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Notizie su Israele 272 - 22 dicembre 2004

1. Antisionismo radicale, ovvero antisemitismo per procura
2. Intervista a Elie Wiesel sull'antisemitismo
3. Abu Mazen: «Realizzeremo il sogno di Arafat»
4. Quando gli ebrei lasceranno la striscia di Gaza
5. I coloni pronti alla disobbedienza contro il ritiro da Gaza
6. Sarà il Sismi ad addestrare gli agenti palestinesi
7. Ancora soldi internazionali ai palestinesi
8. Libri: «Autoemancipazione»
9. Musica e immagini
10. Indirizzi internet
Osea 3:4-5. I figli d’Israele staranno per molti giorni senza re, senza capo, senza sacrificio e senza statua, senza efod e senza idoli domestici. Poi i figli d’Israele torneranno a cercare il Signore, loro Dio, e Davide, loro re, e ricorreranno tremanti al Signore e alla sua bontà, negli ultimi giorni.”
1. ANTISIONISMO RADICALE, OVVERO ANTISEMITISMO PER PROCURA




Estratti da un rapporto rimesso al Ministro degli Interni francese da Jean-Christophe Rufin il 19 ottobre 2004, avente come titolo "Chantier sur la lutte contre le racisme e l'antisémitisme".


Estratti dall'introduzione generale al rapporto

Il dispositivo di lotta contro il razzismo e l'antisemitismo non mira soltanto a difendere questa o quella categoria della popolazione, e ancor meno a favorirla rispetto alle altre. Mira a difendere il sistema politico democratico, il solo capace di proteggere ugualmente tutti i cittadini.
    La lotta contro il razzismo e l'antisemitismo non solo non avviene in deroga alle libertà pubbliche, ma anzi deve rispettarle strettamente. La legge distingue oggi ciò che è opinione - la cui libera espressione è protetta - da ciò che è incitamento all'odio razziale, negazione di crimini contro l'umanità, ecc., considerato come delitto e represso.
    La repressione in materia di violenze antisemite e razziste deve arrivare a punire gli individui. Tuttavia, in questo modo si tratta essenzialmente di impedire la costituzione di ideologie strutturate, di reti organizzate, di forze a carattere politico che costituiscano pericolo per la Repubblica.
    
    
Estratti dall'introduzione al capitolo consacrato alla lotta contro l'antisemitismo

La recrudescenza degli atti a carattere antisemita nel corso degli ultimi anni è un fatto incontestabile. Le minacce e le violenze esercitate contro dei francesi ebrei costituiscono un fatto sociale evidente, nuovo ed estremamente preoccupante. Ogni tentativo di "relativizzare" questo fatto o di equilibrarlo paragonandolo con atti violenti o discriminatori che colpiscono altre comunità è del tutto inaccettabile.
    L'aggravamento brutale delle minacce contro degli ebrei in Francia, l'inquietudine, quasi la paura che ne risulta, sono fenomeni di cui bisogna riconoscere in sé l'esistenza, la gravità, e ai quali bisogna dare una risposta.
    

I fattori dell'antisemitismo: tre livelli di responsabilità

- quello degli autori delle violenze. Si parlerà a questo proposito di antisemitismo come pulsione;
- quello dei manipolatori: ideologi, organizzazioni politiche o terroristiche: l'antisemitismo come strategia;
- quello degli aiutanti, che con le loro opinioni - o il loro silenzio - legittimano il passaggio all'azione, ma guardandosi bene dal partecipare agli atti. E' quello che si può chiamare l'antisemitismo per procura.


Estratti dal passaggio dedicato alla terza categoria («Gli aiutanti: l'antisemitismo per procura»), che è stata l'oggetto dei principali attacchi contro il rapporto.

    Tra tutte le forme, sottili, di antisemitismo per procura, ce n'è una che deve essere particolarmente sottolineata perché emerge da qualche anno in forma di discorso dominante: è l'antisionismo radicale.
    Questo antisionismo riveste differenti forme d'espressione che servono da schermo le une per le altre e contribuiscono a banalizzarlo. Senza entrare in un'analisi dettagliata di queste correnti, notiamo che, nell'essenziale, questo antisionismo moderno è nato al punto di confluenza di lotte anti-coloniali, anti-mondializzazione, anti-razziste, terzo-mondiste e ecologiste. E' fortemente rappresentato nell'ambito di un'area di estrema sinistra, anti-globalista e verde. In questa rappresentazione del mondo, Israele, assimilato agli Stati Uniti e alla mondializzazione liberale, è presentato come uno stato coloniale e razzista che opprime senza motivo un popolo innocente del terzo mondo. La conferenza di Durban, sotto l'egida delle Nazioni Unite, che si è tenuta tre giorni prima dell'11 settembre 2001, ha dato luogo alla più violenta messa in scena di questo antisionismo antirazzista.
    Tuttavia, non prende sempre questa forma estremista. Mettendo l'accento sulla denuncia della «politica di Sharon» e richiamandosi a certe voci di ebrei dissidenti, si assicura delle garanzie di rispettabilità e vuol far intendere che non è assimilabile a un antisemitismo.
    Tuttavia, non appena si entra un po' nel dettaglio si scopre facilmente che questo antisionismo non è la semplice critica congiunturale di una politica, ma una rimessa in discussione dei fondamenti stessi dello Stato d'Israele. Dopo il lancio dell'intifada Al-Aqsa da parte di Yasser Arafat, il discorso in effetti è regredito. Mentre gli accordi di Oslo stabiliscono chiaramente il riconoscimento di tutti del diritto all'esistenza e alla sicurezza d'Israele, la nuova tematica del «diritto al ritorno» dei profughi palestinesi rimette in questione la sopravvivenza stessa di uno Stato dove gli ebrei del mondo intero possano trovare sicurezza.
    Legittimando la lotta armata dei palestinesi in qualsiasi forma, anche quando colpisce civili innocenti, l'antisionismo propone una lettura radicale dell'attualità che si presta a legittimare le azioni violente commesse anche nella stessa Francia. L'antisionismo in effetti si collega a delle tematiche a cui i giovani sono sensibili: l'avvenire della mondializzazione, i rischi ecologici, la povertà crescente del terzo mondo. Quando i militanti di qui [Francia] passano a operazioni di sostegno alla direzione di Fatah laggiù, il meccanismo di identificazione con la causa palestinese dei giovani diseredati va al massimo dei giri, tanto più che essi sono di origine araba e/o di confessione musulmana. L'intervento dei pensatori «islamisti moderati», il cui discorso resta ambiguo, completa questa identificazione e la estende. Dietro le critiche violente che assimilano il sionismo al nazismo si può udire, come un'eco sublimale, la voce nascosta ma ben riconoscibile dei terroristi islamici che allargano la lotta e affermano «che bisogna attaccare gli ebrei ovunque si trovino».
    In questo modo arriva a costituirsi uno dei meccanismi più temibili dei nostri giorni, che fa di un antisionismo in apparenza politico e antirazzista uno dei fattori che facilitano il passaggio all'azione, uno degli strumenti dell'antisemitismo per procura.
    Questo è il paradosso del tempo presente: mentre la lotta contro l'antisemitismo «classico» è stata in gran parte coronata da successo, la minaccia riappare sotto una forma nuova. L'atteggiamento da adottare di fronte a questo antisemitismo è difficile da determinare, e gli ebrei sono senza dubbio i meno ben piazzati per agire.
    E' stato sottolineato molte volte che non si dovevano né si potevano assimilare gli ebrei di Francia a Israele. Il sospetto di doppia fedeltà è uno dei temi classici dell'antisemitismo. Molti ebrei francesi si sentono a disagio quando bisogna pronunciarsi su Israele. Tanto più che spesso sono divisi tra loro riguardo al giudizio da dare sulla politica del suo governo. Mentre l'antisemitismo li immobilizza, l'antisionismo li prende alla sprovvista, perché gioca sul carattere complesso, intimo e per certi riguardi paradossale del legame tra Israele e gli ebrei di Francia. Come scrive Sylvain Attal: «Quale che sia il loro attaccamento a Israele, gli ebrei francesi sono repubblicani. Provenienti talvolta da un altro paese, hanno scelto di vivere in Francia e in maggior parte di restarvi. Ma oggi per gli ebrei la prospettiva di un mondo senza lo Stato d'Israele è semplicemente insopportabile».
    L'antisionismo radicale rinserra gli ebrei in una trappola terribile: li addita alla vendetta di quelli che si identificano con le vittime dello Stato d'Israele. Così facendo crea tra loro e Israele un legame che essi non possono né riconoscere del tutto (perché si sentono diversi) né smentire (perché bene o male questo legame esiste all'interno di un complesso insieme di attaccamenti e lealtà).
    Sarebbe una grande vigliaccheria lasciare la comunità ebraica dibattersi da sola in queste sabbie mobili. Se si considera che l'antisemitismo ha indietreggiato grazie al diritto (in particolare la legge del 1972), bisogna tentare di applicare lo stesso metodo alla nuova giudeofobia, e tocca alle autorità politiche prendere l'iniziativa. [...]
    In conclusione, aggiungerò alcune osservazioni che escono dal quadro di questo rapporto, ma mi sembra che possano completarlo. Oggi non si può pensare di riuscire a lottare efficacemente in Francia contro l'antisemitismo nelle sue nuove forme senza fare ogni sforzo per riequilibrare la valutazione dell'opinione pubblica sulla situazione in Medio Oriente. Dalla «rottura» del 1967, l'immagine dello Stato d'Israele non ha cessato di andare alla deriva, al punto da produrre una vera insensibilità nei suoi confronti. Civili israeliani bombardati dai razzi, ragazzi uccisi nei bus dai kamikaze a quanto sembra non commuovono nessuno, mentre la repressione organizzata dello Stato ebraico suscita, a giusto titolo, emozione quando colpisce degli innocenti. Molti fattori concorrono a questa asimmetria. Le carenze del diritto internazionale umanitario, innanzi tutto, che condanna energicamente le violenze quando sono commesse dagli Stati, ma non costringe i movimenti di liberazione o di resistenza a rendere alcun conto dei metodi che usano. Comprendere le sofferenze sopportate da una parte e dall'altra non vuol dire scusare o tollerare, ma soltanto restituire un po' dell'aspetto tragico di questa situazione e allontanarsi dalla caricatura che spesso ne è fatta.
    
(UPJF, 25 novembre 2004)





2. INTERVISTA A ELIE WIESEL SULL'ANTISEMITISMO




Per Wiesel dall'opposizione a Israele all'antisemitismo
il passo è breve


di Marina Valensise


NEW YORK. Elie Wiesel è un uomo minuto, mingherlino, dà però certe strette di mano vigorose, con quel palmo largo, liscio, energico. Quando gli dici che è una leggenda vivente – sopravvissuto ad Auschwitz e alla Shoah, presidente del Consiglio degli Stati Uniti per il Memoriale dell’Olocausto, Nobel per la pace nel 1986, fondatore della Foundation for Humanity, testimone degli orrori del XX secolo e difensore infaticabile delle vittime di violenze e persecuzioni politiche – si schermisce guardandoti dal fondo dei suoi occhi tristi da rabbino della Transilvania, e risponde di no, che non è vero, lui per sé non è affatto una leggenda.
    Eccoci qui nel suo studiolo traboccante di libri, al 14° piano della Carlton Tower, nella 64a Strada, Upper East Side. Wiesel, in maniche di camicia con cravatta allentata, indica perentorio il divano su cui sedersi, mentre lui per sé sceglie una sedia, in postazione dominante. Se gli domandi di spiegarti come fa un sopravvissuto all’Olocausto a reggere l’odio nuovo che corre per il mondo e affligge l’occidente, ti guarda fisso. Comincia a scegliere le parole mettendo fra l’una e l’altra lunghe pause, e le scandisce lentamente nel suo americano da rumeno emigrato: “No, l’odio non è nuovo. E’ vecchio quanto il mondo, a volte però raggiunge livelli di guardia per la sua crudeltà, per la brutalità, per gli effetti omicidi che raggiungono certi eventi apocalittici”. Ma quando insisti per capire come risponde all’onda nuova di odio venuto dall’islam, Wiesel ammette: “La nuova ondata ha provocato in me più stupore di altre. Perché? Perché dopo la guerra ero convinto che antisemitismo e razzismo, odio etnico e religioso fossero morti ad Auschwitz. E invece mi sbagliavo. Solo le vittime erano morte. L’odio che le ha uccise è ancora vivo”. E aggiunge: “Dico stupore, perché allora ingenuamente pensavo che non avrei mai dovuto combattere in questo mondo. Ma dall’11 settembre dobbiamo combattere tutti”. Wiesel viene da una famiglia di Hassidim della Transilvania.
    E’ cresciuto leggendo i libri del Pentateuco e studiando il Talmud. Quando i nazisti arrivarono a Sighet e lo deportarono ad Auschwitz con la sua famiglia era un ragazzo di 15 anni. La madre e la sorella più piccola morirono subito. Le due sorelle maggiori sopravvissero. Elie e il padre furono portati a Buchenwald, dove il padre morì nell’aprile 1945 pochi giorni prima della liberazione, e il figlio riuscì a sopravvivere ai lavori forzati, alle marce nel gelo, alle fame, alle botte, alle torture. Dal 1945 al 1956 Elie Wiesel ha vissuto in Francia, e della giovinezza francese ha conservato la lingua che coltiva a distanza di anni come un tesoro, leggendo i romanzi americani solo in traduzione francese, e pubblicando i suoi libri in Francia prima che in America.
    Ha appena pubblicato un nuovo romanzo “Les temps de déracinés”, mentre sta per finire il terzo volume dell’autobiografia, “Mes maîtres et mes amis”. Non si fa illusioni: “La letteratura da qualche decennio attraversa un periodo meno privilegiato di altri. Chi è il nuovo Dostoevskij?Il nuovo Dante? Il nuovo Vittorini? Il nuovo Thomas Mann? Mancano oggi grandi scrittori che affrontino grandi temi per descrivere il presente. Peccato. Io penso che la storia abbia scelto di investire il suo genio e il suo talento altrove, non nella letteratura o nella filosofia, ma nella scienza e nella tecnologia”. Pure se la tecnologia porta all’autodistruzione? “E’ la spada biblica all’ingresso del paradiso. Noi creiamo gli strumenti per guarire dalla malattia, e giustificare la vita, e se non facciamo attenzione li trasformiamo in strumenti di morte. Ma alla fine la scelta è solo nostra”.
    Parla di scelta Wiesel come un americano nato, mentre lo è diventato solo da adulto, e da allora conserva intatta la devozione al civismo. “Sono arrivato in America come apolide, da Parigi. Il primo passaporto che ho avuto è stato americano, per questo motivo nutro sentimenti particolari verso tutti gli emigrati accolti da questa terra. Ricordo ancora il tempo in cui le porte d’ingresso erano chiuse per le migliaia di persone, donne, bambini, la maggior parte ebrei, che non riuscivano ad avere un futuro. Ricordo ancora la Saint Louis, la nave sulla quale nel 1939 s’imbarcarano più di mille profughi dalla Germania, che vennero rispediti indietro senza poter attraccare alle coste americane. E nonostante tutto, oggi che commemoriamo il 350° anniversario del primo sbarco di ebrei, sono convinto che il rifugio americano sia molto più ospitale”.
    Un profugo illustre come Wiesel dunque non può che trovare assurdo l’antiamericanismo dilagante. “Chi odia l’America odia anche Israele. E’ strano che un grande paese e un piccolo paese nutrano la stessa avversione. Il perché lei dovrebbe conoscerlo meglio di me, visto che vive in Europa. A volte è un problema politico. Altre volte è un problema di orgoglio nazionale. In certi circoli intellettuali di sinistra fa bene opporsi all’America e denunciare Israele. Ma tutto questo pone un problema di formazione. L’antisemitismo è una piaga che se non si ferma in tempo può invadere pericolosamente altre aree, colpire i sogni di altra gente E se l’opposizione a Israele si fa estrema, si ricade nell’antisemitismo”.
    Per essere uno che porta scritte in faccia le ferite del passato, Wiesel troverà scandaloso il paragone tra lo Stato ebraico e lo Stato nazista, che corre fra gli estremisti d’Europa. “Non hanno idea di cosa fossero Hitler e il nazismo. Quel paragone hanno iniziato a farlo i comunisti sovietici, alla fine degli anni 50, quando l’Izvestija paragonava Moshe Dayan a Eichmann. Ma se Dayan era Eichmann, Eichmann non poteva essere Dayan. Tra i due c’era la differenza di sei milioni di morti. Quando leggo oggi che Israele sarebbe uno Stato nazista, e Sharon un nuovo Hitler, a colpirmi personalmente e profondamente è non solo l’ingiustizia, ma l’ignoranza che il paragone contiene”. Wiesel non vuole polemizzare con chi vi indulge, ma lancia un giudizio severo. “Gli intellettuali, anche quando mostrano cosa li oppone ad altri, dovrebbero continuare a creare ponti, siano essi dialoghi o monologhi, il che significa usare le parole, non la guerra. Gli intellettuali della sinistra europea invece mettono un tale zelo nella denuncia di Israele, che a volte mi domando se si rendano conto di avere di fronte un popolo dalla memoria ferita e mutilata”.
    Si sarebbe mai aspettato di dover combattere contro l’islam? “No. Islam e giudaismo hanno convissuto per secoli in armonia. A volte certo ci sono stati pogrom e catastrofi, ma l’islam nel Medioevo era solito proteggere gli ebrei dalle persecuzioni cristiane. Ora, invece, è diventata una minaccia sia per Israele, sia per le democrazie nel mondo, e non solo in America. Il terrorismo suicida trascende i confini geografici delle affinità religiose. E in realtà minaccia lo stesso mondo islamico, come dimostrano gli attentati in Marocco, in Indonesia, in Spagna e in altri paesi”.
    Quanto all’angoscia di un nemico invisibile, contro il quale non può valere alcun deterrente, Wiesel cerca di aggirarla con una proposta: “Il suicidio per molti musulmani è l’arma assoluta. Il culto della morte è un fenomeno pericoloso. Ma un terrorista suicida vuole morire per uccidere il maggior numero di persone. E’ per questo che ho proposto di considerare il terrorismo un crimine contro l’umanità. Non che questo fermi la mano dei terroristi suicidi. Ma può servire a fermare i loro complici. Perché su chi compie un crimine contro l’umanità non c’è limitazione statale, e c’è l’obbligo da parte di tutti i paesi membri dell’Onu di estradarli e di portarli davanti a un tribunale internazionale”.
    Congedandoci Wiesel mostra grande saggezza talmudica: “Quando sono pessimista divento ottimista e viceversa. Ma resto un insegnante, e non ho il diritto di dare ai miei studenti ragione di disperare, perciò devo invocare la speranza, che non è un'arma, ma un’arte di ispirare alla gente l’idea di futuro, di una vita comune, di un sogno condiviso dall’intera umanità”.

(Il Foglio, 15 dicembre 2004)





3. ABU MAZEN: «REALIZZEREMO IL SOGNO DI ARAFAT»




«Vogliamo Gerusalemme capitale della Palestina»

RAMALLAH - Alcune migliaia di palestinesi si sono riuniti oggi nel cortile della Muqata, il quartier generale dell'Anp a Ramallah, per rendere omaggio a Yasser Arafat, in occasione della fine del lutto islamico, a quaranta giorni dalla sua morte, avvenuta lo scorso 11 novembre. Presenti anche il premier Abu Ala e il leader dell'Olp, Abu Mazen che ha garantito il suo impegno per un accordo di pace con Israele: realizzeremo il sogno di Arafat - ha detto - vogliamo una Palestina indipendente, vogliamo Gerusalemme capitale.
    Abu Mazen è il grande favorito per le presidenziali del 9 gennaio, che stabiliranno il successore di Arafat. "Siamo qui oggi per ripetere al mondo che siamo impegnati nella scelta di una pace giusta e per ottenere i diritti del nostro popolo" ha dichiarato l'ex premier. In riferimento ad Arafat, il leader dell'Olp ha dichiarato: "Continueremo la lotta per realizzare il vostro sogno e il nostro sogno: quello cioè di vedere un bambino palestinese innalzare una bandiera palestinese sulle mura di Gerusalemme, la capitale del nostro stato indipendente".
    Abu Mazen ha rivendicato così l'eredità politica di Arafat, che aveva usato le stesse parole in un comizio dell'estate scorsa. In quell'occasione, il rais aveva ammesso di aver fatto degli errori durante la sua guida dell'Anp e aveva promesso riforme ai vertici. Assicurando che "nessuno è al di sopra della legge", Abu Mazen ha affermato che i palestinesi stanno avanzando verso la democrazia. In un'intervista pubblicata dal Jerusalem Post proprio stamattina, il ministro degli Esteri israeliano, Silvan Shalom ha sottolineato le preoccupazioni del governo israeliano di fronte al sostegno che Abu Mazen ha riconosciuto alle posizioni di Arafat. "Siamo desolati" ha commentato il responsabile della diplomazia israeliana, le prime dichiarazioni di Abu Mazen sono state che preserverà l'eredità di Arafat. Secondo noi, questa eredità è il terrorismo".
    
(Il Resto del Carlino, 21 dicembre 2004)





4. QUANDO GLI EBREI LASCERANNO LA STRISCIA DI GAZA




L’Aurorità Palestinese preferirebbe che Israele
demolisse le case sgomberate a Gaza



di Dan Gerstenfeld e Khaled Abu Toameh


L’Autorità Palestinese vorrebbe che Israele demolisse tutte le case negli insediamenti del blocco Gush Katif (striscia di Gaza) prima che la zona venga ceduta ai palestinesi. Lo ha detto domenica un’autorevole fonte internazionale al Jerusalem Post. Lunedì il ministro palestinese per la casa Abdel Rahman Hamad ha confermato la circostanza.
    La fonte internazionale, personalmente coinvolta nei negoziati fra Israele e Autorità Palestinese, ha spiegato che i palestinesi sono interessati prima di tutto a ottenere le terre di Gush Katif e vorrebbero ricevere l’area sgombra da qualunque edificio. “Entrambe le parti desiderano demolire le case – dice la fonte – Gli israeliani stanno solo aspettando che i palestinesi dichiarino di volerlo anche loro”. Ma, per ragioni interne, l’Autorità Palestinese non sa se rendere pubblica la cosa.
    Interpellato, il ministro palestinese Hamad ha confermato che l’Autorità Palestinese vorrebbe vedere rimosse le case e che intende dichiarare la terra sgomberata “proprietà statale” destinata ad uso pubblico, per evitare che bande e “signorotti” locali vi mettano sopra le mani.
    Si ritiene che Israele preferisca demolire gli edifici per timore di vedere palestinesi, magari armati, celebrare l’ingresso nelle case abbandonate dai coloni come una vittoria militare e una sconfitta di Israele, con pesanti conseguenze sull’opinione pubblica. Israele ha già dichiarato che case e altri edifici delicati come le sinagoghe non verranno lasciati indietro.
    I 17 agglomerati di Gush Katif destinati allo sgombero coprono circa il 15-20% della terra di Gaza. Alla fine del 2003 ospitavano 7.245 ebrei in 1.500-2.000 abitazioni. Circa 32 kmq sono terra agricola, 160.000 mq sono occupati da edifici.
    I palestinesi sono preoccupati che il patrimonio degli insediamenti possa

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essere sequestrato da “signori della guerra” o potentati palestinesi e che nelle zone sgomberate dagli israeliani possano avere luogo occupazioni e saccheggi che metterebbero in imbarazzo le autorità palestinesi.
    “Spero che nelle prossime settimane si trovi un modo per sistemare questa delicata faccenda – conclude la fonte internazionale – Ma gli israeliani temono che i palestinesi eviteranno di richiedere pubblicamente la demolizione degli edifici e che Israele alla fine verrà come attaccato dalla comunità internazionale per il fatto di farlo”.

(Jerusalem Post, 20-21.12.2004 - israele.net) \





5. I COLONI PRONTI ALLA DISOBBEDIENZA CONTRO IL RITIRO DA GAZA




GERUSALEMME - I coloni ebrei sono pronti a lanciare una campagna di disobbedienza civile su vasta scala come estrema forma di protesta contro il piano che prende nome dal premier Ariel Sharon, e che prevede l'abbandono entro il 2005 di tutti i 21 insediamenti attualmente esistenti nella Striscia di Gaza, oltre agli avamposti militari, come pure di quattro nel nord della Cisgiordania: una misura che coinvolgera' nel complesso circa ottomila persone, e che in Israele ha suscitato veementi polemiche. Se sul piano politico queste ultime sono pero' state in qualche modo tenute sotto controllo, inducendo peraltro Sharon a chiedere agli oppositori laburisti di entrare in un nuovo governo di unita' nazionale che appoggi la discussa iniziativa, sotto il profilo sociale la rabbia dei coloni monta sempre di piu'. Se ne e' fatto interprete uno dei loro leader, Pinhas Wallerstein, il quale ha lanciato la proposta di intraprendere atti di resistenza attiva e passiva, dal barricarsi in casa al violare i posti di blocco dell'Esercito nelle zone interessate dal ritiro unilaterale, per esternare nel modo piu' clamoroso possibile il proprio dissenso nei confronti del piano Sharon: anche a costo di dover subire il carcere. In mattinata e' prevista una riunione dei vertici della 'Yesha', l'organizzazione dei coloni, per decidere se dare corso o meno al progetto di Wallerstein: il quale si e' detto comunque sicuro che esso sara' approvato senza problemi.

(AGI/AFP, 20 dicembre 2004)

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TEL AVIV - "Le parole di Wallertsein sono gravi". "Ma la legge deve essere rispettata". Così il premier Ariel Sharon ha reagito alla lettera aperta pubblicata la scorsa notte da un dirigente del movimento dei coloni, Pinchas Wallerstein, nella quale si minaccia una vasta campagna di disobbedienza civile per impedire il ritiro di Israele da Gaza.
    Wallertsein, che guida i coloni ebrei residenti nella zona di Ramallah (Cisgiordania), ha accusato Sharon di essere ricorso a "sistemi stalinisti" per portare avanti l'iter parlamentare della legge sul ritiro da Gaza, una legge che egli definisce "immorale, disumana e criminale" in quanto prevede lo sgombero forzato di ottomila coloni. Il nuovo governo in fase di composizione fra laburisti e Likud Ë "illegittimo" agli occhi dei coloni ebrei.
    Wallerstein aggiunge di essere pronto ad andare in carcere pur di impedire la realizzazione dello sgombero e sollecita il movimento dei coloni ad assumere formalmente la medesima posizione.

(ticin@nline, 20 dicembre 2004)

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Protesta shock dei coloni israeliani: torna sui vestiti la stella di Davide

"Da giovani abbiamo spesso chiesto ai nostri genitori perchè non si fossero ribellati, perché gli ebrei fossero andati mansueti come mandrie al macello. Adesso le parti si sono invertite e sono proprio i nostri anziani che ci chiedono come mai i coloni di Gaza accettino di essere colpiti quotidianamente dai razzi palestinesi e poi sgomberati dalle loro case, e come tutto ciò non li induca a protestare".
    Con queste parole uno dei rappresentanti dei coloni israeliani che risiedono nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, che entro pochi mesi saranno sfrattati dalle loro case in ossequio al piano di ritiro voluto dal primo ministro Ariel Sharon, ha annunciato una nuova clamorosa protesta.
    Gli ebrei torneranno ad indossare sui vestiti la Stella di Davide che il regime tedesco degli anni '30 aveva loro imposto.
Insomma, il Governo di unità nazionale come quello nazista, il primo ministro Ariel Sharon come Adolf Hitler.
    Pochi giorni fa uno dei leader del Consiglio delle località ebraiche di Cisgiordania e Gaza aveva avvertito l'Esecutivo che i coloni sono pronti a mettere in atto la "disobbedienza civile".
    "Bisogna far capire al governo che siamo pronti a pagare il prezzo della nostra resistenza non violenta, anche se ciò dovesse costarci il carcere - aveva spiegato uno dei sostenitori della protesta - il governo dovrà costruire migliaia di prigioni per tenerci in galera".
    
(Cento Movimenti News, 21 dicembre 2004)





6. SARÀ IL SISMI AD ADDESTRARE GLI AGENTI PALESTINESI




A Gaza e Ramallah la sicurezza parla italiano
    

di  Pino Buongiorno


Tramontata l'era di Arafat, primo obiettivo della dirigenza dell'Autorità Nazionale Palestinese è il riordino degli apparati di intelligence per disarmare le milizie. Con un aiuto decisivo da Londra e da Roma per equipaggiamenti e tecniche.
    

 
Il modello è quello già sperimentato positivamente in Afghanistan e in Iraq. Con il beneplacito dell'amministrazione americana, Gran Bretagna e Italia sono in prima linea per ricostituire le forze di sicurezza dei due paesi martoriati. Ora tocca al terzo: la nascente Palestina. Da Washington, a fine novembre, è arrivata ancora una volta la calorosa benedizione della Casa Bianca. Il governo israeliano non ha opposto obiezioni.
    Nel viaggio a Ramallah, a Betlemme e a Gerusalemme, previsto da lunedì 20 a mercoledì 22 dicembre, su invito del suo omologo palestinese, Nabil Shaat, il neo-ministro degli Esteri Gianfranco Fini sancirà un nuovo patto di collaborazione fra i servizi di polizia e di intelligence italiani e quelli palestinesi. Ancor prima del piano Marshall, auspicato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, sarà la sicurezza a segnare la svolta nei rapporti fra il governo di Roma e quello di Ramallah, dopo il grande gelo dell'ultima violentissima intifada ordinata e diretta da Yasser Arafat. «Questa rinnovata intesa italo-palestinese non può che riempirci di gioia» ha detto a Panorama Nemer Hammad, lo storico rappresentante dell'Autorità nazionale a Roma. «L'Italia ritrova il suo ruolo naturale in Medio Oriente, dove ha un patrimonio storico da preservare per la pace. Inoltre i governi italiani sono stati sempre eccellenti mediatori nell'area e hanno saputo dare consigli preziosi soprattutto agli Usa».
    Quando ad Abu Mazen, il candidato favorito alle elezioni del 9 gennaio per la presidenza dell'Autorità nazionale palestinese, i leader europei e arabi chiedono quali siano le priorità della sua futura azione politica, la risposta è immediata: «Sicurezza, sicurezza, sicurezza».
Che cosa significhi è presto detto: soldi e formazione degli ufficiali per rimediare all'azzeramento delle infrastrutture di polizia e d'intelligence a seguito dell'occupazione militare dei Territori da parte dell'esercito israeliano. Mercoledì 8 dicembre, in un incontro in Norvegia degli stati donatori (Usa, Ue e Giappone), più Israele e la Banca mondiale, l'inviato dell'Autorità nazionale palestinese Majida al-Khalidi ha quantificato la somma necessaria per ricostruire la nuova forza di polizia: 400 milioni di dollari. La metà dovrebbe essere a disposizione già nel 2005. Il contributo dell'Italia non è stato ancora stabilito, ma dovrebbe aggirarsi intorno a 10 milioni di dollari.
    L'Autorità nazionale ha in programma di reclutare un'unità speciale, composta da 750 uomini. «Avranno compiti difficilissimi, dal momento che dovranno disarmare le milizie che sono abituate a portare le armi nelle città e nei villaggi della Palestina» ha spiegato al-Khalidi.
Già da alcuni anni la Gran Bretagna è all'avanguardia fra i paesi Ue sia nell'addestramento sia nell'equipaggiamento dei servizi di sicurezza palestinesi. Prima nella Striscia di Gaza e più recentemente anche in Cisgiordania, la polizia inglese e i funzionari dell'Mi6, l'intelligence britannica che opera all'estero, hanno finanziato e allestito due centri di controllo ad altissima tecnologia, che sono diventati operativi da pochi mesi.
    Nel corso della visita a Ramallah dello scorso 24 novembre il ministro degli Esteri Jack Straw, oltre a mettere a punto una conferenza internazionale fra palestinesi e israeliani, che dovrebbe tenersi a Londra in febbraio, ha promesso ulteriori stanziamenti se i successori di Arafat si impegneranno concretamente (non più solo a parole) a riunire i diversi corpi armati sotto un comando unificato. Questo, fra l'altro, è uno dei principali obiettivi della cosiddetta road map.
Oggi l'apparato di sicurezza dell'Autorità nazionale è un rompicapo, con 12 agenzie diverse. È stato voluto così da Arafat per poter controllare e manovrare i vari capi e capetti secondo i suoi capricci e le sue convenienze. Ci sono le varie forze di sicurezza preventive, c'è il Mukhabarat, ci sono la guardia presidenziale e quella civile, perfino una fantomatica polizia costiera. Gli accordi di Oslo prevedevano 30 mila agenti palestinesi, oggi sono 40 mila.
Abu Mazen e il primo ministro Abu Ala si sono dati come prima missione quella di mettere finalmente ordine in questo delicato settore dal quale dipende la nascita dello stato palestinese entro il 2008. Lo hanno giurato a Colin Powell, e a Tony Blair, al presidente egiziano Hosni Mubarak e al re di Giordania Abdallah II. Tutti hanno preso atto della rinnovata assicurazione e hanno deciso di «sporcarsi le mani», come ha detto, con espressione cruda, ma efficace, il sovrano hashemita al presidente George W. Bush.
    Ora entra in gioco l'Italia, che opererà a stretto contatto con il governo inglese. Gli ufficiali dell'Mi6 e del Sismi hanno cominciato a dividersi il lavoro facendo base nei centri operativi interforze di Gaza e Ramallah. È nota la proficua cooperazione fra servizi segreti italiani e palestinesi sin dai tempi del colonnello Stefano Giovannone, accreditato negli anni Settanta a Beirut da Aldo Moro presso la leadership palestinese dell'epoca.
Per l'addestramento della nuova forza di polizia alle dipendenze del ministro dell'Interno Hakam Balani, le autorità palestinesi vorrebbero stringere un doppio accordo con l'Italia. Da un lato, alcuni funzionari di polizia e agenti segreti di Gaza e della Cisgiordania dovrebbero seguire corsi semestrali nelle accademie militari italiane e nei centri del Sismi in Sardegna. È già successo nel 1998-99 quando 26 ufficiali vennero in Italia per un periodo di formazione.
Dall'altra, una decina di istruttori delle forze speciali (Tuscania, Folgore, Comsubin, San Marco e Col Moschin) dovrebbero recarsi già in gennaio nei Territori per organizzare le nuove caserme e avviare le prime esercitazioni per il controllo delle aree urbane.

(Panorama, 17 dicembre 2004)





7. ANCORA SOLDI INTERNAZIONALI AI PALESTINESI




I palestinesi non meritano un ulteriore aiuto

di Daniel Pipes

    
Yasser Arafat è morto un mese fa. A un mese dalla sua morte si parla di concedere ai palestinesi aiuti finanziari esteri che vanno da 500 milioni a 1 miliardo di dollari l'anno.
    
Questa notizia in esclusiva è stata pubblicata da Steven R. Weisman nell'edizione del New York Times del 17 dicembre scorso. Egli ha rivelato che i governi occidentali, arabi e altri ancora intendono aggiungere un bonus del 50-100% al miliardo di dollari l'anno che già inviano ai 3,5 milioni di palestinesi che vivono nei Territori, a condizione che vi sia un inasprimento delle pene nei confronti dei gruppi terroristici e che nel gennaio 2005 si tengano delle elezioni attendibili.
    (Interpellato sulla veridicità delle affermazioni di Weisman, il portavoce della Casa Bianca Scott McClellan non ha confermato né ha smentito la notizia. Ma il presidente Bush ha rilasciato in seguito alcune dichiarazioni estremamente ambiziose riguardo al conflitto israelo-palestinese: "Sono convinto che, nel corso del mio mandato, riuscirò a stabilire la pace" e ancora: "Il prossimo anno sarà molto importante, visto che la pace sarà ristabilita".)
    In materia di aiuti, gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza non sono stati affatto trascurati. Loro ricevono circa 300 dollari a testa, il che li rende, pro capite, i maggiori beneficiari al mondo di sovvenzioni estere. Stranamente, i loro tentativi di distruggere Israele non inducono a soffocare questa malsana ambizione ma piuttosto la sponsorizzano. Essendo il denaro un bene fungibile, gli aiuti esteri in realtà finanziano la macchina di propaganda bellica dei palestinesi, i loro arsenali, le loro truppe e i loro kamikaze.
    Questo, comunque, non preoccupa i vari aiuti finanziari provenienti dall'estero. Nigel Roberts, direttore della Banca mondiale per la Cisgiordania e Gaza, tralasciando i fallimenti passati, nel rivolgersi ai donatori, così asserisce: "Probabilmente il vostro miliardo di dollari l'anno non ha fruttato molto, ma noi riteniamo che sia il caso di fare ancor di più nei prossimi tre o quattro anni".
    Roberts in realtà sostiene che il vostro denaro ha finanziato la corruzione di Arafat, l'ideologia jihadista e l'industria del suicidio, ma questi sono problemi appartenenti al passato. Oggi, bisogna sperare che la nuova leadership utilizzi le donazioni per degli scopi migliori. Si prega di essere maggiormente prodighi al fine di accrescere il prestigio e il potere della nuova guida palestinese, quindi speriamo per il meglio.
    Questa teoria utopistica ignora due piccoli problemi. Uno riguarda il diffuso desiderio di distruggere Israele, come dimostrato dallo sfogo di dolore manifestato al funerale dell'acerrimo terrorista Arafat, dai costanti risultati dei sondaggi d'opinione e dalla continua offerta di aspiranti jihadisti. A dir poco, i palestinesi devono però cominciare a scoprire la loro indole moderata.
    L'altro problema risiede nel dare esclusivamente la colpa ad Arafat del regime tirannico e del clima di violenza degli ultimi dieci anni, e nel ritenere a torto che adesso i dirigenti palestinesi, liberatisi della sua presenza, siano più interessati alle riforme. Il nuovo leader Mahmoud Abbas ha invitato a porre fine al terrorismo contro Israele, ma lo ha fatto per motivi chiaramente tattici (è la cosa sbagliata da fare in questo momento), non per ragioni strategiche (occorre rinunciarvi definitivamente) e men che meno per motivi etici (è in sé e per sé dannoso).
    Abbas non è un moderato ma un pragmatista. A differenza di Arafat, roso dal suo passato e dai suoi demoni, Abbas è un personaggio più ragionevole, uno che può perseguire in modo più ragionevole l'obiettivo di Arafat di distruggere Israele. In questo spirito, egli si è prontamente scusato con i kuwaitiani e così ha fatto con i siriani; in confronto a ciò, convincere gli americani è una cosa semplice.
    Ma Abbas, non da meno del suo mentore Arafat, continua a volere eliminare Israele. Ciò si evince, ad esempio, dai suoi recenti commenti in cui insiste a chiedere che a milioni di "rifugiati" venga permesso di entrare in Israele così da sopraffare il Paese demograficamente; oppure dal suo dar seguito ai virulenti argomenti dei media dell'Autorità palestinese.
    Dare adesso ai palestinesi ulteriore denaro, prima che attuino un cambiamento radicale di atteggiamento e che riconoscano l'esistenza dello Stato ebraico di Israele, è un terribile errore, uno di quelli che replica stupidamente gli sbagli commessi dal processo di Oslo negli anni Novanta. Premiare in anticipo i palestinesi causerà un ulteriore ritardo alla tabella di marcia della conciliazione.
    Come sostengo da anni, i palestinesi dovrebbero avere il denaro, le armi, la diplomazia e il riconoscimento dopo che avranno accettato Israele. Quando gli ebrei che vivono ad Hebron (in Cisgiordania) non avranno bisogno di una maggiore sicurezza di quella di cui necessitano gli arabi residenti a Nazareth (all'interno dello Stato di Israele), sarà il segnale che ciò è accaduto.
    Fino a quel giorno in cui regnerà l'armonia, che penso arriverà tra una trentina di anni, il mondo esterno non dovrebbe puntare sul promettere ai palestinesi del denaro o altri benefici, ma dovrebbe indurli inesorabilmente ad accettare l'esistenza dello Stato di Israele.
    
(New York Sun, 21 dicembre 2004 - dall'archivio di Daniel Pipes)





8. LIBRI




Leon Pinsker, "Autoemancipazione - Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli", ed. il nuovo melangolo, Genova, ottobre 2004.


Leon Pinsker
Dopo più di cinquant'anni viene ristampata in Italia la traduzione del bellissimo pamphlet di Leon Pinsker, autentico precursore di quel sionismo politico che sarà portato alla ribalta internazionale da Theodor Herzl. Il libriccino è un autentico gioiello, con sentenze e immagini che, anche quando sono superate dai fatti storici, restano scolpite nella mente del lettore per la nitida chiarezza con cui sono esposte. Interessante, per esempio, è il paragone che l'autore fa tra la «giudeofobia» e la paura degli spettri. Ogni nazione è un organismo che ha nella terra il suo corpo. Gli ebrei sono un popolo che da secoli ha perso la sua terra e quindi è fisicamente morto come nazione, ma il suo spettro, costituito dal popolo ebraico senza terra, continua ad aggirarsi per il mondo incutendo paura agli altri popoli. L'unica soluzione utile a tutti è che questo spettro riacquisti la forma fisica di un corpo, cioè ridiventi una nazione radicata in una terra.
    Alcuni estratti dal libro.
    «La giudeofobia è una forma di "demonopatia": ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di essere minacciate da lui. La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.»

    «E così l'ebraismo e l'odio degli ebrei hanno attraversato per secoli la storia come compagni inseparabili. Simile al popolo ebreo che è il vero errante eterno, l'antisemitismo pareva non dovesse mai morire. Bisogna esser ciechi per affermare che gli ebrei non sono il popolo eletto, eletto all'odio universale.»

    «Per riassumere diremo che: l'ebreo è per i viventi un uomo morto, per gli indigeni è uno straniero, per i cittadini un vagabondo, per i ricchi un mendicante, per i poveri uno sfruttatore e un milionario, per i patrioti un uomo senza patria, per tutte le classi un concorrente odiato.»





9. MUSICA E IMMAGINI




In the Window




10. INDIRIZZI INTERNET




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