Desiderio di combattere l'ignoranza. Anzitutto la propria
di Redazione
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Tutto quello che la tua mano trova da fare,
fallo con tutte le tue forze.
Ecclesiaste 9:10
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Due numeri pieni: 10 e 500. 10 anni di servizio e 500 pagine numerate. La prima pagina porta la data del 17 aprile 2001. Non era parte di un sito, ma una semplice lettera circolare che si presentava con queste poche parole:
Lettera circolare a persone che possono essere interessate
Le notizie provenienti da Israele si fanno sempre più preoccupanti e purtroppo sembra che in Italia l'attenzione sia abbastanza scarsa. Inoltre, le informazioni che compaiono sulla stampa nazionale sono sempre più faziose e certamente non contribuiscono a dare un quadro realistico della situazione. Senza avere particolari pretese, ho pensato che si dovesse fare qualcosa per diffondere anche tra i credenti italiani delle notizie su Israele che siano di stimolo alla riflessione e alla preghiera. L'intenzione è di raccogliere e inviare regolarmente informazioni raccolte in vari modi, prevalentemente dalle pubblicazioni e dai siti internet di lingua inglese e tedesca. Chiedo scusa se mi aggiungo al numero (purtroppo alto) di persone che fanno circolare notizie e avvisi di tutti i tipi, ma spero che l'argomento di cui si tratta mi faccia trovare comprensione. Comunque, chi non gradisse ricevere queste lettere circolari può farmelo sapere e lo depennerò immediatamente dalla lista. Grazie per l'attenzione.
Marcello Cicchese
L'iniziativa era dunque di tipo personale (o per meglio dire familiare, perché la collaborazione della moglie è sempre stata fondamentale) e si rivolgeva a "credenti", cioè a cristiani evangelici impegnati. Dopo dieci anni di attività il servizio continua ad avere lo stesso centro, ma si avvale ormai dell'attenzione, del consenso e della diffusa collaborazione di un pubblico molto più vasto che all'inizio. E' stata proprio la risposta dei lettori a trasformare una semplice circolare informativa in un sito internet e ha impedito che l'iniziativa, come diverse altre dello stesso tipo, si esaurisse per stanchezza dopo qualche entusiasmo iniziale. Si può cominciare un lavoro apparentemente per libera scelta, ma se poi si avverte che questo è effettivamente utile, e anche altri lo confermano, allora non si è più moralmente liberi di smettere quando e come si vorrebbe. E dopo che si è fatto tutto quello che era necessario fare, bisogna ricordarsi delle parole di Gesù: "Così, anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare" (Luca 17:10).
Naturalmente c'è stato anche dissenso, e non poteva essere diversamente con un tema come Israele, ma tutto sommato meno di quello che si poteva prevedere. Un negazionista nostrano dell'Olocausto ha preso di mira il sito e si è addirittura proposto di confutarlo sistematicamente. Ha cominciato, ma non sembra che sia andato molto avanti. Interessato come molti alla "dietrologia", si è chiesto che cosa ci potesse essere dietro a tanta costanza nel difendere Israele. E quale è stata la congettura avanzata? I soldi: probabilmente qualcuno lo paga. E' naturale: trattandosi di ebrei, che cos'altro poteva venire in mente ad un antisemita?
Il motivo principale che ha fatto partire l'iniziativa è stato il desiderio di combattere l'ignoranza. Anzitutto la propria. Non è gradevole, soprattutto con un tema importante come quello di Israele, su cui si pensa di sapere già tante cose, scoprire improvvisamente di essere molto ignoranti. E' accaduto a chi scrive, e potrebbe accadere ancora a molti altri. Anzi, si spera che proprio questo accada a chi si trova oggi nelle medesime condizioni: cioè nell'ignoranza. Soprattutto quando questa non è riconosciuta come tale, fatto molto più diffuso di quel che si pensi. Per questo, dopo un certo tempo dedicato allo sforzo di colmare almeno in parte la lacuna, si è imposta quasi con forza la necessità di mettere a profitto anche di altri le informazioni e le conoscenze acquisite con il tempo e che continuavano ad aggiungersi.
Il risultato è il sito "Notizie su Israele" come si presenta attualmente.
Si è pensato, in questa occasione, di riproporre in forma grafica leggermente diversa 10 articoli già presenti nel sito, uno per ogni anno, sia perché continuano ad essere di un certa importanza, sia per invogliare i lettori a ricercare tra i numeri del passato informazioni e riflessioni che potrebbero servire a soddisfare, almeno in parte, il desiderio di cui si parla nel titolo di questo scritto.
(Notizie su Israele, 17 aprile 2011)
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Per testare la presenza del sito in rete si può provare a inserire nella finestra sottostante le seguenti coppie di parole:
notizie israele
vangelo israele
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Statistiche del sito
1. «L'ISLAM ESPLODERÀ IN FACCIA ALL'OCCIDENTE» (2001)
Intervista con Raphael Israeli, esperto di Islam
L'articolo è tratto da una rivista evangelica in lingua tedesca pubblicata a Gerusalemme che allora si chiamava "Nachrichten aus Israel". Oggi la rivista si chiama "israel heute".
"L'Islam esploderà in faccia all'occidente", avverte il prof. Raphael Israeli, docente di politica mediorientale e islamismo all'Università Ebraica di Gerusalemme. Il professore Israeli, che viene spesso interrogato dai media sul conflitto israelo-palestinese, ha scritto finora 15 libri, tra cui la biografia del Presidente egiziano Anwar el Sadat, Man of Defiance, un libro sull'immagine di Israele nei media arabi, Peace in the Eye of the Beholder, e il libro Islamic Fundamentalism in Israel. Presto usciranno altri tre suoi libri.
- Prof. Israeli, qual è la causa del terrorismo islamico: l'esistenza dello Stato ebraico o il contenuto del Corano?
Anzitutto il testo del Corano, perché questo esiste già da secoli, ma anche lo Stato di Israele ha contribuito nei tempi moderni ad aumentare il pericolo dell'Islam fondamentalista. Quello che adesso brucia agli occhi dei musulmani è l'attacco dell'occidente all'Islam. E non importa che l'America lodi l'Islam e procuri cibo ai musulmani. Ai loro occhi l'America è e rimane il loro nemico mortale. Lo vediamo tutti i giorni nei paesi arabi e nei territori palestinesi.
- E' il popolo musulmano quindi a determinare il clima?
Sto scrivendo in questo momento un nuovo libro sul terrorismo islamico, dove descrivo anche i nuovi precetti legali dei dotti musulmani, che non sono da considerarsi estremisti, ma appartengono alla corrente islamica predominante Azhar. Anche loro mobilitano oggi il mondo musulmano contro l'America, perché l'America attacca i musulmani. Secondo il Corano nessun musulmano deve combattere un altro musulmano o stringere un'alleanza contro musulmani.
- Forse capiamo male l'Islam?
La terminologia è un grosso problema. Noi e i musulmani usiamo le stesse parole, ma ognuno pensa qualcosa di diverso. Nella loro visione, ogni persona che attacca un musulmano è un terrorista. I musulmani descrivono il terrorismo in modo diverso dall'occidente, dove si dice terrorista chi vuole raggiungere un obiettivo usando violenza contro civili innocenti. I musulmani considerano il terrorismo islamico contro l'America o Israele come una difesa contro l'aggressione americana o israeliana. Pensano che soltanto loro hanno diritto a difendersi, ma non l'America o noi. I musulmani chiamano tutto questo Jihad (guerra santa) per seminare paura nei cuori dei nemici, perché l'America e Israele sono nemici di Allah. I musulmani considerano quindi gli attacchi terroristici a Manhattan o nella pizzeria Sbarro a Gerusalemme come guerra santa contro i terroristi dell'occidente.
- Non si può presentare la Jihad in modo innocuo?
No, la Jihad è una guerra. Ma all'inizio del ventesimo secolo alcuni alti religiosi musulmani hanno cercato di addolcire la Jihad e interpretarla spiritualmente, come se fosse una pacifica missione per convertire il mondo all'Islam. La Jihad è uno strumento dei musulmani per diffondere l'Islam nel mondo, così era all'inizio nel Medio Evo e così è ancora oggi. Quindi i musulmani hanno dichiarato una guerra santa contro l'America, così come hanno dichiarato una guerra santa contro di noi.
- Quale tipo di Islam dà oggi il tono, gli estremisti o i musulmani moderati?
L'Islam fondamentalista non ha inventato un nuovo Islam. C'è solo un Islam e i musulmani moderati credono le stesse cose degli estremisti, solo che non mettono ancora in pratica le idee musulmane. L'Egitto, per esempio, è un paese povero e oggi dipende dall'America. Come potrebbe l'Egitto combattere contro l'America da cui riceve ogni anno 2 miliardi di dollari? Ma non appena dovesse scoppiare una guerra totale contro i musulmani, l'Egitto combatterebbe il nemico insieme agli altri musulmani.
- L'occidente oggi cerca di fare una differenza tra il terrorismo palestinese e il terrorismo islamico.
Come ho già detto, l'Islam sostiene di dover combattere una legittima Jihad, e tutto quello che i nemici fanno è sempre terrorismo. L'occidente lo sa, e sa anche che le azioni di Israele nei territori palestinesi sono più umane degli attacchi aerei americani contro l'Afganistan. E tuttavia siamo noi ad essere criticati; noi, che facciamo uccisioni mirate di terroristi palestinesi e non facciamo come gli Americani, che bombardano le scuole, e come gli attentatori suicidi palestinesi, che fanno saltare in aria ristoranti e autobus. L'occidente si comporta da ipocrita, perché vuole tenersi buono l'Islam.
- L'America combatte davvero il terrorismo
Gli americani credono di combattere il terrorismo, ma in realtà lo combattono molto peggio di noi. Il ministro della difesa americano Rumsfed ha detto: "Per combattere il terrorismo bisogna cercare i terroristi dove si trovano, in Afganistan." La stessa cosa facciamo noi nei territori palestinesi, ma, a differenza dell'America, Israele viene criticato. Ma non passerà molto tempo e gli Americani si accorgeranno di non avere più dei partner di coalizione musulmani, quando nel secondo stadio della guerra vorranno combattere il terrorismo anche in Irak, in Siria e in altri paesi arabi.
- In quale misura i governi arabi sono radicati sul terrorismo islamico?
Dipende dal paese. Vorrei ricordare ai lettori che il Presidente egiziano Mubarak ha ingannato il Presidente americano Reagan, quando ha negato che i terroristi responsabili del sequestro della nave Achille Lauro (1985) si trovavano nel suo paese. L'Arabia Saudita è il partner più stretto dell'America e l'Arabia Saudita paga ogni anno 100 milioni di dollari ai terroristi di Hamas. Naturalmente l'America lo sa, e tuttavia Washington non intraprende nulla contro l'Arabia Saudita, nonostante che Hamas si trovi sulla lista americana del terrorismo. Ma il governo di Bush ha annunciato di punire anche i governi arabi che sostengono il terrorismo islamico, non è vero? L'America non può permettersi di fare guerra a tutti i musulmani, e poiché Washington e l'occidente conducono una politica di compromesso con i musulmani, l'America e l'occidente non potranno mai annientare il terrorismo islamico.
- In altre parole: il mondo è inerme contro l'Islam?
L'Islam mette il mondo sotto pressione e il mondo mette Israele sotto pressione. L'occidente cede all'Islam per motivi politici ed economici, tra l'altro anche per il numero crescente di minoranze musulmane in occidente, circa 10 milioni di musulmani negli USA, 5 milioni in Francia, 3 milioni in Germania e 2 milioni in Inghilterra.
- Ma l'Europa non vede il pericolo dell'Islam?
I governi europei hanno paura dei musulmani, ma non l'ammetteranno mai. Negli anni 80 la Francia è stato l'obiettivo di numerosi attacchi terroristici e il governo francese ha dato dei soldi ai terroristi per mettere fine al terrorismo in Francia. E' più economico comprare la tranquillità che andare in guerra contro l'Islam.
- Il movimento islamico in Israele è un serio pericolo per il futuro di Israele?
Già vent'anni fa ho messo in guardia contro il movimento islamico in Israele e nove anni fa ho scritto un libro sul pericolo del fondamentalismo musulmano in Israele. Le mie diagnosi erano giuste, questo l'ammette anche il servizio di sicurezza israeliano Schin Bet. Ma a che cosa serve questo se il governo israeliano, per motivi politici, non intraprende nulla contro i fanatici musulmani? Gli arabi israeliani diventeranno un grande pericolo per il futuro di Israele.
(Nachrichten aus Israel, novembre 2001 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
2. LE RADICI DEL SIONISMO CRISTIANO (2002)
L'articolo è tratto dal sito della "International Christian Embassy Jerusalem", un'associazione fondata nel 1980 "con lo scopo di benedire e consolare Israele". In seguito alla condanna espressa dalla comunità internazionale verso Israele per aver dichiarato Gerusalemme "la capitale eterna ed indivisibile" del rinato stato ebraico, 13 nazioni, temendo un embargo petrolifero da parte dei fornitori arabi, trasferirono le loro ambasciate da Gerusalemme a Tel Aviv. 1.400 cristiani, provenienti da 40 paesi diversi, decisero allora di dare un segno concreto di solidarietà verso Israele dando vita appunto all'ICEJ (International Christian Embassy Jerusalem, Ambasciata Cristiana Internazionale a Gerusalemme). Nelle intenzioni dei fondatori, "i credenti nella Parola di Dio nel mondo hanno oggi una rappreentanza a Gerusalemme ed un canale efficace per manifestare il loro amore e sostegno per il popolo d'Israele".
Lettera di un cristiano non-ebreo, ufficiale
dell'esercito britannico, a un amico ebreo
Considero un privilegio sostenerti nella tua battaglia. A questo scopo voglio consacrare la mia vita. Credo che la stessa esistenza dell'umanità sia giustificata soltanto quando si basa sul fondamento morale della Bibbia. Si dovrà combattere contro chiunque oserà alzare la mano contro di te e contro la tua impresa.
Orde Wingate (1903-1944)
La teologia del sionismo cristiano, che ha le sue radici nel protestantesimo pietista del sedicesimo secolo e nel movimento puritano inglese del diciassettesimo secolo, è potentemente cresciuta negli ultimi decenni. Oggi molte migliaia di cristiani, provenienti da diverse aree ecclesiastiche e denominazioni, sono pronti a dichiarare e mostrare il loro amore e il loro sostegno al popolo ebreo.
La "International Christian Embassy Jerusalem" ha tenuto quattro "Congressi internazionali sionisti cristiani": nel 1985 a Basilea, nel 1988, 1996 e 2001 a Gerusalemme. Al terzo congresso del 1996 presero parte circa 1500 delegati e altri partecipanti da più di 40 paesi.
Cristiani e sionismo
L'avventura del ritorno degli ebrei dall'esilio nella loro vecchia patria Eretz Israel è una delle più avvincenti storie del secolo scorso. La lotta e la vittoria del movimento sionista fondato cento anni fa da Theodor Herzl, non ha uguali nella storia dell'umanità: circa duemila anni di peregrinazioni e sofferenze degli ebrei hanno condotto alla rinascita di Israele.
Una delle chiavi principali che permettono l'accesso al pensiero di Herzl e ne spiegano il successo è l'influenza dei suoi amici cristiani. Nel periodo in cui Herzl discuteva su dove si potesse trovare un luogo di rifugio per gli ebrei che fuggivano dai pogrom che avvenivano in Russia e nell'Europa dell'Est, il pastore William E. Blackstone gli mandò un'edizione dell'Antico Testamento in cui erano segnati tutti i passi profetici che riguardano il ritorno degli ebrei nella terra d'Israele. E William Hechler, cappellano e precettore della casa regnante tedesca, favorì l'incontro di Herzl con il Kaiser Guglielmo II, facendo sì che la questione del sionismo diventasse uno dei principali temi della discussione geopolitica europea.
L'influenza di queste figure cristiane è la riprova di un fatto innegabile: le origini del movimento sionista sono molto più antiche di Herzl: sono radicate nella Bibbia e nella milleniale speranza del ritorno degli ebrei nella terra d'Israele, così come hanno promesso i profeti biblici. E in effetti molto spesso sono stati proprio dei cristiani che, credendo fermamente nelle promesse profetiche, si sono rivelati come i più forti sostenitori del ritorno degli ebrei in Sion.
A seguito della Riforma e della sua accentuazione dell'autorità della Scrittura, diversi movimenti protestanti che fuggivano davanti alle persecuzioni religiose, si identificarono con le sofferenze del popolo ebreo ed edificarono le loro comunità sul modello del patto di Dio con gli ebrei. Furono soprattutto i Puritani che, quando lessero le promesse dei profeti biblici sulla riunificazione del disperso Israele, mostrarono grande interesse al pensiero di riportare gli ebrei nella loro terra.
I movimenti di risveglio hanno annunciato
la ricostituzione di Israele
Durante i potenti risvegli che percorsero l'Inghilterra e l'America nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo, i predicatori cristiani annunciavano che la riunione degli ebrei in Israele sarebbe stato un segno anticipatore degli ultimi giorni e dell'imminente ritorno del Messia.
Eminenti personalità ecclesiastiche e politiche come Lord Palmerston e Lord Shaftesbury dichiararono che soprattutto l'Inghilterra era stata prescelta da Dio per favorire l'insediamento degli ebrei in Medio Oriente. Nel 1891, sei anni prima del primo Congresso Sionista, Blackstone presentò una petizione al Presidente americano Benjamin Harrison in cui si chiedeva di riportare gli ebrei in Israele. Tra i firmatari c'erano il cardinal Gibbons, John Rockefeller, J.P. Morgan e più di 400 preminenti americani.
La Dichiarazione di Balfour del 1917
Questi sforzi portarono i frutti al momento opportuno. I "fautori del ritorno" influenzarono la politica e le decisioni della Gran Bretagna quando il governo di David Lloyd George emise la Dichiarazione di Balfour, in cui si auspicava la fondazione di un "focolare nazionale per il popolo ebreo in Palestina". Dopo che per decenni dei cristiani avevano caldeggiato il ritorno degli ebrei in Terra Santa, il pensiero prevalente tra i partecipanti occidentali alla Conferenza di pace di Versailles, era quello di favorire senz'altro i diritti nazionali degli ebrei e il loro collegamento con la terra dei loro padri, affidando alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina.
Cristiani in lotta a fianco degli ebrei
Anche nella stessa terra di Israele ci furono cristiani decisi a sostenere la questione del sionismo. Il colonnello Henry Patterson comandò dapprima il corpo dei "muli di Sion" e poi la legione ebraica che nel 1917 combatté con l'esercito britannico per cacciare i Turchi dalla Palestina. Così facendo contribuì al raggiungimento di un obbiettivo caro a molti sionisti (tra cui il giovane Ze'ev Jabotinsky, che militò sotto Patterson): la formazione di una forza militare ebraica e la rinascita dell'antico spirito combattivo. Il generale di divisione Orde Wingate, un ufficiale britannico del servizio segreto operante nel territorio mandatario della Palestina, rischiò la sua carriera militare addestrando in segreto degli speciali "squadroni della notte" (il Palmach) per compiere incursioni contro gli squadroni d'assalto arabi e impedire così di fare attacchi contro lo Yishuv (comunità ebraica). Ispirandosi a figure bibliche come Davide e Gedeone, Wingate contribuì a formare il nucleo delle dottrine militari israeliane: intimidazione e autonoma iniziativa.
La storia del ritorno degli ebrei nella terra d'Israele è piena di esempi di cristiani che, avvertendo il significato profetico del ritorno degli esuli ebrei e della rinascita d'Israele, giocarono un ruolo significativo nella crescita del sogno sionistico. Persuadendo persone politiche che occupavano posizioni chiave, esercitarono influsso su avvenimenti politici di importanza storica, salvarono ebrei dallo sterminio e favorirono la sicurezza e la prosperità del moderno Stato d'Israele.
("International Christian Embassy Jerusalem" - trad. www.ilvangelo-israele.it)
3. I SOCCORRITORI DOPO GLI ATTENTATI TERRORISTICI (2003)
Gli angeli in motorino
di Deborah Fait *
Sono 700 in tutta Israele, hanno circa 60 motociclette, tanto coraggio e amore per gli altri da accettare una vita di sacrificio e tensione incredibili. Per loro non esistono feste e riposi, sono religiosi osservanti ma non possono sempre rispettare il riposo di Shabat perche' ad ogni chiamata di soccorso, in qualsiasi momento arrivi, saltano sulle loro motociclette e corrono dove qualcuno ha bisogno di loro.
Sono tutti muniti di beeper e telefonino pronti a scattare al primo bip bip, nel giro di un minuto sono tutti rintracciabili e in quattro minuti sono sul luogo del disastro. Spesso sono i primi ad arrivare.
I loro occhi vedono fumo, sangue, corpi smembrati e poi quegli stessi occhi, stanchi, disperati e pieni di lacrime, devono sorridere ai loro bambini a casa, devono nascondere il dolore e la disperazione cercando di dare un'atmosfera serena alla loro famiglia.
"E' difficile spiegare ai miei bambini - ci dice Isack - perche' di Shabat non spengo il cellulare e il beeper ed e' ancora piu' difficile spiegare loro perche' a volte devo scappare nel bel mezzo della benedizione del sabato. Ma la cosa piu' terribile e' tornare a casa dopo aver visto e ricomposto corpi smembrati e bruciati di altri bambini, avere il cuore pesante come il piombo per non essere riuscito a salvarli dal terrorista di turno e prendere in braccio i miei figli. Questo e' terribile, i miei figli lo sanno e non mi chiedono piu': "Aba, dove sei stato?"
Stanno in silenzio e sanno tutto, sanno forse che potrebbe succedere anche a loro ma non lo dicono." E con una risatina sconsolata prosegue: " I bambini israeliani devono essere coraggiosi per forza".
Efficienti, forti, ottimi infermieri, paramedici, sfrecciano con i loro motorini neri che assomigliano a quelli delle pizzerie solo che al posto della pizza portano tutto quello che serve per il pronto soccorso.
Sto parlando dei ragazzi del ZAKA, l'organizzazione di volontari israeliani premiata dalle Nazioni Unite come migliore organizzazione di soccorso del 2001.
Quali sono le loro motivazioni? Che ogni vita e' preziosa, che ogni essere umano ha diritto ad un funerale e che i familiari delle vittime devono avere una tomba dove andare a pregare per i loro cari.
Li ho conosciuti, sono andata a visitare la loro sede a Gerusalemme, un ufficietto piccolo e povero in una specie di scantinato dove tengono il materiale per il soccorso e dove si riuniscono per prendere o consegnare divise e caschetti e valigette.
I ragazzi di ZAKA servono Israele dal 1995, sono dislocati in 105 citta' da Kiriat Shmona, estremo nord, a Eilat sul Mar Rosso. Rispondono a 3000 chiamate di pronto soccorso e sono sempre presenti ad ogni attacco terroristico.
Quando e' successo l'attentato efferato al Dolphinarium sono arrivati insieme alla polizia e prima delle ambulanze, spesso bloccate nel traffico, e mentre una parte di essi dava i primi soccorsi ai feriti , un altro gruppo distribuiva bevande calde ai sopravissuti sotto chock e un altro ancora raccoglieva i pezzi di carne strappati dai corpi martoriati delle povere giovani vittime innocenti.
E poi Sbarro, Ben Yehuda, Netanya e decine e decine di autobus, ancora sangue, ancora terrore, ancora corpi smembrati. Un orrore senza fine.
I nostri amici di ZAKA ci hanno raccontato che la cosa piu' difficile e' raccogliere i resti del terrorista perche' e' questo che devono fare dopo aver cercato di ricostruire i corpi degli innocenti straziati dall'esplosione e se il terrorista e' ancora vivo devono dargli il primo soccorso e portarlo all'ospedale.
E' obbligatorio farlo anche se il criminale sopravvissuto ha ammazzato decine di civili israeliani, ci dice Isack guardandoci con i suoi occhi sorridenti, un po' innocenti, un po' tristi, un po' da simpatica canaglia perche' questi giovani angeli in motorino sono ragazzi normali, sono giovani che ridono e amano e si divertono anche se hanno dedicato la loro vita agli altri e spesso passano il loro tempo in mezzo alla disperazione.
Il loro coraggio e spirito di sacrificio pero' non sono dedicati soltanto al terrorismo ma a incidenti stradali, persone scomparse, suicidi, incendi e in tutti questi casi collaborano in perfetta sintonia con la polizia, i vigili del fuoco, e il Maghen David Adom.
Tutto questo viene fatto gratis, nessuno e' pagato, nessuno riceve nient'altro che il sorriso di chi riesce a salvare e questo gli basta e gli riempie il cuore. Purtroppo spesso alcuni tra essi devono ricevere sostegno psicologico, non riescono piu' a dormire o a mangiare, allora altri li sostituiscono pronti a dare tutto di se' pur di aiutare chi ha bisogno e dare conforto a chi sopravvive spesso mutilato nel corpo e nell'anima.
Perche' lo fate? Gli chiediamo ammirati e commossi.
Perche', dice sempre il nostro Isack sorridendoci, lui sorride sempre anche quando ci racconta tragedie, chi salva una vita salva il mondo intero.
Beh, lo abbracciamo e ce ne torniamo a casa con la gola chiusa dall'emozione.
(Informazione Corretta, maggio 2003)
* L'autrice è un'ebrea italiana che dal '95 vive in Israele
4. UNA DIABOLICA RAPPRESENTAZIONE SCENICA (2004)
Stato palestinese e «ideologi del fantasma»
di Bret Stephens
In Israele, dove vivo e lavoro, vengo a sapere che le bombe umane generalmente sono interpretate dalla stampa straniera come atti di disperazione di un popolo che ha perso la fiducia in un avvenire migliore. "Migliorate la sorte materiale dei palestinesi, mettete fine all'occupazione, e il terrorismo sarà privato del suo humus", questo è il pensiero del momento. Sono queste le idee "adatte" che giustificano omicidi massicci e ripetuti presentandoli come gesti di persone a cui è stato rubato l'orgoglio, i beni e il patrimonio. Ma è vero?
E se gli attentati suicidi non fossero atti di disperazione, ma semplicemente il contrario: la dimostrazione estrema del disprezzo dei valori occidentali, e in particolare della vita stessa? E se le bombe umane non fossero gli F16 dei poveri, ma la sicura espressione di un fatto: che i palestinesi sono infinitamente più spietati degli israeliani, in un gioco che non ha né vincitori né vinti?
Lo scrittore Lee Harris pensa che oggi bisogna porsi questo genere di domande, e non soltanto a proposito dei conflitti in Medio Oriente. Nel suo libro La civilizzazione e i suoi nemici, difende - spesso con brio - la tesi secondo cui per comprendere il nemico bisogna mettersi nei suoi panni, e non l'inverso.
Prendiamo l'esempio dell'11 settembre 2001. Da Noam Shomski a George W. Bush, tutto il mondo ha accettato l'idea che gli attacchi erano atti di guerra, anche se non si era d'accordo sugli scopi politici perseguiti. Lee Harris adotta invece un punto di vista diverso: "In quel giorno abbiamo assistito a uno stupefacente pezzo di teatro", scrive. Gli obiettivi sono stati scelti non per il loro interesse militare (come p.es. l'attacco giapponese di Pearl Harbour), ma perché rappresentavano dei simboli della potenza americana, come comunemente è percepita dalla strada araba. Erano gli "accessori giganteschi" di un grandioso spettacolo in cui sono stati brutalmente ravvivati i fantasmi collettivi dei musulmani radicali. In altri termini, quel giorno è stato una "rappresentazione" che doveva lanciare un messaggio, non al popolo americano, ma al mondo arabo.
Questo punto di vista spiega perché gli Stati Uniti non siano stati sommersi, dopo il colpo, da una serie di attacchi in piccola scala. In effetti, dei piccoli attacchi successivi sarebbero stati molto più facili da compiere e avrebbero potuto avere un effetto più destabilizzante sull'economia americana. Ma avrebbero mancato di effetto, di prestigio e di fascino, - elementi di commercio di Osama Bin Laden. Inoltre, la cosa avrebbe abbassato quest'ultimo al rango di "volgare terrorista".
Questo metodo - che mira a colpire l'immaginazione popolare - non è molto differente da quello dei predecessori di Bin Laden, come Hitler, Mussolini. Lee Harris lo chiama "ideologia del fantasma".
L'essenza di questa ideologia non è una trasposizione psichica banale (del tipo l'Italia fascista come reincarnazione della Roma antica), ma la convinzione che ogni atto di trasposizione psichica, o di "far credere che", può riuscire a trasformare l'intero mondo a patto che si riesca a convincere un numero sufficientemente alto di persone a giocare un ruolo nel dramma universale proposto.
Questi ideologi del fantasma sono "nemici della civilizzazione". Non sono nemici ordinari che si battono per una terra, per l'onore o per un bottino. Al contrario, i detentori del fantasma e della trasposizione psichica hanno un legame molto tenue con il mondo reale. Possono conquistare un territorio per soddisfare il loro fantasma, ma questo non è che un mezzo, un ingranaggio, che gioca una parte molto piccola sulla scena del loro immaginario.
Paradossalmente, è la mancanza di senso della realtà che rende pericolosi questi ideologi del fantasma, perché sono pronti a correre dei rischi enormi pur di far andare a posto l'insieme degli ingranaggi del loro pezzo fantastico. Bisogna ricordare la folle marcia di Hitler verso il Reno, nel 1936(1), operazione inimmaginabile, ma che è riuscita perché l'alto comando francese è rimasto affascinato e non ha voluto demistificare il fantasma d'invincibilità del Führer, ottenendone, certamente, le conseguenze catastrofiche che sappiamo.
Bisogna trarre delle lezioni dalla storia. Se pensate che il movimento nazionale palestinese, diretto da Yasser Arafat, cerchi soltanto di formare uno Stato in Cisgiordania e a Gaza, la risposta è che gli israeliani devono incoraggiarli a crearlo. Se invece siete tra quelli che pensano che i palestinesi sono preda d'una ideologia del fantasma e agiscono come avanguardia di un contrattacco di vasta portata dell'Islam dell'Ultimo Giorno, che mira ad uno Stato "crociato", allora dare loro uno Stato è come permettere a Hitler di marciare verso il Reno, è perpetuare un fantasma che merita soltanto di sparire.
(1) L'autore fa allusione all'audace bluff del 7 marzo 1936, con cui l'esercito tedesco rioccupò la Renania, in violazione al Trattato di Versailles, conseguenza della disfatta della Germania nella Grande Guerra. Come si è saputo in seguito, Hitler si aspettava una reazione violenta degli alleati, e si era preparato ad una veloce ritirata nel caso questa avvenisse. Cosa che invece, purtroppo, non avvenne.
(Wall Street Journal, 11 febbraio 2004 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
5. PELLEGRINAGGI ANTISIONISTI (2005)
Viaggio in Israele... e nell'antisemitismo
Una testimonianza di come si possa diffondere antisemitismo (naturalmente presentato come nobile antisionismo umanitario) attraverso pii viaggi religiosi in "Terra Santa".
Sono rientrato in Italia dopo una breve permanenza in Israele. Ho infatti accettato di accompagnare i miei genitori in un viaggio in "Terra Santa" (per usare un termine che alcuni preferiscono) organizzato da alcune importanti organizzazioni cattoliche.
Era da tempo che desideravo toccare con mano la realtà israeliana e questa si è rivelata una preziosa occasione.
Il viaggio mi ha portato ad Haifa, Nazareth, Betlemme, Gerusalemme, Gerico ed Abu Ghosh - quindi tanto in territori sotto il diretto governo di Israele, sia in territori attualmente amministrati dall'ANP. Abbiamo anche avuto incontri con autorità israeliane e palestinesi, tra cui il ministro del turismo di Israele, il ministro del turismo dell'ANP, il sindaco di Gerusalemme ed il sindaco di Betlemme.
Il viaggio è stato molto significativo, per le bellezze naturali (dal lago di Tiberiade, al deserto di Giuda, al Mar Morto), per il valore storico ed artistico di molte zone oltre che naturalmente per l'interesse geopolitico delle aree attraversate. Gerusalemme è davvero bella - più di quanto mi aspettassi - e la vista dal Monte degli Ulivi da sola giustifica gran parte della spesa.
E' stato molto significativo toccare con mano cosa significhi per Israele vivere sotto assedio - costretto a difendersi con la consapevolezza che perdere anche una sola guerra significherebbe esporre la propria popolazione al genocidio.
Ma questo viaggio mi è stato prezioso anche per un altro aspetto. Mi ha permesso di verificare quanto sia possente il sentimento antisionista ed antisemita all'interno della Chiesa Cattolica.
Il taglio del viaggio è stato pesantemente antiisraeliano e le nostre guide non hanno perso una sola occasione per diffondere la propaganda più faziosa nei confronti di Israele.
Un buon 70% di quello che è stato detto erano falsità belle e buone. Un 30% si riferiva ad elementi reali, forniti tuttavia in modo del tutto decontestualizzato, senza aiutare a conoscerne ed a comprenderne le cause.
Io ho una sufficiente cultura sull'argomento per potermi porre in maniera critica nei confronti di queste falsificazioni. Ma chi abbia partecipato a questo pellegrinaggio senza sapere niente o quasi sulla questione arabo-israliana avrà sicuramente avuto modo di "imparare" un certo numero di cose - e chi abbia partecipato già armato di pregiudizio antiisraeliano avrà trovato sicuramente in questo viaggio le "conferme" che cercava.
I nostri fraticelli hanno "reso chiaro" come l'intera responsabilità della crisi è da addebitarsi ad Israele, come siano Netanyahu e Sharon i responsabili dell'Intifada e delle migliaia di morti. Come i palestinesi sono sottoposti ad uno sfruttamento continuo dal colonialismo militarista e razzista degli ebrei. Come nelle scuole israeliane si istighi all'odio e come avvengano in Israele continue violazioni dei diritti umani. Come le eventuali azioni palestinesi siano il comprensibile frutto delle provocazioni degli ebrei. Come Arafat sia stato un grande leader (anche se un pelino scaduto in punto di morte perché aveva accatastato un po' di soldi in Svizzera, anziché investirli tutti nella gloriosa battaglia antisionista).
Ma il confine tra antisionismo ed antisemitismo è apparso davvero molto sfumato. Ogni riferimento agli ebrei fatto dalle nostre guide era volto a dimostrare quanto siano arroganti, prevaricatori, meschini, avidi, adepti del Dio denaro, a dimostrare la loro forza di lobby ed il loro controllo della finanza internazionale. In pochi giorni i nostri fraticelli hanno tirato fuori in maniera ripetuta praticamente tutti gli stereotipi della propaganda hitleriana, tra i plausi generali di schiere di cattolico-sociali e di margheritini dalla faccia pulita. Si è arrivati al punto di dichiarare che la visita a Yad Vashem (il memoriale dell'Olocausto) era inopportuna perché era solo una "leccata di piedi all'ebraismo".
Si è naturalmente invitato a boicottare i negozi degli ebrei (vi ricorda niente?) ed a comprare solamente in quelli palestinesi.
Questi fraticelli si definiscono "costruttori di pace". Io li considero invece per quello che sono: incitatori all'odio. Anche se il primo loro target sono stati gli ebrei, nel corso del "viaggio di pace" non sono mancati nemmeno strali contro i cristiani ortodossi e contro i drusi. Più morbida solamente la posizione sull'Islam, con il quale probabilmente i cattolici intravedono la possibilità di un'alleanza strategica.
Naturalmente io ho "comprato israeliano" il più possibile, incluso qualche bel libro tra cui "The Case for Israel" di Alan Dershowitz - mi sono commosso ad Yad Vashem ed ho manifestato il mio sostegno agli israeliani con cui ho parlato ogni volta che è stato possibile.
Certo che considerando che i "pellegrinaggi" rappresentano uno dei principali tramiti (oltre ai tg RAI ed a Repubblica) con cui gli italiani vengono in contatto con la realtà medio-orientale, l'antisionismo che li anima è davvero preoccupante. Di conseguenza è importante che noi teniamo alta la guardia e ci mobilitiamo con costanza in un'opera di controinformazione, cioè di informazione corretta.
Per me la difesa di Israele è importante. Ogni palmo di quella terra è sacro. E non solo per ragioni religiose. E' sacro perché il popolo israeliano (al contrario del cosiddetto "popolo palestinese") ha mescolato alla terra il proprio sudore, il proprio impegno, la propria creatività, le proprie migliori energie. E' sacro perché sacro è il lavoro produttivo degli uomini e sacrosanto il loro diritto a raccogliere i frutti del loro know how e del loro impegno. Difendere Israele, dal mio punto di vista, significa quindi anche difendere i valori a me cari dell'operosità e dell'achievement.
Marco
(Newsletter Scarabello, 19 aprile 2005)
6. TORNANO IN ISRAELE I «FIGLI DI MANASSE» (2006)
La tribù perduta
di Nicole Jansezian
KARMIEL - Nella ben curata cittadina del nord di Israele pochi mesi fa arrivavano i razzi Katiuscia dal sud del Libano, il che costringeva i cittadini a passare diverse settimane nei bunker. Questo però non ha dissuaso 218 ebrei dal venire a stabilirsi nell'idilliaca cittadina, perché Israele è la loro terra promessa.
«Il nostro sogno è stato sempre di vivere in Israele. Hashem [nome con cui viene indicato Dio] ha promesso questa terra al suo popolo» ha detto Dagan Zohmingtea Zolat. Interrogati da israel heute sulla loro aliah [immigrazione], gli immigranti indiani sono tutti d'accordo: sono venuti qui perché la terra promessa agli ebrei non è l'India, ma Israele. 87 di loro hanno trovato alloggio per un anno in un centro per immigrati in Karmiel, gli altri sono stati distribuiti in altri centri nelle vicinanze di Nazaret.
L'arrivo di questi ebrei, i Bnei Menashe (figli di Manasse) fa capire quanto sia ancora attuale l'aliah, che le «tribù disperse» non sono soltanto una teoria. Da secoli i Bnei Menashe praticano in India una forma biblica di ebraismo, chiamano Dio con il suo nome ebraico Jah, commemorano l'uscita dall'Egitto, celebrano le feste e il sabato, circoncidono i figli e mangiano kosher.
«L'aliah dei Bnei Menashe è un miracolo di dimensioni bibliche», ci ha detto Michael Freund, presidente dell'organizzazione Shavei Israel, che ha contribuito in modo determinante a portare gli ebrei indiani in Terra Sacra. «Come hanno predetto i profeti, Dio riunisce il suo popolo dai quattro angoli della terra, e noi siamo testimoni di come la profezia si sta adempiendo sotto i nostri occhi.»
solenne, l'edificio governativo in cui i Bnei Menashe si ritrovano poco dopo per l'accoglienza è molto dimesso. I locali assomigliano a stanze per studenti, i bambini corrono lungo i nudi corridoi.
La giornata comincia alle 6 con la preghiera. Dopo la colazione, per gli adulti c'è la lezione di ebraico, che si prolunga fino nel pomeriggio. Dei volontari aiutano gli immigrati nelle necessità burocratiche, come l'apertura di un conto o la stipulazione di un'assicurazione sanitaria. Alcuni tra i Bnei Menashe hanno cominciato già in India a studiare l'ebraico e a familiarizzarsi con i costumi israeliani.
Yitzhak Kolni, immigrato da solo dall'India sei anni fa, adesso aiuta i nuovi immigrati ad inserirsi in Israele. Abita con loro a Karmiel e li
Una nuova vita
Se il festeggiamento dell'arrivo all'aeroporto è stato molto solenne, l'edificio governativo in cui i Bnei Menashe si ritrovano poco dopo per l'accoglienza è molto dimesso. I locali assomigliano a stanze per studenti, i bambini corrono lungo i nudi corridoi.
La giornata comincia alle 6 con la preghiera. Dopo la colazione, per gli adulti c'è la lezione di ebraico, che si prolunga fino nel pomeriggio. Dei volontari aiutano gli immigrati nelle necessità burocratiche, come l'apertura di un conto o la stipulazione di un'assicurazione sanitaria. Alcuni tra i Bnei Menashe hanno
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cominciato già in India a studiare l'ebraico e a familiarizzarsi con i costumi israeliani.
Yitzhak Kolni, immigrato da solo dall'India sei anni fa, adesso aiuta i nuovi immigrati ad inserirsi in Israele. Abita con loro a Karmiel e li considera «molto sionisti e religiosi».
Rivka Pachuau, arrivata il 28 novembre con marito e tre figli,
racconta che i preparativi per l'aliah sono durati diversi anni. «Abbiamo pregato molto per questo!» Adesso sono felici di essere in Israele, dove possono osservare il sabato ed è molto più facile che in Mizoram attenersi alle norme della kasherut.
I Bnei Menashe vivono in India, in una appartata zona nordorientale del paese, nelle province Manipur e Mizoram. Esternamente assomigliano molto ai loro vicini nel Myanmar [ex Birmania] e nel Tibet.
Molti hanno lasciato le loro famiglie sul posto, altri hanno raggiunto le loro famiglie che erano immigrate prima. La famiglia di Zolat in India aveva dei timori quando lui è emigrato, con moglie e tre figli, per vivere sul fronte in prima linea. «Noi stiamo alle promesse di Dio. In India o in Israele, Hashem ci proteggerà», ha detto. Zolat spera che i Bnei Menashe possano essere di esempio agli ebrei secolari, per riportarli ad una pura fede biblica.
Il difficile cammino verso il Paese amato
«Quando, dieci anni fa, sentii parlare per la prima volta dei Bnei Menashe, non credevo una parola di quello che si diceva sulla
cosiddetta tribù dispersa», riferisce Michael Freund. Ma adesso so quale battaglia hanno dovuto sostenere per secoli per mantere la loro identità ebraica. Sono convinto che siano davvero i discendenti della tribù perduta.»
Quando l'ondata di immigrazione dalla Russia cominciò a scemare, dieci anni fa Freund cominciò a interessarsi dei Bnei Menashe. A quel tempo il governo concedeva ogni anno a 100 ebrei indiani di venire in Israele come turisti e a sottoporsi al processo ufficiale di conversione. I Bnei Menashe sono adesso i primi ebrei indiani che fin dal momento della loro immigrazione sono considerati convertiti secondo le leggi religiose. Per questo godono dell'incondizionato status di immigrati, e quindi hanno diritto a godere di privilegi come la riduzione delle tasse.
Nel 2004 il Ministero degli Interni bloccò l'aliah indiana, fino a che il Rabbino Capo Shlomo Amar inviò una delegazione di periti religiosi nelle Indie del nord per conoscere sul posto gli abitanti delle province Mizoram e Manipur e le loro tradizioni. Dopo aver preso in esame i loro costumi, si arrivò alla conclusione che quegli 8000 indiani dovevano effettivamente essere discendenti di Israele.
Rabbi Amar emise quindi una disposizione religiosa secondo la quale l'aliah poteva essere ripresa. Il Ministero degli Interni tuttavia si rifiutava di rilasciare i necessari documenti. Anche il Ministero per l'Immigrazione dichiarò che non avrebbe sostenuto i nuovi immigranti. Soltanto quando intervenne personalmente il Primo Ministro Ehud Olmert nel giugno 2006, l'aliah indiana interrotta per tre anni si rimise in moto. Un ulteriore rinvio fu provocato forzatamente dallo scoppio della guerra nel nord di Israele.
La storia della tribù
Nel 721 a.C. le 10 tribù di Israele furono disperse dagli Assiri in tutte le direzioni.
Circa 90 anni fa alcuni missionari britannici visitarono la regione e scoprirono persone che già vivevano biblicamente. «Erano convinti di aver trovato una delle tribù perdute», dice Freund.
I missionari cercarono di convertirne la maggior parte al cristianesimo. Il rimanente è costituito dai 7000 ebrei che oggi aspirano ad emigrare in Israele e vogliono seguire i 1000 Bnei Menashe già emigrati. Nel complesso, tutti gli abitanti di Mizoram, sia ebrei che cristiani, credono di essere dei Bnei Menashe.
Non ogni persona che vive in Mizoram è ebrea, ma tutti sono Bnei Menashe», spiega Zolat. Lui si aspetta che i discendenti cristiani di Manasse ritornino alle loro origini. «Riconosceranno il nome di Dio e del Messia. Un giorno saranno tutti in Israele. Alcuni già lo riconoscono.»
Nella provincia di Mizoram il 90% sono cristiani, e sono estremamente sionistici. Addirittura vorrebbero cambiare il nome della provincia chiamandola «Secondo Stato d'Israele», e rinominare l'arteria principale chiamandola «Strada Sion».
Michael Freund si propone di portare in Israele i presunti e praticanti ebrei. E rivolgendosi ai cristiani dice: «Se queste persone sono Bnei Menashe ed è loro destino venire a stare qui in Israele, Dio e il Messia si adopereranno per questo.» [ved. foto sul sito internet]
(israel heute, gennaio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
7. CAOS NELLA STRISCIA DI GAZA (2007)
Dove Israele si ritira arriva l'Islam
Due anni dopo il ritiro unilaterale da Gaza e un anno dopo la fallita guerra del Libano, oggi nella striscia di Gaza è al potere un fanatico regime islamico. In un'azione fulminea durata cinque giorni il radicale Hamas ha cacciato la milizia Fatah dalla provincia meridionale palestinese e ha messo sotto il suo controllo la striscia di Gaza. E' incredibile, ma 10.000 miliziani di Hamas hanno sopraffatto le forze di sicurezza di Fatah che disponevano di 60.000 uomini. I sanguinosi scontri hanno provocato più di 300 morti, principalmente tra i membri di Fatah. Entrambe le parti si sono combattute senza pietà, come se si trovassero davanti al "nemico sionista". Non è esagerato dire che si è trattato di una guerra civile palestinese. Terroristi fuggivano davanti ad altri terroristi. Centinaia di seguaci di Fatah, che soltanto poche settimane fa lanciavano razzi Qassam insieme ai loro camerati di Hamas, adesso cercano protezione in Israele. Alla radio palestinese della striscia di Gaza, che adesso è sotto il controllo di Hamas, i palestinesi di Fatah sono descritti come "assassini e criminali", "portatori di fucili sionisti", "piccoli diavoli", "cani di sangue freddo", "code americane", "sporchi peccatori" e così via.
«Viviamo in un mondo in cui governano l'Islam estremista e i razzi», ha dichiarato a israel heute il capo del Likud Benjamin Netanjahu. «I territori che sgomberiamo unilateralmente sono occupati da forze estremiste islamiche. Dallo sgombero del sud del Libano nel 2000, in quella zona governano gli Hezbollah, e dal 2006 Hamas nella striscia di Gaza. Io ho continuato sempre ad avvertire, ma nessuno ha voluto ascoltarmi.» Come Netanjahu, anche l'esperto di Medio Oriente Ronen Bergmann vede l'Iran dietro la conquista di Hamas della striscia di Gaza. «Israele deve assolutamente spezzare l'asse Iran-Hamas», pensa Bergmann.
Armi invece di aiuti
Giornalisti palestinesi riferiscono a israel heute con quale spietatezza i diversi gruppi palestinesi hanno sparato gli uni contro gli altri. «I soldati israeliani nelle loro incursioni nella striscia di Gaza hanno mostrato di avere più riguardi per la popolazione palestinese che non i palestinesi fra di loro», ha detto Mahmud di Rafah. «Gaza è strapiena di armi, ma la gente non ha abbastanza da mangiare!» Il portavoce di Hamas, Shahawan, ha annunciato con fierezza: «Da ora in poi a Gaza regnerà la giustizia e la sharia (legge islamica)». Jakob Amidror, ex membro dello Stato Maggiore nel servizio informazioni militare, commenta: «Nella striscia di Gaza regna l'anarchia, e chi ne soffre di più è la popolazione palestinese, che nel gennaio 2006 ha votato a grande maggioranza per Hamas. I palestinesi si sono inguaiati da soli.»
«Abbiamo votato per Hamas perché il governo Fatah sotto Mahmud Abbas ci aveva derubato e non ci aveva dato nessuna speranza», ci ha detto la palestinese Samach, del campo profughi Tschabaliya. «Ma adesso governerà un rigido Islam e di questo molti palestinesi hanno paura.» Come molti palestinesi, anche Samach dà la colpa a Hamas e a Fatah per i sanguinosi scontri. «Tutti e due ci hanno promesso una vita migliore e tutti e due ci hanno ingannato!» Il padre di sette bambini, Antuwan (33 anni) da Khan Yunis nella striscia di Gaza, impreca contro il governo di Hamas: «Invece di provvedere alle persone, da quando ha preso il potere Hamas si preoccupa soltanto del suo armamento. Dal momento che Hamas ha vinto su Fatah, il popolo palestinese ha perso! La nostra vita non diventerà più facile.»
«La colpa è di Israele»
«Il caos nella striscia di Gaza è il risultato della politica fallimentare di Israele negli ultimi 15 anni», ha detto il premio Nobel per l'economia israeliano prof. Israel Aumann, che considera la politica come la causa di una possibile fine dello Stato d'Israele. «Chi vuole la pace deve prepararsi alla guerra. E' una cosa che sapevano già gli antichi romani. Israele deve innanzitutto essere capace di difendersi.» Aumann si è occupato intensamente della relazione tra conflitto e cooperazione. «Dobbiamo essere psicologicamente capaci non soltanto di sopportare perdite, ma se necessario anche di provocare perdite. Non serve continuare a gridare alla pace.»
«Sotto Israele era meglio!»
Sempre più spesso si trovano palestinesi che oggi ammettono che la vita sotto l'amministrazione israeliana era non solo migliore, ma anche molto più comoda che sotto la cosiddetta libertà palestinese. «Se soltanto avessimo immaginato che dopo l'occupazione israeliana saremmo stati esposti a simili conseguenze, non avremmo dato il nostro consenso all'Autonomia palestinese», ci ha detto il trentacinquenne Anwuar della striscia di Gaza. Durante la prima intifada (1987-93) anche lui, come giovane, aveva lanciato pietre contro gli israeliani. «Per 15 anni ci hanno lavato il cervello per farci odiare Israele, ma oggi odio i miei dirigenti più di Israele.» In un'intervista telefonica con israel heute, il politico di Fatah, dr. Sufian Abu Zaida (47 anni), fuggito dalla striscia di Gaza, ha detto di aver perso ogni speranza. «Mi è del tutto passata la voglia di trattare per la pace. Hamas ha distrutto il sogno palestinese», ha detto sospirando il ministro palestinese di Fatah, Abu Zaida, che parla correntemente ebraico.
Hamas considera la conquista come una seconda liberazione di Gaza dopo lo sgombero degli israeliani. «Nello stesso modo libereremo le altre città palestinesi e introdurremo la legge islamica, compresa Gerusalemme!», ha dichiarato il politico di Hamas Sami Abu Zuhri. «Fino a quel momento non deporremo le armi.» Di fatto a Gaza non esiste più un'Autonomia palestinese. L'incubo di un regime islamico radicale alla frontiera meridionale di Israele è diventato realtà.
Look islamico
Per i cristiani arabi, in tutto duemila, la vita è diventata ancora più pericolosa. In modo particolare per i duecento cristiani nati di nuovo di Gaza città. Durante la rivoluzione islamica una chiesa e una scuola cristiana sono state incendiate da fanatici musulmani. I credenti cristiani non osano parlare al telefono con israeliani, perché Hamas controlla le loro telefonate. Gli uomini si lasciano crescere la barba per non dare nell'occhio in strada. Un aspetto islamico protegge la vita. Fanno così anche ex membri di Fatah che adesso si inseriscono nelle file di Hamas. Un cristiano palestinese di Ramallah ha comunicato a israel heute che la famiglia di suo zio a Gaza non esce più di casa. «Uno dei suoi figli è stato pestato da giovani musulmani, e poiché loro sono cristiani, non ha osato portare suo figlio ferito all'ospedale», ha detto il cristiano di Ramallah, il quale chiede di pregare per i suoi parenti e per la comunità cristiana nella striscia di Gaza.
Israele deve mettersi in ginocchio
«Siamo sull'orlo di una nuova guerra e purtroppo abbiamo ancora il governo più debole che Israele abbia mai avuto», ha detto il responsabile della comunità messianica Shimon Nachum. «Da come si presentano le cose, a Israele non resta che mettersi in ginocchio e supplicare l'aiuto di Dio. E la sua salvezza arriverà, ma come già accaduto spesso nella storia biblica, soltanto all'ultimo momento. Con la sua saggezza Dio metterà ordine nel disordine politico. Come, non sappiamo. Ma chi crede nei miracoli confida nell'intervento di Dio.»
Due palestine
La vittoria di Hamas nella striscia di Gaza mette in nuova luce la soluzione-due-stati. Invece di esserci Palestina qui e Israele lì, adesso praticamente esistono due Palestine - una nella striscia di Gaza sotto il governo di Hamas e l'altra nel territorio biblico Giudea-Samaria sotto il governo di Fatah. Il fatto che Fatah sia ancora al governo in Giudea-Samaria è dovuto all'esercito israeliano che controlla il territorio centrale biblico e non lo ha ancora sgomberato.
(israel heute, agosto 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
8. PANORAMA MESSIANICO SU GERUSALEMME (2008)
Messianici e Media in Israele
Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta (Matteo 5:14).
di Gershon Nerel
Sul quotidiano Yediot Aharonot dell'8 agosto 2008, un articolo dai toni minacciosi di nove pagine trattava degli ebrei messianici che vivono nella terra di Israele. Sulla prima pagina, c'era la foto di un giovane che sta benedicendo una fanciulla bionda con le mani alzate, su questo sfondo scritto a caratteri cubitali: «Esperienza di rapporto», il sottotitolo «La setta dei battezzanti». Sotto al titolo si spiega: «Una reporter si è infiltrata in un setta di giudei messianici in Israele. Per due mesi ha documentato il tentativo di questo gruppo di bambini, soldati e sopravvissuti dell'olocausto di muovere al cambiamento di religione e per ottenere Gesù». E' risaputo che il nome Gesù deriva dall' ebraico Yeshua, che significa «Dio è/porta la soluzione». All'interno dell'articolo il gusto per il sensazionalismo del pubblico è stuzzicato dal titoletto «Il codice Messia».
Con questa allusione al «Codice da Vinci» si voleva attirare l'attenzione del lettore e creare un collegamento con le teorie cospiratorie del romanzo americano. Alla luce dell'esperienza questo trucco giornalistico è subito diventato ridicolo, poiché il movimento messianico né si nasconde nelle catacombe né è legato a qualche pratica esoterica, al contrario le comunità sono aperte ai visitatori e gli ospiti sono sempre benvenuti. Perciò suona assurdo che qualcuno creda che le riunioni siano fatte in segreto. Già questa scelta di parole lascia intendere dove la giornalista voglia condurre i suoi lettori. Spiega i particolari di questi «singolari» incontri: «In tutto il paese fanno il loro lavoro missionario in incognito, comparendo negli articoli dei maggiori quotidiani e in cartelli sulle strade, cercando persino posti militari e soldati che stanno svolgendo le loro mansioni. Agli occhi del cittadino medio certi trucchetti sono ripugnanti ... quando nelle piazze di Tel Aviv portano avanti le loro aggressive campagne di evangelizzazione, cantando, distribuendo i loro volantini, vengono attaccati, insultati e picchiati ... le loro comunità chiedono alle autorità della società israeliana un riparo. Tra di loro si trovano ragazzi difficili da educare, giudei ortodossi che hanno lasciato le loro sinagoghe e che vivono sotto la protezione di una delle loro famiglie, soldati non sposati, Olim (nuovi arrivati) e lavoratori dall'estero ... parole come «satana», «guerra contro il diavolo», «il potere dei malvagi», «espiazione», «pietà», «fine dei tempi», «amore per il Messia», sono largamente usate nel loro vocabolario. Nelle loro comunità sono continuamente attivi, e predicano sempre a dei giudei, che non credono in Gesù. Malgrado i giudei ortodossi li perseguitino, i giudei secolari reagiscono positivamente alla loro propaganda di strada... Festeggiano la Seudat Ha'Adon, la cena dell'attesa, nella quale mangiano del pane (il challah, il pane del sabato) e bevono vino. Durante queste feste i loro anziani si avvolgono nel Tallith, uno scialle di preghiera, e presentano apertamente i rotoli della Torah. Però la loro cerimonia più importante è il battesimo, per quei credenti che scelgono di seguire la nuova via. Lo scopo principale dell' articolo è quello di presentare i giudei messianici come persone «esoteriche» e di denigrare la figura di Gesù.
Per dare all'articolo un'apparenza di «obiettività», è stata data la parola anche ai giudei messianici, con asserzioni come: «Crediamo in un ebraismo biblico, e ogni giudeo possiede le capacità sufficienti per comprendere il proprio modo di vivere l'ebraismo. Lo Stato ci permette di spiegare la nostra fede. L'aiuto umanitario per i bisognosi, i poveri e le prostitute è il nostro cotributo per una vita migliore nella nostra società». È interessante che molti israeliani abbiano reagito all'articolo. Menachem Ben, giornalista del Ma' ariv, scrive una settimana più tardi, che il titolo dell'articolo suona «razzista» e che non ha niente a che vedere con i fatti reali, perché i giudei messianici svolgono con abnegazione un impegno sociale indirizzato ai sopravvissuti della Shoah, ai senza tetto e a minacciosi teenager. L'orribile titolo dell'autrice potrebbe incitare i lettori a ripetere l'esperienza dei pacchi bomba e al rogo dei Nuovi Testamenti.»
Yftach Elazar, giornalista e dottorando in Scienze Politiche all'università di Princeton, scrive il 17 agosto in un articolo sulla rivista multimediale «Il settimo occhio», con forte cinismo: «Quale eroico atto di giornalismo: una reporter che si intrufola in una setta che si occupa di prostitute e drogati e che distribuisce viveri ai sopravvissuti della Shoah».
Con parole sarcastiche mette alla berlina l'allarmismo da quattro soldi dell'articolo, perché con un simile stile e scelta di parole si puntava soltanto a stuzzicare il gusto per il sensazionale dei lettori e a denigrare i giudei messianici. Dopo tutto, scrive Elazar, il vero timore della società israeliana sta nel fatto che ebrei, che credono in Gesù senza considerarsi veri giudei e che si presentano come eredi dei primi giovani cristiani, possano mettere in discussione le norme e l'autorità dell'ebraismo odierno.
(Chiamata di Mezzanotte, anno IV, n.11, 2008)
9. L'ANTISIONISMO NON E' ANTISEMITISMO. E' PEGGIO (2009)
L'antisionismo è odio?
Sì, perché minaccia le vite e la pace in Medio Oriente.
di Judea Pearl
A gennaio, durante un simposio dell'UCLA (University of California, Los Angeles) organizzato dal Centro Studi per il Medio Oriente, quattro detrattori di Israele ben noti da molto tempo sono stati invitati ad analizzare le condizioni dei diritti dell'uomo a Gaza e hanno utilizzato quella tribuna per attaccare la legittimità del sionismo e la sua visione di una soluzione di due stati per Israele e per i palestinesi.
Hanno criminalizzato l'esistenza di Israele, distorto i suoi motivi profondi e diffamato il suo carattere, la sua nascita e la sua stessa concezione. A un certo punto hanno eccitato l'uditorio e, a quanto si dice, hanno scandito frasi come "Il sionismo è nazismo", e peggio ancora.
I dirigenti ebrei hanno condannato questo festival dell'odio indicandolo come un incitamento all'isteria antisemitica, e hanno sottolineato l'effetto devastante che poteva avere sull'UCLA e il suo impatto su un campus famoso per la sua atmosfera aperta e cortese. Gli organizzatori, alcuni dei quali sono ebrei, si sono trincerati dietro la "libertà accademica" e hanno usato l'argomento secondo cui l'antisionismo non è antisemitismo.
Io sono totalmente d'accordo con questo slogan, non perché esonera gli antisionisti dall'accusa di antisemitismo, ma perché questa distinzione ci aiuta a focalizzare la nostra attenzione sul carattere discriminatorio e immorale dell'antisionismo, ancora più dannoso dell'antisemitismo.
L'antisionismo rigetta la semplice nozione che gli ebrei siano una nazione - un collettivo legato insieme da una storia comune - e, di conseguenza, nega agli ebrei il diritto all'autodeterminazione sul loro luogo storico di nascita. Persegue il progetto di smantellare lo stato-nazione ebraico: Israele.
L'antisionismo merita il suo carattere discriminatorio perché nega al popolo ebraico quello che concede ad altri collettivi legati storicamente (come, per esempio, francesi, spagnoli, palestinesi), cioè il diritto alla nazionalità, all'autodeterminazione e alla legittima coesistenza con altri indigeni che lo richiedano.
L'antisemitismo rigetta gli ebrei come membri paritari della razza umana; l'antisionismo rigetta Israele come membro paritario nella famiglia delle nazioni.
Gli ebrei sono una nazione? Alcuni filosofi direbbero che gli ebrei sono in primo luogo una nazione e in secondo luogo una religione. In effetti, la narrazione dell'Esodo e la visione dell'imminente viaggio verso il paese di Canaan si sono impressi nella mente del popolo ebraico prima di aver ricevuto la Torà al monte Sinai. Ma a parte la filosofia, la salda convinzione nel loro futuro rimpatrio nel luogo di nascita della loro storia è stata il motore che ha alimentato la perseveranza e la speranza ebraica durante il turbolento viaggio cominciato con l'espulsione da parte dei romani nel 70 AD.
Cosa ancora più importante, non la religione, ma la storia condivisa è oggi la più importante forza unitaria che sta alla base della secolare, multietnica società di Israele. La maggioranza dei suoi membri non osserva leggi religiose e non crede in una supervisione divina o nella vita dopo la morte. La stessa cosa si applica all'ebraismo americano, che è in gran maggior parte laico. Sentirsi identificati in un comune ethos storico culminante nel ristabilimento dello Stato d'Israele, costituisce il legame centrale della collettività ebraica in America.
Naturalmente ci sono anche ebrei che sono non-sionisti o addirittura anti-sionisti. Il movimento ultra-ortodosso di Neturei Karta e il movimento di sinistra di Noam Chomsky sono esempi notevoli. Il primo rigetta ogni tentativo terreno di interferire con il piano messianico di Dio, mentre il secondo detesta tutte le forme di nazionalismo, soprattutto quelle che hanno successo.
Ci sono anche ebrei che trovano difficile difendere la loro identità contro la crescente perversità della propaganda anti-israeliana, e alla fine nascondono, rinnegano o denunciano le loro radici storiche in cambio di riconoscimento sociale e altri vantaggi.
Ma queste, nel migliore dei casi, sono minoranze marginali: i tessuti vitali dell'identità ebraica oggi si nutrono della storia ebraica e dei suoi naturali derivati: lo Stato d'Israele, la sua lotta per la sopravvivenza, le sue conquiste culturali e scientifiche, la sua instancabile ricerca della pace.
Secondo questa comprensione della nazionalità ebraica, l'antisionismo è per molti aspetti più pericoloso dell'antisemitismo.
Per prima cosa, l'antisionismo prende di mira la parte più vulnerabile del popolo ebraico, cioè la popolazione ebraica di Israele, la cui sicurezza fisica e dignità personale dipendono in modo cruciale dal mantenimento della sovranità israeliana. Detto brutalmente, il progetto antisionista di farla finita con Israele condanna cinque milioni e mezzo di esseri umani, in maggior parte profughi o figli di profughi, a vivere eternamente privi di difesa in una regione in cui i progetti genocidi non sono rari.
In secondo luogo, la società moderna ha sviluppato anticorpi contro l'antisemitismo, ma non contro l'antisionismo. Oggi gli stereotipi antisemiti provocano repulsione nella maggior parte delle persone di coscienza, mentre la retorica antisionista ha ottenuto un marchio di nobiltà accademica e di accettazione sociale in certi estremisti e loquaci circoli dell'università americana e dell'elite mediatica. L'antisionismo si traveste sotto il mantello del dibattito politico, si esonera dalle sensibilità e dalle norme di civiltà che regolano il discorso inter-religioso per attaccare i simboli più cari dell'identità ebraica.
Infine, la retorica antisionista è una pugnalata alla schiena del campo della pace, che in massima parte sostiene la soluzione dei due stati. E dà anche credito ai nemici della coesistenza, i quali chiedono che l'eliminazione finale di Israele entri nell'agenda segreta di ogni palestinese.
E' l'antisionismo dunque, non l'antisemitismo, che costituisce la più pericolosa minaccia per le vite umane, per la giustizia storica e per gli sforzi di pace in Medio Oriente.
(Los Angeles Time, 15 marzo 2009 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
10. SIONISMO ED EBRAISMO MESSIANICO (2010)
Joseph Rabinowitz. Alle origini del movimento degli ebrei messianici
di Marcello Cicchese
Joseph Rabinowitz (1837-1899) è un nome pressoché sconosciuto in Italia. Non è così in altri paesi. Esiste un libro di Kai Kjaer-Hansen, di circa venti anni fa, originariamente scritto in danese e poi tradotto in inglese, che ha come titolo "Joseph Rabinowitz and the Messianic Movement", e come sopratitolo: "The Herzl of Jewish Christianity". In realtà, come vedremo nella breve presentazione che segue, la sua figura si presta meglio ad essere confrontata con un altro personaggio del sionismo, meno noto al grande pubblico ma forse ancora più importante: Leon Pinsker (1821-1891).
Dopo il periodo napoleonico, in molti paesi dell'Europa occidentale si era avviato un processo di emancipazione degli ebrei che, anche se non mancavano le opposizioni e i rallentamenti, sembrava inarrestabile. Anche nell'Impero russo il "progresso", come emancipazione da varie forme di servitù, stava movendo i suoi primi incerti passi. Leon Pinsker, nato a Tomaszów Lubelski, un paese dell'attuale Polonia meridionale, aveva erditato un forte senso di identità ebraica da suo padre, uno studioso e insegnante, autore di libri in lingua ebraica. Il giovane Pinsker fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l'abbandono da parte degli ebrei dell'yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma ben presto le speranze riposte nell'inarrestabile progresso si rivelarono per quelle che erano: un'illusione. Il momento di svolta, come fa notare lo studioso David Bidussa nella sua introduzione all'opera principale di Pinsker, "Auto-emancipazione", può essere fissato negli anni 1881-82.
«Fra il 1881 e il 1882 un'ondata di pogrom antiebraici investe la Russia zarista. Al termine di quel ciclo di violenze il mondo ebraico russo muta profondamente, sia in relazione alle condizioni materiali, sia nelle proprie pratiche autoriflessive.
Quegli eventi sono interpretati come la crisi di un'epoca avviata dalla Rivoluzione francese e, contemporaneamente, segnano il venir meno della convinzione che il processo di emancipazione costituisca un dato ormai irreversibile e universale. Se fino al 1881 gli ebrei russi speravano che un processo analogo si sarebbe realizzato anche nel loro paese, con i pogrom del 1881 quella speranza tramonta definitivamente.
Effetti, questi, tanto più significativi se si considerano due aspetti: il fatto che gli eventi del 1881-82 non sono episodi improvvisi e isolati, ma si collocano in una catena di violenze antiebraiche che avvengono con regolarità nella società russa, specie nella seconda metà del XIX secolo e che, allo stesso tempo, segnano anche un diverso atteggiamento delle autorità zariste.
La vera rottura, invece, avviene in quei ceti intermedi che sulla possibilità di un processo di emancipazione, anche in Russia, avevano investito politicamente e culturalmente. All'indomani della legge che aveva abolito la servitù e liberalizzato il mondo contadino all'inizio degli anni '60 molti ebrei e non ebrei concepiscono un'evoluzione liberale del paese ancora possibile, e vi investono risorse non indifferenti. Nel 1881 questa convinzione subisce un duro colpo.»
Pinsker è tra quelli che avvertono duramente il colpo. Nella sua delusione, parte per un viaggio in Europa occidentale, e nel 1882 scrive il suo famoso pamphlet "Autoemancipazione" che, come emerge già dal sottotitolo, vuol essere un "Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli". In sostanza è un invito a considerare chiusa l'epoca della diaspora ebraica, a smettere di cercare soluzioni nella sottomissione o nell'assimilazione, e a ritrovare il senso della propria identità nazionale. «Dobbiamo cercare il nostro onore e la nostra salvezza non più nelle illusioni con cui tentiamo di ingannare noi stessi, ma nella restaurazione della nostra unità nazionale», proclama nel suo appello. Ed è sulla base di una visione lucida ed accorata come questa che si svilupperà in seguito il progetto politico che prenderà il nome di "sionismo".
Joseph ben Rabinowitz percorre invece un'altra strada, molto diversa nelle conclusioni, ma con elementi comuni a quelli di Pinsker. Anche Rabinowitz proviene dall'ambiente dell'Impero russo di quel tempo. Nasce a Rezina, un piccolo paese della Bessarabia, attuale Moldavia. Entrambi i genitori appartenevano a famiglie rabbiniche. Sua madre morì quando aveva soltanto quattro anni e il padre lo affidò alle cure del nonno materno, che era un pio e zelante chassidim. Da lui imparò a conoscere e ad amare la Torà e il Talmud. Dopo il 1848 fu trasferito per esigenze familiari nella casa del nonno paterno, il quale lo mantenne sotto l'influenza dello chassidismo facendogli impartire lezioni da un ben pagato Rabbi. All'età di 16 anni gli fu comunicato dal padre e dai parenti il nome della sua futura moglie, cosa che in quel tempo e in quell'ambiente non era affatto inusuale. Secondo le norme allora in uso, le nozze dovevano essere celebrate entro tre anni dalla comunicazione ricevuta. Cosa che poi effettivamente avvenne. Durante i tre anni di fidanzamento il giovane Joseph si familiarizzò con gli scritti di Moses Mendelssohn, famoso esponente dell'illuminismo ebraico e nonno del compositore Felix Mendelssohn Bartholdy. Le idee dell'ebraismo riformato fecero breccia nella mente vivace del giovane: come lui stesso dichiarò in seguito, la chiarezza del pensare logico lo fece risvegliare dal sogno dello chassidismo in cui era cresciuto.
Il matrimonio però non ne risentì. Contrariamente a quello che si pensa oggi sulla necessità di adeguate prove di convivenza prima dell'eventuale unione formale, il matrimonio dei Rabinowitz, che non solo era avvenuto senza prove preliminari, ma addirittura non era nemmeno stato deciso dai diretti interessati, superò brillantemente la prova del tempo. I coniugi ebbero sei figli, tre maschi e tre femmine, e la famiglia si mantenne sempre unita anche sul piano spirituale.
Il passaggio dallo chassidismo al libero pensiero potrebbe essere detta la prima conversione di Rabinowitz. Fu in questo periodo di travaglio che ricevette dalle mani di un altro ebreo, anche lui poco osservante delle tradizioni rabbiniche, un Nuovo Testamento in ebraico. Non si sa di preciso che cosa ne fece Rabinowitz negli anni seguenti, ma è probabile che nella sua nuova apertura mentale lo abbia letto, almeno in parte, se non altro per il desiderio di accrescere le sue conoscenze. E' certo comunque che non se ne distaccò mai, anche se per molti anni non diede alcun segno di essere stato convinto o influenzato dal suo contenuto.
E' importante dunque sottolineare che Rabinowitz, che pure era nato in una famiglia di rabbini ed era cresciuto in un ambiente chassidico, dall'età di 19 anni era diventato un ebreo "illuminato", come in fondo era sempre stato Pinsker.
E anche lui, come Pinsker, arrivò ben presto a capire che le luci del progresso non avrebbero fugato le tenebre dell'odio contro gli ebrei: i pogrom che si susseguivano nell'Impero russo ne erano una continua e dolorosa conferma. «Gli ebrei di Odessa - diceva - sono stati i primi a consegnarsi al progresso, e sono stati i primi ad essere minacciati di sterminio».
Rabinowitz però non abbandonò il suo popolo. Anche lui, come Pinsker e poi come Herzl, era "torturato" dal pensiero di trovare "la soluzione della questione ebraica". Aveva completato i suoi studi, era diventato avvocato, e come tale si impegnava a difendere per quanto possibile le cause dei suoi correligionari. Volle migliorare il suo russo, studiò a fondo la legislazione della Bessarabia, pubblicò articoli sui giornali ebraici di Odessa, si mobilitò per favorire la creazione di scuole di Talmud-Torà affinché gli ebrei potessero studiare il russo e l'ebraico. Da tutti era considerato un "amico del popolo ebraico", anche dai religiosi, che certamente non condividevano le sue idee troppo libere.
E arrivarono anche per lui gli anni critici del 1881-82. Nel novembre del 1881 fece domanda al governatore della Bessarabia di poter aprire una colonia agricola ebraica. Sperava che mediante l'onesto lavoro della terra si potessero alleviare le misere condizioni dei suoi fratelli ebrei, strappandoli così dalla disperazione e anche dalla ricerca di equivoche soluzioni attraverso la manipolazione del denaro, cosa che aveva attirato il discredito su tutto il popolo ebraico. Verso la fine del febbraio 1882 arrivò la risposta dalle autorità: negativa. Nessuna autorizzazione, nessun fondo a disposizione per gli ebrei..
Fu dopo questa delusione che anche lui decise di fare un viaggio. Però non in Europa occidentale, come Pinsker, ma in Palestina. Il suo scopo era di verificare se quella terra poteva essere il luogo dove gli ebrei, almeno quelli di cui si sentiva in qualche modo responsabile, avrebbero potuto emigrare e trovare un'onorevole uscita dai loro assillanti problemi.
Nel suo viaggio verso la Terra Promessa fece tappa a Costantinopoli e arrivò a Giaffa nel maggio del 1882, l'anno stesso in cui gli Hovevei Zion (Amanti di Sion) fondavano Rishon Le-Zion, il primo insediamento ebraico in Palestina. La sua prima impressione fu deprimente, e quelle successive ancora di più. Non gli ci volle molto per capire che la soluzione della questione ebraica non poteva essere l'emigrazione in Palestina. Gli sembrava anzi addirittura un imbroglio il tentativo di convincere gli ebrei a lasciare una posizione misera nei loro paesi per trovarne una ancora più misera in Palestina. E tuttavia continuò il suo viaggio, avvertendo l'obbligo morale di rendere conto dei risultati del suo viaggio a coloro che ne erano a conoscenza.
Arrivato a Gerusalemme, accompagnato dalla segretaria del ben noto Sir Moses Montefiore, lo squallore della città a cui tutti gli ebrei rivolgevano ogni anno il loro pensiero e indirizzavano le loro speranze non fece che aggravare il suo stato di abbattimento. Una sera, poco prima del calar del sole, si trovava da solo sul pendio del Monte degli Ulivi, non lontano dall'orto del Getsemani. Triste e desolato, ripensava allo stato apparentemente senza speranza del suo popolo. Di quello che accadde in seguito in quell'occasione Rabinowitz non parlava molto volentieri, e tuttavia rispondeva quando le persone chiedevano qualcosa sull'origine della sua "conversione". Parlò dell'esperienza avuta in una riunione che si tenne a Lipsia alcuni anni dopo. Uno studente dell'Institutum Judaicum che era presente all'incontro prese nota del racconto e ne fece una breve relazione:
"Improvvisamente una parola del Nuovo Testamento, una parola che aveva letto 15 anni prima senza porvi particolare attenzione, penetrò nel suo cuore come un fascio di luce: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi» (Giovanni 8:36). Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, e che soltanto Lui può salvare il suo popolo, prese possesso della sua anima. Profondamente commosso, ritornò immediatamente al suo alloggio e tirò fuori il Nuovo Testamento. Mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: «Senza di me non potete fare nulla» (Giovanni 15:5) . In questo modo, per la provvidenza dell'Onnipotente Dio, fu illuminato dalla luce del Vangelo. Yeshua Achinu (Gesù nostro fratello) fu da quel momento la parola d'ordine con cui ritornò in Russia».
Rabinowitz era partito per la Palestina con un'aspettativa sionistica, ma aveva portato con sé il Nuovo Testamento in ebraico. Una volta arrivato sul posto, la sua aspettativa era andata in frantumi, ma aveva ricevuto una rivelazione che si rivelò decisiva per la sua vita futura. Ritornò a Kishinev, in Bessarabia, da cui era partito, con una nuova visione in cuore. La speranza di un riscatto nazionale del suo popolo non era stata abbandonata, ma aveva assunto una nuova forma. Ora sapeva che la questione ebraica non poteva essere definitivamente risolta senza "il nostro fratello Gesù". O, per usare una frase che in seguito ripeterà spesso: «La chiave della Terra Santa sta nelle mani del nostro fratello Gesù».
Rabinowitz non è certo il primo ebreo che è arrivato a credere in Gesù come Messia d'Israele, ma la sua esperienza di vita, nel modo e nel tempo in cui si è svolta, assume un significato particolare rispetto ad altre esperienze simili del passato. Anzitutto, la conversione di Rabinowitz non è il risultato di un'opera "missionaria" di cristiani gentili ma scaturisce dalla lettura personale del Nuovo Testamento e dall'azione diretta dello Spirito Santo. A Kishinev operava da anni un pastore luterano, ma Rabinowitz lasciò passare dei mesi prima di decidersi a comunicargli la sua nuova fede in Gesù, e quando lo fece volle che l'incontro avvenisse in territorio neutro, cioè fuori da edifici ecclesiastici. Non voleva che la sua conversione a Cristo fosse intesa come un abbandono del suo popolo e una conversione alla società cristiana, qualunque fosse la sua forma religiosa. Quando decise di farsi battezzare, volle dare al suo atto il significato di testimonianza a Cristo, e non di inserimento in una denominazione cristiana già costituita. Per questo il suo battesimo avvenne in una forma anomala, in una chiesa di Berlino, dove lui si trovava di passaggio e dove probabilmente non sarebbe più tornato, accompagnato da credenti che lo conoscevano personalmente. Il problema si pose quando si trattò di battezzare gli ebrei che avevano creduto in Gesù attraverso la sua predicazione. Rabinowitz non aveva ricevuto dalle autorità zariste il permesso di battezzare, e quindi non poteva farlo senza andare contro la legge. Avrebbe potuto farlo il pastore luterano, ma a questo Rabinowitz obiettò: «E la soluzione della questione ebraica starebbe nel fatto che gli ebrei diventano luterani?» Secondo lui, chiunque poteva farsi battezzare da chi voleva «... e diventare luterano, russo o romano, ma il mio popolo, il mio gruppo, quello che il governo mi ha permesso di fondare, non può e non deve diventare tedesco, russo o romano! Non hanno nessun motivo per diventare qualcosa d'altro: loro sono ebrei, il mio popolo è Israele. Chi è che ci battezza?»
"Israeliti del nuovo patto", questo fu il nome con cui Rabinowitz volle che fossero indicati i seguaci del suo movimento: cioè ebrei credenti nel Messia che ha siglato con il suo sangue "il nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda" (Geremia 31:31) preannunciato dai profeti, e che come tali sono disposti ad assumersi lo scandalo di Cristo, ma non lo scandalo del cristianesimo.
Come si può immaginare, il successivo cammino del movimento fu irto di ostacoli, difficoltà e anche errori e sbandamenti. Ma come nel caso della nascita e crescita del sionismo, il significato di quello che è accaduto non va ricercato nello scrutinio puntiglioso e borioso di quello che hanno fatto gli uomini, ma nel riconoscimento attento e umile di quello che ha fatto Dio attraverso gli uomini. Nel movimento di Kishinev erano già presenti tutti i temi di discussione e i problemi di identità che si ritrovano oggi nel movimento degli ebrei messianici in Israele e nel mondo. L'ebraismo messianico, come il sionismo, non è un fenomeno marginale e transitorio: è una pietra miliare da cui non si torna indietro.
Nel 1888 Rabinowitz dichiarò: «Ho due soggetti che mi assorbono interamente: uno è il Signore Gesù Cristo; l'altro è Israele».
Che è anche il motto di chi cura questo sito.
(Notizie su Israele, 6 maggio 2010)
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