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Notizie su Israele 397 - 6 agosto 2007

1. Profughi da Gaza con problemi giganteschi
2. La situazione oggi a Gaza
3. "Waksa", il disastro autoinflitto dei palestinesi
4. Intervista con ex capo del Mossad
5. Tecnologia per la difesa dei confini d'Israele
6. Israele, una frontiera per tutti gli uomini civili
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 3:14-15. «Tornate, o figli traviati», dice il Signore, «poiché io sono il vostro Signore; vi prenderò, uno da una città, due da una famiglia, e vi ricondurrò a Sion; vi darò dei pastori secondo il mio cuore, che vi pasceranno con conoscenza e intelligenza.»
1. PROFUGHI DA GAZA CON PROBLEMI GIGANTESCHI




Isaac Herzog
ASHDOD - Due anni dopo il ritiro israeliano da Gaza, molti ex "coloni" sono senza lavoro e soffrono di disturbi post-traumatici. Recentemente il Ministro del Welfare, Isaac Herzog, ha incontrato alcuni di loro in un kibbutz religioso situato a sud-est della città di Ashdod.
    Fino al ritiro dalla striscia di Gaza, Nurit Brown si era interessata di bambini nell'allora località israeliana Neveh Dekalim. Per vent'anni ha lavorato come bambinaia. Adesso vive nel kibbutz Ein Zurim vicino a Kirijat Malachi ed è disoccupata. "Vorrei trovare un lavoro per due o tre giorni alla settimana", ha detto l'israeliana al quotidiano "Jerusalem Post". "Ma nessuno mi vuole assumere se non lavoro a pieno tempo". Chi non ha patito quello che ha patito lei non può capire perché adesso cerca soltanto un posto a tempo parziale.
    Secondo il "Jerusalem Post", la storia di Brown è tipica per tutti gli israeliani che due anni fa hanno dovuto lasciare i loro insediamenti nella striscia di Gaza. Herzog, che al tempo del ritiro era Ministro dell'edilizia popolare, nella sua visita al kibbutz ha ascoltato molti altri racconti simili. Disoccupazione, nessuna soluzione definitiva al problema della casa e burocrazia nei servizi di assistenza sono i problemi sociali a cui sono esposti gli ex "coloni" di Gaza. Ne sono colpiti circa 8.800 israeliani.
    La portavoce di Herzog ha detto che l'evacuazione dalle loro abitazioni "è stato un processo difficile per tutti gli interessati e ha grandemente danneggiato molte persone". Per gli ex "coloni" ci sono 25 assistenti sociali a disposizione.
    Secondo dati dell'autorità per il ritiro SELA, il 37 per cento degli evacuati è ancora disoccupato. Verso la prossima chiamata alle armi nell'esercito israeliano, molti giovani hanno sentimenti ambivalenti, perché nell'estate 2005 sono stati i soldati che hanno sgomberato gli insediamenti.
    Al termine dell'incontro Herzog ha assicurato che si interesserà di sapere di quali servizi sociali hanno bisogno gli evacuati. Ha assicurato inoltre che incaricherà il Ministero delle Finanze di continuare a stanziare annualmente, come fino ad ora, da 5 a 7 milioni di shekel (da 850.000 a 1.200.000 euro) per i relativi problemi sociali.

(Israelnetz Nachrichten, 1 agosto 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. LA SITUAZIONE OGGI A GAZA




A Gaza Hamas fa man bassa di moschee

di Benjamin Barthe

GAZA - In piedi sui gradini del suo negozio, nel centro della città di Gaza, l'uomo esita a parlare, implora di non pubblicare il suo nome, poi, finalmente, si decide a cominciare il suo racconto. Era la notte tra il 14 e il 15 giugno, quando gli ultimi difensori della presidenza palestinese prendevano la fuga e il movimento di resistenza islamico (Hamas) portava a termine, a sorpresa di tutti, la sua conquista della striscia di Gaza. "Verso le 3 del mattino, dei miliziani mascherati hanno fatto irruzione nell'immobile della mia famiglia", racconta. Il suo clan, gli Abu Shakhla, è famoso a Gaza per aver costruito la moschea Al-Amin, uno dei rari luoghi di culto col timbro Fatah, costruito proprio di fronte alla residenza del presidente Mahmud Abbas. "Hanno chiesto le chiavi (della moschea) con un tono che non ammetteva repliche, - aggiunge - e noi abbiamo ubbidito."
    Il giorno dopo, la moschea Al-Amin inalberava in cima al suo minareto la bandiera verde dei nuovi padroni. Oggi il luogo dove M. Abbas amava recarsi è tappezzato di poster a gloria degli islamisti. Ogni venerdì, giorno della grande preghiera settimanale, i suoi altoparlanti diffondono una buona parola in forma di propaganda anti-Fatah.
    Questa deriva riguarda l'insieme dello stretto territorio palestinese. Come non hanno perso un minuto per raccogliere le armi dei loro avversari, i miliziani di Hamas hanno subito assalito i luoghi di preghiera dove non si erano ancora impiantati. Nel centro di Gaza, Al-Katiba, la moschea ufficiale del regime, è passata sotto la loro tutela. "Non è più possibile sentire una predica normale, il venerdì, - sospira Hazem Qandil, un funzionario del ministero dell'interno. - Da qualunque parte vai, l'imam tratta i dirigenti di Ramallah come delinquenti e putschisti. Ormai cerco di arrivare alla fine della predica per assistere soltanto alla preghiera propriamente detta."
    Il proposito di Hamas di entrare nelle moschee non è un fenomeno nuovo. All'epoca in cui i suoi militanti non erano ancora impegnati nella "resistenza", gli avevano permesso di costruire dozzine di edifici religiosi. L'Autorità palestinese, entrata in autorità a partire dal 1994, non è mai riuscita a mettere sotto tutela la totalità di questi luoghi di culto. Dopo la sua vittoria elettorale nel gennaio 2006, Hamas ha messo i suoi uomini nel ministero del Waqf, incaricato della gestione delle moschee, ed è iniziata una purga silenziosa.

Propaganda anti-Fatah

    "Io sono stato uno dei primi epurati, racconta Essam Shaban, che era l'uomo tutto-fare della moschea Sheikah Zayed a Jabalya. Molti imam, muezzin e impiegati d'amministrazione sono stati scartati perché le loro opinioni politiche non piacevano ai nuovi responsabili. Io ho ricevuto delle minacce. M'hanno fatto sapere che se riprendevo il mio lavoro avrei perso i miei due ginocchi." Abdallah Abugarboah, un islamista moderato, da un anno ministro aggiunto del Waqf, respinge queste accuse. "Ci siamo soltanto sbarazzati degli impiegati corrotti e di quelli che non dicevano la loro preghiera", afferma.
    All'inizio dell'anno due predicatori molto popolari, affiliati alla corrente salafita e molto spesso critici verso le estorsioni di Hamas, sono stati assassinati. "Dopo la disfatta di Fatah, i miliziani islamisti hanno cacciato i responsabili di tre moschee del nord della striscia di Gaza: Ribat, Shadi Habub e Al-Awda -, assicura Essam Chaban. A parte qualche edificio detenuto ancora dalla Jihad islamica o dai salafiti, Hamas ormai ha la sua lunga mano su tutte le moschee di Gaza." I suoi alti dirigenti, come Ismael Haniyeh, il primo ministro silurato da Mahmud Abbas, Ismael Radwan Saìd Siam o Yunès Al-Astak, si invitano regolarmente per arringare i fedeli.
    "Certe prediche sono troppo politicizzate, - ammette M. Abugarboah. - Stiamo organizzando delle sessioni di formazione per rimediare a questo problema e sottolineiamo l'importanza della tolleranza." Afferma anche di aver ordinato di far sparire da tutte le moschee le bandiere, i volantini e i manifesti pro-Hamas. Queste timide disposizioni hanno evidentemente qualche difficoltà a passare. Eccitati dalla loro vittoria, preoccupati per un eventuale sussulto di Fatah, gli islamisti sono ben decisi ad arrogarsi il monopolio della predicazione nella striscia di Gaza.

(Le Monde, 3 agosto 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





3. "WAKSA", IL DISASTRO AUTOINFLITTO DEI PALESTINESI




Gaza, la sconfitta palestinese «Siamo i nemici di noi stessi»

di Lorenzo Cremonesi

GAZA — Lo Shifah Hospital è quasi un monumento, uno specchio di storia palestinese. Qui, dove da almeno vent'anni assistono i loro feriti e pregano assieme per i morti, poche settimane fa si sono sparati addosso. Quelle stesse camerate — con il sangue a terra, i gemiti, gli slogan, le flebo portate di fretta — che ai tempi della prima Intifada divennero i luoghi dolenti per eccellenza della «battaglia delle pietre» contro Israele e i soprusi dell'occupazione, sono assurti oggi a steccato assurdo della nuova guerra fratricida tra Hamas e Fatah. Palestinesi contro palestinesi. Fratelli ieri, nemici oggi. «Non siamo più un popolo unico. Abbiamo perso il senso della direzione comune, dell'identità collettiva. Non siamo più ciò che eravamo, ma non sappiamo ancora chi siamo diventati. Me ne sono accorto verso il 10 di giugno, nel pieno dello scontro per il controllo di Gaza. Gli uomini armati di Hamas vennero a presidiare i cancelli, sarebbero stati pronti a sparare su qualsiasi ferito di Fatah. Nelle corsie lo stesso facevano gli altri contro i ricoverati di Hamas. Così gli islamici decisero di utilizzare la clinica privata di Al Rachmah e l'Olp optò per il piccolo ospedale Al Quds. Un fatto impensabile solo sino a un anno fa», sostiene il dottor Jamaa al Saqqa, responsabile dell'ufficio relazioni pubbliche di questo che è il più grande ospedale di Gaza (quasi 700 letti) ed ex vice-direttore, appena dimesso per volere della nuova amministrazione. Un licenziamento tra i tanti. Vecchio militante di Fatah, non rinnega nulla e dal suo ufficio ormai isolato condanna apertamente il nuovo corso. Anche se è ben consapevole di rischiare grosso. I nuovi dirigenti di Gaza hanno esautorato il vecchio direttore dell'ospedale, Hassan Abu Tawila (un tradizionalista non legato all'Olp, ma troppo moderato per i gusti dei nuovi zeloti), minacciano il suo braccio destro filo-Fatah, Azzah Abed, lo costringono a restare a casa.
    E invece hanno imposto uno dei loro, Hassan Khalaf, adepto di Hamas della prima ora. Le conseguenze? «La conduzione dell'ospedale è semiparalizzata. Ci si contende la sala operatoria, le medicine, persino l'assegnazione dei letti. Licenziano i vecchi medici, che comunque continuano a ricevere il loro salario (tra 800 e 1.000 dollari mensili) dalle finanze del governo Fatah in Cisgiordania. E assumono invece medici pro-Hamas. Eravamo in 320, adesso siamo arrivati a 450, con grave danno per le nostre già poverissime finanze pubbliche. Lo stesso è avvenuto per il personale scolastico, i dipendenti dei ministeri e i poliziotti. Abu Mazen ha ordinato ai suoi 53.000 agenti a Gaza di non cooperare con il "governo fantoccio" di Ismail Haniye, i soldi per loro, grazie agli aiuti Usa, arrivano comunque. E non sono noccioline, visto che ogni poliziotto prende sui 400 dollari. Hamas allora ha mandato a pattugliare nelle strade le sue milizie forti di 7.000 uomini», aggiunge Saqqa. Una rottura lacerante. I palestinesi hanno coniato un nuovo termine per definirla: waksa, che in arabo descrive l'umiliazione individuale, un trauma personale, una irreparabile delusione nelle proprie aspirazioni. Così waksa diventa l'ultima di una sequenza di parole simbolo che da oltre mezzo secolo caratterizzano le vicende di un popolo intero. Iniziò con la nakba, la «catastrofe » rappresentata per loro dalla nascita di Israele nel 1948, per proseguire con la naksa, la «sconfitta» araba del 1967. Traumi in parte controbilanciati dall'euforia ai tempi dell'Intifada nel 1987-88, quando ci si illuse che le sommosse nei territori occupati servissero anche per forgiare un nuovo senso di appartenenza nazionale. «Adesso con la waksa si conclude l'era delle speranze collettive. Siamo tornati al si salvi chi può del 1948, quando ognuno si preoccupava unicamente della propria tragedia individuale. La waksa è peggio della nakba, perché è auto-inflitta, non viene da un nemico esterno. È come se noi palestinesi si fosse commesso un gigantesco atto di suicidio collettivo in cui gli israeliani hanno avuto una parte solo marginale. Non a caso molti ufficiali dell'ex polizia creata a suo tempo da Yasser Arafat sono venuti al nostro Centro per farsi curare contro la depressione. Sono spesso persone mature, gente che per tutta la vita si era percepita come al centro della lotta di liberazione. E ora ha improvvisamente perduto l'autostima e il rispetto sociale», afferma Ahmad Abu Tawahina, direttore del Centro per la cura delle malattie mentali.
    Il disorientamento si nota nei discorsi dei giovani, tra gli strati più attivi della popolazione. Parlando con le famiglie che la sera vengono a godersi il mare e la brezza sulla spiaggia non è difficile trovare fratelli che militano nei due campi avversari. Come Mohammad,22 anni ed ex poliziotto di Abu Mazen, e Ismail, 23 anni, impiegato dai tribunali religiosi. Appartengono entrambi al clan degli Abdel Al, ma si accusano a vicenda di «aver tradito» schierandosi con «i nemici della nazione». Per i più poveri cambia poco. Dalla vittoria di Hamas alle elezioni del 25 gennaio 2006 Gaza è sotto embargo, si stava male prima e non si sta molto peggio oggi. Con tassi di disoccupazione attorno al 70 per cento e redditi medi per famiglia che spesso non superano i 60 dollari mensili, qui si resta fermi alla pura sopravvivenza. Le cose sono invece nettamente deteriorate per i più abbienti, che comunque a Gaza non mancano, grazie soprattutto ai capitali accumulati lavorando all'estero. È il caso di Abdel Salam Al Raies, proprietario tra l'altro del lussuoso ristorante «Lighthouse» e del «Beirut Tower», un palazzo con 32 appartamenti nel centro città. «Li avevamo costruiti sperando nell'arrivo di giornalisti stranieri, operatori umanitari e personale dell'Onu, oltre al flusso di uomini d'affari nella seconda metà degli anni Novanta. Ma ora la vittoria di Hamas e lo scontro interno ci stanno mandando in bancarotta. Gli appartamenti affittati sono appena una quindicina. E a fine mese non riesco più a pagare i 200 dollari promessi ai 60 dipendenti del ristorante. Io come tanti altri imprenditori sto cercando di chiudere per andare all'estero», sostiene scoraggiato.
    Elemento positivo conseguenza della vittoria di Hamas è, a detta di molti, il ritorno della sicurezza interna. «Nei mesi precedenti la svolta di metà giugno imperavano le battaglie tra milizie e criminalità. Non era difficile che ti venisse rubata l'auto da drappelli di uomini armati in pieno giorno. Abu Mazen era del tutto impotente. Ora non più, Hamas detiene il monopolio della forza, a costo di scontrarsi con i gruppi estremisti della Jihad islamica», dice Raji Surani, noto direttore del Centro per la difesa dei diritti umani. Ma il rovescio della medaglia è denunciato dallo stesso Surani: «Nonostante tutte le promesse di voler governare in modo democratico, Hamas non esita a ricorrere a intimidazioni e soprusi. Abbiamo registrato almeno una sessantina di casi di tortura su criminali e prigionieri politici in un mese e mezzo». I giornalisti locali riportano la crescita della censura. Hamas interviene sui programmi della televisione palestinese e ha già bloccato più volte la vendita a Gaza di tre quotidiani filo-Fatah pubblicati in Cisgiordania (lo stesso hanno fatto in Cisgiordania nei confronti di quelli pro-Hamas che arrivano da Gaza). Ma l'elemento di maggior incertezza restano i rapporti con Al Qaeda e le infiltrazioni dall'Egitto di militanti legati al terrorismo fondamentalista. È vero che Hamas in giugno ha liberato il giornalista della Bbc, Alan Johnston, sequestrato 4 mesi prima. Però non c'è stato alcun arresto tra i rapitori. I legami con gli estremisti restano ambigui. «Abbiamo le prove che qui si è insediato un gruppo di salafiti, che obbediscono a logiche pan-islamiche dettate dall'estero», sostengono all'ufficio della Reuters. Per esempio l'incendio della scuola delle Suore del Rosario e di un'ala della chiesa cattolica il 14 giugno, che comunque venne prontamente condannato da tutta Hamas. Seguito all'attacco contro una sede dell'Onu. E soprattutto alla devastazione della statua del milite ignoto voluta da Arafat 10 anni fa. Un caso di furia iconoclasta senza precedenti tra i palestinesi che rende il futuro ancora più buio.

(Corriere della Sera, 5 agosto 2007 - ripresa da Informazione Corretta)





4. INTERVISTA CON EX CAPO DEL MOSSAD




In piena Terza Guerra Mondiale

Ephraim Halevy è stato a capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, dal 1998 al 2002. Le sue affermazioni sono in parte scioccanti e alcuni cristiani si chiedono se, pensando agli ultimi tempi, siamo forse molto più avanti di quanto pensiamo e se c'è da aspettarsi un'esplosione atomica.

Ephraim Halevy
Halevy, nato nel 1934 in Inghilterra, ha dedicato la sua vita alla sicurezza dello Stato d'Israele. È noto per i suoi buoni rapporti con capi di stato e di governo di numerosi Paesi, fra cui anche l'ex re Hussein di Giordania, che vedeva in Halevy un ottimo amico. Dopo le sue dimissioni dal Mossad è stato attivo fino al 2006 nella commissione per la sicurezza nazionale della Knesset. Oggi è conferenziere in tutto il mondo e ha pubblicato un libro sui suoi anni nel Mossad. Halevy è preoccupato, non tanto per l'esistenza di Israele quanto per la pace nel mondo, perché crede che ci troviamo già in piena Terza Guerra Mondiale. «La minaccia per Israele da parte dell'Iran», ha detto Halevy in un'intervista esclusiva per «Notizie da Israele», «va presa molto sul serio, ma non si tratta di una novità visto che già negli anni novanta sapevamo che qualcosa stava bollendo in pentola in quel Paese. Da allora abbiamo continuato a tenere d'occhio gli sviluppi con grande attenzione.»

Notizie da Israele: Può essere più preciso?
Ephraim Halevy: «Posso dire soltanto che la storia dello Stato d'Israele ha

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dimostrato che abbiamo sempre riconosciuto in tempo un pericolo imminente e abbiamo saputo come affrontarlo. Soltanto una volta non è stato così: durante la guerra dello Yom-Kippur nel 1973. Malgrado la minaccia iraniana non vedo un vero pericolo per l'esistenza dello Stato d'Israele. Non credo che Israele possa essere distrutto, visto che dispone dei mezzi per rispondere ad una minaccia di questo genere. Inoltre credo che il comportamento attuale dell' lran non abbia uno scopo in politica estera, ma che in realtà sia volto a rafforzare il Paese all'interno».

Notizie da Israele: Che cosa ci dice degli arabi israeliani? Lei condivide il parere che rappresentano una «minaccia strategica»?
Ephraim Halevy: «No, ma perché non lo diventino, dobbiamo trovare un tipo di rapporto migliore con questa minoranza. Da una parte deve essere chiaro che Israele non è uno stato multinazionale ma ebraico, dall'altra bisogna concedere a questo gruppo i diritti e le libertà che gli spettano.»

Notizie da Israele: Oggi non è così?
Ephraim Halevy: «No, non ancora. Il problema è evidente: ripetutamente sono stati proposti possibili modi di trattamento, ma purtroppo nessuno è mai stato realizzato.»

Notizie da Israele: Che cosa ci dice della Siria? Assad è realmente interessato alla pace o si tratta soltanto di polvere negli occhi?
Ephraim Halevy: «Non penso che la Siria sia seriamente interessata alla pace e così non rappresenta per Israele una controparte affidabile nelle trattative. Contemporaneamente sono del parere che i Siriani non oseranno sferrare un attacco perché hanno sufficienti difficoltà da affrontare nel proprio Paese e, in ogni caso, hanno troppo da perdere. Una guerra contro lsraele non è paragonabile alla guerriglia contro la milizia Hezbollah e i Siriani ne sono perfettamente consapevoli.»

Notizie da Israele: A cosa è dovuta, in fin dei conti, la sua paura per la pace nel mondo? Il terrorismo internazionale gioca anche un ruolo in questo?
Ephraim Halevy: «Ci troviamo già nel bel mezzo di questa guerra che si potrebbe anche definire la Terza Guerra Mondiale, sebbene la gente non se ne renda conto perché non ne prova gli effetti sulla propria pelle. Quando Al Qaida ha iniziato i suoi attacchi contro l'ordine mondiale e contro il mondo occidentale con i suoi valori e la sua economia, è scoppiata questa Guerra Mondiale che nel frattempo viene combattuta in ogni parte del mondo. In fondo ci sono stati attacchi terroristici in numerosi luoghi fra cui gli USA, l'Inghilterra, la Spagna, l'Algeria, l'Indonesia, la Tunisia, Bali e, da non dimenticare, l' lraq. Tentativi di attentati ci sono stati in Tailandia, Singapore e in Malesia. Questa guerra è onnipresente perché vuole cambiare l'ordine mondiale e portare al potere l'lslam fondamentalista».

Notizie da Israele: Come va affrontata una minaccia di questo tipo?
Ephraim Halevy: «Il vero problema è che la maggior parte dei cittadini non se ne rende conto e questo è del tutto differente da quanto avvenne, per esempio, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando quasi una generazione intera ha perso la vita. Nella guerra attuale muoiono qua e là alcune migliaia di persone e non dei milioni come in passato. La gente quindi non riesce a riconoscere le dimensioni del pericolo. La maggior parte delle persone non ha ancora capito che si tratta di una guerra in cui non si vuole sconfiggere l'Occidente, ma distruggerlo. Poco tempo fa un comandante dei talebani afgani ha affermato di avere a disposizione circa 2000 uomini sparsi in tutto il mondo, pronti a commettere un attentato suicida. Anche se supponiamo che abbia fortemente esagerato, ciò non toglie che questo fenomeno rappresenti un pericolo per l'ordine mondiale».

Notizie da Israele: Pensa che i terroristi possano ricorrere anche all'uso di armi atomiche?
Ephraim Halevy: «Sussiste un rischio reale che tecnologie atomiche vadano in mano ai terroristi».

Notizie da Israele: E come bisogna affrontare questo pericolo?
Ephraim Halevy: «Il mondo non può reagire prima di aver capito quanto è grave la minaccia che incombe su di lui. Purtroppo l'esperienza dimostra che la società libera e democratica reagisce ad una minaccia soltanto quando il pericolo è già diventato una realtà. Pur non essendo un amico dei paragoni, posso dire che lo stesso è successo con Hitler. Tutti sapevano che cosa stesse succedendo, eppure non si è fatto nulla per fermare Hitler prima che invadesse la Polonia. Sembra che ciò sia una caratteristica della democrazia. Penso che la guerra presente non sarà superata tanto presto. In fin dei conti il mondo non avrà altra scelta che combatterla e la guerra mieterà ancora molte vittime. Malgrado tutto ciò sono fermamente convinto che il mondo libero si unirà e vincerà.» ZL •

("Notizie da Israele", periodico evangelico bimestrale, anno II, n.3)





5. TECNOLOGIA PER LA DIFESA DEI CONFINI D'ISRAELE




Sentinelle robotizzate per fermare i raid dei terroristi

di Andrea Nativi

"Guarda e spara", Roeh-Yoreh, questo è il nome, molto appropriato, del nuovo sistema automatico per la difesa del confine caldo tra i territori palestinesi della Striscia di Gaza e Israele. Si tratta di una combinazione di sensori per la sorveglianza: torrette corazzate armate di mitragliatrici, controllate da un centro di comando a distanza, anche se in teoria l'intero sistema potrebbe essere completamente automatizzato.
    L'esercito israeliano prevede di completare l'installazione della cintura intorno a Gaza entro la fine di agosto, ma le prime postazioni sono già operative.
    Il sistema, realizzato dalla Rafael nell'ambito di un programma, del valore di 780 milioni di dollari, denominato Hunter e gestito dalla Elbit, si basa sull'impiego di una serie di apparati di sorveglianza, diurni e notturni, per controllare la fascia di terreno tra il confine e i territori palestinesi. Qualora venga avvistato un movimento potenzialmente ostile, un operatore nel centro di comando seleziona una delle torrette armate piazzate lungo il confine, separate le une dalle altre da alcune centinaia di metri.
    Rispondendo al comando impartito attraverso una rete di cavi in fibra ottica, a prova di intercettazione, la torretta entra in attività. Si aprono i portelli corazzati e esce allo scoperto una piattaforma girevole che affianca una mitragliatrice pesante calibro 12,7 mm a un sistema di osservazione diurno/notturno, con una portata di 1.500 metri. L'affusto va automaticamente in puntamento sulla base delle indicazioni fornite dai sistemi di sorveglianza.
    Le immagini raccolte sono inviate al centro di comando, dove un operatore deve procedere all'identificazione precisa del bersaglio. Se ne determina la natura ostile, può aprire il fuoco. L'arma, stabilizzata, è già puntata: basta premere un pulsante e la mitragliatrice sparerà con elevata precisione, anche se il bersaglio si muove. Aver inserito un operatore nel sistema è indispensabile per evitare di sparare contro civili innocenti, anche se chi si avvicina troppo alle recinzioni di confine difficilmente lo fa per pura curiosità o in buona fede.
    Per l'esercito israeliano, Roeh-Yoreh rappresenta una rivoluzione. Fino a oggi, infatti, quando un osservatore o uno dei sistemi di sorveglianza a terra o in cielo avvistava movimenti sospetti era necessario richiedere l'intervento di pattuglie dell'esercito o di elicotteri o velivoli senza pilota armati. Si perdevano così minuti preziosi che potevano risultare cruciali. Inoltre le truppe accorse in seguito all'allarme erano esposte ai rischi di un eventuale scontro a fuoco. Per non parlare del tiro dei cecchini contro le unità in pattugliamento.
    Con il nuovo sistema invece sia lo sorveglianza sia l'intervento armato avvengono in modo automatico, nel giro di decine di secondi e senza che nessun soldato debba esporsi. Inoltre è possibile mantenere una sorveglianza continua, giorno e notte, impiegando un ristretto numero di militari e operatori. Un singolo centro di comando può monitorare fino a 15 torrette. Torrette che sono naturalmente corazzate: la piattaforma con arma e telecamere è a scomparsa ed è protetta all'interno della struttura, che è realizzata in cemento, ha robuste porte d'acciaio ed è dotata di sistemi anti-intrusione. Inoltre le torrette si coprono a vicenda. E sono previste anche varianti dotate di missili controcarro, con una gittata di alcuni chilometri. Con queste armi, ad esempio, si può cercare di colpire un commando di guerriglieri che cerchi di avvicinarsi al confine per poi lanciare un attacco con razzi o con mortai.
    L'esercito israeliano ha montato un sistema prototipico Roeh-Yoreh proprio lungo il confine a Gaza già nel 2004 e la sperimentazione ha avuto un esito così positivo da portare a un programma su vasta scala. Che Tsahal spera possa ridurre le infiltrazioni e gli attacchi condotti dai guerriglieri palestinesi.
    Israele è pronto a vendere il sistema, con il nome di Sentry-Tech, anche a Paesi amici. Al momento c'è un solo Paese che ha qualcosa di simile in servizio: si tratta della Corea del Sud, con il sistema di torrette robotiche Samsung SGR-A1 dispiegato lungo la fascia demilitarizzata.

(Il Giornale, 1 agosto 2007)





6. ISRAELE, UNA FRONTIERA PER TUTTI GLI UOMINI CIVILI




Un articolo scritto nel 1967 e ancora oggi estremamente attuale

Carlo Casalegno, 1967: Israele, la nostra frontiera

da Panorama del 1 giugno 1967

di Carlo Casalegno*

Davanti alla tensione fra Israele e il mondo arabo, non si può restare distaccati e neutrali. Siamo in molti, penso, a non trovare soddisfacente l'olimpica imparzialità, con cui l'on. Fanfani mette le due parti sullo stesso piano e distribuisce a entrambe consigli di saggezza e di moderazione. Forse si deve approvare la cautela diplomatica delle grandi potenze, direttamente impegnate in una crisi di estrema gravità: all'Italia, che ha ben minori responsabilità politico-militari, e può far pesare invece un prestigio morale non trascurabile, si addice un energico richiamo alla legge internazionale, ai motivi ideali, alla giustizia. Il conflitto che incombe sulla Palestina non è una di quelle controversie per il tracciato d'una frontiera o la spartizione d'una provincia, dov'è difficile distinguere con un taglio netto la ragione e il torto; gli Stati arabi si propongono di cancellare Israele dalla faccia della terra. È una esplicita minaccia di genocidio.

Programma di sterminio. Che gli arabi sentano Israele come un corpo estraneo, inseritosi a forza nella regione che gli ebrei avevano perduto da diciannove secoli, è comprensibile; e si deve capire l'amarezza degli esuli, l'insofferenza e la frustrazione dei novecentomila profughi palestinesi. Ma lo Stato israeliano è sorto perché nel 1947 i nazionalisti arabi rifiutarono di accettare la pacifica convivenza dei due popoli; esiste da diciannove anni, è cresciuto per un milione e mezzo di emigrati; e i profughi vivono ancora nell'ozio miserabile e avvilente delle «bidonvilles» soprattutto per volontà dei Paesi «fratelli». Anziché accoglierli a proprio vantaggio (l'Onu e Israele avrebbero pagato le spese), hanno preferito mantenere quest'esercito di disperati, in cui è facile arruolare terroristi, e che serve come arma di ricatto internazionale. Il buon senso (se non l'astratta giustizia), l'interesse, le prospettive di una proficua collaborazione consigliavano agli Stati arabi – vastissimi, spopolati e depressi – di cercare un accordo ragionevole con la piccola nazione ebraica; dal 1948 non hanno rinunciato né allo stato di guerra né al programma di sterminio.
Dopo la rovinosa disfatta del '48, i governi arabi non hanno mai preso l'iniziativa di grandi operazioni militari, né (malgrado la prevalenza numerica di venti a uno) si sono cullati nell'illusione di una facile vittoria. Gli appelli alla «guerra santa» sono stati adoperati spesso come strumenti di politica interna; la corsa all'estremismo antisionista è servita a Nasser, ai colonnelli striani, ai dirigenti algerini per conquistare posizioni egemoniche nel mondo arabo e per indebolire i «tiepidi»: re Hussein di Giordania, il presidente tunisino Burghiba. Alla guerra aperta, anche i fanatici hanno preferito il «bluff», il blocco dei confini, le incursioni dei terroristi. Ma anche questo gioco è distruttivo, e mortalmente pericoloso.
Israele sa di essere circondato da nemici irriducibili, che crescono di numero e che si vantano di educare all'odio i loro figli; che ricevono armi in quantità crescenti e imparano ad adoperarle meglio; che esercitano una pressione logorante su tutte le frontiere. L'Egitto ha chiuso il Golfo di Aqaba: Israele è isolata dal Mar Rosso e dalla via del petrolio. Terroristi ospitati, istruiti, armati in Siria e in Egitto, operano lungo 800 chilometri di confini terrestri particolarmente adatti alle imboscate.
Soltanto la superiore efficienza militare e un solido coraggio possono trattenere gli israeliani dalla guerra preventiva – o dalla disperazione. Israele è uno Stato più piccolo del Piemonte, ha meno abitanti di Roma, manca di confini naturali, è stretto fra quattro vicini soverchianti e nemici. Si estende fra le montagne del Libano e il Mar Rosso, su una lunghezza che è metà di quella dell'Italia; la larghezza massima non equivale alla distanza tra Torino e Milano, e un buon terzo del territorio si trova entro la portata dei cannoni appostati oltre frontiera. L'esercito non ha spazio per ritirarsi, né la popolazione civile per disperdersi: un attacco con i missili sarebbe il massacro.
Questa patria, gli israeliani non l'hanno ereditata da nessuno, né l'hanno tolta agli arabi: se la sono creata pezzo per pezzo. L'intera Palestina, ai tempi del dominio turco, consentiva un'esistenza stentata a mezzo milione di uomini; oggi nel solo Israele, che per metà è ancora un deserto, due milioni e mezzo di abitanti hanno il più alto tenore di vita del Medio Oriente. Alla fine dell'800, pochi pionieri incominciarono l'impresa folle e paziente di redimere la sterile terra promessa dalla Bibbia agli ebrei; da allora, ogni anno nuovi giardini, agrumeti, campi di grano sono strappati alle pietre delle colline, alla sabbia del Negev. Nella desolazione del Mar Morto è sorta una moderna industria chimica, e dalle miniere di Re Salomone sono tratti i fertilizzanti per un'agricoltura d'avanguardia.

Superstiti degli eccidi. L'esistenza stessa del popolo israeliano è una conquista. Esso ha una millenaria base razziale, e vede nella più antica delle religioni monoteistiche il fondamento della sua idea nazionale; ma si è formato negli ultimi decenni, con la fusione dei più diversi gruppi di immigrati: pionieri del sionismo, profughi dell'impero zarista, scampati dei «lager», intere comunità venute dal mondo islamico. Li unisce un tratto comune: le persecuzioni li hanno condotti in Palestina. L'idea sionista nasce dall'antisemitismo, negli anni dei Pogrom russi e dell'«Affare Dreyfus»; poi il razzismo hitleriano e il nazionalismo arabo hanno popolato Israele. La nuova patria ha dato un rifugio ai superstiti dell'eccidio, una speranza a milioni di perseguitati; ha restituito il senso del focolare a chi si sentiva disperso, e ha liberato gli oppressi dall'incubo della persecuzione. È doveroso tutelare i legittimi interessi degli arabi, ma non si può accettare che plachino il loro nazionalismo distruggendo questo Stato-santuario. Israele è una frontiera per tutti gli uomini civili.
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* Carlo Casalegno fu ucciso dalle Br il 16 novembre 1977.

(Panorama, 3 agosto 2007)





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