1. LA SPERANZA DELLA REDENZIONE D'ISRAELE
Il messia arriva da Tel Aviv
di Aviel Schneider
La popolazione ebraica collega l'attesa del messia con la liberazione di Israele da tutti i guai. Per questo il ruolo di messia è un incarico ambito nel popolo, e in ogni generazione ci sono persone che si presentano come messia. Ciascuno lo fa alla sua propria maniera. Alcuni si presentano come religiosi, perfino ortodossi; altri invece seguono correnti più nuove, come "New Age".
A luglio sedevo insieme con un ebreo religioso e gli stavo raccontando la notizia del rabbino Jitzchak Kaduri, morto nella primavera del 2007, che in sei parole aveva descritto il futuro messia. Le lettere iniziali di queste parole non davano altro nome che il nome biblico di Gesù: Jehoshua/Jeshua. Dopo di che l'ebreo mi rivelò ispirato e con la massima serietà che lui aveva lo stesso nome e che Kaduri aveva inteso lui. «Io sono il messia, perché il mio nome è Jehoshua - lo stesso nome simile a Jeshua, Gesù», mi dichiarò l'impresario edile.
Non sempre queste persone dichiarano di essere il messia, ma spesso sono i loro seguaci che lo dicono: lo fanno in pubblico o in colloqui privati. Da sempre il Redentore d'Israele di cui parla la Bibbia mette in agitazione la popolazione ebraica.
«Il fenomeno del messia - prototipo messianico, messia potenziali e falsi messia - appartiene alla storia ebraica», spiega lo storico israeliano Zwi Sadan. «Secondo la tradizione ebraica, il primo messia è stato Noè, che ha salvato il mondo. il primo prototipo messianico è stato Giuseppe, che ha dominato il mondo. Il primo potenziale messia è stato il re Salomone, che ha governato il paese con giustizia e in pace. Il tipo del falso messia lo riconosciamo in Nimrod, il primo re di origine non divina». Nel corso dei secoli ci sono stati ebrei che si sono presentati come messia. Tra questi possiamo contare anche Teoda e Giuda, citati nel Nuovo Testamento. Seguono poi i nomi di Bar Kochba, Jizchak Ben Jakob Al Isfahani, David Alroy, David Reuveni, Shlomo Molcho, Shabat Tzwi, Jacob Frank e perfino Theodor Herzl. L'ultima significativa persona che si è presentato come messia è stato il Rebbe dei Lubawitch, Menachem Mendel Schneerson.
1. Anche nella nostra generazione niente è cambiato. Ci sono israeliani che dicono di essere il messia. Da più di due anni al mercato ortofrutticolo di Tel Aviv Shuk HaKarmel c'è il 31enne Arkadi che dichiara di essere il tanto atteso messia. «Voi peccate e vi allontanate da Dio!» grida alle persone che passano il giovane che indossa una lunga veste come ai tempi biblici. «Se non tornate a Dio, l'Onnipotente e Padre mio vi punirà». Poi impreca: «E voi idioti, statemi a sentire insomma! Invece di seguire Dio, voi servite il vitello d'oro». Tutti i venerdì, fino all'inizio del sabato, siede al centro della città e rivolge le sue prediche alle persone innervosite. Ogni tanto interviene la polizia, quando si arriva a qualche scontro tra Arkadi e gli infastiditi ascoltatori. Ma la maggior parte dei passanti lascia stare il giovane con la lunga veste.
2.
Arkadi non è l'unico. Un manifesto in bianco e nero mostra il ritratto di un rabbino ortodosso che vive anche lui nella metropoli israeliana in riva al mare. Anche lui è un messia, ma uno il cui nome nessuno conosce. La parola di Dio comunicata al popolo d'Israele dal messia di Tel Aviv è questa: «L'attuale Parlamento, il diciottesimo della Knesset d'Israele, sarà l'ultimo! Il prossimo governo d'Israele sarà il governo del messia!» Con queste parole il messia senza nome sprona il popolo. Il manifesto compare in quasi tutte le città e località d'Israele, ed è appiccicato perfino sui cartelli dell'autostrada. «La battaglia per Gerusalemme è cominciata. Fra poco tutti gli stati islamici e i paesi cristiani, tra cui l'Europa e gli Stati Uniti, saliranno in guerra contro Gerusalemme!» Nella sua interminabile predica stampata annuncia terremoti, guerre e tutti i possibili e immaginabili terrori degli ultimi tempi. Alla fine esorta il popolo d'Israele a bandire dalle case tutti i programmi televisivi impuri. La radio si può sentire, ma, per favore, solo prediche.
3. Quando, un anno fa, il discusso guaritore Oren Zarif (33 anni) si è incoronato messia sul Canale 10 della televisione israeliana, nessuno si è eccitato per questo. Il gerosolimitano vorrei-essere-messia opera nella zona industriale di Givat Shaul e nelle cliniche di Tel Aviv, in cui cura dei malati. Nei suoi settimanali annunci sui quotidiani di Israele i guariti di Zarif parlano entusiasti di fatti soprannaturali e dei suoi miracoli. Sui media israeliani Zarif spesso viene attaccato: «Tu non sei nessun messia e nessun fenomeno. Sei un ciarlatano!» hanno detto in faccia al loro ospite i moderatori della TV, la coppia Kirshenbaum & London. Ma le persone che Zarif ha guarito non si lasciano smuovere dalla convinzione che lui ha forze soprannaturali, come soltanto il messia potrebbe avere.
4. C'è un altro rabbino che ha sostenuto di essere il Re e il messia d'Israele. Rabbi Yisrael Dov Ber-Odesser o anche Reb Odesser (1888-1994) e Sabba, chiamato "Nonno", ha detto di avere ricevuto una lettera dal cielo, direttamente da Rabbi Nachman di Breslau, che del resto è morto centinaia di anni fa. I suoi seguaci sono convinti che il loro rabbino di Tiberiade sia veramente il messia. Rabbi Nachman gli ha promesso per lettera che avrebbe diffuso una nuova medicina per la guarigione di tutti i dolori e di tutte le malattie che ci sono nel mondo. «Sabba è il re d'Israele, e a poco a poco tutti gli ebrei lo riconosceranno», ci ha detto un ebreo ortodosso di Tiberade. «Il nostro Rabbi ha compiuto miracoli che solo nella potenza del Re possono avvenire!»
5. Un altro personaggio ugualmente morto è Menachem Mendel Schneerson (1902-1994). Per più di quarant'anni rabbino capo del movimemto chassidico Chabad, il Rebbe è vissuto fino al suo ultimo giorno a New York. Dopo la sua morte una parte dei suoi seguaci ortodossi lo ha eletto a messia d'Israele. Ogni anno viene organizzata una mega-assemblea in cui si aspetta il ritorno del rabbino.
6. Anche il 55enne Goel Razon da Tel Aviv è un autoproclamato messia. Fino alla denuncia che lo ha raggiunto nel febbraio 2010, il guru con il barbone e la lunga capigliatura bianca e viveva insieme a circa quaranta donne ed era sposato con almeno diciannove di loro. Il poligamo è stato accusato di violenza carnale e truffa. Secondo l'atto d'accusa, all'interno della sua grande famiglia aveva creato uno "Stato di onnipotenza". Aveva reso docili i membri del suo clan con l'aiuto del suo "magico influsso" e attraversp regole, punizioni e penitenze. Perfino con le figlie delle sue mogli Goel Razon aveva rapporti sessuali.
«La Parola di Dio ci rivela che negli ultimi giorni appariranno sempre di più dei falsi messia» ha detto a israel heute Meno Kalisher, conduttore di una comunità in Gerusalemme. «Quelli che negano Gesù, il quale come Dio è venuto sulla terra in forma di uomo, sono falsi messia. Il fatto che oggi noi abbiamo nel paese una tale quantità di falsi messia è l'opera di Satana nel popolo d'Israele.»
Naturalmente si può non badare a queste persone, soprattutto quando il loro carattere viene messo alla prova. Sorge però la domanda: perché il popolo d'Israele continua sempre a desiderare qualcuno che lo liberi da tutti i suoi problemi? La risposta illuminante è che le guide dello Stato hanno fallito. Proprio per questo nei momenti di pericolo appaiono gli autoproclamati messia. In modo particolare, durante il ritorno degli ebrei nell'amato paese dei loro padri è sembrato che una nuova speranza messianica fosse a portata di mano. Si può dire che il venir meno della fede nella venuta del messia sarebbe un segno di totale disperazione. L'apparizione di falsi messia è quindi un segno indicativo: significa che gli ebrei non hanno abbandonato la speranza della loro redenzione.
(israel heute, gennaio 2011 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
2. IL LEGAME STORICO FRA POPOLO E TERRA D'ISRAELE
Raccontare la vera storia del risorgimento d'Israele
di Benny Levy
Quasi ogni giorno ci viene detto che si va deteriorando la posizione d'Israele nell'opinione pubblica mondiale. La cosa ha gravi implicazioni concrete, al punto di arrivare al rigetto del diritto d'esistere d'Israele. E Israele non sembra in grado di frenare il fenomeno. Molti tendono ad attribuire la colpa allo scarso inglese di alcuni rappresentanti diplomatici o al fatto che il portavoce delle Forze di Difesa israeliane non riesca a fornire in tempo "filmati positivi". Ma sono sciocchezze. Se Israele sta perdendo questa battaglia è perché punta a spiegare le proprie ragioni con argomenti sul piano operativo, mentre la domanda che il mondo pone è: "cosa diavolo ci fanno gli ebrei laggiù"?
Un importante esperto israeliano di pubbliche relazioni tornato di recente da una campagna promozionale all'estero ha lamentato che "semplicemente non ci capiscono". Bene, e perché dovrebbero? La maggior parte dei cittadini del mondo in quest'epoca non ha alcuna dimestichezza con il legame storico fra il popolo ebraico e la Terra d'Israele. Molti ci considerano dei rifugiati senza alcuna relazione con questo territorio, fuggiti dalle sofferenze in Europa per trovare rifugio, in modo del tutto casuale, in Palestina. Quando il presidente americano Obama ha affermato, nel suo famoso discorso al Cairo (luglio 2009), che l'aspirazione a una patria ebraica nasce dalla storia innegabilmente tragica degli ebrei, molti qui in Israele si sono sentiti offesi. "Perché dice così? Noi non siamo qui per via della Shoà". Ma Obama non ha colpa. Dopo tutto la Shoà è diventata la narrativa con cui Israele presenta se stesso a tutti i suoi ospiti (e anche ai suoi stessi figli). Non è forse vero che Obama venne portato direttamente al Museo della Shoà di Yad VaShem appena atterrato qui? Non è forse vero che è lì che portiamo i milioni di nostri ospiti per spiegare loro "chi siamo, da dove veniamo e cosa ci facciamo qui"? L'usanza di portare gli ospiti d'Israele innanzitutto a Yad VaShem comporta un messaggio chiaro e forte: crea l'impressione che la Shoà sia la ragione e la giustificazione per l'esistenza dello stato; pone Israele sul podio della vittima, del profugo alla ricerca di un rifugio.
È vero invece che i pilastri d'Israele vennero piantati decine di anni prima della Shoà. Le sue fondamenta affondano nell'idea sionista. Israele è prima di tutto un'epopea di risorgimento nazionale. La storica Barbara Tuchman scrisse una volta che Israele è la sola nazione al mondo "che oggi governa se stessa nello stesso territorio, sotto lo stesso nome e con la stessa lingua e religione con cui si governava tremila anni fa".
Tutta la storia di Israele - il risveglio nazionale e il ritorno a quell'antica terra patria che è il solo luogo dove l'idea dell'indipendenza ebraica si sia mai materializzata e si possa mai materializzare - è affascinante ed emozionante. C'è chi la ascolta, e ammorbidisce le avversioni. "Avete argomenti che non conoscevo per niente" è una frase che ho sentito decine di volte da persone a cui era stata raccontata questa storia per la prima volta. Il nostro diritto a vivere qui è insito in questa storia.
Il popolo ebraico è tornato nella sua mai abbandonata patria storica in modo consapevole e a buon diritto, non per pura combinazione. Israele, pur con tutti i suoi difetti, è la stupefacente realizzazione di una visione di 3.800 anni di nazionalismo ebraico. Essere una nazione che persegue giustizia e filantropia è l'essenza dell'ebraismo e la ragione dell'antico patto: "Camminerò fra voi e sarò il vostro Dio, e voi sarete il mio popolo".
L'ebraismo è una ricetta per la conduzione di una nazione e degli individui che la compongono. La sua attuazione richiede l'esistenza di una struttura nazionale ebraica, e non vi è luogo più naturale e giusto della Terra d'Israele per la conduzione di questo stato ebraico.
Lo stato d'Israele non è ebraico al 100% né democratico al 100% (non esiste nulla del genere nella realtà). E tuttavia è lo stato più ebraico-e-democratico del mondo. Solo in Israele i due aspetti dell'ebraismo - quello religioso e quello nazionale - si possono realizzare, e l'impegno verso l'ebraismo assume il suo pieno significato.
Questa è la nostra vera storia, e senza di essa Israele non ha scopo, non ha giustificazione e non ha speranza. Far conoscere questa storia al resto del mondo è compito arduo; eppure, senza questo, sarà impossibile riscattare la posizione e l'immagine d'Israele, qui come all'estero.
(YnetNews, 27 dicembre 2010 - da israele.net)
Nella foto in alto: moneta del terzo anno della rivolta ebraica guidata da Simeon Bar Kochba (132-135 e.v.) con la rappresentazione della facciata del Tempio e, sul retro, la scritta: "Simeon/per la libertà di Gerusalemme".
3. QUELLO CHE ITALIA E ISRAELE HANNO IN COMUNE
Problemi di identità irrisolti
di Maria Margherita Peracchino
Lo scorso 7 gennaio, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha aperto ufficialmente le celebrazioni del 150o anniversario dell'Unità d'Italia, con un viaggio nel Risorgimento italiano in terra di Emilia Romagna, con un "no a visione acritica e idilliaca del Risorgimento".
Vittorio Dan Segre, classe 1922, piemontese di Torino, diplomatico, giornalista, docente universitario da Haifa a Tel Aviv, a Oxford, a Stanford, ma anche a Torino e Milano, è stato tra i protagonisti della nascita dello Stato d'Israele, nel 1998 ha creato l'Istituto di Studi Mediterranei presso l'Università della Svizzera Italiana a Lugano, e oggi, all'Università di Tel Aviv, è responsabile di un corso sui rapporti fra Risorgimento italiano e Risorgimento ebraico, e resta, in Italia, una delle voci più carismatiche del sionismo dialogante e moderato.
- Professore, dunque siamo entrati nel 150o anniversario dell'Unità d'Italia. Lei, da piemontese e italiano, come vive questo anniversario?
Le date che terminano con degli zeri hanno sempre qualche cosa di speciale, di magico di cui il passare del tempo diminuisce l'impatto. A me ricorda quanto fallaci siano le previsioni soprattutto politiche. Nel 1911, nel cinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia la stampa di Vienna sosteneva che una delle poche cose prevedibili fosse il fatto che il nuovo stato italiano non sarebbe stato in grado di arrivare a festeggiare il suo primo centenario di esistenza. Oggi l'Austria Ungheria non c'è più mentre l'Italia, viva e vegeta, è paese membro e fondatore della Comunità europea.
- La sua italianità come ha influito, nel bene e nel male, nella sua partecipazione alla creazione dello Stato d'Israele?
Ho lasciato l'Italia nel 1939 a causa delle leggi razziali e una delle ragioni che mi ha spinto ad andare in Palestina, al tempo del mandato britannico, era il desiderio di partecipare nella creazione del nuovo - allora molto dubitabile - stato come gli uomini e le donne del Risorgimento avevano partecipato alla creazione dell'Italia. In questo momento insegno un corso universitario sponsorizzato dall'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv, sui rapporti fra Risorgimento italiano e Risorgimento ebraico. Debbo dire che c'è molto interesse da parte di studenti che della storia d'Italia sanno poco.
- In questi 150 anni, quali le tracce e i contributi dell'ebraismo?
I contributi degli ebrei italiani al Risorgimento sono stati enormi e sproporzionati al loro numero. Basta sfogliare le pagine del Dizionario del Risorgimento per rendersene conto. Per questo il tradimento monarchico di Vittorio Emanuele III dei suoi più fedeli cittadini è stato percepito dagli ebrei italiani più penoso e indecente di quello del fascismo. Mussolini, nonostante la sua passione per le donne ebree e le pubbliche dichiarazioni di "protettore degli ebrei" non ha mai abbandonato le sue posizioni anti semite di anarchico.
- I padri fondatori di Israle, come hanno interagito con l'Italia e quale opinione ne avevano?
I padri fondatori del Sionismo, il risorgimento politico ebraico, salvo qualcuno come il leader del sionismo revisionista Zeev Jabotinsky non sono stati influenzati dalle idee risorgimentali in maniera particolare. Anche perché quando il movimento sionista è nato con Theodor Herzl nel 1896, il Risorgimento italiano era terminato.
- E il mondo arabo?
L'impatto del Risorgimento sul mondo arabo e non arabo è stato significativo soprattutto per l'opera di diffusione delle idee e la presenza fisica di molti patrioti italiani, perseguitati dalle polizie dei vecchi stati italiaci, in Tunisia, Egitto, Persia e persino India e Cina. Ma questo succedeva molto prima di Arafat, che delle idee e soprattutto della morale politica mazziniana era totalmente ignorante. Il movimento nazionale palestinese - contrariamente al movimento nazionale arabo - non ha le sue radici in quello italiano ma paradossalmente in quello ebraico. I palestinesi sono dei "sionisti" arabi.
- Oggi Israele quando guarda all'Italia cosa si attende e come la giudica?
Il diritto a giudicare un paese appartiene a chi ci vive dentro, non a chi ci vive fuori. Israele guarda oggi all'Italia coi sentimenti di affetto e gratitudine che gli ebrei provavano verso l'Italia dell'immediato dopo guerra che, nonostante la situazione di protettorato alleato in cui viveva - o forse proprio per questo - comprendeva e aiutava alla realizzazione del sogno nazionale ebraico molto più che i successivi governi. Oggi l'interesse reciproco è molto esteso. Ciò che tuttavia più colpisce è la similitudine di problemi di identità irrisolti. Entrambi i paesi hanno capitali - Roma e Gerusalemme - di peso storico e emotivo molto più grande di quello dei reciproci stati; entrambi sono ancora
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incerti sul cammino politico e culturale futuro: europeo o mediterraneo; in entrambi lo stato è stato fatto prima di fare i propri cittadini - come diceva Massimo d'Azeglio per l'Italia - gli italiani.
- Cosa c'è da celebrare in questa Unità?
La volontà - che esiste - di migliorare la società attuale per rispetto al passato e per fiducia nell'avvenire.
- Da almeno due anni si sta preparando questo grande evento, eppure gli italiani non sembrano così appassionati e informati su questa data. Bisogna, dopo 150 anni, rimboccarsi le maniche per fare gli italiani? o c'è anche altro?
La voglia di spaccare gli stati unitari creati nel passato è diventata una moda più che una intenzione cosciente e ragionata. D'altra parte è inevitabile che quando le città si trasformano in metropoli con popolazione maggiore di quella di molti stati, le questioni di competenza delle autorità locali diventano più importanti e pressanti di quelle politiche, e l'incapacità del governo centrale di risolverle è sempre più apparente. C'è dunque bisogno di un migliore equilibrio di autorità e di risorse fra il potere centrale e quello locale. Ma lo stato nelle sue nuove molteplici forme - federative, confederative, comunitarie - resta indispensabile. Il pericolo non è nel cambiamento ma nell'ignoranza.
- Il problema dell'identità di questo nostro Paese, Lei come lo decodifica, come lo porrebbe?
E' un problema reale tanto per l'Italia che per Israele e nasce dal fatto che lo stato e la nazione si identificano sempre di meno e lo stato sovrano, 'inventato' alla Pace di Westfalia, nel XVII secolo, è sempre meno sovrano. Il vero problema mi sembra essere quello della "re-codificazione" della sovranità e dei suoi usi interni ed esteri.
- Ragionando in termini ragionieristici: le risorse utilizzate per celebrare l'Unità di un Paese sono un investimento o una spesa corrente?
La ragioneria va bene per i conti della spesa, non per quelli dello
spirito, tanto individuale quanto collettivo. Non è questione di risorse materiali ma morali.
- In conclusione non posso fare a meno di chiederLe: perchè ha realizzato l'Istituto di Studi Mediterranei in Svizzera e non in Italia?
Ho creato il mio istituto a Lugano, nella Svizzera italiana, perché di istituti di studi mediterranei in Italia e fuori d'Italia ve ne erano troppi. E nessuno mi sembrava ispirato al principio della neutralità che è anzitutto l'intelligenza politica della moderazione. Una qualità che nel Mediterraneo è ancora poco sviluppata, oltre al fatto che in Svizzera ho goduto di un sostegno finanziario privato che non so se avrei trovato con la stessa facilità altrove. Gli svizzeri, del resto, hanno dimostrato che non occorre vivere sulla sponda del mare per vincere una gara marittima internazionale.
(Notiziario Ucei, 11 gennaio 2011) o
4. «UN PAESE CHE SONO ORGOGLIOSO DI DIFENDERE»
Ecco perché difendo Israele
di David Harris*
Ero seduto nella sala conferenze di una università britannica. Annoiato dall'oratore, ho iniziato a guardarmi intorno nella sala. Ho notato una persona che mi sembrava abbastanza familiare, ricordo di una precedente vita accademica. Quando la sessione si è conclusa, mi sono presentato chiedendomi se dopo tanti anni, o meglio, dopo decenni, mi avrebbe ricordato.
Mi ha detto invece che si ricordava di me e, a quel punto, ho commentato che gli anni erano stati buoni con lui. La sua risposta: "Tu invece sei cambiato molto". "Come?", ho chiesto con una certa trepidazione, sapendo che, auto-inganno a parte, avere sessant'anni non è esattamente la stessa cosa che averne trenta.
Guardandomi dritto negli occhi, ha proclamato, facendo in modo che altri lì vicino ascoltassero: "Ho letto le cose che scrivi su Israele. Io le detesto. Come puoi difendere quel Paese? Che cosa è successo al bravo ragazzo liberale che ho conosciuto trent'anni fa?".
Ho risposto: "Quel bravo ragazzo liberale non ha cambiato la sua visione. Israele è una causa liberale, e sono orgoglioso di sostenerla".
Sì, sono orgoglioso di sostenere Israele. Un recente viaggio, ancora una volta, mi ha ricordato il perché.
A volte, sono le cose apparentemente piccole, le cose che molti nemmeno notano, o semplicemente danno per scontate, o forse ignorano deliberatamente, per non rovinare il loro pensiero ermetico.
E' una lezione di guida a Gerusalemme, lo studente al volante è una devota donna musulmana, e il docente un israeliano con lo zucchetto. A giudicare dalle notizie di stampa circa il conflitto senza fine tra le comunità, una simile scena dovrebbe essere impossibile. Eppure, era così normale che, a quanto pareva, nessun altro all'infuori di me le aveva dato un'occhiata sia pure di sfuggita.
Va da sé che la stessa donna non avrebbe avuto il lusso di lezioni di guida, e tanto meno con un insegnante ebreo ortodosso, se fosse vissuta in Arabia Saudita.
Si tratta di due uomini gay che camminano mano nella mano lungo la spiaggia di Tel Aviv. Nessuno li guarda, e nessuno mette in dubbio il loro diritto di mostrare il loro affetto.
Provate a ripetere la stessa scena in alcuni Paesi limitrofi.
E' la folla del venerdì in una moschea di Giaffa. I musulmani sono liberi di entrare a loro piacimento, per pregare, per affermare la loro fede. La scena si ripete in tutta Israele. Nel frattempo, i cristiani in Egitto e in Iraq sono obiettivi di morte; i cristiani copti in Egitto vivono un'emarginazione quotidiana; l'Arabia Saudita vieta qualsiasi manifestazione pubblica del cristianesimo; gli ebrei sono stati cacciati da gran parte del Medio Oriente arabo.
E' la stazione centrale degli autobus a Tel Aviv. C'è una clinica gratuita istituita per le migliaia di africani che sono entrati in Israele, alcuni legalmente, altri illegalmente. Vengono da Sudan, Eritrea e altrove. Sono cristiani, musulmani e animisti. Chiaramente, sanno qualcosa che i detrattori di Israele, che protestano e l'accusano di un presunto "razzismo", non sanno.
Sanno che, se sono fortunati, possono rifarsi una nuova vita in Israele. Ecco perché essi evitano i Paesi arabi lungo la strada, temendo prigionia e persecuzioni. E mentre la piccola Israele si chiede quanti rifugiati è in grado di assorbire, i medici professionisti israeliani fanno volontariato e gli dedicano il loro tempo in clinica.
E' il "Salva il cuore di un bambino", un altro istituto israeliano che non passa sui media internazionali più di tanto, anche se merita una nomination per il Premio Nobel della Pace. Qui, vengono i bambini che hanno bisogno di tecnologie avanzate per le cure cardiache, spesso passando "al di sotto del radar".
Arrivano dall'Iraq, dalla Cisgiordania, da Gaza e altri luoghi arabi. Ricevono un trattamento di classe mondiale. E' gratuito, offerto da medici e infermieri che vogliono affermare il loro impegno per la coesistenza. Eppure, questi stessi individui sanno che, in molti casi, il loro lavoro non sarà riconosciuto.
Le famiglie hanno paura di ammettere di aver cercato aiuto in Israele, anche se, grazie agli israeliani, ai loro figli è stata data una nuova prospettiva di vita.
E' la vitalità del dibattito israeliano esistente praticamente su tutto, incluso, a livello centrale, il conflitto in corso con i palestinesi.
La storia racconta che il presidente statunitense Harry Truman incontrò il presidente israeliano Chaim Weizmann poco dopo la creazione di Israele nel 1948. Entrarono in una discussione su chi avesse il compito più duro. Truman disse: "Con tutto il rispetto, io sono il presidente di 140 milioni di persone".
Weizmann rispose: "È vero, ma io sono presidente di un milione di presidenti".
Che si tratti di partiti politici, della Knesset, di media, società civile, o per la strada, gli israeliani sono assertivi, auto-critici e riflessivi di una vasta gamma di punti di vista.
Sono gli israeliani che stanno ora progettando la restaurazione della foresta del Monte Carmelo, dopo un terribile incendio che ha ucciso quarantaquattro persone e distrutto ottomila ettari di squisita natura.
Gli israeliani hanno preso una terra arida e sterile e, nonostante le condizioni incredibilmente dure, hanno amorevolmente piantato un albero dopo l'altro, in modo che Israele può legittimamente sostenere che oggi è uno dei pochi paesi al mondo con più terreno boschivo di quanto non ve ne fosse un secolo fa.
Sono gli israeliani che, con tranquillità e coraggio, sono determinati a difendere il loro piccolo frammento di terra contro ogni minaccia concepibile - il crescente arsenale di Hamas a Gaza; il pericoloso accumulo di missili da parte di Hezbollah in Libano; le aspirazioni nucleari di un Iran che chiede un mondo senza Israele; l'ospitalità che la Siria concede ai leader di Hamas e il trasferimento di armi a Hezbollah; e nemici che spudoratamente usano i civili come scudi umani.
Oppure, la campagna mondiale per sfidare la legittimità stessa di Israele e il suo diritto alla legittima difesa, la bizzarra coalizione antisionista tra la sinistra radicale e gli estremisti islamici; l'automatica maggioranza numerica alle Nazioni Unite sempre pronta ad approvare, sul momento e senza preavviso, anche il più assurdo e inverosimile atto di accusa contro Israele; e quelle del potente gruppo di accusatori che non sono in grado di - o non vogliono - cogliere le immense sfide che deve affrontare Israele.
Sì, sono quegli israeliani che, dopo aver seppellito ventuno giovani uccisi da terroristi in una discoteca di Tel Aviv, indossano l'uniforme delle forze armate israeliane per difendere il loro paese, e proclamano, col prossimo respiro, che "non riusciranno neppure a farci smettere di ballare".
Questo è il Paese che sono orgoglioso di difendere. No, io non dico che Israele sia perfetto. Esso ha i suoi difetti e le sue manie. Ha fatto la sua parte di errori. Ma così ha fatto anche ogni altro Paese democratico, liberale e volto alla ricerca della pace che io conosco, anche se pochi di essi hanno dovuto affrontare sfide esistenziali ogni giorno, fin dalla loro nascita.
Il meglio è nemico del bene, si dice. Israele è un buon paese. E vedendolo da vicino, piuttosto che attraverso il filtro della Bbc o del Guardian, non smette mai di ricordarmi il perché.
* Direttore esecutivo American Jewish Committee
(l'Opinione, 5 gennaio 2011 - trad di Carmine Monaco)
5. GLI EBREI IN VALLE D'AOSTA
Una realtà senza punti di riferimento
Manca una comunità organizzata nonostante la religione si fondi sulla preghiera comunitaria
di Sandra Lucchini
AOSTA - Crede in Dio? «Ho difficoltà a trovarlo». Paolo Momigliano Levi, illustre storico di Aosta, si definisce «ebreo laico», legato alla comunità ebraica dal filo indelebile della Storia, maestra di vita e di cultura. Ha seguito le persecuzioni di questo popolo, fondato da Abramo; ha, in particolare, centellinato pagine e pagine di storia, interiorizzandone il tormento. «Se dovessi allontanarmi mi sembrerebbe di tradirli. Mai», sottolinea.
Vive l'ebraismo, la prima religione monoteista con radici di oltre 4 mila anni, in una regione dove è quasi impossibile conoscerne le presenze. E' la sua grande curiosità. «Non riesco ad esaudirla - confessa -. Mi attraggono i molti cognomi di origine ebrea, senza, però, riuscire ad approfondire questo importante aspetto. Trèves, Milloz, David sono parte di cultura e religione ebraica». Studi più specifici gli hanno consentito di soddisfare, in parte, il desiderio di avere un numero di riferimento: «Nel 1938, gli ebrei erano 12 arrivati ad Aosta per motivi di lavoro, forse». Guarda con malinconia l'inesorabile discesa numerica degli ebrei italiani: «Nell'immediato dopoguerra, quando la popolazione italiana contava 45/46 milioni di abitanti, erano 44 mila. Oggi, se ne contano 35 mila. A Torino, sono passati da 3 mila a poco più di 900». Si rammarica nel constatare che «l'ebraismo occidentale sembra destinato a morire».
Le cause? «Il genocidio perpetrato da Hitler ha influito in termini altissimi - dichiara Paolo Momigliano Levi - Il processo di assimilazione, poi, ha fatto la sua parte». Esemplifica: «I matrimoni misti (ebrei con altre religioni ndr) hanno portato, in Italia, ad un depauperamento della consistenza numerica. Dall'Italia, inoltre, molti ebrei si sono trasferiti negli Stati Uniti e in Palestina».
Nella sua attività di ricercatore e studioso ha potuto appurare anche l'esistenza di una sinagoga in una via del centro cittadino. «Nella vecchia toponomastica era denominata rue du Temple. Parliamo di un passato remoto», puntualizza.
In Valle d'Aosta non esiste una comunità ebraica. Realtà penalizzante per una Confessione religiosa che fonda i suoi principi nella "preghiera comunitaria". Lo hanno detto i Padri di questa religione che vede in Cristo il volto più carismatico: «La preghiera più importante è quella che si fa in comune».
Paolo Momigliano Levi dice di aver ricevuto dal padre, ebreo non praticante, uno dei messaggi più importanti della sua vita: ama il prossimo tuo più di te stesso. «Coniugo questa concezione etica con l'obiettivo politico (è un esponente di Sinistra per la città ndr) di favorire l'emancipazione dell'uomo, soprattutto di chi si confronta con un destino difficile». Vive inseguendo l'orizzonte del rispetto delle idee altrui, della libertà, dell'accoglienza. «Nel rito di Pasqua - ricorda - si lascia sempre un posto libero a tavola per ricevere un eventuale ospite, anche sconosciuto, che dovesse arrivare all'improvviso». Considera la preghiera il mezzo più efficace per continuare il dialogo con i cari defunti. «Prego sulla tomba dei miei famigliari sepolti nel cimitero di Ivrea, città dove c'è la Sinagoga». Parla di Primo Levi, l'ebreo che sente più vicino. «Era un laico», sottolinea, esprimendo il suo grande per le letture di autori ebrei. Ammira Wiesel, espressione dell'ebreo credente nell'Est europeo, patria delle persecuzioni.
Pregare, rivolgendosi a Dio senza suppliche, ma per rinnovarGli il «sia fatta la tua volontà». «Andiamo in qualunque chiesa, considerata la nostra massima apertura verso le altre religioni», dice Alessandra Masseglia, di Aosta, esempio di figlia di genitori con religione differente. La madre Bianca, ebrea; il padre Tullio cattolico. «Sono un'ebrea laica, molto legata alla cultura e alle tradizioni - dice -. Il mio Credo riflette la volontà di amare il prossimo, aiutarlo, ospitarlo, rispettandone la sua "forma mentis"».
Approda all'ebraismo dopo aver frequentato, da bambina, il Tempio e la Chiesa. «A 17 anni - racconta - ho scelto di andare in Israele, vivendo un anno in un kibbuz frequentato da giovani di tutto il mondo. Un kibbuz laico. Considero questa esperienza una delle più esaltanti della mia vita». Esaltante al punto da legarsi, in maniera totale, al mondo ebraico. «Un legame culturale, più che religioso», precisa, ripassando in carrellata visiva l'intensità delle giornate. «Sei ore di lavoro e sei di studio della lingua ebraica».
Con quale animo avvertite l'odio manifestato, da secoli, verso gli Ebrei? Sorridono entrambi e, con serafica espressione ipotizzano: «Forse c'è bisogno di inventare un nemico nel momento in cui una società perde la capacità di identificarsi in positivo. La figura del nemico viene individuata nella sua diversità culturale e religiosa. Un odio atavico senza alcuna giustificazione», è il loro commiato.
(AostaOggi.it, 8 gennaio 2011)
6. GLI EBREI IN CALABRIA
Fonti storiche attestano la presenza degli ebrei lungo la fascia jonica reggina
di Agostino Belcastro
BRANCALEONE (Reggio Calabria) - Fonti storiche attestano che nel comprensorio di Brancaleone, Bruzzano e Ferruzzano intorno all'anno 1500 circa, vivevano alcune comunità ebraiche. Visionando alcuni documenti custoditi presso l'Archivio Storico di Stato di Napoli risulta che in questi centri si erano sistemati i discendenti della stirpe di Abramo. In particolare a Bruzzano e Brancaleone, esistevano delle vere e proprie giudecche dove gli ebrei avevano conservato la loro unità spirituale in nome della fede religiosa e dell'aspettazione messianica. Alcuni gruppi avevano trovato dimora, appunto, nelle contrade dei due Comuni "Portella del Giudeo", "Vallone del Giudeo" o " Iudarico" che, secondo le fonti storiche, sono state le località dove la denominazione stessa dei siti testimonia la presenza in quei luoghi di comunità ebraiche. Si presume che il loro "sbarco" sulle coste calabresi sia avvenuto per evitare la persecuzione in quell'epoca dominante in Medio Oriente. Si sono dedicati al piccolo commercio, all'agricoltura, al cambio e alla lavorazione dei preziosi e all'usura naturalmente. Per le loro capacità e per le loro prospere condizioni economiche e l'usura, allora proibita legalmente, più ancora che la loro professione religiosa attirarono l'odio, il disprezzo e l'invidia del "vicino di porta".
Ad avallare la loro presenza in questa fascia della costa jonica reggina, in particolare nel comprensorio preso in esame, ci sono le pagine del Registro del Tesoriere della Calabria Ultra. Infatti, visualizzando l'antico documento contabile si riscontrano, agli inizi del '500, i nomi di alcuni ebrei che erano censiti per il pagamento delle tasse su ordine del Re.
Per avere maggiori informazioni è stata girata la domanda al dottor Vincenzo De Angelis di Brancaleone, medico, storico e scrittore nonché membro della Deputazione di Storia Patria. Osserva a proposito De Angelis: "E' da molto tempo che si cerca di individuare come veniva chiamata la contrada o la via dove abitavano gli ebrei a Brancaleone. Il sito dove abitavano gli ebrei era conosciuto come località della "Judeca", probabilmente situato nella zona posteriore e bassa del paese. La zona veniva chiamata San Gioè che derivava da San Gioele, profeta che visse nel V secolo avanti Cristo, e questa località è riportata nei catasti onciari del 1745. Infine, si legge che tale Domenico Pellicano possedeva in loco detto San Gioè un territorio. Un altro aspetto - sostiene De Angelis - è testimoniato dalle numerose piantagioni di cedri esistenti in quel periodo che, come è noto, per gli ebrei rappresentavano il frutto sacro della loro tradizione. Il frutto è stato coltivato e venduto fino al 1860.
Secondo lo storico gli ebrei non erano presenti solo a Brancaleone, Bruzzano e Ferruzzano, ma erano sparsi anche in altri centri della provincia reggina. "A riprova che esistevano insediamenti ebraici anche a Brancaleone - afferma De Angelis- c'è il fatto che nella vicina Bova, alcuni anni fa, in occasione dei lavori per la costruzione di una strada alternativa alla provinciale è venuta alla luce una Sinagoga che, a parere degli archeologi, è la seconda più antica in Occidente".
(newz.it, 17 gennaio 2011)
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