jerusalem Post per un commento, la Google ha rimosso AqsaTube dal suo software
(L'Unità, 21 ottobre 2008)
3. INTERVISTA A YORAM ORTONA
Fuga da Tripoli
Nel giugno del 1967 circa 6mila ebrei italiani fuggirono da Tripoli. La guerra dei 6 giorni, la violenta reazione in Libia al conflitto, la morte di 17 persone li costrinse alla fuga in Italia. Tra quei 6mila ebrei, alcuni di nazionalità italiana, c'era anche il tredicenne Yoram Ortona, oggi consigliere della Comunità Ebraica di Milano e dell'UCEI, l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Che ricorda quei giorni in questa intervista.
di Marco Formigoni
All'epoca avevo tredici anni e mezzo. Mio padre, nato anch'egli in Libia durante il mandato britannico, era giornalista. Nel 1945 assunse la direzione del Corriere di Tripoli. Aveva preso il posto di Renato Mieli, padre di Paolo, che era rientrato in Italia per dirigere l'Unità. Il 5 giugno era un lunedì. Ricordo che quel giorno dovevo andare a scuola, la Dante Alighieri, per svolgere il tema di italiano al fine di conseguire la licenza media. Mentre eravamo in classe ci dissero che dovevamo abbandonare la scuola perché nel centro di Tripoli erano scoppiate manifestazioni molto violente. Si diede fuoco a tutti i negozi degli ebrei, furono distrutte delle sinagoghe e furono trucidate due famiglie. Morirono in tutto diciassette persone. Ricordo ancora che mi recai di fretta a casa di mio zio e attraversai la manifestazione. Era cominciata la caccia all'ebreo. Attraversai la città e ricordo ancora l'odore acre del bruciato dei negozi. Il cielo di Tripoli, che la mattina ricordo di un azzurro meraviglioso, si era trasformato in un cielo plumbeo. Mio fratello e mia sorella più piccoli erano a scuola dalle suore, mio padre era in ufficio, mia madre a casa. La famiglia era dispersa per la città. Ci riunimmo solo alle sette di sera durante il coprifuoco e rimanemmo chiusi asserragliati a casa per dodici giorni, con tapparelle abbassate. Ricordo che mio padre, tra la preoccupazione di mia madre, tutte le mattine usciva per prendere un po' di pane, della frutta e dell'insalata e le immancabili sigarette perché era un accanito fumatore.
- Alla fine di quei giorni?
- Il 17 giugno, era Shabbat, proprio nelle prime ore del pomeriggio, ricordo quel caldo afoso terribile, venimmo scortati verso il terminal e di lì all'aeroporto. Senza niente. Con due valige e 20 sterline. Lasciammo tutto. Ricordo sull'aereo, era un Caravel dell'Alitalia, mio padre si tenne sulle ginocchia per tutto il viaggio la mia sorellina più piccola perché non c'era più posto. E poi arrivammo all'aeroporto di Fiumicino e ricominciammo tutto da capo
- Tornaste in Italia. Si sentì più profugo o fu più un ritorno a casa?
- Mi sentii profugo perché non avevamo più niente. Ripeto: solo due valige e 20 sterline. Nient'altro. Fummo ospitati da nostri parenti per quattro mesi.
Mi ricordo l'ingresso al liceo. Era il 1967, in classe c'era un fascista che mi disse: "Tu sei uno sporco ebreo". Io avevo quattordici anni. Venivo da una società come quella di Tripoli molto ovattata; ero arrivato in un paese come l'Italia di quegli anni, inserito in un contesto sociale ben diverso. Avevo un nome ebraico. Mi sentii per la prima volta apostrofato così e ci stetti male, molto male. Mi fece per la prima volta sentire diverso: non ero considerato come gli altri. E' chiaro che furono anni molto difficili.
Ma per fortuna avevo due genitori che ebbero la forza e il coraggio di ricominciare un'altra vita e portandoci in salvo dall'inferno di Tripoli, furono capaci di sostenerci e farci studiare.
Nessuno di noi ha abbassato la testa. Anzi è aumentata l'energia, la voglia di ricominciare; pur in una società con il 68 in arrivo, l'autunno caldo. Però l'Italia ci accolse, la comunità ebraica di Roma ci aiutò. Forse nel mio paese sarei tornato anche solo per studiare, ma così fu tutta un'altra cosa.
- E oggi si rivede nelle immagini di chi sbarca in Italia in cerca di un futuro migliore?
- Sì assolutamente. Lasciammo Tripoli con due valige e 20 sterline, cioè lasciammo tutto quello che avevamo. Fu drammatico. Mio padre stette in silenzio per tutto il viaggio, le lacrime agli occhi. Ma era felice di aver salvato le nostre vite, quelle di sua moglie e dei suoi figli. Ricordo le luci accecanti dell'aeroporto Leonardo da Vinci e ricordo l'immagine di un manifesto pubblicitario con la cupola dorata della moschea di Omar e il Muro del pianto con la scritta a caratteri cubitali: visitate Israele, Gerusalemme d'oro. Avevamo raggiunto la salvezza. Riscoprimmo la libertà di essere noi stessi. Sono ricordi che mi tengo stretti, non ero un adulto e nemmeno un bambino. Fui scosso molto
Infatti ogni volta che lo racconto non riesco a non commuovermi e il ricordo è sempre molto vivo. Ecco la memoria, ecco perché è importante. Per non ripetere il futuro. Non possiamo dimenticare il 1967, come non possiamo dimenticare la Shoah, le leggi razziali. Quella memoria ci deve aiutare a costruire una società più giusta, basata sul rispetto, sulla tolleranza. Sennò non c'è futuro.
(peace reporter, 18 ottobre 2008)
4. MEMORIA STORICA RIVISITATA E CONTESA
Ben Gurion sotto accusa in 'piece' su Eichmann
di Aldo Baquis
TEL AVIV - Il significato del processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, uno dei momenti-chiave nella memoria storica di ogni israeliano, viene ora ridiscusso da una piece teatrale, 'Anda', che mette sotto accusa il fondatore di Israele e leader storico dei laburisti, David Ben Gurion.
Secondo l'autore e regista Hillel Mittelpunkt il premier avrebbe cinicamente utilizzato quel processo per rafforzare l'establishment laburista ed isolare il rivale nazionalista Menachem Begin. In particolare, avrebbe ordinato di escludere fra i testi dell'accusa quanti simpatizzavano per la destra nazionalista ebraica. Da sinistra si grida all'eresia. L'autore, viene affermato, "ha stravolto la realtà, ha dato libero sfogo alla sua strana fantasia".
A destra invece si esulta: "Erano decenni che aspettavamo che la verità venisse a galla" esclamano increduli e commossi i suoi dirigenti. Mittelpunkt, che all'epoca del processo aveva 12 anni, replica di aver dato voce anche a sua madre: sopravvissuta alla Shoah, proprio in Israele si sarebbe poi sentita incompresa ed estranea: "come un'ombra". In Israele non c'é chi non provi orgoglio nel tornare col pensiero alla drammatica cattura di Eichmann in Argentina da parte del Mossad (1960) e allo sconvolgente processo di Gerusalemme in cui 110 sopravvissuti alla Shoah incrociarono il loro sguardo col suo per raccontare al mondo le nefandezze patite. Molti ricordano la requisitoria dell'accusatore Gideon Hausner e l'impiccagione dell'imputato: nella percezione locale, il trionfo della Giustizia sul Male.
Possibile che dietro ad uno scenario così solenne, quasi religioso, si fossero sviluppate trame politiche disdicevoli? E che in realtà a Gerusalemme, accanto al processo storico al nazismo, si sia celebrata anche una sceneggiatura dettata a tavolino da Ben Gurion per neutralizzare Begin? In 'Anda' Ben Gurion (che viene solo evocato) è un 'Grande Fratello', meschino e dispotico ai limiti della paranoia, che vieta le deposizioni al processo di Eichmann di ebrei di destra: in particolare quelli ungheresi. Perché - spiega Mittelpunkt - Ben Gurion voleva assolutamente evitare che tornasse a galla un accordo segreto fra un dirigente laburista e gerarchi nazisti per l'espatrio in extremis da Budapest di 1.700 ebrei ("un patto col Diavolo"), che aveva già traumatizzato Israele negli anni Cinquanta. Quando alla ribalta compare la teste Anda Freind, una ebrea ungherese che ricorda nei dettagli le sevizie patite ad Auschwitz "ma è iscritta al partito di Begin", i servizi segreti di Ben Gurion la obbligano con minacce a tacere. C'era ieri elettricità nella sala teatrale di Tel Aviv, dove è stato rappresentato 'Anda'. Due guardie del corpo molto solerti hanno vegliato sul viceministro della difesa Matan Vilnay, laburista. Ma non ci sono state proteste: solo applausi scroscianti per un cast di attori di primo piano. Sulla stampa proseguono le polemiche. Il ministro Rafi Eitan, che orchestrò la cattura di Eichmann, sostiene che Mittelpunkt "ha trasformato aspetti marginali in centrali, e viceversa".
Su Haaretz il giudice a riposo Gabriel Strassman accusa Mittelpunkt di aver travisato la verità storica. Eppure adesso un centro di studi storici pubblica per la prima volta una denuncia scritta nel 1961 dall'ideologo nazionalista Abba Achimeir, in cui lamenta la assenza di testimoni di destra nel processo Eichmann. Per Mittelpunkt il centro del dramma è comunque rappresentato nella tensione fra l'elite politica israeliana da un
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lato e gli 'outsider', ossia i superstiti dell'Olocausto, dall'altro, e dalla loro sconfitta che avrebbe significato altri anni di emarginazione.
(Ansa, 18 ottobre 2008)
5. UN PANORAMA MESSIANICO SU GERUSALEMME
Gli ebrei messianici nella storia e nell'epoca presente
di Gershon Nerel
Nel mese di luglio ho partecipato al secondo seminario per lo studio del giudaismo e delle religioni a Gerusalemme, organizzato presso il campus "Giv'at Ram Safra», dell'università ebraica di Gerusalemme. Il tema del seminario è stato: "Come riconoscere le eresie o i diversi limiti delle religioni» ; si è parlato soprattutto delle tradizioni religiose nate e sviluppatesi nel corso della storia, sottolineando e analizzando una casistica che si è sempre ripetuta: la parte forte e dominante si è sempre tacciata di ortodossia, mentre il gruppo reazionario e dominato è sempre stato accusato di essere apostata.
Si è parlato a lungo dei cristiani ebrei vissuti nei primi cinque secoli dell'era cristiana; molti studiosi hanno analizzato le strategie utilizzate dall'establishment religioso, sia ebraico che cristiano, per limitare l'opera dei cristiani messianici e la loro influenza. All'inizio dell'era cristiana i rabbini consideravano i credenti ebrei in Gesù degli apostati o dei traditori, mentre i cristiani li definivano poveri in spirito e cacciatori di proseliti.
Nel corso del mio intervento ho voluto parlare dell' attuale comunità di ebrei messianici, che conta solo nello Stato di Israele 7000 membri; si tratta effettivamente di un piccolo gruppo che non gode di neppure troppa considerazione e stima; quando ho fatto presente che sarebbe più corretto parlare di «credenti ebrei in Gesù» - o in inglese di «JBY» (Jewish Believers in Yeshua), piuttosto che di «ebrei messianici», uno dei professori presenti mi fece un appunto: « La prego, non utilizzi sigle come «JBY»! Mi sembra di mancare di rispetto, parlando di questi credenti come di una marca di yoghurt americano!». lo risposi: "Si, è vero, eppure quella sigla è un perfetto e corretto acronimo, non vedo perché non utilizzarlo. C'è sempre un fondo di discordanza quando si parla dei credenti ebrei, perché altrimenti, una sigla come quella non avrebbe suscitato una tale reazione.
Un altro professore ci ha fatto notare che nel corso della storia ebraica, in particolar modo nel Medio Evo, ma anche oggi, le istituzioni religiose e culturali ebraiche hanno sempre cercato di mettere in secondo piano tutto ciò che riguardava i movimenti di cristiani ebrei, in modo che non se ne parlasse, o comunque che passassero il più possibile inosservati; in un certo senso le istituzioni ebraiche non hanno ancora voluto ammettere e riconoscere l'esistenza di questa realtà di fede; ad esempio, i libri pubblicati da autori cristiani ebrei hanno incontrato diffidenza, critiche o totale indifferenza. Volutamente la critica non ha dato peso alla letteratura di matrice ebraico-cristiana, quasi per inviare, tra le righe, un messaggio di totale disinteresse.
Nel corso degli ultimi decenni i credenti ebrei in Gesù hanno conquistato il loro posto a fianco del giudaismo ufficiale, sia nello stato di Israele che negli altri paesi; i media ebraici parlano spesso delle comunità "JBY» e delle loro attività; il cambiamento di mentalità è simile anche nei luoghi accademici: alcuni ricercatori dalla mentalità particolarmente aperta si stano interessando a questi nuovi movimenti e anche l'Alta Corte di giustizia si è pronunciata in merito allo stato di diritto dei "JBY». Invece per quanto riguarda il giudaismo tradizionale e religioso, le polemiche sono spesso molto forti nei confronti dei cristiani ebrei; alcuni gruppi anti-missionari si oppongono a voce alta nei confronti di questi gruppi considerati quasi sovversivi, che vengono definiti con termini come "traditori », "apostati», "sette pericolose», ecc. A questo si aggiungono le dichiarazioni false e blasfeme nei confronti di Gesù e del Nuovo Testamento; non ultimi gli attacchi pronunciati da alcuni gruppi ebraici residenti nella città di Arad, nel Neguev.
Devo però ammettere che in particolare tra i giovani ebrei, l'opinione del personaggio Gesù Cristo sta lievemente e lentamente modificandosi, nel senso che mentre fino a qualche decennio fa i discepoli di Cristo erano considerati una minaccia, oggi molti cominciano a vedere Gesù con occhi nuovi distaccandosi da quel Gesù minaccioso e negativo, per riconoscere un Gesù "amico" e "fratello».
(Chiamata di Mezzanotte, Anno IV - n.8/9 2008)
6. A PROPOSITO DI PELLEGRINAGGI
Non turisti ma pellegrini
di Angelo Pezzana
C'è un problema, diciamo pure chiaramente, delicato, del quale molto si discute privatamente, ma che non riesce a trasformarsi in dibattito pubblico. Poiché ritengo immotivata tanta prudenza, lo affronterò per i lettori di Shalom. Chiamiamolo con il suo nome, il famoso «viaggio in Terrasanta» che le istutuzioni cattoliche organizzano, sostituendo la parola viaggio con «pellegrinaggio». Fin qui niente di male, anzi. Mi pare più che logico che un viaggio, incentrato sulla figura di Gesù, visiti quei luoghi nei quali è vissuto, ne ripercorra il cammino e la storia, visiti i luoghi santi. Il problema nasce quando si guarda a come questi pellegrinaggi sono organizzati. Non voglio puntare il dito contro nessuno, mi baso sulla mia esperienza personale, su quella di molti amici che ne hanno vissuto di simili, sui racconti di guide israeliane di origine italiana che da molti anni sono testimoni attendibili di quanto avviene. Qui sta il problema, questi «pellegrini» non si rendono conto che stanno partendo per Israele, certo, sanno che l'aeroporto che li accoglierà all'arrivo si chiama Ben Gurion, è scritto nel programma di viaggio, ma la maggior parte ignora completamente la storia di Israele, per cui quel nome equivale ad un altro. Nella preparazione del viaggio non viene raccontato nulla del paese nel quale arriveranno, in più saranno ospitati in strutture turistiche religiose, nelle quali sarà loro ben difficile rendersi conto che sono arrivati nello Stato ebraico.
Giunti all'aeroporto, mentre fanno la fila agli sportelli passaporti, l'accompagnatore si affannerà a ricordare a voce alta, che non devono " farsi mettere il timbro". Un amico che, fingendosi curioso, ne ha chiesto al vicino di fila il motivo, si è sentito rispondere " altrimenti non siamo più liberi di andare in altri posti ". Come non indignarsi di fronte ad una risposta simile, quando sono gli "altri stati" ad impedire l'ingresso se sul passaporto c'è il timbro di Israele, operando così una odiosa discriminazione. No, si cita solo Israele, attribuendogli cosi la responsabilità di una decisione presa invece da altri. Ho guardato più volte, chiacchierando in aereo con i i loro programmi, e sempre ho notato la quasi totale assenza di luoghi significativi dal punto di vista ebraico che andavano a visitare. Anche Yad Vashem, una tappa obbligata per chiunque visita Gerusalemme, raramente viene incluso.
Un altro problema non meno grave sono le guide, in genere arabe o comunque religiosi. Accanto all'aspetto turistico non manca mai la storia mediorientale raccontata in modo alquanto ostile a Israele. Quando va bene, non se ne parla affatto. Mi capita a volte di chiacchierare con un vicino in aereo e di chiedere quali aspetti del paese l' hanno colpito di più, mai una volta che ascolti il nome di qualche luogo di interesse ebraico. Esagero se dico che questo modo di organizzare i pellegrinaggi mi sembra non in sintonia con un paese con il quale il Vaticano dovrebbe avere cordiali rapporti diplomatici ?
Cito ancora il recente viaggio-pellegrinaggio organizzato ai primi di settembre da monsignor Fisichella insieme ad una folta rappresentanza di politici italiani. Nel momento nel quale doveva esserci la visita a Yad Vashem, le due guide arabe che accompagnavano il gruppo si sono rifiutate di entrare. Posso capire l'imbarazzo di dover spiegare l'amicizia del gran Muftì di Gerusalemme fotografato a Berlino insieme ad Adolf Hitler, un'alleanza che viene regolarmente ignorata nei libri di testo italiani e nelle analisi degli esperti di storia mediorientale. Nei quali si sottolinea sempre la totale estraneità degli arabi al genocidio nazista. Già, che dire davanti a quella fotografia ?
Come si vede il problema è delicato, ma non rinviabile, se non vogliamo che migliaia di pellegrini, uscendo da Israele, continuino ad essere convinti di aver visitato un altro paese, anche se lo chiamano Terra Santa. I rapporti diplomatici a volte possono richiedere delle spiegazioni. Questo mi sembra proprio il caso.
(Shalom, ottobre 2008 - ripreso da Informazione Corretta)
7. LA RAGION DI STATO VATICANA
Quel lungo inverno del '43, l'oro, gli ebrei
ROMA - Dal 12 settembre del '43 Roma e' in mano ai tedeschi che controllano la città. A guidare i servizi segreti militari tedeschi nella capitale è il colonnello Herbert Kappler. I fonogrammi che intercorrono tra Roma e Berlino sono regolarmente intercettati e decifrati da Ultra, il sistema di decrittazione in mano agli inglesi. Dopo il dissolvimento del regime fascista i tedeschi hanno campo libero nel loro piano di colpire "l'infezione ebraica mondiale".
Già da metà settembre del '43 si mettono a punto i piani per la deportazione di tutti gli ebrei romani nei lager tedeschi. Roma non e' esente. Anzi le prime vittime designate sono proprio gli ebrei romani, la comunità più antica. Il 25 settembre arriva a Kappler l'ordine di predisporre la deportazione degli ebrei della Capitale "senza distinzione alcuna di nazionalità, sesso e condizione".
Viene fissata la data del 7 ottobre. Kappler , certo ormai della deportazione, convoca per il 26 settembre il Presidente della Comunità israelitica di Roma, Ugo Foà e il Presidente della Unione delle comunità israelitiche italiane, Dante Almansi. Nel giro di 36 ore gli ebrei romani debbono consegnare 50 kg di oro oppure 200 di loro saranno deportati in Germania. 15 kg vennero prestati alla comunità dal Vaticano su indicazione di Pio XII.
Dal 9 di ottobre comincia a circolare a Roma la voce di una prossima retata. Gli ebrei non ci credono avendo consegnato l'oro ai tedeschi che ora aggiornano rapidamente le schede dell'Ovra, la polizia politica del regime, in vista della retata. Tra il vertice tedesco della capitale c'é però chi non è d'accordo. Si vorrebbe proporre di utilizzare gli 8.000 ebrei della capitale (secondo i calcoli delle SS ma in effetti erano 13.000) per i lavori di fortificazione in vista di un ipotetico tentativo di sbarco ad Ostia, come già era avvenuto a Tunisi. Il 9 ottobre Hitler ordina che gli ebrei vengano portati a Mauthausen, sul Danubio.
"Gli ebrei devono essere immediatamente e totalmente eliminati", scrive il generale Kaltenbrunner a Kappler, che predispone l'operazione. Tutte le ipotesi alternative vengono spazzate via. Per la retata, a causa della "inaffidabilità" degli italiani, in particolare dei carabinieri, si utilizzano i nostri soldati solo per gli arresti individuali. Alla fine 365 uomini arrestano, a "Roma città aperta" 1.259 persone.
Conclusa l'operazione "trappola" gli ebrei fermati saranno 1.002. Tutti gli altri sono stati via via rilasciati. Il 18 ottobre alle 14 il treno che li racchiude parte dalla stazione Tiburtina verso il campo di concentramento di Auschwitz. Su quel treno sono in 1007. Vi salgono anche "l'ariana" Carolina Milani, che assiste una signora immobilizzata e Costanza Sermoneta, che ha cercato di ritrovare suo marito tra gli arrestati. Dal campo di concentramento tornarono in 15.
(ANSA, 18 ottobre 2008)
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Pio XII nell'ottobre '43: tedeschi corretti con il
Vaticano
di Paolo Cucchiarelli
ROMA - C'è un nuovo tassello da inserire nel cangiante e spesso contraddittorio mosaico del rapporto tra Pio XII e gli ebrei nell'autunno del 1943, quando le SS di Herbert Kappler arrestarono poco più di mille romani nel ghetto e nei quartieri della "città aperta" e li spedirono ad Auschwitz.
Si tratta di documenti che arrivano dagli archivi inglesi e americani, visto che quelli vaticani sono tuttora inaccessibili. Uno di questi illustra l'incontro avvenuto due giorni dopo la retata nel ghetto, il 18 ottobre '43, tra il Papa e l'inviato straordinario della Gran Bretagna presso la Santa Sede: in quella occasione Pio XII tace sulla retata e il diplomatico gli chiede di interpretare con maggior determinazione il suo ruolo. In quel contesto Pacelli afferma che i tedeschi si sono comportati "correttamente" con il Vaticano.
In quelle ore il treno con gli ebrei romani sta per partire verso Auschwitz. Due mesi dopo la deportazione degli ebrei romani il Papa, il 13 dicembre del '43, conversando con l'ambasciatore tedesco Ernest von Weiszaecker, che aveva cercato di opporsi alla deportazione, aveva illustrato la sua posizione sugli sviluppi della guerra. Il diplomatico aveva riassunto il tutto in un rapporto che è stato rintracciato durante alcune ricerche dagli studiosi Mario J. Cereghino e Giuseppe Casarrubea che le pubblicheranno in un prossimo volume.
"Il Papa si augura - afferma il rapporto fatto avere ai servizi americani da Fritz Kolpe, la più importante 'talpa' che gli Usa avevano all' interno del ministero degli Esteri tedesco - che i nazisti mantengano le posizioni militari sul fronte russo e spera che la pace arrivi il prima possibile. In caso contrario, il comunismo sarà l'unico vincitore in grado di emergere dalla devastazione bellica. Egli sogna l'unione delle antiche Nazioni civilizzate dell'Occidente per isolare il bolscevismo ad Oriente. Così come fece Papa Innocenzo XI, che unificò il continente (l'Europa) contro i musulmani e liberò Budapest e Vienna".
Proveniente dagli archivi inglesi è invece il resoconto dell'incontro del 18 ottobre del '43 tra l'inviato straordinario inglese Sir D'Arcy Osborne e il Papa. Da due giorni gli ebrei romani sono stati prelevati dalle loro case; lo stesso giorno, alle 14, partiranno dalla stazione Tiburtina verso il campo di concentramento. Nulla il Papa dice di quanto è avvenuto in quelle ore. Pio XII parla della difficile situazione alimentare a Roma che potrebbe portare a tumulti e della sua volontà di non abbandonare la città a meno di non essere "rimosso con la forza".
L'ambasciatore è colpito dall'atteggiamento del Papa che gli dice di non avere elementi per lamentarsi del generale Von Stahel, comandante della piazza militare di Roma, e degli uomini della polizia tedesca "che finora hanno rispettato la neutralità" della Santa Sede. "Io ho replicato - scrive il diplomatico nel rapporto indirizzato al ministro degli Esteri Eden - di aver capito che quando il Vaticano parlava di preservare 'Roma citta' apertà, si riferisse alle operazioni militari. A parte il fatto che la denominazione 'Citta' apertà è una farsa, l'Urbe è alla mercé dei tedeschi che sistematicamente la privano di tutti i rifornimenti e della manodopera, che arrestano ufficiali italiani, giovani e carabinieri e che applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei. (...)".
Il diplomatico cerca di far uscire Pio XII dal suo atteggiamento. "Io ho affermato che Egli dovrebbe fare tutto il possibile per salvaguardare lo Stato della Città del Vaticano e i suoi diritti alla neutralità. Egli ha replicato che in tal senso e fino a questo momento, i tedeschi si sono comportati correttamente", aggiunge nuovamente il diplomatico. Una affermazione fatta mentre la città è ancora sotto choc per la retata arrivata dopo il ricatto dei 50, inutili, kg di oro chiesti agli ebrei per evitare la deportazione. "A mio parere - scrive ancora il rappresentante inglese - molta gente ritiene che Egli sottostimi la Sua autorità morale e il rispetto riluttante di cui Egli è oggetto da parte dei nazisti, dal momento che la popolazione tedesca è cattolica. Ho aggiunto di essere incline a condividere questa opinione e l'ho esortato a tenerlo bene in mente nel corso dei futuri avvenimenti, nel caso emergesse una situazione in cui fosse necessario applicare una linea forte".
"Mettendo a raffronto i due documenti - commentano gli studiosi - risulta chiaro che Pacelli si sente a suo agio con l'ambasciatore tedesco. Con il rappresentante inglese assume un atteggiamento freddo, facendo leva su un giudizio del tutto formale tanto da suscitare la inusitata reazione del diplomatico". I due studiosi, già autori di un volume sulla guerra al comunismo in Italia tra il '43 e il '46, "Tango connection", sottolineano la difficoltà di raccogliere in Italia elementi documentali sulla questione ebrei-Vaticano: "Tuttavia migliaia di documenti sulla situazione della Santa Sede negli anni della seconda guerra mondiale sono da tempo disponibili negli Archivi di College Park negli Stati Uniti e di Kew Gardens in Gran Bretagna. Sono carte provenienti dai fondi dei servizi segreti angloamericani, del Dipartimento di Stato Usa e del Foreign Office britannico", spiegano. "Il nostro archivio www.casarrubea.wordpress.com), conserva rapporti dei Servizi Usa sulle pesanti ingerenze esercitate dalla Santa Sede e in particolare da Pio XII e da Montini, il futuro Paolo VI, nella formazione del primo governo De Gasperi".
(ANSA, 18 ottobre 2008)
COMMENTO - Il fatto che alcuni o molti ebrei siano stati salvati dai nazisti per l'intervento di persone e istituzioni cattoliche può significare due cose: 1) sul piano personale - alcuni, indipendentemente dal fatto di essere cattolici o no, sottoposti a vincoli religiosi o no, fecero il loro dovere di esseri umani cercando di salvare altri esseri umani da una mostruosa furia omicida; 2) sul piano istituzionale - poiché si conosceva bene quello che i tedeschi avevano fatto e stavano facendo agli ebrei, essendo ormai evidente che la Germania aveva irrimediabilmente perso la guerra, e sapendo che presto, a guerra finita, si sarebbero fatti i conti, la cosa più conveniente era quella di prendere le distanze dai carnefici e cercare di costituirsi un passato di "amici degli ebrei", come poi è avvenuto. Tutto questo comunque non cambia il fatto che quei mille romani trasportati ad Auschwitz sono stati sacrificati sull'altare della "ragion di stato" vaticana. M.C.
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