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Notizie su Israele 399 - 24 agosto 2007

1. La sfida per i credenti nell'esercito
2. Sondaggio nei territori palestinesi
3. Chimica al posto del software
4. Frequentare la sinagoga allunga la vita
5. Riapre la più grande sinagoga della Germania
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 59:8-9. La via della pace non la conoscono, non c'è equità nel loro procedere; si fanno dei sentieri tortuosi, chiunque vi cammina non conosce la pace. Perciò la rettitudine è lontana da noi, e non arriva fino a noi la giustizia; noi aspettiamo la luce, ma ecco le tenebre; aspettiamo il chiarore del giorno, ma camminiamo nel buio.
1. LA SFIDA PER I CREDENTI NELL'ESERCITO




Campo minato per i giovani ebrei messianici nell'esercito israeliano

di Sara Fischer

Adam Rosenfeld (a sin.) durante la guerra in Libano
Quando indossano le loro uniformi e prendono le armi in mano, i diciottenni israeliani sono pronti a difendere la loro nazione, ma spesso non sanno che cosa li aspetta veramente durante il loro servizio militare.
    Israele è l'unico paese in cui il servizio militare è obbligatorio per le donne come per gli uomini. All'età di diciotto anni tutti gli israeliani vengono arruolati, gli uomini per tre anni, le donne per due. Anche gli ebrei messianici devono lasciare il consueto ambiente delle loro famiglie, di amici e comunità, e vengono spediti su un campo di battaglia fisico, spirituale e morale.
    Molti di loro spesso si ritrovano ad essere l'unico credente nella loro base militare. Per alcuni è la prima volta che si trovano esposti alla corrotta morale dell'esercito, dove si festeggia con alcol e droghe, e dove ad ogni soldatessa spettano durante il periodo militare due aborti finanziati dallo Stato. I soldati credenti devono essere forti, se vogliono resistere alle influenze negative.
    «Per tutta la mia vita sono stato circondato da credenti, ho frequentato la scuola elementare messianica Mekor HaTikva e a scuola i miei migliori amici erano anche loro credenti. Quando sono arrivato nell'esercito, mi sono trovato improvvisamente in un altro mondo», ci racconta Hannah Rapuano. «Ci si rende conto di questa influenza quando si fanno cose che non sono giuste, e non è facile.»
    Rapuano serve nella truppa di informazioni, che è responsabile delle comunicazioni in Giudea e Samaria e copre le spalle ai soldati in battaglia durante le azioni.
    La sfida per i credenti nell'esercito è diversa da soldato a soldato. Per alcuni significa soltanto doversi adattare al sistema, per altri è una tragedia. Il suicidio di un amico ha portato un soldato messianico, che non vuol essere nominato, a dubitare per un certo tempo di Dio e della sua fede.
    Le difficoltà che Rapuano deve affrontare dipendono anche dal fatto che lei osserva lo Shabbat secondo la Bibbia. Per questo molti credono che sia un'ebrea caraita (ebrei che credono soltanto nell'Antico Testamento e rifiutano la tradizione orale), e non un'ebrea messianica. E poiché gli israeliani considerano quelli che credono in Gesù non come ebrei ma come cristiani, alcuni mettono in dubbio la loro lealtà verso lo Stato d'Israele.
    La difesa della nazione ha molti aspetti: la lotta al terrorismo o l'esecuzione di direttive politiche come, per esempio, l'espulsione di cittadini ebrei dalle loro case, come è accaduto ultimamente nel 2005 nella Striscia di Gaza. A dei soldati che vivono in insediamenti di Giudea e Samaria queste sono cose che vanno diritte al cuore. «Io capisco la situazione. Capisco anche che ci sono momenti in cui non resta altro che confidare in Dio. Ma per me è difficile, perché vengo da un ambiente dove si pensa in modo diverso e dove è più facile che si venga evacuati», ha detto Jonathan Frank da Alfei Menashe in Samaria.
    I soldati credenti messianici si sentono tuttavia sfidati ad essere degli esempi durante il loro periodo di servizio militare. «Come credente, il mio senso del dovere si acuisce», dichiara il comandante di plotone Adam Rosenfeld. «Mi sento moralmente obbligato a compiere fedelmente quello che mi viene richiesto. Il mio servizio mi ha portato più vicino a Dio.»
    Rosenfeld, che serve come riservista in un'unità di fanteria molto apprezzata, l'estate scorsa è stato arruolato per la guerra in Libano. Ha dovuto lasciare i suoi due figli piccoli e sua moglie incinta di altri due gemelli. La guerra è stata traumatizzante, alcuni commilitoni sono morti e anche lui è stato ferito, ma il Signore gli ha concesso grazia. Il ventinovenne è stato sostenuto dalla sua comunità che pregava per lui e ha assistito la sua famiglia per tutto il tempo in cui è stato in guerra. «La comunità, il corpo di Cristo, si è comportata in modo esemplare.» Per i prossimi 12 anni sarà richiamato ogni anno per un mese per il servizio di riserva.
    Comunità e convegni sono un'enorme fonte di forza per i soldati credenti. Rapuano dice che il sostegno della sua comunità «non è mai cessato ed è stato una vera benedizione.»
    I soldati credenti spesso svolgono un doppio servizio. Sia che si trovino al fronte avanzato in una guerra o ai checkpoint per impedire ai terroristi di infiltrarsi o in un ufficio, devono sostenere combattimenti spirituali e morali. «La grazia di Dio nel mio servizio non mi ha mai piantato in asso», dice Rosenfeld.

(israel heute, agosto, 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. SONDAGGIO NEI TERRITORI PALESTINESI




I palestinesi preferiscono il governo di Fatah,
ma gli abitanti di Gaza si sentono più sicuri con Hamas


Il governo filo-occidentale di Salam Fayyad è preferibile a quello di Ismail Haniyeh di Hamas, uscito dalle elezioni del gennaio 2006. Ciò nonostante, la sicurezza nella striscia di Gaza è aumentata dopo la presa del potere da parte del movimento islamico, nel giugno scorso.
Sarebbe questa l'opinione della maggioranza dei palestinesi, secondo un sondaggio realizzato tra il 16 e il 20 agosto in Cisgiordania e nella striscia di Gaza su un campione di 1.119 persone, e pubblicato oggi.
Stando ai dati forniti dal Centro sui media e la comunicazione (Cmc) di Gerusalemme, un'organizzazione palestinese indipendente, la maggioranza dei palestinesi ritengono anche che Hamas sia responsabile dello scontro fratricida con il partito del presidente Mahmoud Abbas e si dicono favorevoli, in linea di principio, a elezioni anticipate.
Il 46,5 per cento degli intervistati – spiega il Cmc – afferma che l'operato dell'esecutivo guidato voluto da Abbas e guidato dall'ex economista della Banca mondiale Fayyad è stato migliore di quello del governo Haniyeh. Il 24,4 per cento apprezza maggiormente l'esecutivo di Hamas, mentre il 22,8 per cento li giudica uguali.
Il 43,5 per cento – continua il sondaggio – pensa che vada attribuita ad Hamas la responsabilità dei sanguinosi scontri inter-palestinesi, mentre il 28,4 per cento la assegna a Fatah. Solo il 17,5 per cento degli intervistati distribuisce le colpe del conflitto in parti uguali.
Arrivando alla situazione attuale, il 46,7 per cento dei palestinesi ritiene che lo stato della sicurezza a Gaza e nel resto della Striscia sia peggiorato dopo il colpo di forza di Hamas, contro un 27,1 per cento che pensa il contrario.
Se si riduce l'indagine ai soli abitanti della Striscia, tuttavia, la percentuale di coloro che si sentono più sicuri dopo la vittoria di Hamas sale al 43,6, contro un 31,4 per cento che giudica deteriorata la situazione e un 25 per cento che la ritiene immutata.
Per finire, il 57,4 per cento dei palestinesi si dice favorevole alla convocazione di elezioni anticipate, come sostenuto dal presidente Abbas, mentre il 37,6 per cento di loro è contrario. [c.m.m.]

(fonte: Agence France Presse)

(Osservatorio Iraq, 23 agosto 2007)





3. CHIMICA AL POSTO DEL SOFTWARE




Israele ha già sperimentato un «biocomputer a enzimi»

di Paolo Ottolina

MILANO — Forse saranno a forma di disco volante o di penna. Forse verranno inglobati in un foglio di carta elettronica. Forse muoveremo icone e documenti con le mani come in Minority Report. O forse non saranno poi molto diversi da quelli di oggi. Quel che è certo, è che i computer del futuro saranno sempre più veloci e potenti. Nel 1965 Gordon Moore, che tre anni dopo avrebbe fondato la Intel, formulò la legge che porta il suo cognome, affermando che il numero di transistor su un singolo chip — e quindi le prestazioni del processore — raddoppia ogni 18 mesi. Una legge che ha mantenuto la sua validità per 42 anni, in cui si è passati dagli immensi «cervelloni» che occupavano un'intera stanza ai computer da taschino. Da Hal9000 di «Odissea nello Spazio» all'iPhone. I limiti del silicio sono stati superati con l'utilizzo di metalli come l'afnio. L'anno prossimo i chip scenderanno a 45 nanometri (45 milionesimi di millimetro). Dimensioni minori consentono di concentrare su un singolo chip più transistor e di avere dunque più velocità di calcolo. Un capello umano è spesso circa 80 mila nanometri e questo dà l'idea di dove la ricerca sia arrivata per darci macchine in grado di tenere il passo con le esigenze della multimedialità e della «banda larga». Se il futuro prossimo dell'informatica punta sui sistemi multiprocessore, nel futuro lontano si profilano pc quantistici e biologici.
«La vera rivoluzione — ha detto il guru Stephen Emmott, capo del progetto "Science 2020" — sarà la sostituzione dei calcolatori al silicio con quelli biologici. Sembra fantascienza ma bisogna immaginare sistemi in cui la chimica prenderà il posto del software e i componenti biologici quello dell'hardware». In Israele è stato sperimentato un biocomputer a enzimi. A Princeton sono riusciti a «programmare » dei batteri. Da anni si studia a livello non solo teorico la strada di computer che sfruttino la meccanica quantistica, arrivando a velocità di calcolo fino a 18 miliardi di volte superiori rispetto a quelle attuali. Potenze mostruose, che nei prossimi decenni potrebbero avere ricadute non solo in ambito scientifico. Tonnellate di bit che necessiteranno memorie più capienti e rapide: nell'immediato futuro gli hard disk lasceranno spazio alle memorie flash già ora usate nei lettori Mp3, domani verrà il momento dei dischi olografici. Cambierà anche il modo in cui useremo questi supercomputer. Pochi mesi fa Microsoft ha presentato «Surface», un tavolo-computer con schermo a tocco: «È il primo esempio di una nuova categoria di computer che chiunque sarà in grado di utilizzare in modo istintivo». E lo schermino «multitouch » dell'iPhone di Apple è un altro esempio. Mouse e tastiere potrebbero andare in pensione. L'interrogativo di fondo, però, non è «come » saranno i pc di domani. Ma «se» ci saranno ancora degli oggetti simili al pc. Forse la parola stessa pc perderà di senso, con l'hardware «nascosto» tra mille oggetti di uso comune e il software reso virtuale da Internet.

(Corriere della Sera, 22 agosto 2007)





4. FREQUENTARE LA SINAGOGA ALLUNGA LA VITA




GERUASALEMME - I frequentatori di sinagoga vivono più a lungo. Questo risultato emerge da uno studio dell'Università Ebraica di Gerusalemme pubblicato recentemente sulla rivista specialistica "European Journal of Ageing".
    La quota di mortalità di coloro che frequentano regolarmente la sinagoga è del 75 per cento inferiore a quella di coloro che non vanno al culto, riferisce il quotidiano "Ha´aretz". Uno scienziato dell'Università Ebraica di Gerusalemme, Howard Litwin, ha detto che non esiste una spiegazione univoca di questo fenomeno. Ma si possono presentare due possibilità, ha detto il gerontologo.
    «Una spiegazione è la spiritualità, la fede individuale. Una serie di studi degli ultimi anni, condotte principalmente negli USA, mostra che la fede aiuta la persona ad affrontare la pressione psicologica. Le persone che credono e pregano vivono più a lungo».
    Un'altra spiegazione è il senso comunitario che si vive in sinagoga.
    Lo scienziato ha notato inoltre che la scarsa attività sociale degli anziani è un problema generale. Chi va regolarmente in sinagoga ha un compito e una «rete di relazioni sociali all'interno della comunità». A questo si aggiunge che gli ebrei di sabato non possano andare in auto. I frequentatori della sinagoga quindi sono costretti ad andare a piedi. E di conseguenza vivono più sani.
    Litwin ha detto inoltre: «I vincoli sociali sono altrettanto importanti quanto il frequentare la sinagoga. Questo significa: per vivere più a lungo non si deve soltanto vivere secondo i comandamenti, ma è anche importante essere capaci di vita comunitaria. Soprattutto gli amici sono molto importanti.
    Secondo lo studio, proprio i malati e gli anziani hanno la più alta quota di mortalità. Anche per le persone depresse la quota di mortalità è più alta dell'80 per cento di quelli che non soffrono di depressione.
    Ricerche precedenti avevano già mostrato che anche i frequentatori di chiese vivono in media più a lungo degli altri.

(Israelnetz Nachrichten, 22 agosto 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





5. RIAPRE LA PIU' GRANDE SINAGOGA DELLA GERMANIA




Costruita nel 1904, è sopravvissuta al nazismo

BERLINO - Dopo due anni di lavori di risanamento, riaprirà il 31 agosto la sinagoga del quartiere di Prenzlauer Berg a Berlino, la più grande di tutta la Germania. L'edificio in mattoni, lungo 46 metri, largo 27 e alto fino a 17, può ospitare circa mille fedeli.
Costruita nel 1904, è una delle poche sinagoghe ad essere sopravvissute alla furia distruttiva dei nazisti, tanto da rimanere praticamente intatta perfino durante la "Notte dei cristalli" del 9 novembre 1938, quando vennero incendiate centinaia di sinagoghe in tutto il Paese. E questo grazie soprattutto alla sua posizione: il luogo di culto è infatti nascosto dietro palazzi a quattro piani in un cortile interno lungo la Rykestrasse, nella parte centro-orientale della capitale tedesca.
Confiscata dai nazisti nel 1940, diventerà sotto la Ddr l'unica sinagoga della piccola comunità ebraica di Berlino est.
I lavori di ristrutturazione, curati dagli architetti Ruth Golan e Kay Zareh, hanno tentato di renderla quanto più simile al progetto originario. Così, ad esempio, la sinagoga tornerà ad ospitare nuovamente un organo. I posti per i fedeli saranno però molti di meno: 1074 al posto dei circa 2000 di inizio Novecento.
I costi complessivi per il risanamento della facciata e degli spazi interni ammontano a 4,5 milioni di euro. A questi si aggiungono le spese per la sicurezza del luogo di culto (ad esempio per le videocamere a circuito chiuso installate nel cortile o le vetrate antiproiettile), che la comunità ebraica preferisce non rivelare. Già ora, un servizio di guardia della polizia sorveglia giorno e notte l'edificio; in futuro tre agenti vigileranno l'interno della sinagoga, il cortile e la Rykestrasse.
La comunità ebraica di Berlino conta oltre 12mila membri ed è la più grande in Germania.

(Apcom, 23 agosto 2007)





6. LIBRI




Bat Ye'or, Eurabia, I libri di Libero n.118, 2007.

Questo libro, tradotto dal francese e fatto uscire recentemente dal gruppo Editoriale Libero, contiene come sottotitolo: «Come l'Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita. Secondo l'autrice, una profonda, radicale trasmutazione del modello sociale occidentale sta avvenendo in Europa negli ultimi decenni. Il cambiamento si muove nella direzione di un modello sociale di tipo islamico che l'autrice chiama "dhimmitudine". Elemento fondamentale e non accessorio di questo processo è proprio l'antisionismo nella forma del "palestinismo" come nuova religione. La costituzione di Eurabia rappresenta una tappa importante del progetto islamico mondiale, e per arrivare ad essa è fondamentale che la causa palestinese assuma un ruolo centrale nell'evoluzione dei rapporti tra Europa e mondo arabo. Il libro cita, a questo proposito, la raccomandazione 11 del Progetto dei Fratelli Musulmani: «Adottare la causa palestinese nel progetto islamico mondiale, su un piano politico e attraverso la prospettiva del "jihad", poiché si tratta della chiave di volta della rinascita del mondo arabo oggi".
Raccomandandone la lettura integrale, abbiamo riportato tutti i sommari che il libro presenta all'inizio di ogni capitolo.


PARTE PRIMA. IL PROGETTO

1. Eurabia getta la maschera
I processi che determinano l'evoluzione e il mutamento delle società umane, facendole insensibilmente scivolare verso scenari insospettabili, sono difficili da cogliere nel breve periodo. Non avvertite dai contemporanei, queste sottili correnti agiscono sul tessuto sociale, demografico, istituzionale e culturale per interi decenni, se non per secoli, e, poiché nulla traspare in superficie, l'apparente stabilità sociale e politica rassicura i popoli; ma intanto, dalle crepe che incrinano l'edificio, affiorano impercettibilmente le forme del futuro.
Lo stesso vale per lo schema storico - oggi si direbbe il «software» - che ha trasformato le civiltà ebraico-cristiane del Sud del Mediterraneo in civiltà islamica. A produrre tale mutamento hanno contribuito due fattori essenziali: il jihad e la dhimmitudine. Per oltre un millennio, il jihad ha costituito la forza militare e politica che ha sottomesso e, nella maggior parte dei casi, annientato le civiltà zoroastriana, cristiana, indù e buddista in Africa, Europa e Asia. Ma poiché a questi eserciti, numericamente inferiori, le conquiste militari non bastavano per islamizzare le immense popolazioni conquistate, il processo è stato integrato mediante la dhimmitudine, un sistema giuridico e religioso

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basato sulla discriminazione nei confronti dei non musulmani, che, salvo in alcune zone dell'Europa centrale, li ha ridotti allo status di minoranze fossili, quando non li ha del tutto eliminati. Il mondo islamico che oggi conosciamo è il risultato dell'azione combinata di queste due forze storiche.

2. Il retro terra storico
Al centro della civiltà islamica fin dalle origini, quella del jihad o «guerra santa» è una dottrina giuridico-teologica elaborata secondo un preciso schema legale e religioso da giuristi e teologi musulmani. Essa distingue il dar al-islam o territorio dell'islam, in cui esso regna, dal dar al-harb, il territorio della guerra popolato dagli infedeli, nel quale la guerra è obbligatoria finché essi rifiuteranno di riconoscere la sovranità islamica. Un terzo territorio, il dar al-suhl, è quello in cui gli infedeli ottengono, in cambio del pagamento di tributi, la cessazione (provvisoria) delle ostilità, impegnandosi inoltre a non ostacolare l'espansione dell'islam.

3. Si riannodano le fila delle ideologie
Dopo la seconda guerra mondiale si ricostituì un asse euroarabo, giudeofobico e antiamericano. Dapprima vi aderirono i movimenti euronazisti e fascisti, finanziati per lo più dalla Lega Araba. Il suo sviluppo conobbe una svolta negli anni '60, quando il generale De Gaulle fece della cooperazione con il mondo islamico «la base fondamentale della politica estera francese». La Francia trascinò su questa via l'Europa, la quale mise in atto una politica euroaraba ostile a Israele e agli Stati Uniti, che va sotto il nome di Dialogo Euro-Arabo (DEA).

4. L'embargo del petrolio: l'ingranaggio
Sotto la pressione del terrorismo palestinese, la Comunità Economica Europea (CEE) si uniformò alle posizioni francesi sul Medio Oriente. La sconfitta degli arabi nella guerra del Kippur (1973) provocò il ricorso all'arma del petrolio, che essi aggiunsero a quella del terrorismo per costringere l'Occidente a schierarsi con loro nel conflitto con Israele.
I paesi arabi quadruplicarono il prezzo dell'oro nero e colpirono con l'embargo gli stati ritenuti troppo vicini a Israele (USA, Danimarca, Olanda). Risultato? l nove paesi della CEE si allinearono alle posizioni arabe sul conflitto mediorientale, vale a dire: ritorno di Israele alle linee d'armistizio del '49 (il che lo renderebbe indifendibile) e riconoscimento di un popolo «palestinese» a sé stante (era una novità; poiché fino ad allora esso non era esistito che come elemento indistinto della grande «nazione araba»). Il Dialogo Euro-Arabo (DEA) incoraggiò e legittimò il terrorismo palestinese.


PARTE SECONDA. LA GENESI DI EURABIA

5. La nascita di un blocco politico ed economico euroarabo
In seguito alla crisi petrolifera del 1973, nell'ambito del Dialogo Euro-Arabo (DEA) fu suggellata un'alleanza euroaraba fondata su un baratto: gli europei incassavano vantaggiosi accordi economici, e in cambio si schieravano politicamente a favore dei palestinesi e contro Israele. Gli arabi perseguivano tre obiettivi principali: tendere alla parità economica e industriale con l'Occidente grazie al trasferimento di moderne tecnologie, soprattutto nucleari e militari; insediare sul suolo europeo una popolazione musulmana che godesse degli stessi diritti politici, culturali, sociali e religiosi dei paesi d'accoglienza; imprimere in Europa il marchio politico, culturale e religioso dell'arabo-islamismo, tramite un flusso di immigrati che restavano politicamente e culturalmente legati ai paesi d'origine. Invocando il multiculturalismo, il DEA preparò l'avvento di un islam europeo ostile all'integrazione.

6. Il nuovo orientamento politico e culturale
Nel corso degli anni '70, il Dialogo Euro-Arabo impose la soluzione del conflitto israelo-palestinese come condizione imprescindibile per un'autentica cooperazione euroaraba, e condannò ripetutamente Israele. Raccomandò inoltre il sorgere di un movimento di opinione paneuropeo favorevole agli arabi, e invocò speciali condizioni per l'accoglienza degli immigrati musulmani in Europa, auspicando che i governi europei facilitassero la partecipazione dei lavoratori stranieri e delle loro famiglie alla vita culturale e religiosa araba. Insistette sulla «cooperazione negli ambiti della cultura e della civiltà», incoraggiando in particolare lo studio dell'arabo e delle lingue europee, e la creazione di istituzioni culturali euroarabe.

7. L'ingranaggio: la Comunità Europea, strumento della politica araba
Il Dialogo Euro-Arabo condusse la Comunità Europea al riconoscimento diplomatico dell'OLP, nonostante essa, nella sua Carta del 1968, condannasse Israele alla distruzione. La Lega Araba e la CEE adottarono una posizione comune, che teorizzava il principio di una pace globale da cui era escluso qualsiasi paese avesse firmato una pace separata con Israele, e la creazione di uno stato palestinese del quale il solo Arafat sarebbe stato il rappresentante. Il DEA si sforzò di scavare un fossato tra l'Europa e gli Stati Uniti.

8. L'allineamento politico della Comunità Europea
Grazie al Dialogo Euro-Arabo, a partire dal 1974 l'OLP ottenne lo statuto di osservatore in numerose organizzazioni internazionali. Nel 1975 l'ONU assimilò il sionismo a una forma di razzismo e nel 1979 Arafat fu invitato ufficialmente a Parigi. In quel periodo, i comitati politici euroarabi del DEA misero in atto contro Israele le strategie jihadiste - giustificazione del terrorismo, delegittimazione e colpevolizzazione delle vittime - che oggi, all'alba del XXI secolo, si stanno ritorcendo contro l'Europa e l'Occidente.

9. L'allineamento culturale: i seminari euroarabi
A partire dagli anni '70, le politiche europee sull'immigrazione furono assoggettate all'obiettivo del Dialogo Euro-Arabo, imposto dagli stati arabi e dalle loro lobby in Europa: fondere le due sponde del Mediterraneo in una civiltà comune. Ecco perché il DEA progettò l'inserimento massiccio e omogeneo di interi gruppi di immigrati provenienti dal Sud nel tessuto laico europeo. Questi immigrati, che nel giro di due decenni erano diventati milioni, non venivano per integrarsi. In quest'ottica il DEA mise l'accento sulla diffusione più ampia possibile in Europa, sotto l'egida di istituzioni e centri culturali euroarabi, della lingua e della cultura arabe, e sull'insegnamento dell'arabo ai figli degli immigrati.


PARTE TERZA. IL FUNZIONAMENTO DI EURABIA

10. La politica estera
In 30 anni il Dialogo Euro-Arabo è riuscito a trasformare l'Europa in un'entità culturalmente ibrida, Eurabia, fondata sull'antioccidentalismo e la giudeofobia. Il consolidamento della cooperazione euroaraba è sfociato nel Partenariato euromediterraneo, le cui caratteristiche sono state definite alla I Conferenza Euromediterranea di Barcellona (1995). In quell'occasione, il fondamentale nucleo antiisraeliano della politica estera europea è stato confermato dall'enunciazione del principio «terre in cambio della pace», fulcro dell'intero sistema del jihad e della dhimmitudine che aveva permesso all'impero islamico di impadronirsi dei paesi cristiani.

11. Una politica antisionista e antisemita
Dopo l'aggressione congiunta del terrorismo palestinese e dell'embargo petrolifero del 1973, la CEE/UE si è totalmente allineata alle posizioni arabo-palestinesi, dedicandosi a una campagna di delegittimazione e demonizzazione dello stato ebraico in Europa e nel mondo. Finanziando generosamente l'Autorità Nazionale Palestinese, così come le ONG palestinesi (che incitano al terrorismo in funzione antiisraeliana), l'UE ha amplificato, mediante il Partenariato euromediterraneo, la strategia di sostegno al jihad contro gli israeliani cara al Dialogo EuroArabo. Il connubio euroarabo tra Chiese, università e ONG è divenuto parte integrante di questa strategia. Oggi il «palestinismo» eurabico impregna i media europei, scagionando il terrorismo palestinese.

12. La crisi: 2000-2003
L'11 settembre e i suoi contraccolpi (stato di choc nell'opinione pubblica occidentale, guerra in Afghanistan e in Iraq, lotta al terrorismo e critica delle politiche migratorie europee) hanno in parte destabilizzato il Partenariato euromediterraneo. I suoi esponenti hanno reagito accentuando la propaganda antiamericana e antiisraeliana. Obiettivo? Mantenere a tutti i costi il Partenariato, attribuendo alle strategie messe in atto da Bush e da Sharon la responsabilità di aver causato il terrorismo jihadista. L'Unione Europea intendeva neutralizzare la rabbia antioccidentale della «piazza» araba e prevenire gli attentati sul suo territorio sganciando totalmente la politica europea da quella americana. Ma, così facendo, ha scatenato un'ondata di antimericanismo e antisemitismo che ha invaso tutti gli strati della società europea, in sintonia con i paesi arabi. Inoltre, l'UE ha indirizzato a questi ultimi dichiarazioni di sottomissione e gesti di buona volontà (specie in ambito finanziario) per placare il loro risentimento nei suoi confronti.


PARTE QUARTA. GLI STRUMENTI DI EURABIA

13. La nuova cultura euroaraba
Il rafforzamento dei legami culturali è stato da subito una priorità per il Dialogo Euro-Arabo. Per le esigenze del Partenariato euroarabo, l'UE e la Commissione Europea sono state costrette a dar vita a un sistema politico in grado di controllare la cultura, la scuola, i media, l'informazione: insomma, tutta la società europea. La sinergia euroaraba ha chiuso l' Europa sotto lo cappa di un pensiero unico, che ha le sue radici in una sottocultura totalitaria, impregnata di cristianofobia, giudeofobia e islamofilia. Le plurisecolari visioni religiose, storiche, sociali e politiche della civiltà islamica si sono ricostituite nelle scuole e nelle università europee, dove è diffuso il razzismo antisemita e antiisraeliano. La nascita di controsocietà chiuse, che si nutrono di un'identità sostitutiva diffusa tra i giovani immigrati di seconda e terza generazione, dà adito alla strumentalizzazione da parte dei fondamentalisti islamici, adepti di una ummah transnazionale.

14. Strategia del Dialogo o della da'wah?
I lavori della VI Conferenza dei ministri degli Esteri euromediterranei, riunita a Napoli nel dicembre 2003, lasciano presagire la sorte che i leader europei le assegnano. Infatti la Conferenza ratifica la nascita della Fondazione Anna Lindh per il Dialogo tra le Culture, destinata a guidare il dialogo interculturale Sud-Nord con il supporto di una tentacolare infrastruttura euromediterranea di comunicazione nei settori dell'educazione e della ricerca (EUMEDCONNECT) nonché da un'Assemblea Parlamentare euromediterranea. La Fondazione Anna Lindh si adopererà di fatto per unificare i paesi del Sud (Maghreb e Mashrek) con l'Europa.

15. La politica dell'impunità
La creazione, da parte della CEE/UE, del Dialogo Euro-Arabo ha spalancato le porte dell'Europa all'impunità palestinese e all'indottrinamento filopalestinese nei media e nelle università. A partire dagli anni '70, i capi di stato europei hanno corteggiato l'OLP, malgrado i suoi molteplici soprusi terroristici. Intanto l'Associazione Parlamentare euroaraba, potente lobby arabo-musulmana operante all'interno del Parlamento europeo, trasmetteva le richieste arabe alle massime autorità politiche, universitarie e religiose coinvolte nel DEA, mentre le pressioni del terrorismo e del petrolio si univano per diffondere in tutti gli strati della società la palestinolatria e l'occultamento del jihad in Africa e Asia, e per mettere il bavaglio all'informazione. Oggi, l'Europa si appresta a includere nel partenariato Hamas, il movimento jihadista vincitore delle ultime elezioni legislative palestinesi.


PARTE QUINTA. L'IDEOLOGIA DI EURABIA

16. Il palestinismo, nuovo culto di Eurabia
Il palestinismo, nuovo culto di Eurabia, che recide le radici bibliche del cristianesimo per fonderIa in un crogiolo cristiano-islamico, conferisce valenza teologica ai palestinesi assimilandoli a Cristo. Questa vittimologia, assai di moda tra le Chiese protestanti e cattoliche di Gerusalemme, vede nelle sofferenze del popolo palestinese la crocifissione di Gesù a opera del diabolico Israele, di cui legittima quindi la distruzione. Essa è stata instillata nella coscienza politica europea dalle istituzioni religiose, dai media e dalle reti di Eurabia. Il ruolo delle Chiese palestinesi nella distruzione del cristianesimo e nella diffusione della dhimmitudine in Europa è stato e resta centrale: se la causa palestinese è la chiave di volta del jihad globale contro gli infedeli, queste Chiese hanno trascinato il mondo cristiano in un processo suicida: infatti, occultando l'ideologia jihadista propria dei palestinesi, sono divenute le più attive promotrici dell'islamizzazione dell'Occidente, per giunta glorificando la dhimmitudine loro imposta.

17. L'islamizzazione del cristianesimo
La negazione del nesso tra la Bibbia ebraica e i Vangeli è una tendenza cristiano-pagana - il marcionismo - elaborata nel Il secolo d.C. dal vescovo Marcione, che lo Chiesa tentò di reprimere. Oggi il marcionismo palestinese, in auge nelle Chiese arabe dhimmi, apre la strada all'islamizzazione del cristianesimo, spogliando Gesù della sua identità ebraica per conferirgliene un'altra, araba e palestino-musulmana. Analogamente, anche Maria e gli apostoli sono assimilati agli arabi. Il palestinismo priva il cristianesimo delle sue radici ebraiche per islamizzarlo, e trasforma la Palestina biblica in arabo-musulmana, privando lsraele di ogni legittimità storica e spirituale. Questa tendenza, in piena ascesa nelle Chiese europee, si avvale della politica filoaraba e filopalestinese del DEA.

18. L'utopia andalusa
Per bloccare il dibattito sull'immigrazione e persuadere l'opinione pubblica del futuro idilliaco che attende Eurabia, il Dialogo Euro-Arabo ha diffuso il mito della coesistenza pacifica e armoniosa che regnò tra ebrei, cristiani e musulmani, nella Spagna dominata da questi ultimi, dall'VIII al XV secolo. La realtà storica non corrisponde affatto a questa visione semplicistica e unilaterale. La cultura andalusa è il risultato di particolari circostanze storiche piuttosto che del liberalismo delle leggi.

19. Condizionare le menti
L'inferiorità degli ebrei e dei cristiani è codificata in ogni singolo aspetto del loro status di dhimmi. La shari'a infatti indica con precisione le norme fondamentali e obbligatorie che regolano la condizione dei dhimmi in tutti i paesi dell'islam, aggravate talvolta da ulteriori discriminazioni, legate a specifiche circostanze o a particolarità locali. I giuristi musulmani, comprese le autorità andaluse, hanno sempre condannato con fermezza qualsiasi violazione di queste regole, che per oltre un millennio sono state in vigore nel Mashrek, in Persia, nello Yemen, nel Maghreb, in Turchia e nei Balcani. Da 30 anni a questa parte anche i leader europei hanno adottato alcuni tratti comportamentali tipici della condizione dei dhimmi: oblio delle proprie radici e della propria storia, paura del jihad. Il risultato? Una politica di sottomissione e umiltà, servilismo e negazione della realtà, il tutto condito da antisemitismo e antiamericanismo.


Conclusioni

AI termine di questo lavoro, è legittimo discutere sulle motivazioni che hanno condotto alla scelta del Dialogo e del complesso di strategie che lo costituiscono. È lecito, inoltre, interrogarsi sulle sue finalità e i suoi esiti: processo, questo, che chiama in causa diversi aspetti, in quanto il Dialogo ha di fatto preparato l'avvento di una nuova società, una nuova civiltà, una nuova cultura e perfino un nuovo «uomo mediterraneo», sganciato dalle sue radici etniche e culturali, e ridotto a un generico «noi». Non da ultimo, occorre chiedersi com'è possibile che la grande maggioranza degli europei non abbia mai sentito parlare del Dialogo, vale a dire di una politica che incide fortemente sul suo presente e determinerà in modo irreversibile tutti gli aspetti del suo futuro.
Uno degli scopi originari del Partenariato era trasformare gli immigrati musulmani in una popolazione occidentalizzata che, una volta assimilata la cultura dell'Europa, divenisse l'ambasciatrice dei suoi interessi e dei suoi valori nei paesi arabo-musulmani. Ma la situazione si è di fatto capovolta, in quanto gli immigrati hanno assoggettato i paesi ospiti alle politiche e alla cultura arabo-musulmana, anche se un certo numero di loro si è integrato alla perfezione nella società europea e la arricchisce con le sue specifiche competenze.
Il fallimento di questa politica deriva dalle scelte del DEA, che ha adottato il criterio del multiculturalismo anziché quello dell'integrazione. Ora, in origine, il multiculturalismo era nato come uno strumento della politica di integrazione europea, che ambiva a unificare popoli, per lo più cristiani, che condividevano la stessa storia e la stessa cultura; ma il DEA ha esteso il multiculturalismo ai popoli arabi, con una strategia che ha proiettato l'Europa al di là del Mediterraneo, in Africa. E il multiculturalismo non richiede l'integrazione, ma la coesistenza comunitaristica, sull'esempio dei millet dell'Impero ottomano, comunità etnico-religiose basate sulla dhimmitudine.
Il Partenariato ha conferito all'Europa la pace del dar al-suhl. ln questo contesto si spiega il parossismo isterico delle accuse rivolte a Israele, la cui resistenza ad Arafat ha fatto sempre venire la pelle d'oca all'Europa. Questa strategia, cara a Romano Prodi, consisteva nel rifugiarsi sotto la protezione delle stesse persone da cui si è minacciati, nel gettare ponti, nel moltiplicare e intensificare gli abbracci con il terreno ideologico da cui è germogliato il terrorismo, nella speranza di sfuggirvi. Le componenti schizofreniche di questa politica derivano dal contrasto tra la paura del terrorismo e la sua simultanea negazione. Ma è possibile dare vita a una strategia della sicurezza che neghi l'esistenza del terrorismo solo perché ci si è alleati con i suoi leader? Non è già una resa questa?
L'apparato di sicurezza che oggi presidia capillarmente tutte le grandi città europee è la prova del doloroso fallimento di questa strategia. L'Europa si è coperta di una fitta trama terroristica infiltratasi, spesso all'insaputa di essa, tra popolazioni che non vogliono o non possono integrarsi. Stiamo andando verso una serie di guerre civili sul modello del Libano o dell'Iraq?





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