1. SIONISMO ED EBRAISMO MESSIANICO: DUE MOVIMENTI
PARALLELI
Joseph Rabinowitz. Alle origini del movimento degli ebrei messianici
di Marcello Cicchese
Joseph Rabinowitz (1837-1899) è un nome pressoché sconosciuto in Italia. Non è così in altri paesi. Esiste un libro di Kai Kjaer-Hansen, di circa venti anni fa, originariamente scritto in danese e poi tradotto in inglese, che ha come titolo "Joseph Rabinowitz and the Messianic Movement", e come sopratitolo: "The Herzl of Jewish Christianity". In realtà, come vedremo nella breve presentazione che segue, la sua figura si presta meglio ad essere confrontata con un altro personaggio del sionismo, meno noto al grande pubblico ma forse ancora più importante: Leon Pinsker (1821-1891).
Dopo il periodo napoleonico, in molti paesi dell'Europa occidentale si era avviato un processo di emancipazione degli ebrei che, anche se non mancavano le opposizioni e i rallentamenti, sembrava inarrestabile. Anche nell'Impero russo il "progresso", come emancipazione da varie forme di servitù, stava movendo i suoi primi incerti passi. Leon Pinsker, nato a Tomaszów Lubelski, un paese dell'attuale Polonia meridionale, aveva ereditato un forte senso di identità ebraica da suo padre, uno studioso e insegnante, autore di libri in lingua ebraica. Il giovane Pinsker fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l'abbandono da parte degli ebrei dell'yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma ben presto le speranze riposte nell'inarrestabile progresso si rivelarono per quelle che erano: un'illusione. Il momento di svolta, come fa notare lo studioso David Bidussa nella sua introduzione all'opera principale di Pinsker, "Auto-emancipazione", può essere fissato negli anni 1881-82.
«Fra il 1881 e il 1882 un'ondata di pogrom antiebraici investe la Russia zarista. Al termine di quel ciclo di violenze il mondo ebraico russo muta profondamente, sia in relazione alle condizioni materiali, sia nelle proprie pratiche autoriflessive.
Quegli eventi sono interpretati come la crisi di un'epoca avviata dalla Rivoluzione francese e, contemporaneamente, segnano il venir meno della convinzione che il processo di emancipazione costituisca un dato ormai irreversibile e universale. Se fino al 1881 gli ebrei russi speravano che un processo analogo si sarebbe realizzato anche nel loro paese, con i pogrom del 1881 quella speranza tramonta definitivamente.
Effetti, questi, tanto più significativi se si considerano due aspetti: il fatto che gli eventi del 1881-82 non sono episodi improvvisi e isolati, ma si collocano in una catena di violenze antiebraiche che avvengono con regolarità nella società russa, specie nella seconda metà del XIX secolo e che, allo stesso tempo, segnano anche un diverso atteggiamento delle autorità zariste.
La vera rottura, invece, avviene in quei ceti intermedi che sulla possibilità di un processo di emancipazione, anche in Russia, avevano investito politicamente e culturalmente. All'indomani della legge che aveva abolito la servitù e liberalizzato il mondo contadino all'inizio degli anni '60 molti ebrei e non ebrei concepiscono un'evoluzione liberale del paese ancora possibile, e vi investono risorse non indifferenti. Nel 1881 questa convinzione subisce un duro colpo.»
Pinsker è tra quelli che avvertono duramente il colpo. Nella sua delusione, parte per un viaggio in Europa occidentale, e nel 1882 scrive il suo famoso pamphlet "Autoemancipazione" che, come emerge già dal sottotitolo, vuol essere un "Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli". In sostanza è un invito a considerare chiusa l'epoca della diaspora ebraica, a smettere di cercare soluzioni nella sottomissione o nell'assimilazione, e a ritrovare il senso della propria identità nazionale. «Dobbiamo cercare il nostro onore e la nostra salvezza non più nelle illusioni con cui tentiamo di ingannare noi stessi, ma nella restaurazione della nostra unità nazionale», proclama nel suo appello. Ed è sulla base di una visione lucida ed accorata come questa che si svilupperà in seguito il progetto politico che prenderà il nome di "sionismo".
Joseph ben Rabinowitz percorre invece un'altra strada, molto diversa nelle conclusioni, ma con elementi simili a quelli di Pinsker. Anche Rabinowitz proviene dall'ambiente dell'Impero russo di quel tempo. Nasce a Rezina, un piccolo paese della Bessarabia, attuale Moldavia. Entrambi i genitori appartenevano a famiglie rabbiniche. Sua madre morì quando aveva soltanto quattro anni e il padre lo affidò alle cure del nonno materno, che era un pio e zelante chassidim. Da lui imparò a conoscere e ad amare la Torà e il Talmud. Dopo il 1848 fu trasferito per esigenze familiari nella casa del nonno paterno, il quale lo mantenne sotto l'influenza dello chassidismo facendogli impartire lezioni da un ben pagato Rabbi. All'età di 16 anni gli fu comunicato dal padre e dai parenti il nome della sua futura moglie, cosa che in quel tempo e in quell'ambiente non era affatto inusuale. Secondo le norme allora in uso, le nozze dovevano essere celebrate entro tre anni dalla comunicazione ricevuta. Cosa che poi effettivamente avvenne. Durante i tre anni di fidanzamento il giovane Joseph si familiarizzò con gli scritti di Moses Mendelssohn, famoso esponente dell'illuminismo ebraico e nonno del compositore Felix Mendelssohn Bartholdy. Le idee dell'ebraismo riformato fecero breccia nella mente vivace del giovane: come lui stesso dichiarò in seguito, la chiarezza del pensare logico lo fece risvegliare dal sogno dello chassidismo in cui era cresciuto.
Il matrimonio però non ne risentì. Contrariamente a quello che si pensa oggi sulla necessità di adeguate prove di convivenza prima dell'eventuale unione formale, il matrimonio dei Rabinowitz, che non solo era avvenuto senza prove preliminari, ma addirittura non era nemmeno stato deciso dai diretti interessati, superò brillantemente la prova del tempo. I coniugi ebbero sei figli, tre maschi e tre femmine, e la famiglia si mantenne sempre unita anche sul piano spirituale.
Il passaggio dallo chassidismo al libero pensiero è stata la prima conversione di Rabinowitz. Fu in questo periodo di travaglio che ricevette dalle mani di un altro ebreo, anche lui poco osservante delle tradizioni rabbiniche, un Nuovo Testamento in ebraico. Non si sa di preciso che cosa ne fece Rabinowitz negli anni seguenti, ma è probabile che nella sua nuova apertura mentale lo abbia letto, almeno in parte, se non altro per il desiderio di accrescere le sue conoscenze. E' certo comunque che non se ne distaccò mai, anche se per molti anni non diede alcun segno di essere stato convinto o influenzato dal suo contenuto.
E' importante dunque sottolineare che Rabinowitz, che pure era nato in una famiglia di rabbini ed era cresciuto in un ambiente chassidico, dall'età di 19 anni era diventato un ebreo "illuminato", come in fondo era sempre stato Pinsker.
Anche lui, come Pinsker, arrivò ben presto a capire che le luci del progresso non avrebbero fugato le tenebre dell'odio contro gli ebrei: i pogrom che si susseguivano nell'Impero russo ne erano una continua e dolorosa conferma. «Gli ebrei di Odessa - diceva - sono stati i primi a consegnarsi al progresso, e sono stati i primi ad essere minacciati di sterminio».
Rabinowitz però non abbandonò il suo popolo. Anche lui, come Pinsker e poi come Herzl, era "torturato" dal pensiero di trovare "la soluzione della questione ebraica". Aveva completato i suoi studi, era diventato avvocato, e come tale si impegnava a difendere per quanto possibile le cause dei suoi correligionari. Volle migliorare il suo russo, studiò a fondo la legislazione della Bessarabia, pubblicò articoli sui giornali ebraici di Odessa, si mobilitò per favorire la creazione di scuole di Talmud-Torà affinché gli ebrei potessero studiare il russo e l'ebraico. Da tutti era considerato un "amico del popolo ebraico", anche dai religiosi, che certamente non condividevano le sue idee troppo libere.
E arrivarono anche per lui gli anni critici del 1881-82. Nel novembre del 1881 fece domanda al governatore della Bessarabia di poter aprire una colonia agricola ebraica. Sperava che mediante l'onesto lavoro della terra si potessero alleviare le misere condizioni dei suoi fratelli ebrei, strappandoli così dalla disperazione e anche dalla ricerca di equivoche soluzioni attraverso la manipolazione del denaro, cosa che aveva attirato il discredito su tutto il popolo ebraico. Verso la fine del febbraio 1882 arrivò la risposta dalle autorità: negativa. Nessuna autorizzazione, nessun fondo a disposizione per gli ebrei.
Fu dopo questa delusione che anche lui decise di fare un viaggio. Però non in Europa occidentale, come Pinsker, ma in Palestina. Il suo scopo era di verificare se quella terra poteva essere il luogo dove gli ebrei, almeno quelli di cui si sentiva in qualche modo responsabile, avrebbero potuto emigrare e trovare un'onorevole uscita dai loro assillanti problemi.
Nel suo viaggio verso la Terra Promessa fece tappa a Costantinopoli e arrivò a Giaffa nel maggio del 1882, l'anno stesso in cui gli Hovevei Zion (Amanti di Sion) fondavano Rishon Le-Zion, il primo insediamento ebraico in Palestina. La sua prima impressione fu deprimente, e quelle successive ancora di più. Non gli ci volle molto per capire che la soluzione della questione ebraica non poteva essere l'emigrazione in Palestina. Gli sembrava anzi addirittura un imbroglio il tentativo di convincere gli ebrei a lasciare una posizione misera nei loro paesi per trovarne una ancora più misera in Palestina. E tuttavia continuò il suo viaggio, avvertendo l'obbligo morale di rendere conto dei risultati del suo viaggio a coloro che ne erano a conoscenza.
Arrivato a Gerusalemme, accompagnato dalla segretaria del ben noto Sir Moses Montefiore, lo squallore della città a cui tutti gli ebrei rivolgevano ogni anno il loro pensiero e indirizzavano le loro speranze non fece che aggravare il suo stato di abbattimento. Una sera, poco prima del calar del sole, si trovava da solo sul pendio del Monte degli Ulivi, non lontano dall'orto del Getsemani. Triste e desolato, ripensava allo stato apparentemente senza speranza del suo popolo. Di quello che accadde in seguito in quell'occasione Rabinowitz non parlava molto volentieri, e tuttavia rispondeva quando le persone chiedevano qualcosa sull'origine della sua "conversione". Parlò dell'esperienza avuta a Gerusalemme in una riunione che si tenne a Lipsia alcuni anni dopo. Uno studente dell'Institutum Judaicum che era presente all'incontro prese nota del racconto e ne fece una breve relazione:
"Improvvisamente una parola del Nuovo Testamento, una parola che aveva letto 15 anni prima senza porvi particolare attenzione, penetrò nel suo cuore come un fascio di luce: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi» (Giovanni 8:36). Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, e che soltanto Lui può salvare il suo popolo, prese possesso della sua anima. Profondamente commosso, ritornò immediatamente al suo alloggio e tirò fuori il Nuovo Testamento. Mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: «Senza di me non potete fare nulla» (Giovanni 15:5). In questo modo, per la provvidenza dell'Onnipotente Dio, fu illuminato dalla luce del Vangelo. Yeshua Achinu (Gesù nostro fratello) fu da quel momento la parola d'ordine con cui ritornò in Russia».
Rabinowitz era partito per la Palestina con un'aspettativa sionistica, ma aveva portato con sé il Nuovo Testamento in ebraico. Una volta arrivato sul posto, la sua aspettativa era andata in frantumi, ma aveva ricevuto una rivelazione che risultò decisiva per la sua vita futura. Ritornò a Kishinev, in Bessarabia, da cui era partito, con una nuova visione in cuore. La speranza di un riscatto nazionale del suo popolo non era stata abbandonata, ma aveva assunto una nuova forma. Ora sapeva che la questione ebraica non poteva essere definitivamente risolta senza "il nostro fratello Gesù". O, per usare una frase che in seguito ripeterà spesso: «La chiave della Terra Santa sta nelle mani del nostro fratello Gesù».
Rabinowitz non è certo il primo ebreo che è arrivato a credere in Gesù come Messia d'Israele, ma la sua esperienza di vita, nel modo e nel tempo in cui si è svolta, assume un significato particolare rispetto ad altre esperienze simili del passato. Anzitutto, la conversione di Rabinowitz non è il risultato di un'opera "missionaria" di cristiani gentili ma scaturisce dalla lettura personale del Nuovo Testamento e dall'azione diretta dello Spirito Santo. A Kishinev operava da anni un pastore luterano, ma Rabinowitz lasciò passare dei mesi prima di decidersi a comunicargli la sua nuova fede in Gesù, e quando lo fece volle che l'incontro avvenisse in territorio neutro, cioè fuori da edifici ecclesiastici. Non voleva che la sua conversione a Cristo fosse intesa come un abbandono del suo popolo e una conversione alla società cristiana, qualunque fosse la sua forma religiosa. Quando decise di farsi battezzare, volle dare al suo atto il significato di testimonianza a Cristo, e non di inserimento in una denominazione cristiana già costituita. Per questo il suo battesimo avvenne in una forma anomala, in una chiesa di Berlino, dove lui si trovava di passaggio e dove probabilmente non sarebbe più tornato, accompagnato da credenti che lo conoscevano personalmente. Il problema si pose quando si trattò di battezzare gli ebrei che avevano creduto in Gesù attraverso la sua predicazione. Rabinowitz non aveva ricevuto dalle autorità zariste il permesso di battezzare, e quindi non poteva farlo senza andare contro la legge. Avrebbe potuto farlo il pastore luterano, ma a questo Rabinowitz obiettò: «E la soluzione della questione ebraica starebbe nel fatto che gli ebrei diventano luterani?» Secondo lui, chiunque poteva farsi battezzare da chi voleva «... e diventare luterano, russo o romano, ma il mio popolo, il mio gruppo, quello che il governo mi ha permesso di fondare, non può e non deve diventare tedesco, russo o romano! Non hanno nessun motivo per diventare qualcosa d'altro: loro sono ebrei, il mio popolo è Israele. Chi è che ci battezza?»
"Israeliti del nuovo patto", questo fu il nome con cui Rabinowitz volle che fossero indicati i seguaci del suo movimento: cioè ebrei credenti nel Messia che ha siglato con il suo sangue "il nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda" (Geremia 31:31) preannunciato dai profeti, e che come tali sono disposti ad assumersi lo scandalo di Cristo, ma non lo scandalo del cristianesimo.
Come si può immaginare, il successivo cammino del movimento fu irto di ostacoli, difficoltà e anche errori e sbandamenti. Ma, come nel caso della nascita e crescita del sionismo, il significato di quello che è accaduto non va ricercato nello scrutinio puntiglioso e borioso di quello che hanno fatto gli uomini, ma nel riconoscimento attento e umile di quello che ha fatto Dio attraverso gli uomini. Nel movimento di Kishinev erano già presenti tutti i temi di discussione e i problemi di identità che si ritrovano oggi nel movimento degli ebrei messianici in Israele e nel mondo. L'ebraismo messianico, come il sionismo, non è un fenomeno marginale e transitorio: è una pietra miliare da cui non si torna indietro.
Nel 1888 Rabinowitz dichiarò: «Ho due soggetti che mi assorbono interamente: uno è il Signore Gesù Cristo; l'altro è Israele».
Che è anche il motto di chi cura questo sito.
(Notizie su Israele, 6 maggio 2010)
2. LA QUESTIONE DELLA LEGITTIMITÀ DI ISRAELE
Israele e gli Stati da sciogliere
di Francesco Luzi, storico
In un limpido intervento pubblicato sull'ultimo numero di Pagine Ebraiche ("Una costituzione per Israele. Ma quale?"), Sergio Della Pergola demolisce con lucidità le reiterate, subdole argomentazioni pseudo culturali che, negli ultimi anni, cercano di contestare la legittimità dello Stato di Israele non più solo sulla base di motivi territoriali, di diverse rivendicazioni su una medesima terra ecc., ma, più in generale, in forza dell'idea di fondo per cui uno stato democratico non potrebbe dirsi "ebraico", giacché tale definizione, ove intesa in termini religiosi, qualificherebbe lo stato stesso in chiave teocratica e confessionale (e quindi non democratica), mentre, ove intesa in termini di nazionalità, risulterebbe ancorata a un concetto ormai superato di "stato-nazione", in via di sostituzione da parte di "una forma illuminata di cittadinanza neutrale, aliena da riferimenti alle identità particolari religiose, culturali o etniche dei cittadini".
Dal rifiuto dell'idea confessionale dello stato, e dell'idea ottocentesca di 'stato-nazione', dovrebbe quindi scaturire, automaticamente, la negazione del diritto di Israele a esistere come stato ebraico (comunque si voglia intendere tale definizione) e democratico. È un argomento, com'è noto, caro alla propaganda araba, che, sia pure con differenze di linguaggio, denuncia da sempre l'intrinseca illegittimità (per il presunto carattere confessionale, quando non razzista o altro) dello Stato di Israele in quanto stato ebraico, auspicandone pertanto o l'eliminazione violenta o almeno una completa trasformazione (attraverso il "diritto al ritorno" o in altri modi) in chiave bio multinazionale. Ma è un ragionamento che trova largo spazio anche in Europa, e perfino tra raffinati intellettuali israeliani (esponenti del cosiddetto pensiero "post-sionista", meglio definibile come" anti-sionista''), il cui pensiero trova, comprensibilmente, larga eco in Occidente, suggestionando anche personalità tradizionalmente amiche di Israele. È il caso per esempio, del volume The Invention of the Jewish People di Shlomo Sand, professore all'Università di Tel Aviv, che sembra avere convinto - con l'invito a Israele (da accogliere con "lungimiranza") a "sconnettere la propria statualità dalla esclusiva radice ebraica" - anche Giuliano Amato (Il Sole 24 ore, 13/12/09), "vista l'impraticabilità di altre soluzioni".
In una rapida carrellata su alcune delle Costituzioni contemporanee, Della Pergola ricorda però come il riferimento a un'identità religiosa sia eletto a fondamento legittimante dello Stato in numerosissimi Paesi di tradizione cristiana (dalla Norvegia alla Danimarca, dall'Irlanda alla Grecia e all'Argentina) e in quasi tutti i Paesi islamici, così come l'indicazione di un determinato popolo quale unico detentore della sovranità statuale (Libano,
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Romania, Polonia, Brasile, Giappone ecc.). E il popolo di cui parla
l'articolo 1 della Costituzione italiana non è forse il popolo italiano? Altrimenti, con quale diritto i cittadini italiani respingerebbero coloro che bussano alle porte del Paese, non ritenendoli parte di tale popolo?
Sia chiaro, nell'età della globalizzazione, dei flussi migratori e degli organismi sovranazionali, il problema di una ridefinizione delle vecchie idee di stato, popolo, sovranità, certamente si pone, per tutti. Strano però che tale problema venga sollevato soltanto nei confronti dell'unico popolo al mondo che possa vantare una trimillenaria continuità nazionale, culturale, giuridica, religiosa e linguistica e un trimillenario legame storico con la medesima terra, abitata, amata, desiderata e fecondata attraverso innumerevoli generazioni. E resterebbe, ciò nondimeno (come denuncia Ugo Volli, nel medesimo numero di Pagine Ebraiche), l'unico popolo al mondo a non avere diritto a una patria.
La questione della legittimità di Israele, in realtà, non è certo un problema di diritto, quanto la nuova versione dell'eterno problema del diritto di esistere da parte degli ebrei. Un diritto la cui dimostrazione è sempre stata (come si diceva del diritto di proprietà) una probatio diabolica: chi lo nega troverà sempre qualche argomento contro chi lo afferma.
Accogliamo, comunque, l'invito ad adeguarci ai tempi, e procediamo allo scioglimento degli ormai obsoleti "stati" (magari "sconnettendoli" dai loro popoli). Sciogliamoli (o "sconnettiamoli"), però, tutti, dall'Albania allo Zimbabwe. Anche Israele, se si vuole. Ma per ultimo.
(Pagine ebraiche, maggio 2010)
3. ANTICHI E MAI SOPITI ECHI ANTIEBRAICI
Moses Mendelssohn, la secolarizzazione e la Svezia
di Donatella Di Cesare
Al grande filosofo Moses Mendelssohn gli ebrei europei devono molto. È stato lui a segnare l'uscita dal ghetto, il passaggio alla modernità; è stato lui a inaugurare la Haskalah, l'illuminismo ebraico, e soprattutto a promuovere l'emancipazione. Mendelssohn voleva che gli ebrei fossero finalmente riconosciuti come "cittadini" e potessero godere pienamente di tutti i diritti. Non è un caso che questi diritti furono concessi in Germania qualche decennio dopo la pubblicazione, nel 1783, del suo libro Jerusalem, ovvero sul potere religioso e sull'ebraismo.
Come fare per avere pari diritti? Per essere riconosciuti come cittadini, pur restando ebrei? Mendelssohn introdusse la distinzione tra sfera civile e sfera religiosa. Scrisse perciò: "Adeguatevi alle leggi e alla costituzione del paese in cui vi trovate; ma conservate la religione dei vostri padri". Pensò insomma che fosse possibile salvaguardare l'ebraismo in uno stato moderno, che non avrebbe dunque discriminato nessuna religione. Era certo un ottimista. Perché era convinto che l'ebraismo, anche se rinserrato nella sfera privata, avrebbe resistito meglio del cristianesimo agli eventuali attacchi anti-religiosi. Mendelssohn era infatti un ebreo ortodosso che auspicava la emancipazione, non la assimilazione.
Purtroppo si sbagliava! Non solo perché in Germania, come ha sottolineato Lévinas, l'eguaglianza giuridica non ha risolto il problema e lo ha anzi acutizzato, dal momento che gli ebrei non sono stati riconosciuti - proprio lì - come esseri umani. Si sbagliava anche perché la distinzione tra sfera civile e sfera religiosa ha dato il via alla secolarizzazione, un processo ancora in atto ovunque in Europa, ma particolarmente esasperato nei paesi scandinavi. È vero: sono quegli stessi paesi che, in nome della uguaglianza, hanno dato rifugio agli ebrei che fuggivano dal nazismo. Ma ora sono anche quei paesi, come appunto la Svezia, dove la religione è tollerata come un fenomeno interiore e tutto privato, che ciascuno si gestisce da sé, e dove quindi l'ebraismo, che forza i limiti del privato, che testimonia la differenza e la esibisce anche all'esterno, urta contro la secolarizzazione data per scontata e fa riaffiorare antichi e mai sopiti echi antiebraici.
(Moked.it)
4. IL DOGMA DELLA LINEA VERDE
Censure incongrue e grottesche
di Daniel Laufer
In risposta alle proteste di un lettore, la British Advertising Standards Authority (l'authority britannica per le regole in pubblicità) ha recentemente decretato che una certa campagna pubblicità del turismo israeliano nel Regno Unito non può essere usata perché giudicata ingannevole. E dove stava la grave menzogna israeliana? Nel fatto che nella pubblicità compariva una fotografia del Muro Occidentale (cosiddetto 'del Pianto') di Gerusalemme. Davvero scandaloso, non vi pare?
Solo pochi anni fa la sola idea che di questo luogo-icona dell'ebraismo - una vera e propria sinagoga a cielo aperto visitata da milioni di turisti e pellegrini, ambientazione di migliaia di cerimonie di bar mitzvah e bat mitzvah (maggiorità religiosa ebraica) - potesse essere in qualche modo negata l'israelianità, sarebbe stata disdegnata come una ridicola stupidaggine o, al peggio, come puro e semplice estremismo. Ma proprio quelle idee, che fino a poco fa sarebbero state scartate, oggi sono diventate il "vangelo" della politica sul Medio Oriente. E la grottesca posizione della British Advertising Standards Authority non è che la dimostrazione della conclusione logica a cui portano quegli assiomi.
Giusto due anni fa, nel 2008, la stessa British Advertising Standards Authority aveva ordinato il ritiro di un'altra pubblicità del turismo israeliano, quella volta perché riportava l'immagine delle grotte di Qumran, quelle dove sono stati scoperti i Rotoli (ebraici) del Mar Morto e i resti di un villaggio ebraico di più di duemila anni fa. Qumran è un sito storico ebraico, ma capita che si trovi nel deserto di Giudea, ai bordi della cosiddetta Cisgiordania e tanto basta, nella testa della British Advertising Standards Authority, per decretare che non può essere pubblicizzato da Israele.
Per il pensiero internazionale attuale, infatti, Israele ha certamente il diritto di esistere, ma solo dietro la linea armistiziale che è stata in vigore fra il 1949 e il 1967, conosciuta come "linea verde". Le aree che cadono (anche solo per un centimetro) al di fuori di questa linea - la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est - sono considerate ipso facto "palestinesi". Con questo dogma ben piantato nella mente, qualunque presenza israeliana in quelle aree, compresi i civili che vi abitano, è considerata intrinsecamente illegittima (e per questo, prosegue il ragionamento, qualunque futuro accordo di pace dovrà fondarsi sulla giustizia assoluta rappresentata da quella linea).
È una posizione che sembra molto lineare, e forse proprio per questo ha avuto così grande successo. Il problema è che c'era ben poco di giusto, o anche solo di intenzionale o di logico, in quella linea, durata solo diciannove anni e che oggi costituisce il perno attorno a cui ruota tutta questa concezione.
La "linea verde" indicava semplicemente dove si erano attestate le forze israeliane e quelle giordane ed egiziane, le une di fronte alle altre, quando le parti cessarono di combattere a seguito di quello che sarebbe diventato l'ultimo cessate il fuoco della guerra arabo-israeliana del 1948-49. Non vi è nulla di più né di meno israeliano o palestinese, nulla di più né di meno ebraico o arabo al di qua e al di là di quella linea. Anzi, a ben vedere l'unica vera differenza era che, alla fine dei combattimenti, sul versante israeliano della linea c'erano sia ebrei che arabi, mentre sul versante controllato dagli arabi (dai giordani e dagli egiziani) di ebrei non ne rimaneva più neanche uno.
In realtà quella linea era completamente arbitraria, ed arbitraria è la concezione internazionale corrente che su di essa si basa. Ecco perché le censure della British Advertising Standards Authority saltano all'occhio come incongrue e grottesche.
È il motivo per cui una concezione fondata su premesse tanto fallaci non può contribuire a nulla che non sia profondamente ingiusto: giacché essa semplicemente richiede di ignorare o sminuire le complessità della storia, esattamente come ha fatto la British Advertising Standards Authority riguardo al Muro Occidentale e a Qumran.
Poco importa che la presenza ebraica in aree "al di là della linea" sia stata interrotta solo poche decine di anni prima che Israele ne assumesse il controllo durante la guerra dei sei giorni del 1967. Era stato soltanto nel 1929 e nel 1936 che la violenza araba aveva cacciato gli ebrei rispettivamente da Hebron e da Gaza. Gli ebrei erano già il gruppo maggioritario della popolazione di Gerusalemme quando al di fuori dalla cerchia di mura della Città Vecchia non c'era ancora niente. E fu soltanto nei diciannove anni di controllo giordano, delimitato dalla "linea verde", che agli ebrei fu proibito l'accesso al Muro Occidentale e alle loro case nella Gerusalemme vecchia.
Poco importa, poi, che il governo israeliano eserciti il controllo su quelle aree sin dal 1967, per un periodo di tempo più che doppio di quello esercitato dagli stati arabi che le avevano occupate; e che durante questo periodo abbia garantito a tutte le fedi libertà di culto e libertà di accesso ai luoghi santi (al contrario di quello che era avvenuto nei diciannove anni sotto governo arabo).
In effetti, se la comunità internazionale assimilasse, e integrasse nella sua concezione, gli eventi che precedettero solo di pochi anni lo scarabocchio tracciato in fretta sulla mappa col pastello verde, l'assurdità di certe attuali posizioni apparirebbe chiara a tutti.
Dobbiamo dunque ringraziare la British Advertising Standards Authority per aver dimostrato quanto il paradigma corrente si sia allontanato dalla realtà. E quanto ciò sia pericoloso. Bando alle illusioni: una politica che cerca di separare a forza un popolo dalla sua storia e dal suo patrimonio culturale e religioso, una politica che in nome della pace ratifica legalmente i frutti del rifiuto, dell'aggressione e dell'intolleranza, è certamente pericolosa. Lungi dal produrre la pace, essa non fa che incoraggiare più rifiuto e più intolleranza.
D'altro canto, che altro ci si dovrebbe aspettare da un dogma che giunge a negare all'unico stato ebraico che esiste al mondo di pubblicizzare il luogo più sacro al mondo per gli ebrei?
(YnetNews, 5 maggio 2010 - da israele.net)
5. AMBIGUITÀ E FAZIOSITÀ DELLA STAMPA ITALIANA
A proposito di antisemitismo
di Francesco Lucrezi
In un lucido intervento su Pagine Ebraiche, l'Osservatore denunciava, con pacata obiettività, la subdola ambiguità e faziosità di larga parte della stampa italiana (segnatamente, dell'influente la Repubblica), costantemente orientata a coniugare il rispetto della memoria della Shoah e l'apprezzamento per l'arte e la cultura ebraica con una visione quanto meno sbilanciata del conflitto mediorientale, tendente a collocare lo stato ebraico, più o meno sempre, dalla parte del torto.
Gli ebrei, si sa, vanno elogiati per la loro creatività, vanno commemorati come vittime e hanno tutti i diritti, tranne quello di difendersi. E poco importa se chi non si difende non può vivere, e neanche creare. Una sottile variante di tale atteggiamento si può vedere, a mio avviso, nel modo in cui le case editrici italiane presentano gli scrittori israeliani - molto amati dal nostro pubblico -, mettendone sempre in grande risalto il ruolo svolto nel "movimento per la pace". Una annotazione di carattere personale che non appare quasi mai riscontrabile per scrittori di altra nazionalità, le cui opinioni politiche sono - giustamente - ritenute ininfluenti per un giudizio artistico sulle loro opere.
Intendiamoci. Che la maggior parte degli scrittori israeliani abbiano posizioni prevalentemente "di sinistra" (pur con le notevoli differenze che questa definizione assume nel panorama israeliano rispetto a quello italiano) è senz'altro vero. Ed è innegabile che personalità come Grossman, Yehoshua e Oz, ammirate e celebrate in tutto il mondo, contribuiscano altamente, con la loro arte e la loro alta statura morale, non solo al prestigio di Israele, ma anche alla causa della pace, del dialogo e della comprensione fra tutti i popoli. Resta però l'impressione, alquanto sgradevole, che queste reiterate annotazioni svolgano la funzione di una sorta di "bollino di garanzia", rassicurando il pubblico che lo scrittore, "pur essendo israeliano", è favorevole alla pace, e contribuendo così a far pensare che il resto del popolo d'Israele, probabilmente la maggioranza, sia ad essa contrario. Un giudizio falso. La pace è, da sempre, il sogno di tutti i cittadini di Israele, al di là delle differenti valutazioni sulle concrete possibilità di raggiungerla, e sui possibili modi per riuscirci. E se è merito degli scrittori tenere accesa, anche nei momenti più bui, la luce della speranza, senza il contributo umile, silenzioso e quotidiano dei giovani soldati di Tsahal non esisterebbero né scrittori, né speranza.
(Notiziario Ucei, 14 aprile 2010)
6. UN ESEMPIO INCORAGGIANTE
Da bambino musulmano a ebreo adulto
Marka Halawa è cresciuto in Kuwait come musulmano. Oggi, da adulto, conduce una vita come ebreo. Adesso cerca di convincere i musulmani ad amare il popolo ebraico.
Sembra che nel mondo musulmano ci siano più ebrei di quanto si possa credere. La maggior parte di loro non sa niente della sua origine. E' stato così anche per Mark Halawa. Ma poi ha cominciato a fare ricerche sulla sua famiglia e ha fatto scoperte sorprendenti che avrebbero scombussolato tutto il suo mondo. Oggi Halawa ha trentadue anni. E' cresciuto in Kuwait. All'età di venticinque anni ha scoperto che tra i suoi progenitori ci sono anche degli ebrei.
In Kuwait suo padre aveva una buona posizione come commerciante. Politicamente il padre di Mark aderiva all'OLP, malediva il sionismo e odiava gli ebrei. In questo spirito aveva allevato anche suo figlio. «Sono cresciuto nella convinzione che gli ebrei e gli israeliani siano le più ignobili creature e che rimangono sulla terra soltanto per dare a noi arabi il compito di distruggerli», ha dichiarato Halawa in un racconto della sua vita. Ricordava i compiti assegnati dal suo insegnante di matematica: «Se una bomba ammazza x ebrei, quanti ebrei muoiono con sei bombe?»
Sapeva che a sua nonna qualcuno aveva rinfacciato di avere un'origine ebraica. Prima della fondazione di Israele lei si era innamorata di un legionario giordano. I due si erano sposati e per un certo tempo avevano vissuto a Nablus. Poi si erano trasferiti in Kuwait. Mark Halawa non aveva la minima idea che secondo il codice religioso ebraico a motivo di sua nonna lui era da considerarsi ebreo. Nell'ebraismo, a differenza che nell'islam, è determinante la discendenza dalla madre. Per la sua famiglia questo non era importante. A motivo della discendenza dai membri maschili della sua famiglia, tutti lo consideravano musulmano. A Mark e ai suoi fratelli era stato inculcato che loro erano musulmani.
Quando, nel 1990, Saddam Hussein invase il Kuwait, la sua famiglia fuggì in Canada. Ma lì i familiari di Mark non si trovarono bene e ritornarono in Medio Oriente. Mark invece restò in Canada e in seguito prese gli studi di economia.
Nel 2003 fece conoscenza nel campus universitario con uno ebreo ortodosso. Mark cominciò a parlare con lui perché era interessato al vestito dell'ebreo. Alla fine quel ragazzo fece qualche domanda a Mark sulla storia della sua famiglia e gli diede qualche spiegazione sulle leggi religiose ebraiche. Per Mark tutto si scombussolò: per l'islam era un musulmano, per l'ebraismo un ebreo. I suoi genitori tentarono di portare ordine nella cosa e insisterono a dirgli che era musulmano, esclusivamente musulmano. Ma lui nel frattempo si era interessato all'ebraismo. Andò a visitare la stessa sinagoga che frequentava l'ebreo ortodosso del campus. Quel sabato Mark cambiò radicalmente la sua vita. Cominciò a osservare le leggi religiose ebraiche e si iscrisse ad un programma della comunità Aish Torah. L'ebreo da poco sfornato andò perfino a visitare Gerusalemme.
Oggi Mark dedica la sua vita ad una campagna di persuasione tra musulmani. Vorrebbe convincerli che il loro atteggiamento verso il sionismo è sbagliato e che dovrebbero amare il popolo ebraico. In questo momento sta covando l'idea di girare un documentario sull'Olocausto. «Sto elaborando un programma che dovrebbe avvicinare i musulmani all'ebraismo e familiarizzarli con gli ebrei. Devo assolutamente fare qualcosa contro la propaganda anti-israeliana degli Stati arabi. Forse, proprio a causa della storia della mia vita, ho qualche chance in più rispetto ad altri.
(Nachrichten aus Israel, aprile 2010 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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