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Notizie su Israele 251 - 5 agosto 2004

1. Gli israeliani sono contenti della vita
2. Sequestro lampo di stranieri a Nablus
3. 250 milioni di euro per l'Autorità Palestinese
4. Aspre critiche del re di Giordania all'Autorità Palestinese
5. Il conflitto arabo-israeliano attraverso i numeri
6. Una lunga tradizione di intolleranza estrema
7. Non si «sale» in Israele per fuggire
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Amos 9.13-15. «Ecco, vengono i giorni», dice il SIGNORE, «in cui l’aratore s’incontrerà con il mietitore, e chi pigia l’uva con chi getta il seme; quando i monti stilleranno mosto e tutti i colli si scioglieranno. Io libererò dall’esilio il mio popolo, Israele; essi ricostruiranno le città desolate e le abiteranno; pianteranno vigne e ne berranno il vino; coltiveranno giardini e ne mangeranno i frutti. Io li pianterò nella loro terra e non saranno mai più sradicati dalla terra che io ho dato loro», dice il SIGNORE, il tuo Dio.
1. GLI ISRAELIANI SONO CONTENTI DELLA VITA




GERUSALEMME - La gran maggior parte degli adulti israeliani è contenta della propria vita. Questo è emerso da uno studio compiuto su tutto l'anno 2003, i cui risultati sono stati pubblicati lunedì [2 agosto].
    L'81% dei partecipanti all'inchiesta ha risposto di essere soddisfatto della vita attuale. Nel 2002 era l'83%. Gli ottimisti sono il 52%, un punto in meno rispetto all'anno precedente.
    Nel gruppo di età tra i 20 e i 24 anni, l'88% si è dichiarato soddisfatto; tra i 45 e i 64 il 79%; tra gli ultra 75 il 77%.
    I celibi (83%) e gli sposati (84%) sono chiaramente più soddisfatti dei separati (63%) o dei vedovi (68%).
    Anche il livello di istruzione ha effetti sulla soddisfazione. Dei partecipanti con un basso grado di istruzione, il 78% non si lamenta della propria vita. Di quelli che hanno un diploma la percentuale arriva all'83%. Di quelli che hanno fatto un successivo corso di addestramento professionale, l'81% si è detto soddisfatto. La più alta percentuale è stata raggiunta dai laureati, con l'87%.
    Per quanto riguarda la situazione finanziaria, il 48% degli interrogati si è detto soddisfatto. Il 39% conta sul fatto che nei prossimi anni potrà stare meglio economicamente. Il 37% non s'aspetta nessun cambiamento, il 24% ritiene che la loro situazione peggiorerà.
    L'83% è contento del proprio lavoro. Su questo punto la parte degli ebrei israeliani (84%) è superiore a quella araba (76%). Tra gli immigranti ebrei che negli anni novanta o più tardi sono venuti in Israele, la percentuale è del 74%.
    Dal gennaio al dicembre 2003 sono stati interrogati circa 7.200 israeliani oltre i 20 anni. Essi rappresentano all'incirca quattro milioni di persone di quell'età.

(Isralnetz Nachrichten, 02.08.2004)






2. SEQUESTRO LAMPO DI STRANIERI A NABLUS




Palestinesi armati hanno sequestrato sabato, e rilasciato illesi dopo alcune ore, tre volontari cristiani pro-palestinesi impegnati in un progetto di insegnamento dell’inglese all’università di Nablus. I sequestratori hanno prelevato i tre (un americano, un britannico e in irlandese) mentre rientravano ai loro alloggi. Secondo fonti palestinesi, i tre sarebbero stati trasportati nel campo palestinese di Balata, alla periferia di Nablus. I terroristi avrebbero acconsentito a rilasciare i tre ostaggi occidentali solo dopo aver ottenuto garanzie da Yasser Arafat in persona che sarebbero stati regolaramente pagati gli stipendi ai membri delle Brigate Martiri di Al Aqsa.
    Sempre sabato, infatti, verso l’alba, terroristi delle Brigate Martiri di Al Aqsa avevano assaltato e dato fuoco alla sede delle Forze di Intelligence Generali dell’Autorità Palestinese nella città di Jenin, come protesta per il rifiuto del sindaco di accettare le loro richieste. I terroristi hanno anche impedito a lungo ai vigili del fuoco di raggiungere l’edificio.
    Poche ore prima, altri terroristi dello stesso gruppo avevano dato fuoco al quartier generale del governatore distrettuale di Jenin, Qaddura Musa.
    Un portavoce delle Brigate Martiri di Al Aqsa ha dichiarato che l’azione costituisce una reazione alla nomina da parte di Yasser Arafat di Qaddura Musa come governatore. A quanto pare, Musa si sarebbe rifiutato di pagare gli stipendi a membri delle Brigate Al Aqsa.
    Qaddura Musa, un veterano di Fatah, è stato nominato solo tre settimane fa. Il suo predecessore, Haidar Irsheid, era stato costretto a dare le dimissioni l’anno scorso dopo che le Brigate Al Aqsa lo avevano brevemente sequestrato, trascinato nella piazza principale di Jenin e picchiato davanti a tutti. Da allora Irsheid si è trasferito in Giordania con la famiglia.
    Parlando ai giornalisti, il leader delle Brigate Al Aqsa Zakaria Zubeidi ha detto che il suo gruppo ha incendiato gli uffici dell’Autorità Palestinese per protestare contro il rifiuto di Musa di pagare i loro stipendi. Zubeidi ha anche accusato ufficiali dell’intelligence palestinesi di passare agli israeliani informazioni sulle attività delle Brigate Al Aqsa.
    Nel frattempo un importante editorialista palestinese, Adli Sadek, che scrive per Al-Hayat Al-Jadeeda, ha denunciato d’essere stato ripetutamente minacciato di morte per aver invocato riforme e fine della corruzione all’interno della società palestinese.
    Giovedì scorso si è appreso che i chirurghi in Germania, dove è stato ricoverato dopo Amman, hanno dovuto amputare una gamba al parlamentare palestinese Nabil Amr, “gambizzato” a Ramallah lo scorso 20 luglio da terroristi palestinesi dopo che aveva criticato Arafat in tv. Arafat ha comunque già annullato una inchiesta palestinese sul fatto, addossandone la colpa a Israele.
    
(Ha’aretz, Jerusalem Post, 31.07.2004 - israele.net)






3. 250 MILIONI DI EURO PER L'AUTORITA' PALESTINESE




Ignorando deliberatamente la corruzione che imperversa sempre in seno alla direzione palestinese, l'Unione Europea si ostina a versare delle somme considerevoli all'Autorità Palestinese nel quadro dell'assistenza che le accorda.
    E' così che la somma di 26 milioni di euro è stata trasferita giovedì [29 luglio] nelle casse dell'Autorità Palestinese. Il quotidiano israeliano Maariv, che riporta questa informazione, sottolinea che si tratta di un primo versamento di una somma totale di 250 milioni di euro che l'Unione Europea si è impegnata ad accordare nel corso dell'anno 2004. Una somma equivalente è stata versata l'anno scorso. Ufficialmente il denaro è destinato a un fondo per un programma di riforme economiche creato dalla Banca mondiale.
    Nel comunicato pubblicato giovedì dall'Unione Europea è specificato che "la popolazione palestinese di Giudea-Samaria e della striscia di Gaza soffre sempre di una seria recessione economica e che il livello di vita si è nettamente abbassato".
    Secondo l'annuncio pubblicato dall'Unione Europea, 65 milioni di euro dovrebbero servire all'applicazione di riforme economiche, 22 milioni per i servizi sociali, 7,5 milioni per il "piano di pace" e 5 milioni per l'assistenza tecnica in vista della messa in atto delle riforme.
    Inoltre, 60 milioni saranno versati all'UNWRA, tra i quali 29 milioni per gli aiuti umanitari, 10 milioni per l'acquisto di derrate alimentari, e il resto sarà ripartito tra diversi progetti.
    Ma è difficile sapere se il denaro sarà realmente utilizzato per fini umanitari o sarà recuperato dai funzionari palestinesi, che fino ad oggi non hanno esitato ad attingere abbondantemente dalle casse, usando per i loro bisogni personali le somme che dovevano servire a migliorare la vita quotidiana della popolazione palestinese.
    I dirigenti palestinesi, accusati di corruzione, naturalmente hanno rigettato tutte queste accuse, affermando che tutto è stato realizzato in modo regolamentare. L'Europa tiene a giocare un ruolo importante nel processo diplomatico in corso in Medio Oriente.
    L'alto rappresentante per la politica estera dell'Unione Europea, Javier Solana, ricevuto la settimana scorsa dal Primo Ministro israeliano, non aveva apprezzato le critiche mosse dal suo ospite. E aveva aggiunto: "Noi saremo coinvolti nel processo, che lo vogliate o no!"

(Arouts 7, 02.08.2004)





4. ASPRE CRITICHE DEL RE DI GIORDANIA ALL’AUTORITÀ PALESTINESE




”L’Autorità Palestinese deve attuare una vera riforma e dire al mondo arabo una volta per tutte cosa vuole e cosa non vuole”.
    Lo ha detto martedì re Abdullah di Giordania in un’intervista alla tv satellitare araba al-Arabiya.
    Nell’intervista, re Abudllah ha criticato aspramente l’Autorità Palestinese, dicendo che, a causa del modo in cui ha gestito la situazione, oggi Israele è disposto a offrire ai palestinesi solo il 50% dei territori conquistati nella guerra dei sei giorni (1967), mentre solo un paio di anni fa i palestinesi avrebbero potuto ottenere fino al 98%.
    “In passato – ha continuato il figlio di re Hussein – si discuteva di risarcimenti per i profughi palestinesi, mentre oggi si parla solo di un loro marginale ritorno. E non sappiamo come staranno le cose di qui a uno o due anni”.
    Secondo re Abdullah, la dirigenza palestinese deve chiarire la propria posizione “in modo tale da non prenderci alla sprovvista ogni volta con nuove decisioni e nuove proposte, un tempo tacciate di tradimento e oggi dipinte come un trionfo”.
    Nonostante le recenti difficoltà, il re di Giordania esprime la speranza che il processo di pace possa riprendere. “Oggi più che mai – conclude – la dirigenza palestinese deve cogliere l’occasione di fare la pace e correggere i propri errori, per i quali è sotto accusa davanti a tutto il mondo”.

(Ma’ariv, 3.08.04 - israele.net)





5. IL CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO ATTRAVERSO I NUMERI




di Dennis Prager

Numero di volte in cui Israele viene menzionato nel Vecchio Testamento: oltre 700 [in realtà Israele viene menzionato più di 2000 volte nel Vecchio Testamento, ndr]
Numero di volte in cui Gerusalemme viene menzionata nel Corano: nessuna.
Numero di leader arabi che hanno visitato Gerusalemme quando era sotto la potestà araba (dal 1948 al 1967): 1.
Rifugiati arabi scappati quando la terra è diventata israeliana: 600.000.
Ebrei rifugiati scappati dagli stati arabi: 600.000.
Agenzie dell'ONU che si occupano dei rifugiati palestinesi: 1.
Agenzie dell'ONU che si occupano dei rifugiati di tutti gli altri paesi del mondo: 1.
Stati ebraici esistiti sulla terra chiamata Palestina: 3.
Stati arabi o islamici esistiti sulla terra chiamata Palestina: 0.
Attacchi terroristici effettuati da Israeliani dal 1967 ad oggi: 1.
Attacchi terroristici effettuati da arabi o musulmani dal 1967: migliaia.
Percentuale di ebrei che hanno lodato l'attacco terrorista di matrice israeliana: 1%.
Percentuale di palestinesi che lodano i terroristi islamici: 90%.
Stati ebraici: 1.
Democrazie ebraiche: 1.
Stati arabi: 19.
Democrazie arabe: nessuna.
Donne arabe uccise annualmente da padri e fratelli per motivi di "onore": migliaia.
Donne ebraiche uccise da padri e fratelli per motivi di onore: nessuna.
Numero di culti ebraici o cristiani permessi in Arabia Saudita: nessuno.
Numero di culti islamici permessi in Israele: illimitati.
Arabi a cui Israele permette di vivere in insediamenti arabi: 1.250.000.
Numero di ebrei a cui l'autorità palestinese permette di vivere in insediamenti ebraici: nessuno.
Sentenze dell'ONU che condannano un paese arabo per violazione dei diritti umani: nessuna.
Sentenze dell'ONU che condannano Israele per violazione dei diritti umani: 26.
Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU sul Medio Oriente dal 1948 al 1991: 148.
Numero di risoluzioni contro Israele: 97.
Numero di risoluzioni contro uno stato arabo: 4.
Numero di paesi arabi che sono stati membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: 16.
Numero di volte in cui Israele è stato membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: nessuna.
Numero di risoluzioni dell'Assemblea Generale dell'ONU che condannano Israele: 322.

prosegue ->
Numero di risoluzioni dell'Assemblea Generale dell'ONU che condannano uno stato arabo: nessuna.
Percentuale di votazioni delle Nazioni Unite in cui i paesi arabi hanno votato insieme agli Stati Uniti nel 2002: 16.6%.
Percentuale di votazioni alle Nazioni Unite in cui gli israeliani hanno votato insieme agli Stati Uniti nel 2002: 92.6%.
Percentuale di accademici,studiosi del Medio Oriente, che difendono il Sionismo ed Israele: 1%.
Percentuale di studiosi del Medio Oriente che credono nella diversità e nella multiculturalità nei campus universitari: 100%.
Percentuale di persone che credono che Israele non abbia il diritto di esistere, e che credono che anche qualche altro paese non abbia diritto di esistere: 0%.
Percentuale di persone che credono che, di tutti i paesi al mondo, solo Israele non abbia il diritto di esistere, e tuttavia negano di essere antiebraici: quasi il 100%.
Musulmani nel mondo: oltre un miliardo.
Dimostrazioni islamiche contro il terrorismo: circa 2.

(Townhall.com - da www.uncuoreper israele.net)





6. UNA LUNGA TRADIZIONE DI INTOLLERANZA ESTREMA





Il trionfo della commissione dell' 11 settembre

di Daniel Pipes

    Alla fine, un organo ufficiale del governo americano ha dichiarato apertamente quanto occorreva dire: che il nemico è "il terrorismo islamista e non solo il flagello del terrorismo nella sua accezione generica". La commissione di inchiesta sugli attentanti dell'11 settembre nel suo rapporto finale dichiara perfino che il terrorismo di stampo islamista rappresenta "la catastrofica minaccia" rivolta verso gli Stati Uniti.
    Come fa rilevare Thomas Donnelly, nelle pagine del New York Sun, la commissione ha chiamato il nemico "con il suo vero nome, qualcosa che gli americani politicamente corretti affrontano con difficoltà".
    Perché è importante specificare la dimensione islamista del terrorismo? Proprio come un medico deve riconoscere una malattia per poterla curare, così uno stratega deve dare un nome a un nemico per sconfiggerlo. Il grave difetto dello sforzo bellico prodotto dagli Stati Uniti a partire dal settembre del 2001 stava nella riluttanza a menzionare il nemico. La guerra non verrà vinta finché l'anodina, eufemistica e inappropriata espressione di "guerra contro il terrorismo" rimarrà la terminologia ufficiale.
    Sarebbe meglio definirla una "guerra contro il terrorismo islamista". O meglio ancora "una guerra all'islamismo", guardando al di là del terrorismo all'ideologia totalitaria che si trova dietro di esso.
    È un fatto significativo che il 22 luglio, lo stesso giorno in cui è stato pubblicato il rapporto dell'11 settembre, il presidente George W. Bush abbia utilizzato per la prima volta l'espressione "militanti islamici" in un discorso, avvicinandosi più che mai a indicare la minaccia islamista.
    Il rapporto della "Commissione nazionale sugli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti" presenta altri aspetti positivi. Esso offre un'accurata immagine dell'atteggiamento islamista, ritraendolo come "ostile a oltranza nei nostri confronti e verso i nostri valori". Efficace altresì la descrizione dell'obiettivo islamista che consiste "nel liberare il mondo del pluralismo religioso e politico".
    Contrariamente agli analisti che si compiacciano a denigrare gli islamisti definendoli come un pugno di fanatici, la commissione dell'11 settembre riconosce la loro reale importanza, sottolineando che il messaggio di Osama bin Laden "ha suscitato il sostegno attivo da parte di migliaia di animosi giovani musulmani così come ha generato una risonante eco per un numero ancor più vasto di simpatizzanti che non appoggiano attivamente i suoi metodi". Le idee islamiste non rappresentano una deviazione dell'Islam come è stato spesso, ma erroneamente asserito, piuttosto esse scaturiscono da "una lunga tradizione di intolleranza estrema" in seno all'Islam, che risale ai secoli passati e che in epoca recente è associata al wahabismo, ai Fratelli Musulmani e allo scrittore egiziano Sayyid Qutb.
    Poi la commissione fa qualcosa che è quasi senza precedenti nell'ambiente governativo americano: essa offre un obiettivo per la guerra in corso: vale a dire l'isolamento o la distruzione dell'islamismo.
    E dopo quasi tre anni, come procede la guerra? La commissione fa un'accurata distinzione tra i due aspetti che presenta il nemico: tra "al-Qaeda, una rete apolide di terroristi" e "il movimento ideologico radicale nel mondo islamico". Essa ritiene a giusto titolo che la prima è indebolita, pur costituendo ancora "una grave minaccia". Eppure, il secondo è fonte di maggiore preoccupazione perché è ancora in via di formazione e "minaccerà gli americani e gli interessi statunitensi per molto tempo ancora dopo che Osama bin Laden e i suoi combattenti verranno uccisi o catturati". Pertanto, la strategia americana dovrà consistere nello smantellare la rete di al-Qaeda e dovrà avere la meglio "sull'ideologia che dà origine al terrorismo islamista". In altre parole, "gli Stati Uniti devono contribuire a vincere un'ideologia, e non solo un gruppo di persone".
    Fare ciò implica modificare il modo in cui i musulmani guardano a se stessi, qualcosa in cui Washington li può aiutare ma che non può realizzare direttamente: "La tolleranza, lo stato di diritto, l'apertura politica ed economica, l'estensione dei diritti alle donne, tutto ciò deve provenire dalle stesse società musulmane. Gli Stati Uniti devono appoggiare simili sviluppi".
    Naturalmente, una tale evoluzione "sarà violentemente contrastata dalle organizzazioni terroristiche islamiste" e questa battaglia sarà decisiva poiché il conflitto in corso non è uno scontro tra culture, ma si svolge "in seno a una civiltà" che è quella islamica. Per definizione, Washington è uno degli spettatori di questa battaglia. L'America "è in grado di promuovere la posizione moderata, ma non può assicurare la supremazia di quest'ultima . Solo i musulmani sono capaci di farlo".
    Il rapporto prosegue sottolineando che i musulmani moderati che aspirano alle riforme, alla libertà, alla democrazia e alle opportunità devono "riflettere sulle questioni fondamentali come il concetto di jihad, la posizione delle donne e lo status delle minoranze non musulmane", per poi sviluppare delle nuove interpretazioni islamiche di tali nozioni.
    La commissione dell'11 settembre ha adempiuto il suo mandato specificando il pericolo in corso. L'amministrazione Bush deve adesso trarre profitto dai suoi discernimenti e attuarli alla svelta.

(N ew York Sun, 27.07.2004 - Archivio di Daniel Pipes)





7. NON SI «SALE» IN ISRAELE PER FUGGIRE




L'alià positiva degli ebrei francesi

Il giornalista Patrick Saint-Paul, corrispondente da Gerusalemme del quotidiano francese "Le Figaro", sul numero del 20 luglio scorso ha scritto un articolo sull'immigrazione in Israele degli ebrei francesi. Ne riportiamo qui ampi stralci.


Questa estate, come ogni anno, diverse centinaia di ebrei di Francia faranno la loro alià, la "salita a Israele". Alcuni lasceranno la Francia perché non sopportano più il clima che vi regna, altri realizzeranno il loro sogno di venire a vivere sulla "terra promessa". Ma secondo i responsabili dell'immigrazione israeliana, l'appello lanciato da Ariel Sharon a tutti gli ebrei di Francia, colpiti secondo lui da un "antisemitismo dei più selvaggi", a venire a stabilirsi "immediatamente" in Israele, non provocherà un significativo innalzamento delle alià francesi.
"Nella maggior parte dei casi, l'alià non è motivata dall'antisemitismo, ma da ragioni positive", spiega Michael Jankelovitz, portavoce dell'Agenzia Ebraica in Israele. "Installandosi in Israele, gli ebrei effettuano un ritorno sulla loro terra dopo 2000 anni di esilio." Léo Rosenblum, presidente dell'Unifan, un organismo incaricato di agevolare l'integrazione degli ebrei di Francia in Israele, denuncia "il selvaggio antisemitismo presente in Francia, che è negato dai media e dalla classe politica. L'antisemitismo in Francia ha come equivalente soltanto il nazismo." Ma ritiene altresì che la maggioranza degli ebrei francesi che scelgono di vivere in Israele fanno questa scelta "per delle ragioni positive".
    [...]
    Dal tempo della sua creazione, lo Stato ebraico cerca di attirare la diaspora ebraica. Israele ha messo in atto incentivi finanziari e fiscali per attirarla sulla "terra promessa" e delle strutture per facilitarne l'integrazione. A Ulpan Etzion, uno dei più numerosi centri d'integrazione per celibi situato a Gerusalemme, una quindicina di giovani emigranti francesi sono arrivati la settimaa scorsa. Passeranno lì cinque mesi a spese dell'Agenzia Ebraica per imparare l'ebraico e seguiranno diversi corsi per agevolare la loro integrazione. Tutti affermano di voler restare in Israele al termine dei cinque mesi. Alcuni di loro dicono di essere stati motivati dall'antisemitismo in Francia.
    "L'antisemitismo, oggi lo si sente di più. Ma Israele, se ne sente parlare da sempre, è un sogno", afferma Alessandro, che ha lasciato il suo lavoro di ottico a Parigi per stabilirsi in Israele. Alessandro, che non porta la kippà e dice di non essere particolarmente religioso, dice di aver preso la decisione di fare la sua alià sei anni fa, prima dello scoppio della seconda intifada e la conseguente moltiplicazione delle aggressioni contro gli ebrei che si è avuta in Francia. Afferma di non avere "alcuna ostilità" verso la Francia. "Ho scelto di diventare israeliano per ideale sionista, ma resto anche francese", dichiara.
    Alessandro ha preso la decisione di fare la sua alià dopo un viaggio di ricognizione in Israele con i suoi genitori e diversi soggiorni umanitari, e dopo un periodo di volontariato nell'esercito. Spera di potersi stabilire a Tel Aviv, una città "cosmopolita e culla dell'ideale sionista". Avendo 24 anni, dovrà fare tre mesi di servizio militare. Ma questo per lui non è un problema. "Forse imparerò un nuovo mestiere", dice con ottimismo. "In Francia non c'è più patriottismo, non si ha voglia di fare il militare. Qui si ha voglia di difendere la patria."
    Deborah, che ha lasciato Créteil giovedì scorso, afferma che l'antisemitismo avrebbe piuttosto spinto a rimanere in Francia per 'battersi". "Siamo già abbastanza fuggiti", dice. "Israele non deve essere un rifugio. Io sono venuta qui per far avanzare Israele." Senza una professione, questa ragazza di una ventina d'anni conta di cominciare gli studi in Israele. Lo Stato finanzierà tre anni all'Università.
    Cyril dice di sentirsi più a suo agio da quando è arrivato in Israele una settimana fa. "Qui uno può portare la sua kippà senza subire sguardi malevoli o insulti", afferma. Questo giovane diplomato in elettronica sostiene che la sua decisione non è stata motivata dall'antisemitismo, ma che questo ha contribuito alla sua scelta. "C'è un'impotenza dei poteri pubblici davanti alle aggressioni, un'assenza di reazione della popolazione", dice. "Si vede rinascere dei clichés che si credeva fossero scomparsi dalla fine degli anni quaranta. E molti dicono che anche se si deve vivere con l'insicurezza legata al conflitto, in Israele tuttavia ci si sente meglio."

(estratto da Le Figaro, 20.07.2004)





8. MUSICA E IMMAGINI




Michtav Katan




9. INDIRIZZI INTERNET




Israel News from Jerusalem Newswire

Bridges For Peace




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