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Notizie su Israele 473 - 21 ottobre 2009

1. Un meraviglioso mix di etnie
2. Episodi di quotidiana convivenza in Israele
3. Il collettivo ebraico in Italia e nel mondo
4. Romania, un memoriale per la Shoah
5. Dal jihad alla dhimmitudine
6. Panorama messianico da Gerusalemme
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Ezechiele 36:38. "Come greggi di pecore consacrate, come greggi di Gerusalemme nelle sue feste solenni, così le città deserte saranno riempite di greggi d'uomini; e si conoscerà che io sono l'Eterno".
2. EPISODI DI QUOTIDIANA CONVIVENZA IN ISRAELE




Il McDonald che unisce arabi e israeliani

di Dan Rabà

La parola "pace" non si usa molto in Israele, di questi tempi. "Fare la pace" non è un obiettivo reale e proponibile, pertanto non se ne discute. In questi ultimi anni le rappresentanze politiche di palestinesi e israeliani si sono allontanate dall'idea della pacificazione e propongono piuttosto politiche aggressive. E così "l'altro" si fa un'entità sempre più misteriosa e minacciosa.
    In Israele, dopo la restituzione di alcuni territori vicino a Gaza e lo sgombero drammatico dei coloni a opera dell'esercito israeliano, durante il governo Sharon, si vive la risposta palestinese con incursioni e cannoneggiamenti, che rafforzano lo stereotipo degli «arabi che non capiranno mai altro che la forza», di quegli arabi di cui «non ci potremo mai fidare abbastanza per firmare una pace reale».
    A Gaza, nello scontro politico militare interno, ha prevalso con la violenza il gruppo estremista e guerrafondaio di Hamas, che si identifica con la lotta armata e, simmetricamente, in Israele è cresciuto l'odio nei confronti "degli altri".
    In questo estenuante conflitto tra i due popoli, i palestinesi che abitano in Israele giocano un ruolo importante. Sono una minoranza numerosa, circa un milione e mezzo di persone che vivono vicino alla maggioranza ebraica (che conta cinque milioni e mezzo di persone). Vivono vicino, sono in relazione tra loro, ma non vivono "insieme".
    Sono in conflitto ma non "contro".
    La loro identità e i loro interessi sono dipendenti dai rapporti tra le parti.
    Quando il conflitto tra Israele e Libano o con Gaza si acuisce, anche i rapporti tra israeliani e palestinesi residenti in Israele si complica, legami economici e famigliari ne soffrono le conseguenze. I segnali di questa conflittualità si percepiscono anche in certi comportamenti di massa, nella vita quotidiana della popolazione. Molti ebrei amano fare acquisti nei villaggi arabi o nei mercati arabi tappeti, cibi, frutta, verdura, olio...
    Molti amano mangiare cibi orientali tipici nei ristoranti arabi. E poi muratori, idraulici, elettricisti, falegnami, e molti altri artigiani arabi lavorano gomito a gomito con gli ebrei.
    Nei momenti di conflitto acuto, come guerre o attentati, queste relazioni vengono come sospese, oppure si interrompono. Gli ebrei non si sentono sicuri a invitare un lavoratore in casa o ad andare in un villaggio arabo a mangiare o fare spese. Ma nei momenti di "normalità", i due popoli si incontrano anche nelle università dove oggi studiano molte ragazze arabe (i ragazzi, se ne hanno i mezzi, preferiscono studiare all'estero). Insomma, nei periodi di tregua la cooperazione, il commercio, il turismo, le attività culturali, la relazione tra arabi ed ebrei si accentua, invece nei periodi di conflitto entra in crisi.
    Ma ci sono altri luoghi dove la dinamica tra i due popoli si fa intensa. Uno di questi è l'ospedale.
    Nelle strutture sanitarie medici e infermieri arabi ed ebrei lavorano gomito a gomito e vengono curati insieme malati di tutte le comunità. A differenza di quanto avviene negli ospedali occidentali, in Israele l'accesso per amici e parenti è libero a tutte le ore, perciò le corsie sembrano grandi mercati dove arrivano intere famiglie, con nonne e bambini al seguito, a mangiare e a parlare. La malattia, come tutte le esperienze drammatiche, spesso unisce.
    Nonostante arabi ed ebrei si incontrino in diverse situazioni, però, vivono separati nei propri insediamenti o paesi, mentre in alcune città come Acco, Haifa, Gerusalemme, Afula o Nazareth, vivono in quartieri distinti. Quelli misti sono rari e comunque problematici.
    Io vivo in campagna, in una zona in cui i villaggi arabi e quelli ebraici sono vicini, confinanti, ma non mescolati. Vivo qui in Israele da venticinque anni e per dodici ho vissuto in un kibbutz. Poi sono andato in città e ho cambiato tre residenze, prima ad Haifa, la terza città di Israele, poi nei centri agricoli di Beniamina e Pardes Hanna.
    Nel kibbutz non vivono arabi, ma ci lavorano come salariati. Così ho avuto modo di conoscere un po' l'altro popolo. Come gli ebrei, che sono divisi per gruppi di provenienza e tradizioni, anche gli arabi hanno tra loro diversità di religione e mentalità, quelli che lavoravano nel kibbutz, per convinzione o convenienza, erano "amici" degli ebrei.
    Ma ad Haifa ho incontrato anche arabi ostili, con un atteggiamento aggressivo e provocatore. Al mercato, per esempio, alcuni non volevano trattare con me, o facevano finta di non capire cosa chiedevo.
    Ad Haifa c'è un mercato della frutta e verdura degli ebrei e uno (relativamente vicino) degli arabi, nel quartiere arabo. Nel mercato del quartiere ebraico, Hadar, si parla ebraico, russo, arabo. In quello cristiano arabo di Wadi Nisnas, si parla arabo e
Mercato a Haifa
pochissimo ebraico. Quando giravo nel mercato arabo di Haifa ero visibilmente uno dei pochi ebrei presenti.
    Dove abito adesso c'è una strada statale che passa attraverso molti villaggi arabi, e per quattro anni mia moglie mi ha impedito di percorrerla, perché in un paese avevano assassinato un lavoratore della compagnia dei telefoni. Un omicidio "politico": lo avevano ucciso in quanto ebreo. E poi, spesso, i ragazzi lanciano pietre sulle macchine in corsa. Personalmente su quella strada ci avrei anche viaggiato, ma non ho voluto impensierire mia moglie.
    Riporto l'episodio solo per far capire il tenore delle discussioni che si creano in molte famiglie.
    Andare o non andare a Gerusalemme perché è pericoloso, chiamare o meno un idraulico arabo, fequentare o no un ristorante arabo. Io sono curioso di capire cosa succede nel "loro mondo", mia moglie invece è sulla difensiva, in lei prevale la paura.
    Vicino a Pardes Hana, il mio paese, c'è un grande kibbutz: Gan Shmuel, ricco, con grandi industrie e una zona commerciale piena di negozi e grandi magazzini. Il kibbutz era in origine (negli anni '30) una comune agricola socialista. Oggi, all'interno del kibbutz, sono rimasti alcuni rapporti di socialità e comunità, ma i beni non sono più in comune e la gestione è capitalista. Questo centro commerciale è frequentato da arabi ed ebrei che qui lavorano o fanno acquisti (i bisogni, dopotutto, sono simili).
    Mi sono trovato a pensare che questo luogo è un primo, rudimentale esperimento di convivenza in Israele.
    Certo non è la realizzazione dell'internazionalismo socialista, in cui credevo anni fa, ma comunque arabi ed ebrei comprano, consumano, mangiano, lavorano, si guardano... e forse capiscono anche di non essere poi così diversi.
    Mio figlio torna dalla scuola con una mentalità "naturalmente" anti-araba: gli arabi sono cattivi, sono i nemici. Credo che questo sia il risultato dei giochi e dei discorsi che i bambini fanno tra loro. Cose che recepiscono dalla televisione, dalle notizie e dai ricordi che hanno di attentati e guerre. Eppure quando mio figlio va al McDonald's di Gan Shmuel, trova normale che i lavoratori siano arabi, così come molti dei clienti. Potrebbe scegliere un altro ristorante della catena, che è alla stessa distanza da noi e dove non ci sono arabi, ma lui preferisce quello di Gan Shmuel, più grande e caotico: ne deduco che la presenza araba non lo disturba. Lo so, è solo un ininfluente episodio di vita privata, ma spesso sono proprio le piccole cose la base per la costruzione della pace e della convivenza.
    
(Europaquotidiano.it, 1 settembre 2009)





3. IL COLLETTIVO EBRAICO IN ITALIA E NEL MONDO




Il mondo ebraico e le sfide dei nostri tempi

di Sergio Della Pergola

"La globalizzazione crea un'ineviitabile interdipendenza fra le diverse comunità ebraiche. Dalle finanze alle idee, i problemi di ognuno diventano i problemi di tutti. Non è più possibile sfuggire all'immersione totale rifugiandosi nel proprio angolino. Così anche l'ebraismo italiano è oggi integralmente coinvolto in processi, dibattiti e rischi che ne trascendono ampiamente le dimensioni relativamente ristrette".

Nel corso del XX secolo, tre volte il popolo ebraico ha "attraversato il Mar Rosso": con la sopravvivenza alla Shoah; con il ritorno degli ebrei alla sovranità politica nello Stato d'Israele e con la radicale trasformazione del suo profilo geografico, socio economico e culturale. Mentre oggi la polis globale attraversa vicende complesse e contraddittorie, le mutazioni irreversibili del mondo ebraico contemporaneo lo conducono verso sfide esistenziali senza precedenti, e allo stesso tempo verso grandi opportunità di risposta. Queste grandi sfide riguardano i contenuti e la coerenza dell'essenza culturale e normativa del papolo ebraico, inclusi i limiti d'appartenenza e d'inclusione nel collettivo; l'intercambio e il confronto fra mondo ebraico e mondo non ebraico e l'individuazione e la difesa degli interessi globali del collettivo ebraico attraverso opportuni strumenti teorici e pratici.
    Se nel passato di fronte a queste diverse questioni ci si poteva muovere nell'ambito locale perché le situazioni erano obiettivamente differenti, la globalizzazione nelle sue diverse manifestazioni politiche, economiche e culturali crea un'inevitabile interdipendenza fra le diverse comunità ebraiche. Nel campo della sicurezza, da tempo le distinzioni fra un "fronte'; israeliano e una "retrovia" del resto del mondo ebraico hanno perduto ogni validità. A maggior ragione, le grandi tendenze economiche e culturali operano oggi a tutto campo. Dalle finanze alle idee, i problemi di ognuno diventano i problemi di tutti. Non è più possibile sfuggire all'immersione totale rifugiandosi nel proprio angolino. Così anche l'ebraismo italiano è oggi integralmente coinvolto in processi, dibattiti e rischi che ne trascendono ampiamente le dimensioni relativamente ristrette.
    Certamente la demografia gioca un ruolo latente ma essenziale nella capacità delle comunità ebraiche di funzionare. I numeri deficitari della diaspora hanno creato l'effetto, per molti sorprendente e inusitato, di avere nello Stato d'Israele la comunità ebraica più numerosa del mondo. Ma i numeri sono collegati in modo evidente anche con la capacità di ricambio delle élite e con la creatività dell'intera compagine. Se il processo d'involuzione demografica non si arresta, non ne viene danneggiato solamente l'Ebraismo società (in inglese Jewry) ma anche l'Ebraismo idee (Judaism). Questo problema, che è comune a tutte le società sviluppate, assume una gravità ben maggiore per una piccola minoranza, ma può e deve essere contrastato con un consapevole investimento di mezzi e servizi a favore delle famiglie giovani, dell'infanzia e della gioventù.
    I numeri, poi, riflettono la potente azione dei flussi dell'economia globale che creano opportunità e sviluppo in certe località, ma non altrove. Le migrazioni ebraiche ci aiutano a capire come mai una comunità come quella di Milano ammonta oggi a livelli simili o inferiori rispetto agli anni '60, mentre quelle di San Paolo e Toronto sono fortemente cresciute. L'ebreo è generalmente ben istruito, competente professionalmente, leale alla società in cui si trova. Da emarginato rivoluzionario nel passato, fa parte oggi dell'elemento stabile della società produttiva, interessata forse più che in passato alla conservazione dell'ordine esistente. Ma poi la generale individualizzazione gioca a sfavore del volontarismo nelle organizzazioni.
    Queste tendenze di carattere generale che incidono profondamente sulla realtà comunitaria, non escludono che vi sia un grande interesse per la cultura ebraica. Anzi, questo è forse oggi maggiore che in passato grazie a migliori e più accessibili strumenti d'istruzione formale e d'informazione autodidatta. La grande assimilazione nel contesto circostante non significa necessariamente perdita di valori. E questo è un binomio abbastanza nuovo che le guide spirituali della comunità non hanno sempre voluto o potuto ancora metabolizzare. La definizione dell' appartenenza al collettivo ebraico, l'eterna questione del "Chi è ebreo?" va gestita ovviamente in modi che rispettino la tradizione normativa, ma senza ignorare i contesti particolari d'Israele, o delle diverse comunità grandi o piccole della Diaspora.
    È spesso la società non ebraica - vuoi la maggioranza, vuoi un'altra minoranza dominante - a determinare le immagini e le aspettative di ciò che si ritiene sia un ebreo ideale. Riscopriamo allora che anche nella percezione di persone peraltro colte e decenti, gli ebrei sono a volte accettabili come membri di una fede minoritaria in un ambito dominato da altre religioni, etnie, o tendenze secolari. Ma lo sono meno come gruppo-nazione che chiede una propria sovranità territoriale e ha una propria visione autonoma del mondo. E se accettati come collettivo, allora su un piano soprattutto ideale-normativo (e dunque non reale) di eterea e sofferente entità planetaria, non su un piano di normalità sociologica, inclusa una ragionevole dotazione di forza fisica e anche di devianza.
    Di fronte a questo panorama di fondo, emergono le grandi sfide del collettivo ebraico: agire urgentemente per salvare le comunità esposte a rischio di sopravvivenza fisica; perseguire la pace per Israele, cercando il giusto equilibrio fra le irrinunciabili esigenze di sicurezza e di realpolitik di fronte alle minacce nucleari e al terrorismo internazionale e il mantenimento di altrettanto irrinunciabili valori umani e sociali propri della tradizione ebraica; incoraggiare la continuità delle comunità attraverso una robusta trasmissione culturale da una generazione all'altra che non può essere solamente localistica ma richiede più ampi spazi e deve saper identificare un nucleo di valori ebraici riconoscibili. Al tempo stesso vanno coltivate l'unità e la solidarietà della comunità in uno spirito di dialogo, mutuo rispetto e tolleranza, nell'obiettivo di Clal Israel, la comunione d'Israele proiettando valori ebraici grazie a ponti di cultura e solidarietà verso il mondo esterno e combattendo senza sosta l'ostilità antiebraica e anti-israeliana,



sempre totalizzante, che proviene non soltanto dalle note matrici del fondamentalismo religioso, islamico o cristiano, o del negazionismo neofascista o neonazista, o del populismo anarchista, ma anche da insospettabili aree della società civile liberale.
    Occorre anche riesaminare radicalmente i meccanismi di governance del collettivo ebraico globale e i suoi mezzi di comunicazione di massa, e provvedere alla formazione dei quadri che possano portare avanti queste esigenze ai più alti livelli di professionalità. Non appare più plausibile oggi che non esista un Forum ebraico globale dove si possa esaminare e capire meglio insieme quali siano i problemi cruciali e i modi migliori per affrontarli, attraverso un dialogo continuo, non legato esclusivamente ai momenti d'emergenza, fra Israele e Diaspora.
    È urgente una maggiore rappresentatività delle istituzioni ebraiche continentali e globali che dia più spazio ai giovani, crei maggiori intercambi fra le diverse comunità e rifletta una più alta consapevolezza da parte d'Israele che le sue azioni incidono profondamente sul destino degli ebrei nel mondo. E vanno potenziati o creati quegli organi di comunicazione che nell'era dello spazio virtuale sappiano raggiungere più persone, ebrei e non ebrei, in meno tempo e a minori costi.
    Nelle parole del primo rapporto del Jewish people policy planning institute, "la sopravvivenza del popolo ebraico non è garantita, ma esistono grandi opportunità per un futuro brillante. È necessario uno sforzo ostinato e su larga scala se si vogliono ottimizzare i vantaggi a disposizione e minimizzare i pericoli emergenti. Per giungere a questo sarà necessario investire ingenti risorse, saper prendere decisioni critiche con giudizio e coraggio e sviluppare attentamente una strategia ebraica a lungo termine". Sono questi i temi - complessi e inquietanti, ma non privi di speranza - sui quali è chiamato a misurarsi il collettivo ebraico in Italia e nel mondo.

(da "pagine ebraiche", maggio-giugno 2009)





4. ROMANIA, UN MEMORIALE PER LA SHOAH




Il presidente Basescu tenta di chiudere i ponti con il passato negazionista

di Benedetta Guerriero

Traian Basescu
Si è dovuto attendere l'ottobre del 2009 perché a Bucarest venisse inaugurato il primo memoriale a favore delle vittime dell'Olocausto. "E' un obbligo per i romeni - ha dichiarato il presidente Traian Basescu - riconoscere il genocidio durante la Seconda Guerra Mondiale e onorarne le vittime". Dopo anni di dibattiti e polemiche la Romania, almeno formalmente, lancia un segnale concreto sulla spinosa questione della Shoah. La responsabilità romena nello sterminio di ebrei e rom negli anni del Nazismo è infatti un tema sul quale si dibatte da anni e che ancora non riesce a mettere tutti d'accordo.
    A lungo incerta sullo schieramento da seguire alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Romania decise infine di allearsi con la Germania di Hitler. Nel 1938, come conseguenza della promulgazione delle leggi razziali, più di centoventi mila ebrei vennero privati della cittadinanza e, a partire da questo momento, la loro condizione andò sempre più peggiorando. Nel 1940 agli ebrei fu vietato l'accesso alle cariche pubbliche, ai giornali e fu loro imposto il divieto di contrarre matrimonio con i romeni. Le violenze toccarono l'apice nel 1941 nel pogrom di Iasi, città situata nella zona orientale della Romania, dove furono brutalmente trucidati più di quattordicimila ebrei. A guerra conclusa, è stato stimato intorno ai 3.800 il numero degli ebrei uccisi in Romania. Molto incerto, invece, il dato relativo alla comunità rom, che si aggira intorno alle dodicimila unità. Numeri pesanti, che furono tenuti nascosti fino alla metà degli anni Novanta. Durante il regime di Ceausescu, infatti, la questione dell'Olocausto venne fortemente minimizzata e delle stragi compiute verso Ebrei e rom vennero accusati gli stati vicini, quali l'Ucraina o l'Ungheria, stato rivale per eccellenza. Nonostante le proteste e le richieste della comunità ebraica internazionale di fare luce sui fatti, Ceausescu riuscì fino alla fine a nascondere la verità. Un atteggiamento negazionista venne adottato anche dai successori del dittatore e soltanto nel 2004 venne deciso di proclamare una giornata per la Commemorazione delle vittime dell'Olocausto. Idea che venne fortemente osteggiata dai partiti nazionalisti dell'estrema destra.
    L'inaugurazione del memoriale è dunque un segnale forte che il Paese lancia all'Unione europea come prova dei cambiamenti e delle trasformazioni in corso.

(PeaceReporter, 13 ottobre 2009)





5. DAL JIHAD ALLA DHIMMITUDINE




L'islam ci annienta con dolcezza

di Andrea Morigi

C'è un sistema perfetto per annientare i cristiani e gli ebrei, senza lasciarne più traccia. Antico quanto basta per affermare che si tratta del metodo di sterminio più efficace, duraturo e sperimentato della storia. Quel meccanismo complesso si mette in moto gradualmente, a mano a mano che si applicano i princìpi della sharia, la legge coranica, e poco a poco soffoca le comunità non islamiche, riducendone inesorabilmente le dimensioni fino al nulla.
    Si deve all'opera di Bat Ye'or, di cui esce ora in traduzione italiana un testo edito in francese nel 1991, Il declino della Cristianità sotto l'Islam. Dal jihad alla dhimmitudine (Lindau, pp. 576, euro 32), la descrizione storico-giuridica finora più accurata del processo di islamizzazione delle terre conquistate attraverso il jihad, la guerra santa.
    Battaglie e imprese militari delle armate di Maometto e dei califfi suoi successori sono soltanto la premessa per dar vita a un'amministrazione in grado di mettere in ombra qualsiasi potenza colonizzatrice occidentale moderna.
    
Pulizia etnica
    Tutto ruota intorno al termine dhimmitudine, all'incirca traducibile con "apartheid" se quest'ultimo istituto giuridico non fosse che una pallida imitazione sudafricana della colossale operazione di pulizia etnica messa a punto dopo le invasioni dei musulmani nel Medio Oriente, in Africa, in Spagna e in Sicilia.
    Dhimmi, letteralmente, significa "protetti". Nella sostanza, indica le minoranze non islamiche appartenenti alle religioni del Libro, cioè i cristiani e gli ebrei, ai quali immediatamente dopo la loro sconfitta si applica un trattamento da cittadini di serie B.
    Si inizia con un'imposizione fiscale discriminatoria che culmina nella jizya, un testatico dovuto dalla comunità degli "infedeli" ai nuovi dominatori. Sono questi ultimi a stabilire l'entità della somma, che rimane tale anche quando la popolazione assoggettata diminuisce numericamente. Così chi rimarrà fedele alla propria religione fatalmente vedrà aumentare la propria quota parte del tributo globale, fino a non poterne più sostenere l'onere. Anche per una ragione di mero calcolo economico, conviene convertirsi all'islam.
    I musulmani, infatti, pagano individualmente la zakat, la tassa per il culto. Sono considerati cittadini di serie A. Ai dhimmi non è concessa nemmeno la proprietà fondiaria, ma soltanto la conservazione del possesso della terra, percepirne l'usufrutto ed ereditarla. Ma devono pagare il kharaj, l'imposta fondiaria. Perciò, quelli che un tempo erano imprenditori agricoli, si trasformano improvvisamente in lavoratori dipendenti, ai quali spetta mantenere le truppe d'invasione e rifornire le popolazioni arabe immigrate di cibo, vestiario e manufatti.
    Il secondo ingranaggio, che scatta contemporaneamente, è la proibizione dell'apostasia. Si può abbandonare qualsiasi altra religione per convertirsi all'islam, ma il percorso inverso implica la morte. Ugualmente, a un "infedele" non è consentito contrarre matrimonio con una donna musulmana. Ovviamente, un musulmano può tranquillamente sposare (anzi è caldamente invitato a farlo) una donna di altra religione, poiché i figli saranno educati nella religione del padre, l'islam.
    Va da sé che la manovra a tenaglia, così congegnata, ottiene lo scopo prefisso, cioè la scomparsa di tutto quanto testimonia l'esistenza di civiltà precedenti. Tutto dipende dall'intensità con cui si decide di azionare la leva del razzismo radicale. Ondate persecutorie, saccheggi sistematici e conversioni forzate si alternano con manifestazioni di tolleranza più o meno durature, sempre intese però a mantenere in vita le galline dalle uova d'oro, le comunità sottomesse che garantiscono il mantenimento gratuito ai dominatori musulmani, che a lavorare non ci pensano nemmeno.
    
Lavori forzati
    Perciò l'autrice, a cui si deve anche il termine "Eurabia", descrive le dinamiche per le quali, quando abbisognava «l'esperienza dei cristiani in fatto di edilizia, arboricoltura e irrigazione - arti in cui i musulmani non eccellevano di certo, e che peraltro non praticavano - era opportuno farli insediare fra gli islamici per favorire lo sviluppo di quella città e indebolire gli infedeli». Un concetto di flessibilità, mobilità e delocalizzazione moderno, tanto quanto quello dei campi di lavoro organizzati dai nazionalsocialisti tedeschi e poi presi come esempio da comunisti russi e cinesi.
    Senza l'opera di Bat Ye'or, che non fornisce soltanto un elenco freddo di date e avvenimenti, ma anche la cornice al cui interno si situano, molti episodi potrebbero apparire indipendenti. La realtà della dhimmitudine, al contrario, è il filo rosso, o meglio verde, che li collega, fino all'epoca contemporanea e ora minaccia l'Occidente dai ghetti dell'immigrazione musulmana. Le varie Dichiarazioni dei Diritti del Musulmano, scritte dai Paesi arabi in alternativa alla Carta dei Diritti dell'uomo approvata a Helsinki nel 1948, risalgono alla cultura della sharia tanto quanto la falsa tolleranza esercitata da 1.400 anni a questa parte dai governanti islamici.
    
(Libero-news.it, 10 ottobre 2009)





6. PANORAMA MESSIANICO DA GERUSALEMME




Identità e confessioni di fede dei discepoli ebrei di Yeshua in Israele (2)

"Ma quando sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annuncerà le cose a venire." (Giovanni 16:13)

di Gershon Nerel

Se si guardano le pagine internet delle comunità e delle organizzazioni ebreo-messianiche, si nota una grande apertura nella presentazione delle confessioni di fede dei credenti israeliani in Yeshua. La maggior parte dei testi presenta il Messia Yeshua come Figlio di Dio e afferma che in Lui si sono compiute tutte le profezie messianiche dell'Antico Testamento. Nelle confessioni di fede scritte in ebraico l'attento lettore trova però raramente espressioni non bibliche come «Trinità» o frasi come «soltanto la Scrittura» (sola Scriptura). Viene invece nominata spesso la divina elezione di Israele e la certezza che il Signore compirà tutte le promesse fatte al suo popolo. In queste confessioni di fede ebraiche l'attuale Israele viene considerato come l'immediato successore dei Patriarchi e come il legittimo erede delle promesse e dei patti riferiti all'Israele biblico.
    E' interessante osservare che in molti testi riguardanti i fondamenti della fede l'identità dei credenti ebrei in Yeshua è descritta in modo negativo, come se si volesse accentuare quello che non sono. Si possono leggere frasi come queste: «Noi non siamo seguaci di una religione, ma credenti»; o: «La fede in Yeshua non è una religione autonoma, ma una diretta e naturale conseguenza del Tanach (Antico Testamento)»; o: «Noi non siamo una Chiesa (istituzione ecclesiastica), ma un'"assemblea messianica"». Si possono trovare perfino dichiarazioni come questa: «Noi non siamo notzrim (cristiani)». Con questo si vuol dire che «noi non siamo diventati non-ebrei, ma manteniamo la nostra ebraicità e la nostra eredità ebraica». In alcune confessioni di fede si tocca anche il tema del cambiamento di religione, e contemporaneamente si sottolinea che gli ebrei che credono in Yeshua non hanno cambiato religione, ma nella fede nel Messia hanno soltanto trovato la loro piena realizzazione e sono diventati veri ebrei.
    Un'altra «dichiarazione negativa» suona così: «La comunità mondiale dei credenti in Yeshua non ha sostituito il popolo d'Israele». Evidentemente con questa dichiarazione ci si vuole opporre alla contrastata «teologia del diseredamento» (o teologia della sostituzione) che certi ambienti cristiani continuano a sostenere. In altri posti si può addirittura leggere: «Noi non ci sentiamo appartenenti al cristianesimo, che è diventato una religione isolata, distaccata dal popolo ebraico. Il movimento messianico è piuttosto figlio dell'ebraismo». In un altro caso si dice: «... noi non siamo sottoposti né a un Grande Rabbino né a un Papa». Tali dichiarazioni parlano da sole.
    Alcune confessioni di fede parlano anche della «nostra sinagoga messianica», come nelle comunità «Rohe Israel» (Pastori d'Israele) a Gerusalemme e «Ohalei Rahamim» (Tende della Misericordia) nel nord del paese. Con queste denominazioni si vuole trasmettere il messaggio che queste comunità si considerano centri ebraici, le cui porte però sono aperte anche ai non-ebrei. Nei membri della comunità questa identità «sinagogale» si manifesta anche nell'osservanza di determinate tradizioni rabbiniche (Halacha), nella misura in cui non sono in contrasto con l'Antico e il Nuovo Testamento. Tra queste si trovano, per esempio, la lettura della porzione settimanale della Torà e l'uso di preghiere tratte dal Siddur, il libro di preghiera ebraico. In molti casi tuttavia l'identità espressa nelle diverse confessioni di fede non è ancorata a versetti della Bibbia o a concetti biblici. Nella presentazione del patrimonio dottrinale e della pratica di fede, i redattori di queste dichiarazioni si prendono la libertà di non appoggiarsi esplicitamente sulla Bibbia.
    E' anche interessante notare che le confessioni di fede dei credenti israeliani in Yeshua fanno risaltare il significato centrale del popolo e della terra d'Israele nel piano di Dio per gli ultimi tempi. Si stanno avvicinando gli ultimi giorni della storia del mondo perché nei secoli passati molte profezie bibliche si sono adempiute. Nell'imminente ritorno di Yeshua dal cielo, tutto Israele lo accoglierà come Redentore, con profondo cordoglio per il rifiuto degli ultimi due millenni (ved. Zaccaria 12:10).
    Anche quello che in queste confessioni di fede è tralasciato riguardo alla fede e all'identità è significativo. Un esempio è il mancato accenno ai comandamenti (ebr. Mitzvot) dello stesso Yeshua contenuti nei Vangeli e nell'Apocalisse. Yeshua invita spesso i suoi discepoli ad attenersi ai suoi precetti e a osservarli quotidianamente sul sentiero della verità. Egli dice per esempio: «Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore... » (Giovanni 15:10). Anche se la redenzione attraverso il perdono dei peccati è possibile soltanto per grazia e fede, il nostro Signore sottolinea quanto sia importante l'osservanza dei suoi numerosi comandamenti riportati in modo dettagliato nella sua Parola. Solo questi comandamenti del Signore Yeshua, così chiaramente formulati, conferiscono significato ad una vera identità messianica, sia per i suoi discepoli ebrei, sia per quelli non ebrei.
    Le confessioni di fede delle comunità e delle organizzazioni ebreo-messianiche di Israele che si trovano sulle pagine di internet mostrano una crescente trasparenza nella presentazione delle dottrine di fede, ma anche una crescente fiducia di sé. Questo si manifesta anche nella decisione con cui si difende la fede in Yeshua come Messia da una parte (apologetica), e nella disponibilità alla discussione su opinioni differenti (polemica) dall'altra. Naturalmente l'intera verità biblica si trova sia nell'Antico sia nel Nuovo Testamento. Per questo dobbiamo lasciarci condurre in questa verità dallo Spirito Santo.

(Nachrichten aus Israel, agosto 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





MUSICA E IMMAGINI




Beshuv Hashem




INDIRIZZI INTERNET




Morashà.it

Congregation Avodat Yisrael




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