1. SESSANT'ANNI DOPO
Cosa significa essere israeliano
di Yossi Klein Halevi
Lo stato di Israele ha appena compiuto 60 anni. Ma oggi essere un Israeliano significa rassegnarsi a vivere in mezzo a mille paradossi senza soluzioni. Paradossi emotivi e politici. Significa vivere ogni giorno con la paura costante della morte, pur senza ammetterlo, mostrando al mondo di aver imparato a sopravvivere a qualsiasi minaccia. Quale altro Stato festeggia ogni anno la propria indipendenza ponendosi la domanda: "Credete che il nostro Paese esisterà ancora tra 50 anni?" La risposta della maggioranza degli Israeliani continua ad essere un sì deciso, forse proprio con la consapevolezza di aver sempre avuto ogni probabilità contro. Israele è riuscita a crescere e ad affrontare pericoli a cui pochi altri Stati sarebbero sopravvissuti.
Siamo ancora "l'unico Paese"- l'unico Paese i cui confini non sono riconosciuti a livello internazionale; l'unico Paese la cui capitale non ospita ambasciate straniere; l'unico Paese dal quale, nei negoziati, ci si aspetta grandi concessioni in cambio del semplice riconoscimento della nostra esistenza; l'unico Paese in cui una sentenza di morte può essere approvata da qualcuno dei nostri vicini. Il terrore preme costantemente alle nostre porte, mentre la minaccia nucleare dell'Iran cresce ogni giorno di più. Le nostre guerre si combattono fuori e dentro casa. Razzi Katyusha su Haifa e Ashkelon, autobus che esplodono a Gerusalemme: ciò che sembra inconcepibile, da noi è ormai routine.
Più la jihad s'intensifica, più cresce il nostro desiderio di tornare alla normalità. Una promessa che sembra però sempre più irrealizzabile. Forse solo ora, un pò avanti negli anni e in mezzo a tanti conflitti, riusciamo a comprendere quanto il pensiero dei Sionisti, nonostante le lodevoli intenzioni, sia stato davvero ingenuo: risolvere i problemi degli Ebrei creando l'unico Stato non musulmano nel Medio Oriente, in una terra santa contesa da tre fedi differenti, in prossimità dei campi petroliferi più ambiti al mondo.
Essere un Israeliano oggi significa potersi sentire davvero orgoglioso: traguardi inimmaginabili sono stati raggiunti. Gli Israeliani hanno apportato innovazioni scientifiche e tecnologiche a livello mondiale, riuscendo a raggiungere il top, secondi solo agli Americani, nel numero di nuove imprese high-tech presenti nel NASDAQ. Eppure essere un Israeliano significa anche sopportare la vergogna di "chilul", alterazione deturpante del nome "Israele": Abbiamo permesso di essere rappresentati da un Presidente accusato di stupro, da un primo ministro considerato il politico più corrotto del Paese, da un vice primo ministro condannato per molestie, da un ex ministro dell'economia imputato per gravi accuse di appropriazione indebita. E' vero, altri Paesi possono anche avere leader politici ancora più corrotti dei nostri. Ma questa non è certo una consolazione per una nazione che deve affrontare scelte di vita o di morte, sottoposta continuamente a sacrifici, più di quanto qualsiasi altra popolazione occidentale potrebbe sopportare.
Arrivati a questo punto, molti di noi hanno completamente perso fiducia nell'imperativo biblico di divenire una luce per le nazioni di tutto il mondo. "Dobbiamo prima divenire una luce per noi stessi" ci ripetiamo ora. Eppure, in fondo continuiamo ancora a credere di poter essere una vera luce, malgrado tutto. Nella nostra lotta contro i kamikaze, abbiamo dimostrato che una società consumista può sconfiggere i terroristi e rivendicare il proprio spazio pubblico una vittoria storica per il mondo intero, che però in gran parte sembra non accorgersene.
Per la terza volta in meno di un secolo gli Ebrei si trovano in prima linea di fronte al male che minaccia chiunque Nazismo, Comunismo sovietico ed ora jihadismo. Ognuno di questi movimenti aspirava a modificare l'umanità nella propria immagine, considerando gli Ebrei come l'ostacolo principale da eliminare. E' terribilmente complicato dare una spiegazione a un tal motivo di ostilità, ma comprendere la natura dei nostri nemici dovrebbe rendere la nostra causa più solida e giusta. Proprio stando in prima linea contro la jihad, Israele segue il suo obiettivo chiave del Tikkum Olam, tentando di "riparare il mondo".
E non solo stiamo combattendo questa guerra senza disporre di leader adeguati: per la prima volta nella storia, ci manca anche una visione comune, che possa unire in un sol fronte la maggioranza degli Israeliani.
Le nostre certezze ideologiche sono crollate una dopo l'altra. Il sogno della "Grande Israele" si è infranto nella prima intifada; il sogno della "pace ora" è svanito con la jihad. Era rimasta, alla fine, solo l'opzione dell'unilateralismo. Se non possiamo avere la meglio sui Palestinesi e non possiamo raggiungere la pace con loro, possiamo almeno cercare di determinare i nostri confini. Anche questa si è rivelata una fantasia, stroncata dagli attacchi missilistici da Gaza. Ora non esistono più risposte, solo improvvisazioni.
Eppure, in ogni luogo dominato da certezze ideologiche, la sobrietà è una caratteristica difficilmente rintracciabile. La maggior parte di noi sarebbe disposto a enormi rinunce pur di mettere fine ai conflitti ed ottenere un reale riconoscimento della nostra legittimità. Ma, al tempo stesso, siamo consapevoli che, al punto in cui siamo giunti, nessuna concessione ci garantirebbe quel riconoscimento. Per la prima volta dalla Guerra dei Sei Giorni, stiamo affrontando la realtà senza paraocchi ideologici. Non c'è dubbio, il crollo delle ideologie è deprimente. Ma al tempo stesso illuminante. Finalmente abbiamo piena cognizione della complessità in cui viviamo. E questo ci dà la forza di andare avanti.
Essere un Israeliano oggi significa aver acquisito la consapevolezza che i nostri confitti interni sull'identità possono esser gestiti, ma non risolti. Siamo uno Stato moderno in terra santa, e come tale destinato a rimanere laico e religioso allo stesso tempo, senza svolte decisive in alcuna direzione. E con la nostra popolazione costituita per più del 20% da Arabi, siamo destinati ad essere uno Stato sia democratico sia giudaico, che aspiri ad includere in qualche modo tutti i suoi cittadini nella sua identità nazionale. E che, al tempo stesso, mantenga la responsabilità anche per gli Ebrei senza cittadinanza.
Molteplici sono le piaghe che affliggono la nostra società: eppure ancora riusciamo a reggere. Abbiamo superato l'assassinio di un primo ministro, e lo sradicamento di migliaia di nostri concittadini dalle loro case a Gaza. Siamo ben consapevoli della nostra inclinazione all'auto-distruzione, l'ebraico yetzer harah, la tentazione del male. Negli ultimi vent'anni abbiamo visto arrivare vere e proprie ondate di immigrati dall'ex Unione Sovietica e dall'Etiopia. Ad oggi un'integrazione reale non è ancora avvenuta. Ma sappiamo bene, comunque, che in qualche modo si sta formando un popolo da questo incontro di comunità diverse e spesso antitetiche.
Essere un Israeliano oggi significa conoscere un segreto che la maggior parte degli Ebrei della diaspora ignoravano, e che spesso tentiamo di nascondere anche a noi stessi: Israele è un posto meraviglioso in cui vivere in cui innamorarsi della vitalità, dello stile informale, delle trasformazioni e delle infinite sorprese che offre il nostro Paese.
Pur all'interno d'insopportabili tensioni, siamo riusciti a creare benessere. Il cibo è fantastico, l'humor più che politicamente scorretto. La cultura ebraica scandalizza il sacro e santifica il profano.
Più di ogni altra cosa, amiamo cantare. Qualsiasi genere di canzone nasce qui da noi. L'incontro musicale tra Est ed Ovest ovunque noto come "word music" qui è semplicemente musica israeliana. E di recente, Dio è divenuto uno dei maggiori protagonisti del rock d'Israele, smentendo la nostra idea di nazione divisa tra "laico" e "religioso". Anche le vecchie canzoni sentimentali e patriottiche sono tenute in vita dalle cantate popolari che tutti insieme facciamo in giro per il Paese, oltre ad essere oggetto di nuove versioni hip-hop e reggae. Più la situazione diventa disperata, più Israele si diverte a cantare.
Essere un Israeliano oggi significa provare al tempo stesso delusione e ammirazione. Significa essere preparato all'imprevisto un ponte aereo d'emergenza per una lontana tribù ebraica, missili su Tel Aviv, un leader arabo alla ricerca di pace a Gerusalemme. Significa che, sebbene siamo cresciuti con gran diffidenza nei confronti del mitico, ancora ci sentiamo privilegiati per il fatto di vivere nell'ultimo mito ebraico.
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Pubblicato da The Jewish Week (traduzione dall'inglese di Benedetta Mangano)
(l'Occidentale, 9 maggio 2008)
2. TESTIMONIANZA DI VITTORIO DAN SEGRE
Sessant'anni fa c'ero anch'io»
di Giulio Meotti
Una volta raggiunto con una barca il porticciolo a Tel Aviv, costituito da un capannone per le merci e qualche sgabuzzino adibito a ufficio, Vittorio Dan Segre fu visitato da "un'infermiera piccola, brutta, con gli occhi mongoli e una stella di Davide ricamata in rosso sulla cresta inamidata della cuffia". Non parlava una parola di ebraico, conosceva un po' di francese e male l'inglese; indossava una giacca blu marino e pantaloni di flanella grigi, una camicia con polsini e colletto di lino bianco. Lo seguiva una grossa valigia, con i bordi in pelle foderata di seta. "Nella mia immaginazione io vedevo reparti di 'arditi' sionisti con corazze lucenti galoppare a bandiere spiegate alla conquista di Londra. Ma appena tornavo in me, i miei occhi cadevano sulle mosche che si abbeveravano alle gocce di gassosa colorata cadute spumeggianti fuori dai bicchieri". Ride Segre, ripensando al suo incontro con Israele, quel "mondo nuovo, clandestino, complesso, brutale, ardente", l'arrivo al kibbutz Givat Brenner fondato dal grande Enzo Sereni, "piccolo, grassoccio, miope, d'intelligenza vivissima e di cultura mostruosa, l'aria del maestro di scuola, un po' impacciato nei modi di fare, permanentemente a disagio negli abiti, ricordava i ritratti di Silvio Pellico prigioniero allo Spielberg". Segre amava sedersi sotto gli alberi che circondavano la tomba del fondatore della scuola Mikwe Israel, Karl Netter, il padre dell'agricoltura sionista. E' nitidissimo il ricordo dell'acqua bruna e pastosa che facevano scorrere nella sabbia degli aranceti, mentre gli amici del kibbutz fantasticavano in polacco sulle foreste della Slesia.
Emigrato in Palestina nel 1939, Vittorio Dan Segre ha combattuto durante la guerra d'Indipendenza del 1948, "per porre fine alla caccia gratuita all'ebreo". E' stato diplomatico israeliano fino al 1967, poi l'insegnamento a Oxford, il Mit e Stanford. Nel 1997 ha creato a Lugano l'Istituto di studi mediterranei. Nello stato ebraico Segre arrivò che aveva sedici anni per sfuggire alle leggi razziali. La Utet ha appena ripubblicato le sue "Metamorfosi di Israele" con una nuova parte dedicata al primo ministro Ehud Olmert. Segre lo presenterà alla Fiera del Libro di Torino.
"Se dovessi definire il mio incontro con Israele direi che fu atroce", ci racconta di ritorno da Tel Aviv. "Vi arrivai con una nave italiana appartenuta a mio zio, unico emigrante nel settembre 1939. E fui depositato in un porto di Tel Aviv, vicino a una spiaggia. Abbandonato alla ricerca di un ignoto kibbutz dove c'erano un mio ipotetico tutore con il colletto e la spilla sotto la cravatta, come si usava allora, un caldo poco piacevole e una grande valigia con le mie iniziali. Aspettando che succedesse qualcosa. Arrivò un autista di taxi, mi prese sotto la sua protezione".
Segre ha partecipato al conflitto dopo la spartizione della Palestina voluta dalle Nazioni Unite e rigettata dal mondo arabo. "Combattimenti a fuoco ne ho fatti pochi, il mio compito principale fu di creare la scuola di paracadutisti che non esisteva. Quando il governo accettò il progetto che gli sottomisi di formare una unità, con cinque ufficiali e due soldati, un ex commando inglese che era stato in azione contro Rommel e uno studente di filosofia che sarebbe diventato assistente di Karl Popper, Yosef Agassi, fummo spediti in Cecoslovacchia perché in Israele non c'erano paracaduti e se ci fossero stati non ci sarebbe stato spazio per lanciarsi senza cadere nelle linee nemiche. L'aereo che ci portava in Cecoslovacchia perdette un'ala e fui ricoverato in ospedale. Non ricordo dove, era da qualche parte nei Sudeti". Segre ha intrattenuto rapporti con i principali protagonisti dell'epica israeliana, in parte li racconta nel libro "Il bottone di Molotov" (Corbaccio). "Ho conosciuto David Ben Gurion, quando si ritirò dalla politica andai a trovarlo a Sde Boker, mi diede una fotografia con dedica, è la più bella medaglia che possa avere. Si interessava molto a Gianbattista Vico, comprai le edizioni complete e gliele portai. Era un nanerottolo con una enorme testa, una capigliatura come alette sul cranio, gentilissimo, con due occhietti sprizzanti energia e ironia e una capacità oratoria che poteva essere distruttrice. E una capacità straordinaria di uscire dall'immediato per riflettere usando strumenti filosofici quasi di meditazione. Andò in Birmania a sottoporsi a esercizi di yoga".
C'era Moshe Dayan, il liberatore di Gerusalemme. "Era la personificazione dell'eroe, un uomo straordinario nel coraggio, negli istinti buoni e cattivi, aveva la sensibilità del soldato e del poeta. Mi occupai della sua visita a Parigi quando ricevette la legione d'onore. L'immagine di quest'uomo che comandava senza un occhio resta in me indelebile, sprigionava autorità dalla benda all'occhio".
Segre ha conosciuto anche Menachem Begin, il leggendario padrino della destra israeliana. "Era una persona compitissima, correttissima nel portamento e allo stesso tempo una mistura di realismo e di romanticismo che faceva della sua personalità qualcosa di carismatico. Anche più di Ben Gurion". Ci fu l'occasione di frequentare l'Irgun, la formazione revisionista guidata da Begin. "Quando lasciai il reggimento di fucilieri palestinesi per passare all'intelligence britannico, dopo vari cambiamenti finii in una unità a Bari di paracadutisti speciali il cui compito era di andare dietro le linee tedesche. Era l'unità inglese parallela a quella dell'Agenzia ebraica di cui fece parte Hannah Senesh. Lì conobbi i membri dell'Irgun e uno dei capi del Lehi. Per molte settimane non venni arruolato in Israele perché considerato legato a queste fazioni ribelli. Ho un ricordo bello dell'Irgun, gente dura e pura, totale dedizione alla causa con qualche spiritato. Ricordo benissimo l'Altalena, la nave dell'Irgun con superstiti dell'Olocausto, compreso lo storico Saul Friedländer, accolta a fucilate dall'Haganà sotto il mio naso. Un momento tragico, ma Begin mise fine al rischio della guerra civile".
Veniamo all'anniversario. "Per me i sessant'anni di Israele sono soprattutto un momento di straordinaria contraddizione. Dopo tutti questi anni Israele non ha ancora frontiere, non ha una capitale riconosciuta, non ha costituzione, non ha nazionalità pur avendo una cittadinanza, ha un governo privo di prestigio, al tempo stesso una grande democrazia e una libertà di pensiero incredibile e un esempio mondiale di integrazione. E poi un'economia di tipo asiatico basata su una delle più sviluppate industrie high tech, ma senza risorse materiali, con una cultura vibrante in cui laicismo e religione esistono gridando ma senza uccidersi, dove si raccolgono nobel, un paese formato da sette milioni di persone e largo meno della Lombardia. Israele ha in mano la sicurezza e il futuro del mondo. I sessant'anni di Israele celebrano questa straordinaria creazione umana che non è soltanto il ritorno degli ebrei sulla scena politica, ma qualcosa di più importante per il mondo: il risveglio di un fossile. Le speranze e le ansie che un simile risveglio, un fossile cioè una civiltà che si credeva morta, rendono Israele qualcosa di attrattivo e pauroso. Israele è un'immensa opportunità come laboratorio di soluzioni".
Israele ha un rapporto intricato con la Shoah. "Il mio è un rapporto di colpa con l'Olocausto, è l'essere sopravvissuto, l'inspiegabile ragione di una vita lunga e piena di gioie familiari, politiche, culturali, senza avere una parte minima del merito e delle capacità intellettuali che avevano milioni di miei correligionari che furono ingoiati nella voragine della Seconda guerra mondiale. Già la domanda 'perché sono nato?' per un essere umano è grandissima. Si aggiunge nel mio caso 'perché sono sopravvissuto?'. Nel rapporto fra Israele e la Shoah ci sono state confusioni e abusi, ma per me ci sono alcuni punti chiari. Israele non è il risultato della Shoah, distrusse le potenzialità dello stato ebraico tagliando le radici del movimento nazionale ebraico. Israele esisteva prima della Shoah, altrimenti non avrebbe potuto vincere la guerra del 1948. Poi la Shoah non è una questione ebraica, durante la guerra è l'Europa a essere morta, il popolo ebraico invece vive. Terzo, chi non ha vissuto la Shoah, chi non ne è stato toccato, non ha diritto di parlare. E questo vale per molti giudici della Shoah e per il silenzio rispettoso di fronte ai superstiti. Chi esce dall'inferno, come dal paradiso, non ha parole adatte per esprimerlo. Bisogna rispettare il rombo di silenzio dei superstiti".
Israele festeggia l'anniversario sotto minaccia atomica. "Lo dicono tutti, lo sterminio è una promessa, non più una minaccia. Ci sarebbe la corsa a distruggerlo se si potesse realizzare davvero. Ma è il mondo arabo islamico quello che vive sotto il pericolo dell'annientamento, non Israele. Non parlo solo di capacità di reagire, Israele come popolo è un fiume carsico che nei millenni scompare per rifiorire più forte del passato, fra le rovine di imperi che ne hanno voluto la distruzione. Penso a Egitto, Grecia, Roma, Spagna, Germania, Russia, l'Inghilterra che ha tradito l'impegno preso con gli ebrei, con il risultato di aver abbandonato il suo più fedele alleato esterno in favore dei suoi più decisi nemici".
E' sempre facile parlare della distruzione di Israele secondo Segre. "E' anche il tema dell'articolo dell'Economist in cui cerca di fare un bilancio onesto ma in definitiva fallimentare. Il Times di Londra nel 1876, per il primo centenario degli Stati Uniti, scrisse che una sola cosa era certa, l'America non sarebbe arrivata a celebrare il secondo centenario di vita. Nel 1911, per i cinquant'anni dell'unità d'Italia, la stampa di Vienna scriveva che l'Italia non avrebbe festeggiato il primo secolo di vita unitaria. Le previsioni sono labili, per farne sulla rinascita politica di Israele bisognerebbe essere più guardinghi. La miglior descrizione nel sessantesimo anniversario l'ha data a Haaretz il ministro francese e figlia di immigrati Fadela Amara. E' venuta in Israele per dire che lì si sente a casa, perché per strada incontra gente che ha ogni colore della pelle. Quando in Francia uno ha la pelle bianca, gli occhi blu e si chiama François, la gente lo guarda in un certo modo. Se si chiama Fatima ed è scura, viene guardata sempre così e così. In Israele ogni razza non si sorprende della diversità. E' il futuro del mondo. Avviene con decine di popolazioni asiatiche che per tradizione antica e decisione moderna vogliono diventare ebraiche. Arrivano a migliaia in Israele, il baricentro si sta spostando sia all'interno che all'esterno da occidente a oriente. L'energia umana d'Israele nasce dall'immigrazione e le future risorse arriveranno da est, l'immigrazione asiatica e africana. Vogliono essere ebrei, a differenza del movimento sionista che era una fuga dal giudaismo".
Lo scrittore Yoram Kaniuk ha polemizzato con la decisione di lasciare che Elie Wiesel porti la fiaccola durante la giornata della memoria ("un tailandese non ebreo figlio di emigranti ed entrato nell'esercito da una sola settimana ha più diritto ad accendere la fiaccola di un ebreo non israeliano"). "E' lo scontro eterno dell'identità non definita del popolo ebraico", dice Segre. "Il dibattito nasce dal fatto che non si sa se Israele sia uno stato degli ebrei, come voleva il movimento sionista, o uno stato ebraico come oggi vogliono i dirigenti laici israeliani, i quali si rendono conto che la legittimità dello stato non può basarsi su una maggioranza di voti mutevoli delle Nazioni Unite, ma su 4.000 anni di legame proficuo per l'umanità e di storia del popolo d'Israele. La polemica fra Wiesel e Kaniuk nasce dal fatto che Israele non ha ancora definito lo stato, tanto che non ha ancora una costituzione, deve decidere se è quella fatta dagli uomini o se è legittimata dall'ebraismo. Il sionismo ha voluto rompere con la tradizione rabbinica, ma si è accorto che non aveva sufficienti richiami. E' molto bello che questo dibattito fra laicità e religione, che ha coperto di sangue l'Europa, ancora oggi sia una questione aperta. Lo si vede dalle polemiche con il Vaticano. E' anche l'espressione della ragion d'essere del monoteismo aristocratico ebraico. Il diritto al dubbio, la base della libertà e il senso profondo del giudaismo, la totale sottomissione alla volontà divina ma anche il diritto a litigare con il proprio Dio".
Secondo Segre, oggi Israele rivive una sorta di 1955. "A me pare che siamo tornati a quella situazione, forse è dovuto al fatto che partecipai ai negoziati che portarono alla guerra del Sinai. Come allora, abbiamo una continua infiltrazione alle frontiere, allora si chiamavano feddayn e arrivavano a piedi, oggi arrivano a piedi e con i missili. L'esercito non è in grado di fermare le infiltrazioni. Come allora c'è un senso di isolamento e un tam tam dei media e dei nemici sul pericolo della distruzione. Ci sono i termini per una nuova collusione, bisogna vedere con chi Israele si alleerà. Non c'è più l'Urss come nemico, c'è una forza nucleare molto forte d'Israele e come ai tempi di Nasser c'è un leader del mondo islamico, stavolta iraniano, che molto di più che nel 1955 giustifica una reazione israeliana. Quindi siamo senza dubbio alla vigilia di qualcosa che cambierà radicalmente la situazione di accerchiamento insopportabile, inaccettabile da parte di nessun paese sovrano.
Dopo i festeggiamenti per i sessant'anni ci saranno dei cambiamenti". Quanto a Hamas, Segre sostiene che siano "burattini agitati dall'esterno, non hanno possibilità autonoma verso la pace né verso la guerra, se non su ordine superiore. Parlo di Iran, Siria e Hezbollah. E' sempre stato così, il rapporto fra Israele e il mondo arabo-islamico". Ehud Olmert è uno dei leader israeliani più disprezzati, ma se lo si deve giudicare dalla capacità di mantenersi al potere, allora è fra i più grandi. "Ha preso decisioni storiche, penso alla guerra libanese, ma soprattutto all'attacco alla base atomica siriana. Quando lo fece Begin nel 1981 fu condannato da tutti, anche da Shimon Peres, oggi nessuno si è levato contro l'operazione straordinaria in Siria. Dalle elezioni del 2009, a cui sono certo Olmert arriverà nonostante gli annunci, emergerà la leadership israeliana del terzo millennio".
Il punto debole di Israele restano per Segre gli arabi israeliani. "E' su questo che si giocherà l'avvenire di Israele. Rappresentano il banco di prova
della moralità, della giustizia e della democrazia israeliana. Questo governo
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ha aperto agli arabi di Israele il servizio civile. Io ho adottato una famiglia beduina perché ritenevo importante che i miei figli li avessero come fratelli di pensiero. I beduini hanno un credito di sangue enorme con Israele". Secondo Segre, da Begin a Olmert, la destra ha il vantaggio degli errori laburisti. "La pace con l'Egitto l'ha fatta Begin e oggi la destra israeliana, Kadima soprattutto, è a favore di due stati con cambiamenti radicali nel rapporto con i coloni. Olmert è molto più aperto ai palestinesi di chiunque altro. E poi c'è la continuata resistenza dei religiosi, degli immigrati e dei nuovi arrivati contro la nomenclatura indebolita di sinistra". Segre ha votato sempre laburista, pur essendone stato escluso. "Ritenevo che i loro principi fossero giusti e avevano il merito della costruzione dello stato. Ma vedevo anche la straordinaria ipocrisia tipica dei socialisti, parlano bene e razzolano male. Non mi piaceva il nazionalismo del Likud, tipicamente europeo".
I Segre sono una delle famiglie ebraiche più legate all'unità d'Italia. "Per me andare in Israele nel 1948 era come rifare le gesta di Garibaldi, trasferire in Palestina i sogni del romanticismo dei patrioti italiani. Il mio rapporto con il sionismo è cambiato, era già labile, mentre il mio rapporto con Israele è ben descritto da Aharon Appelfeld, quando afferma di essere prima di tutto un ebreo, poi un israeliano ebreo e in terzo luogo un sionista ebreo. In Israele ho trovato la mia ebraicità, molto più che la mia nazionalità". Il momento più cupo fu il 1973, la guerra del Kippur. "Ebbi il senso della tragedia, la guerra fu un immenso disastro umano, più di tremila morti. Ricordo lo spappolamento del governo. Dayan non ebbe più il coraggio di apparire alla stampa, l'intero peso ricadde sulle spalle di Golda Meir, mal consigliata dagli esperti militari. Ebbi la possibilità di esserle vicino in un nucleo di autorità che si formò intorno a lei. Golda era una donna coraggiosissima, con poche sicure idee sbagliate".
Segre torna con il pensiero allo sbarco sulla spiaggia di Tel Aviv di quel giovane "emigrante in fuga da un'Europa che stava entrando nell'inferno" e i consigli di sviluppare spessi calli sull'anima, di pari passo con quelli che avrebbero indurito le palme delle sue mani di soldato e scrittore. "Israele è una splendida avventura umana, chiunque vi abbia partecipato può dire a se stesso, ai propri figli e nipoti, 'c'ero anch'io'".
(Il Foglio, 25 aprile 2008)
3. UN SONDAGGIO REALIZZATO DA ISPO
La percezione dell'ebraismo e di Israele in Italia
CASALE MONFERRATO - Renato Mannheimer presenta un'indagine sulla percezione dell'ebraismo e di Israele in Italia. "Per la maggior parte della popolazione italiana (il 42 per cento) gli ebrei sono 'simpatici', ma rimane un preoccupante 32 per cento che invece li considera proprio il contrario". In ogni caso gli italiani si rivelano favorevoli al fatto che Israele sia l'ospite d''onore alla Fiera del Libro di Torino: l''84 per cento di loro è pronta ad affermare che l''importanza culturale di Israele non ha niente a che vedere con la politica. Anche qui però si incontra un 12 per cento di contrari.
Sono alcuni dei risultati più interessanti del sondaggio realizzato da ISPO su un campione rappresentativo di 1000 soggetti, che è stato presentato domenica 4 maggio nella giornata di apertura di OyOyOy!, il Festival di Cultura Ebraica di Casale Monferrato. Giunto al suo terzo anno di vita, OyOyOy! ha cominciato a porsi delle domande proprio su come la cultura ebraica venga percepita all'interno della società italiana. Un tema quanto mai delicato viste le polemiche suscitate dalla Fiera del Libro di Torino dedicata a Israele. Fiera del libro che ha ospitato, anche un appuntamento di OyOyOy!, giovedì 8 maggio, con la consegna del Premio ad Abraham B. Yehoshua.
Così Renato Mannheimer commenta i dati della sua ricerca: "Questa indagine ha dato risultati piuttosto inattesi: in primis proprio la scoperta di un italiano su tre 'ostile' agli ebrei. Analizzando questa percentuale si scopre che l'ostilità si trova in misura relativamente maggiore tra i maschi, tra le persone tra i 50 e i 60 anni, tra i lavoratori autonomi, tra i residenti al centro specie nei comuni medio-grandi. Ma le più accentuate variazioni dell'"'antipatia" verso gli ebrei si rilevano in relazione all''orientamento politico. Gli atteggiamenti esplicitamente sfavorevoli risultano infatti maggiori tra chi si dichiara di sinistra e laico. Questo risultato contrasta con molte aspettative e ipotesi tradizionali sulla diffusione dell''atteggiamento ostile verso gli ebrei".
La parte dell''indagine più legata all''attualità della Fiera del Libro sembra minimizzare questa tendenza: la grande maggioranza del paese si schiera a favore dell'invito di Israele alla manifestazione e un numero ancora maggiore di Italiani condanna il rogo delle bandiere con la stella di David. C'è da notare anzitutto lo scarso numero di risposte "Non so" (solo il 4 per cento), segno che sull''argomento tutti si sono formati un''opinione. Certo rimane un 12 per cento che si sente vicino a chi condanna questa iniziativa perché contrario alla politica di Israele e un 5 per cento che ritiene "un atto comprensibile" bruciare la bandiera israeliana.
Un'analisi più approfondita rivela che sono maggiormente contrari ad Israele (22 per cento di giudizi sfavorevoli), i giovanissimi fino a 24 anni e, sia pure in misura minore, la generazione tra i 55-64 anni, storicamente più schierata a sinistra. Dal punto di vista territoriale, i giudizi relativamente più critici verso Israele si rilevano al centro, specie nei comuni minori. Non si rilevano grandi differenziazioni tra lettori di giornali e no, ma si dichiarano più antiisraeliani gli strati meno centrali socialmente: chi non lavora, chi risiede, appunto, in comuni piccoli.
Un dato piuttosto allarmante del sondaggio è quello che indica un 23 per cento di popolazione nazionale d'accordo con l'affermazione che "gli ebrei non sono italiani fino in fondo", di fronte ad un 33 per cento che invece non concorda e ad un'ampia percentuale di neutrali. Infine si rileva una certa ignoranza di fondo: solo l'11 per cento della popolazione riesce a stimare con relativa precisione il numero degli ebrei in Italia, il 56 per cento invece non riesce a dare una risposta.
Mannheimer ha illustrato anche una metodologia che, sulla base degli studi più recenti, distingue almeno tre "tipi" di antisemitismo: quello "classico", di natura più religiosa, quello "moderno", di carattere più xenofobo e quello "contingente", spesso connesso al giudizio su Israele.
""Non siamo preoccupati tanto per l'antisemitismo che può emergere da questi dati" - commenta Antonio Monaco, presidente dell'associazione organizzatrice di Oyoyoy! - "ma dal fatto che gli ebrei vengano percepiti come una etnia a se stante, quando invece proprio il nostro Festival vuole identificare nella cultura ebraica una delle radici culturali del nostro paese, in grado di dialogare con le idee proposte da altre religioni e visioni etiche"".
Per la cronaca le etnie più simpatiche agli Italiani sono Filippini (51 per cento) e Senegalesi (46 per cento), quelle meno simpatiche Zingari (81 per cento) e Albanesi (74 per cento) e proprio uno degli appuntamento di OyOyOy! sarà una grande Festa Albanese con la partecipazione dei Fanfara Tirana (il 24 maggio), per festeggiare quasi due decenni di integrazione tra la popolazione locale e gli amici di oltre l'Adriatico, ricordando che in Albania, tra il 1943 e il 1945, non è stato ucciso o deportato alcun ebreo.
(Mosaico, 12 maggio 2008)
4. GIUSTI FRA LE NAZIONI
La lista di Irena Sendler salvatrice di ebrei
di Giulio Meotti
ROMA - È morta con il rimpianto di non aver fatto abbastanza. Irena Sendler, la donna che salvò la vita a 2.500 bambini ebrei del ghetto di Varsavia, è deceduta ieri all'età di 98 anni in un ospedale della capitale polacca. Lo ha annunciato la figlia Janina. La cattolica Sendler era un'attivista della Zegota, l'organizzazione della resistenza polacca e a capo di una squadra di 20 persone riuscì a portare fuori dal ghetto 2500 bambini che vennero affidati a famiglie polacche, orfanatrofi o conventi. Nella speranza di poterli restituire un giorno alle famiglie, la Sendler teneva un registro dei loro nomi scritti su foglietti nascosti in vasi sepolti in un giardino. Irena Sendler era un'operaia non ebrea che entrò nel ghetto di Varsavia per parlare ai genitori e a i nonni ebrei dei loro figli e nipoti: diceva loro che sarebbero morti tutti, nel ghetto o nei campi della morte. Portava via i bambini sotto il naso delle guardie naziste (all'interno di borse, dicendo che erano malati, o utilizzando uno dei tanti modi per scappare dal ghetto, ad esempio attraverso il vecchio palazzo di giustizia). "Dopo aver detto alle famiglie del ghetto che avevamo la possibilità di salvare i loro bambini, dovevamo sovente assistere alle scene strazianti del distacco dei figli dai genitori", ricordava l'ex infermiera.
I bambini del ghetto, infatti, venivano portati fuori spesso anestetizzati per simulare, in caso di controlli, delle morti per tifo. Catturata dalla Gestapo nel 1943, la Sendler fu torturata più volte ma non rivelò nulla. Nel 1965 il Memoriale dello Yad Vashem le conferì una delle prime medaglie dei Giusti fra le nazioni, ma le autorità comuniste polacche l'autorizzarono a recarsi in Israele per ritirarla solo nel 1983: si trattava del riconoscimento conferito da Israele ai non ebrei che rischiarono la vita per mettere in salvo degli ebrei. Yad Vashem istituì una commissione diretta da un membro della Corte Suprema israeliana, la cui responsabilità era di assegnare il titolo. Questo è l'unico progetto al mondo che usando dei criteri stabiliti, onora le persone che salvarono ebrei durante la Shoah. Da allora lo stesso concetto di "Giusti fra le Nazioni", stabilito nella legge di Yad Vashem, è diventato ormai un simbolo importante e universale. La lista di Irena è due volte più lunga di quella di Oskar Schindler. "Era un inferno, grandi e piccoli morivano in strada a centinaia, sotto lo sguardo silenzioso del mondo intero" diceva del ghetto. I nazisti uccisero nei campi di sterminio la maggior parte delle 450 mila persone prelevate nel ghetto della capitale polacca, che fu distrutto nel 1943 in seguito a un'insurrezione.
Finita la guerra, Irena consegnò la lista ai leader della comunità ebraica. Molti bambini e ragazzi vennnero ritrovati, affidati a brefotrofi polacchi o mandati in Palestina. "Ho fatto quello che bisognava fare e non ho avuto paura" diceva del lavoro di salvataggio. "I veri eroi non siamo stati noi, che abbiamo dato una mano, ma i bambini e i genitori, che dovettero separarsi in modo così crudele". La storia della vita di Irena fu divulgata al mondo nel 1999 da alcuni studenti di un college del Kansas che hanno lanciato un progetto per salvaguardarne la memoria. "Avrei potuto fare di più, questo rimpianto non mi lascia mai", aveva dichiarato in una recente intervista a proposito del salvataggio degli ebrei. Gli studenti americani le avevano dedicato anche uno spettacolo dal titolo "Life in a Jar", la vita in un barattolo. Quelli della marmellata con le schede anagrafiche di ogni bambino e scritte su carta velina, su cui questa anonima signora polacca incise il destino di una progenie salvata per miracolo dalle camere a gas. Per questo il suo nome resterà inciso per sempre nel cuore vivo di Israele. Insieme all'albero che sorge in sua memoria in quel luogo di cordoglio metafisico che è Yad Vashem.
(Il Velino, 13 maggio 2008)
5. L'ESERCITO, FIORE ALL'OCCHIELLO DI ISRAELE
60 anni dello Stato di Israele
L'esercito israeliano è stato costituito due settimane dopo la fondazione dello Stato di Israele, e da allora ha dovuto superare dei momenti realmente drammatici.
L'esercito israeliano è composto dalla «Haganah», l'unità armata dei coloni ebrei presenti sul territorio di Israele ancor prima della creazione dello Stato, a cui poi si sono aggiunti i soldati della «brigata ebraica» che avevano combattuto sotto la guida britannica nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dopo numerosi ripensamenti, alla fine le organizzazioni clandestine «Etzel» e «Lehi» hanno poi definitivamente accettato la loro dipartita e il trasferimento dei soldati nell'esercito israeliano.
Al momento della creazione dello Stato di Israele, avvenuta il 14 Maggio 1948, cinque nazioni arabe dichiararono guerra; i 30.000 soldati dell'esercito israeliano allora in mobilità dovettero confrontarsi con gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania, Libano e Irak. Il problema più grande del giovane Stato ebraico era proprio la carenza di armi e il fatto che le poche che avevano a loro disposizione erano decisamente vecchie: non avevano, infatti, altro che 10.000 fucili e pochissime munizioni. Ma nonostante ciò, Israele vinse miracolosamente la guerra di indipendenza.
Nel 1949 lo Stato di Israele aveva il controllo di un territorio più grande di quello che gli era stato affidato dall'ONU al momento della redazione del piano di suddivisione dei territori, avvenuta nel 1947.
Tuttavia perdette la parte vecchia di Gerusalemme e di conseguenza il luogo più importante agli occhi della fede ebraica: il muro del pianto. I combattimenti feroci avvenuti nel corso di questa guerra hanno provocato la morte di 6.000 israeliani, circa l'1% dell'intera popolazione, tra cui vi erano molti sopravvissuti all'olocausto, e che, appena giunti in Israele, dovettero immediatamente combattere.
Nel corso della guerra dei sei giorni, avvenuta nel 1967, l'esercito israeliano conquistò un territorio cinque volte più grande dell'intero Stato al momento della sua nascita, e tutte le guerre che Israele ha dovuto combattere hanno messo gravemente in pericolo la sua esistenza. In effetti sappiamo bene che ogni qual volta uno Stato ha dichiarato guerra ad Israele, era solo ed esclusivamente perché l'obiettivo finale era quello di annientare lo stato nuovo nato. Oggi le aziende «IAI» e «Rafael» sono spesso sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo grazie alle loro scoperte e innovazioni tecnologiche spesso rivoluzionarie, ma sappiamo che il Ministero della Difesa è sempre il destinatario della maggior parte delle risorse finanziarie a disposizione; quasi tutti gli israeliani sono coinvolti nelle attività dell'esercito, compresi i membri della minoranza araba.
Ma ci sono alcune contraddizioni nell'esercito israeliano: si tratta di uno degli eserciti più moderni al mondo ma ha adottato ed utilizza ancora oggi simboli e tradizioni che risalgono ai tempi biblici; tutti lo considerano altamente specializzato ed efficace, ma si tratta anche dell'esercito meno strutturato e gerarchizzato al mondo: può contare su una tecnologia avanzatissima ma tra le sue fila compaiono uomini e donne dal passato familiare problematico, persone disagiate o disadattate, e persino disabili.
* * *
L'esercito israeliano in cifre (dati del 2005)
Soldati attivi (uomini e donne): 168.000
Soldati del servizio militare obbligatorio: 107.500
Soldati professionisti: 67.500
Che fanno parte di unità speciali: circa il 20%
Riserve: 408.000
Popolazione pronta al servizio (da 17 a 49 anni): 2 498 296
Morti in guerra: 20.537
Invalidi di guerra: circa 100.000 Budget del ministero della difesa: 10 a 12,5 miliardi di dollari
Percentuale del PIL annuo: dal 7 al 9%. A.N.
(Chiamata di Mezzanotte, anno IV - n.4, 2008)
6. ARCHEOLOGIA IN ISRAELE
Archeologi nei luoghi di Gesù
ROVIGO - Un vero e proprio viaggio nella Gerusalemme di duemila anni fa quello in cui si è avventurato l'uditorio riunito nella Sala degli Arazzi dell'Accademia dei Concordi di Rovigo; percorso condotto dal professor Dan Bahat, archeologo di origine polacca cresciuto in Israele, e oggi docente alla University of St. Michel College di Toronto. La conferenza, dal titolo "Gerusalemme: le tracce dei luoghi storici di Gesù" si è sviluppata attorno alla analisi archeologica dei resti che la grande città del monoteismo può offrire. Ricerca in cui Bahat si impegna da decenni, realizzando scoperte archeologiche - come il tunnel che costeggia il Muro Occidentale e la Spianata delle Moschee - e raggiungendo conclusioni anche in campo di documentazione storico - religiosa.
L'archeologo ha precisato la difficoltà in cui i suoi studi s'imbattono: infatti il centro urbano è povero di resti eclatanti; la maggior parte degli edifici venne smantellata nel II sec. d.C.. Altro ostacolo è costituito da un vero e proprio "buco storico", che priva gli studiosi di documenti e informazioni per circa trecento anni. In ogni caso, i luoghi - caposaldo per una ricostruzione attendibile sono due: la Spianata delle Moschee e la Chiesa del Santo Sepolcro. Quest'ultima sorgerebbe sopra il luogo in cui Gesù fu sepolto. La tomba del Cristo non è oggi visibile in quanto, secoli addietro, venne coperta con lastre di marmo. Scavi sotto la Chiesa testimoniano la sacralità del sito già in epoca antichissima, grazie ad una raffigurazione recante la scritta, in latino, "Signore siamo arrivati". Le informazioni più interessanti provengono dai resti rintracciabili nella Spianata delle Moschee, sito ove, duemila anni or sono, si ergeva il Tempio di Gerusalemme. Luogo di culto per antonomasia, esso trasuda testimonianze di storia cristiana, come i ritrovamenti dell'antica scalinata d'accesso, venuti alla luce nel 1975, dove un'iscrizione suggerisce che fosse quello l'ambiente in cui si riunivano i saggi e i sacerdoti: forse quelle persone con cui un giovanissimo Gesù venne trovato a conversare. Non mancano rinvenimenti di piscine, capitelli dorati, tratti di muratura, piccoli oggetti come monete ad avvalorare, sulla base anche di documenti storici dell'epoca - come quelli dello storico Giuseppe Flavio - una ricostruzione il più possibile fedele dell'aspetto che avevano i luoghi salienti di Gerusalemme così come li vedeva il Cristo.
(Il Gazzettino, 10 maggio 2008)
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