Notizie su Israele 130 - 11 ottobre 2002


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Io adunerò tutte le nazioni, e le farò scendere nella valle di Giosafat. Là le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d'Israele, che esse hanno disperso tra le nazioni, e del mio paese, che hanno spartito fra di loro.

(Gioele 3.2)



LA LOTTA PER IL POTERE TRA I PALESTINESI


Prova di forza a Gaza tra l'Autorità Palestinese e Hamas

di Marc Tobiass

Il regolamento di conti politico a Gaza potrebbe portare a un vero confronto armato tra Hamas e l'Autorità Palestinese? Perché questo conflitto? In quale contesto? Sono alcune delle domande che vengono poste dopo due giorni di violenze fra palestinesi.

    Se la storia fosse semplice, si potrebbe dire che tutto è cominciato lunedì 7 ottobre 2002, quando Imad Akal e i suoi complici hanno rapito in pieno giorno Rajah Abou Lehya nelle strade di Gaza per ucciderlo poco dopo nel campo di Nusseirat. Più o meno un anno prima gli uomini di Lehya avevano ucciso Youssef Akal, un parente prossimo d'Imad, e si potrebbe semplicemente concludere che quest'ultimo ha lavato nel sangue l'onore del suo clan. Ma il fatto è che questi delitti non si inscrivono esattamente in una semplice storia di vendetta tra due famiglie nemiche. Rajah Abou Lehya era il capo della polizia anti-sommossa a Gaza e Imad Akal è un attivista di Hamas.
    Di fatto, l'organizzazione terrorista islamica, con l'assassinio di Abou Lehya, lancia una sfida all'Autorità Palestinese e alla sua polizia per far capire bene alla popolazione locale chi è che comanda nella città di Gaza. Di qui la reazione immediata dell'Autorità Palestinese, che sguinzaglia i suoi poliziotti nel campo di Nusseirat per recuperare "manu militari" il suo capo della polizia anti-sommossa.
    La sorpresa è grossa: i poliziotti sono accolti da 5000 manifestanti, uomini armati di Hamas, ma anche abitanti del campo venuti a portare il loro sostegno all'organizzazione islamista. Gli scontri tra palestinesi della sola giornata di lunedì si concludono con la morte di cinque terroristi di Hamas e con una decina di feriti. Rappresentanti delle due parti s'incontrano per cercare un compromesso che riesca a calmare gli spiriti, ma i tentativi falliscono: Hamas rifiuta categoricamente di consegnare Imad Akal e i suoi complici alla polizia, come esige l'Autorità Palestinese.
    Martedì 8 ottobre migliaia di militanti di Hamas e di civili partecipano ai funerali degli uomini uccisi il giorno prima nel corso delle operazioni di rappresaglia della polizia palestinese. Questi funerali si trasformano ben presto in sommosse, un po' dappertutto nelle strade di Gaza; i manifestanti prendono a sassate le vetture e le stazioni di polizia, s'impadroniscono di tutto ciò che rappresenta il potere dell'Autorità Palestinese. Centinaia di rivoltosi vanno perfino ad attaccare il quartier generale della polizia a Gaza, dove si sono rifugiati alcuni poliziotti.
    In un primo tempo i poliziotti adottano un profilo basso, ma quando i manifestanti cominciano a lanciare bombe Molotov e granate artigianali, contrattaccano sparando in aria e alle gambe dei rivoltosi. Bilancio dei nuovi scontri: dozzine di feriti.
    Se adesso la violenza fisica è diminuita, si nota tuttavia che al livello dei simbli del potere è aumentata. Nessuna delle due parti vuole cedere su questo piano: è anzitutto una questione d'onore. Ma al di là di questo, si può comunque intravedere in questa faccenda i segni precursori di una rottura politica e sociale a Gaza e nel seno della società palestinese. Certo, si sentono voci più moderate che vogliono evitare ad ogni costo che la situazione degeneri in lotta fratricida. Uno dei dirigenti di Hamas a Gaza, Abdel Aziz Rantissi, accusa esplicitamente l'Autorità Palestinese di voler approfittare di questa vicenda per lanciare un ondata di arresti tra gli attivisti di Hamas. Negli ultimi tempi Rantissi dà segni d'impazienza denunciando la debolezza dell'Autorità Palestinese di fronte al governo israeliano e, soprattutto, la sua mancanza di strategia politica. Dall'altra parte Mohamed Dahlan, consigliere di Arafat per gli affari della sicurezza e anziano capo delle forze di sicurezza preventiva a Gaza, mette giustamente in guardia Hamas ricordando che nessuno è al di sopra della legge dell'Autorità Palestinese e che tutti coloro che non la rispettano saranno portati davanti alla giustizia. Anche lì, quindi, si notano segni d'impazienza, e forse anche la volontà di fare i conti per dimostrare definitivamente che Hamas non è in grado di abbattere il potere dell'Autorità Palestinese.
    Se la fine dell'occupazione israeliana è ancora oggi il denominatore comune sul quale Hamas e l'Autorità Palestinese possono intendersi, bisogna ricordare che le due parti, nonostante i ripetuti sforzi durante gli ultimi mesi, non sono riuscite ad accordarsi su una strategia comune. Fatah, che è maggioritario in seno all'Autorità Palestinese, realizza la disfatta del ricorso alla violenza seguito da due anni e oggi è incline a limitare le operazioni militari ai soli Territori. Sempre di più si alzano voci in seno a Fatah, ivi compresa quella di Arafat, che sollecitano l'arresto totale degli attentati-suicidi all'interno della linea verde. Una strategia respinta da Hamas, che resta favorevole a "una lotta totale fino alla liberazione di tutta la Palestina", e non soltanto dei territori conquistati da Israele nel 1967. Bisogna anche dire che le divergenze tra le due parti non riguardano soltanto la strategia da adottare, ma anche gli obiettivi da raggiungere. Hamas intende instaurare uno Stato teocratico islamico nella prospettiva sovranazionale di un ritorno al regime del Califfato che dominerebbe tutto il Dar-al-Salam, la terra dell'Islam. Al contrario, l'Autorità Palestinese rivendica la creazione di uno Stato palestinese laico e più democratico.
    Bisogna dire che quando certi dirigenti di Fatah guardano con favore alla Jihad, lo fanno soprattutto nella speranza tattica di utilizzare questa forza di mobilitazione per la loro lotta di carattere nazionalista. Fino ad ora i due campi erano riusciti in qualche modo a mettere da parte queste fondamentali divergenze, e questo tanto più facilmente perché dopo ogni attentato le rappresaglie israeliane prendevano di mira quasi esclusivamente le infrastrutture dell'Autorità Palestinese, come se non ci fosse differenza tra Hamas e Fatah. L'ultima operazione di Sharon a Khan Younès, come anche le sue recenti dichiarazioni non lasciano più dubbi. D'ora in avanti nel mirino di Tzahal ci sarà Hamas, e ogni operazione dell'esercito contro l'organizzazione integralista avrà come conseguenza di scavare un fossato tra Hamas e Fatah. Un dato nuovo che rischia di spingere Fatah sulla china della violenza. E' difficile pensare che l'Autorità Palestinese lasci il ruolo di resistente alle sole organizzazioni islamistiche, quando queste a Gaza godono già del sostegno della strada. In ogni caso, tutte queste divergenze tra i due campi si ritroveranno accresciute in vicinanze delle prossime elezioni palestinesi, dove ciascuna parte cercherà di distinguersi nettamente dall'altra.
    Nell'attesa, le due parti s'installano sulle loro posizioni. L'Autorità Palestinese esige ancora che Hamas le consegni Imad Akal e i suoi complici, ma Hamas non vuole nemmeno sentirne parlare. Che succederà?
    Ancora una volta, i potragonisti ricorrerano ai soliti compromessi. Ci si accorderà per stabilire in anticipo il castigo degli assassini, prima che siano consegnati alla giustizia; si occulterà l'aspetto politico di questa faccenda e si farà emergere che è soltanto una storia di vendetta, il che permetterà ai giudici di essere relativamente clementi verso gli assassini. Le apparenze saranno salve, l'onore degli uni e degli altri sarà preservato fino alla prossima volta, ma di fatto sarà un altro passo avanti nella prova di forza tra l'Autorità Palestinese e Hamas. Una prova di forza che rischia di sfociare entro breve tempo in un confronto sanguinoso, ma questo certamente non prima della fine di un intervento americano in Irak e della ripresa delle trattative di pace tra Israele e l'Autorità Palestinese.

(Proche-Orient.info, 9 ottobre 2002)



A CHE SERVIRANNO I SOLDI VERSATI ALL'AUTORITÀ PALESTINESE?


Il dr Guy Behor, orientalista, informa che Israele la settimana scorsa ha versato all'Autorità Palestinese 70 milioni di shekel di TVA non pagati dopo lo scatenamento dell'intifada.
    Secondo lui, agendo in questo modo il governo israeliano ha fornito ai palestinesi le risorse necessarie per preparare una nuova ondata di combattimenti, subito dopo questo periodo di riposo.Questa somma deve, secondo Guy Behor, finanziare il salario di 50.000 poliziotti e responsabili della sicurezza palestinesi. Behor ricorda che l'accordo di Oslo I, firmato al Cairo nel maggio 1994, prevede una forza di polizia palestinese non eccedente i 9.500 uomini e che, secondo gli accordi di Oslo II, firmati nel settembre 1995, gli effettivi non dovevano superare i 12.000 poliziotti in Giudea-Samaria e 18.000 nella striscia di Gaza: «In realtà, nei Territori ci sono oggi più di 100.000 palestinesi armati appartenenti a diverse forze di sicurezza o organizzazioni terroristiche. De facto, i palestinesi sono dunque riusciti a creare un vero esercito, in violazione flagrante degli accordi di Oslo.» E Guy Behor stima che se loro [i palestinesi] si permettono di violare così apertamente questi accordi, non c'è nessuna ragione per cui Israele debba continuare a rispettarli versando milioni di shekel che saranno divisi tra i Fatah, i Tanzim, la polizia e altre forze di sicurezza. Behor constata che Israele ha fatto questo gesto senza ottenere garanzie sulla trasparenza di questi fondi e senza che i palestinesi abbiano proceduto a fare delle riforme, come si erano impegnati a fare: «Il potere di Arafat viene dal denaro. Ed ecco che dopo il fiasco della Mukata, Israele rafforza la sua posizione versando dei fondi alla giunta istituita dal rais, mentre il popolo palestinese continua ad accontentarsi delle briciole.»

(Yediyot Aharonot, 10.10.02, da Proche-Orient.info)



LA LIBERTÀ RELIGIOSA DI CHI VIVE NELL'ISLAM


Da un sermone pronunciato dallo sceicco Marzouq Salem Al-Ghamdi alla moschea Al-Rahmah della Mecca


«Se gli infedeli vivono in mezzo ai musulmani secondo le condizioni stabilite dal Profeta, non c'è nulla di sbagliato, purché paghino la Jizya (tassa di sottomissione) al Tesoro islamico. Le altre condizioni sono che non restaurino chiese o monasteri, che non ricostruiscano quelle distrutte, che nutrano per tre giorni qualunque musulmano che si presenti alla loro casa, che cedano il posto quando un musulmano desidera sedersi, che non imitino i musulmani nel modo di vestire o di parlare, che non cavalchino cavalli, né possiedano spade, né altre armi; che non vendano vino, che non mostrino la croce, che non suonino le campane delle chiese, che non alzino la voce durante la preghiera, che si taglino i capelli sulla fronte così da essere facilmente identificabili, che non incitino nessuno contro i musulmani e non colpiscano mai un musulmano… Se violano queste condizioni, perderanno ogni protezione».


(The Middle East Media Research Institute, 26 settembre 2002)



PARLA IL PADRE DI UN SUICIDA-BOMBA


"Hamas e i leader della Jihad mandino i loro figli"

In una lettera al direttore del quotidiano londinese in lingua araba  Al-Hayat(1), Abu Saber M. G., padre di un giovane palestinese che ha compiuto un attacco suicida in una città israeliana, ha scritto:

    "Non riesco a trovare parole migliori con cui cominciare la mia lettera di quelle di Allah, nel suo libro prezioso [il Corano] : 'Agite per amore di Allah e non distruggetevi con le vostre mani' (2). Scrivo questa lettera con un cuore che langue e con occhi che non hanno smesso di piangere. Dobbiamo, oggi più che mai, obbedire a questo verso coranico, agire per amore di Allah e astenerci dal compiere atti che ci gettino nella distruzione".

"Gli amici hanno convinto mio figlio a farsi esplodere; ora essi sono dietro suo fratello"

    "Quattro mesi fa, ho perso il mio figlio maggiore quando i suoi amici l'hanno tentato, lodando il sentiero della morte. L'hanno convinto a farsi esplodere in una delle città di Israele. Quando il corpo puro di mio figlio s'è sparso dappertutto, si sono dispersi anche i miei ultimi segni di vita, insieme alla speranza e alla mia volontà di esistere. Da quel giorno, sono come un fantasma che percorre la terra, per non citare il fatto che io, mia moglie e i miei altri figli e figlie siamo diventati profughi a causa della distruzione della casa in cui vivevamo".
    "Ma l'ultima goccia è stata quando sono stato informato che gli amici di mio figlio maggiore stavano cominciando ad avvolgersi come serpenti intorno al mio altro figlio, che non ha ancora 17 anni, per indirizzarlo sullo stesso percorso verso il quale avevano guidato suo fratello, in modo da farsi esplodere anche per vendicare suo fratello, sostenendo che 'non aveva niente da perdere'".
    "Dal sangue del cuore ferito di un padre che ha perso ciò che gli è più prezioso al mondo, mi rivolgo ai leader delle fazioni palestinesi e ai loro capi, i leader di Hamas e della Jihad islamica e ai loro sceicchi, che utilizzano le decisioni religiose e le dichiarazioni per spingere sempre più figli della Palestina alla morte, sapendo benissimo che mandare i giovani a farsi esplodere nel cuore di Israele non scoraggia il nemico e non libera alcuna terra. Al contrario, intensifica l'aggressione, e dopo ogni operazione del genere, i civili sono uccisi, le case sono rase al suolo e le città e i villaggi palestinesi vengono rioccupati ".

'Chi gli ha dato la legittimità di inviare i nostri bambini a morire?'

    "Poi questi leader e questi portavoce appaiono [sui media] per minacciare il nemico con atti anche più gravi di vendetta per le loro azioni barbariche. Essi spingono altri giovani alla morte".
    "Io chiedo, per conto mio e per conto di ogni padre e madre informati che il loro figlio si è fatto esplodere: 'Con quale diritto questi leader mandano  i giovani, persino i ragazzi nel fiore della gioventù, a morire? Chi gli ha dato la legittimità religiosa o qualsiasi altra legittimità per tentare i nostri bambini e spingerli alla morte?".

"Morte, non martirio"

    "Sì, io dico 'morte', non 'martirio'. Cambiando e abbellendo il termine o pagando alcune migliaia di dollari alla famiglia del giovane che se n'è andato e non tornerà mai più, non attenua lo shock o non cambia la fine irrevocabile. Le somme di denaro [pagate] alle famiglie dei martiri provocano più dolore di quanto curino; essi fanno in modo che le famiglie ritengano di essere ricompensate per le vite dei loro bambini".
    "Le vite dei bambini hanno un prezzo? La morte è diventata l'unico modo per ripristinare i diritti e liberare la terra? E se questo è il caso, perché neanche uno di tutti gli sceicchi che gareggiano tra loro nell'emettere infuocate decisioni religiose, manda suo figlio?

prosegue ->
Perché non uno dei leader - che non possono trattenersi dall'esprimere la loro gioia e la loro estasi sui canali satellitari ogni volta che un giovane palestinese, uomo o donna, si propone di farsi esplodere - invia suo figlio?".
    "Perché, finora, non abbiamo visto uno dei figli, o delle figlie, di chiunque  tra questa gente, indossare una cintura esplosiva ed uscire ad eseguire con atti, non a parole, quello che i loro padri predicano giorno e notte?".
    "La Jihad, il martirio e la morte inutile sono ristretti a un singolo settore [del popolo], senza coinvolgere altri settori? Ciò che riguarda i figli e le figlie della gente in generale non riguarda [anche] i figli e le figlie  [dei leader]?  Per quanto tempo questa gente decisa continuerà a pagare il prezzo della politica idiota che si è risolta in un fallimento colossale nell'ottenere anche una minuscola parte dei diritti usurpati dei palestinesi?".

"Allo scoppio dell'Intifada, i leader hanno inviato i loro figli all'estero"

    Ma ciò che fa lacrimare l'anima, addolora il cuore e porta lacrime agli occhi più di ogni altra cosa è la vista di questi sceicchi e di questi leader che si sottraggono al mandare i loro figli nella rissa: come Mahmoud Al-Zahar, Isma'il Abu Shanab e Abd Al-'Aziz Al-Rantisi. Quando l'Intifada è scoppiata, Al-Zahar ha inviato suo figlio Khaled in America; Abu Shanab ha inviato suo figlio Hassan in Gran Bretagna; e [come ha dichiarato lei stessa alla stampa], la moglie di Rantisi si è astenuta dall'inviare suo figlio Muhammad a farsi esplodere. L'ha inviato invece in Iraq, per completare là i suoi studi".

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Note:
(1) Al-Hayat (Londra), 1 ottobre 2002.
(2) Corano 2:195.

(The Middle East Media Research Institute, 10.10.02)



I NUOVI GRAVI PROBLEMI DELLA SOCIETÀ ISRAELIANA


La povertà? E quasi peggio del terrorismo

di  Giacomo Kahn
   
L'economia israeliana sta attraversando una fase di grande difficoltà, il cui segnale più allarmante è l'improvviso, e per certi versi inaspettato, innalzamento del tasso di inflazione.
    Nell'ultimo rilevamento prima di andare in stampa (riferito al mese di aprile) l'indice dei prezzi al consumo è aumentato dell'1,5% (un dato così negativo non si registrava da molti anni). Su base annuale significa una inflazione attorno all'8%, molto al di là dell'obiettivo fissato dal governo del 2 o 3%.
    La crescita economica impetuosa che aveva caratterizzato l'economia dello Stato ebraico nella seconda metà degli anni Novanta è un lontano ricordo ed oggi gli israeliani si ritrovano davanti allo spettro di una inflazione a due cifre di tipo sudamericano e temono, oltre all'innalzamento dei prezzi, anche il depauperamento dei loro risparmi. Non siamo come negli anni '80 quando si viaggiava ad un tasso di inflazione addirittura del 400%, ma tuttavia molti degli indicatori economici del Paese indicano una fase di profonda recessione: aumento dei prezzi, disoccupazione in crescita, rafforzamento del cambio a favore del dollaro, forte deficit statale, crollo delle importazioni e delle esportazioni, drastica riduzione delle entrate, aumento della pressione fiscale.
    La situazione di incertezza, aggravata e condizionata dalla instabilità e dalla insicurezza derivante dall'ondata di attentati palestinesi, ha spinto Standard and Poor's – una delle principali agenzie di rating internazionale – ad abbassare il giudizio globale sull'affidabilità economica dello Stato di Israele, passato da 'stabile' a 'negativo'.
    Soprattutto "la grave situazione di minacce terroristiche" – scrive Standard and Poor's – "influisce negativamente sulla crescita di settori come il turismo, riduce la capacità del Paese di attirare investimenti stranieri e complica il processo di consolidamento fiscale e le riforme economiche, specialmente quelle nel campo delle privatizzazioni".
    I settori dell'edilizia civile, del turismo e dell'Hi-tech sono quelli che hanno sofferto di più e nei quali si sono persi migliaia di posti di lavoro.
    Nel 2001 l'edilizia urbana ha avuto un crollo del 10,5% (che si aggiungeva ad una analogo crollo del 4,8% nel 2000); nel settore del turismo le presenze straniere sono calate del 51%, con un numero complessivo di turisti come il piccolo Stato di San Marino; l'Hi-tech, punta di diamante delle esportazioni del Paese, ha registrato una caduta generale del 13,1%, anche a causa della crisi della Borsa americana.
    Secondo i dati forniti dall'Ufficio Statistico Centrale, nel 2001 il Prodotto Interno Lordo pro capite è sceso del 2,9% (pari a 16.400 dollari a persona), mentre la popolazione é aumentata del 2,4%. Questo significa che nello scorso anno il reddito pro capite di un israeliano è stato significativamente più basso rispetto alla media degli altri Paesi occidentali.
    Sono in aumento le famiglie povere che non riescono a sbarcare il lunario e che devono ricorrere all'aiuto delle organizzazioni di assistenza che organizzano collette di generi alimentari.
    Il tasso di disoccupazione è in costante crescita ed ha raggiunto nel primo trimestre di quest'anno un nuovo massimo assoluto al 10,6%: su una forza lavoro complessiva di circa 2 milioni e mezzo di persone, oggi i disoccupati sono circa 270.000.
    L'aumento della povertà è un riflesso dello stato di deficit in cui versano le casse pubbliche che registrano un buco di 2,9 miliardi di dollari nella bilancia dei pagamenti, rispetto ai 600 milioni di dollari di surplus registrati nel 2000. Ed il bilancio per il 2002 si annuncia ancora peggiore.

(Shalom, agosto 2002)



L'INNAMORAMENTO DEGLI EUROPEI PER LE DITTATURE MEDIORIENTALI


Titoli d'ipocrisia

da un articolo di Evelyn Gordon
   
    Ho sempre fatto fatica a capire perche' un gruppo di democrazie liberali come quelle dell'Unione Europea, che dicono di porre i diritti umani sopra ogni altra cosa, debbano essere cosi' innamorate di una dittatura corrotta, repressiva e terroristica come l'Autorita' Palestinese. Ma a ben vedere l'Unione Europea e' innamorata semplicemente di tutte le dittature del Medio Oriente senza distinzioni. Il suo recente comportamento con l'Iran toglie ogni dubbio in proposito.
    L'Iran, nonostante sia un tipico regime autoritario mediorientale (anche se teocratico anziche' laico), costituisce nondimeno un caso unico perche' e' anche l'unico paese della regione dove esiste un autentico movimento per la democrazia. I riformisti vengono continuamente incarcerati per le loro critiche al regime, ma dopo il carcere riprendono le loro critiche esplicite. Studenti attivisti che sono stati brutalmente picchiati e incarcerati durante l'ondata di manifestazioni di tre anni fa si sono riorganizzati e stanno oggi preparando dei referendum in tutte le universita' su questioni estremamente controverse come l'eliminazione del diritto di veto del clero religioso sulle votazioni parlamentari. E poi in Iran c'e' la stampa piu' libera del Medio Oriente (a parte Israele) e questo non perche' il regime lo permetta, ma perche' editori e direttori coraggiosi e ostinati, nonostante le continue vessazioni poliziesche, continuano ad aprire nuove testate per sostituire quelle fatte chiudere dal regime. In quali altri paesi islamici del Medio Oriente i giornali ricevono e, soprattutto, pubblicano lettere al direttore che chiedono al governo di smetterla di finanziare gli Hezbollah e di iniziare piuttosto a investire nell'istruzione e nella creazione di posti di lavoro?
    In un paese in cui un movimento per la democrazia cosi' vivace si scontra testa a testa con una repressione cosi' dura, la reazione del resto del mondo che si proclama campione dei diritti umani dovrebbe essere ovvia: aiutare i riformisti e strangolare il regime. Invece l'Unione Europea ha fatto esattamente il contrario: ha incoraggiato attivamente le aziende europee a investire in progetti che portano soldi al governo iraniano. In effetti, affinche' le ditte europee non avessero dubbi sulla politica dei loro governi, l'Unione Europea ha persino approvato una legge che vieta alle aziende europee di rispettare il boicottaggio decretato dagli Stati Uniti sui commerci con l'Iran. Risultato: l'Unione Europea e' oggi il principale partner commerciale dell'Iran e la maggior parte dei guadagni ottenuti da questi affari finiscono direttamente nelle casse del regime di Teheran. Per esempio, dal 1997 le compagnie petrolifere europee Royal Duth/Shell, Eni spa e Total-Fina-Elf hanno investito circa 10,5 miliardi di dollari nello sviluppo dei nuovi giacimenti petroliferi iraniani. Questi investimenti non possono essere giustificati come uno strumento per incoraggiare il settore privato iraniano, giacche' sono fatti in partnership diretta con il governo iraniano. E hanno garantito al Tesoro dello stato, che riceve dal 50 al 70% dei profitti (il resto va agli investitori stranieri), guadagni extra per miliardi di dollari in entrate petrolifere, che puo' impiegare nell'opera di repressione dei propri cittadini. Non contenti, nello scorso mese di giugno i ministri degli esteri dell'Unione Europea hanno concordato di perseguire un accordo ufficiale di cooperazione economica e commerciale con l'Iran senza pretendere da parte di Teheran nessuna contropartita in termini di miglior rispetto dei diritti umani. Ma l'apice e' stato raggiunto ai primi di luglio quando il governo iraniano ha effettuato la sua prima emissione di titoli di stato dai tempi della rivoluzione fondamentalista islamica del 1979. Per chiarire: i soldi ricavati dalla vendita dei titoli di stato vanno ovviamente nelle casse dello stato, il che significa che vengono usati per pagare gli stipendi della polizia che bastona gli studenti che protestano e per costruire le prigioni in cui vengono rinchiusi i giornalisti che militano per le riforme democratiche. (Per inciso: servono anche per pagare le bombe e i razzi Katyusha che Teheran fornisce alle organizzazioni terroristiche libanesi e palestinesi, ma non siamo cosi' pignoli da aspettarci che l'Unione Europea si preoccupi di questo dettaglio). Un'emissione di titoli di stato, insomma, non offre nemmeno la misera scusa che si puo' accampare per i lauti affari petroliferi, e cioe' che aiuti a creare posti di lavoro per la popolazione iraniana comune. Cosi', se mai ci poteva essere un fatto in cui le nazioni che si proclamano attente ai diritti umani potevano rifiutarsi di collaborare, questo era proprio l'emissione di titoli di stato da parte del regime di Teheran. E invece l'emissione da 500 milioni di euro (quasi 500 milioni di dollari) e' stata sottoscritta proprio da due importanti banche europee, la Commerzbank AG tedesca e la BNP Paribas SA francese. E il 40% dell'emissione, che e' stata sottoscritta in eccesso del 20%, e' stato acquistato al volo da investitori istituzionali europei (soprattutto tedeschi e britannici; il resto e' andato ad acquirenti mediorientali).
    L'ipocrisia europea ha gia' causato grandi sofferenze a Israele dal momento che i soldi europei hanno giocato un ruolo determinante nel terrorismo dell'Autorita' Palestinese contro questo paese. Ma l'ipocrisia europea ha probabilmente provocato sofferenze ancora maggiori a milioni di iraniani, palestinesi e altri mediorientali che vivono sotto regimi repressivi e feroci puntellati dai soldi europei. Se solo gli europei facessero come dicono, cioe' conformassero le loro politiche commerciali e i loro investimenti almeno un poco ai loro sermoni sui diritti umani, darebbero un contributo di incalcolabile valore alla promozione della democrazia e della liberta' in tutta la regione.

(israele.net, 23.08.02 - dalla stampa israeliana)



GLI "INCENTIVI" ECONOMICI DI SADDAM HUSSEIN


15 milioni di dollari da Saddam Hussein per finanziare gli attentati terroristici

di Margot Dudkevitch

    Il presidente iracheno Saddam Hussein si e' personalmente occupato di garantire che somme per un totale di 15 milioni di dollari venissero trasferite alle famiglie di "martiri" e attentatori palestinesi. Il presidente Yasser Arafat e altri alti esponenti dell'Autorita' Palestinese erano perfettamente a conoscenza dei trasferimenti di fondi iracheni, come risulta da documenti confiscati dalle forze di sicurezza israeliane durante l'operazione anti-terrorismo Scudo Difensivo.
    Rafad Salim, capo in Cisgiordania della fazione palestinese filo-irachena Fronte Arabo di Liberazione, era la persona incaricata del passaggio dei soldi. Arrestato dagli israeliani il 2 ottobre scorso, Salim ha spiegato agli investigatori che, grazie alla sua posizione, egli era al corrente delle attivita' militari effettuate dalla sua organizzazione, responsabile fra l'altro, negli anni settanta, di vari attentati terroristici a Kfar Giladi, Kfar Yuval e Misgav Am. Dal 1997 Salim ha operato come consigliere politico di Arafat ed e' in grado di confermare che l'Autorita' Palestinese era al corrente dell'aiuto finanziario offerto dall'Iraq alle famiglie di "martiri" palestinesi. Salim si e' sempre mantenuto in stretto contatto con l'Ufficio Palestinese del Ba'ath (il partito nazional-socialista al potere in Iraq) e con il quartier generale speciale arabo in Iraq. Nell'anno 2000 ha incontrato personalmente Saddam Hussein per discutere con lui la situazione dei palestinesi.
    Fu lo stesso Saddam Hussein a stabilire l'ammontare dell'aiuto da distribuire ai "combattenti" palestinesi, fissando un vero e proprio "tariffario" dell'impegno nel terrorismo: 10.000 dollari alle famiglie dei "martiri" suicidi, 1.000 dollari ai "combattenti" seriamente feriti, 500 dollari a quelli feriti in modo lieve. Una volta stanziate le somme, il denaro venne inviato a una banca irachena ad Amman, la Mashraf al-Rafidin, e da li' inoltrato alla filiale in Giordania della Alasatismar Bank, per poi passare alla filiale di Ramallah della stessa banca, su un conto del Fronte Arabo di Liberazione.
    Salim ha anche rivelato d'aver incontrato molte volte rappresentanti di Hamas (fondamentalisti palestinesi) e dei gruppi FDLP ed FPLP per discutere i particolari degli attentati.
    Nello scorso mese di agosto vennero arrestati dalle forze di sicurezza israeliane tre palestinesi del Fronte Arabo di Liberazione che avevano ricevuto addestramento militare in Iraq e dalla rete Al Qaeda di Osama bin Laden, e che progettavano di compiere attentati terroristici in Israele, in particolare contro l'aeroporto internazionale Ben-Gurion.

(israele.net, 9.10.02 - dalla stampa israeliana)



INDIRIZZI INTERNET


Finalmente è disponibile in rete un filmato che mostra come il terrorismo suicida non è causato dalla "disperazione", ma cinicamente pianificato a sangue freddo e inculcato nelle giovani vittime con il pesante sostegno economico di Stati come l'Irak.

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