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Notizie su Israele 299 - 10 giugno 2005

1. Che cosa si pensa in Europa degli ebrei
2. Intervista a Yasha Reibman
3. I «martiri» della Jihad
4. Il martirio come categoria politica
5. Per salvare la faccia
6. Retroscena sulla guerra dei sei giorni
7. La società laica israeliana è diventata materialista
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Salmi 105:4-7. Cercate il Signore e la sua forza, cercate sempre il suo volto! Ricordatevi dei prodigi fatti da lui, dei suoi miracoli e dei giudizi della sua bocca, voi, figli d’Abraamo, suo servo, discendenza di Giacobbe, suoi eletti! Egli, il Signore, è il nostro Dio; i suoi giudizi si estendono su tutta la terra.
1. CHE COSA SI PENSA IN EUROPA DEGLI EBREI




Un italiano su due: gli ebrei parlano troppo di Shoah

di Alessandra Farkas

Il virus dell'antisemitismo continua ad affliggere l'Europa, nuova e vecchia, e nonostante lo sforzo dell'Unione Europea e della comunità internazionale è addirittura in aumento, soprattutto in Italia.
    E' questa la sconcertante conclusione del nuovo sondaggio «Attitudes Toward Jews», commissionato in 12 Paesi europei dall'Anti-Defamation League (Adl), alla vigilia della Conferenza su «Antisemitismo e altre forme di intolleranza» sponsorizzata dall'Osce a Cordoba, l'8 e il 9 giugno.
    Oltre 6.000 adulti (500 per ogni Paese) sono stati interpellati dalla First International Resources, che ha condotto le interviste per telefono, nella lingua originale di ciascuna nazione, nel periodo tra l'11 aprile e il 6 maggio 2005. Le nazioni prese in esame sono Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Germania, Olanda, Spagna, Svizzera, Regno Unito e, per la prima volta, Ungheria e Polonia.
    «In tutti e 12 i Paesi siamo rimasti molto sorpresi dal trend in aumento - commenta Barbara B. Balser, presidente nazionale di Adl -, milioni di europei continuano a credere nei più odiosi stereotipi antisemiti che perseguitano gli ebrei da secoli». Il 55% degli italiani, record europeo, è convinto ad esempio che gli ebrei siano più fedeli ad Israele che al proprio Paese (in Francia, Germania e Spagna la percentuale è, rispettivamente, del 29, 50 e 51%). E gli italiani vincono la gara dell'intolleranza in molte categorie, dove si registra in generale un peggioramento rispetto agli analoghi sondaggi condotti negli anni passati.
    Il 33% degli interpellati nel Bel Paese ritiene infatti che «gli ebrei abbiano troppo potere nel mondo degli affari», mentre nell'ultimo sondaggio, del 2004, erano il 29%. Negli altri Paesi europei la percentuale si aggira intorno al 30%, e va da un minimo dell'11% della Danimarca al massimo del 55% in Ungheria (Paese che secondo l'Adl non ha mai fatto i conti con il proprio passato), seguita a ruota dalla Spagna (45%).
    Altrettanto preoccupante continua poi ad essere il numero di persone convinte che «gli ebrei abbiano troppo potere anche nei mercati finanziari internazionali». Qui il primato spetta all’Ungheria (55%), seguita da Spagna (54%), Polonia (43%), Belgio (33%) e Italia (32%, un punto in più rispetto al 2004).
    L'ultima domanda del sondaggio («pensate che gli ebrei parlino troppo di ciò che gli è accaduto durante l'Olocausto?») ha raccolto ampi consensi in Paesi quali la Polonia (52%), la Svizzera (48%), l'Austria (46%) e soprattutto l'Italia. Dove il numero di adulti che hanno risposto affermativamente è salito dal 44% al 49% in un solo anno.
    Ma uno degli aspetti che hanno sorpreso di più gli autori del sondaggio riguarda l'antico pregiudizio - reiterato dalla letteratura cristiana fondamentalista e da film quali Passion di Mel Gibson - secondo cui gli ebrei sono da giudicare responsabili della morte di Cristo. Il 20% degli europei continuano a ritenerli colpevoli, mentre un altro 29% afferma che il loro giudizio degli ebrei «è influenzato dalle azioni intraprese dallo Stato di Israele».
    La stragrande maggioranza degli interpellati (il 53%) non esita a dichiarare che la propria opinione sugli ebrei «è peggiorata per colpa della politica intrapresa dallo stato di Israele».
    Cosa si può dire sul fatto che Ungheria e Polonia detengano la maglia nera? «La cosa non ci sorprende affatto», risponde il direttore nazionale della Adl, Abe Foxman. «Se si tiene conto della storia di quei due nuovi Paesi Ue e della loro universale animosità contro gli ebrei». Per questi due Paesi, ma anche per Italia e Spagna, la strada da percorrere resta dunque in salita.
    «Speriamo che i Paesi con il tasso di intolleranza più preoccupante prendano al più presto le misure necessarie per trasformare l'antisemitismo in qualcosa di inaccettabile nelle loro società», afferma Foxman. «Ovviamente c'è ancora molto da fare».

(Corriere della Sera, 7 giugno 2005)





2. INTERVISTA A YASHA REIBMAN




Antisemitismo nelle Università
Reibman contro l’ipocrisia generale

di Stefano Magni

Yasha Reibman, noto portavoce della Comunità ebraica di Milano, ha seguito con preoccupazione l’evoluzione degli atti di antisemitismo in Italia negli ultimi mesi. E ha notato che la risposta dell’opinione pubblica è asimmetrica: c’è un doppiopesismo anche nella condanna dell’antisemitismo? “Mi sembra che ci sia stata un’unanime condanna da parte di quella che viene chiamata, genericamente, la ‘società civile’, quando è avvenuta l’aggressione ai danni dei giovani giocatori del Maccabi a Roma ad opera di gruppi di estrema destra” – ci spiega – “La solidarietà che abbiamo sentita come italiani ebrei è venuta da tutti gli ambienti: politici, esponenti religiosi e della cultura. Altrettanto non è avvenuto dopo le aggressioni subite dalla professoressa Santus a Torino e dai vari esponenti dello Stato di Israele nelle università di Pisa, Firenze e Torino. Anzi in questi ultimi casi c’è stato persino chi ha giustificato gli aggressori. Penso al professor Vattimo e Oliviero Diliberto”.

Come si spiega?
“C’è chi dice che si tratta solo di ‘compagni che sbagliano’, cioè ragazzi che muovono una critica giusta (al governo Sharon o a Israele in generale) con metodi sbagliati. Ma c’è anche chi addirittura sostiene apertamente che abbiano fatto bene ad agire in questo modo. In ogni caso si cerca di spacciare per critica a un governo, un comportamento che definirei, senza mezzi termini, fascista”.

Nei siti degli autonomi si ripete all’infinito di non confondere l’antisemitismo con l’antisionismo…
“Ecco appunto: non solo si spaccia per ‘critica’ un comportamento violento, ma si spaccia per ‘critica a un governo di Israele’ un pregiudizio, costituito da affermazioni apodittiche e manichee contro lo Stato di Israele. Quando si dice che Sharon è un boia, che Israele è uno Stato fascista che pratica l’apartheid, non si tratta più di critiche, ma di falsità vere e proprie. Al di là di quattro ragazzi scalmanati, queste cose si leggono anche nel libro di Asor Rosa, si sentono nei concerti di Francesco Guccini… in un certo senso sono diventati ‘patrimonio comune’. E’ normale sentirsi paragonare a un nazista, con frasi del tipo: ‘ah, ma voi che avete sofferto tanto, adesso fate le stesse cose’”.

Nota dei tratti comuni tra la propaganda ‘antisionista’ attuale e il classico antisemitismo, nella propaganda, negli slogan e nell’iconografia che utilizzano?
“Un certo antisionismo sta riprendendo immagini dell’antisemitismo classico. La paura della globalizzazione si traduce in quella del controllo occulto da parte dei potenti e si pensa che gli Ebrei siano dietro a tutte le scelte compiute dagli Americani tutto questo richiama direttamente i pregiudizi antisemiti classici, il modello dei Protocolli dei Savi di Sion. Quelli che oggi diffondono questa propaganda, non pensano di essere antisemiti, non si sentono tali. Ed io non voglio appiccicar loro questa etichetta. Non bisogna cercare chi è un vero antisemita e chi non lo è: la cosa grave è che molti, anche inconsapevolmente, l’antisemitismo lo fomentano. Io non so come la pensi Asor Rosa, ma so che il suo libro, dove si parla degli Ebrei come ‘razza’ perseguitata che diventa persecutrice, fomenta l’antisemitismo. Su questo non ho dubbi. A me preoccupa questa ostilità ossessiva rivolta soltanto nei confronti di Israele. La Conferenza di Durban è solo la punta dell’iceberg, ma ormai si utilizzano due pesi e due misure per Israele e per il resto del mondo. Israele viene giudicata e scandagliata ai raggi X in ogni sua azione, per ogni sua decisione. Colpisce vedere che, di fronte al massacro russo in Cecenia, su Putin c’è il silenzio. Eppure Putin è molto vicino a casa nostra, viene anche in vacanza in Italia… Il tono delle critiche, la virulenza delle accuse nei confronti di Israele non hanno paragoni. Non si è mai sentito di qualcuno picchiato perché sventola la bandiera russa allo stadio, ma se solo tiri fuori la bandiera di Israele, come minimo, ricevi bordate di fischi. Se vai in certe strade con la bandiera israeliana rischi addirittura la vita”.

Lei parla soprattutto di Asor Rosa, come cattivo maestro, ma anche Sergio Romano non sembra molto tenero nei confronti di Israele…
“Forse è meglio che Sergio Romano si occupi di storia, perché l’unico argomento di attualità di cui parla con inquietante regolarità è proprio il conflitto israelo-palestinese e ogni volta che lo fa tradisce dei fortissimi pregiudizi. Insomma, è Sergio Romano che ha definito la religione ebraica “retriva e chiusa”. E’ sempre Sergio Romano che ha paragonato Israele all’Arabia Saudita (“uno Stato antimoderno, a metà strada tra la Germania ottocentesca e l’Arabia saudita”, ndr).
Quando parla di Israele si lascia andare a giudizi che, secondo me, non rispecchiano nemmeno la sua attenzione e la pacatezza nell’esposizione che gli sono soliti quando parla di qualsiasi altro argomento”.

Ma l’istruzione pubblica, in genere, le sembra responsabile di questi pregiudizi e luoghi comuni?
“Credo che sia un clima culturale che si è diffuso in tutto il Paese. Negli anni ’70 e ’80 era normale dire e pensare queste cose. Era normale essere anti-israeliani: era normale nella sinistra, nel Partito Comunista che seguiva l’alleanza dell’Unione Sovietica con il mondo arabo; era normale nel Psi, dopo la scelta infelice di Bettino Craxi di appoggiare il movimento palestinese di Yasser Arafat; era normale nel mondo cattolico, in cui un’evoluzione verso il riconoscimento di Israele è stata lentissima. In Italia il terreno era fertilissimo per la diffusione di certi pregiudizi e dell’odio attuale. Riguardo il mondo accademico: ci sono state delle reazioni dopo gli eventi di Torino, appelli, firme di documenti ed altro. Quello che non è sembrata esserci è una reazione unitaria. Così come non si è protestato all’appello dell’associazione dei professori britannici che chiedeva il boicottaggio delle università israeliane. Mentre due anni fa le università italiane si erano mosse prontamente contro un’iniziativa simile, oggi non c’è stata un’analoga presa di posizione.
Credo, insomma, che l’ambiente accademico, che dovrebbe essere una fucina di pensiero e anche un’isola di libertà contro il conformismo e i luoghi comuni, stia mostrando un volto più conformista. Inutile nasconderlo: oggi essere contro Israele, vuol dire essere dei conformisti. Non reagire di fronte a quanto succede nelle università britanniche e italiane è puro conformismo. Scegliere di non denunciare dei ragazzi che interrompono una lezione con la forza, è una scelta miope perché ha portato al ripetersi di questi episodi, ha convinto questi fascistelli, di poter contare sull’impunità”.

Cosa pensa della proposta de L’opinione: ridurre del 10% i finanziamenti pubblici alle università che chiudono un’occhio di fronte a questi episodi di intolleranza?
Credo, prima di tutto, che L’opinione faccia bene a sollevare il velo di silenzio/assenso steso su questo fenomeno.
La proposta è provocatoria, nel senso letterale del termine: può provocare un dibattito serio, può risvegliare le coscienze nel mondo accademico. Come si fa ad accettare che alcuni professori approvino delle violenze?

(L'Opinione.it, 8 giugno 2005)





3. I «MARTIRI» DELLA JIHAD




Kamikaze: chi sono e perché scelgono di morire

di Raffaello Uboldi

I nuovi kamikaze, cioè gli uomini che seminano morte e distruzione in Iraq, con attentati suicidi contro le forze di sicurezza del nuovo regime, contro le moschee degli sciiti, o le truppe americane (che contano al presente 1800 morti nel corso di una guerra che ufficialmente è un dopoguerra). Chi sono, perché si battono? Per rispondere a queste domande non c’è bisogno di ricorrere ai servizi segreti occidentali. Basta scorrere l’elenco di 250 nomi, steso dai combattenti della jihad islamica, e dedicato quale omaggio ai loro morti. Mini-biografie, racconti dei compagni di battaglia, testamenti, proclami. Un insieme di documenti redatti in lingua araba,una testimonianza “dall’interno”, e di conseguenza preziosa, che apporta una luce nuova sui fiancheggiatori della guerriglia irachena. Dunque: un kamikaze è generalmente parlando saudita, quando non è siriano o kuweitiano. Ha meno di 25 anni, è sposato, con o senza figli, e gode di un certo comfort materiale. Può essere studente, commerciante, e persino un ufficiale della Guardia nazionale saudita, anche se per farsi saltare in aria imbottito di tritolo non ha bisogno di alcuna preparazione militare. Crede in Allah versione “guerra santa”, guarda all’America come alla patria di ogni turpitudine, e se questa era la sua idea in generale ci ha pensato a rafforzarla la predicazione degli imam più intransigenti. E’ partito in compagnia di un fratello o del migliore amico, al fine di “compiere il proprio dovere di musulmano”, cioè per morire “da martire” in Iraq. E’ morto per uccidere. Tutti nomi e notizie che si possono trovare su quei forum, come s’è detto in lingua araba, che predicano l’ideologia di Al-Qaida su internet, strumento privilegiato di comunicazione per i clandestini della “guerra santa”. Se vogliamo fare un censimento, si noterà fra i kamikaze una maggioranza schiacciante di gente proveniente dai Paesi confinanti con l’Iraq, e soprattutto di sauditi, specialmente quelli della regione di Nadjd, culla fondatrice del regno, e dove hanno avuto origine le famiglie più influenti d’Arabia. Ma ci sono anche dei siriani (fra cui alcuni palestinesi del campo di rifugiati di Al-Yarmouk, dei kuweitiani e dei giordani, seppure in numero minore, dato che il 62 per cento sono sempre di origine saudita. Non mancano i maghrebini, e qualche libico. Il luogo di accesso si trova prevalentemente lungo la frontiera con la Siria; ma ci sono casi d’ingresso attraverso la Giordania. Nell’autunno del 2004 per esempio, nel momento dell’assalto delle forze americane contro Falluja, e malgrado il rafforzamento dei controlli annunciato dai Paesi frontalieri, le infiltrazioni sono continuate. Come si legge in uno dei forum citati: “Alcuni affermano che la strada verso la jihad è interrotta, e tuttavia mentono. La prova: il nostro martire è passato attraverso la Siria, e senza alcun problema”. E in altro forum si parla della partenza per Falluja di un commerciante saudita, età 24 anni, morto un mese dopo il suo arrivo: “La jihad è anzitutto uno sforzo e un atto, non una parola nel vento”. Uomini insomma che posseggono quell’arma assoluta che è la decisione di morire. Per fanatismo, certo, sulla base di un richiamo distorto della fede. Comunque dei lupi solitari e motivati, e per questo tanto più difficili da combattere.

(Avanti, 7 giugno 2005)





4. IL MARTIRIO COME CATEGORIA POLITICA




E' l'odio per Israele a impedire all'Islam
"neo-fondamentalista" condanne coerenti del terrorismo

di Massimo Introvigne

Il convegno che si è concluso all'Università di Lovanio su «Il martirio come categoria di azione politica», che ha avuto come relatori sociologi (tra cui il sottoscritto), storici e dirigenti di movimenti musulmani ha offerto la più vasta ricognizione a oggi degli atteggiamenti del mondo musulmano, sciita e sunnita, in tema di terrorismo suicida. Definito il terrorismo - conformemente alle convenzioni internazionali - come l'attentato alla vita di civili non combattenti da parte di organizzazioni private (gli Stati, infatti, possono macchiarsi di crimini di guerra ma non fanno per definizione del terrorismo), che cosa ne pensa l'islam in quanto religione? La domanda rimanda a un'altra: chi ha titolo a parlare a nome dell'islam?
    Gli sciiti hanno un clero e una gerarchia, anche se su chi di questa gerarchia oggi rappresenti il vertice ferve il dibattito fra i sostenitori del grande ayatollah iracheno Sistani e i suoi concorrenti iraniani. È comunque chiaro che per gli sciiti si può almeno sapere, con una certa approssimazione, chi rappresenta l'autorità e chi ha il diritto di dare indicazioni. Sistani afferma che gli attentati suicidi non sono mai leciti. Gli iraniani - che ne hanno inventato la giustificazione teologica ai tempi di Khomeini - oggi sono più riservati, ma la maggioranza sembra condannare gli attentati suicidi rivolti contro i civili (non quelli contro i militari), anche se non manca chi esprime qualche dubbio quando i civili abbiano la sfortuna di essere ebrei.
    I sunniti non hanno né gerarchia né clero. Il verdetto di un giurista, la famosa fatwa, è autorevole quanto lo è chi la emana, e non vincola che i suoi discepoli e chi è convinto in coscienza della sua fondatezza. Il convegno di Lovanio ha però analizzato centinaia di pronunciamenti sunniti sul tema, dividendoli in tre gruppi. Meno del cinque per cento dichiara leciti tutti gli attentati suicidi, compresi quelli dell'11 settembre e dell'11 marzo. Un dieci per cento dichiara gli attentati suicidi sempre illeciti. Resta la grande maggioranza: per così dire, la fatwa tipica secondo cui l'attentato suicida contro i civili di per sé non sarebbe lecito, ma diventa lecito quando i musulmani «non hanno altro mezzo» per far sentire la loro voce. Per la maggioranza delle fatwa questa situazione si verifica solo in Israele: dunque il terrorismo suicida di Hamas è giustificato, mentre sono illeciti non solo quello di Al Qaida ma anche quelli iracheni e ceceni in genere perché ci vanno di mezzo troppi civili, spesso musulmani.
    Dirigenti musulmani di tendenza neo-fondamentalista (cioè fondamentalisti che in linea di massima ripudiano la violenza), certo non terroristi, presenti al convegno di Lovanio approvano questi pronunciamenti. Dovrebbero tuttavia riflettere su un problema. Chi decide quando i musulmani «non hanno altro mezzo» dell'attentato suicida per farsi sentire? I giuristi e i teologi seduti sulle loro poltrone oppure chi combatte sul campo e dovrebbe avere le informazioni per giudicare? Se la risposta è la seconda, una volta aperta la porta ad Hamas come chiuderla per i ceceni o la «resistenza» irachena? E con quale autorità negare che anche Bin Laden «non abbia altro mezzo» per farsi sentire? Come si vede l'islam neo-fondamentalista si trova in un pasticcio. Per uscirne, dovrebbe superare il complesso anti-israeliano e la conseguente «eccezione israeliana», e dire a chiare lettere che il terrorismo suicida non è mai accettabile. Ma da questa posizione è ancora ben lontano.
    
(Il Giornale, 8 giugno 2005 - da Infomazione Corretta)

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5. PER SALVARE LA FACCIA




Un “delitto d’onore” vale 35 mila dollari. Hamas paga pur di salvare l’immagine

L’ondata d’indignazione per Yusra, la giovane uccisa perché era in auto col fidanzato

Tutto ha un prezzo. Per Hamas la vita di Yusra al-Azzami, la giovane ragazza palestinese non ancora diciottenne ammazzata sul lungomare della striscia di Gaza lo scorso 8 aprile, valeva all’incirca 25 mila dinari giordani, l’equivalente di 35 mila dollari statunitensi all’arbitrario cambio in nero di valuta da quelle parti. Per chi non lo ricordasse, Yusra fu uccisa «per il suo bene». Prima venne accusata di avere un comportamento da svergognata, poi la speciale polizia religiosa dei cosiddetti fratelli musulmani compì quello che venne definito un “delitto d’onore”. Non è inutile ricordare che in Italia i Fratelli musulmani hanno i loro adepti nell’Ucoii di Hamza Piccardo, Nour Dachan e Bahda Grewati, persone che hanno anche il coraggio di chiedere ascolto alle autorità italiane e di essere riconosciuti come interlocutori per il culto dell’Islam.
    Perché Hamas ha accettato di pagare il prezzo del sangue, antico istituto coranico che prevedeva un accordo tra la famiglia dell’ucciso e quelle degli uccisori? Perché quell’episodio ha di molto indebolito il proprio prestigio a Gaza e gli attuali responsabili del movimento terroristico temevano che la cosa avrebbe potuto avere riverberi imprevedibili nelle future consultazioni elettorali che vedranno Hamas contrapporsi al partito di Mahmud Abbas, alias Abu Mazen. Infatti pochi in Italia sanno cosa è accaduto nei giorni e nelle settimane immediatamente successive a questo brutale assassinio. Lo ha raccontato un’agenzia di stampa indipendente palestinese, che ha anche un proprio sito internet www.amin.org. Prima di tutto i familiari di Yusra si sono rivolti direttamente alla polizia e al governo dei palestinesi denunciando che Hamas decide la vita e la morte della gente con squadroni della morte dell’unità contro la corruzione dei vizi, e scavalcando la stessa Anp. La famiglia ha raccontato che i due fidanzati erano insieme in automobile, quando vennero fermati, scaraventati fuori e picchiati. Un atto di squadrismo uguale ad altri già avvenuti in passato, con l’aggravante che lei fu freddata con due colpi alla testa. I due - hanno aggiunto i familiari di Yusra - non stavano facendo niente di male per l’Islam e presto si sarebbero sposati.
    Di fronte alle critiche incoraggiate dai vertici dell’Anp sui quotidiani locali come Al hayat al jadida e Al Quds, gli assassini moralisti di Hamas sono corsi ai ripari. Prima smentendo sui giornali un coinvolgimento di loro membri nell’infame delitto. Poi ammettendo, di fronte all’evidenza, che «sì, erano attivisti di Hamas delle brigate Al Ezzedine, ma avevano agito in proprio». Infine hanno cercato e ottenuto un accordo extra giudiziario secondo la shar’ia islamica cercando rifugio nell’istituto della “sulha” o riconciliazione. Che prevede la rinuncia a pretese di rivalsa da parte della famiglia di Yusra in cambio di una somma in denaro. Una cifra, 35 mila dollari, che a noi europei può sembrare poca cosa per una vita umana, ma da quelle parti rappresenta ancora una bella fortuna. L’accordo è stato reso inevitabile dopo che un’associazione, quella per la gente di Jaffa, aveva riempito i muri di Gaza con manifesti che indicavano gli autori dell’omicidio con tanto di nome e cognome e invitavano Abu Mazen a metterli in galera. Erano tutti militanti di Hamas. L’accordo tra la famiglia Al Azzami e Hamas prevedeva anche che il nome dell’organizzazione fosse rimosso da ogni possibile accusa presente, passata e futura e che beneficiassero dell’esenzione di colpa anche eventuali altri colpevoli materiali che venissero scoperti in un secondo momento.
    Questo accordo della vergogna ha lasciato ovviamente strascichi: intanto, non tutti gradiscono la giustizia privata di Hamas, che di fatto è ormai uno stato nello stato palestinese, e molti commentatori affermano che i cinque terroristi andrebbero perseguiti d’ufficio. Inoltre, molta gente sta cominciando ad aprire gli occhi e la leggenda secondo cui Hamas fa del bene e costruisce ospedali, oltre a mandare kamikaze a farsi esplodere in Israele, convince sempre meno. Molti palestinesi laici, e sono la maggior parte, non vogliono più sentire parlare di questi giustizieri della morale, forti con i deboli e arrendevoli con i forti.

(Il Riformista, 7 giugno 2005)





6. RETROSCENA SULLA GUERRA DEI SEI GIORNI




Giugno 1967, un giorno sull'orlo dell'Apocalisse

di Carlo Carretto
    
In questo articolo l'autore cita alcuni documenti tratti dagli archivi americani sulla Guerra dei sei giorni. Da quei documenti si può capire il livello di tensione che fu raggiunto in quel periodo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, paragonabile a quello della crisi dei missili cubani.
    
WASHINGTON — Sono le 8,48 del mattino del 9 giugno 1967, il penultimo giorno — ma nessuno può saperlo — della guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi arabi. Alla Casa Bianca sono riuniti il presidente Lyndon Johnson, il consigliere per la sicurezza Walter Rostow, il direttore della Cia Richard Helms, il segretario di Stato Dean Rusk, il ministro della Difesa Robert McNamara. Rostow legge un telegramma appena ricevuto sulla linea rossa dal premier sovietico Kossighin. E' ultimativo.
    «Siamo arrivati al momento più cruciale — dice il telegramma — che ci forzerà a prendere una decisione autonoma, se Israele non fermerà l’avanzata in Siria entro poche ore.
    Noi siamo pronti. Ma le nostre azioni possono causare uno scontro che porterà a una catastrofe. V'invitiamo a chiedere a Israele di cessare immediatamente ogni ostilità. L'avvertiamo che, se non lo farà, adotteremo tutte le misure necessarie, incluse quelle militari». Per un momento è panico, commenterà più tardi Helms in un promemoria: ne discutiamo sottovoce, una cosa senza precedenti. L'America è già in guerra nel Vietnam, non può rischiarne un'altra in Medio Oriente, potrebbe essere la terza guerra mondiale.
    Il telegramma di Kossighin è la pagina più drammatica di un massiccio dossier appena declassificato dal dipartimento di Stato americano, testimonianza di una crisi che minacciò l'equilibrio mondiale. Non attribuisce colpe né risolve i misteri del conflitto, dal presunto appoggio militare Usa a Israele — falso, secondo i documenti — all'inspiegabile attacco israeliano alla nave americana Liberty.
    Ma illumina i retroscena della guerra, e traccia un quadro inedito dei difficili rapporti tra Lyndon Johnson e il premier israeliano Levi Eshkol, «una vecchia capra che non intende prestare la minima attenzione alle pressioni imperiali», lo definisce a un certo punto il presidente, e della diffidente collaborazione tra la Casa Bianca e il Cremlino. Soprattutto, sottolinea l'importanza che la linea rossa, da poco installata dalle superpotenze, ebbe nell’armistizio e nella prevenzione di un disastro.
    Lo scoppio delle ostilità, il 5 giugno, coglie di sorpresa gli Usa e l'Urss, sebbene entrambi abbiano temuto il peggio dal 30 maggio, quando l'Egitto e la Siria si sono posti come obiettivo «la totale distruzione di Israele». Alla prima riunione alla Casa Bianca, è dubbio e allarme assieme sulla dichiarazione di Eshkol che si tratta di una guerra difensiva.
    Dean Rusk si dichiara «esterrefatto», e si domanda se il premier non abbia sferrato «un attacco preventivo». Johnson, prevedendo che gli israeliani vogliano annettere l'intera Gerusalemme, proclama l'intento di «sottoscrivere l'appello del Papa Paolo VI a farne una città aperta» (non lo sottoscriverà).
    La riunione è interrotta dallo squillo della telescrivente rossa: «E' la seconda sorpresa della giornata», dirà Helms. «Nessuno l'aveva mai toccata». Giunge il primo telegramma di Kossighin, che sollecita il ricorso all'Onu. Johnson risponde: «Non conosco gli eventi, sono d'accordo su una risoluzione delle Nazioni Unite». Il telescriventista non sa come rivolgersi a Kossighin, e chiede a quello sovietico all’altro capo. La risposta è: «Chiamalo compagno».
    Più tardi, la Casa Bianca e il Cremlino ne sorrideranno, ma alla vista iniziale del telegramma al «compagno Kossighin» firmato Lyndon Johnson, il numero due dell’Urss resta perplesso. E' sarcasmo? Non lo è: da quell’istante il premier — così verrà chiamato — e il presidente terranno contatti quotidiani, si adopreranno per il cessate il fuoco. Ma saranno giorni vissuti nel periodico incubo dell'olocausto atomico, durante i quali Johnson si schiererà sempre più per Israele, mentre Kossighin ordinerà l'invio di nuovi armamenti ai Paesi arabi.
    Il diario del dipartimento di Stato rivela il crescente allarme dell'amministrazione americana, non soltanto per la guerra e la possibilità di uno scontro con l'Urss, ma anche per la rottura dei rapporti diplomatici con gli Usa da parte dei Paesi arabi e il blocco di Suez. Il 6 giugno, dopo che all'Onu passa la risoluzione concordata con Kossighin, è dedicato a smentire l'accusa dell'Egitto e della Giordania che caccia americani abbiano appoggiato l'avanzata di Israele, una notizia che potrebbe spingere l'Urss a reagire; a premere su Eshkol affinché accetti almeno l'armistizio con i giordani; a distinguere tra «musulmani buoni», che potrebbero mediare, e «cattivi», per i quali «il tanto peggio è il tanto meglio».
    Invano. «Gli israeliani sembrano voler fare cadere re Hussein di Giordania, oltre che il leader egiziano Nasser», osserva Rusk.
    La mattina del 7, col Medio Oriente in fiamme e con le rappresentanze Usa prese d'assalto dalle folle, Kossighin scampanella. Questa volta protesta: «L'America fermi Israele e riunisca d'urgenza il Consiglio di sicurezza all'Onu». La risposta di Johnson è secca: «Facciamo del nostro meglio. Voi fermate gli arabi estremisti che ci attaccano nella regione». Il presidente è sincero. L'amministrazione non si scervella soltanto sul fronte mediorientale. Vuole anche evitare un’umiliazione all'Urss, che a parere di Helms «sostenendo Nasser ha commesso un errore di calcolo ancora più clamoroso di quello con Castro di 5 anni fa, quando Kruscev fu costretto a togliere i missili dall'isola».
    E vuole rassicurare l'elettorato americano: «Annunciate che stiamo lavorando coi sovietici — ordina Johnson — ma tacete della linea rossa, ci danneggerebbe alle urne». Per fortuna di tutti, la sera del 7 entra in vigore il cessate il fuoco tra Israele e la Giordania, e il presidente può trascorrere una notte più serena. Ma è una notte molto breve: all'alba del giorno 8 lo sveglia la notizia che gli israeliani hanno bombardato e centrato con un siluro la nave Liberty della Sesta Flotta Usa, in acque internazionali, uccidendo una decina di marinai e ferendone un centinaio.
    Il dossier del dipartimento di Stato non spiega che cosa la Liberty facesse nella zona, è legittimo il sospetto di spionaggio. Israele sostiene di averla scambiata per una nave nemica e porge le scuse. Ma il Pentagono trasmette un «Forac»(for action) urgente alla Sesta Flotta: mandare subito caccia e incrociatori in suo soccorso. Le unità americane si muovono, inseguite dai sommergibili sovietici. E' il momento di massima tensione del conflitto: che cosa accadrebbe se Kossighin, che tempesta la Casa Bianca di richieste di una nuova risoluzione all'Onu, sospettasse che l'America stia entrando in guerra? Johnson si reca di persona alla telescrivente rossa, invia un messaggio tranquillizzante, dà l'ok alla risoluzione. Poi stila un furente telegramma a Israele: «E' stupefacente che non riconosciate una nostra nave. Che cosa sarebbe successo se ne aveste silurato una sovietica?». Sono due mosse decisive, di cui il mondo resta all'oscuro: Kossighin non prende contromisure, e Israele riflette sul da farsi. Ma non ferma l'avanzata su Suez, e nello stesso tempo sferra un affondo in Siria.
    La sera dell' 8 giugno, mentre la Casa Bianca tira un respiro di sollievo per lo scampato pericolo, si profila una schiarita: l'Egitto accetta l'armistizio, riapre il canale di Suez alla navigazione, tranne all'America e all’Inghilterra. Ma la Siria rifiuta di deporre le armi, e all'Onu non passa la risoluzione voluta da Kossighin. Dal Cairo giunge un monito: il capo del servizio segreto Salah Nasir, filoamericano, avverte che se gli Usa non assumeranno un'iniziativa a favore degli arabi, «l'Egitto sarà sovietizzato». Helms esclude tuttavia un complotto del Cremlino: gli risulta che i sovietici stiano esortando la Siria al dialogo. In un memorandum a Johnson, McNamara commenta che occorre un trattato di pace, che non basta il cessate il fuoco, se no scoppierà un’altra guerra (avverrà nel 1973). Per riuscirci, insiste, «occorre eliminare politicamente Nasser e indurre Eshkol a significative concessioni». Johnson passa una notte insonne. Il giorno dopo, 9 giugno, gli viene consegnato il traumatico ultimatum di Kossighin.
    Secondo il dipartimento di Stato, la condotta di Johnson nel momento più difficile è esemplare, come lo era stata quella di Kennedy nella crisi missilistica di Cuba. Dopo il panico iniziale, il presidente scatena il blitz diplomatico risolutivo. Mobilita tutti gli alleati all’Onu, accentua la pressione su Israele, che di fatto ha ottenuto ciò che voleva. E poche ore dopo dà a Kossighin una risposta conciliante. Evidenzia tre punti: «Israele ci assicura che accetta l'armistizio anche con la Siria. Ci informa che sarà il generale Bull dell' Onu a verificarlo. Speriamo che teniate sotto controllo i siriani».
    A sera al Palazzo di Vetro di New York Abba Eban, il ministro degli Esteri israeliano, conferma che si va al cessate il fuoco. Non ci sarà scontro tra l'America e l’Urss. La guerra finisce il 10 giugno del 1967, Mosca rompe i rapporti diplomatici con Israele e notifica agli Usa che «sarà difficile cooperare finché i territori arabi rimarranno occupati».

(Corriere della Sera, 03.03.2004)





7. LA SOCIETA' LAICA ISRAELIANA E' DIVENTATA MATERIALISTA




La storia è maestra di vita

di Eleazar Ben Yair

Nel 480 A. E. V. , durante la seconda guerra greco-persiana, avvenne la battaglia navale di Salamina. La flotta persiana era molto piu' numerosa di quella greca, le navi erano dello stesso tipo ed i marinai provenivano dallo stesso insegnamento di scuola. Lo storico greco Erodoto scrisse che i greci vinsero perche' erano motivati a difendere la loro liberta' mentre i persiani, essendo "schiavi del re", erano poco motivati e quando videro le cose mettersi male preferirono scappare quando ancora erano piu' numerosi dei greci.
    Dalla Guerra d'Indipendenza sino a poco dopo la Guerra dei Sei Giorni gli israeliani erano motivati perche' convinti di liberare la loro Patria e di difendere la loro stessa esistenza, i territori presi venivano chiamati liberati ed il giorno della riconquista della citta' vecchia di Gerusalemme "Giorno della Liberazione di Gerusalemme".
    La mancanza di un'educazione ebraica in gran parte della popolazione ha fatto sì che con il tempo il lavaggio di cervello della propaganda araba e di certa sinistra israeliana sortissero i loro effetti e che per molti israeliani i territori liberati diventassero "occupati" (a chi ?!!) e la parola liberazione sparisse nel giorno anniversario della riconquista della citta' vecchia di Gerusalemme.
    Senza una base ideologica e spirituale ebraica, la societa' laica israeliana e' diventata materialista ed i suoi valori sono i soldi, la carriera, Volvo, villa, mangiar bene, un quieto vivere, la "democrazia". E' logico percio' che per questa gente gli ebrei del Gush Katif e del nord della Samaria che parlano di "redenzione messianica', di "diritto dei padri", di "promessa divina" siano gente strana e disturbatrice del loro modo di vivere. Ed e' altrettanto logico che queste persone pragmatiche che chiedono di espellere gli ebrei del Gush Katif dalle loro case un giorno non lontano chiederanno di cedere anche Gerusalemme dicendo: "Chi ha bisogno delle "vecchie pietre" di Gerusalemme !".
    Quello che tale gente non capisce e' che il ritiro unilaterale di Sharon, come dichiarato da quasi tutti gli esperti militari, e' una minaccia per Israele. Esso e' considerato dagli arabi una loro vittoria militare, il successo elettorale dei terroristi ne e' una conferma. Dopo il ritiro israeliano la vita diventera' ancora piu' pericolosa in varie citta' israeliane perche' saranno sotto il fuoco diretto dei terroristi non piu' tenuti a bada dal controllo militare israeliano.
    La motivazione addotta da Sharon e dai suoi e' di cercare di salvare l'ebraicita' dello stato, ma cio' e' solo una scusa. Se i vari governi israeliani avessero avuto cio' a cuore ci sarebbe piu' cultura e spirito ebraico nell'insegnamento e nei media, lo stato non avrebbe accolto 500.000 arabi per la "riunificazione delle famiglie" (perche' non si sono riunite in Giordania, lo stato arabo-palestinese?
    Si sono addotti motivi umanitari, si vede che questi valgono, pero', solo per gli arabi !), e 500.000 non ebrei dall'ex Unione Sovietica, di questi 250.000 sono apertamente non ebrei e molti apertamente anti-semiti, e gli altri 250.000 sono gli "ebrei-non ebrei", ovvero gente figlia di genitori non ebrei e che, non sapendolo, si considerano ebrei senza realmente esserlo.
    L'amore profondo  per la Terra d'Israele e per Gerusalemme e' cio' che ci ha permesso di tornare. Soltanto la consapevolezza che qui siamo a casa nostra e che gli altri sono gli invasori ci dara', con l'aiuto di D.o, la motivazione e la determinazione che ci aiuteranno a resistere.
    Che la Gheulah (Redenzione) incominciata con Yom Hazmaut e proseguita com Yom Shikrur Yerushalaim possa presto giungere con l'aiuto del Cielo al Suo compimento.
    Yom Shikrur Yerushalaim sameach a tutti voi.
    Eleazar

(segnalato da Club Livuso, 7 giugno 2005)





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