- Notizie su Israele - 345  
<- precedente seguente -> pagina iniziale arretrati indice



Notizie su Israele 345 - 2 maggio 2006

1. Politica svedese contro la pace
2. Nei momenti cruciali Israele viene lasciato solo
3. Potenza del linguaggio
4. La nuova strategia di Al Qaida in Egitto e Palestina
5. Intervista a Stevan Hobfoll
6. Il messaggio del presidente dello Stato d'Israele
7. Lettera aperta al presidente Romano Prodi
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Geremia 17:13. Speranza d'Israele, o Signore, tutti quelli che ti abbandonano saranno confusi; quelli che si allontanano da te saranno iscritti sulla polvere, perché hanno abbandonato il Signore, la sorgente delle acque vive.
1. POLITICA SVEDESE CONTRO LA PACE




Da un editoriale del Jerusalem Post


Adesso la Svezia sostiene che la decisione di ritirarsi da un'esercitazione di forze aeree NATO [in programma in Sardegna per il mese di maggio, a cui parteciperanno Italia, Israele, Germania, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda e Norvegia] non ha nulla a che vedere con la presenza delle forze aeree israeliane. Ora, sia la decisione della Svezia sia la bizzarra smentita dell'evidenza sono – come ha detto un portavoce del ministero degli esteri israeliano – "oltraggiose e intollerabili".
    È vero che gli svedesi non hanno citato per nome Israele, nell'annunciare il loro ritiro dalle esercitazioni. Ma il ministro della difesa svedese Leni Bjorklund ha detto che il suo paese si ritirava perché "le forze armate svedesi sono state informate tardi della partecipazione di uno stato che non appartiene alla Partnership for Peace, e con il quale la Svezia non ha avuto in precedenza rapporti bilaterali di cooperazione militare". Quello stato ha un nome: è Israele.
    Ad ogni buon conto, onde dissipare ogni possibile equivoco su quale fosse il paese che la Svezia intende disdegnare, il primo ministro svedese Goran Persson ha detto giovedì ai giornalisti a Stoccolma che la Svezia si ritira dalle esercitazioni perché "noi stiamo attenti a non partecipare a esercitazioni con paesi coi quali non cooperiamo nelle missioni internazionali Onu o Ue. È un principio che fa parte della nostra storia. Gli israeliani hanno una storia diversa, più guerresca, che per inciso noi consideriamo deplorevole".
    A pensarci bene, la nostra storia è effettivamente più "guerresca" e anche noi la consideriamo "deplorevole". Deploriamo il fatto che nel 1948, nel 1956, nel 1967 e nel 1973 Israele è stato costretto a combattere contro gli eserciti arabi decisi a cancellarlo dalla carta geografica. Deploriamo il fatto che i capi dell'Iran e del movimento Hamas finanziato dall'Iran continuino a dichiararsi apertamente votati a quello stesso obiettivo, la distruzione di Israele. E deploriamo anche il fatto che, subito dopo che Israele si era offerto, nel 2000, di creare uno stato palestinese su più del 95% dei territori di Cisgiordania e Gaza, la dirigenza palestinese abbia scatenato un'ondata di attentati suicidi che ha mietuto più di mille vite di israeliani innocenti, e che oggi non è ancora finita. E che adesso, sulla scia della vittoria elettorale di Hamas, gli attentati siano ripresi di nuovo, ufficialmente legittimati come "naturali e comprensibili" dal governo dell'Autorità Palestinese.
    Questa sequenza di eventi, ne conveniamo volentieri coi nostri amici svedesi, è sicuramente "guerresca" e "deplorevole". Quello che non si capisce è secondo quale logica essa dovrebbe portare a boicottare Israele e ad accogliere rappresentanti di Hamas, come fa la Svezia.
    Israele è una democrazia che desidera la pace e che è sotto attacco. Non apprezziamo molto che dei paesi ci boicottino e allo stesso tempo accolgano col sorriso coloro che ci aggrediscono, come ha fatto la Svezia concedendo i visti d'ingresso – al contrario del resto d'Europa – a rappresentanti di Hamas. Come ha detto Mark Regev, portavoce del ministero degli esteri israeliano, "se un paese ritiene che Israele non sia abbastanza titolato per partecipare a manovre di peacekeeping, Israele ha il diritto di pensare che quel paese non sia abbastanza titolato per giocare un qualunque ruolo nel processo di pace in Medio Oriente".
    E' un peccato che la Svezia abbia dato dimostrazione di una tale grossolana incapacità di capire il punto di vista di Israele – oltretutto in nome della pace – al punto da escludere se stessa da qualunque ruolo costruttivo negli sforzi per arrivare alla pace. Lungi dal promuovere la pace, le posizioni estremiste della Svezia non fanno che incoraggiare, involontariamente finché si vuole, il terrorismo scatenato contro Israele, traducendosi nella morte di altri israeliani e palestinesi.

(Jerusalem Post, 30 aprile 2006 - da israele.net)






2. NEI MOMENTI CRUCIALI ISRAELE VIENE LASCIATO SOLO




Oggi come al tempo dell'Olocausto

Non si può fare affidamento sugli «osservatori internazionali». Eppure vengono richiesti continuamente degli osservatori per eliminare la presenza israeliana o spingere Israele al ritiro dai territori occupati. I caschi blu dell'ONU presidiano la terra di nessuno sulle alture del Golan e il Libano meridionale sgombrato da Israele. ll gruppo di osservatori della TIPH (Temporary International Presence in the city of Hebron) fu creato dopo il massacro dell'estremista israeliano Baruch Goldstein a Hebron nel 1996, per proteggere i Palestinesi dagli attacchi dei coloni israeliani. Quando Israele, in agosto, si è ritirato dal confine fra Egitto e la striscia pale- stinese di Gaza, l'UE ha mandato doganieri e poliziotti per sostituire gli agenti di sicurezza israeliani al valico di frontiera di Rafah. Tuttavia, non esiste nessuna garanzia sulla presenza di tali osservatori. Proprio quando la loro presenza sarebbe più necessaria, per impedire lo scoppio di guerra o violenze, essi spariscono subito, accelerando lo scoppio delle lotte. Era già così nel 1967, quando il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser ordinò agli osservatori dell'ONU di sgombrare i loro posti di guardia nel Sinai, lungo il confine con Israele. Era l'ultimo, definitivo segnale di un attacco pianificato contro Israele. La Guerra dei Sei Giorni divenne inevitabile.
    Un mese fa, gli osservatori della TIPH a Hebron sono fuggiti a Gerusalemme con le loro auto ammaccate dalle pietre, quando i Palestinesi hanno attaccato i loro uffici in reazione alle vignette satiriche su Maometto. Gli «osservatori» britannici e americani a Gerico svolgevano il loro servizio come guardie carcerarie in conformità ad un accordo fra Israele, USA e Arafat.
    Tre settimane fa, il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier designato da Hamas, Ismail Haniyeh hanno deciso di rimettere in libertà il capo dell'FPLP Ahmad Saadat. A tale scopo era necessario cacciare via gli osservatori, rompendo un accordo internazionale: è proprio quello che è accaduto. Ma i Palestinesi non avevano certo messo in conto che le forze di sicurezza israeliane, a soli venti minuti dalla partenza degli Americani e dei Britannici, si sarebbero presentate alle porte del carcere per prendere in consegna i detenuti. L'annuncio di Abbas e le lamentele delle guardie sia britanniche che americane avevano preavvisato Israele. Saadat è incolpato di avere emesso, nell'ottobre del 2001, l'ordine di assassinio nei confronti del ministro del turismo Rehabeam Zevi. Quando poi i Palestinesi hanno reagito con rapimenti ed attacchi alle istituzioni europee nella Striscia di Gaza, gli osservatori europei al confine con l'Egitto si sono messi al sicuro in tutta fretta. Il loro portavoce ha assicurato che tutti i viaggiatori erano già stati sottoposti a visita doganale e che, la mattina dopo, gli osservatori si sarebbero presentati puntualmente al lavoro. Ma già in dicembre c'era stata una fase ancora più critica. I Palestinesi avevano demolito con dei bulldozer le fortificazioni di frontiera così che in migliaia erano potuti passare, armi comprese, dall'Egitto nella Striscia di Gaza. Gli osservatori internazionali, per paura, se n'erano andati in Israele.
    Continuamente si vede che i presunti garanti della pace non offrono alcuna garanzia e abbandonano sempre il campo, non appena sono minacciati da un pericolo. Sebbene la minaccia o l'allontanamento di tali osservatori abbia sempre significato la rottura di un accordo, né l'ONU né gli Americani hanno considerato quanto avvenuto a Gerico un «casus belli». Piuttosto, le stesse parti che avevano firmato l'accordo hanno lasciato che fosse Israele a dover gestire le conseguenze e, all'occorrenza, persino la guerra.
    I recentissimi avvenimenti a Gerico hanno confermato agli Israeliani che sono lasciati soli alla loro sorte. Neanche degli Americani e dei Britannici possono fidarsi, sebbene si siano piegati alla pressione dei primi, concedendo ad Arafat gli arresti domiciliari. Il «Washington Post» chiama il procedimento contro la prigione di Gerico «la libertà riconquistata da Israele». Ma in verità, qui si sommano paure ancestrali. Gli Israeliani considerano il loro Stato, dopo l'Olocausto, una garanzia di sopravvivenza. Dal momento che il mondo, durante la Shoah, non si è preoccupato della sorte degli Ebrei, sebbene quanto stava accadendo fosse noto a Londra e a Washington al più tardi nel 1944, Israele rifiuta le alleanze militari. Non vuole far dipendere la propria sicurezza ed esistenza dalla buona volontà di altri Stati. Il ritiro degli osservatori britannici e americani da Gerico ha confermato ad Israele che, alla fin fine, è solo la sua potenza militare che conta. Ciò rende Israele uno Stato imprevedibile, con una disponibilità ad attaccare che non ammette compromessi, nel caso in cui i suoi cittadini o la sua esistenza siano in pericolo sia effettivo che presunto. I Palestinesi l'hanno capito da quando Israele infrange le norme di diritto internazionale con «eliminazioni» mirate. L'Iraq lo ha scoperto quando ha sviluppato una bomba atomica.
    Se e come Israele procederà contro gli altri Paesi della regione che lo minacciano e non rispettano i suoi interessi veri o presunti, lo dirà il futuro. Il comportamento di Israele a Gerico, che eccezionalmente è avvenuto con la piena benedizione degli Americani e dei Britannici, potrebbe servire da avvertimento per Ramallah, Damasco e Teheran, se fossero disposti ad interessarsi della «mentalità» israeliana. Infatti, finché è in gioco la pura sopravvivenza, per Israele la pace, il dialogo e la riconciliazione non sono altro che esercizi accademici. US/AN

(dalla rivista evangelica "Notizie da Israele", maggio 2006)





3. POTENZA DEL LINGUAGGIO




L'Unione Europea cancella il terrorismo "islamico"

di Massimo Introvigne

Il terrorismo islamico non esiste più. Lo afferma l'Unione europea in un documento presentato da Gijs de Vries, delegato antiterrorismo della Commissione, secondo il quale sarà approvato in giugno. Esso invita i governi dell'Unione a sostituire ovunque "terrorismo islamico" con "terrorismo che invoca abusivamente il nome dell'islam", e a cancellare l'uso dei termini "jihad", "islamista" e "fondamentalista islamico".
    Questo "lessico non emotivo per discutere il radicalismo" spiega che "nell'islam 'jihad' esprime un concetto assolutamente positivo e designa la lotta contro il male all'interno di se stessi".
    Diceva Gramsci che in politica molti sono convinti di abolire il cattivo tempo buttando via il barometro. Sembra questo il caso dei solerti funzionari dell'Unione europea. O forse, più cinicamente, a Bruxelles sono convinti che blandendo gli ultrafondamentalisti islamici questi se la prenderanno con gli Stati Uniti e Israele lasciando in pace gli "amici" europei.
    Dal punto di vista scientifico, il "lessico" europeo si fonda su un cumulo di sciocchezze. Certo, non tutti i musulmani sono terroristi ma al Qaeda, per esempio, è un'organizzazione "islamica", non solo perché è composta da musulmani ma perché i suoi membri sono reclutati per combattere in nome dell'Islam e sono convinti che la loro sia una guerra di religione. Ma, dice Bruxelles, i terroristi "invocano abusivamente il nome dell'Islam".
    Il problema è che l'Islam non ha una chiesa, un Papa, dei vescovi che possano definirne la dottrina. Questa si forma faticosamente con il consenso dei dotti.
    La maggioranza dei "dotti" – non tutti – condanna al Qaeda, ma non il terrorismo in genere, dal momento che anche intellettuali "moderati" o presunti tali – come lo shqykh Qaradawi, forse il più noto teologo musulmano mondiale, e il rettore della prestigiosa Università al Azhar, Tantawi – elogiano gli attentati contro Israele.
    L'affermazione secondo cui la parola "jihad" designa solo una lotta morale interiore è ridicola. Lo studioso americano David Cook, in un bel libro che qualcuno a Bruxelles dovrebbe leggere, ha definitivamente mostrato che questo significato di "jihad" è praticamente sconosciuto al di fuori degli ambienti sufi fino al Ventesimo secolo, e che l'uso di "jihad" nel senso di campagna armata rimane prevalente in arabo ancora oggi.
    L'uso spirituale, tipico della mistica, è ripescato solo quando si cerca di rimandare al mittente le accuse occidentali di collusione con il terrorismo. "Islamista" è già un'espressione politicamente corretta inventata in Francia per distinguere gli "islamisti" dagli "islamici" e non usare il più "offensivo" (ma dottrinalmente più corretto) "fondamentalismo".
    Invece di baloccarsi con le parole, Bruxelles dovrebbe preoccuparsi dei fatti, e decidere una buona volta da che parte stare nella guerra che il terrorismo islamico ha dichiarato all'Occidente.

(L'Indipendente, 26 aprile 2006)





4. LA NUOVA STRATEGIA DI AL QAIDA IN EGITTO E PALESTINA




In Israele scatta l'allerta «Bin Laden ci assedia»

di Francesco Cerri

GERUSALEMME - «Siamo circondati»: è il commento dopo gli ultimi attentati nel Sinai egiziano di un alto responsabile della sicurezza israeliana, citato dal «Jerusalem Post». Da mesi ormai i dirigenti dell'intelligence dello stato ebraico avvertono della manovra di accerchiamento in atto da parte della Jihad Globale, la nebulosa terroristica che fa capo a Al Qaida. Lo stato ebraico, affermano, è ora un obiettivo prioritario del terrorismo islamico, in seguito a cambiamenti ideologici e nei quadri direttivi intervenuti in seno alla rete di Osama Bin Laden. Cellule di Al Qaida, o dei movimenti paralleli, sono ora attive in Egitto, soprattutto nel Sinai, in Giordania e in Libano. Tentativi di infiltrazioni sono in corso nei Territori palestinesi, in particolare a Gaza, dove gli uomini di Al Qaida cercano di reclutare miliziani dei vari gruppi armati, anche di Hamas, «disoccupati» e forse ideologicamente frustrati dopo un anno di quasi tregua.
    Fonti della difesa israeliana, citate alcune settimane fa da «Yediot Ahronot», hanno detto di temere che Al Qaida stia preparandosi a compiere nel 2006 un mega-attentato nello stato ebraico, forse delle dimensioni dell'attacco alle Torri Gemelle di New York. L'avvicinarsi della minaccia sembra confermato dagli attacchi verbali sempre più diretti a Israele contenuti nei proclami audio o video di Osama Bin Laden e dei suoi luogotenenti, e dal moltiplicarsi delle stragi ai confini dello stato ebraico.
    Soprattutto nel Sinai - con gli attentati di Taba nel 2004, Sharm el Sheikh nel 2005 e ora a Dahab - ma anche in Giordania, dove l'anno scorso è stata colpita la capitale Amman. Egitto e Giordania, non è un caso, sono i soli stati arabi ad avere firmato accordi di pace con Israele e gli interlocutori strategici più importanti dello stato ebraico nell'area. «La minaccia è più vicina» aveva avvertito già dopo gli attentati di Amman nel novembre scorso l'analista del Centro Intelligence e Terrorismo israeliano di Gilot, Yoram Kahati: «L'attacco contro la Giordania deve suonare come un campanello d'allarme, e indica che un attacco contro Israele è solo una questione di tempo: ci vorranno sei mesi, un anno, tre anni, ma succederà, sarà su larga scala, in un'area centrale, popolosa».
    Dopo avere a lungo negato infiltrazioni di uomini di Bin Laden nei Territori, il presidente palestinese Abu Mazen ha confermato il mese scorso che i servizi palestinesi hanno «rilevato segni della presenza di Al Qaida in Cisgiordania e a Gaza». «È una faccenda molto seria» ha ammesso il rais. I servizi di sicurezza israeliani, in perenne allerta per il pericolo quotidiano del

prosegue ->
terrorismo palestinese, hanno alzato la guardia anche davanti al nuovo rischio della Jihad Globale. L' intelligence israeliana guarda soprattutto con preoccupazione alla situazione nel Sinai, dove ritiene che Al Qaida sia riuscita a creare una base permanente, collegata con la struttura in Iraq del giordano Abu Mussab al-Zarqawi.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 27 aprile 2006)





5. INTERVISTA A STEVAN HOBFOLL




«L'Occidente impari a vincere la paura»

di Stefano Gulmanelli

Stevan Hobfoll
Ha vissuto in Israele dove il terrorismo è di casa. Si è trovato a curare i sopravvissuti dell'11 settembre e quelli che hanno visto le Torri crollare, rimanendone traumatizzati. Ma soprattutto sono anni che Stevan Hobfoll, psicologo e docente alla Kent University in Ohio, concentra la sua attenzione sull'impatto del terrorismo sulla psiche individuale e sulla psicologia di massa, con i relativi riflessi sui valori sociali e politici. Un buon interlocutore per esaminare il rapporto relativamente nuovo fra terrorismo e l'Occidente che «fino a poco tempo fa pensava essere zona franca».

Professore, l'occidentale non è abituato all'idea che si può un giorno uscire di casa e non rientrarvi a causa di un attacco terroristico. È un pensiero che s'impara a gestire?
L'Occidente ha certamente avuto un brusco risveglio. Ha sempre creduto che il terrorismo fosse un problema di altri e quindi che altri dovevano risolverlo. Mostrando miopia politica ma anche scarsa empatia nei confronti di chi era colpito dal fenomeno. Ora d'improvviso crede d'essere in un incubo.

Ma se il livello degli attentati resta relativamente basso - endemico ma senza eventi clamorosi ripetuti in sequenze ravvicinate - la gente imparerà a convivere con l'eventualità di un attacco? E cosa accade a una società che vive in una simile sensazione di assedio?
Quello che già intravediamo. Da un lato la crescente richiesta di sicurezza, con tutto ciò che questo comporta dal punto di vista politico. Dall'altro una rabbia subliminale contro di «loro». Un «loro» generalizzato che comprende tutti i pachistani, tutti i marocchini, tutti i somali e così via, a seconda della nazionalità degli attentatori di turno. Il fatto è che - per quanto riguarda questi «loro», soprattutto se islamici - ad avere i problemi più seri sono le società europee; a parer mio più di quella Usa. Negli Stati Uniti i musulmani hanno una posizione media simile - se non migliore - a quella degli altri gruppi. Molti, almeno i giovani, hanno un titolo di studio e il «loro» tasso di disoccupazione è proporzionalmente più basso che nel resto della società. In Europa la situazione è opposta: nel Regno Unito gran parte degli immigrati islamici sono ai margini, in Germania a musulmani di terza generazione è preclusa la cittadinanza, in Francia sono relegati nelle periferie più degradate. Il potenziale di rabbia del musulmano immigrato mal integrato è quindi molto superiore in un'Europa ancora in parte refrattaria al fenomeno migratorio. Questo al di là del giudizio sulla politica estera Usa che può dare adito in quella comunità a sentimenti persino di odio, ma in modo "contingente".

Venendo alla gestione del senso di emergenza, come si potrebbe instillare nella popolazione una percezione di pur relativa sicurezza?
Ad esempio facendo come in Israele, dove, anche nel peggior momento della seconda Intifada, si ricordava costantemente alla popolazione che le vittime dell'incredibile ondata terroristica erano comunque meno dei morti dovuti agli incidenti stradali nello stesso periodo. Si tratta di mettere le cose in prospettiva. Negli Usa il rischio di cader vittima di un attentato è di uno su 100mila, quello di morire per infarto o per il diabete è rispettivamente di 1 su 2mila e 1 su 4mila...

Perché non si fa?
Perché a politici e autorità da un lato non spiace lasciar aleggiare la sensazione di minaccia per porsi come «quelli che possono salvarvi»; dall'altro paradossalmente non è loro concesso minimizzare il problema. Faccio un esempio: in campagna elettorale, sia Bush e sia Kerry hanno all'inizio cercato di dare un basso profilo al problema terroristico. La reazione - di media ed elettorato - è stata critica: «Perché sminuite un problema così serio?». Il che peraltro é in linea con la natura umana: chiediamo di essere spaventati ma al contempo vogliamo sentirci dire che siamo al sicuro perché possiamo gestire la minaccia.

(Avvenire, 26 aprile 2006)





6. IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE DELLO STATO D'ISRAELE




Il messaggio del presidente dello Stato d'Israele Moshe Katsav
alle comunità ebraiche della diaspora
in occasione del 58° giorno dell'indipendenz
a


Miei cari amici,

Da quando, nel 1948, il popolo ebraico ha rinnovato la sua indipendenza e fondato uno stato ebraico e democratico in Israele, noi abbiamo conosciuto molte guerre e molto terrorismo, e abbiamo vissuto momenti duri sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista sociale. Nonostante ciò, lo Stato d'Israele è oggi una delle nazioni guida nei campi scientifico, tecnologico, della ricerca e dello sviluppo. Viene preso ad esempio da molti Paesi nel mondo e si è guadagnato il profondo rispetto della comunità internazionale.
    Nel 1948, l'Yishuv nella Terra d'Israele contava 600.000 ebrei: ora la popolazione israeliana comprende 7 milioni di individui. Abbiamo accolto milioni di nuovi immigrati dai paesi mussulmani e dal blocco comunista, e abbiamo offerto loro alloggio, educazione scolastica, previdenza sociale e servizi sanitari.
    Negli ultimi anni abbiamo intrapreso un percorso di portata storica verso i palestinesi e in questi stessi anni essi hanno conseguito successi che non hanno precedenti nella loro storia. Né questa sarebbe stata la fine di tali successi se non avessero deciso di fermare il processo politico e e tornare al terrorismo e agli spargimenti di sangue.
    Negli ultimi anni il terrorismo palestinese ha ucciso più israeliani di quanti non ne abbia uccisi nei primi 50 anni dalla fondazione dello Stato.
    Con sgomento, abbiamo visto il popolo palestinese votare per un governo controllato da Hamas, in elezioni che non sono state né democratiche, né conformi agli accordi di Oslo. Hanno scelto un'organizzazione, che tanto l'Europa che gli Stati Uniti definiscono terrorista. Il governo di Hamas sostiene che continuerà a finanziare il terrorismo, rifiuita di riconoscere allo Stato d'Israele il diritto di esistere e si rifiuta di onorare gli obblighi internazionali che i leader palestinesi si erano assunti sin dai tempi degli accordi di Oslo.
    Il nostro obiettivo è la pace. Lo abbiamo dimostrtato in passato e continueremo nella nostra battaglia sia per garantire sicurezza allo Stato d'Israele sia per arrivare alla pace con tutti i nostri vicini.
    La democrazia israeliana ha dimostrato di essere forte ed in grado di affrontare e prendere decisioni difficili.
    L'economia israeliana ha fondamenta solide che sostengono la crescita e i successi economici che abbiamo conseguito. Dobbiamo fare di più per proteggere gli strati più poveri della società israeliana.
    Aspettiamo con ansia il giorno in cui potremo dedicare le nostre risorse umane e scientifiche alla risoluzione dei veri problemi del genere umano: la lotta contro le malattie e la battaglia contro povertà e disastri naturali, piuttosto che destinarle alla guerra contro terrorismo, distruzione e rovina.
    Sono orgoglioso della solidarietà delle comunità ebraiche della Diaspora verso Israele. È nostro dovere rafforzare i valori dell'ebraismo, che hanno portata universale, nonché l'unità all'interno del nostro popolo e il legame con il sentimento nazionale, la religione ed il Paese.
    Auguro a tutto il popolo ebraico in Israele e nella Diaspora un felice Giorno dell'Indipendenza, il conseguimento dei nostri obiettivi nazionali e la relizzazione delle preghiere e dei desideri di generazioni di ebrei, ovvero di vivere in pace e in sicurezza, con benessere economico e giustizia sociale.

(Keren Hayesod, 28 aprile 2006)





7. LETTERA APERTA AL PRESIDENTE ROMANO PRODI




Dal presidente del Bené Berith (associazione umanitaria ebraica) :
 
Illustrissimo Sig.Presidente,
 
    Le celebrazioni di ieri per la liberazione dell'Italia dall'oppressore nazifascista, si sono macchiate di atti di intolleranza inaccettabili per una nazione democratica.
    Bruciare le bandiere  dello Stato d'Israele, insultare la Brigata Ebraica , che ha combattuto al fianco di chi si è battuto per la liberazione della nostra Patria, l'allontanamento della Signora Moratti e del padre, tra l'altro reduce di un campo di sterminio, debbono suonare come un pericoloso campanello d'allarme per la democrazia dello Stato.
    Prendiamo atto della Sua dissociazione e condanna per questi fatti infami,ma a mio avviso, non è sufficiente.
    C'è bisogno di una riflessione più profonda e di atti tangibili.
    La prima riflessione deve essere fatta sull'indifferenza e sulla paura della gente "normale" :
centomila persone non possono aver paura di un centinaio di teppisti che, anche se si definiscono di sinistra,rappresentano e ci ricordano con i loro metodi, il peggio delle squadracce fasciste del ventennio.
    Vorrei rammentarLe che leggi razziali del '38 furono possibili, perché passarono nell'indifferenza più totale.
    Lo Stato d'Israele non ha interlocutori validi, perché nei regimi totalitari e teocratici del Medio Oriente,le forze che vorrebbero la democrazia, vengono soggiogate dai gruppi più radicali ed intransigenti.
    Vogliamo forse creare questo clima anche in Italia?
    Da alcuni anni i nostri fratelli ebrei francesi stanno vivendo un clima di antisemitismo,sfociato anche nell'omicidio.
    Questo fenomeno ha fatto si che molti ebrei francesi stanno lasciando la Francia per andare a vivere in Israele.
    Dobbiamo iniziare anche noi riflettere su questa opportunità?
    C'è un futuro tranquillo per noi ebrei italiani?
    Nel corso della storia abbiamo dato il nostro contributo alla fondazione di questa Nazione di cui le ricordo pochi esempi tra i tanti:

- uno dei più fedeli collaboratori di Mazzini era un ebreo;
- il contributo ebraico al nostro Risorgimento è stato piuttosto rilevante sia in termini di idee che di uomini;
- Ernesto Nathan è stato un grande sindaco per la città di Roma,
- abbiamo combattuto nella Grande Guerra, tanto che l'allora Rabbino Capo di Roma, Angelo Sacerdoti, lasciò la sua Comunità per dare assistenza ai soldati ebrei che combattevano al fronte;
- l'impegno ed il sacrificio dei Fratelli Rosselli nella lotta al fascismo ,credo che siano da tutti conosciuti;
- fu un ebreo a gridare contro Mussolini nel celebre discorso in cui si voleva annullare la sovranità del Parlamento;
- molti partigiani ebrei hanno avuto alte onorificenze per il loro impegno alla liberazione dell'Italia;
- Umberto Terracini e Leo Valiani hanno dato un importante contributo alla stesura della Carta Costituzionale.

    Dobbiamo dare ulteriori dimostrazione di attaccamento al nostro Paese?
    Spero che Ella voglia comprendere il nostro stato di preoccupazione e disagio, ma non di paura.
    Abbiamo combattuto in passato per l'affermazione dei principi democratici e di libertà,sia in senso intellettuale che pratico e siamo pronti ripeterci.
  Perchè l'intolleranza verso gli ebrei ,il bruciare una bandiera di uno stato sovrano (non solo dello Stato d'Israele) sono pericolosi segnali di intollerante faziosità di inciviltà e di antidemocraticità.
    Per tutto questo, a nome dell'Istituzione che rappresento, Le dico che non bastano più le parole di condanna o un comunicato stampa.
    Servono fatti.
    Nei prossimi giorni ci saranno le celebrazioni per la fondazione dello Stato d'Israele.
    Dimostrateci nei fatti che non avete timori di questi gruppi.
    Dimostrateci nei fatti che non dobbiamo temere l'indifferenza.
    Dimostrateci nei fatti che c'è un futuro per gli ebrei in Italia.
 
    Cordialmente,
 
Sandro Di Castro

(newsletter Scarabello, 29 aprile 2006)






MUSICA E IMMAGINI




Cry for you




INDIRIZZI INTERNET




Bené: Berith Italia

Welcome to Kerem EL




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.