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Notizie su Israele 368 - 17 novembre 2006

1. Uno Stato per due popoli?
2. Un parlare chiaro
3. Uso calcolato delle immagini
4. Gaza come il Libano?
5. I musulmani invitati a tenersi pronti
6. L'iniziativa oggi è nelle mani dei terroristi
7. Armi e rifornimenti alle milizie islamiche
8. Ebrei che tornano in patria
9. Musica e immagini
10. Indirizzi internet
Ezechiele 38:18-19. In quel giorno, nel giorno che Gog verrà contro la terra d’Israele, dice DIO, il Signore, il mio furore mi monterà nelle narici; nella mia gelosia, nel fuoco della mia ira, io lo dico, certo, in quel giorno, vi sarà un grande sconvolgimento nel paese d’Israele.
1. UNO STATO PER DUE POPOLI?




Su Israele si affaccia l'incubo della “scomparsa”

di Anna Momigliano

Saeb Erekat
Il tempo sta scadendo. E proprio gli israeliani sono stati i primi ad accorgersene: «Molti palestinesi stanno perdendo interesse nella soluzione dei due Stati, e questo rischia di diventare la fine di Israele come Stato ebraico». Le preoccupazioni espresse da Ehud Olmert, allora vice premier, a pochi mesi dal ritiro da Gaza rappresentano ancora, e sempre di più, una spada di Damocle sul destino di Israele. Per la prima volta dalla sua creazione, i cittadini stanno cominciando a temere per la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico. Non solamente per le minacce, che certo non vanno sottovalutate, da parte di Siria e Iran, ma anche a causa dello stallo dei negoziati con l'Autorità nazionale palestinese. Oggi la soluzione «due stati per due popoli» acquista perciò una urgenza davvero drammatica.
    Gerusalemme sa di non avere scelta: uno stato palestinese si deve fare e nel tempo più rapido possibile. L'occupazione dei Territori non potrà continuare per sempre e l'unica alternativa sarebbe un unico stato per israeliani e palestinesi. Il che, considerati i dati della differente crescita demografica dei due popoli, significherebbe la fine di Israele come stato a maggioranza ebraica.
    Insomma, si ripropone l'annosa questione tra la soluzione dei due stati (il principio «due popoli e due stati», invocato a ragione da tutta la sinistra italiana) e la cosiddetta soluzione binazionale («uno stato per due popoli»). Ma stavolta non si tratta di una questione astratta, filosofica: ne va dell'esistenza stessa di Israele. Di questo, si rendono conto tutte le forze politiche israeliane. I tempi di Oslo - quando la sinistra pacifista di Yitzhak Rabin propose la creazione di uno Stato palestinese suscitando indignazione tra i conservatori - sono lontanissimi. La creazione di uno stato palestinese è così diventata la priorità di Gerusalemme - anche se le scelte strategiche, a cominciare dall'unilateralismo, possono prestarsi a critiche. Nella controparte palestinese, invece, il fronte è molto più diviso. Hamas, com'è noto, si rifiuta di riconoscere lo stato israeliano, il che, più o meno indirettamente, equivale a un rifiuto della creazione di uno stato palestinese distinto e separato. Le ragioni degli islamisti sono note: l'attesa di due generazioni varrà bene il sogno di una Grande Palestina. Eppure, anche autorevoli esponenti di Fatah, incluso lo stesso Yasser Arafat, hanno spesso invocato la creazione di uno stato unico.
    Il dibattito sullo scenario di uno stato unico per palestinesi e israeliani, accantonato nell'era dei negoziati, è rifiorito negli ultimi anni grazie al fallimento di Oslo. Nel gennaio del 2004, Yasser Arafat rilasciò al Guardian un'intervista dai contenuti espliciti: «Il tempo per la soluzione dei due stati sta finendo», fu l'avvertimento lanciato dal presidente palestinese. Nel giro di poche settimane, alle parole di Arafat fecero eco quelle di Abu Ala, allora primo ministro dell'Anp. Le dichiarazioni dei due leader palestinesi toccarono un nervo scoperto e diedero vita a un vivace dibattito sulla stampa israeliana, che ha coinvolto i vertici politici (Olmert, David Landau), le più prestigiose penne giornalistiche (Danny Rubinstein, Ari Shavit) e numerosi accademici (l'israeliano Benny Morris, l'italiano Sergio dalla Pergola, e l'americano Tony Judt, docente alla New York University che si schierò a favore dello stato unico). Alle orecchie degli israeliani, ogni riferimento alla “soluzione binazionale” suona come una minaccia, un crudo richiamo al fatto che, alla lunga, i palestinesi tengono il coltello dalla parte del manico. Anche Saeb Erekat ha provocatoriamente evocato lo scenario di uno stato unico, proprio in un'intervista a questo giornale. Come a dire: uno stato palestinese conviene più a voi che a noi.
    Alla luce di questa consapevolezza, non stupisce che un anno dopo i moniti di Arafat e di Abu Ala, Ariel Sharon presentò il piano di disimpegno da Gaza, primo passo per un più ampio disegno di “separazione dai palestinesi” che avrebbe dovuto portare alla creazione di due stati. Fu proprio Olmert, allora, a spiegare l'urgenza della questione in questi termini: «Purtroppo sempre più palestinesi stanno perdendo l'interesse nella soluzione dei due stati, perché vogliono cambiare la natura di questo conflitto da un “paradigma algerino” a un “paradigma sudafricano”». L'obiettivo dei palestinesi, consci del proprio vantaggio demografico, sarebbe insomma una transizione «da una lotta contro l'occupazione, a una lotta per il principio di “un uomo, un voto”». Un'eventualità che, secondo Olmert, si deve prevenire con la creazione di uno stato palestinese: «Questo cambiamento di strategia», ha spiegato, «significherebbe una lotta meno sanguinosa, ma, probabilmente, molto più efficace per i palestinesi. Per noi, invece, significherebbe la fine dello stato ebraico». Chissà cosa direbbe Olmert, se sapesse che in Italia molti settori dell'estrema sinistra -compreso il Forum Palestina che ha organizzato la manifestazione di domani a Roma - hanno fatto proprio lo slogan: «Uno Stato palestinese, subito». In chiave antisionista.

(Il Riformista, 17 novembre 2006)





2. UN PARLARE CHIARO




Hamas: “Non riconosceremo mai Israele né la spartizione della terra”

Hamas non ripeterà mai “l’errore” di Fatah di riconoscere Israele. Lo ha ribadito domenica il ministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Mahmoud al-Zahar intervistato dal quotidiano al-Sharq al-Awsat. Al-Zahar ha spiegato che il suo gruppo non ha alcuna intenzione di riconoscere Israele, né di accettare la soluzione “due stati-due popoli” e la risoluzione di spartizione delle Nazioni Unite.
Ad un domanda sulle pressioni internazionali, Al-Zahar ha risposto: “Hamas non cambierà mai posizione indipendentemente dall’intensità delle pressioni”.
Ad una domanda circa la cosiddetta iniziativa di pace araba (saudita) che prevedrebbe il riconoscimento di Israele sulla base del principio “terra in cambio di pace”, Al-Zahar ha risposto: “Non riconosceremo mai l’iniziativa araba. Non accetteremo nulla che possa essere definito riconoscimento di Israele”.
Domanda: E se la soluzione prevedesse la creazione di uno stato palestinese sui confini del 1967 con Gerusalemme capitale?
Al-Zahar: “Allora dichiareremo una hudna [tregua provvisoria], ma non riconosceremo mai Israele”.
Domanda: Pensa che Israele lascerebbe il territorio in cambio di una hudna?
Al-Zahar: “Fatah ha riconosciuto Israele ma l’occupazione continua. Non ripeteremo quell’esperienza fallimentare”.
L’intervistatore a questo punto ha chiesto al ministro degli esteri palestinese quale sia la sua soluzione del conflitto e quanto tempo ci vorrà per arrivare a una soluzione. Al-Zahar ha risposto: “Il problema è che Israele non vuole una soluzione, non ha un piano di pace e dunque non possiamo parlare di soluzioni immaginarie. Il nostro piano è noto. Noi riteniamo di avere un diritto storico, e se non possiamo ottenere una vittoria adesso, questo non significa dichiararsi sconfitti. Su queste basi, la lotta armata espellerà l’occupante da ogni parte e istituirà un governo, senza cedere i nostri diritti sia alla terra sia al ritorno. Detto questo, se il mondo ce lo chiede, e se è nell’interesse del popolo palestinese, allora potremo accettare una tregua, ma non il riconoscimento”.
Al-Zahar ha aggiunto che Hamas rifiuta la risoluzione di spartizione (della terra in due stati, uno ebraico e uno arabo) votata dalle Nazioni Unite nel 1947, così come la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 242 del 1967, aggiungendo che Hamas non riconosce legittimità né alla comunità internazionale né alle sue organizzazioni.

(YnetNews, 12 novembre 2006 - da israele.net)





3. USO CALCOLATO DELLE IMMAGINI




Gerusalemme ha ritirato i suoi coloni però loro continuano a ucciderci e terrorizzarci

di Benny Morris

Negli ultimi anni, quando gli attentatori suicidi palestinesi facevano saltare in aria centinaia di israeliani nei ristoranti e sui bus, il governo e i media israeliani si adoperavano in tutti i modi per non mostrare le foto dei morti alla televisione. I telespettatori vedevano soltanto carcasse di veicoli anneriti dal fuoco e tavoli e sedie contorti e spaccati, forse qualche macchia di sangue qua e là sulle mattonelle bianche. Nient'altro.
    Era in atto una censura voluta delle foto e delle riprese dei notiziari per non mostrare corpi decapitati e bambini smembrati: ben poche di quelle immagini infatti hanno raggiunto i media occidentali. Le autorità israeliane rispettavano i morti e i sentimenti dei parenti e sbarravano il passo ai cameraman sulla scena del massacro fino a quando le vittime non erano state rimosse, vietando inoltre di trasmettere le riprese più crude. Non si voleva sfruttare queste immagini a scopi propagandistici.
    Il comportamento dei palestinesi è, per tradizione, opposto e mai lo si è visto così chiaramente come nella copertura mediatica del bombardamento di Beit Hanoun nella Striscia di Gaza di qualche giorno fa. Il mondo è stato inondato di immagini raccapriccianti delle vittime palestinesi, bambini insanguinati, madri urlanti, parenti in lacrime che gridavano vendetta; e poi la folla che correva nelle stradine di Gaza, sollevando tra le braccia i bambini feriti, avvolti negli immancabili drappi verdi dell'Islam; dottori affaccendati su lenzuola inzuppate di sangue nei letti degli ospedali; bambini spauriti, che vagavano tra le macerie delle loro case, distrutte dall'artiglieria israeliana. I politici palestinesi non hanno perso tempo a diffondere queste immagini con celerità ed efficienza, spesso tramite Al Jazira, fino ai telespettatori e ai lettori dei quotidiani in occidente.
    Agli occhi dello storico, c'è qualcosa di profondamente offensivo in tutto questo. Offensivo, perché gli storici sono sempre interessati alla scoperta di cause e circostanze che generano e accompagnano gli avvenimenti. Il contesto è tutto, o quasi. Le immagini, invece, per quanto sconvolgenti, forniscono solo una visione parziale della realtà. Così è stato per i 18 civili palestinesi uccisi per errore dall'artiglieria israeliana a Beit Hanoun.
    Per questo motivo le dichiarazioni di critica a Israele del ministro degli esteri italiano, Massimo D'Alema, sono deprimenti. D'Alema non sa forse che l'estate scorsa (2005) Israele, dopo un'occupazione durata 38 anni, ha ritirato le sue forze e raso al suolo i suoi insediamenti, sfrattando i suoi coloni dalla Striscia di Gaza — provocando profonde lacerazioni in Israele — per lasciare il territorio interamente in mano ai palestinesi, come questi chiedevano da molto tempo? E non sa forse che nel giro di poche ore i palestinesi hanno risposto — e lo hanno fatto e continuano a farlo ogni giorno da allora — con il lancio di missili sui villaggi e sulle cittadine israeliane, confinanti con la Striscia di Gaza, uccidendo e ferendo i civili israeliani e terrorizzando decine di migliaia di persone? E D'Alema non sa che, in risposta al ritiro israeliano, la popolazione palestinese — e soprattutto il milione e mezzo di persone che vive nella Striscia di Gaza — ha eletto al governo il movimento fondamentalista di Hamas, e che Hamas predica la distruzione di Israele (il ministro degli esteri italiano dovrebbe leggersi lo statuto della fondazione di Hamas, risalente al 1988, che cita «Il protocollo degli anziani di Sion» per «dimostrare» che gli ebrei sono malvagi e devono essere estirpati dalla Terrasanta, e forse dal mondo intero)?
    Le forze armate israeliane hanno adoperato la massima cura in quest'ultimo anno, nel rispondere ai lanci di missili Qassam, prendendo di mira i soli terroristi armati per evitare perdite tra i civili. Ma la guerriglia palestinese agisce dall'interno e alle spalle dei civili, utilizzandoli come scudo (a riprova, una processione di donne è intervenuta a Beit Hanoun la settimana scorsa, per far fuggire 57 terroristi da una moschea dove si erano rifugiati), pertanto fare vittime tra i civili è inevitabile. In tali circostanze, di tanto in tanto le bombe sbaglieranno traiettoria e cadranno sui civili.
    D'Alema tuttavia ha ragione su un punto. Le elezioni americane di medio termine porteranno a un ripensamento politico sull'Iraq e all'inizio di un graduale ritiro militare da quel Paese. Ma dubito che i politici americani, repubblicani o democratici, pensino che la soluzione del conflitto israelo-palestinese risolverà tutti i problemi del Medio Oriente e neutralizzerà l'ostilità islamica globale contro l'Occidente (generata da profonde divergenze interne di natura filosofica e religiosa, nonché dagli interventi occidentali in varie parti del mondo). I terroristi islamici in Thailandia, che massacrano i thailandesi, e nelle Filippine, dove uccidono i filippini, e nel Darfur, dove uccidono i neri, e in Iraq, dove uccidono i loro correligionari, non sono certo motivati dalle preoccupazioni per i palestinesi e non smetteranno di sterminarsi a vicenda anche se Israele dovesse sparire dalla faccia della terra, come sembra credere D'Alema.
    No, D'Alema non troverà consolazione nei prossimi due anni a Washington, malgrado la maggioranza democratica, perché l'ostacolo principale alla soluzione del conflitto tra Israele e la Palestina, da come gli americani alla Casa Bianca e al Congresso vedono le cose (e come le vede anche il cittadino comune), è il rifiuto palestinese a cercare una soluzione basata sul riconoscimento di Israele e la creazione di uno stato palestinese, e il rifiuto di ripudiare il terrorismo a favore di una diplomazia realistica.
    È vero che di questi giorni il problema israelo-palestinese è aggravato da un governo israeliano incompetente e indeciso e da occasionali abusi o usi spropositati della reazione militare, voluti o accidentali che siano. Ma D'Alema farebbe meglio a rivolgersi ai dirigenti di Hamas, per convincerli ad affrontare la realtà e accettare il compromesso dei due stati sovrani. Perché nessun'altra strada potrà portare alla pace.

(Corriere della Sera,11 novembre 2006)





4. GAZA COME IL LIBANO?




Rigurgiti anti-israeliani

Gaza come il Libano? I contraccolpi della strage di Beit Hanun, col sangue di diciotto civili marchiato dalla stella di David, hanno soffiato nuovo vento sulle vele di un intervento multilaterale per placare il perenne conflitto nella Striscia di Gaza.

Tra i fautori più entusiasti spicca il ministro degli Esteri D’Alema, che invoca una “iniziativa internazionale che fermi la spirale delle violenze” a Gaza. L’iniziativa dovrebbe godere di un amplissimo consenso, coinvolgendo Onu, Ue e Lega Araba, insomma il trio delle istituzioni più inefficaci e impreparate ad affrontare crisi internazionali. Obiettivo: applicare il modello libanese anche in Palestina, dispiegando una forza armata internazionale su mandato Onu. La proposta dalemiana ha il profumo dello slancio umanitario che però resta un aroma troppo rarefatto rispetto alla durezza della realtà. L’esperienza della missione Unifil-2 in Libano si sta dimostrando un fiasco. Le scarse truppe libanesi sono inchiodate nelle loro postazioni, mentre nel complesso sistema di cunicoli sottoterra continuano indisturbati i rifornimenti di armi ad Hezbollah tramite la Siria e l’Iran La forza multinazionale è popolata da contingenti ostili ad Israele, come due battaglioni di ceceni musulmani inviati da Mosca, o come i soldati indonesiani o turchi. Anche il responsabile di Unifil-2, il generale francese Alain Pellegrini, si è distinto per un incomprensibile accanimento contro i voli di pattugliamento che l’aviazione militare israeliana effettua sul sud del Libano. Lo stesso generale si è spinto fino al punto da minacciare l’abbattimento degli aerei israeliani o, in alternativa, ottenere una modifica delle regole d’ingaggio. In panoramica è la stessa situazione mediorientale a essere sensibilmente peggiorata nonostante l’intervento multilaterale. È vero: Gaza si sta trasformando in un nuovo Libano, ma nel senso opposto a quello auspicato da D’Alema. Le continue lacerazioni tra Hamas e Fatah hanno polverizzato le già fragilissime istituzioni palestinesi, scavando crateri in cui si sono insediati Iran e Siria. I due grandi sponsor del terrorismo arabo hanno inserito Gaza e Hamas nel loro network anti-israeliano riuscendo a stringere una tenaglia sui fianchi di Israele, che ora è circondato. A sud, Gaza, Hamas ha compiuto il salto evolutivo, tecnologico e logistico, per raggiungere l’efficacia operativa di Hezbollah. A nord il partito di Dio rimane armato e riarmato proprio da Damasco e Teheran, più forti che mai quando gli Usa annaspano in Iraq e Afghanistan. Replicare l’esperienza fallimentare di Unifil-2 anche a Gaza significa schierare la Comunità internazionale contro Israele, perché in

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Libano, come a Gaza, i contingenti militari funzionano da schermi difensivi dietro a cui si prepara la nuova guerra contro Israele. Ma un Israele sopraffatto dai suoi ostili vicini non rappresenta un passo in avanti per la stabilizzazione, né quella regionale né, tanto meno, quella globale. La posizione di D’Alema ha subito anche un’inaspettata critica che è “interna” in un doppio senso: sia perché innestata sul dibattito politico italiano, sia perché proveniente dalle pagine amiche de “l’Unità”. È lì infatti che Furio Colombo non si è trattenuto dall’accusare il ministro degli Esteri, nonché suo collega di partito, di un eccessivo umore anti-israeliano, che finisce con l’allarmare anche le comunità ebraiche italiane. Anche a sinistra, anche se con pesante ritardo, sta emergendo la coscienza che lasciare Israele in pericolo costante equivale a fomentare un attacco contro lo stesso Occidente. L’articolo di Colombo può costituire un passo epocale per liberare la sinistra dai suoi atavici pregiudizi anti-israeliani ed evitare che l’Italia si schieri contro il suo alleato naturale.

(Avanti!, 15 novembre 2006)





5. I MUSULMANI INVITATI A TENERSI PRONTI




Stampa iraniana: preparatevi alla "grande guerra" contro Israele

ROMA - I quotidiani iraniani Kehyan e Resalat hanno invitato i musulmani di tutto il mondo a tenersi pronti per una "grande guerra" contro lo Stato di Israele. I due giornali hanno pubblicato gli editoriali lo scorso 20 ottobre in occasione del 'Quds', la festa iraniana che incita alla guerra contro Israele, e sono stati tradotti nei giorni scorsi dal Middle East Media Research Institute (Memri). "Hezbollah ha distrutto almeno metà Israele nel corso della guerra in Libano. Ora non resta che metà del cammino", si legge sul conservatore Keyhan. "E' probabile che nella prossima battaglia - prosegue - anche la seconda parte collasserà. Quel giorno, la Giordania non potrà più evitare che gli islamici giordani operino lungo il confine Giordania-Palestina, milioni di islamici egiziani non consentiranno che la situazione al confine tra Israele e il Sinai rimanga tranquilla e le Alture del Golan siriane non resteranno a guardare la battaglia. Quel giorno non è così lontano". Stessi toni sulle colonne di Resalat, che ha pubblicato un editoriale dal titolo "Preparativi per la grande guerra". "La grande guerra ci attende, scoppierà forse domani, o nei prossimi giorni, o nei prossimi mesi, o anche nei prossimi anni, Israele deve scomparire - scrive il giornale - per la prima volta nei suoi 60 anni di vita disgraziata, il regime sionista, il cocco dell'Occidente nel Medio Oriente, assaporerà il gusto della sconfitta e i cittadini del suo regime tremeranno di fronte alla minaccia dei missili Hezbollah. L'umma (la comunita') dei musulmani deve preparsi alla grande guerra, in modo da cancellare il regime sionista e rimuovere la sua crescita cancerogena. Come disse l'ayatollah Khomeini, 'Israele deve crollare'".

(Apcom, 16 novembre 2006)





6. L'INIZIATIVA OGGI E' NELLE MANI DEI TERRORISTI




I guai di Israele

Oggi Israele soffre di una grave malattia, ha perso il vantaggio dell’iniziativa, che oggi è nelle mani dell’asse del jihad: Hamas, Hezbollah, Siria e Iran. Sharon aveva salvato Israele dal baratro nel 1973, ed ha effettuato il ritiro unilaterale da Gaza proprio perché aveva chiaro che nei momenti cruciali è indispensabile spiazzare l’avversario. Ma la sua malattia ha vanificato gli effetti della mossa su Gaza. Oggi, né Olmert, né Peres, né Kadima hanno la forza di Sharon per replicare il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania e quindi non possono far nulla senza un interlocutore palestinese. Solo Sharon, che aveva ucciso politicamente Arafat, poteva imporre un generoso gesto di pace, senza contrattarlo col nemico. Ma Olmert non ha interlocutore palestinese: Abu Mazen non ha forza, Hamas non vuole trattare e dichiara, onestamente peraltro, di lavorare solo per la scomparsa di Israele. E’ un quadro insidioso che già si è verificato –nelle sue linee di fondo- una trentina di anni fa, e iniziò con una sconfitta militare cento volte più bruciante di quella recente in Libano. Nei giorno del Kippur del 1973, il mito dell’invincibilità di Tshaal crollò disastrosamente: la linea Bar Lev sul Canale fu travolta, Quneitra, sul Golan fu persa e solo l’eroismo di un pugno di carristi (157 tanks israeliani contro 1100 siriani) bloccò il dilagare delle divisioni corazzate di Assad in Galilea. Anche il Mossad fu ridicolizzato per aver compreso con sole sei ore di anticipo che decine di migliaia di soldati e decine di Mig si stavano lanciando su Israele. Peggio ancora fu il disastro sul piano politico, perché la responsabilità di quella sconfitta sul campo, della morte di 2.700 soldati israeliani sorpresi da una guerra, era, in prima persona, di due miti del sionismo: Golda Meir e Moshè Dayan. Solo la caparbia lucidità di Sharon, che disobbedì ai loro ordini e portò le sue colonne corazzate a 110 chilometri dal Cairo, riequilibrò la partita. La fortuna di Israele, però, fu quella di avere per nemico un eccellente leader militare che si rivelò un leale interlocutore politico: Anwar al Sadat. Il raìs egiziano infatti aveva scatenato quella guerra, per la prima volta, non per distruggere Israele, ma per obbligarla a trattare, e così fu, dopo la sua epocale visita alla Knesset. Ma la grande speranza degli accordi di Camp David (che ancora oggi ispirano la Road Map), fu poi vanificata dall’assassinio di Sadat che sigillò la vittoria del fronte del rifiuto di Arafat, Saddam e Assad. Alle ferite umilianti di una sconfitta militare fortunosamente evitata, Israele vide così sommarsi il vuoto politico, perché non vi era alcun interlocutore palestinese con cui sviluppare, qualsiasi strategia. Per meglio dire, vi era interlocutore nazionalista, ma era tanto combattivo e saggio, quanto non rappresentativo: re Hussein di Giordania, che allora esercitava la sovranità sulla Cisgiordania, ma che non poteva trattare a suo nome. Vi era poi un leader arabo rappresentativo, ma con cui non poteva trattare perché intendeva solo perseguire la distruzione di Israele: Yasser Arafat. Un quadro simile a quello di oggi che vede Abu Mazen disposto alla trattativa ma non rappresentativo e Khaled Meshall, forte del consenso palestinese ma indisponibile. Si aprì così una lunga fase di stasi (simile a quella odierna) che coinvolse prima Begin, poi Shamir, poi lo stesso Rabin. Una sequenza di anni persi che furono interrotti dalla prima Intifada e sbloccati da un elemento ricorrente: il marchiano errore di Arafat di allearsi con Saddam Hussein che aveva invaso il Kuweit. Quell’alleanza ruppe infatti la solidarietà araba con l’Olp e dall’isolamento mortale conseguente, Arafat poté uscire solo subendo il processo negoziale di Oslo.
    Oggi, nella nuova situazione di stallo, è inutile appellarsi alla ripresa di quel processo negoziale che ora si chiama Road Map. Israele, infatti, chiunque sia al governo (e non ci sono alle viste altri Rabin o Sharon), non può trattare con Hamas e non certo per ragioni di principio o perché Hamas si rifiuta di riconoscerla. Ogni apertura di dialogo darebbe infatti a Hamas un segnale concreto, indiscutibile di vittoria della sua strategia basata su stragi, razzi sui kibbutz e rapimenti. Non è neanche praticabile l’apertura di una trattativa con la Siria. Dopo le aggressioni subite da parte di Hezbollah e Hamas, eterodirette da Damasco, Gerusalemme oggi non può neanche accennare ad un abbandono delle alture del Golan, se non al prezzo di riconoscere davanti al mondo che la strategia di Grande Vecchio dei terroristi di Assad padre e figlio è pagante. Qualsiasi mediazione conclusa in questa situazione, imporrebbe ai contraenti (Hamas, Hezbollah o Siria che siano), di riprendere dopo una tregua, la stessa strategia pagante di stragi e guerra asimmetrica per ottenere un nuovo arretramento di Israele (e infatti questa è esattamente la proposta che Kaleed Meshal avanza da Damasco), sino alla sua auspicata distruzione.
Israele ha solo una strada percorribile: contrastare sul piano militare i terroristi (come ha fatto con successo), fare il possibile per rafforzare Abu Mazen, decidere quanta parte della West Bank è disposta a lasciare quando avrà un interlocutore affidabile.
    Olmert adempie egregiamente alle prime due necessità, tanto che solo l’uccisione di 350 miliziani di Hamas negli ultimi tre mesi ha evitato sinora lo scatenarsi della guerra civile tra al Fatah e Hamas e ha permesso a Abu Mazen di imporre la trattativa. Se nascerà un nuovo governo palestinese “tecnico”, il merito sarà in buona parte di Tshaal e non è cinico dirlo, dopo Beit Hanun, è solo una constatazione, anche se in politica, i “governi del velo”, raramente funzionano e non è affatto detto che il nuovo premier accetti le 4 condizioni poste dall’Ue e si riveli un interlocutore affidabile.

(dal blog di Carlo Panella)





7. ARMI E RIFORNIMENTI ALLE MILIZIE ISLAMICHE




Le mani di Hezbollah e Teheran sulla Somalia

di Fausto Biloslavo

Sette Stati musulmani stanno armando e addestrando segretamente le milizie islamiche. L’Iran in cambio vuole l’uranio

Sette Paesi musulmani stanno armando le milizie islamiche in Somalia, gli hezbollah libanesi addestrano i volontari della guerra santa internazionale di Mogadiscio e l’Iran starebbe cercando uranio in cambio di armi. Non si tratta di propaganda, ma delle denunce contenute in un rapporto di 80 pagine che verrà discusso venerdì prossimo da un comitato del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il rapporto, relativo alla violazione dell’embargo Onu sulla vendita di armi alla Somalia, è stato commissionato a quattro esperti provenienti da Stati Uniti, Kenya, Belgio e Colombia. Gli stralci più compromettenti della relazione, che parte da giugno quando le Corti islamiche conquistarono Mogadiscio, sono stati anticipati dall’agenzia di stampa Reuter.
«Mentre stiamo scrivendo il presente rapporto due iraniani presenti a Dusa Mareb sono coinvolti in questioni relative ad uno scambio fra uranio e armi», si legge nel documento degli esperti ingaggiati dall’Onu. Dusa Mareb è la città natale e roccaforte di sheik Hassan Dahir Aweys, il falco e vero leader delle Corti islamiche. Il governo transitorio somalo con sede a Baidoa, riconosciuto dalla comunità internazionale, aveva già denunciato la presenza di tecnici iraniani nell’area impegnati in ricerche nel sottosuolo. Il sospetto è che a Teheran, in cambio di armi, interessino eventuali giacimenti di uranio somali per rafforzare le proprie aspirazioni nucleari.
Si sapeva che Eritrea ed Etiopia armano ed addestrano i contendenti della guerra civile somala, ma gli esperti dell’Onu denunciano che pure Gibuti, Libia, Egitto ed Arabia Saudita inviano armi, rifornimenti e medicine alle milizie islamiche. L’Uganda, invece, avrebbe inviato parti di armi antiaeree ed un centinaio di esperti della sicurezza al fianco del governo transitorio. A parte l’Etiopia, che non commenta, gli altri Paesi smentiscono un loro coinvolgimento, mentre l’Iran sostiene di non avere fornito armi ai miliziani islamici fino a luglio, ma non si sa cosa sia successo dopo.
Altre rivelazioni clamorose riguardano i rapporti fra le Corti e Hezbollah, il partito armato degli sciiti libanesi. Adan Hashi Farah Ayro, un noto comandante estremista delle Corti, avrebbe inviato a combattere in Libano un nutrito manipolo di fanatici che si erano fatti le ossa nei campi di addestramento di Al Qaida in Afghanistan. Chi non è tornato a casa ha garantito ai familiari un assegno che, secondo il rapporto, varia da 2000 a 30mila dollari. Fra i 100 e 300 miliziani provenienti dalla Somalia si starebbero ancora addestrando in Libano ed in Siria, anche se il regime di Damasco ha seccamente smentito. Secondo quanto scrivono gli esperti, cinque consiglieri militari di Hezbollah si sono invece recati in Somalia per aiutare gli alleati del Corno dˆAfrica.

(Il Giornale, 15 novembre 2006)





8. EBREI CHE TORNANO IN PATRIA




India, la “tribù perduta” di Israele accusa i missionari di averli convertiti con la forza

di Prakash Dubey

SILIGURI – E’ partito ieri per “tornare” in Israele il primo gruppo dei presunti discendenti della tribù Bnei Menashe, una delle dieci disperse dopo l’esodo dalla Terra promessa di cui parla la Bibbia. Da qui, accusano i missionari cristiani di averli convertiti con la forza.
I primi 115 a partire verranno stanziati nel nord di Israele, nei pressi della regione di Nazareth, mentre i restanti 100 dovrebbero trovare casa nei pressi della Striscia di Gaza.
Per Michael Freund, fondatore della Shavei Israel [associazione che aiuta gli “ebrei dispersi” a tornare in Israele ndr] si tratta di “un punto di svolta. E’ un evento storico, perché i membri della tribù dispersa potranno tornare a casa dopo 27 secoli”.
I membri della tribù si sono già convertiti all’ebraismo in maniera formale in India, nonostante le proteste – anche a livello diplomatico – di New Delhi. I rabbini inviati negli Stati indiani del Mizoram e Manipur dal capo rabbino sefardita di Israele, Shlomo Amar, hanno seguito la conversione dei tribali e li hanno dichiarati “discendenti di ebrei”.
La tribù conta circa 7mila membri: di questi, già mille vivono fra la Striscia di Gaza e gli insediamenti in Cisgiordania. Per gli avvocati che hanno perorato la loro causa presso i governi israeliano ed indiano, il punto d’arrivo dei dispersi “non nasce da una decisione politica, ma pratica”. Sono i coloni di quelle zone, infatti, gli unici che hanno stanziato dei fondi per “far tornare i loro fratelli in patria”.
Il Mizoram è uno Stato a prevalenza cristiana, mentre la maggior parte della popolazione del Manipur è indù. All’inizio del 20° secolo, i membri della tribù si erano convertiti al cristianesimo ed ora, “rientrati in patria” accusano “i missionari stranieri, che hanno combattuto con forza la nostra eredità ebraica e farci divenire cristiani”.
Martin Lalsawata, funzionario del Centro ebraico di Aizwal (la capitale del Mizoram), dice: “Siamo rimasti ebrei per 2.700 anni: quando sono arrivati i cristiani, ci hanno strappato la nostra identità. E’ solo grazie alla perseveranza dei nostri fratelli che finalmente riusciamo a vedere realizzato il nostro unico sogno, tornare a casa”.
Cheng Kent, volontario cattolico della zona, commenta: “Non vi sono prove certe che siano i discendenti della tribù e questo sembra solo un piano ben congegnato per andare in Israele, dove i ‘membri della tribù’ sperano di vivere una vita migliore di questa”.

(AsiaNews, 16 novembre 2006)

COMMENTO - La sospettosa chiusura dell'articolo fa pensare che in quella terra siano rimasti, oltre a "discendenti ebrei", anche discendenti di quei "missionari stranieri" che costrinsero con la forza gli ebrei di quel luogo ad abbandonare la loro eredità ebraica e a convertirsi al "cristianesimo".





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