Notizie su Israele 184 - 8 luglio 2003


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Noi aspettavamo la pace, ma nessun bene ci giunge; noi aspettavamo un tempo di guarigione, ed ecco il terrore. SIGNORE, noi riconosciamo la nostra malvagità, l'iniquità dei nostri padri, poiché noi abbiamo peccato contro di te. Per amor del tuo nome, non disprezzare, non disonorare il trono della tua gloria; ricòrdati del tuo patto con noi; non annullarlo! Fra gli idoli vani delle genti, ve ne sono forse di quelli che possano far piovere? o è forse il cielo che dà gli acquazzoni? Non sei tu, SIGNORE, tu, il nostro Dio? Perciò noi speriamo in te, poiché tu hai fatto tutte queste cose.

(Geremia 14:19-22)



LA PACE E' VICINA!


  
Domenica 6 luglio 2003. Palestinesi urlano slogan anti-Israele durante una marcia a Gaza. Circa 1.200 persone hanno sfilato per le vie della città chiedendo il rilascio dei prigionieri palestinesi.
  
   Venerdì 4 luglio 2003. Un ragazzo palestinese posa con un fucile mitragliatore mentre i membri della Brigata dei Martiri di Aqsa ricordano a Gaza l'anniversario dell'uccisione del loro leader Jihad Amerin.
Venerdì 4 luglio 2003. Un padre palestinese mette in mano a suo fuglio due fucili mitragliatori durante la manifestazione a Gaza.
   Venerdì 4 luglio 2003. Un terrorista mascherato della Brigata Salah el-Deen carica il suo fucile prima di sparare in aria.



ANCHE I TERRORISTI DEVONO AVERE UN PO' DI RESPIRO!


Happy Hudna!

di David Wilder

Ebbene ragazzi, la pace è vicina! Secondo alcuni, persino i pessimisti sono diventati ottimisti. Il novello amore fra gli ufficiali israeliani e le loro 'controparti' palestinesi si può vedere chiaramente nelle immagini pubblicate dai quotidiani odierni, specialmente nella foto in prima pagina di un ufficiale israeliano che, sorridendo felice, poggia la mano sul braccio di un arabo in uniforme. È quasi pittoresco. Si potrebbe benissimo immaginarli seduti insieme, a fumare una sigaretta e sorseggiare un caffè, chiacchierando delle mogli e dei figli – e poi, mentre si stringono la mano prima di andare via, un militare terrorista dell'AP striscia tranquillamente dietro l'israeliano e con un breve cenno del capo gli pianta in testa un proiettile da 9 mm.
    L'ufficiale palestinese, pulendosi la mano sui pantaloni dice al soldato: "Dài, andiamo a prendere il prossimo babbeo".
    Ieri sera l'ultimo caso. Solo per stuzzicarvi l'appetito – le notizie di prima mattina di quest'oggi contenevano il seguente messaggio:
    Nella notte: un missile anticarro è stato fatto scoppiare in un avamposto IDF adiacente a Neve Dekalim; diversi mortai sono stati visti sparare verso le comunità di Gush Katif; è stato scagliato un barile contro una jeep militare, che è andata così a schiantarsi addosso a un altro veicolo; vicino a Kedumim è stata scagliata una bomba contro una pattuglia dell'IDF; sono stati arrestati dei tiratori di sassi vicino Midgal Oz, ecc. E naturalmente il numero più importante della notte scorsa è avvenuto a Kiryat Arba, quando poco prima delle dieci alcuni terroristi hanno sparato ad un soldato che faceva la guardia all'ingresso del quartiere Givat HaAvot. Un proiettile ha colpito l'elmetto del soldato, ma miracolosamente non è penetrato, lasciando l'uomo soltanto leggermente sconvolto.
    Sapete, fra poco l'arabo potrebbe essere obbligatorio nelle scuole superiori di tutto il mondo. Altrimenti gli eventi attuali sarebbero incomprensibili per la gente comune. Prima avevamo a che fare con l'Intifada. Adesso siamo nell'era dell'Hudna.
    Che cos'è una Hudna? È un cessate il fuoco. Ma è la fine dei combattimenti? No. È una dichiarazione di intenti che mira alla pace? No. È semplicemente una temporanea interruzione dei combattimenti. In questo caso, i nostri nemici l'hanno detto chiaro e tondo: per tre mesi. Comunque, questa Hudna ha delle condizioni. Israele deve porre fine all'assedio che ha tenuto Arafat ingabbiato a Ramallah per quasi un anno. Israele deve fermare le incursioni nella moschea di Al-Aqsa, cioè al Monte del Tempio a Gerusalemme. Israele ha la proibizione di arrestare i terroristi, per non dire poi, di assassinarli. Ed infine, Israele deve scarcerare tutti i prigionieri arabi terroristi. Se non esaudiamo queste richieste, che non sono state negoziate ma sono piuttosto delle imposizioni unilaterali, il cessate-il-fuoco finirà.
    Come mai gli arabi sono così disposti a 'cessare i combattimenti'? Secondo un articolo dell'AFP pubblicato oggi: "L'armistizio trimestrale annunciato domenica dalle fazioni palestinesi sembra essere una tattica piuttosto che un cambiamento ideologico di grandi linee". Questi spostamenti tattici sono stati determinati, per dirla in parole povere, dal fatto che il nemico si è reso conto di essere sul punto di perdere la guerra. Non solo stava perdendo la guerra, ma correva il pericolo di essere spazzato via. Non è una coincidenza che Hamas abbia aderito al cessate-il-fuoco in seguito al tentato omicidio dell'arciterrorista Rantisi, avvenuto diverse settimane fa. A quel punto il leader di Hamas, lo sceicco Yassin, ed altri capi terroristi si sono resi conto che le armi israeliane erano puntate su di loro. Allora quale modo migliore per disarmare il nemico, se non dichiarare una tregua unilaterale? Che scelta avevano, se non fermare la loro cosiddetta "aggressione".
    Questo armistizio non è altro che una manovra per concedere ai terroristi un po' di spazio per respirare. E non è solo un piccolo spazio. È tanto. Israele si sta ritirando da Gaza e sta riaprendo al traffico palestinese quasi tutte le strade, mettendo così in pericolo tutti gli ebrei che vivono o visitano le comunità ebraiche di Gush Katif. Oggi Israele siede con Dahlan e parla di ridare Betlemme di nuovo in mano ai terroristi. Abbiamo già visto questo film e i risultati sono stati traumatici: uccisioni, uccisioni ed ancora uccisioni. Ieri sera la radio israeliana ha citato delle fonti che dicevano che dopo questo Abu Mazen vuole Ramallah, ma Israele sta considerando Hebron. L'ultima volta che Israele ha ritirato le sue forze da un 80% di Hebron il risultato è stato un massiccio attacco terroristico che ha lasciato 12 morti, fra cui il capo militare di Hebron, il colonnello Dror Weinberg HY"D. Da allora altre 15 persone sono state uccise dentro e attorno Hebron. Non da ultimo, negli ultimi mesi i terroristi di Hebron hanno ucciso ebrei in tutto Israele, facendosi saltare in aria più e più volte.
    Quando Israele lascerà Nablus, Ramallah, Tulkarm, Jenin, ecc. ecc. i terroristi avranno tempo di radunarsi, ricostruire le loro mortali infrastrutture, prepararsi per il prossimo round. E Israele sta cadendo nella trappola. Lo sappiamo, ma li lasciamo fare. E questa non è la prima volta. Risale al 1991,1992, quando la cosiddetta prima Intifada era appena morta – gli arabi avevano perso, Israele li ha riportati in vita – e l'apparato di risurrezione si chiamava Oslo. E prima di quello, nel Libano negli anni '80, avevamo messo alle strette l'OLP, Israele stava ormai per prendere Arafat, ma gli ha permesso di scappare. Ora lo stiamo rifacendo. Le organizzazioni terroristiche sono in ginocchio – alla fine Israele si è reso conto della necessità di spazzarle via – ma no, diamogli un'altra opportunità. Abu Mazen oserà smantellare organizzazioni terroristiche come Hamas, la Jihad, o anche la sua Fatah? Ma dài, chi stiamo prendendo in giro? Nonostante gli obblighi impostigli dalla sua 'Road Map', Mohammad Dahlan non punterà mai i fucili contro il suo stesso popolo.
    Giusto per tenere sotto controllo le illusioni, come se qualcuno dovesse ricordarcelo, questo pomeriggio un'altra persona, un operaio straniero, è stato ucciso in una trappola terroristica a nord di Shomron.
    E non dimentichiamo chi sta aspettando nell'ombra. Le fonti DEBKA hanno riportato oggi che "uno dei consiglieri presidenziali delle missioni di Rice in Gerusalemme domenica stava per mettere in moto una rielaborazione del governo Sharon, cooptando i Laburisti al posto dei ministri di destra. A Sylvan Shalom è stato chiesto di dimettersi come ministro degli esteri in favore di Shimon Peres".
    Amici, sembra che si vada di bene in meglio!

(Israel's daily newsmagazine, 4 luglio 2003)



«I CRISTIANI SIONISTI NON SONO DA CONSIDERARSI CRISTIANI»


Il principale quotidiano dell'Autorità Palestinese, al-Hayat al-Jadida, nella sua edizione del 2 luglio scorso ha pubblicato il resoconto di una conferenza di tre giorni, tenutasi recentemente a Betlemme, che tra i suoi argomenti aveva il Sionismo Cristiano in America.
    Secondo il giornale, "gli oratori hanno sottolineato che i cristiani sionisti non sono in alcun modo collegati col resto della cristianità".
    Inoltre, nelle sue osservazioni sulla conferenza, al-Hayat al-Jadida riporta che
   
     "L'arcivescovo Munib Yunan, il dr. Manuel Chassasia e  Padre Marun Laham si sono trovati unanimemente d'accordo nel dire che appositi comitati dovrebbero espellere dalle chiese in Palestina e nel Medio Oriente tutti coloro che sono coinvolti nel Sionismo Cristiano, per impedire che organizzino conferenze in America, dove ci sono circa cinquanta milioni [di cristiani sionisti]. Gli organizzatori hanno dichiarato che [i cristiani sionisti] si oppongono alla Road Map e sono contro i diritti dei palestinesi."
    
    L'articolo riporta anche un'analogia fatta tra Gesù e i profughi arabi che desiderano tornare in Israele:
   
    "Il Presidente della conferenza, dr. Jarris Hjouri, nella sua esposizione ha fatto un collegamento tra il ritorno del Messia dall'Egitto in Palestina - un ritorno che ha il significato di un ristabilimento di pace, giustizia e libertà - e il ritorno dei profughi [palestinesi], che ha lo stesso significato e le stesse conseguenze. Khouri ha sottolineato che senza tutto questo non ci sarà una giusta pace".
    
(Arutz Sheva, 04.07.2003)



L'EUROPA PREDILIGE L'EBREO-VITTIMA


Identikit dell'ebreo come piacerebbe che fosse agli europei: un caro estinto che denuncia Israele    

di Emanuele Ottolenghi
   
    Il recente risorgere di fenomeni antisemiti nel cuore dell'Europa ha riaperto la questione del rapporto tra cultura europea ed ebraismo. Chi dopo l'inizio della Seconda Intifada – e ancor piu' dopo l'11 settembre – si ostina a minimizzare il fenomeno attribuendolo a membri radicalizzati delle comunita' arabe in Europa ignora l'irrisolta tensione da sempre esistente tra l'Europa e i suoi ebrei. Nonostante abbiano vissuto in Europa per duemila anni contribuendo spesso alla sua produzione culturale e raggiungendo in molti casi altissimi livelli d'integrazione, l'Europa non ha ancora metabolizzato "l'ebreo" e vive con gli ebrei un rapporto difficile, dove la loro accettazione nella societa' circostante e' condizionale alla loro rinuncia di identita', specialmente se essa si esprime attraverso solidarieta' e sostegno per Israele.
    Nessuno mette in dubbio che il recente aumento di fenomeni antisemiti abbia un legame con la corrente crisi mediorientale. Ma questo dato di fatto, lungi dall'esonerare l'Europa dalla recrudescenza antisemita, mette a nudo la grave ambiguita' europea nell'accettare gli ebrei come eguali a pieno titolo. Nulla esprime questa ambiguita' meglio di quanto ha dichiarato Javier Solana al summit Ue-Usa di Washington. Per Solana non c'e' antisemitismo in Europa oggi (nonostante i piu' di mille incidenti riportati dopo l'11 settembre soltanto in Francia). Ne discende che coloro che vedono l'antisemitismo nella presente situazione (che, si sa, deriva da una recrudescenza del conflitto israelopalestinese) in realta' cercano di delegittimare le critiche a Israele bollandole di antisemitismo (per Solana inesistente). Chiaro il corollario: Israele merita le critiche mossegli e gli ebrei che protestano farebbero bene a farsi un esame di coscienza invece. Quegli ebrei che si dissociano da Israele, per il fatto di dissociarsi e denunciarne azioni e legittimita', meritano la stima e l'ingresso a pieno titolo in Europa.
    Questo dualismo e' diffuso tra la sinistra europea. L'anno scorso, in occasione del ballottaggio alle presidenziali francesi, centinaia di migliaia di manifestanti invasero le strade di Parigi per dimostrare contro "fascismo, razzismo e xenofobia". Molti di coloro che sono scesi in piazza a protestare contro Le Pen hanno marciato fianco a fianco con ebrei, in senso stretto in senso lato, per esprimere solidarieta' con le vittime di ieri e di oggi dell'odio razzista e antisemita. Lo slogan "Mai piu'" riferito all'Olocausto non e' un motto politico, ma un'espressione sincera di orrore per il passato europeo che la cultura occidentale ha oggi interiorizzato con successo: chi lo dice lo dice con sincerita' e fa del dovere della memoria un principio cardine dell'identita' europea.
    Molti oggi condividono la nuova passione giudeofila dell'Europa Unita che sponsorizza mostre e musei ebraici, che esalta il dovere della memoria, che si mobilita per la giornata della memoria, che legge avidamente di ebraismo (in Italia l'anno scorso ben 700 nuovi titoli di argomenti ebraici in libreria), che fa di Auschwitz uno dei nuovi simboli dell'identita' europea. Molti di questi uomini e donne, di fede politica progressista e liberale, dediti ai diritti umani e alla tolleranza, preoccupati dal risorgere dell'intolleranza che diede i natali al nazismo, non esitano a schierarsi accanto agli ebrei nel perpetuare la memoria del genocidio come monito per le generazioni future. E questo fatto, da solo, offre una garanzia contro il ritorno di certi orrori passati. E tuttavia, resta una forte e inquietante ambiguita'. Molti tra coloro che sfilarono contro Le Pen, sono scesi in piazza poche settimane dopo sventolando bandiere palestinesi in nome degli stessi principi, paragonando Israele al nazismo, sostenendo che "le vittime di ieri sono i carnefici di oggi", demonizzando lo Stato ebraico e coloro che lo sostengono come fascisti e assassini che non meritano dignita', rispetto e protezione. Quegli stessi attivisti di sinistra che sfilano in piazza contro il neonazismo, indossano la kefiah come simbolo di rivoluzione, considerano Israele un fenomeno coloniale e uno strumento imperialista americano che merita di essere distrutto, e parlano di complotti sionisti ovvero ebraici per dominare il mondo e opprimere gli arabi. Amano gli ebrei e rifiutano l'equazione antisionismo = antisemitismo. Ma l'ebreo che amano e' quello che denuncia Israele, se ne dissocia, rifiuta qualsiasi legame con l'identita' nazionale ebraica, e vive la sua ebraicita' come denuncia del sionismo quale perversione dell'umanesimo ebraico con cui l'Europa odierna si identifica spiritualmente. In quanto agli altri ebrei, essi ne fanno riferimento utilizzando lo stupidario collaudato dell'antisemitismo antico e recente, riciclando le congiure, le teorie del grande burattinaio, la stampa in mano ai giudei.
    Questa dualita' europea, che ama, esalta e idolatra l'ebreo-vittima, ma odia, disprezza e demonizza l'ebreo nazionalista e armato che si difende e combatte, e' non soltanto un sintomo di un rapporto schizofrenico e irrisolto che l'Europa ha con gli ebrei, ma e' anche la manifestazione piu' recente e insidiosa del suo perdurante antisemitismo. Esso esprime l'impossibilita' europea di associare gli ebrei con il legittimo uso del potere politico, incluso quello sovrano. Per l'Europa l'ebreo deve essere vittima: indifeso, agnus dei, coscienza del mondo, capace di assorbire il dolore inflittogli dall'ingiustizia sublimandolo in una forza interiore che diventa simulacro di giustizia e rettitudine morale per le societa' circostanti. Per l'Europa l'ebreo deve essere assimilato, non minoranza etnica e religiosa in seno all'Europa multiculturale, ma modello dell'integrazione europea che quella diversita' annulla, orgoglioso di un'eredita' e un patrimonio storico, ma non dedito a perpetuarlo. Per l'Europa l'ebreo deve essere mimetizzato: conscio di appartenere a una collettivita', ma indistinguibile dall'indifferenziata umanita' che lo circonda. Per l'Europa l'ebreo e' tale piu' perche' sa di esserlo che perche' sa come esserlo: glielo ricordano gli altri che lui e' ebreo, ma se dipendesse da lui quell'ebraismo – in senso di tradizione particolare e diversa, di fede e osservanza di precetti, in senso di legame a un popolo dedizione alla sua differenziata continuita' anche in futuro – gli sarebbe interamente indifferente. Il suo ebraismo e' una missione universale umanistica, che si compie con la scomparsa dell'ebreo concreto, l'ebreo individuo, e la diffusione dell'ebreo astratto e di quello che esso rappresenta, cioe' il rifiuto della violenza in maniera incondizionale e un messaggio universale fratellanza.
    Ecco perche' gli europei si entusiasmano a vedere film come "Il Pianista" o "La vita e' bella". L'ebreo non e' riconoscibile esteriormente: ha abbandonato gli abiti tradizionali, non si copre piu' il capo, non mangia secondo le regole alimentari ebraiche, non parla la lingua dei padri, non "sembra" ebreo. Ebreo non in quanto ebreo, ma in quanto vittima, l'ebreo amato dall'Europa e' espressione suprema della cultura europea, come nel caso del film di Polanski, dove il protagonista appare incapace di difendersi, e

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sopravvive alla tragedia non per ricostruire e tramandare un'esistenza ebraica ma per farsi testimone di un messaggio universale di sofferenza che trascende il suo ebraismo.
    Il pianista sopravvive, ma l'ebraismo non sopravvivera' a lui. Quell'ebreo, che fa del suo ebraismo non una tradizione e un'identita' ma l'espressione di un messaggio universale, e' un ebreo che non trasmette la sua ebraicita' alla prossima generazione, che e' conscio di un'appartenenza ma che non si sente obbligato a perpetuarne l'eredita'. Questo ebreo e' un ebreo profondamente cristiano, profondamente idealizzato e profondamente astratto, nel quale ben poco di ebraico e' rimasto.
    L'ebreo che l'Europa sogna e' l'idealizzazione dell'innocenza e rappresenta, per la sua avversione alla violenza anche di fronte alla minaccia di sterminio, la condizione primigenia di purezza che precede il peccato originale costituito in politica dall'uso del potere e dalle talvolta impossibili scelte morali che i dilemmi del potere impongono a governi e Stati. Ed e' per questo che l'Europa multilaterale che rifiuta internazionalmente l'uso della forza si identifica con questa immagine.
    Nel rifiuto di ogni associazione esteriore con la tradizione, nel rifiuto della continuita' ebraica, nel rifiuto di abbandonare il ruolo di vittima, esso incarna l'ebreo che l'Europa vorrebbe anche al dila' del Mediterraneo: un ebreo che non e'piu' tradizione e popolo ma simbolo di universalita' indistinta e per questo stesso motivo non piu' ebreo ma altro: l'ebreo diventa concetto, incarnazione di un'idea, ma cessa di essere quel che sempre e' stato e smette di esistere come cultura, fede, collettivita' nel concreto. Per questo in Europa Israele viene paragonato ai nazisti, e l'ebreo-vittima che l'Europa idealizza viene contrapposto all'ebreo-carnefice che l'Europa pretende di vedere in uno Stato ebraico che osa difendersi.
    Proprio perché nato in guerra e difeso la forza in nome di un'identita' ebraica nazionale che mal si concilia con l'identita' europea post-nazionale di oggi,
    Israele viene descritto e vissuto come un peccato originale, la perdita d'innocenza degli ebrei che comporta quindi la perdita irrimediabile dell'ebreo-vittima con l'Europa si identifica. Per questo la sinistra liberale oggi non difende gli ebrei dal pregiudizio – ma lo alimenta attivamente – se gli attacchi sono motivati da opposizione a Israele. Gli ebrei che si identificano come nazione, agiscono come tale, e desiderano un loro stato non meritano la simpatia della sinistra. Ai suoi occhi, l'ostilita' nei confronti di ebrei sostenitori di Israele non e' antisemitismo. La sinistra difende invece quegli ebrei disposti a denunciare Israele e a dissociarsi dallo Stato ebraico. L'ebreo che la sinistra europea ama e' talmente integrato con la cultura europea da non avere alcun sentimento di identificazione e lealta' per il popolo ebraico e le sue legittime aspirazioni nazionali. Questo ebreo degiudaizzato, accolto e ammirato dall'Europa, si contrappone a quegli ebrei che si identificano, nel bene e nel male, con una nazione, una cultura, una tradizione, e un'identita' esclusiva. L'unico ebreo veramente amato dall'Europa e' l'ebreo che ha coscientemente smesso di esser tale. Estinto concretamente: solo cosi' l'ebreo sopravvive e si integra nella illuminata e tollerante Europa di oggi.

(Il Foglio, 28 giugno 2003, ripreso da Informazione Corretta)



UN ESEMPIO DI ONESTA' INTELLETTUALE


Ho capito che Bernard Lewis ha ragione

Dopo anni di "appassionata e sincera militanza antisionista", l'autore di questo articolo confessa di aver capito molte cose.

di Franco Auriemma

Non pensavo di essere diventato un antisemita e confesso che è stato molto difficile ammettere la verità con me stesso. Mi convincevo di essere semplicemente "antisionista", in fondo non chiedevo che i sacrosanti diritti del popolo palestinese, anche se mi rendevo conto che alcune mie reazioni e frasi spontane e non potevano che essere catalogate come antisemite, "ma è la rabbia", mi dicevo. Ero arrivato al punto che, per "moderare" la mia furia antisionista, rileggevo le pagine di Primo Levi quasi come un calmante, una sorta di panacea. Un giorno, la mia compagna mi ha detto: "Ti comporti come uno di quei sacerdoti assetati del sangue delle proprie vittime, e che mentre le sacrificavano si inventavano cazzate religiose per giustificarsi con se stessi e con gli altri!" Mi scuso per il termine, ma mi ha detto proprio così, ed io mi sono infuriato sulle prime, anche se poi si è insinuato in me il dubbio che potesse avere anche minimamente ragione. Così ho cercato di capire. Ho acquistato, ad esempio, due libri di Bernand Lewis, un autore di cui non debbo essere certo io a tesserne le lodi, dato che è unanimemente considerato la massima autorità negli studi mediorientali (è, tra l'altro, Cleveland E. Dodge Professor Emeritus di studi medio-orientali alla Princeton University). I libri sono La costruzione del Medio Oriente eSemiti e antisemiti.
    Da La costruzione del Medio Oriente ho appreso tanto: è davvero "un dono prezioso, un'opera di rara limpidezza dove storia e politica vanno di pari passo, si affrontano, si ricongiungono per infine aprire una nuova finestra sulla realtà possente, eppur sfumata, che è quella parte del mondo chiamata Medio Oriente", come giustamente scriveva IgorMan sulle pagine de La Stampa. Franco Cardini rilevava invece su Avvenire che "questo libro è stato fatto tradurre in ebraico dal Ministero della Difesa d'Israele e in arabo dalla Fratellanza Musulmana. E' la prova migliore non solo dell'autorevolezza ma anche dell'equità e dell'onestà intellettuale dell'autore". Ma ciò che conta è il fatto di scoprire dati e fatti storici che tanti giornalisti ed opinionisti mancano di dire, forse per ignoranza più che per malafede, dato che la storia di quell'area è cosa davvero complessa: dalla realtà della storia si ricava che per quanto riguarda la storia di Israele e dei suoi rapporti con il mondo arabo, tutto si può dire tranne che lo stato sionista si sia comportato come uno stato razzista e colonialista. Si tratta di una menzogna colossale che fin troppi sono interessati a ripetere in continuazione, fino a farla diventare una verità comunemente accettata, il che costituisce una nuova forma di antisemitismo, forse peggiore delle precedenti.
    Illuminante, al riguardo, è il testo Semiti e antisemiti, in cui viene illustrata la storia dell'odio nei confronti degli ebrei che ha attraversato, "in forme più o meno violente, l'intera storia del cristianesimo, raggiungendo la sua manifestazione più estrema con il genocidio nazista. E chi aveva previsto che gli orrori dell'Olocausto lo avrebbero estirpato una volta per tutte ha dovuto ben presto ricredersi". L'aspetto dellafaccenda che mi ha riguardato da vicino è stato l'antisemitismo massicciamente diffuso nell'Islam, "che per secoli ne era rimasto immune". Il mio atteggiamento più o meno inconsapevolmente antisemitaveniva alimentato proprio dalla propaganda intorno al conflitto arabo-israeliano. Mi dicevo: "Se anche ministri e politici europei, come il francese De Villepin, concordano sostanzialmente con alcune delle dichiarazioni degli estremisti arabi riguardo al complotto imperialista americano-sionista, una ragione ci sarà!" Poi ho scoperto che tante di queste dichiarazioni ricalcano fedelmente i temi classici dell'antisemitismo europeo, come quei falsi storici (inventati dai russi) che vanno sotto il nome di Protocolli dei Savi di Sion, oppure (di fabbrica cristiana) le false citazioni del Talmud,i sacrifici rituali, l'odio verso l'umanità, le teorie massoniche e quelle sui complotti per la conquista del mondo (queste ultime di stampo nazifascista, e non solo). Oggi queste accuse sono ampiamente riprese dalla propaganda islamica, attraverso una rilettura del Corano "volta a giustificare e a fomentare il disprezzo verso gli ebrei", al fine di distruggere lo Stato di Israele per sostituirlo con uno stato arabo-palestinese, "obiettivo apertamente dichiarato dalle organizzazioni palestinesi e dai governi arabi che le spalleggiano". Con ciò non voglio commettere l'errore di attribuire ogni colpa ai palestinesi, dopo aver commesso quello di attribuire tutte le colpe agli israeliani e agli ebrei in genere. So però che l'attribuire ogni responsabilità, dovere e onere a Israele è sicuramente una forma di antisemitismo.
    Ciò che più mi rattrista è il ruologiocato da tanti governi e partiti europei,che perseguono una politica che spesso non favorisce il raggiungimento della pace. Oggi si parla molto di "Road Map", ma credo occorra ancora una volta sottolineare che "il traguardo della pace non potrà che identificarsi con il reciproco riconoscimento del diritto di esistere, condizione irrinunciabile sulla strada della pace". Bisogna lavorare per far cessare gli opposti estremismi e soddisfare la grande maggioranza dei popoli israeliano e palestinese che vuole la pace, per non dover più seppellire i propri figli.

(The Harp of David, 20 giugno 2003)



UN GIORNALE ARABO CONDANNA I REGIMI ARABI PER I LORO SILENZI SU SADDAM


In un articolo intitolato: "Il silenzio dei parlamenti arabi", Abd Al-Rahman Al Rashed, capo redattore di Al-Sharq Al-Awsat, ha criticato i regimi arabi per il loro silenzio di fronte alle fosse comuni irachene. Quelli che seguono sono estratti dall'articolo:

"Mohamad Jasem Al-Saqer, capo del Comitato per gli Affari Esteri del Consiglio del Popolo kuwatiano ha recentemente fatto una critica sorprendente. Ha affermato che i parlamentari arabi nel loro incontro a Beirut si sono rifiutati di condannare le fosse comuni scoperte in Iraq. E' possibile che i rappresentanti delle nazioni arabe si rifiutino di tenere fede perfino all'obbligo fondamentale della loro professione: rappresentare il proprio popolo? E' possibile che non siano riusciti a pronunciare una singola parola di compassione per le migliaia di vittime del dittatore arabo?"

"Donne e bambini, giovani e vecchi riempiono le fosse: è stata una punizione senza limiti."

"Se davvero i parlamentari arabi si sono rifiutati di condannare queste fosse comuni, è una cosa che rimarrà come un'ignominia nella loro storia e nella storia dei politici arabi, che sono comunque oggetto della derisione del mondo. Ad ogni conferenza questi parlamentari non si sono preoccupati di esprimere una sola parola di rammarico per ciò che è accaduto al popolo iracheno - molti di loro sono morti in fosse scavate attorno alle moschee, alle scuole e alle prigioni. Una parola di compassione non è molto da chiedere per gli iracheni tormentati dalla vista delle montagne d'ossa che erano i migliaia di cittadini uccisi e bruciati nei propri vestiti."

"… Loro [i parlamentari] dovrebbero essere la voce e la coscienza del popolo. Dovrebbero esaminare il lavoro dei loro governi. Inoltre, sono stati scelti per fermare il dispotismo, per sollevarsi di fronte a potenziali crimini. Se si rifiutano di esprimere compassione, allora possiamo dire che sono dei finti parlamentari ed è diritto del popolo conoscere il vero volto dei loro rappresentanti. Non possono sostenere che lo stanno facendo perché sono contrari a mettere in imbarazzo i loro leader, perché non c'è più posto per questo modo di pensare: il regime che ha commesso questi atti atroci è finito. E non possono neanche sostenere che rammaricarsi per il destino del popolo iracheno sotto Saddam possa essere considerato sostegno all'invasore americano: la differenza fra i due è chiara."

"I parlamentari arabi limitano la loro condanna ai sionisti e alle invasioni straniere e hanno deliberatamente dimenticato i crimini commessi sotto al nostro naso. Questi parlamentari arabi avrebbero il coraggio di guardare in faccia una donna irachena seduta sulla tomba dei suoi bambini massacrati? Abbiamo visto migliaia di persone raccogliere i resti dei loro parenti in borse di plastica."

"I colleghi citati da Al-Saqer hanno passato piacevoli notti nei lussuosi hotel di Beirut, rifiutandosi di pronunciare una parola di compassione per le vittime delle fosse comuni, un'onta nella nostra storia. Che razza di parlamentari sono e a quali parlamenti appartengono?" (1)

Note:
(1) Arab View, 25 Giugno 2003.

(Middle East Media Research Institute, 4 luglio 2003)



QUALI SONO I VERI INTERESSI DEGLI AMERICANI?


Perché non posso essere americano

di P. David Hornik

Nelle recenti riunioni fra il Consigliere della Sicurezza Nazionale americano Condoleezza Rice e i ministri del Governo Israeliano è accaduto un evento paradigmatico. L'americana si è lamentata che il muro di protezione costruito attorno alla Linea Verde sembra "un confine politico" e che Mahmoud Abbas ha protestato con lei dicendo che si tratta di un territorio conteso che si suppone dovrà appartenere al futuro stato palestinese. Tutti i ministri israeliani, da Sharon a Netanyahu, dal centrista Tommy Lapid ad Avraham Poraz, hanno insistito che il lavoro del muro deve continuare perché per adesso è cruciale salvare vite israeliane.
    Non viene riportato come, semmai lo abbia fatto, Rice abbia replicato a tutto questo. Ma il fatto che gli israeliani vedono il muro come qualcosa che migliora la loro sicurezza messa a duro rischio, per lei non sembra aver molto peso; lei, dopo tutto, non è Israele ed ha altre cose di cui preoccuparsi.
    L'America, infatti, ha sempre subordinato la sicurezza israeliana ai suoi interessi: dall'embargo durante la Guerra di Indipendenza all'imposizione ad Israele di ritirarsi dal Sinai nel '56, dal permesso concesso all'Egitto di chiudere lo Stretto di Tiran nel '67 alla liberazione dell'OLP a Beirut nell'82, tutto fino all'attuale hudna che ha sottratto Hamas all'attacco israeliano e gli ha permesso di riorganizzarsi e ricostruirsi – e questi sono solo pochi esempi. Senza dubbio, gli Stati Uniti sono l'unico alleato di Israele e gli danno un forte sostegno militare, economico e diplomatico. Ma cercano di equilibrarlo cercando soprattutto i propri interessi economici nel mondo arabo.
    Il modo in cui Israele considera il ruolo dell'America nel conflitto arabo-israeliano riflette la sua posizione nel raggio di azione politico. La sinistra tende a considerare più l'America come un mediatore onesto e saggio che cerca di controllare le nostre tendenze irrazionali e di condurci ad una pace duratura con i nostri vicini. La destra tende piuttosto a considerarla come qualcuno che gioca spericolatamente con il nostro futuro e infrange i suoi proclamati principi strizzando l'occhio al terrorismo. Il caso del muro di sicurezza, comunque, è interessante perché appare proprio come un autentico scontro fra America e Israele. Sebbene alcuni israeliani (fra cui anch'io) mettono in dubbio la bontà e l'importanza di costruire il muro, una decisiva maggioranza di pubblico e di governo lo sostiene. Ma gli Stati Uniti sembrano più sensibili alle rivendicazioni di Mahmoud Abbas sui suoi futuri confini che alla nostra immediata preoccupazione di salvarci la pelle.
    Ho fatto alià dagli Stati Uniti 19 anni fa, in parte perché la vedevo come l'unica uscita per risolvere proprio quella contraddizione. Sebbene la decisione stava maturando da anni, arrivò al culmine durante la Guerra del Libano fatta da Israele nell'estate del 1982. "Menachem, ferma l'Olocausto!" tuonò il presidente Reagan al primo ministro israeliano mentre le forze israeliane avanzavano verso Beirut. La guerra, naturalmente, poteva essere messa in discussione, e col passare del tempo sempre più israeliani lo stavano facendo. Ma era 'il mio presidente' che, con enorme insensibilità, stava facendo al primo ministro israeliano un'imposizione di una tale portata che neanche i più accaniti critici di Begin avrebbero fatto.
    Poi era venuto il Piano Reagan che, proprio in reazione al tentativo israeliano di rimuovere l'OLP e di permettere una calma in  Palestina, invocava uno stato palestinese nei territori che l'opinione pubblica israeliana considerava ancora inaccettabilmente pericolosi. Per me, il contrasto cognitivo divenne insopportabile; non riuscivo più a considerare Reagan – che in genere rispettavo – come 'mio' presidente e, per questa ed altre ragioni, mi convinsi che dovevo diventare israeliano.
    Dopo diciannove anni mi sento come prima. Non che, naturalmente, il nostro governo non faccia enormi errori che hanno conseguenze disastrose per noi, e nell'ultimo decennio il processo di Oslo ne costituisce un esempio lampante. Ma c'è una differenza cruciale: quando Yitzahak Rabin e Shimon Peres hanno salvato l'OLP dal suo disfacimento in Tunisia, l'hanno riportato qui e hanno fatto pace con lui, sebbene in modo fuorviante, avevano veramente in mente i nostri interessi e pensavano di farci un favore, raggiungendo la pace per noi. Ma quando gli Stati Uniti scendono a compromessi con tutto quello per cui si suppone debbano lottare, risuscitando (almeno temporaneamente) un gruppo come Hamas, che persino il più ingenuo degli israeliani non ritiene moderato, costringendoci a scarcerare masse di terroristi omicidi, proteggendo il terrorista per eccellenza Arafat, ed ora ingiungendoci di fermare i lavori di costruzione di un muro su cui si è espresso il consenso israeliano, lo sta facendo soprattutto a causa delle pressioni saudite, egiziane, palestinesi e arabe e non, o certamente non solo, per i nostri interessi.
    Sono consapevole di quanto sia difficile l'alià – ora più che mai – e che gli ebrei americani possono obiettare che la loro presenza in America è necessaria come forza politica a favore di Israele. Questo potrebbe essere vero; è possibile che se molti altri ebrei americani lasciassero gli Stati Uniti e venissero qui, ne soffrirebbe il nostro sostegno americano. Non tendo a pensare che sia così, ma potrebbe essere. Ma secondo me l'unico governo che sta veramente preoccupandosi per lo stato ebraico, o almeno sta cercando di farlo, è quello israeliano. E questo significa che io devo rimanere qui.

(Israel's daily newsmagazine, 4 luglio 2003)



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