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Notizie 1-15 settembre 2018


Dietrofront del Comune di Trieste sul manifesto per le leggi razziali

Dietrofront del Comune sul manifesto della mostra "Razzismo in cattedra".
Dopo l'acceso dibattito di questi giorni, il Comune ha deciso di fare retromarcia sulla questione legata al manifesto della mostra promossa dal liceo Petrarca.
"La facciano pure, anche domani mattina, anche con quel manifesto" È questa l'ultima decisione del sindaco riguardante la polemica nata attorno al manifesto della mostra realizzata dal Liceo Petrarca in occasione dell'80esimo anniversario delle leggi razziali.
Secondo quanto dichiarato da Il Piccolo, il sindaco lo avrebbe definito "duro" ed "esagerato" e sarebbe stato proprio lui a chiedere, tramite l'assessore alla Cultura Rossi, di ammorbidirne i toni. Proprio questa richiesta, pochi giorni fa, aveva spinto l'insegnante responsabile del progetto a sospendere l'inaugurazione che si sarebbe dovuta tenere mercoledì scorso presso la Sala Veruda del Municipio."

(TriestePrima, 15 settembre 2018)


Perché Israele è preoccupato delle infiltrazioni cinesi nel Mediterraneo

Cina nel Mediterraneo. Gli israeliani sono preoccupati che l'infiltrazione commerciale, economica e logistica cinese sui loro porti possa compromettere la cooperazione con gli Stati Uniti.

di Francesco Bechis

Parlando a fine agosto in una conferenza organizzata dal Research Center for Maritime Policy and Strategy dell'Università di Haifa, il suo direttore, Shaul Chorev, ha sganciato una bomba: occhio ai cinesi nel Mediterraneo, noi israeliani dobbiamo fare di più per difendere le nostra sicurezza nazionale dalle penetrazioni di Pechino.
   Chorev è un alto ufficiale dei riservisti che ha servito, tra vari ruoli, come comandante della Marina e presidente della Commissione per l'Energia atomica: se si aggiunge al suo ruolo che il suo intervento è stato tenuto nell'ambito di un workshop internazionale sulla sicurezza futura nel Mediterraneo orientale, allora il peso delle sue dichiarazioni assume una certa dimensione (e spesso capita che i governi facciano uscire preoccupazioni o policy anticipandole tramite centri studi).
   Quel tratto di mare è di estremo interesse strategico: è lì che si trovano i grandi giacimenti scoperti da Eni, su cui l'azienda italiana sta lavorando su concessione egiziana, ma ci sono anche i reservoir israeliani Leviathan e Tamar, o Afridite al largo di Cipro. Aree in cui gli interessi energetici materializzano l'essenza geopolitica: da lì partono per esempio i gasdotti con cui Israele ha chiuso un deal storico con gli egiziani qualche mese fa; Roma e Cairo stanno andando oltre la crisi creata dal caso Regeni; le partnership commerciali dettano le posture dei governi; tutto nel tratto di mare che sfiora la Siria, bacino colturale di dinamiche politiche globali.
   Parlando di un'impresa cinese che inizierà a gestire il porto di Haifa (la Shanghai International Port Group, che ha ampliato i moli e ha un cronoprogramma per essere operativa nel 2021 con un contratto venticinquennale), Chorev ha detto che Israele deve creare "un meccanismo che esamini gli investimenti di Pechino per garantire che non mettano a rischio gli interessi di sicurezza di Israele" - nei giorni scorsi, il quotidiano Haaretz ha scritto di un'altra ditta cinese che ha vinto la gara d'appalto su un altro porto israeliano, ad Ashdod, nel sud.
   "Quando la Cina acquisisce i porti", ha detto Chorev, "lo fa con il pretesto di mantenere una rotta commerciale dall'Oceano Indiano attraverso il Canale di Suez verso l'Europa, come il porto del Pireo in Grecia. Ma un orizzonte economico come questo ha un impatto sulla sicurezza? Noi in Israele non stiamo valutando sufficientemente questa possibilità".
   L'interesse sulla presenza cinese è argomento piuttosto attuale: da quando l'espansione discreta promossa dal presidente Xi Jinping negli anni passati, nell'ottica infrastrutturale della Nuova Via della Seta (i calcoli del CSIS dicono che Pechino ci investirà circa 8 trilioni di dollari), ma anche nella dimensione geopolitica, è diventata più evidente e soprattutto più dibattuta - complice anche l'allarme alzato dall'amministrazione Trump, che con la Cina sta combattendo per mantenere il ruolo di potenza globale di riferimento.
   Invitata alla conferenza c'era anche una delegazione del governo americano. Uno dei funzionari senior inviati da Washington, Gary Roughead, ex capo delle operazioni navali, ha ventilato un'ipotesi: la Sesta Flotta statunitense in futuro avrebbe anche potuto pensare ad Haifa come hub, ma alla luce dell'acquisizione cinese, la questione non è più all'ordine del giorno (è per certi versi una buona notizia per l'Italia, visto che finora la Sesta, che è la flotta della Us Navy che gestisce il Mediterraneo, ha la sua base principale alla Naval Support Activity situata a lato dell'aeroporto Capodichino di Napoli, ndr).
   Per Chorev l'argomento è stringente, visto che ad Haifa si trova la flotta di sottomarini strategici israeliani, e la presenza cinese potrebbe mettersi di traverso alla cooperazione tra Israele e Stati Uniti. È del tutto logico pensare che la Cina possa sfruttare Haifa anche come scalo per attività di carattere militare, e gli americani non intendono sovrapporsi in modo così ravvicinato nello stesso bacino.
   Gli Stati Uniti temono che le loro navi finiscano sotto la lente, fisica e cyber, cinese: "I sistemi di informazione e le nuove infrastrutture integrate nei porti e la probabile presenza di sistemi di sorveglianza elettronica metterebbero a repentaglio le informazione e la sicurezza informatica della Us Navy ", ha spiegato Roughead. "Questi fattori non escludono visite in porto, ma impediscono l'homeporting e altri progetti e iniziative protratti nel tempo" tra Israele e Usa ad Haifa.
   Chorev s'è lamentato: ha ammonito gli americani che si stavano concentrando troppo sul Persico (dove c'è un confronto con l'Iran piuttosto spinto dai paesi del Golfo, soprattutto Emirati Arabi e poi i sauditi) e sul Mar Cinese (dove Pechino rivendica diritti territoriali contro altri alleati americani per isolotti apparentemente insignificanti, che però segnano le rotte di tratte commerciali super-nevralgiche tra Pacifico e Indiano).
   Posizionamenti che vanno a discapito del Mediterraneo, che hanno permesso l'ingresso anche della Cina nel bacino, dove ormai la Russia è stanziale, con il rafforzamento in Siria alla base navale di Tartus. Pechino da sempre è contraria alla creazione di basi all'estero (la prima è stata costruita a Gibuti e inaugurata da non molto, a poca distanza da un'importante istallazione americana): le attività mediterranee non sono finalizzate semplicemente alla presenza armata, ma Chorev fa notare che le infiltrazioni commerciali-logistiche-economiche possono creare un contesto ibrido per la Cina in cui muoversi anche militarmente e giocare la propria dissuasione.

(formiche.net, 16 settembre 2018)


25 anni dopo Oslo: l'illusione di un accordo con chi vuole la tua distruzione

Un bilancio degli storici accordi firmati da Rabin Arafat 25 anni fa nella capitale norvegese

Sono appena passati i venticinque anni dagli accordi di Oslo e nessuno ha celebrato in maniera particolarmente festosa il quarto di secolo di un'intesa che fu presentata allora come storica. C'è stato un tentativo di convegno promosso dai sostenitori dell'accordo presso l'albergo American Colony di Gerusalemme (che è una collocazione molto significativa perché è il luogo dove alloggiano giornalisti e politici anti-israeliani quando vengono a Gerusalemme, una sorta di anti-King David). Dico un tentativo, perché il convegno è stato impedito da una manifestazione di militanti palestinisti, che l'hanno accusato di "normalizzazione"....

(Progetto Dreyfus, 14 settembre 2018)


Fascismo razzista. Il giorno che gli ebrei scoprirono di essere nemici degli italiani

Per la prima volta il duce giustificava al Paese e al mondo le leggi che il re aveva già firmate il 5 e il 7 settembre, preludio al 17 novembre: Regio Decreto 1728 «per la razza italiana».

di Alberto Sinigaglia

Trieste, 18 settembre 1938 - Il discorso di Mussolini contro gli ebrei
TORiNO - Il 18 settembre 1938 a Trieste Mussolini tenne un discorso tremendo contro gli ebrei. Per la prima volta giustificava al Paese e al mondo le leggi che il re Vittorio Emanuele III aveva già firmate il 5 e il 7 settembre, preludio sinistro al 17 novembre: Regio Decreto 1728 «per la razza italiana», estremo frutto del «manifesto» dei dieci scienziati pubblicato il 14 luglio sul Giornale d Italia.
   Il duce calcolò il momento, il luogo, le parole. Avvertì importanti giornali stranieri. Scelse la città più internazionale, prossima a confini incandescenti: l'Austria invasa dal Reich, la Cecoslovacchia in pericolo, a giorni la Conferenza di Monaco. Scelse la terza comunità ebraica dopo quelle di Roma e di Milano, che contava ebrei fascisti e irredentisti. Andò a gridargli in faccia che l'ebraismo era «un nemico irreconciliabile», che si decideva per loro una «politica di separazione».
   Le «soluzioni necessarie» non sarebbero tardate: via dai libri di testo quelli scritti o curati da ebrei; via i bambini dalle scuole pubbliche e gli studenti dalle università; via i padri, le madri e i nonni dalle cattedre accademiche, dai giornali, da assicurazioni, banche, notai, pubblico impiego; spogliati della divisa coloro che avevano combattuto per l'Italia e ancora la servivano in armi; vietati i matrimoni con ariani.
   Il capo del fascismo lanciò due precisi messaggi a chi lo considerava emulo di Hitler e a chi difendeva gli ebrei: «Sono poveri deficienti» quanti credono «che noi abbiamo obbedito ad imitazioni o, peggio, a suggestioni»; «il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che i semiti di oltre frontiera e i loro improvvisati amici non ci costringano a mutare radicalmente cammino».
   Un operatore cinematografico ufficiale filmò tutto. Paolo Gobetti alla fine degli Anni 70 avrebbe acquistato la pellicola da un collezionista per l'Archivio storico della Resistenza da lui fondato con Franco Antonicelli a Torino. Vi si vede e ascolta il solito Mussolini tonitruante quella mattina in una Piazza Unità d'Italia imbandierata a festa e gremita di popolo, che acconsentiva, applaudiva, urlando di entusiasmo e invocando il suo nome. Dal punto di vista della propaganda fascista, un risultato perfetto: i termini, il tono, l'attore, la scena. Perché il cinegiornale dell'Istituto Luce mostrò soltanto l'inizio del discorso e poco più? Fu il regime a censurarlo? E per quale strategia il dittatore, pur tornando spesso al tema razziale, non dedicò agli ebrei altri discorsi di quella forza, anzi evitò di nominarli?
   Il silenzio di Mussolini li ingannò: furono in molti a illudersi, a non cercare riparo oltreoceano, a non poter immaginare che, comunque cittadini italiani, da altri italiani sarebbero stati consegnati ai nazisti e avviati ai Lager. Poiché quel destino fu segnato dal «discorso di Trieste», il Polo del '900 e l'Ordine dei Giornalisti del Piemonte hanno pensato che ad aprire le manifestazioni torinesi in memoria delle leggi razziali nulla fosse più efficace di quelle immagini e di quel sonoro: un grumo di odio, disprezzo e «chiara, severa coscienza razziale», certo inattuale, ma salutare alla memoria.

(La Stampa, 15 settembre 2018)


1938: primo giorno di non-scuola per il piccolo Renzo, ebreo

Bemporad aveva sei anni, alla Regina Elena conobbe le leggi razziali Costretto nella sezione speciale, separato e deriso dagli "italiani"

di Maria Cristina Carratù

I due flussi di bambini erano divisi tra la mattina e il pomeriggio: "Mica mi rendevo conto, l'ho capito dopo .." Gli effetti del fascismo: mentre prima ci si salutava appena al Tempio di via Farini, ora ci sentivamo amici

 
Gruppo scolastico di bambini ebrei al Tempio di via Farini
Renzo Bemporad, classe 1932. In quel fatidico 1938 aveva compiuto 6 anni 1'11 febbraio. Non sapeva niente di quello che il Manifesto per la razza, emanato già in luglio, e le leggi che, fra il settembre e il novembre, avrebbero delineato la politica razziale del regime fascista, gli avrebbero apparecchiato per la vita. I suoi genitori, invece, sì. O lo immaginavano. Tutto avvenne, infatti. E trasformò l' «atteso e sognato» primo giorno di scuola del piccolo Bemporad, nel suo primo giorno di non-scuola. Renzo ha oggi 86 anni, e la memoria lunga. Ricorda bene il giorno in cui, dopo aver frequentato la "primina" a 5 anni a Venezia, dove era nato, si avvia, dando la mano ai genitori, verso la Scuola Regina Elena, in via Masaccio.
   La famiglia si è trasferita a Firenze da poco, il babbo, Giorgio, è dipendente della Singer, la mamma, Bianca Clemente Bassani, casalinga, e c'è anche Franco, nato nel '30. Sono una famiglia felice. Anzi no: lo saranno ancora per poco. I due bambini sono stati appena esclusi da tutte le scuole del Regno perché "di razza ebraica", e sono destinati alla sezione ebraica appena costituita presso la "Regina Elena". Dove di mattina le aule sono riservate ai bambini "italiani" - cioè, per via dell'abnorme slittamento semantico imposto dal regime,"cristiani", anche se non credenti - , e il pomeriggio agli ebrei. Renzo non sa, non capisce, «mica mi rendevo conto, che non era una scuola come le altre», racconta, con in mano la pagella di allora e qualche foto, sopravvissute al disastro che ha portato, con la guerra, alla distruzione totale di ogni avere della famiglia, insieme alla bella casa di via della Robbia. «L'ho capito poco dopo, però ... »,
   E cioè quando, a fine mattinata, i due flussi di bambini, quelli che escono di classe, e quelli che entrano, si incrociano per strada. I ragazzi "normali" - «come sanno essere cattivi, i ragazzi! - hanno saputo (da chi? dai loro pii genitori?) chi sono gli "altri", e quando li vedono, diretti alla scuola del pomeriggio, li assalgono: «Ebreaccì, ebreacci!». «Chi sono, gli ebreaccì?», chiede Renzo stupito. I genitori tacciono. Quel tono sprezzante gli penetra dentro come una lama, e presto se ne renderà conto da solo. La sua classe è mista, con dentro ragazzi nati fra il 1930 e il 1932, e che si chiamano Sadun, Salmon, Coen, Modigliani, Forti, Servi... Ebrea, per obbligo, è anche la maestra, Anna Maria Curiat, una delle tante cacciate a loro volta dalle scuole 'ufficiali', come la direttrice, Fanny Rubischetk, cui non è servita, a salvarla dal nuovo 'ghetto' scolastico, l'iscrizione all'Associazione Nazionale Fascista della Scuola Primaria. La persecuzione era cominciata, ed era solo l'inizio. Renzo è bravo, sulla pagella dell'anno scolastico '38-'39 ha un "lodevole" in tutte le materie. «Andavo a scuola volentieri, ero curioso, attento» ricorda. Nemmeno lì, nella sezione ebraica, il regime rinuncia a fare propaganda: gli altoparlanti interni sparano i discorsi del Duce, libri e quaderni abbondano dei suoi motti e delle sue foto. A Renzo non è ancora chiaro «cosa significasse essere diversi dagli altri», ma intanto, per beffarda eterogenesi dei fini, il fascismo fa capire ai ragazzi ebrei chi erano: «Mentre prima ci si salutava appena al Tempio di via Farini, ora ci sentivamo amici».
   Renzo e Franco vanno alle adunate dei Balilla e dei Figli della Lupa, con la "M" di Mussolini sul petto, partecipano alla Befana fascista. Ma la Storia ha imboccato la sua china perversa. I ragazzi con cui giocavano in strada, ora li scansano. E babbo Giorgio, un bel giorno, perde il lavoro alla Singer. Aprirà un negozio di tessuti in centro, unica attività consentita agli ebrei. «Difficile capire se la gente sapesse davvero chi fosse un 'ebreo'», dice Renzo. «Ma fu meno grave, per questo, tutto ciò?», Intanto, è scoppiata la guerra, e la vita, se possibile, si complica ancora. Nel giugno '42 Renzo affronta l'esame di quinta elementare. «Mostrai all'insegnante esterna il mio documento, con su scritto: 'è di razza ebraica'. E lei, davanti a tutti, esclamò: 'Ah! Sei un ebreo!' Sentii addosso gli occhi di tutti, avrei voluto sprofondare». Malaugurante viatico.
   Renzo fa appena in tempo a frequentare la prima media alla Scuola della Comunità ebraica, e nel '43 la famiglia Bemporad deve fuggire da Firenze, avvertita di una probabile retata, riparando a Levane Alta, dove resta sotto falso nome fino al '45. E lì, niente scuola. Al ritorno a Firenze, nel '45, non troverà più nulla: né la casa, occupata e saccheggiata, né il negozio, mandato in malora dalla prestanome cui era stato intestato. Nel '46 Giorgio muore di tumore. Bianca resta sola coi tre figli (nel '40 era nata la piccola Anna). «Comincia un'altra guerra», quella contro la povertà. Renzo, finite le medie, si iscrive all'Istituto per geometri. È bravissimo, e il preside gli offre di restare senza sostenere spese. Ma la famiglia non ha di che sfamarsi, e lui, a un passo dalla maturità, è costretto a lasciare: «Tanti svogliati continuavano, io dovevo lavorare. Fu intollerabile». Ha 18 anni, entra come contabile in una ditta di bomboniere. Farà carriera, metterà su famiglia. Le disgrazie, quando non uccidono, corazzano.
   «Il peggio era passato, sì», Ma sarebbe mai passato davvero, dentro di lui? Per sgravarsi del suo peso, nel 2011 Renzo ha scritto un libro, rimasto chiuso nel cassetto. «Per far sapere, e per curare me stesso». Si intitola: Perché proprio ora? Una specie di Kaddish -la preghiera ebraica dei morti, recitata in ricordo dello scolaro che la Storia gli ha impedito di essere.
   
(la Repubblica - Firenze, 15 settembre 2018)


"L'Onu riconosca il genocidio dei cristiani"

Appello coraggioso di giuristi, ma a Ginevra siedono i carnefici

di Giulio Meotti

ROMA - Ieri è uscita la notizia che i diciannove martiri cristiani assassinati dai fondamentalisti islamici in Algeria tra il 1994 e il 1996 saranno proclamati beati nel santuario di Notre-Dame di Santa Cruz di Orano il prossimo 8 dicembre. La scelta della città richiama la figura di Pierre Claverie, il vescovo ucciso da un commando islamista. Quelle suore, monaci trappisti e padri bianchi finalmente avranno la beatitudine che meritano. Ma un genocidio ai danni di cristiani consumatosi non vent'anni fa, bensì ieri, fatica a essere persino riconosciuto da quella che in teoria è la più alta istanza mondiale dei diritti umani. La scorsa settimana, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha aperto la sua terza e ultima sessione dell'anno. Si svolgerà dal 10 settembre al 28 settembre e l'European Center for Law and Justice, che presenterà un appello (con raccolta di 800 mila firme) perché l'Onu riconosca la persecuzione dei cristiani in Iraq e in Siria come "genocidio", come sancito dalla Convenzione sulla prevenzione del genocidio. Risoluzioni che affermano il genocidio dei cristiani sono state approvate dall'Assemblea nazionale francese, dal Parlamento europeo, dal Congresso americano e dalla Camera dei Comuni di Londra, fra gli altri. "Sebbene l'Isis sia indebolito e spaventato, il micidiale genocidio contro i cristiani ha lasciato una inimmaginabile crisi umanitaria" si legge nell'appello all'Onu. "Ci sono due azioni che l'Onu deve assumere immediatamente. Dichiarare che le atrocità contro i cristiani costituiscono genocidio. E fornire l'assistenza e la sicurezza necessarie per consentire il recupero dalla distruzione causata dal genocidio e consentire il re-insediamento delle vittime". Già lo scorso 25 maggio, l'European Center for Law and Justice aveva chiesto che l'Onu nominasse un consigliere speciale al fine di raccogliere le prove del genocidio, già note da tempo.
   Secondo un recente rapporto di Aiuto alla chiesa che soffre, tra l'inizio della guerra in Siria e il 2017, il numero di cristiani è sceso da 1,5 milioni a 500 mila, forse anche meno. Ad Aleppo, che ospitava la più grande comunità cristiana, i numeri sono scesi da 150 mila a 35 mila nella primavera del 2017 , con un calo di oltre il 75 per cento. In Iraq, l'ottanta per cento dei cristiani è fuggito da quel paese e si prevede che il cristianesimo in Iraq potrebbe essere sradicato "entro il 2020", se la popolazione continuasse a diminuire.
   Schiavitù sessuale, conversioni forzate, sparizioni, uccisioni di vescovi e prelati, comunità intere diventate "fantasma", distruzione di chiese e tombe dei santi: è la realtà vissuta dai cristiani mediorientali in questi anni. Ma considerando l'alta concentrazione di regimi arabo-islamici nel Consiglio dei diritti umani è improbabile che l'istanza venga accolta e fatta propria dall'Onu. Qatar, Afghanistan, Pakistan e Arabia Saudita, per citarne alcuni, siedono proprio in quell'organismo dell'Onu e sono non soltanto fra i paesi più pericolosi al mondo per i cristiani (Asia Bibi è chiusa da tremila giorni in un lurido carcere pakistano), ma sono anche quelli che hanno ideato, diffuso e finanziato l'ideologia islamista che ha fatto terra bruciata delle comunità cristiane fondate da san Tommaso duemila anni fa e che parlano ancora l'aramaico, la lingua di Gesù. I cristiani orientali, marchiati con la nun di nazareni, sono i cani randagi dell'occidente. E poi, il bersaglio prediletto in questi anni del Consiglio dei diritti umani di Ginevra è sempre e soltanto Israele, l'unico paese mediorientale, guarda caso, dove il numero dei cristiani aumenta.
   
(Il Foglio, 15 settembre 2018)


Egitto a Israele: le coste del Sinai sono sicure

Invito ai turisti israeliani, ma l'allerta resta elevata

L'Egitto ha chiesto ad Israele di annullare gli avvertimenti ai suoi cittadini di astenersi dal visitare il Sinai e ha assicurato che le sue località turistiche situate lungo le coste sono protette da ingenti reparti di sicurezza. Lo scrive il quotidiano Yediot Ahronot. Eppure il Consiglio per la sicurezza nazionale israeliano conferma anche oggi che nella penisola del Sinai resta grave la minaccia di attentati contro turisti, inclusi quelli israeliani, da parte dei gruppi armati locali sostenitori dell'Isis. Pertanto consiglia ai cittadini israeliani di non compiervi visite.
   Il vice ambasciatore egiziano in Israele, Kamel Galal, ha detto ad una parlamentare israeliana che negli ultimi anni migliaia di militari sono stati inviati nel Sinai per tenere separato il nord della penisola dalla parte meridionale, che è quella più visitata dai turisti.
   
(ANSAmed, 14 settembre 2018)


Ebrei in terre d'Islam tra scambi e persecuzioni

Presentato in anteprima nazionale a Ferrara il libro 'La stella e la mezzaluna' con Antonia Arslan e Vittorio Robiati Bendaud.

di Federico Di Bisceglie

 
da sin. Antonia Arslan, Vittorio Robiati Bendaud e Gianandrea Gaiani
FERRARA - «Era naturale che la tappa di partenza di questo libro fosse Ferrara: per sottolineare ancora una volta quanto il legame tra la città e il popolo ebraico sia profondo». A parlare è la scrittrice italiana di origine armena, Antonia Arslan, autrice del bestseller La masseria delle allodole, curatrice della nota introduttiva al testo di Vittorio Robiati Bendaud, La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell'Islam (Guerini e Associati).
   Presentato in anteprima nazionale mercoledì in un Palazzo Roverella gremito, il testo «è un viaggio che parte da lontano e arriva a lambire i primi del '900 che dà una visione oggettiva dei fatti accaduti. E' un libro - continua la scrittrice - insufflato di calda umanità, che prende le mosse da un'analisi approfondita delle fonti storiche, corredato da vasta bibliografia, nel quale emerge l'importanza delle minoranze». Di qui, inevitabile è il parallelo con il popolo armeno: «Si pensi solamente - spiega la scrittrice - che gli Armeni erano chiamati, dalla stampa tedesca di metà '800, 'gli ebrei del Medio Oriente'».
   Dialogando con il caposervizio del Carlino Ferrara, Cristiano Bendin, Vittorio Bendaud ha premesso le ragioni personali che lo hanno spinto a comporre l'opera: «Una parte della mia famiglia proviene da Bengasi». Ragioni familiari ma anche storiche: «C'è molta confusione - spiega - in chi affronta questo tipo di tematiche perché parlare di ebrei nei domini dell'Islam dà fastidio a un certo establishment, anche ebraico». Un libro che aiuta a fare piazza pulita di alcuni luoghi comuni sui rapporti tra ebrei e musulmani. «Fino a metà del diciannovesimo secolo - scandisce l'autore - tra i due popoli c'è stata una convivenza caratterizzata da alti e bassi. Momenti di scambio culturale e di relativa pace e momenti di violenza e tensioni.
   In ogni caso, a regolare i rapporti tra maggioranza musulmana e minoranze ebraica e cristiana era lo statuto giuridico della dhimma, (letteralmente 'stato di protezione'), che costringeva de facto a una subordinazione agli islamici». La miccia dello scontro si accende a metà del 1800, molto prima dunque della nascita dello Stato di Israele. Un ruolo decisivo, secondo Bendaud - che nella stesura del testo si è avvalso di fonti inedite in Italia - lo avrebbero avuto certe facoltà umanistiche europee che, in qualche modo, fomentarono l'antisemitismo.
   Molti gli episodi di vita reale citati dall'autore: «In Marocco - spiega Bendaud - gli ebrei erano costretti a vestirsi di nero, ad inchinarsi di fronte ai musulmani. Venivano derisi e ad alcuni scagliavano pietre o sputi. Per non parlare di chiese e sinagoghe, che dovevano essere costruite più basse delle moschee». Frizioni ma anche punti in comune. Uno su tutti la lingua: «Sono molti - spiega Bendaud - i prestiti tra arabo ed ebraico, numerose le parole simili nella formulazione e nella pronuncia». Sul dialogo ebraico - cristiano Bendaud non ha dubbi: «Ad oggi langue, ma è auspicabile che prosegua in maniera proficua». Dall'analisi storico-culturale all'attualità.
   Per Gianandrea Gaiani, direttore di AnalisiDifesa, «l'Islam è la più grande minaccia per l'Europa e per le democrazie europee». «Pochi mesi fa a Bologna e a Milano - racconta - si è inneggiato alla morte degli ebrei e alla distruzione d'Israele nel silenzio generale. Come arginare, quindi, questa violenza considerando la sempre più massiccia presenza di islamici in Italia?» Inevitabile un passaggio sugli «investimenti delle monarchie Saudite che fanno gola».

(il Resto del Carlino,14 settembre 2018)


Trieste - Leggi razziali, manifesto censurato: salta la mostra del liceo

L'assessore alla Cultura Giorgio Rossi ha chiesto la modifica del manifesto della mostra "Razzismo in cattedra" promossa dal liceo Petrarca in occasione dell'80esimo anniversario delle leggi razziali.

Il Comune di Trieste ha chiesto al liceo Petrarca di modificare il manifesto di una mostra organizzata in occasione dell'80esimo anniversario delle leggi razziali. Si tratta di una foto in bianco e nero che rappresenta tre ragazze sorridenti e la prima pagina del Piccolo del 1938 che annuncia la cacciata di studenti ed ebrei dalle scuole. L'immagine era stata scelta per la mostra "Razzismo in cattedra", promossa dal liceo Petrarca in collaborazione con il Dipartimento di Studi umanistici dell'Università, il Museo della Comunità ebraica di Trieste, l'Archivio di Stato e, ovviamente, il Comune che ne ha preteso la modifica a fronte della coorganizzazione dell'evento e della concessione della sala.
La mostra non è stata nemmeno inaugurata in quanto il liceo, sentite le richieste avanzate dall'assessore comunale alla Cultura Giorgio Rossi, ha deciso di sospenderla in attesa di trovare una sede alternativa.

 Il commento dei consiglieri comunali del M5S
  "La decisione dell'assessore comunale alla Cultura, Giorgio Rossi, di censurare la locandina della mostra sulle leggi razziali del '38 è sconcertante". Lo scrivono in una nota i consiglieri comunali del M5S Trieste, che aggiungono: "Non capiamo cosa ci fosse di sconveniente in quel manifesto e come avrebbe potuto innescare polemiche la sua esposizione. Ricordare il nefasto evento della proclamazione delle leggi razziali annunciate da Mussolini in piazza Unità è un dovere sacrosanto di ogni amministratore della nostra città, e quella mostra sarebbe andata in questa direzione".

 Il commento di Sabrina Morena, coalizione centrosinistra
  "Solidarietà agli organizzatori/trici e agli studenti del progetto #Razzismoincattedra". Ha dichiarato il consigliere comunale Sabrina Morena commentando la richiesta dell'assessore Rossi. "Mi spiace tanto per gli studenti/esse che hanno lavorato con passione e si sono visti censurati - ha aggiunto Morena-. Con i colleghi dell'opposizione abbiamo presentato un'interrogazione al Comune di Trieste. È diseducativo comportarsi in questo modo con i giovani che approfondiscono la storia e le tragiche manifestazioni dell'intolleranza. Chiedo al Comune di ravvedersi e di organizzare la mostra senza censure come previsto. Chiedo inoltre al Sindaco e la giunta di prendere una posizione contraria chiara e netta, rispetto a tutti gli episodi e le iniziative di intolleranza e di discriminazione che accadono in città".

(TriestePrima, 14 settembre 2018)


La sindaca Raggi inaugura la mostra sulle leggi antisemite

Teme che l'intolleranza possa ancora far capolino

di Franca Giansoldati

 
ROMA - Ci sono le pagelle dei bambini ebrei che dopo il 1938 non hanno più potuto frequentare la scuola, ci sono i libri pubblicati in quel periodo con le tesi della razza italica approvate dal fascismo, ci sono documenti, fotografie ingiallite, denunce alla questura, oggetti che attestano l'abominio subìto dalla comunità ebraica. La mostra sulle leggi del 1938 inaugurata ieri al Musei Ebraico, proprio sotto la sinagoga, ha un enorme valore simbolico. La sindaca di Roma, Virginia Raggi ascolta le spiegazioni di Ruth Dureghello, accompagnata dalla sottosegretaria della Lega, Lucia Bergonzoni. Una signora, al termine della inaugurazione, si avvicina alla Raggi per chiederle se non sia preoccupata per quello che sta accadendo ed è sotto gli occhi di tutti, un elevato tasso di intolleranza e di razzismo e se non tema che possa accadere ancora quello che è già accaduto in passato. «Si lo temo, lo temo anche io» sussurra. Poi spiega del lavoro che si sta facendo nelle scuole per educare, fare capire, aiutare a dare ai ragazzi tutti gli elementi necessari per non cadere nella trappola dell'odio.
   Eppure il tasso di antisemitismo è piuttosto alto anche a Roma. La presidente della comunità ebraica, Ruth Dureghello conferma l'attività che stanno facendo assieme al Campidoglio senza omettere la presenza di rigurgiti antisemiti, una corrente carsica che non sembra fermarsi. "Vogliamo insegnare alle nuove generazioni che non hanno esperienza diretta del fascismo e dalla Shoah che il pericolo è sempre dietro l'angolo". In Europa da tempo soffia un vento ostile, le comunità ebraiche francese, austriaca e tedesca ne hanno parlato più volte apertamente. Il rabbino capo di Roma, preferisce non fare commenti sull'Italia. Si limita a dire «non voglio fare politica».

(Il Messaggero, 15 settembre 2018)


Arabia Saudita - Il principe tratta con Israele per l'acquisto dell'Iron Dome

di Giordano Stabile

L'Arabia Saudita è pronta ad acquistare il sistema anti-missile israeliano Iron Dome per proteggere la sua frontiera meridionale dagli Scud lanciati dai ribelli sciiti Houthi dallo Yemen. L'annuncio dell'accordo è stato dato dai media del Golfo. Se confermato segnerebbe un balzo storico nelle relazioni fra il Regno saudita e lo Stato ebraico, due Paesi che collaborano in segreto da anni nel campo dell'Intelligence e della sicurezza ma che non hanno ancora relazioni diplomatiche. Il principe ereditario Mohammed bin Salman sta spingendo per la normalizzazione dei rapporti ma pesa ancora la questione palestinese e di Gerusalemme e quindi quel passo è ancora prematuro.
  Molto più urgente il problema posto dai guerriglieri sciiti che da tre anni e mezzo tengono in scacco la Coalizione sunnita guidata da Riad. Gli Houthi hanno riciclato i vecchi missili forniti negli Anni Settanta dall'Unione sovietica all'esercito yemenita. Hanno tentato di colpire più volte la capitale saudita senza successo, ma hanno messo a segno attacchi alle basi militari saudite lungo la frontiera. Per questo, oltre ai Patriot americani, Riad ha bisogno di un sistema che intercetti gli ordigni a più corta gittata. E in questo campo l'Iron Dome è considerato il migliore al mondo.

 Trattativa ancora in corso
  L'annuncio del contratto è stato dato dal giornale Al-Khalij, cioè "Il Golfo", con sedi principali a Dubai e Londra. Forse troppo in anticipo, perché nella serata di ieri il Ministero della Difesa israeliano ha smentito che fosse già concluso. Ma le trattative sono in corso. La riservatezza è dovuta più ai problemi politici interni sauditi che israeliani. Due mesi fa il capo di Stato maggiore delle forze armate israeliane, Gadi Eisenkot, aveva detto al giornale saudita Elaph che Israele era pronta a condividere notizie di Intelligence con l'Arabia Saudita. Più che un proposito, una confessione, perché la collaborazione già esiste sui rapporti fra l'Iran e gli Houthi e sulle loro vie di rifornimento segrete.
  Secondo il giornale Al-Khalij, è stata l'America a condurre la mediazione per la vendita del sistema antimissile, in una serie di incontri a tre a Washington. Gli Stati Uniti spingono per quest'accordo anche perché vogliono impedire un'intesa sulla vendita del sistema S-400 da parte della Russia all'Arabia Saudita. L'amministrazione Trump vuole cementare l'alleanza fra l'asse sunnita e lo Stato ebraico e tenere fuori i russi dalla Penisola arabica, dopo che ha dovuto subire il riavvicinamento fra Mosca e Ankara, suggellato proprio dalla vendita degli S-400.

(La Stampa, 14 settembre 2018)


Viaggio EDIPI agosto 2018

Anche quest'anno il viaggio istituzionale di EDIPI, finalizzato al sostegno delle congregazioni messianiche d'Israele, si è concluso con il brillante conseguimento degli scopi ed obbiettivi prefissatici.
 In particolare abbiamo visitato quattro congregazioni messianiche:
  • ad Ashdod curata dal pastore Israel Poctar in forte crescita giovanile con il progetto di un nuovo e spazioso locale per le riunioni;
  • a Jaffa presso Beit Emmanuel dei coniugi David e Michaela Lazarus gemmellati con EDIPI fin dal 2005;
  • a Gerusalemme da Menachem Kalisher nella più grande congregazione messianica della capitale d'Israele;
  • a Ein Kerem nella suggestiva sede di Beit Netanel per incontrare Rachel dall'impareggiabile spirito evangelistico, gemellata pur essa con EDIPI dal 2010.
Ovviamente le visite alle congregazioni messianiche si sono intrecciate con le tappe di contenuti turistico-archeologico che hanno avuto come protagonista il famoso archeologo Dan Bahat.
 Di rilievo la parte istituzionale che ha avuto inizialmente, nella visita all'Indipendence Hall di Tel Aviv, il momento più toccante, ricordando la data del 14 maggio 1948 cantando l'Hatikva tutti insieme.
 La parte più importante di questo viaggio era comunque l'incontro con l'Ambasciatore d'Italia in Israele, al Villaggio Goldstein di Gerusalemme.
 In questo posto c'è un importante college per giovani ebrei che vogliono fare l'Aliya; una volta terminati gli studi facendo il militare hanno automaticamente la cittadinanza israeliana. Tra le molte attività del college, c'è, di rilievo, quella musicale evidenziata da un importante Auditorium. Questo grande locale è intitolato a Luigi Einaudi.

FOTO 1: La sala dove Ben Gurion pronunciò il discorso per la nascita dello Stato d'Israele.

FOTO 2: Manifesto commemorativa della vicenda Castiglioni con i loghidelle tre associazioni coinvolte nell'iniziativa

FOTO 3: Presentazione della storia di Ettore Castiglioni illustrata dal presidente di EDIPI, past. Ivan Basana, all'Ambasciatore d'Italia Gianluigi Benedetti

FOTO 4: La targa in ceramica esposta all'entrata dell'Auditoruim "Luigi Einaudi" del Villaggio Goldstein

FOTO 5: Ivan Basana e Susanna Kokkonen con il DVD "Oltre il confine" dei registi Azzetti & Massa premiati al Filmfestival della montagna di Trento nel 2017

FOTO 6: Parte del gruppo EDIPI con Fulvio Canetti, coautore del libro “Sta scritto”

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 A questo punto è bene ricordare che il futuro primo presidente della Repubblica Italiana, ricercato dai nazifascisti, fu salvato assieme a molti ebrei da un tenente degli alpini che dopo l'8 settembre del '43 si diede alla clandestinità per salvare ebrei e perseguitati politici italiani attraverso valichi alpini con la Svizzera che solo lui conosceva. In un ultimo tentativo purtroppo fu sorpreso da una tempesta di neve trovando la morte per congelamento in una grotta.
 Questo eroe, sconosciuto ai più, era Ettore Castiglioni e abbiamo voluto onorarlo scoprendo una targa alla sua memoria proprio il 28 agosto, giorno del 110o anniversario della sua nascita. La presenza dell'Ambasciatore d'Italia in Israele Gianluigi Benedetti ha rappresentato l'alto riconoscimento dovuto ad un giovane militare italiano che diede la vita per salvare ebrei e italiani dalla furia nazifascista.
 A latere di questo incontro abbiamo consegnato alla responsabile di Christian Friends of Yad Vashem, Susanna Kokkonen, una copia autografata dai registi Azzetti & Massa del DVD sulla vicenda Castiglioni, con l'importante testimonianza di uno dei figli degli ebrei salvati. Il documentario verrà messo nell'archivio di Yad Vashem sulle testimonianze italiane: il dono è stato molto gradito in quanto sono pochi i documenti cinematografici in lingua italiana.
 Per finire abbiamo presentato il libro "Sta scritto", opera a "4 mani" del dr. Fulvio Canetti e del prof. Marcello Cicchese alla Christ Church di Gerualemmme; un libro originale scritto al 50% da un ebreo e per l'altro 50% da un evangelico. Per inciso, ricordiamo che una copia è stata donata anche all'Ambasciatore d'Italia in Israele Gianluigi Benedetti in prospettiva della presentazione del libro all'Istituto di Cultura Italiana dell'Ambasciata Italiana a Tel Aviv.

(EDIPI, 14 settembre 2018)


Leggi razziali «Il silenzio dei magistrati»

Il dibattito al Csm. Quei giudici divisi tra ignavi ed eroi nell'Italia del '38. Il consigliere Morosini ha ricordato «i magistrati che si sono battuti contro la violenza nazi-fascista», ma anche la scarsa opposizione al regime.

di Giovanni Maria Jacobazzi

«Noi ogni anno, anche qui al Csm, commemoriamo giustamente le vittime del terrorismo e della mafia. Magistrati leali, coraggiosi, che si sono distinti per una passione civile e democratica che hanno pagato con la vita. Ecco, io credo che dovremmo dedicare almeno un giorno alla memoria di magistrati che durante il Ventennio si sono battuti contro la violenza nazi-fascista», dichiara il consigliere togato Piergiorgio Morosini intervenendo ieri nel corso del Plenum straordinario con la presidente della Corte suprema d'Israele.
  La memoria va a magistrati come il giudice Vincenzo Giusto del Tribunale di Cuneo, morto partigiano e medaglia d'oro alla Resistenza o al consigliere Ferrero, arrestato nel 1944, percosso, insultato come "traditore" e infine fucilato dalla milizia nazifascista. Il rapporto fra magistratura e fascismo è da sempre un tema su cui non si ama discutere. Anzi. Per anni si è preferito evitare ogni riferimento a quello che avvenne nei Tribunali italiani durante il Regime. Basti pensare che fino al 2012, a piazza Cavour, fra tutti i ritratti dei procuratori generali della Corte di Cassazione, l'unico non presente era quello di Raffaele de Notaristefani, epurato da Mussolini nel 1923 a causa del suo antifascismo. Il 25 luglio del 1943 il Gran consiglio del fascismo votava l'ordine del giorno Dino Grandi. Sostanzialmente un atto di sfiducia contro la politica del Duce che, come prima conseguenza, determinò la precipitosa fine del fascismo. La dittatura aveva però condizionato in maniera indelebile la storia del Paese e delle sue istituzioni. Su come si comportarono le toghe dopo l'approvazione delle leggi razziali è sempre Morosini a fornire la risposta: «Se leggiamo le sentenze dell'epoca (1938-1943), notiamo un orientamento dei giudici italiani diverso rispetto ai colleghi della Germania nazista. Non sposarono mai approcci smaccatamente filo-regime in cui il giudice "costituisce il legame tra diritto e politica", facendosi interprete del "comune sentimento del popolo". Sulla carta i giudici italiani si rifugiarono nel tecnicismo. La maggior parte di loro si attenne ad una rigorosa lettura delle norme, dandone una interpretazione restrittiva. Ma la presunta neutralità e apoliticità del loro agire non evitò loro il ruolo di "dispensatori di ingiustizia". Non ebbero neppure la forza di mettere in discussione un nuovo assetto dei poteri dello Stato che si delineava sulla questione razziale».
  Per poi aggiungere: «Ma non ci fu solo l'"ignavia giurisprudenziale". Pur raggiunti in prima persona dalla capillarità delle interdizioni antisemite, i magistrati rimasero inerti e silenti». Con una triste constatazione: «Non risulta che alcuno dei circa 4200 magistrati in servizio abbia in qualche modo preso le distanze, magari rifiutando di rispondere alla richiesta di dichiarare la propria appartenenza razziale, ovvero in qualche modo manifestando solidarietà nei confronti dei colleghi rimossi dal servizio. Tutto continuò come se nulla fosse successo». Morosini formula un'ipotesi sulle ragioni di questo comportamento: «Forse tutto questo era il frutto anche della assenza di un associazionismo tra magistrati in grado di far sentire la sua voce su grandi questioni. D'altronde l'importanza dell'associazionismo tra magistrati, oggi sottovalutato da molti colleghi». «Ai magistrati che si opposero al fascismo va attribuito un posto nel pantheon dei Giusti», ha dunque concluso Morosini.

(Il Dubbio, 14 settembre 2018)



Ultraortodossi e liberal

Tra
gli ebrei ultraortodossi
che mi tirano le pietre
se solo faccio il nome di Gesù davanti a loro
e

gli ebrei liberal
che vorrebbero inserire il “mio Gesù”
tra i predicatori dell’amore universale
scelgo senza esitazione i primi.
M.C.

 


Siria, Israele interrompe gli aiuti umanitari ai civili

L'operazione Buon Vicinato è iniziata nel 2013. Ma adesso, la vittoria di Assad nel sud della Siria ha cambiato i piani di Israele.

di Renato Zuccheri

Israele interrompe l'operazione "Buon Vicinato", la campagna con cui le Israel defense forces hanno assicurato aiuti umanitari a migliaia di civili siriani in tutti gli anni della guerra in Siria.
   L'operazione ha avuto soprattutto come obiettivi la fascia dei territorio siriano a nord del confine con Israele, quello controllato dai gruppi ribelli. In questo modo, lo Stato ebraico ha sostenuto la popolazione locale assicurandosi il confine sia dall'esercito di Damasco (e dalle forze legate all'Iran) sia dallo Stato islamico.
   I militari israeliani hanno però spiegato che adesso la situazione del conflitto è cambiata. E gli aiuti umanitari non erano più convenienti una volta che l'esercito siriano ha ripreso il controllo di tutto il territorio. Bashar al Assad si è assicurato tutto il confine con Israele sotto la protezione della Russia e con l'accordo delle altre potenze coinvolte, E adesso il governo di Benjamin Netanyahu ha anche abbandonato i ribelli sostenuti nel corso di questi anni.
   Negli ultimi anni, l'operazione Buon Vicinato ha comunque avuto degli effetti concreti sulla popolazione, a prescindere dal giudizio politico. Secondo i dati delle Idf, è stato possibile trasferire 4900 feriti siriani, tra i quali 1300 bambini, negli ospedali israeliani e sono stati forniti aiuti a decine di migliaia di civili. Iniziata nel 2013, l'operazione aveva lo scopo strategico di mostrarsi come potenza benefica nei confronti della popolazione locale, in modo da guadagnarsi il suo favore in caso di rovesciamento di Assad e di vittoria delle forze locali.

(il Giornale, 13 settembre 2018)


Tel Aviv ospiterà l'Eurovision Song Contest 2019 dal 14 al 18 maggio

di Federico Rossini

 
International Convention Center - Tel Aviv
La decisione è stata annunciata pochi minuti fa con un video pubblicato sul canale YouTube dell'Eurovision Song Contest: sarà l'International Convention Center di Tel Aviv ad ospitare l'edizione 2019 della rassegna musicale, giunta al suo capitolo numero 64.
International Convention Center - Tel Aviv | Credits: secrettelaviv.com
Battuta dunque la concorrenza di Gerusalemme, che molti avevano dato fin da subito per città prescelta, senza però tener conto che "Next year in Jerusalem" non è una decisione già presa, ma un detto israeliano con ben più lontane radici.
Sono state inoltre rivelate le date del concorso, che andranno dal 14 al 18 maggio del prossimo anno. Curiosamente, sono gli stessi giorni dell'Eurovision 2013 svoltosi a Malmo, in Svezia, in cui vinse la danese Emmelie de Forest e Marco Mengoni chiuse settimo con L'Essenziale. Il 18 maggio si tenne anche l'Eurovision 1996, che però era ancora in serata unica.
Vogliamo ringraziare tutte le città israeliane che si sono candidate a ospitare l'Eurovision Song Contest 2019 e la KAN che ha condotto una esperta e accurata valutazione per aiutarci a effettuare la decisione finale.
Abbiamo ricevuto tre candidature molto forti (compresa quella di Eilat, N. d. R.), ma alla fine abbiamo deciso che Tel Aviv aveva la miglior situazione per ospitare il più grande show di intrattenimento del mondo - afferma Jon Ola Sand.
Ancora dalla viva voce del supervisore dell'Eurovision:
Siamo molto emozionati di portare il concorso in una nuova città e stiamo già guardando al futuro lavoro assieme alla KAN per rendere l'Eurovision Song Contest 2019 il più spettacolare fino ad oggi.
Come afferma Sand, per Tel Aviv è in assoluto il primo Eurovision: le altre due occasioni (1979 e 1999) in cui il concorso è approdato in Israele la città scelta è stata Gerusalemme.
Il presidente del Reference Group Frank-Dieter Freiling ha rilasciato inoltre parole molto importanti:
Ci prepariamo a lavorare con la KAN per portare il concorso per la prima volta a Tel Aviv. Ci aspettiamo di ricevere questa settimana dal Primo Ministro garanzie relative alla sicurezza e alla libertà di movimento per chiunque venga ad assistere all'evento.
Queste garanzie sono imperative allo scopo di continuare a pianificare l'evento per assicurare la sicurezza dei visitatori e riaffermare i valori di diversità e inclusione dell'Eurovision Song Contest.
Si avvera, dunque, in un certo senso, la profezia di Nadav Guedj cantata in Golden Boy nell'edizione 2015: "And before I leave let me show you Tel Aviv".

(Eurofestival News, 13 settembre 2018)


Bernstein, l'omaggio di Bologna

Secondo appuntamento del programma musicale "JEWISH JAZZ! Israele, Europa, America" organizzato dal Museo Ebraico cittadino e da tempo occasione di richiamo nell'estate bolognese.
Sul palco lo spettacolo Leonard Bernstein Tribute, una prima assoluta e una produzione speciale presentata dal Gabriele Coen Quintet nel centenario della nascita del grande musicista. Vasto il repertorio proposto. Dalle canzoni più note di West Side Story (1957), tra cui Maria, Tonight e Somewhere, fino alla produzione meno nota di ispirazione ebraica: Ilana the Dreamer, Yigdal e Chichester Psalms.
L'edizione 2018 della rassegna propone nel suo complesso un viaggio attraverso le varie esperienze musicali della tradizione ebraica, con una particolare attenzione (nel 70esimo dalla nascita) allo Stato di Israele. Ad inaugurarlo la scorsa settimana è stata Miriam Meghnagi, con lo spettacolo Canti della diaspora. Stasera ultimo concerto con Nitai Hershkovits con New Place Always | Enja 2018.
"Una collezione di melodie - sottolinea al riguardo Vincenza Maugeri, direttrice del Museo ebraico - che evocano suoni antichi e famigliari combinati con un approccio vivace e moderno grazie alla profonda conoscenza che Nitai Hershkovits ha della tradizione".

(moked, 13 settembre 2018)


Maimonide. La morale come equilibrio cosmico

È da oggi in libreria per Giuntina il trattato di Mosè Maimonide "Hilkhòt De'ot. Norme di vita morale", del quale si presenta qui una sintesi dell'introduzione firmata dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni. Scritto nel XlI secolo, fa parte del "Mishné Torà" (il grande codice di Maimonide), propone le norme comportamentali che realizzano la via ebraica al benessere della persona, giustizia sociale, conoscenza di Dio in chiave "halakhà" (norme ispirate alla Torà e alla saggezza della tradizione). Nove secoli fa il grande pensatore forniva un'idea di vita religiosa fondata sul connubio fra tradizione, pensiero filosofico, conoscenze scientifiche e relazioni umane.

di Riccardo Di Segni

 
Statua di Maimonide nella Juderia di Cordova
La prima difficoltà di questo testo è il suo titolo (Hilkhot de'ot), con quell'intraducibile de'ot. Dalla radice che indica "conoscere" dovrebbe indicare le "conoscenze", la capacità di conoscere e comprendere, ma nel linguaggio rabbinico indica anche i modi di pensare (le opinioni) più comuni, e poi i differenti modi di comportarsi, gli stili di vita, gli atteggiamenti, i "caratteri". Dunque è una definizione psicologica, che nelle lingue correnti è sottoposta a una continua revisione, riferendosi a modi di agire e reagire, "aspetti del comportamento", "temperamenti", con complicate distinzioni tra "carattere" e quello che potrebbe essere indicato col termine "personalità"; discutendo poi su quale di questi termini si adatti meglio a caratteristiche innate rispetto a quelle sviluppate nel confronto sociale ... Maimonide in tutte queste distinzioni non entra, e sembra anzi essere onnicomprensivo (e si direbbe in questo assai attuale), considerando sia origini congenite che acquisite e migliorabili, con maggiore o minore difficoltà ed esercizio. Ciò che interessa a Maimonide non è la descrizione trattatistica delle differenze, ma indirizzare le persone a un corretto equilibrio tra passioni e pulsioni opposte, e non per una generica ricerca di armonia, ma come valore religioso conforme alla Torà. In questa operazione emergono limiti e grandezza dell'autore.
  Tutta l'opera di Maimonide nel Mishnè Torà è l' esposizione ordinata delle regole, come risultano dopo la discussione talmudica. Per ogni articolo del Mishnè Torà vi sono commenti che mostrano la fonte e la procedura su cui si basa l'autore per arrivare a determinate conclusioni. Di solito i commenti sono ampi. Invece le prime pagine delle regole su de'ot, al confronto, sono particolarmente scarse. Perché sicuramente si possono trovare nelle fonti, a cominciare da versetti biblici che Maimonide cita esplicitamente, varie raccomandazioni sul corretto modo di rapportarsi a certi stimoli, ma sono informazioni frammentarie e buoni consigli di saggio comportamento. Maimonide invece li raggruppa, organizza e li mette come anticipo e premessa a norme, quelle dei capitoli finali, che hanno ben altra cogenza e giustificazione scritturale.
  E, come se non bastasse, l'influenza esterna, non ebraica, su Maimonide, anche se non dichiarata, qui si fa ben sentire. Si tratta della filosofia aristotelica. Maimonide come filosofo non ne può prescindere, per lui è un punto essenziale di partenza che discute e dal quale spesso esplicitamente dissente (come nelle pagine sulla Provvidenza nel Morè nevukhim). Ma qua non si parla di filosofia, è il campo della legge. Già nel preliminare Hilkhot Yesodé haTorà Maimonide presenta una descrizione del cosmo conforme alle nozioni del suo tempo, legate ai quattro elementi, ma almeno là si potrebbe dire che sta facendo non filosofia ma scienza naturale, e dà per scontate le nozioni del suo tempo. In de'otperò si rientra nella legge. Che c'entra con la Torà e la halakhà il libro secondo dell'Etica Nicomachea di Aristotele, quello che analizza le opposte attitudini e mostra la necessità del "giusto mezzo", le virtù che mediano tra viltà e temerarietà, tra avarizia e prodigalità, tra vanità e umiltà, tra iracondia e flemma eccessiva? E che rapporti vi possono essere tra l'esposizione di Maimonide e la dottrina cristiana (anch'essa di origini aristoteliche) sui vizi capitali: superbia, avarizia, cupidigia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia (che un secolo dopo Maimonide diventeranno lo schema dei gironi infernali nella Divina Commedia)?
  Samuel David Luzzatto avrebbe ripetuto anche per questa occasione la benedizione al Signore di averci liberato dai condizionamenti e dalla pressione della filosofia aristotelica, che qui è ben forte. Ma bisognerebbe vedere meglio fino a qual punto Maimonide ne è recettore passivo e non cerchi invece di elaborare la sua strada autonoma, per quanto con difficoltà.
  Ad esempio, se le de'ot sono i "temperamenti", qui è assente quell'evoluzione del pensiero greco (Ippocrate) che ne considerava quattro, in relazione ai quattro elementi e ai quattro umori. Soprattutto è autonoma l'elaborazione in chiave religiosa, in cui l'esercizio delle virtù è imitazione di Dio, sulla base di fonti bibliche (soprattutto dei Proverbi) e rabbiniche.
  Certamente l'autonomia sua (e dell'ebraismo) la rivendica con forza quando critica i modelli ascetici dei sacerdoti cristiani. Su un substrato di classificazioni aristoteliche, che per l'autore hanno la forza della certezza scientifica di nozioni universali condivise, Maimonide elabora la sua esposizione con un difficile percorso sul filo del rasoio. Sulla stessa linea, di commistione di scienza e halakhà, Maimonide si dilunga in prescrizioni mediche, che costituiscono per un lettore di oggi una curiosa provocazione: che c'entrano questi dettagli e che valore possono avere? Dovendo valutare uno scritto medico dei nostri giorni, il criterio è quello della sua corrispondenza alle acquisizioni scientifiche più aggiornate, tenendo presente che l'evoluzione delle conoscenze potrà mettere in discussione ciò che ora è accettato come valido. Non si possono applicare questi criteri per la medicina di nove secoli fa, in buona parte guidata da osservazioni empiriche. Ma non può non stupire la serie di norme maimonidee che la medicina di oggi ha recepito e mette in primo piano tra le sue prescrizioni: l'igiene alimentare, con diete equilibrate nei componenti e nella quantità; la necessità dell'esercizio fisico; la regolarità delle evacuazioni; la pulizia del corpo. Sembra poco e ovvio, ma non ci si rende conto che questi pilastri della medicina preventiva di oggi già facevano parte di un codice religioso del dodicesimo secolo.
  Un dettaglio delle prescrizioni, quelle che riguardano la sfera sessuale, merita attenzione, perché rivela un aspetto del pensiero di Maimonide in contrasto già con i suoi contemporanei. La posizione di Maimonide è coerente con quella tradizionale ebraica che considera il sesso non solo lecito in quanto destinato alla riproduzione, ma anche come necessario per l'equilibrio e la salute della persona. Solo che qui il discorso è rivolto e declinato tutto al maschile, a ciò che fa star bene l'uomo (ignorando la donna).
  Quando il Mishnè Torà di Maimonide cominciò a circolare sollevò elogi e critiche; tra i critici, il contemporaneo provenzale Avraham ben David di Posquières (1125- 1198), noto con l'acronimo del suo nome, Ravad, scrisse delle annotazioni marginali estremamente critiche, che vengono pubblicate nelle edizioni comuni del Mishnè Torà. L'unica annotazione di Ravad alle Hilkhot de'ot è sul primo brano sull'attività sessuale ... A un Maimonide che parla di salute maschile, Ravad ricorda che esiste anche un diritto femminile all' equilibrio.
  Rivedendo insieme tutto il trattato, che comincia con riflessioni sui diversi caratteri umani, continua con prescrizioni mediche, poi presenta ideali di comportamento per i sapienti, quindi passa a norme fondamentali di rapporti sociali e solidali prescritte nella Torà e discusse nelle modalità applicative dalla tradizione rabbinica, stupisce questa strana unità di cose diverse. Cosa c'entrano le prescrizioni su quale frutta è bene mangiare e quale no col divieto di maldicenza; la sazietà e i bagni caldi con la proibizione di portare rancore; come si inserisce tutto questo in un trattato di "moralità"? In realtà il presupposto di tutta la costruzione è quello dell'unità psicofisica, e il comune denominatore di questa esposizione, nella classificazione di Maimonide, non è tanto quello della moralità quanto quello dell'equilibrio umano e della società; cosa turba l'equilibrio della persona, dai suoi modi di reagire alle sue abitudini igieniche, e gli impedisce di sottoporsi correttamente al servizio divino e che cosa comporta una persona squilibrata, o un insieme di squilibrati senza modelli (i saggi), nella compagine sociale, mettendo a rischio la sua convivenza e la sua globale disposizione al servizio superiore. L'aver messo tutto insieme, con un ordine logico nuovo ed estraneo alla tradizione rabbinica precedente (cosa da molti criticata), aver mediato tra influssi culturali esterni, nozioni scientifiche e corpus tradizionale di insegnamenti rappresenta la novità affascinante di queste pagine, che malgrado i loro limiti rappresentano un unicum di sintesi geniale, che regge ancora a distanza di secoli.

(Avvenire, 13 settembre 2018)


Il patto «pacifista» di Monaco regalò a Hitler metà Europa

L'accordo disastroso firmato da Chamberlain prova che (a volte) la guerra è l'unica opzione.

di Fiamma Nirenstein

 
Esattamente ottant'anni fa a Monaco, il 30 settembre 1938, Neville Chamberlain, primo ministro inglese, firmando l'accordo con Hitler, compì il gesto per cui Winston Churchill pronunciò la proverbiale frase «Hai avuto una scelta fra la guerra e il disonore. Hai scelto il disonore e hai avuto la guerra». L'accordo trasferì alla Germania i Sudetì, la regione della Cecoslovacchia abitata della minoranza tedesca. Fu un puro tradimento nei confronti di un alleato e un gesto di prepotenza verso uno Stato inerme che veniva, con l'accordo, messo alla mercé di Hitler.
  L'Europa tutta si trovò in breve tempo invasa dalle armate tedesche. La transazione di Francia e Gran Bretagna con Hitler impose limitate «concessioni territoriali» per pacificare la Germania nazista, ma l'aggressore, immediatamente, proprio come prevedevano i suoi piani relativi al Lebensbraum - lo «spazio vitale» bramato dopo l'umiliazione del trattato di Versailles - violò l' accordo e inghiottì tutto lo Stato della Cecoslovacchia, nel marzo del '39. La Francia, che aveva un trattato di alleanza con la Cecoslovacchia, si era associata all'appeasement senza vergogna. Nessun rappresentante della Cecoslovacchia era presente alla conferenza che si concluse con lo smembramento del suo territorio e la deprivò del 70% degli impianti elettrici, delle fabbriche di ferro e acciaio, di tutti gli impianti chimici e della sua robusta difesa sotterranea. I tedeschi nel frattempo si erano già in parte riarmati infischiandosi delle dure imposizioni del trattato di Versailles. La teoria di conquista per stadi dell'Europa era spiattellata nel Mein Kampf, mentre già le leggi razziali entravano in vigore: la «Notte dei cristalli» aveva già mostrato il disegno di sterminio degli ebrei
A dire il vero, la Notte dei Cristalli (9 novembre 1938) è avvenuta dopo l’accordo di Monaco (30 settembre 1938), non prima.
, e il patto Molotov-Ribbentrop sarebbe arrivato da lì a poco. Ma Chamberlain guardava dall'altra parte.
  Gli inglesi e i francesi cedevano un piccolo stato indifeso che era anche un alleato, un tradimento da cui Hitler rafforzato trasse la determinazione a invadere la Polonia il primo settembre 1939. Il sacrificio della Cecoslovacchia nella mente di Chamberlain significava, come egli disse - facendo la «V» di Vittoria accolto a casa da folle festanti che credettero di essere state liberate dal lutto patito con la prima guerra mondiale - «Pace nel nostro tempo, pace con onore». Questa immagine, col suo ombrello nero a ciondoloni, è stata immortalata nella coscienza pubblica come il simbolo del tradimento e della stupidità.
  Ma allora, egli fu ricevuto come un eroe. Nelle ore successive all'accordo ricevette 20mila messaggi di congratulazione. Di lui lo storico sir Lewis Namier disse: «Sventolava l'accordo con Hitler come un cacciatore di autografi felice: "Ecco una carta con la sua firma" ... era furbo, ignorante, presuntuoso, capace di ingannare sé stesso quanto lo richiedeva il suo più profondo istinto e il suo scopo, e anche di ingannare quelli che lo desideravano». Monaco apri le porte a Hitler, alla sua sanguinosa marcia sull'Europa fino alla sconfitta, alla Shoah, agli eccidi di massa, all'inedita ferocia che il nazismo ha tributato alla storia universale.
  Monaco è così rimasta nella storia del mondo come la capitale dell'appeasement, la scelta di fare la pace a tutti i costi, non importa a che prezzo, per paura, opportunismo, calcolo politico, per poi pagarne un prezzo iperbolico, sanguinante, di certo anche infamante per chi firmò. Crudelmente, la storia l'ha voluta di nuovo sul proscenio con l'eccidio degli atleti israeliani alle Olimpiadi del 1972.
  Alfred Leslie Rowse, uno storico britannico membro dell'Ali Souls College di Oxford, vicino ali' élite e alla classe politica del suo Paese e agli avvocati intellettuali dell'appeasement, nel 1961 pubblicò il volume: Appeasement: uno studio sul declino politico 1933-1939. All'inizio del suo libro si faceva le stesse domande che oggi ognuno ancora fa a sé stesso:« ... questa gente ha preferito affidarsi alla versione dei fatti e agli argomenti preparati dalla propaganda nazista, lasciarsi andare fino al punto che al momento non capì gli schemi di Ribbentrop, goffi, infantili, ovvi. Che cosa li possedeva? Come spiegare la loro cecità? Questo è il problema. Oggi non ci può essere dubbio sul fatto che avessero torto. Ma com'è possibile aver torto fino a questo punto contro ogni prova. PERCHÉ giunsero a tanto ... Qui sta il problema. Ed è un problema formidabile ... ».
  La risposta ancora oggi è viva, perché la risposta non è solo storica, è morale, è contemporanea, mette sotto il riflettore la proibizione basilare contenuta nella fondazione stessa della società moderna che dice «No alla guerra!» a qualunque costo e che manifesta questa volontà in mille occasioni: quando rifiuta di mettere a fuoco l'autentico scontro di religioni e civiltà da cui si genera il terrorismo islamico, quando mette tutta se stessa nell'accordo del P5 +1 con l'Iran mentre gli Ayatollah si ingegnano a conservare il loro disegno atomico e proseguono la guerra imperialista della shia; quando l'accordo di Oslo e lo sgombero di Gaza hanno luogo contro ogni prova del ripetuto rifiuto del mondo arabo verso la nazione ebraica, che si esprime nella guerra terrorista. Ogni giorno, a ogni latitudine si configura una nuova Monaco, cui la risposta di Chamberlain non è così estranea.
  Il rifiuto della guerra ebbe un ruolo importante nelle scelte britanniche: la Prima guerra mondiale aveva avuto un enorme impatto come «la guerra che deve porre fine a tutte le guerre», il pubblico rifiutava l'uso della forza che gli aveva portato tanti lutti e miseria; ogni città e villaggio, come accade in tutta Europa, mostrava sui monumenti la lista enorme dei giovani caduti. Quella guerra, cominciata per l'assassinio di un arciduca a Sarajevo, risultava per gli inglesi punteggiata di errori e pessime ragioni. Ricordiamo anche che in Inghilterra era diffusa la convinzione che il trattato di Versailles avesse punito la Germania con misure eccessive e senza criterio; John Mainard Keynes aveva scritto un libro prevedendo che la richiesta di 6 milioni e mezzo di miliardi in riparazioni avrebbe causato caos in tutta Europa, e fu facile collegare queste previsioni alla Grande depressione in Inghilterra. Inoltre c'era una tale ostilità verso l'Unione Sovietica, Stalin, le sue purghe, che il comunismo veniva visto fra gli Inglesi come un pericolo molto maggiore del nazismo. Ultima, ma non minore delle ragioni che portarono all'appeasement, la dimensione imperiale britannica, allora in crisi, che spingeva a una politica estera che lasciasse le mani libere per combattere per l'Impero.
  Dunque l'appeasement era inevitabile? No. Basta la figura di Churchill, i suoi scritti e la sua definita repulsione per l'atteggiamento di Chamberlain, a portarci a conclusioni diverse. Nel dibattito storiografico, in cui sono coinvolti grandi nomi, come Allan Bullock, Hugh Trevor-Roper, Andreas Hillgruber e poi tutti i cosiddetti storici revisionisti (ma non nel senso popolare della revisione della Shoah!) come A.J.P. Taylor e infine una corrente giustificazionista, tutti si chiedono in definitiva quanto pianificatore e manipolatore sia stato Hitler e quanto ingenuo sia stato il suo interlocutore, o se la Storia non abbia messo un suo tocco di estemporaneità nella malvagia trama dell'uno e nella evidente viltà dell'altro; quanto colpevole sia stato Chamberlain, quanto egoista e immorale, e dall'altra parte quanto invece (e ormai molto storici lo sostengono), seguendo una strada inevitabile, abbia tentato di tenere il suo Paese impoverito e stanco fuori dal gioco, e abbia spinto Hitler in maniera abile e sofisticata a uno scontro definitivo con l'Unione Sovietica.
  Alla fine, la verità è che il coraggio morale di Winston Churchill, assieme all'unità del popolo inglese in guerra («Sulle spiagge, sulle landing grounds, nei campi, sui monti ... »), l'aiuto della democrazia americana e il sacrificio delle rivolte antifasciste, ha fatto fuori la «pestilenza della tirannia nazista». Combattere era indispensabile. Oggi sappiamo, senza dubbio, che l'appeasement fu una fatale resa, che arrendersi fu una pessima idea, e quali che siano i motivi che l'hanno indotta; oggi sappiamo che la prevenzione e la dissuasione devono essere attuati anche a caro prezzo. La guerra è meglio che arrendersi, sperando nella pace, a chi vuole la guerra a tutti i costi e la farà, senza chiederci il permesso per quanto pacifisti ci dimostriamo.

(il Giornale, 13 settembre 2018)


Razzismo in Francia dove gli islamici segregano gli ebrei

Lettera a La Verità

Visto che gli ispettori Onu hanno deciso di concedersi una gita nelle città d'arte italiane, tanto vale che allunghino un po' il giro. Vadano a Parigi o Marsiglia, dové i francesi di origine ebraica non possono più camminare tranquilli per le strade, o lavorare in pace nei loro negozi, a causa delle continue aggressioni, talora anche mortali, da parte degli islamici. Chiedano ai figli dei francesi ebrei come li trattano i compagni di scuola islamici, in maggioranza assoluta in molte classi, nel silenzio complice, o solo spaventato, dei professori gauchisti .
Massimo Vergano

(La Verità, 13 settembre 2018)


Leggi razziali, il ricordo non può bastare. Ecco perché ci scusiamo

Il 20 settembre la cerimonia dei rettori a Pisa

di Paolo Mancarella*

Caro direttore,
fu a due passi da noi, nella tenuta di San Rossore, - residenza estiva di Casa Savoia - che, ottant'anni fa, Vittorio Emanuele III firmò il primo provvedimento antisemita voluto dal regime fascista: il regio decreto legge numero 1.390.
   E anche, ma non solo per questo, che la nostra università ha voluto dedicare all'ottantesimo anniversario della firma delle leggi razziali una serie di iniziative. Alcune, pensiamo, di gran rilievo culturale e sociale. L'abbiamo fatto consapevoli che il nostro ateneo, come tutti gli altri, si rese complice ed esecutore di quelle orripilanti norme.
   Nel primo incontro, davvero emozionante, che ho avuto con la presidentessa dell'Unione delle Comunità Ebraiche, abbiamo parlato del caso del pisano Guido Cava e del suo stupore e dolore di bambino quando il padre gli disse che lui e il fratello non avrebbero più potuto andare a scuola. Noemi Di Segni ebbe una reazione illuminata e illuminante: «La Shoah è un'immensa tragedia - ci disse - la cui assurdità ed enormità sono difficili da far capire. I campi di sterminio sono luoghi "altri", incomprensibili, distanti, impossibili da ricondurre nell'ambito di una conoscenza diretta, invece la scuola no, a scuola ci sono andati tutti».
   Ecco, per questo il nostro spirito nel ricordare sarà quello di spiegarlo attraverso la vita che conosciamo. Serve anche far capire che ciò che ha riguardato gli ebrei italiani può riguardare chiunque, ovunque. Un paradigma, una lezione, da mantenere e conservare per sempre. Lo trasmetteremo alle nuove generazioni proprio da quel luogo che tutti conoscono, dove tutto è iniziato: le aule dove stanno gli studenti, il mondo dell'istruzione.
   I «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista», i primi di un lungo crescendo, colpivano un settore ritenuto strategico: quello della formazione, dell'educazione, della ricerca. Lì si stabiliva che - assieme a studenti, presidi, insegnanti, di tutte le «scuole del regno» - fossero espulsi dalle università: professori, assistenti, aiuti e liberi docenti. Si precluse, inoltre, per sette lunghi anni, agli studenti ebrei di iscriversi alle scuole e all'università. Nelle scuole medie, inferiori e superiori, vennero colpiti 279 presidi e professori oltre che un numero ancora oggi imprecisato di maestri elementari. Si misero al bando anche 114 autori ebrei di libri di testo. Il bilancio per l'intero sistema universitario, invece, porta il risultato finale di 448 docenti ebrei allontanati dalle università e di 727 studiosi espulsi da accademie, istituti di ricerca, istituzioni culturali. Solo a Pisa furono espulsi 20 docenti e circa 290 studenti stranieri. A questo primo decreto si aggiunsero presto altre norme e fu creato un vero e proprio «censimento» dei 47mila italiani ebrei e degli oltre 10 mila stranieri ebrei residenti in Italia. Gli elenchi vennero tenuti aggiornati, cosicché, 5 anni dopo, nel 1943, gli occupanti nazisti, con l'ausilio zelante dei funzionari di Salò, si trovarono il lavoro fatto e poterono andare a colpo sicuro, deportarne più di 8.000 e ucciderne 7.172.
   Come tacere di fronte a questa vergogna? Ricordarlo e tramandarlo è sufficiente? Così ci siamo interrogati con coloro che ci hanno affiancato in questo progetto, prima le Scuole di eccellenza pisane, poi gli atenei toscani infine tutti i rappresentati dell'Accademia italiana. Ci siamo risposti che era evidente che, a tutti coloro che ne sono state vittime e ai loro eredi, fosse dovuto almeno un risarcimento morale. Un atto che fino ad oggi nessuno aveva mai compiuto, però. E vero, non ne abbiamo diritto né titolo, ma è altrettanto vero che, dopo 80 anni, un gesto di riparazione fosse doveroso. Perché non noi? Rappresentanti oggi di un'Accademia che, allora, fin dal «Giuramento di fedeltà al Fascismo del 1931», fu prona e complice di ogni scelta del regime fascista fino ad avere tra le proprie fila i firmatari del «Manifesto degli scienziati razzisti» del 1938, dettato da Mussolini? Pur senza averne il diritto ne abbiamo sentito il dovere, e per questo lo faremo. Il 20 settembre, nel cortile della Sapienza, ci sarà la «Cerimonia del ricordo e delle scuse».
   In tutto questo c'è una lezione anche per l'oggi: basta poco. Partire da un punto che - come cerchi nell'acqua che si allargano man mano - può trasformare, per obbedienza, viltà, convenienza, episodi anche piccoli in una delle più grandi tragedie che l'umanità abbia mai visto compiersi. Questo è quello che non dobbiamo mai dimenticare, che il mostro è dietro l'angolo ed è nostro compito vigilare per garantire che qualunque focolaio sia impedito e stroncato.
* Rettore dell’Università di Pisa

(Corriere fiorentino, 13 settembre 2018)


Il 62 per cento dei palestinesi si oppone al dialogo con gli Usa

GERUSALEMME - La maggioranza dei palestinesi non vuole un ripristino del dialogo tra Ramallah e Washington, interrotto dopo il riconoscimento del presidente statunitense Donald Trump, il 6 dicembre 2017, di Gerusalemme come capitale di Israele. Lo rivela un sondaggio condotto da un istituto di statistica palestinese (Palestinian Center for Policy and Survey Research - Pcpsr) diffuso oggi. Il sondaggio si basa sulle opinioni di 1.270 palestinesi residenti in 127 diverse aree ed è stato effettuato dal 5 all'8 settembre scorso. Il 62 per cento degli intervistati è contrario al ripristino del dialogo, mentre il 27 per cento è favorevole. Da dicembre scorso, infatti, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, e altri leader di Ramallah hanno rifiutato di incontrare funzionari statunitensi. Il sondaggio, inoltre, è stato condotto nei giorni in cui gli Usa hanno deciso di tagliare i fondi all'Agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi (Unrwa).

(Agenzia Nova, 12 settembre 2018)


Giornata mondiale ebraica, in Italia si comincia da Genova

 
ROMA - Domenica 14 ottobre 2018 torna la Giornata Europea della Cultura Ebraica, la manifestazione che invita a conoscere e approfondire storia, tradizioni e cultura degli ebrei, minoranza presente nel Paese da oltre duemila anni.
   Coordinata e promossa in Italia dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e giunta alla diciannovesima edizione, la Giornata propone anche quest'anno un fitto programma di iniziative, ancor più diffuse sul territorio. Hanno infatti raggiunto la notevole cifra di 87 le località, grandi o piccole, distribuite in quindici regioni italiane, che aderiscono alla manifestazione e nelle quali si svolgeranno centinaia di attività tra visite guidate a sinagoghe, musei e quartieri ebraici, concerti e mostre d'arte, spettacoli teatrali e incontri di approfondimento, eventi per bambini e assaggi di cucina kasher. Città capofila, e luogo dove si inaugura ufficialmente la manifestazione, è quest'anno Genova, nella quale risiede una comunità ebraica vivace e perfettamente integrata nel tessuto cittadino. Una scelta avvenuta prima dell'estate e della tragedia del crollo del Ponte Morandi, e che viene oggi confermata, nell'intenzione di lanciare un messaggio positivo, di fiducia. ''La città ferita non si arrende e guarda al futuro, consapevole della sua lunga e proficua storia di incontro e dialogo'', dichiara Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. ''Una città che, dopo le drammatiche vicende di questa estate, è sempre più al centro dei nostri pensieri e soprattutto dei nostri impegni concreti. C'è un significato speciale nella decisione di confermare Genova quale città capofila della prossima Giornata Europea della Cultura Ebraica, che si terrà domenica 14 ottobre in tutta Italia. Dal capoluogo ligure, verso cui saranno concentrati i nostri massimi sforzi, ad essere lanciato è un messaggio che vogliamo rivolgere all'insieme del paese''.
   E' sulla stessa lunghezza d'onda Ariel Dello Strologo, Presidente della Comunità Ebraica di Genova, che dichiara: ''A seguito della tragedia del 14 agosto, ci siamo interrogati sull'opportunità di confermare la designazione di Genova come capofila della Giornata Europea della Cultura Ebraica del prossimo 14 ottobre, ruolo deciso dall'UCEI prima dell'estate.
   Ci siamo confrontati con la Presidente dell'UCEI e con le Autorità locali e abbiamo convenuto di mantenere il programma così come era stato pensato. Sarà un ulteriore segnale della generale volontà dei genovesi di reagire, costruttivamente, alla tragedia che ci ha colpito quest'estate, con iniziative e progetti che confermino la vitalità di una città che non vuole dichiararsi sconfitta. La manifestazione sarà anche l'occasione per l'ebraismo italiano di portare solidarietà alle famiglie di coloro che hanno subito direttamente le conseguenze della tragedia, e per un momento di preghiera in ricordo di chi ha perso la vita in quelle drammatiche circostanze. Ci auguriamo che la Giornata del 14 ottobre possa quindi essere un'occasione di riflessione e approfondimento e un segnale di speranza e di fiducia.'' Partendo da Genova, l'appuntamento coinvolgerà l'intero Paese, da nord a sud alle isole, con un tema inedito a fare da fil rouge tra tutti gli eventi: 'Storytelling. Le storie siamo noi'. Un richiamo alle radici stesse dell'ebraismo, che affondano nelle 'storie' narrate nella Torah, la Bibbia ebraica, patrimonio di tutta l'umanità. Un argomento che sarà declinato in modi e forme espressive molto diverse, per raccontare l'atto del narrare da un punto di vista ebraico. La Giornata Europea della Cultura Ebraica gode del Patrocinio del Ministero dei Beni, delle Attività Culturali e del Turismo, del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, del Dipartimento per le Politiche Europee della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani. E' inoltre riconosciuta dal Consiglio d'Europa.

(ANSAmed, 12 settembre 2018)


Italia - 3,5 milioni di euro all'Onu "per i palestinesi"

ROMA - L'Italia ha approvato un ulteriore stanziamento di 3,5 milioni di euro a favore dell'agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi (Unrwa), per programmi da realizzare nella Striscia di Gaza ed in Libano. Lo ha annunciato il Consolato generale italiano ad Al-Quds sottolineando che la decisione è avvenuta "in linea con il consolidato sostegno dell'Italia" all'Urnwa e "alla luce delle difficoltà finanziarie in cui versa quest'ultima".

(Pars Today, 12 settembre 2018)


Abu Mazen cita in giudizio Israele

Dopo avere annunciato ai media l'avvio della causa davanti alla Corte, il governo di Ramallah ha criticato duramente le autorità americane per la recente chiusura della sede dell'Olp a Washington.

di Gerry FredaMer

La Palestina ha ufficialmente denunciato Israele davanti alla Corte penale internazionale. Il governo di Ramallah accusa le autorità di Gerusalemme di commettere, in Cisgiordania, "incessanti crimini di guerra".
   Il presidente palestinese Abu Mazen ha preso la decisione di adire il tribunale dell'Aia pochi giorni dopo la chiusura degli uffici dell'Olp a Washington disposta dall'Amministrazione Trump.
   Saeb Erekat, segretario generale del comitato esecutivo dell'Olp, in una conferenza stampa a Ramallah, ha specificato i gravi illeciti perpetrati da Israele sottoposti da Al-Fatah all'attenzione della Corte penale internazionale. Il governo palestinese ha esortato l'organo giudiziario a sanzionare lo Stato ebraico per i "crimini di guerra" commessi da quest'ultimo in Cisgiordania. Dopo avere rinfacciato alle autorità di Gerusalemme innumerevoli "violenze" e "discriminazioni" ai danni dei Palestinesi residenti in quel territorio, il "braccio destro" di Abu Mazen ha sollecitato la comunità internazionale e il tribunale dell'Aia a non "restare in silenzio" davanti all'"ultimo affronto" subito dall'Olp: la demolizione del villaggio di Khan al Ahmar, sempre in Cisgiordania.
   Tale insediamento, dal 1952, ha ospitato migliaia di Palestinesi e di beduini espulsi da Israele. L'Esecutivo Netanyahu ha recentemente ordinato l'abbattimento del villaggio, evidenziando, a giustificazione del provvedimento, la natura abusiva degli abitati. Per Erekat, invece, la demolizione di Khan al Ahmar sarebbe l'ennesimo "crimine di guerra" ascrivibile a Gerusalemme. Secondo il collaboratore di Abu Mazen, Netanyahu avrebbe decretato l'eliminazione degli abitati che ospitano rifugiati palestinesi al fine di realizzare, sulle macerie delle case abbattute, un nuovo "insediamento coloniale" israeliano: "Netanyahu non ha alcun diritto di costruire su quella terra. Il nostro popolo la difenderà con ogni mezzo. La Corte penale internazionale deve infliggere a Israele una sanzione esemplare. In Cisgiordania è in corso da decenni una palese dominazione coloniale, caratterizzata da crimini di guerra ai danni dei legittimi abitanti di quella regione".
   L'avvio all'Aia di un processo a carico di Israele, malgrado i reiterati appelli lanciati dall'Olp all'indirizzo della Corte penale internazionale affinché lo Stato ebraico venga condannato per i crimini commessi in Cisgiordania, è un'ipotesi assolutamente irrealizzabile. L'organo giudiziario infatti può emettere sentenze soltanto verso Stati che siano parti del suo trattato istitutivo. Gerusalemme non ha mai sottoscritto la convenzione istitutiva della Corte e considera "illegittima" la giurisdizione di quest'ultima.
   Erekat, al termine della conferenza stampa, ha indirizzato dure critiche anche nei confronti di Donald Trump, colpevole di avere decretato la chiusura della rappresentanza diplomatica dell'Olp a Washington. L'espulsione dagli Stati Uniti dei rappresentanti del governo Abu Mazen è stata annunciata pochi giorni fa da John Bolton, consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale. Le autorità americane hanno presentato la chiusura degli uffici dell'Olp come una legittima reazione alla costante "propaganda anti-israeliana" orchestrata da Ramallah e come una contromisura al recente "rigetto", da parte delle istituzioni palestinesi, del piano di pace per il Medio Oriente predisposto dagli Usa. Erekat ha replicato con queste parole alla decisione statunitense: "L'espulsione dei nostri funzionari dal territorio americano è un gesto vile e pericoloso. La Casa Bianca ci accusa di avere compromesso i negoziati per la pace in Medio Oriente, ma sono stati proprio gli Usa a boicottare, mediante inaccettabili provocazioni, ogni trattativa. Dal giorno in cui il presidente Trump ha trasferito l'ambasciata americana a Gerusalemme, la Palestina non considera più gli Stati Uniti come un mediatore onesto e affidabile nel negoziato per la pace. L'affronto che il nostro popolo ha subito ad opera di Trump ci impedisce di proseguire ogni forma di collaborazione con le autorità Usa".

(il Giornale, 12 settembre 2018)


Emergenza sul mar Morto, brucia una riserva naturale

La polizia israeliana ha chiuso stasera il traffico lungo la sponda settentrionale del Mar Morto a causa di un esteso incendio divampato due giorni fa nella riserva naturale di Einot Zukim (Ein Feshka), che nelle ultime ore ha ripreso ad estendersi con foga.
Si tratta della riserva naturale situata più in profondità al mondo, 430 metri sotto il livello del mare. Il danno ecologico alla flora e alla fauna è ingente, affermano gli esperti. A rendere più problematica la ripresa dopo l'incendio, aggiungono, vi è anche il graduale prosciugamento delle fonti di acqua nella zona.
La polizia israeliana ha aggiunto di aver arrestato tre palestinesi di Gerusalemme est che, secondo la versione ufficiale, si trovavano in prossimità della riserva naturale quando è divampato l'incendio e che hanno poi "tentato la fuga". Ancora non è noto se a loro carico vi siano altri elementi.

(tvsvizzera.it, 12 settembre 2018)


Israele, social e tecnologia per prevenire gli attacchi

Strategico il sistema di sorveglianza

di Giordano Stabile

Israele, subito dopo gli Stati Uniti, è il bersaglio più ambito dai gruppi jihadisti, per le ricadute in termini di propaganda che un grande attentato riuscito apporterebbe. Ma né Al-Qaeda né l'Isis sono riusciti finora a sferrare un colpo delle dimensioni degli attacchi negli Usa e in Europa. L'unico assalto certo dello Stato islamico è stato quello dell'8 giugno 2016 al Sarona Market di Tel Aviv, quattro vittime. L'Isis ha dovuto persino giustificarsi con i suoi simpatizzanti e spiegare in un articolo sul suo settimanale Al-Naba che la «causa palestinese» non era la sua priorità. In realtà i gruppi islamisti internazionali sono stati finora fermati dal formidabile apparato di sorveglianza elettronica realizzato dallo Stato ebraico, nato per controllare le formazioni estremiste palestinesi. Nonostante il collasso delle trattative di pace nel 2014, e una guerriglia a bassa intensità denominata «Intifada dei coltelli» cominciata nell'ottobre del 2015, in tre anni non ci sono stati attacchi massicci, nonostante il controllo del territorio sia affidato a poche migliaia di soldati. Va detto che le forze di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese collaborano con Israele, ma il segreto è nel sistema integrato di sorveglianza elettronica, il più avanzato al mondo. Ogni volta che un palestinese fa una telefonata, posta qualcosa su Facebook o altri social, si sposta da una città all'altra viene registrato da microfoni, telecamere, droni, programmi elettronici di spionaggio.
   Israele ha costruito una sua propria tecnologia, a partire dalla celebre Unità 8200, il reparto dell'esercito che guida la guerra elettronica. Quasi tutti i guru e fondatori di start-up digitali sono passati di lì. Gli investimenti militari hanno posto le basi dello sviluppo di aziende private, ora all'avanguardia mondiale, come la Mer Group, che ha filiali in 40 Paesi. La necessità di sorvegliare la Cisgiordania, e 2,5 milioni di palestinesi potenzialmente ostili, ha fornito «un laboratorio per raffinare le tecnologie». La Mer ha per esempio sviluppato il programma Oscar (Open Source Collection Analysis and Response), in grado di perlustrare siti Internet e social network per scovare legami fra individui e organizzazioni terroristiche. Un'altra arma strategica è il Saip (Strategie Actionable Intelligence Platform), capace di «capire quello che legge» e stabilire se una persona sta parlando della fabbricazione di una bomba o di argomenti innocui. Saip è anche in grado di creare false personalità per introdursi nei forum e nelle chat dei jihadisti. In questo modo l'esercito israeliano è riuscito a sventare attentati, smantellare cellule e arrestare terroristi. Il prezzo è stato trasformare l'intera popolazione della Cisgiordania in un «sorvegliato speciale».
E molti prodotti israeliani sono già stati acquisiti in gran segreto dai Paesi del Golfo.

(La Stampa, 12 settembre 2018)


Scocca l'ora dell'industria 4.0

Israele e un nuovo modello di sviluppo hi-tech. Un gruppo di aziende super-tecnologiche e altre che non riescono a tenere il passo: per risolvere questo paradosso dello sviluppo Israele studia una innovativa strategia di crescita.

di Dario Peirone, Università di Torino

Oltre la-Start-up Nation». Da due anni Israele ha rivoluzionato l'architettura istituzionale che sovraintende all'ecosistema innovativo del Paese. Il famoso «Chief scientist office», protagonista della nascita della «Start-up Nation» negli Anni 80 e 90, nel 2016 è stato trasformato nella «Israel Innovation Authority». Un organismo indipendente, anche se parte del governo, organizzato come un'impresa. Ci sono un presidente e un amministratore delegato (entrambi imprenditori) e un team con varie divisioni. Ed è sparita una parola chiave: scienza. Se, tradizionalmente, occupavano il posto di «responsabile scientifico» illustri studiosi o professori universitari, oggi l'ad è l'ex responsabile di Apple Israel.
   Così, mentre nelle business school si studia il caso israeliano e il mondo si reca a conoscere le modalità di trasferimento tecnologico di Israele, a Gerusalemme si guarda oltre. Quest'anno il Pil pro capite israeliano ha superato quello giapponese e la disoccupazione è al 4%, un livello che gli economisti considerano di «piena occupazione». La crescita è da due anni sopra il 3 % annuo, la performance migliore tra i Paesi Ocse.
   Cosa c'è, dunque, che non va? In realtà molti segnali preoccupanti hanno attirato l'attenzione degli analisti. Innanzitutto le disuguaglianze. La torta (il Pil) è più grande, ma non è divisa in parti uguali. Inoltre l'immagine di un Israele super-innovativo rimane legata ai settori hi-tech e all'efficienza del trasferimento tecnologico università-impresa, toccando marginalmente gli altri settori. La sfida che Israele sta affrontando, quindi, è quella di una nuova trasformazione economica, in cui non appoggiarsi al solo settore dell'alta tecnologia, ma diversificando la composizione industriale per assicurare una partecipazione più uniforme alla crescita futura. Ecco perché la persona giusta per comprendere questo cambiamento strutturale è Uri Gabai, «Chief strategic officer» e responsabile della divisione economica dell'Israel Innovation Authority».

- L'economia israeliana sta andando molto bene, perché, allora, è necessario cambiare?
  «Un governo ha la responsabilità di guardare avanti. Da quando ho assunto il mio ruolo non abbiamo fatto altro che guardare ciò che non andava e formulare strategie. È lo spirito ebraico: si deve lavorare per migliorare».

- Avete messo scienza e ricerca in secondo piano, sostituite dalla nozione di innovazione. Questo cambiamento radicale, però, sembra avvenuto in sordina: è così?
  «Meno male! Le rivoluzioni riescono meglio quando avvengono sottotraccia. Battute a parte, il budget annuale di questa istituzione è sui 400 milioni di euro, mentre riceviamo 1300 progetti ogni anno. Con queste dimensioni è facile capire che ci vuole tempo per implementare una transizione».

- Ma la differenza rispetto all'importanza del trasferimento tecnologico nello sviluppo della «start-up nation» non è sorprendente?
  «Israele ha saputo creare una forte industria della Ricerca&Sviluppo, che ora ce la può fare da sola. A fine Anni 90 il 25% dei fondi proveniva dal governo, mentre oggi i fondi governativi possono essere quantificati tra il 4 e il 5% del totale. Ormai gli investimenti sono quasi tutti privati. In Israele lavorano nella ricerca 320 imprese multinazionali che non hanno bisogno del governo. Se Google viene in Israele, non ha necessità di un supporto governativo».

- Il settore, tuttavia, crea posti di lavoro e crescita e, quindi, perché non continuare a sostenerlo?
  «È un punto cruciale, perché ci lascia insoddisfatti. La proprietà intellettuale che scaturisce dal processo di ricerca e sviluppo in Israele viene poi fatta crescere all'estero. È giusto che sia così, ma il risultato è che poche start-up si sviluppano in Israele. E se una start-up, nata in un nostro incubatore, diventa un player mondiale, espandendosi nella Silicon Valley, mi fa piacere, ma crea posti di lavoro nella Silicon Valley e non in Israele».

- Qual è la percentuale di occupati nel settore dell'high tech?
  «È cresciuta fino ad arrivare all'8%, poi si è fermata. Rimane stabile, ma non riesce più a crescere. Essendo Israele un Paese piccolo, non riusciremo a formare così tanti ingegneri quanti ne richiederebbe l'hi tech».

- E il restante 92%, invece, dov'è impiegato?
  «Nell'agricoltura e nel turismo e soprattutto nella manifattura tradizionale. Israele ha problemi di competitività in molti settori che non sono Ricerca&Sviluppo. Una sfida per noi dell'Authority è colmare il divario. Continueremo a investire sull'istruzione, ma dobbiamo andare oltre, perché vogliamo vedere un vero impatto economico dell'innovazione. Per questo ci vogliono le imprese tradizionali, quelle che chiamiamo "complete companies"».

- Sembra un programma di recupero della manifattura in stile Donald Trump: è così?
  «È una strategia che studiamo da anni e il Presidente Usa non c'entra nulla. Si tratta di essere pragmatici. Se non avessimo progettato questo cambiamento, continueremo ad avere un'isola, che potremmo chiamare "Tech Israel", in cui tutti sono ricchi, mentre il resto dell'economia arranca. Vogliamo invece tentare di portare il modello di trasferimento tecnologico che ha fatto crescere l'hi-tech nella manifattura, eliminando quasi totalmente la burocrazia e finanziando progetti innovativi, per esempio su automazione e digitalizzazione».

- Innovazione e automazione sono spesso viste come una minaccia per i posti di lavoro. Come si possono sfruttare per aumentare l'occupazione?
  «È l'unico modo per sopravvivere. Come ben sapete anche voi in Italia, se un'impresa manifatturiera chiude, è persa per sempre. È meglio ridurre la forza lavoro che chiudere. Perché, se si resta competitivi, si può crescere: le imprese che tornano a essere competitive riprendono anche ad assumere».

- Quali prospettive di collaborazione vede ora con l'Italia?
  «L'Italia è la seconda manifattura d'Europa. Ci sono da sempre molti rapporti con imprese italiane, ma dovrebbero, e potrebbero, essercene molti di più».

(La Stampa, 12 settembre 2018)


Gli evangelici aiutano Israele

Riportiamo un articolo di Italia Oggi che chiaramente si ispira, riportandone anche alcuni dati, ad un articolo di Le Monde del 5 settembre scorso che abbiamo tradotto integralmente sul nostro sito.

di Marta Olivieri

 
Agosto 2017 - Volontari evangelici di HaYovel raccolgono l'uva nei vigneti della comunità ebraica di Pnei Kedem in Giudea-Samaria
Dopo la vittoria israeliana della guerra dei Sei Giorni, nel 1967, una grande parte degli evangelici americani, 25% dei cristiani degli Stati Uniti, sostiene attivamente Israele. Tutti non appartengono al movimento radicale dei cristiani sionisti che agiscono, come Ha Yovel, in vista di un ritorno degli ebrei nella Palestina storica. Tuttavia, hanno adottato un sostegno zelante a Israele in nome di una fede protestante evangelica fondata sulla conversione, il cristianesimo decentralizzato e la lettura approfondita della Bibbia.
   Da quando, negli anni Settanta, la destra evangelica guadagnava influenza nella sfera pubblica e politica degli Stati Uniti, la filantropia cristiana americana cominciava a sostenere l'immigrazione ebraica, specialmente nei paesi dell'Unione Sovietica, in collaborazione con l'Agenzia ebraica incaricata dell'immigrazione verso Israele in seno alla diaspora. Creata nel 1983, la Fondazione dell'associazione internazionale di cristiani ed ebrei (IfcJ), finanziata da donazioni evangeliche, ha versato 200 milioni di dollari (172 milioni di euro) per far arrivare in Israele più di 700 mila ebrei nell'arco di 15 anni. La Ifcj assomma fra 130 e 140 milioni di dollari (tra 110 e 120 milioni di euro), provenienti in gran parte (85%) dagli Stati Uniti e finanzia 400 progetti principalmente in Israele.
   Ogni anno diverse centinaia di milioni sono destinati a fondazioni ebraiche israeliane che investono in Israele a sostegno dei sopravvissuti alla Shoah, ai poveri, al rinnovamento delle infrastrutture pubbliche e ai programmi di educazione.
   L'associazione di cristiani americani Ha Yovel (Giubileo in ebraico), fondata nel 2007 dalla coppia Tommy e Sherri Waller, mira a contribuire «alla restaurazione profetica della terra di Israele» rendendola fruttuosa. Prendendosi cura del popolo eletto, i fondatori di Ha Yovel intendono andare nella direzione della profezia biblica: «tutte le nazioni saranno benedette se Israele lo è per Dio». E anche gli arabi avranno una vita migliore, come ha dichiarato Sherri Waller a Le Monde. In questa prospettiva stimano che i palestinesi sono ammessi in Cisgiordania ma le terre spettano agli ebrei.
   Dall'inizio della sua attività, HaYovel ha mobilitato più di 1.800 lavoratori per le vendemmie in Cisgiordania. Come parte dell'associazione evangelica Ha Yovel, per lo più provenienti dagli Stati Uniti, si offrono volontari per la raccolta negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. E si dichiarano felici di contribuire alla profezia biblica.
   Un chiaro sostegno alla colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati, che questi cristiani considerano il «cuore storico e spirituale di Israele».
   In una prospettiva messianica, ritengono che il ritorno di tutti gli ebrei nella terra di Israele, confermato dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, prefiguri il ritorno del Messia, Gesù Cristo, e l'istituzione del regno di Dio sulla terra per mille anni.
   Tuttavia, il sostengo evangelico non ha sempre ricevuto un'accoglienza favorevole presso gli ebrei di Israele. La maggior parte degli ortodossi continua a rifiutarli per timore che facciano proseliti.
   Finanziario o ideologico il sostengo evangelico verso Israele è prima di tutto un affare politico. Il trasferimento dell'ambasciata degli Usa a Gerusalemme il 14 maggio è suonata come una vittoria per la destra evangelica americana, uno dei pilastri dell'elettorato del presidente Donald Trump e lavorava a questo fin dagli anni Ottanta. E ha dimostrato l'importanza che il premier Benjamin Netanyahu accorda agli alleati cristiani conservatori.

(ItaliaOggi, 12 settembre 2018)


Roma faccia come gli Usa. Si dissoci dalla follia

di Fiamma Nirenstein

Fa un certo perverso piacere che l'Italia assaggi l'Onu in tutta la sua sfacciataggine e doppio standard adesso che annuncia santificate spedizioni (non magari come i peacekeeper che sono accusati di stupro o come i distributori di fondi internazionali che lucrano sulle miserie umane) per verificare quanto l'Italia viola i diritti umani. Così magari comincerà un processo di revisione del suo rapporto con l'Onu, forse smetterà di votare o al massimo di astenersi mentre cerca di compiacere le maggioranze automatiche che condannano solo Israele ( come quando il 23 dicembre 2016 Obama fece astenere gli Usa su una mozione-tradimento, che sovvertiva la cautela tradizionale che aveva sempre tenuto come punto di riferimento la risoluzione 242, e non la condanna palestinese unilaterale degli insediamenti), o si associano nelle organizzazione dell'Onu come l'Unesco a gesti inconsulti, come dichiarare il Muro del Pianto retaggio musulmano.
   Tutte le istituzioni legate all'Onu sono squalificate agli occhi di ogni buon senso, e fra di esse il Consiglio per i Diritti Umani, e persino la Corte di Giustizia Internazionale: l'associazione all'Onu di decine di organizzazioni diventa di anno in anno più imbarazzante. Il loro comportamento, che per altro costa un occhio della testa ai contribuenti di tutto il mondo, è sempre orientato verso la protezione dei tiranni e copre le loro violazioni dei diritti a discapito dell' atteggiamento occidentale, che certo non è perfetto ma che se non si accucciasse per ricevere una carezza dai suoi nemici forse riuscirebbe a ottenere qualche cambiamento. Perché? È semplice: su 193 stati membri, 119 appartengono al gruppo dei cosiddetti «Non Allineati», e di questi 57 sono parte del gruppo islamico. I Paesi che vengono classificati liberi dalla Freedom House sono meno della metà. Quindi, pensare che in assemblea si assista a un dibattito democratico è assurdo perché i delegati rappresentano Paesi che non sanno neppure dove la democrazia sia di casa. A giugno Nikki Haley, l'ambasciatrice americana, che dall'inizio del suo mandato è stata un'esemplare portatrice di verità, ha annunciato che il suo Paese lascia il Consiglio per i Diritti Umani, dove la situazione è marcia: i membri delle 47 nazioni elette allo scopo, sono elette per tre anni, Africa e Asia hanno 13 seggi, l'America Latina e i Caraibi 8, l'Europa Occidentale e altri, incluso il Canada, l'Australia, la Nuova Zelanda 6 e l'Europa dell'Est 6. Siamo in minoranza. La stragrande maggioranza ha pessimi record nei diritti umani, dal Venezuela, alle Filippine, all'Etiopia a Cuba ... e via via fino a tutti i Paesi arabi che fanno centinaia di migliaia di morti o esercitano violenza e assassinii di massa senza che nessuno protesti.
   La lista delle follie è infinita: l'Iran nella commissione per i diritti delle donne, la Siria in quella per il disarmo, la mancanza di una risoluzione che definisca il terrorismo, Erdogan, cinesi, russi e iraniani passati indenni attraverso mesi e anni di riunioni, Rwanda e Sudan quasi ignorati e così altri stermini e eccidi di massa. E quindi non è che non ci sia da interrogarsi sui problemi dei rifugiati e dei migranti ... Parliamone, è un tema difficile, ci muoviamo in un universo di domande in cui le risposte sono tentativi di rimediare in fretta decenni di indifferenza e di colpevole assenza. Ma vogliamo dire che la decisione della Bachelet è inquisitiva e sostanzialmente sciocca, una risposta politica al carattere del governo italiano che viene visto come ormai connesso ai grandi cambiamenti che investono tutta Europa. Non è questo il modo di discuterne. Non è l'Onu che può giudicare. L'Onu che con la conferenza di Durban «contro il razzismo» del 2001 ha dato il via a un'ondata di antisemitismo fino ad allora vergognosa, sconosciuta, contenuta. L'Onu promuove la polarizzazione, avalla la semplificazione, magnifica l'arretratezza. Bisogna rispondere con un sorriso di compatimento, un rifiuto, ma anche una grande discussione in cui l'Italia si ponga con complessità di pensiero, sincerità, larghezza di vedute. Come Nikki Haley.

(il Giornale, 12 settembre 2018)


Quegli ebrei soldati d'Italia ricambiati col tradimento

di Sabrina Cottone

C'è Roberto Sarfatti, il figlio di Margherita, volontario a 17 anni nella Grande Guerra, caduto nel gennaio 1918 sul Col d'Echele. Il monumento che la mamma, la quale fu amante di Mussolini, vuole dedicargli sul luogo della morte, viene terminato nell'agosto 1938 e inaugurato alla presenza di Vittorio Emanuele III. A novembre vengono promulgate le leggi razziali. E c'è Amelia Rosselli, scrittrice e interventista, che perde un figlio in guerra nel 1916 e in memoria di lui apre «La Casina di Aldo», un rifugio per orfani e figli di combattenti. È la mamma di Carlo e Nello Rosselli, antifascisti militanti, assassinati nel 1937 durante l'esilio francese. Ecco Alberto Segre, padre della senatrice a vita Liliana, deportata con lui nel campo di sterminio di Auschwitz. Era «un ragazzo del '99» pieno di entusiasmo.
   «Soffrì moltissimo quando gli fu ritirata la tessera dell'Unione nazionale ufficiali in congedo d'Italia. Poi fu ucciso a Auschwitz», ricorda Daniela Scala, curatrice della mostra che racconta queste e altre storie. Alberto Segre e la figlia Liliana furono deportati nel 1944 dalla Stazione Centrale di Milano, dal Binario 21 che è sede del Memoriale della Shoah, il luogo-museo che da domani al 4 novembre ospita «Ebrei per l'Italia. Jews for Italy». Pannelli, video e immagini per un paradosso: l'entusiasmo degli ebrei italiani per la nazione, l'illusione che la cittadinanza passasse dall'imbracciare le armi. Molto rapido il percorso che li trasformò in perseguitati.
   Tremilaottocentosette i soldati ebrei italiani di cui si ha notizia a oggi, 48 crocerossine, oltre 300 caduti. E 241 deportati dopo vent'anni di vita sociale e politica fatta da uomini come i senatori Giulio Bergmann e Elio Morpurgo, i Mario Donati e Edoardo Weiss. O Gilberto Errera, pilota al fianco di Gabriele d' Annunzio durante molte azioni, quattro medaglie d'argento. Anche lui fu costretto alla fuga. Volti che non smettono di interrogare.

(il Giornale, 12 settembre 2018)


L'orrore che travolse anche avvocati e magistrati ebrei

Un libro, "Razza e inGiustizia", rivela le penose distinzioni sancite nelle leggi razziali per difensori e giudici. Sarà presentato venerdì al Senato. Ne parla l'autore di uno dei saggi raccolti.

di Errico Novi

Il volume si chiama Razza e inGiustizia. Sarà discusso domani in plenum al Csm, poi presentato ufficialmente venerdì nella Sala Koch dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e dai vertici di Csm e Cnf. Fa i conti, questo libro, con l'orrore delle leggi razziali e la tragedia che, in quella cornice tremenda, accomunò il mondo della giustizia. Lo dice la seconda riga del titolo: Avvocati e magistrati al tempo delle leggi antiebraiche. Il lavoro è il frutto di uno sforzo altrettanto comune: vi si trovano interventi di due presidenti emeriti della Corte costituzionale, Gaetano Silvestri e Riccardo Chieppa, della senatrice a vita Liliana Segre, dell'attuale presidente del Cnf Andrea Mascherin e del presidente emerito Guido Alpa, e ancora di altre figure di primo piano di avvocatura e magistratura, così come della presidente dell'Unione comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni. Tutto sotto la supervisione di Antonella Meniconi e Marcello Pezzetti. Uno dei saggi raccolti nell'opera è firmato dal consigliere del Cnf Francesco Marullo di Condojanni insieme con Giulia Merlo. «Raccontiamo di una storia tra le più commoventi e tragiche, quella di Amalia Fleischer, prima donna ad essere stata iscritta all'Ordine degli avvocati di Bolzano, figlia di ebrei di Fiume e cancellata dopo le leggi razziali, fino alla deportazione a Birkenau che la inghiottì per sempre», scandisce, con una certa fatica a celare la commozione, Marullo di Condojanni.

- E come se la tragedia vissuta in particolare da avvocati e giudici, in quel contesto d'orrore, fosse stata tenuta sotto un velo, quasi nascosta: perché?
  Negli ultimi anni il velo si è in parte alzato, grazie al Mulino, a lavori come quelli di Alpa, della stessa Meliconi o di Francesca Tacchi. E vero però che c'è una documentazione scoperta da poco tempo e che forse grazie a Razza e inGiustizia diviene per la prima volta oggetto di approfondimento. Mi riferisco in particolare a dei fascicoli rinvenuti proprio presso la sede del Cnf sotto la presidenza Alpa: c'era scritto "Avvocati ebrei". Riguardavano i processi riguardanti questi nostri colleghi negli anni a partire dal '38. Ci riferiscono della penosa catalogazione di cui furono vittime i difensori che avevano una qualche ascendenza ebraica.

- A cosa si riferisce di preciso?
  Al fatto che nel primo decreto del '38 si iniziò a precludere l'assegnazione di incarichi pubblici agli avvocati ebrei, e quindi al passaggio più abominevole, la legge 1054 del '39, in cui venne dettata la disciplina per l'esercizio delle professioni da parte degli appartenenti alla razza ebraica. Lì iniziò il disastro, con le cancellazioni, e una distinzione a sua volta penosissima tra gli stessi avvocati ebrei.

- Come venivano "distinti"?
  Un amaro paradosso vuole che la condizione meno difficile fosse quella dei cosiddetti discriminati. La definizione distingueva coloro che avevano acquisito benemerenze sotto il fascismo, per esempio nella guerra di Etiopia, che erano stati decorati. La loro particolare classificazione implicava che fossero sì cancellati dagli albi ma poi reiscritti in elenchi aggiunti. Con la possibilità di continuare a esercitare la libera professione in ambito privato, ma appunto senza poter acquisire incarichi nelle avvocature delle amministrazioni pubbliche, che in quegli anni conoscevano il loro consolidamento.

- E gli altri?
  Chi non aveva benemerenze era considerato "non discriminato". Sembra una definizione positiva, in realtà in questa disgustosa classificazione si traduceva nella possibilità di reiscriversi solo in elenchi speciali e di poter dunque difendere solo cittadini ebrei.

- Un aspetto che suscita un grado di disgusto ancora più insopportabile.
  Naturalmente, su questo calvario fatto di formalismi, il libro che presenteremo presso la Sala Koch si sofferma in modo approfondito. Della esclusione di figure straordinarie come Amalia Fleisher mi occupo personalmente in modo specifico, così come altre parti dell'opera riguardano il destino ignobile inflitto ai magistrati, che venivano espulsi e basta. I fascicoli rivelano anche i procedimenti riguardanti i ricorsi di quei colleghi che si opponevano alla espulsione inflitta loro in quanto ebrei: non si appellavano agli Ordini propriamente detti ma al sindacato nazionale fascista. In tanti proponevano impugnazioni in modo da essere discriminati, ossia ammessi almeno all'esercizio non limitato della professione. Casi come quelli di Amalia Fleisher attestano una lacerazione che devastò il Paese e in particolare l'avvocatura, soprattutto al Centro-nord. Al Sud le cancellazioni praticamente furono rarissime, diciamo che non andarono oltre Napoli, nel resto del Mezzogiorno non successe nulla.

- Ma cosa si impadronì degli italiani, in quegli anni?
  Non sono in grado di dirlo. Ma la misura della degenerazione pubblica è in quella firma apposta dal re, durante il soggiorno estivo a San Rossore, in calce alle leggi razziali nel 1938. Durante le vacanze.

(Il Dubbio, 12 settembre 2018)


Fenomenologia di Corbyn l'antisemita inconsapevole

Howard Jacobson ha pronunciato questo discorso il 6 settembre a favore della mozione "Jeremy Corbyn is Unfit to be PrimeMinister", un dibattito organizzato da Intelligence Squared.

di Howard Jacobson

Questa avrebbe dovuto essere un'estate dorata per il Labour in Gran Bretagna Il leader del partito invece ha reso possibile la Brexit con il suo inefficace e fievole non-sostegno al "Remain" Dovrebbe importare a tutti, e non soltanto agli ebrei, impedire che un uomo così bigotto e cocciuto possa fare al Paese ciò che sta facendo al soggetto politico di cui è alla guida

«Qualcuno si aspetta che io chiami Jeremy Corbyn antisemita. No, non intendo chiamarlo in nessun modo. Lui dice di non essere antisemita. Hamas dice che Corbyn non è antisemita e anche il suprematista bianco David Duke dice che non è un antisemita. A me tanto basta.
   Sto facendo dell'ironia? Io non sono capace di ironia.
   Sappiamo bene che aspetto ha un antisemita. Indossa stivali di pelle nera, porta una fascia al braccio con una svastica e grida «Juden Raus»; Jeremy Corbyn sotto la camicia indossa una canottiera dei grandi magazzini British Home Stores, e parla a voce bassa. Gli antisemiti accusano gli ebrei di aver ucciso Gesù; Corbyn è ateo e non sembra fregargliene molto se noi ebrei l'abbiamo ucciso o meno. E Corbyn non nega l'Olocausto.
   Badate bene: conosce chi lo fa. Se mi è concesso, mi piacerebbe citarvi una frase della commedia mai scritta da Oscar Wilde intitolata La presunzione di chiamarsi Jeremy: «Frequentare un antisemita che lei non sa essere antisemita, signor Corbyn, può essere considerata una sfortuna, mentre frequentare assiduamente gli antisemiti sembra proprio una marcata propensione».
   Quando penso ai mascalzoni con i quali me ne sono andato in giro, capisco quanto sia facile equivocare le persone, anche quando ti si presentano con cappucci in testa e croci ardenti in mano. Jeremy non è mai stato quel tipo di uomo che si potrebbe definire dotato di uno spiccato spirito di osservazione.
   Prendiamo in considerazione il murales di cui si è fatto promotore: raffigura alcuni banchieri che giocano a Monopoli sulle schiene nude degli oppressi del pianeta. Jeremy è talmente ingenuo nei riguardi delle caricature antisemite che non vi ha visto nulla di vagamente offensivo. «Non l'ho guardato bene», ha poi spiegato. Quante volte dovrà ancora ripeterlo. Sì, ci sono andato vicino, forse, ma non pensavo che mi riguardasse.
   Se ciò vi riporta alla memoria quelli che vivevano sottovento rispetto alle canne fumarie di Bergen Belsen e affermarono di non aver mai annusato nulla di strano, mi rendo conto che siete sospettosi di natura. Corbyn è un uomo impegnato. E gli uomini impegnati non prendono scorciatoie emotive. Ecco l'immagine di un ebreo succhia-sangue. Corrisponde perfettamente all'immagine dell'ebreo succhia-sangue che ho in testa. Mi chiedo se possa esistere qualcosa di simile a un antisemita inconsapevole. Jeremy afferma di essere un pacificatore. Un pacificatore è chi media tra due parti in guerra tra loro. Perché mai, dunque, lo vediamo sempre portare i palestinesi a prendere il tè? Può darsi che si dimentichi, semplicemente, di invitare gli israeliani? «Stupido che sono, mi sono dimenticato di nuovo di invitare gli ebrei».
   A detta dei suoi sostenitori, Jeremy Corbyn non ha neppure un ossicino razzista nel suo scheletro. La mia è solo una domanda: che cosa è un osso razzista? E come si può capire se una persona ce l'ha o meno? Nel solo braccio umano ci sono 64 ossa ... Il fatto è che antisemitismo e razzismo non sono proprio la stessa cosa. L'antisemitismo è più simile a una superstizione: è radicato nella teologia, è ammantato di irrazionalità medievale, è svecchiato per adeguarsi all'economia di sinistra, ed è riesumato ogniqualvolta si cerchi un'unica spiegazione per tutti i mali che affliggono il mondo. Parlare di antisemitismo come di razzismo è una contraddizione in termini per Jeremy Corbyn, dato che per lui gli ebrei non sono né oppressi né sfruttati, ma - in quanto strozzini, colonialisti e cospiratori - sono la fonte e l'origine stessa del razzismo. Una volta considerati gli ebrei razzisti e il sionismo una manovra razzista, nessun antisemita potrà mai essere razzista. E ogni definizione che affermi il contrario deve essere rettificata.
   Dedicherò gli ultimi secondi che mi restano - non intendo gli ultimi istanti della mia vita, ma di questo mio discorso - a spiegare per quale motivo dovrebbe importare a tutti, e non soltanto agli ebrei, impedire che un uomo così malvagio, così bigotto e così cocciuto possa fare al Paese quello che egli sta facendo al suo partito.
   Coloro che ammirano Corbyn considerano una virtù il fatto che egli non abbia mai cambiato opinione. Signor presidente, virtuoso è restare fedeli alle proprie opinioni soltanto se quelle opinioni meritano che si resti loro fedeli. Persistere in un'erroneità microscopica è il segno distintivo di un cretino. Persistere in un'erroneità madornale è il segno distintivo di un cretino pericoloso. L'ideologia nella quale Corbyn si è macerato in salamoia per quasi mezzo secolo era già desueta quando lui l'ha abbracciata. E aveva portato alla morte di milioni di persone. Che le ideologie alle quali si oppone abbiano fatto poco meglio di ciò non depone a suo favore.
   Questa avrebbe dovuto essere un'estate dorata per il Labour. L'incubo della Brexit, l'inferno di Jacob Rees-Mogg, la pantomima fuori stagione di Boris Johnson: tutto avrebbe dovuto spingere i laburisti a salvarci. Corbyn, invece, ha fatto quanto chiunque altro per rendere possibile la Brexit con il suo inefficace e fievole non-sostegno al "Remain".
   Basterebbe questo a portarci alle barricate. L'uomo sbagliato al momento sbagliato e che abbraccia cause sbagliate.
   Mi reputo imparziale, prima di ogni altra cosa: di persone limitate in tutto fuorché nel piacere che provano nei loro stessi confronti ce ne sono a bizzeffe in tutti i partiti. Infestano le periferie, come Spiriti del Natale che non credono nel passato e appoggiano le cause perse, organizzando tea party per gli sterminatori, mantenendo l'aspetto di sant'uomini. La disgrazia di Corbyn è essere stato innalzato e portato via da quelle periferie per essere lasciato cadere in modo sventurato in pieno centro.
   Non lo chiedo soltanto per il nostro bene, ma anche per il suo: per favore, c'è qualcuno che ne abbia pietà e possa riportarlo indietro?»

(la Repubblica, 12 settembre 2018 - trad. Anna Bissanti )


Gli Stati Uniti chiudono la sede dei palestinesi a Washington

L'amministrazione di Donald Trump ha annunciato l'imminente chiusura della sede Olp a Washington attiva dal 1994. Motivo dichiarato: l'indisponibilità dell'organizzazione - denuncia il Dipartimento di Stato - ad avviare passi «per far avanzare l'avvio di diretti e significativi negoziati con Israele». Dopo lo sbarramento innalzato da parte palestinese nei confronti de «l'accordo del secolo», come Trump ha definito il suo piano di pace ancora non noto, la leadership dell'Olp viene accusata di aver condannato il piano «senza averlo neppure visto ed essersi rifiutata di impegnarsi con il governo americano negli sforzi per la pace». Ma c'è anche un'altra ragione invocata dal Dipartimento: «I tentativi palestinesi di spingere la Corte Penale internazionale ad aprire un'indagine su Israele» per quanto riguarda Gaza. Una mossa che l'Olp definisce l'ennesimo tentativo di «proteggere l'occupazione israeliana e i suoi crimini».

(Corriere della Sera, 11 settembre 2018)


Israele, record di investimenti in startup

Il primo semestre dell'anno si è chiuso con finanziamenti per un totale di 3,2 miliardi di dollari, grazie a un secondo trimestre in crescita.

di Monica D' Ascenzo

 
Israele si interroga se siano maturi i tempi per passare da "startup nation" a "scaleup natìon" e intanto tocca un nuovo record nella prima metà di quest'anno. Nei primi sei mesi del 2018 le startup nel Paese hanno registrato la cifra di 3,2 miliardi di dollari di finanziamenti, anche grazie alla tenuta del secondo trimestre. In quest'ultimo periodo le società innovative hanno raccolto 1,61 miliardi di dollari in 170 operazioni, secondo il rapporto del Centro di ricerca IVC e dello studio legale ZAG S & W Zysman, Aharoni, Gayer & Co. Certo ha fatto la differenza il finanziamento da 300 milioni di dollari ricevuto da Landa Digital Printing, che ha rappresentato il 19% del totale raccolto nel secondo trimestre. Pur escludendo questo deal, però, l'ammontare complessivo nella prima metà del 2018 resta comunque il più alto dall'inizio del decennio.
   Una quota del 35% del totale, invece, è stata coperta da quattro operazioni di oltre 50 milioni ciascuna, tra le quali l'investimento in Gett, società israeliana attiva nella mobilità condivisa, di So milioni di dollari, che rappresentavano il secondo più grande accordo nel secondo trimestre del 2018.
   Le società early stage (o quelle che completavano i round di finanziamento della serie A) hanno visto iniezione di capitali per un totale di 200 milioni in 39 operazioni. Le aziende che completano le serie B e C hanno raccolto 857 milioni di dollari in 47 deal, che rappresentano il 53% del totale dei fondi raccolti nel secondo trimestre. Fondi che, per altro, arrivano anche dall'estero, come ha sottolineato il managing partner di ZAG, Shmulik Zysman, secondo il quale la crescita è dovuta in parte a un aumento dei finanziamenti da parte di investitori cinesi ed europei interessati alla tecnologia israeliana, in particolare automobilistica. E a dare ragione alla teoria del manager è lo shopping che nel Paese fanno le grandi multinazionali. Da ultimo, ad esempio, Facebook ha rilevato la startup esperta di tecnologia di messaggistica Redkix. Non è dato sapere quale sia l'importo dell'acquisizione, ma secondo le indiscrezioni riportate a Haaretz, si parlava di qualche decina di milioni di dollari. L'acquisizione fa parte degli sforzi di Facebook per competere con Slack, una piattaforma di messaggistica organizzativa che sta diventano molto popolare nelle aziende high-tech e nella comunità degli sviluppatori. Redkìx, che è stato fondato nel 2014 dai fratelli, definiti imprenditori seriali, Oudi e Roy Ante bi, ha sviluppato un sistema con email che funziona come fosse una chat progettata in primo luogo per le organizzazioni. D'altra parte Facebook non è nuova a incursioni nel Paese e Redkix si può considerare un investimento anche relativamente piccolo, dopo le acquisizioni di Onavo e Face.com, del valore rispettivamente di 150 milioni e 100 milioni di dollari.
   La tecnologia in Israele assume diverse forme e così nelle mire dei gruppi americani rientrano startup di settori diversi. Come il caso di fine luglio di SimpleOrder, con sede a Tel Aviv e attività nelle soluzioni per la ristorazione, acquisita da Upserve, una società Usa che fornisce software di gestione dei ristoranti.
   Accanto all'industria degli investimenti, quindi, si è sviluppata anche quella delle exit, che aiuta a far lievitare i track record dei fondi, innescando così un circolo virtuoso.

(Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2018)


Torinodanza, proteste e tensioni contro Israele

Manifestazione in piazza Castello

TORINO - Momenti di tensione ieri sera in piazza Castello durante l'inaugurazione di Torinodanza. Un gruppo cli manifestanti con la bandiera della Palestina ha protestato contro la presenza a Torino di una compagnia di danza israeliana. Anche all'interno del Teatro Regio, per la presenza di un oggetto sospetto, l'ingresso del pubblico ha subito rallentamenti. L'intera area è stata presidiata dalle forze dell'ordine.

(Corriere Torino, 11 settembre 2018)


In Israele è nato il vitello rosso

Il vitello rosso che «porta la promessa di ripristinare la purezza biblica nel mondo» è nato. A rivelarlo è il "The Temple Institute", pubblicando su Youtube un video del giovane esemplare. Nei testi sacri cristiani ed ebraici la nascita di questo animale è collegata alla fine dei tempi: in particolare, per l'Ebraismo, il sacrificio di un vitello rosso precederebbe la costruzione del terzo tempio e la nuova venuta del Messia.
Ci sarebbero tuttavia delle perplessità. Secondo Breaking Israel News, l'animale sarebbe stato generato impiantando embrioni di red angus in tradizionali mucche domestiche israeliane. Inoltre il giovane esemplare dovrà soddisfare alcuni requisti, come quello di essere «senza macchia», e per tanto sarà attentamente esaminato da una commissione di rabbini del "The Temple Institute". Non si tratta infatti del primo esemplare di vitello rosso salito alla ribalta: altri "candidati" negli anni scorsi sono stati esaminati dalla commissione di rabbini, ma nessuno ha mai soddisfatto pienamente i requisiti. Sarà questa la volta buona per la fine del mondo?

(Il Messaggero, 10 settembre 2018)


Nella Bibbia, al capitolo 19 del libro dei Numeri, si parla di una “giovenca (femmina) rossa, non di un “vitello” (maschio) rosso, come si può desumere anche dal termine inglese “heifer” usato nel video. Ma per i cronisti l’ignoranza su argomenti biblici sembra essere un segno di superiore condiscendenza, e non, come invece è, di pura e semplice ignoranza, aggravata dal fatto che si tratta di un testo che ha formato la nostra cosiddetta società giudaico-cristiana. L’accenno ironico alla “volta buona per la fine del mondo” è rivelatore. Con i riti religiosi della società islamica invece i cronisti si dimostrano molto più attenti e rispettosi. Chissà come mai. M.C.


L’Iran apre nuovo laboratorio per produzione di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio

L'Iran ha annunciato l'apertura di un nuovo laboratorio moderno per la produzione di centrifughe per l'arricchimento dell'uranio, riferisce Tasnim riferendosi a un'intervista con il vicepresidente dell'Iran e capo dell'Organizzazione dell'energia atomica iraniana (AEOI), Ali Akbar Salehi.
"Il comandante dell'IRGC (Guardia Rivoluzionaria Iraniana) ha emesso un decreto per l'avvio e il completamento di un impianto avanzato per la produzione di centrifughe; ora il laboratorio è pronto ed è stato inaugurato" riporta le parole di Salehi l'agenzia.
Salehi ha detto che il reattore di Teheran non è lo stesso di due anni fa e che è stato completamente ricostruito. Il vicepresidente ha dichiarato che l'Iran ha concluso un "trattato con un paese europeo per il suo sviluppo".
Il 14 luglio 2015 è stato concordato a Vienna il piano d'azione congiunto finale sul programma nucleare iraniano. L'Iran si è impegnato a non produrre plutonio per uso militare per 15 anni, di avere a disposizione non più di 300 chilogrammi di uranio arricchito al 3,67% e di riconvertire tutti gli impianti nucleari esclusivamente per scopi pacifici. In questo caso, l'embargo sulle armi imposto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, resterà in vigore per cinque anni e il divieto di fornitura all'Iran di tecnologia dei missili balistici per otto anni, mentre gli esperti dell'AIEA monitoreranno gli impianti nucleari iraniani per oltre 25 anni.

(Sputnik Italia, 10 settembre 2018)


Il legame che unisce Trino ad Israele

 
da sin. Pier Franco Irico e Massimo Patrucco
Il legame che unisce Trino ad Israele è proprio all'inizio della mostra: un'immagine dell'aron, l'armadio che custodiva i rotoli della legge nella Sinagoga della città vercellese, che oggi si trova al museo di Tel Aviv. Non è l'unica curiosità da scoprire in questa bella mostra da titolo "Oltre Gerusalemme - da Trino alla città santa", 30 scatti tutti con il fascino e il dettaglio "analogico", delle vecchie pellicole in bianco e nero, realizzati dal fotografo Massimo Patrucco.
   Inaugurata domenica 9 settembre alla presenza dell'autore e con il commento dello storico trinese Pier Franco Irico, sarà visitabile alla Sala Carmi della Comunità Ebraica casalese fino al 30 settembre.
   In pratica si tratta di un reportage in due parti: la prima è dedicata a Trino sulle tracce di una Comunità ebraica molto attiva fino al '900. Un itinerario che ci porta proprio nella sinagoga, collocata nel cuore del borgo (oggi è compresa nel municipio) e tra le lapidi del cimitero ebraico. La seconda parte è un viaggio in Israele, dove le sinagoghe sono piene e non solo si trova l'aron trinese, ma anche molti discendenti di famiglie ebree monferrine.
   "Per capire come era la vita ebraica di Trino dovete immaginarvi quelle persone in questo contesto spiega Elio Carmi, vicepresidente della comunità ebraica casalese indicando le file di persone in preghiera ad Israele - Per questo è importante mantenere una continuità con la memoria... Sono arrivate qui diverse persone di Trino che ignoravano che nella loro città ci fosse una sinagoga". Eppure come dimostrano in documenti esposti, gli Ebrei sono stati attivi a Trino fin dal 1500, hanno cominciato come stampatori, hanno fatto la fortuna di questa città e della corte Paleologa, non senza invidia di molti che li avrebbero voluti relegare più in periferia.
   La stagione culturale della Comunità casalese di vicolo Salomone Olper riprende domenica 16 settembre alle ore 16,30 con la presentazione del volume "La stella e la mezzaluna", breve storia degli ebrei nei domini dell'Islam, scritta da Vittorio Robiati Bendaud.

(Il Monferrato, 10 settembre 2018)


Israele: la guerra segreta contro l'Iran e l'ISIS

di Alice Bellante

Negli ultimi anni, Israele ha segretamente armato e finanziato una dozzina di gruppi ribelli presenti nel sud della Siria al fine di impedire ai combattenti iraniani e ai militanti dello Stato Islamico di avvicinarsi al proprio territorio, secondo un rapporto di Foreign Policy.
   I primi indizi dei finanziamenti dello Stato Ebraico sono emersi nel 2017 quando l'esercito israeliano ha intrattenuto le prime comunicazioni dirette con alcuni comandanti ribelli, allineati con il Free Syrian Army, fornendo fondi per stipendi, armi e munizioni per rendere le alture del Golan una zona "cuscinetto" tra la Siria e il proprio territorio. In alcune interviste del Wall Street Journal, risalenti al 2017, i ribelli dell'opposizione siriana avevano rivelato che la cooperazione era iniziata già nel 2013, dopo che alcuni combattenti avevano ricevuto cure mediche negli ospedali israeliani.
   Inizialmente, le armi trasferite erano per lo più fucili d'assalto M16 fabbricati negli Stati Uniti. In seguito, lo Stato Ebraico ha iniziato a rifornire i ribelli con attrezzature non americane, tra cui alcune armi e munizioni appartenenti ad una spedizione iraniana destinata al gruppo libanese Hezbollah, che Israele aveva sequestrato nel 2009. Dall'inizio del conflitto siriano, nel marzo 2011, Israele ha sempre rifiutato di accogliere rifugiati siriani nel proprio territorio, accettando unicamente di curare feriti e malati in alcune cliniche a nord del Paese per poi rispedirli in territorio di guerra.
   Nonostante ciò, l'assistenza fornita dallo Stato Ebraico ai ribelli siriani si è espansa significativamente proprio nel 2017, in coincidenza di una politica israeliana più aggressiva, finalizzata a mantenere le milizie appoggiate dall'Iran lontane dalla Siria meridionale e perciò dal confine con Israele. Decine di comandanti e combattenti dell'opposizione siriana hanno dichiarato che, grazie alla politica estera dello Stato Ebraico, le proprie forze hanno ottenuto salari individuali di circa 75 dollari al mese, i quali sono poi stati utilizzati per acquistare armi nel mercato nero siriano.
   Due dei gruppi supportati da Israele sono stati identificati pubblicamente: Forsan al-Jolan, una fazione con sede nella città di confine di Jubata al-Khashab, a Quneitra, e Liwaa Omar bin al-Khattab, con sede a Beit Jinn, una città che confina con il monte Hermon. Le armi e altre attrezzature militari coinvolte negli traffici sono state consegnate attraverso 3 porte di sicurezza che collegano le alture del Golan e la Siria. Tra gli oggetti di scambio vi erano veicoli di trasporto, fucili d'assalto e mortai. Non è più un segreto perciò che Israele abbia fornito armi e fondi ai ribelli siriani, sebbene si ritenga che l'assistenza dello Stato Ebraico sia inferiore alla media, se comparata a quella fornita dalle altre potenze straniere coinvolte nella guerra civile siriana. A conferma di ciò, i ribelli hanno espresso insoddisfazione circa la misura degli aiuti forniti, affermando che essi erano insufficienti.
   A giugno, il regime di Damasco, sostenuto dalla Russia, aveva lanciato una grande operazione militare nel sud della Siria, al fine di riconquistare l'area strategica al confine con la Giordania e con le alture del Golan occupate da Israele. Nonostante lo Stato Ebraico abbia effettuato circa 200 incursioni aeree in Siria, negli ultimi 18 mesi, esse sono state dirette principalmente contro obiettivi iraniani. Non a caso, Israele non è intervenuta direttamente contro le forze del presidente siriano, Bahsar al-Assad, ma ha comunque minacciato di attaccare i contingenti del regime se questi si fossero schierati nella zona demilitarizzata delle alture del Golan. Le offensive di Quneitra e Daraa, le quali erano state sostenute da una massiccia forza aerea russa, hanno causato il dislocamento di centinaia di migliaia di civili, i quali hanno lasciato le loro case cercando accoglienza verso i confini del Golan e della Giordania. Secondo quanto riporta The New Arab, alcuni ribelli avrebbero interpellato diversi dei loro contatti militari israeliani per chiedere asilo, poi concesso ad un numero limitato di comandanti e ai loro familiari. Nonostante ciò, sui canali ufficiali, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva ripetutamente dichiarato che i civili siriani in fuga dalla guerra non sarebbero stati ammessi in Israele.
   Il Rapporto di Foreign Policy evidenzia infine che Israele ha anche fornito supporto armato a fazioni ribelli che combattono contro gli affiliati dello Stato Islamico, presenti nel bacino di Yarmouk. A tal fine ha altresì condotto attacchi diretti con droni contro i comandanti dell'ISIS ed effettuato incursioni missilistiche contro le roccaforti del gruppo. Per quanto riguarda i gruppi ribelli che combattono le forze del regime di Assad, invece, non c'è stato alcun tipo di supporto tramite fuoco diretto.
   L'assistenza fornita da Israele ai ribelli siriani è significativa per diverse ragioni secondo Foreign Policy. In primis, essa rappresenta la volontà israeliana di impedire il consolidamento della presenza iraniana in Siria. In secondo luogo, solleva alcune domande circa gli equilibri di potere in Siria, proprio quando la guerra civile sembra avvicinarsi ad una conclusione. È altresì importante notare che i contingenti iraniani, i quali hanno aiutato Assad a sconfiggere i ribelli, non mostrano alcuna inclinazione a ritirarsi dalla Siria, rappresentando un potenziale "punto di infiammabilità" tra Io Stato Ebraico e Teheran. In terzo luogo, come risultato dell'aiuto umanitario e militare fornito, Israele è ormai percepita da molti residenti della Siria meridionale come un'alleata. Perciò, mentre le truppe fedeli ad Assad, aiutate dalle forze russe e iraniane, hanno riaffermato il controllo territoriale su sempre più aree della Siria, Israele ha cercato altri modi per garantire i suoi interessi lungo il confine. A conferma di ciò, a luglio dell'anno corrente, i funzionari israeliani hanno raggiunto un'intesa con la Russia, la quale ha consentito il ritorno delle forze del regime nelle regioni occidentali di Daraa e Quneitra, le aree adiacenti alle alture del Golan. In cambio, la Russia avrebbe promesso di mantenere le milizie appoggiate dall'Iran a 80 chilometri dalle alture del Golan e di non ostacolare gli attacchi israeliani contro obiettivi iraniani in tutta la Siria.
   Leggi Sicurezza Internazionale, il primo quotidiano italiano interamente dedicato alla politica internazionale

(Sicurezza Internazionale, 10 settembre 2018)


Sabato 15 si commemora ad Arona il 75o anniversario dell'eccidio degli ebrei

ARONA - Sarà ricordato sabato, 15 settembre, con un'apposita cerimonia commemorativa, il 75o Anniversario dell'eccidio degli ebrei avvenuto ad Arona e sul Lago Maggiore. L'Amministrazione Comunale ricorderà le vittime del razzismo nazista con una cerimonia in programma alle 10 presso il Monumento ai Caduti in Piazza De Filippi. Il 15 settembre 1943, durante quei terribili accadimenti, persero la vita: Bardavid Mary Modiano, Coen Margherita Penco, Kleinberger Clara Rakosi, Modiano Giacomo Elia, Rakosi Tiberio Alexander, Cantoni Vittorio Angelo, Finzi Irma Cantoni, Modiano Carlo Elia, Modiano Grazia.

(Arona24, 10 settembre 2018)


Agente "piantona" la Sinagoga di Lugano: «Si temevano attentati»

La singolare scelta è legata alla festività del Capodanno ebraico. Oggi, per gli ebrei, è il primo giorno del 5779. Lo specialista Elio Bollag: «Niente mondanità. Questi sono i giorni del giudizio».

di Patrick Mancini

 
La Sinagoga di Lugano
LUGANO - Che ci fa un agente di sicurezza davanti alla Sinagoga di Lugano? La presenza dell'uomo non è passata inosservata e ha destato più di un interrogativo tra i passanti. A spiegare le ragioni di questa insolita presenza è Elio Bollag, noto esponente della comunità israelita luganese. «Il fatto è che gli ebrei, tra oggi e domani, festeggiano Capodanno. C'è chi ha temuto che questa ricorrenza potesse aumentare il rischio di attentati. Si è dunque corsi ai ripari. Non è la prima volta che si fa questa scelta».

 Grande raccoglimento
  Oggi, lunedì 10 settembre, per gli ebrei è il primo giorno dell'anno 5779. «Per noi il mondo ha esattamente questa età. Anche se, probabilmente, agli inizi non si contavano i giorni e le settimane così come le contiamo oggi. La festa è iniziata domenica sera, con una cena piuttosto raccolta. Da noi non esistono cenoni e champagne. Niente mondanità. C'è soprattutto raccoglimento. Quella di oggi e quella di domani sono due giornate importanti».

 Una comunità viva
  Sono circa 18.000 gli ebrei sparsi per la Svizzera. Alcune centinaia quelli a sud delle Alpi. «Non tutti praticano e non tutti si espongono. Rappresentiamo comunque una comunità viva e presente. In questi giorni di festa, diverse decine di ebrei frequenteranno la Sinagoga».

 È la luna a decidere
  Il calendario ebraico dipende dalla luna. Anche per questo, il Capodanno degli ebrei non cade mai in una data ben precisa. «Solitamente cade a fine estate, di questi tempi. Tra una decina di giorni ricorrerà invece la festa del gran perdono. Ci saranno le confessioni, cercheremo di farci perdonare i nostri peccati. D'altra parte, l'anno nuovo per gli ebrei corrisponde a una sorta di giudizio. Una persona è chiamata a fare una sorta di autocritica, a valutare se è degna di entrare nel nuovo anno».

 Il parere personale
  Bollag torna, infine, sulla presenza dell'agente di sicurezza davanti alla Sinagoga. «Personalmente la trovo una misura esagerata. E che si fa notare troppo. Sono un po' in lotta col rabbino per questo. Fortunatamente l'agente non è sul posto 24 ore su 24».

(tio.ch, 10 settembre 2018)


Il nuovo inizio di Israele. Sfida di un popolo felice ai predicatori dell'odio.

Il «Rosh Ha Sbana» è un momento di riflessione del Paese. Tra storici nemici, e nuovi alleati. Economia e famiglie crescono, le start up fioriscono. Malgrado Hamas, lsis, Iran e Hezbollah.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Rosh Ha Shana, il capodanno ebraico, ha segnato ieri sera l'ingresso del 5779

Shana Tov

. Siamo un bel pezzo avanti nell'incredibile storia umana e nella storia ebraica. Ma quando entra l'anno nuovo cominciano subito, insieme al brindisi, alle benedizioni, alla mela intinta nel miele per significare prosperità e dolcezza, anche i pensieri. Infatti i giorni successivi, per una settimana intera, sono dedicati, fino a Yom Kippur, il grande digiuno caro al popolo ebraico, alla riflessione su se stessi, ai propri fallimenti, peccati, errori. In quel giorno poi Dio segnerà nel libro della vita chiunque abbia perdonato e si sia scusato. Israele naturalmente fa i compiti: cos'è andato bene, cos'è andato male, dove abbiamo sbagliato, cosa è stato giusto. E quindi, che cosa ne deriva per il futuro.
   Quest'anno ha visto un duro attacco stampa al primo ministro, sulle indagini (non formalizzate) sul suo comportamento e quello della sua famiglia; sulla nuova Costituzione che dichiara Israele patria del popolo ebraico; sul ruolo della magistratura. Al di là delle drammatizzazioni politiche, è un dibattito tipico delle democrazie, sorprendente in un Paese in stato di guerra. Alla fine la guerra è stata evitata con prudenza e audace diplomazia sotterranea; l'economia cresce, i partiti religiosi, membri della coalizione, vengono tenuti a bada con concessioni cosmetiche. Alla fine l'opinione pubblica tiene in maggioranza per «Bìbì», primo ministro dal 2009, e prima dal '96 al '99, e crescerebbe ancora se ci fossero elezioni.
   Perché Israele rimane una stella nel firmamento della crisi mondiale, specie se si pensa al passato degli ebrei, all'antisemitismo rampante, al continuo attacco dell'Unione Europea, all'assedio armato che mobilita eserciti, terroristi, predicatori islamici e propagandisti sparsi nel mondo. Un esempio di cammino che non conosce ostacoli nel vento e nella tempesta. Al di là dei confini l'assedio si chiama Iran, Hamas, Hezbollah, Isis, e di tutti quelli che li sostengono, dal Qatar a Corbyn. A nord, l'Iran ha rafforzato la presenza armata in Siria che, con quella degli hezbollah, è il peggior pericolo esistenziale che Israele abbia affrontato: ormai ha un confine con il Paese che lo considera «un albero dalle radici marcite da distruggere». I bombardamenti sui convogli di armi diretti agli Hezbollah e contro strutture belliche è stata una costante dell'anno passato, se ne contano nel complesso 200. E a sud, sul confine di Gaza, Hamas ha oggi una strategia di massa, che prende di assalto i confini e brucia i campi coltivati con gli aquiloni. Abu Mazen ha visto quest'anno il tramonto della sua stella a seguito di una politica di odio antiamericano che non ha portato altro che guai ai palestinesi, e spende le sue ultime energie in una lotta a coltello contro di Hamas.
   Ma l'Ufficio statistico nel suo rapporto annuale riporta che l'89% degli Israeliani è molto soddisfatto della propria vita. Nel 2018 il rapporto mondiale sulla felicità ha piazzato questo piccolo Paese all'11esimo posto su 156; l'aspettativa di vita da 69.7 anni nel 2000 è arrivata a 72.8 nel 2015. Le coppie hanno tre bambini a famiglia nonostante i religiosi osservanti siano il 21%, e nonostante certe fosche previsioni la crescita della popolazione araba non sta per sovrastare quella ebraica. Su 8 milioni e 907mila cittadini, in continua crescita, 6milioni e 625mila sono ebrei, un milione e 864mila arabi, 418mila di altre etnie. Nel campo della tecnologia e della medicina Israele è sempre di più la «startup nation». Non è tecnica, è filosofia: ingegnarsi nelle difficoltà sfruttando lo stimolo della battaglia per la sopravvivenza. Col contributo nella lotta contro il terrorismo, col quale sono stati evitati molti attentati in Europa e nel mondo, Israele ha conquistato l'ammirazione di molti Paesi.
   È stato l'anno in cui Trump ha restituito a Israele il ruolo di amico privilegiato, in cui l'Iran è stato di nuovo visto come un pericolo atomico, in cui l'ambasciata americana Usa è stata trasferita a Gerusalemme, una svolta storica. È seguito il taglio dei fondi all'Unrwa, l'organizzazione dell'Onu che ha contribuito alla conservazione del conflitto portando da 500mila a 5 milioni i profughi palestinesi. Si sono aperti quest'anno nuovi rapporti con l'India, con la Cina, l'Africa e anche con Putin, per neutralizzare la possibilità di un contatto pericoloso in Siria. La presenza iraniana in Medio Oriente ha portato a favorevoli contatti con Egitto, Arabia Saudita, Emirati. È tempo in cui le dune del Medioriente cambiano forma. La quantità di sabbia rimane la stessa.

(il Giornale, 10 settembre 2018)


Trump pronto a chiudere la sede Olp a Washington

 
La sede dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington
L'amministrazione Trump dovrebbe annunciare oggi che chiuderà la sede dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington. Lo scrive il Wall Street Journal, citando funzionari non identificati della Casa Bianca.
   Si prevede che l'annuncio sia preparato dal consulente per la sicurezza nazionale John Bolton, come parte di una crescente campagna di pressione degli Stati Uniti nei confronti di funzionari palestinesi, stante la situazione di stallo per la pace in Medio Oriente.
   Gli Stati Uniti "staranno sempre con il nostro amico e alleato, Israele", dovrebbe dire Bolton nelle sue osservazioni, secondo quanto riferisce il WSJ, sulla base di una bozza che ha potuto esaminare. Nel documento sarebbe presente anche la minaccia di sanzioni contro la Corte penale internazionale, se proseguirà con le indagini su Stati Uniti e Israele. Azioni che potrebbero includere il divieto d'ingresso negli Stati Uniti per i giudici e procuratori della Corte.
   L'amministrazione ha affermato che sta tentando un nuovo approccio al conflitto israelo-palestinese dopo decenni di falliti colloqui di pace, ripercorrendo i problemi chiave dei palestinesi mentre rimodella la politica degli Stati Uniti. Ma i funzionari palestinesi vedono la nuova amministrazione come troppo schierata a favore di Israele e hanno tagliato i contatti. All'inizio di settembre, l'amministrazione Trump ha bloccato i finanziamenti dell'agenzia delle Nazioni Unite che sostiene i rifugiati palestinesi.

(Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2018)


Israele: pressioni sul governo per trovare fondi alternativi per i palestinesi

di Chiara Romano

I funzionari di sicurezza israeliani stanno facendo pressioni sul governo affinché trovi una fonte alternativa per i fondi umanitari destinati ai palestinesi di Gaza, dopo gli ultimi tagli degli Stati Uniti all'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA).
  Negli ultimi giorni, i funzionari israeliani hanno comunicato alla leadership politica del Paese di temere che il ritiro dei fondi e i tentativi degli Stati Uniti di limitare il contributo delle altre nazioni all'Agenzia dell'ONU potrebbero portare a un collasso umanitario a Gaza e anche alla guerra, in quanto il gruppo terroristico Hamas, che governa sull'area, sta cercando di incolpare i nemici esterni per le tormentate condizioni del territorio. Gaza, infatti, è oggetto di un embargo perpetrato sia da Israele che dall'Egitto, volto a prevenire, secondo i governi dei 2 Paesi, che Hamas espanda le sue capacità militari e minacci i vicini. Tuttavia, secondo The Times of Israel, negli anni il governo israeliano ha cercato di assicurarsi che il blocco limiti solamente il gruppo terroristico e non danneggi il popolo. Tuttavia, le condizioni nella Striscia di Gaza rasentano la crisi umanitaria.
  A settembre, alcuni funzionari senior israeliani, fra i quali il ministro per la Cooperazione regionale, Tzachi Hanegbi, e il rappresentante delle Forze di Difesa Israeliane che si occupa delle relazioni con i palestinesi, il generale maggiore Kamil Abu Rokon, parteciperanno a una conferenza delle nazioni donatrici organizzata dall'UNRWA a New York. I funzionari cercheranno di ottenere l'approvazione di un canale parallelo di aiuti stranieri a Gaza, che permetterà di continuare a finanziare gli aiuti alimentari, le operazioni dell'ONU nelle scuole e il pagamento dei salari dei circa 30.000 impiegati dell'organizzazione. I funzionari della sicurezza hanno dichiarato che i fondi dell'UNRWA per i principali programmi di Gaza, inclusi quelli per le scuole e per la consegna di cibo, sono assicurati fino alla fine del 2018, ma se non ci saranno fondi per il 2019, si verificherà un collasso.
  Il 31 agosto, gli Stati Uniti avevano annunciato che avrebbero posto fine a tutti i contributi all'UNRWA, una settimana dopo aver tagliato circa 200 milioni di dollari in aiuti destinati a Gaza e alla Cisgiordania. Nonostante siano stati accolti con favore da alcuni politici israeliani, fra i quali lo stesso primo ministro, Benjamin Netanyahu, i funzionari della Difesa avrebbero criticato i tagli, poiché temono che potrebbero fomentare le violenze in Palestina e mettere in pericolo la sicurezza di Israele.
  Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, più di una volta, in concomitanza con i tagli ai fondi per i palestinesi, ha dichiarato che avrebbe ricominciato a finanziare gli aiuti se Israele e Palestina arriveranno a un accordo per risolvere la crisi. Inoltre, il Dipartimento di Stato americano aveva dichiarato che avrebbe cercato altri modi per aiutare i palestinesi. L'Autorità Palestinese, da parte sua, ha respinto i piani di pace annunciati dall'amministrazione Trump e sta boicottando gli Stati Uniti da quando, il 6 dicembre 2017, il leader della Casa Bianca aveva annunciato che avrebbe spostato l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo così la Città Santa come capitale di Israele.
  Israele, da parte sua, ha per lungo tempo considerato l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi come un male necessario, una risorsa vitale di aiuti internazionali ai palestinesi volta a contribuire alla stabilità dell'area. Allo stesso tempo, l'agenzia riflette e rinforza una delle cause alla base del conflitto con la Palestina. L'UNRWA permette ai discendenti dei rifugiati palestinesi della guerra di Indipendenza del 1948-1949 di continuare a utilizzare questo status, anche se queste persone hanno ricevuto la cittadinanza in Paesi terzi. Nonostante supporti i contributi umanitari dell'Agenzia dell'ONU, Israele ha dichiarato che questa definizione è servita come un riconoscimento internazionale de facto, almeno agli occhi dei palestinesi, della loro aspirazione a rovesciare i risultati di quella guerra, che aveva portato alla fondazione di Israele.

(Sicurezza Internazionale, 10 settembre 2018)


Azioni belliche e caccia agli ebrei al confine con la Svizzera

Chiara Zangarini, "Azioni belliche e caccia agli ebrei al confine con la Svizzera (1943-1944) nel Diario della Guardia di Frontiera Tedesca", Pietro Macchione Editore, pagg.172, € 20,00. 300 fotografie originali, Testo in tedesco con traduzione a fronte.

 Il libro
 
  Questo volume comprende unicamente il "Diario della Guardia di Frontiera Tedesca" (Chronik über den Kriegseinsatz des Zollgrenzschutzes in Italien - BZKom G - Varese) con il suo ricco, originale e completo apparato fotografico e le puntuali annotazioni della curatrice. La precedente edizione "Varese 1943 nel diario della guardia di frontiera tedesca" era arricchita da un'ampia sezione documentale e storiografica diretta a ricostruire la celebre Battaglia del San Martino (14-17 novembre 1943). Ovvero l'assalto che, con un forte schieramento di truppe e con l'aviazione, tedeschi e repubblichini di Salò diedero al fortilizio nel quale si era asserragliato con i suoi uomini il colonnello Carlo Croce. Si tratta di una delle prime sanguinose (per entrambi gli schieramenti) pagine della Resistenza italiana. Al di là di questi aspetti specifici, il Diario ha un valore molto più ampio, di fondamentale importanza per gli studiosi, non solo italiani, della Seconda guerra mondiale, in particolare del periodo che fa seguito al 25 luglio 1943 con l'arresto di Mussolini e la nascita del Governo Badoglio, l'Armistizio con gli Alleati, l'occupazione dell'Italia da parte degli ex alleati, la collaborazione tra autorità italiane e tedesche, i problematici rapporti confinari con la Svizzera. E non da ultimo con l'immediata caccia agli ebrei documentata in modo realistico dal Diario con un'eccezionale sequenza di immagini. L'edizione del solo Diario, in lingua tedesca e traduzione italiana a fronte, nasce con lo scopo divulgativo e scientifico di far conoscere a un pubblico più vasto di studiosi e lettori, questo eccezionale documento, sinora restato, e mai completamente, specie per la parte fotografica, in un ambito strettamente localistico. L'auspicio è che possa finalmente svilupparsi una maggiore coscienza storiografica sull'importante ruolo svolto dalla fascia confinaria tra Italia e Svizzera in quel periodo storico e che ne derivino nuovi studi e nuove pubblicazioni.

 Dal testo
  "Gli ebrei arrestati nel Varesotto venivano radunati per la maggior parte al carcere dei Miogni, nel quale erano compilati i registri matricola, oppure a Villa Concordia. Da lì erano trasferiti a Como o a Milano, in seguito al Campo di concentramento di Fossoli (Carpi - MO) e infine avviati nei lager nazisti. [...]
"Le cifre riportate nel diario riguardano solamente gli ebrei intercettati dalla Guardia di Frontiera tedesca, pertanto non sono da ritenersi esaustive del numero degli ebrei arrestati sul confine italo-svizzero del varesotto nel periodo considerato. Di vigilare la frontiera si occupavano anche i militari italiani: Guardia di Finanza, Carabinieri e Milizia confinaria. Mentre gli ebrei arrestati dalla Guardia di Frontiera venivano deferiti al Comando tedesco più vicino, quelli arrestati dalla Milizia direttamente alla Questura. Alcuni venivano deferiti al carcere di Como, altri a Milano, altri ancora venivano inviati ai campi di concentramento senza essere registrati."

 L'autrice
  Chiara Zangarini, laureata in Lettere Moderne presso l'Università Statale di Milano, insegna Italiano e Storia presso l'ISISS Daverio-Casula-Nervi di Varese. Collabora nel settore editoriale, curando alcune collane di Macchione Editore. Ha pubblicato vari articoli e volumi, di cui due di ricerca storica, religiosa e artistica, riguardanti le confraternite varesine in età moderna e le immagini della Vergine nella basilica di San Vittore. Nel 2010 ha curato l'interpretazione e la pubblicazione dei racconti giovanili di Gianni Rodari. Si è occupata della raccolta e della pubblicazione delle leggende del territorio insubrico.

(archiviostorico.info, 10 settembre 2018)


Fermare l'odio online con gli algoritmi. "Così la diplomazia diventa digitale"

Dal Dld di Tel Aviv, il più importante evento tecnologico di Israele, l'annuncio storico: si può combattere chi diffonde in rete messaggi falsi o offensivi con l'arma hi-tech per eccellenza: l'intelligenza artificiale.

di Jaime D'Alessandro

TEL AVIV - Abbiamo trovato il modo di eliminare alla radice la propagazione dell'odio su Facebook e Twitter». Elad Ratson, direttore dell'unità ricerca e sviluppo del ministero degli Esteri israeliano, lo racconta seduto in una saletta durante il Tel Aviv lnnovation Festival (Dld). Parla veloce, si accalora: «Che esista un problema lo segnaliamo a Facebook dal 2015, ben prima che scoppiasse lo scandalo Cambridge Analytica. Non erano interessati. Ora però hanno capito, perché il loro business è in pericolo». Ratson sostiene di possedere, dopo tre anni di sviluppo e un milione di euro spesi, un algoritmo capace di rintracciare e isolare gli account dai quali partono attacchi razzisti e notizie palesemente false. Proprio mentre al Congresso degli Stati Uniti il numero due di Facebook Sheryl Sandberg e Jack Dorsey, ceo di Twitter, ammettono la loro impotenza davanti alle manipolazioni politiche che sono avvenute sui social. Qui in Israele sono convinti che la diplomazia si debba occupare anche dell'online, territorio dove l'opinione pubblica viene plasmata attraverso la radicalizzazione delle opinioni. A volte si tratta di poche centinaia di soggetti, spesso bot gestiti da una manciata di persone, che riescono a dettare l'agenda toccando le giuste corde e facendo in modo che il loro messaggio si moltiplichi. Individuati in tempo reale e chiusi gli account, l'efficacia però sparisce.

 Migliorare l'efficacia
  «Cento tweet con metodi adeguati, spesso illegali, possono diventare decine di migliaia dando l'illusione che ci sia un'emergenza che non è tale o che esista un sentire comune su un tema quando non c'è», dice Ratson. «Si parla di messaggi che violano le regole stesse delle piattaforme social. Quelli che Facebook, YouTube e Twitter dicono di voler combattere». Se quel che sostiene Ratson è vero, è uno strumento rivoluzionario. L'analisi di certi fenomeni di odio e polarizzazione sull'onda degli algoritmi dei social network, ha portato il governo israeliano a creare un antidoto. Parte dall'infezione e a ritroso individua la fonte o le fonti. Ha del fantascientifico considerando i pochi passi avanti fatti nell'analisi e nel controllo dei contenuti pubblicati online. Sarebbe difficile prendere sul serio le affermazioni di Ratson se non rappresentasse Israele, una nazione che in fatto di cybersecurity è ai massimi livelli. E dove in un ministero, caso unico al mondo, si son messi a maneggiare l'intelligenza artificiale. Resta da capire quanto questo software sia efficace e a quale livello di profondità arrivi.

 Livello di profondità
  Facebook e gli altri colossi del Web hanno sempre sostenuto che le Ai possono per ora svolgere un compito circoscritto, la maggior parte degli interventi avviene su segnalazione degli utenti. Ma anche se l'algoritmo israeliano fosse solo in grado di rintracciare in pochi minuti gli account da dove partono messaggi palesemente fuorilegge, per ora pare lo faccia in maniera affidabile soprattutto su Twitter, sarebbe comunque un passo avanti sostanziale. In prospettiva potrebbe diventare la base per lo sviluppo di strumenti capaci di isolare flussi studiati a tavolino per orientare l'elettorato seminando paure ingiustificate. «La polarizzazione nei social network ha origine nei sistemi automatici di raccomandazione di un contenuto», spiega Richard Rogers, capo del Digital Methods Initiative dell'Università di Amsterdam. «Ai like piacciono i like e più ce ne sono più il sistema mette quel messaggio, quel video o foto, in evidenza. Le raccomandazioni dimostrano cose fra loro simili: idee vicine si uniscono e non interagiscono con quelle differenti. Le proprie convinzioni si specchiano in quelle di utenti che la pensano come noi. E più si autoconfermano più si estremizzano. Sono le echo cambers». Democrazie in pericolo che, gestite attraverso Facebook, possono annegare nella rabbia gridata online.

 Le origini diverse
  E pensare che Internet doveva essere il luogo della diversità di opinione ed è invece diventato quello dalla sorda omogeneità. «Proviamo però a pensare cosa accadrebbe se di una certa ondata di messaggi contro qualcosa o qualcuno, potessimo dire subito che sono nati da un certo numero di account e che parte di questi sono fasulli», conclude Ratson. «A quel punto Facebook o Twitter non avrebbe più scuse e sarebbero costrette ad intervenire, specialmente in Paesi, come gli europei, dove ci sono leggi che prevedono multe salate se non lo fanno». L'alto funzionario sa perfettamente che i 4 milioni di suoi concittadini che usano Facebook sono una fonte di guadagno troppo piccola perché in Silicon Valley l'ascoltino. E sa che una tecnologia sviluppata a Tel Aviv da molti verrà vista con sospetto. Per questo lui e il suo ministero la vogliono mettere a disposizione dell'Europa creando un'alleanza per riprendere il controllo dell'online dove gli Stati occidentali hanno sempre meno il polso della situazione. Anche questa è diplomazia. Meglio: la nuova diplomazia digitale ai tempi di algoritmi, intelligenza artificiale e social network.

(la Repubblica, 10 settembre 2018)


Kurdistan: attacco missilistico iraniano. Turchia e Iran stringono la morsa

11 morti e 50 feriti in un attacco missilistico sferrato dal regime iraniano contro la regione curda

Regione del Kurdistan iracheno (Rights Reporter) - Il corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (Pasdaran) ha lanciato ieri un attacco missilistico contro la regione del Kurdistan iracheno provocando 11 morti e il ferimento di oltre 50 persone compresi donne e bambini.
Secondo fonti sul luogo, il corpo d'élite iraniano avrebbe usato missili a corto raggio Fateh 110 per attaccare la città di Koya, nel Kurdistan iracheno, che Teheran classifica come "base operativa" del Partito democratico del Kurdistan iraniano (PDKI) in Iraq....

(Rights Reporters, 10 settembre 2018)


Beniamino Lazar racconta il Comites di Gerusalemme

ROMA - Beniamino Lazar, presidente del Comites di Gerusalemme, ha risposto alle domande di askanews sulla storia della sua collettività.

- Qual è la storia dell'emigrazione nella vostra circoscrizione? Come è cambiato negli anni il livello culturale e sociale degli emigrati nella vostra realtà?
  La nostra e' una Circoscrizione un po' particolare, la Circoscrizione di Gerusalemme. Sino ad alcuni anni fa facevamo parte della Circoscrizione di Israele, nelle ultime elezioni, vista la situazione geopolitica un po' particolare della citta', e' stato creato il Comites Gerusalemme. Comprende gli italiani a Gerusalemme, nei territori della Giudea e Samaria e quei pochi nella striscia di Gaza. Siamo intorno a 3.500 connazionali

- Una fotografia della situazione attuale: la circoscrizione è toccata dal fenomeno della nuova emigrazione? Quali sono le criticità e le urgenze che la vostra collettività sta affrontando?
  Il numero dei connazionali italiani nella nostra circoscrizione, cosi' come in quella di Tel Aviv, e' aumentato in questi ultimi anni. Sia per l'effetto di emigrazione di giovani e di famiglie dall'Italia, e sia per il fatto che molti qua riscoprono le loro origini italiane. Special modo italiani originari dall'Egitto, isola di Rodi.

- Come ha lavorato il Comites nel corso della sua storia e quali sono i progetti e le novità in programma?
  Abbiamo un contatto con parte della popolazione italiana. Una parte dei connazionali e' molto attiva e mantiene rapporti continui e costanti con l'Italia,altri sono piu' assenti. Programmi: continuare ad essere un supporto ed una voce alle esigenze e alle problematiche dei connazionali italiani.

- Come giudicate il livello di collaborazione con le istituzioni italiane - ambasciate, consolati, Ice, istituti di cultura, etc - presenti nella vostra realtà?
  Abbiamo buonissimi rapporti con il Consolato Generale d'Italia a Gerusalemme. Ambasciata, Istituto di Cultura, Ice sono fuori della nostra circoscrizione, e formalmente non abbiamo contatti. A livello personale abbiamo buonissimi contatti con l'Ambasciatore d'Italia a Tel Aviv e lo staff dell'Ambasciata.Da anni reclamiamo che anche nella importante citta' di Gerusalemme venga creato un Istituto italiano di Cultura, cosi' come vi e' da anni a Tel Aviv e a Haifa. Esiste a Gerusalemme da oltre 60 anni la Dante Alighieri, e il Museo d'Arte ebraica italiana U. Nahon. Altri paesi , come la Francia, Spagna, Germania, Turchia, USA, Regno Unito, Grecia sono presenti con Istituti di Cultura. Stranamente l'Italia e' assente.

- Quali iniziative pensate siano più utili per la valorizzazione nella vostra realtà del made in Italy e della cultura italiana?
  Secondo me il Consolato dovrebbe intensificare la presenza del Made in Italy e cercare di organizzare maggiori attivita' culturali

- Ritenete che l'istituzione Comites così come è concepita sia adeguata o abbia bisogna di una revisione legislativa?
  Secondo noi dovrebbe essere cambiato e migliorato

- Ritenete adeguata la normativa sul voto all'estero? In che termini potrebbe essere modificata e migliorata?
  C'e' molto da migliorare. Attualmente e' uno spreco di tempo e di denaro. La percentuale di coloro che alla fine votano, e' molto bassa. Molti dei connazionali italiani nella nostra circoscrizione, non hanno la piu' pallida idea di cosa succede in Italia. Io avrei proposto che chi vuole votare si deve fare parte attiva, e richiedere al Consolato e/o Ambasciata il plico per votare. Ci sarebbe cosi' un grosso risparmio di spese.

- Quali sono le principali richieste/esigenze che la collettività da voi rappresentata ha da avanzare nei confronti dei parlamentari eletti all'estero e delle istituzioni italiane? Come valutate il lavoro svolto sinora?
  Per noi, almeno negli ultimi anni i parlamentari eletti all'estero sono stati del tutto assenti, inesistenti. E' vero siamo una piccola comunita', ma cio' non toglie che ci saremmo augurati maggiori contatti. Avrei richiesto da parte dei parlamentari eletti all'estero maggiori attivita' e iniziative a favore dei connazionali, anche per quanto concerne risolvere problematiche annesse e connesse con la cittadinanza. Cosi' come mi sarei augurato da parte dei parlamentari italiani eletti all'estero iniziative per rilanciare agevolazioni per favorire il turismo di ritorno delle collettivita' italiane all'estero, cosi' come lo era sino ad alcuni anni fa (sconti su viaggi Trenitalia, e altre agevolazioni). Come Comites avremmo voluto che il MAECI organizzasse ogni 3,4 anni degli incontri regionali con gli altri Comites, per poter aver scambi di idee, vedere come gli altri risolvono problematiche.

(askanews, 10 settembre 2018)


Irak, adesso si rischia una guerra civile tra gli sciiti

Non solo Idlib e la Siria: proprio non c'è pace in medio oriente. Scoppiati violenti scontri fratricidi a Baghdad e a Bassora. La grave crisi economica è stata attribuita dalla popolazione alla crescente influenza degli ayatollah sul governo centrale.

di Piero Orteca

Abbiamo più volte sottolineato come nella diplomazia contemporanea spesso vengano confuse tattica e strategia. E quello che sta succedendo in questo momento nel Medio Oriente lo dimostra. Basta muovere le tessere del mosaico, pensando di aggiustare un conflitto regionale, che subito si muovono tutte le altre, facendo ballare (e sballare) qualsiasi scenario o previsione. È l'evoluzione logica di relazioni internazionali che non riescono a governare le crisi e che, anzi, finiscono col saldarle tra di loro, dando vita a quelle che possono essere definite "macro-aree di crisi". Il programmato attacco nel nord-ovest della Siria contro Idlib, per chiudere la partita con le ultime forze ribelli rimaste, sta provocando una serie di sommovimenti che toccano anche teatri diversi, come l'Irak e il Libano.
  La notizia più sensazionale, infatti, in queste ore arriva da Bassora, nel sud dell'Irak, dove le milizie sciite locali si sono rivoltate contro i loro (ex) patrons iraniani. L'insurrezione avrebbe contagiato anche la capitale, Baghdad, con scambi di colpi di mortaio e conseguente coprifuoco. Situazione confusa, quindi, per usare un eufemismo. O, per essere più chiari, l'ennesimo giro di valzer, che rende quasi impossibile delineare scenari realistici nel Medio Oriente. Fonti (superaffidabili) del Mossad e dello Shin-Bet (i servizi segreti d'Israele) parlano di scenari apocalittici nel sud dell'Irak, nello Shatt-al-Arab, dove Tigri ed Eufrate si ricongiungono.
  Il Paese sarebbe sull'orlo di una guerra civile fra sciiti, con l'aeroporto internazionale di Bassora bombardato dai razzi e il terminal petrolifero di Umm Qasr caduto nelle mani dei rivoltosi. Alle origini di quella che appare una vera e propria sollevazione popolare c'è la difficile situazione economica irakena e il drammatico calo della qualità della vita. Di cui molti civili cominciano ad accusare gli iraniani, che influenzerebbero negativamente e con arroganza le scelte del governo di Baghdad. Famoso l'episodio di questa estate, quando le milizie degli ayatollah tagliarono l'elettricità a Bassora, perché gli irakeni non pagavano le bollette. La conseguente mancanza di aria condizionata e acqua, con una canicola di quasi 50 gradi, ammazzò un bel po' di persone e mandò su tutte le furie il resto dei cittadini.
  A corroborare il quadro negativo per Teheran c'è un'altra novella. Tra il proconsole degli ayatollah in Siria (il generale Qassam Soleimani) e il leader di Hezbollah (sceicco Nasrallah) non corre più buon sangue. Pare che oltre 5 mila miliziani sciiti libanesi siano stati ritirati dal teatro siriano, per tornarsene alle basi di partenza nella Bekaa, a un tiro di schioppo dal fiume Litani e dal Golan. La mossa ha allarmato lo Stato maggiore israeliano. Per ovvi motivi. E per gli stessi motivi è già partito da Gerusalemme un avviso ai naviganti (sciiti): non pensiate di sfruttare il rischieramento per farvi venire idee strane contro di noi. Siamo pronti a rispondere.
  Last but not least c'è la patata bollente di Idlib. Venerdì scorso a Teheran si sono incontrati Russia, Iran e Turchia per stabilire il da farsi, mentre dall'altro lato Stati Uniti e Israele si consultavano, preoccupati della piega che stanno prendendo gli avvenimenti. Si tratta di questo: l'assalto finale alla roccaforte ribelle consentirà di chiudere la guerra civile siriana con un marchio che sembra sempre più di natura russo-sciita. E gli altri? Gli Stati Uniti dopo avere speso un sacco e una sporta di dollari nella regione e avere sparso sangue a iosa non ci stanno a veder trionfare Putin, che conquistando Idlib metterebbe il suo marchio finale sulla crisi. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, il summit di Teheran si è risolto con un nulla di fatto. Erdogan ha cercato di frenare, per non esporre il suo Paese al prevedibile esodo di massa dei profughi siriani che saranno generati dall'ultima battaglia. Si ipotizza infatti l'arrivo in Turchia di una massa tra 800 mila e un milione di migranti in fuga dalla guerra. Numeri che non potrebbero, nell'immediato futuro, non avere pesanti ripercussioni anche sul Mediterraneo. Ma gli ayatollah e il Cremlino sentono odore di vittoria. E non demordono, tanto che i pesanti bombardamenti russi sono già cominciati. Dall'altro lato e sottobanco, Israele e Usa lanciano minacciosi avvertimenti. A cui si è aggiunta pure la Francia, Paese sempre in cerca di petrolio a buon prezzo e che applica costantemente la massima dei pokeristi: "Piatto ricco, mi ci ficco".

(Gazzetta del Sud, 9 settembre 2018)


Storie di famiglia raccontano le leggi razziali

Al Museo Ebraico oggetti, foto e piccole vicende quotidiane. Esposti i quaderni del rabbino Elio Toaff con il fascio littorio A cinque anni Laura Supino aiutò il padre a costruire una radio fingendo di voler fare una bambola "autarchica"

di Francesca Nunberg

 La mostra
 
La sezione "speciale" di una classe con bambini ebrei
  Nel 1933 la "piccola italiana" Di Veroli Enrichetta viene promossa caposquadra dell'Opera Balilla con un diploma che recita: «Il modo di vita fascista deve incominciare dall'aurora». Nel 1935, anno XIII dell'era fascista, in seconda elementare a Giulio Kahn viene chiesto di scrivere venti nomi comuni e lui elenca: «Terra, soldato, fucile, cannone, aeroplano, tenente, mitragliatrice, sottomarino, bomba ... », Passano pochi anni e un'altra bambina, Laura Supino di 5 anni, riceve dal padre Paolo l'incarico di andare in un negozio di scarti elettrici in via Nazionale e procurarsi dei fili di rame con la scusa di voler costruire una bambola "autarchica". Serviranno in realtà a lui, ex ufficiale dell'Esercito costretto al congedo dalle leggi razziali, a costruire un apparecchio per ascoltare Radio Londra.

 Gli studenti
  «Sono le microstorie di bambini, famiglie, carriere interrotte, a raccontare la macrostoria di un periodo di cui bisogna continuare a trasmettere la memoria», spiega la storica Lia Toaff, curatrice della mostra assieme alla collega Yael Calò. Nello stesso mese in cui gli studenti ebrei vennero espulsi dalle scuole pubbliche italiane e a ridosso di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico che si festeggia stasera e apre il 5779, al Museo Ebraico di Roma venerdì si inaugura la mostra Italiani di razza ebraica: le leggi antisemite del 1938 e gli ebrei di Roma (catalogo Palombi Editori). L'obiettivo è quello di raccontare gli aspetti che hanno preceduto e poi portato all'emanazione delle leggi, controfirmate dal re Vittorio Emanuele III, che determinarono l'esclusione degli ebrei da scuole, esercito, partito, impieghi pubblici e professioni.

 L'emancipazione
  «La mostra - spiega Yael Calò - ha uno spirito didattico e comincia dove finisce il museo, va quindi dall'abolizione del ghetto con l'emancipazione degli ebrei nel 1870, all'avvento del fascismo, per arrivare poi alle leggi del 17 novembre 1938. In mostra ci saranno fotografie e documenti provenienti dall'Archivio storico della Comunità ebraica di Roma, libri e riviste di propaganda, oggetti prestati o donati da privati, pagelle e quaderni di scuola».
  Tra questi anche quelli del rabbino emerito Elio Toaff, scomparso nel 2015: «Mio nonno frequentava il Collegio rabbinico - spiega Lia Toaff - e i suoi quaderni in copertina avevano il re, la regina, Mussolini, il fascio littorio e le sfilate di camicie nere ... », Ma erano gli anni Venti e il peggio di là da venire. «Tra le storie - continuano le curatrici - c'è quella di Guido Levi di Leon, tenente colonnello di Marina radiato dal servizio militare nel '39 anche se non aveva mai professato l'ebraismo e aveva anzi fatto battezzare il figlio. Negli anni collezionò foto, ritagli e carte per documentare quanto accadeva e di recente il nipote Fabrizio De Leon (con il nome nel frattempo cambiato) ci ha donato questi preziosi album».
E ancora, si vede la foto di matrimonio datata 1940 di Vito Vivanti e Emma Zarfati e quella della loro bimba Fortunata nata l'anno dopo. Madre e figlia vengono arrestate in via degli Specchi il 16 ottobre del '43 e muoiono a Auschwitz; lui scappa alla prima retata e viene catturato durante la seconda. Oltre alle foto, struggenti come ogni testimonianza della vita "di prima" anche uno dei biglietti (dalla collezione del Museo) che i tedeschi consegnarono alle famiglie il 16 ottobre: in 20 minuti bisognava «prendere viveri per almeno 8 giorni, tessere annonarie, denaro e gioielli, valigetta con effetti personali ... E chiudere a chiave l'appartamento».

(Il Messaggero, 9 settembre 2018)


Rabbi Akiva spiegava la Legge anche a Mosè

Il leggendario maestro, vissuto dopo la distruzione del Tempio e morto per mano dei Romani in epoca imperiale, incarnò il modello del martire per il popolo d'Israele. Un vero «self-made man» della sapienza biblica.

di Piero Stefani

Ritratto di Rabbi Akiva
Nell'ebraismo si discute su tutto, in esso però c'è almeno un punto fuori discussione: il ruolo fondamentale assunto dal racconto. Un filone particolare del narrare ebraico lo si trova nelle storie relative ai grandi rabbini (o maestri) protagonisti della rinascita del giudaismo dopo la catastrofe costituita dalla distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C. Nell'ambito ebraico si tratta di nomi spesso familiari. Nel corso della cena pasquale si legge un testo chiamato Haggadah di Pesach. Tra le sue particolarità ci sono un'assenza e una presenza: la prima sta nel fatto che, pur concentrandosi sull'esodo dall'Egitto, non si nomina mai Mosè; la seconda è che vengono ricordati i nomi di alcuni maestri del I-II secolo d.C. e tra essi nessuno è più popolare di Rabbi Akiva. La ragione della loro presenza è semplice: se ci si continua a riunire attorno alla tavola per ricordare la Pasqua, anche quando non è più possibile, per mancanza del Tempio, sacrificare l'agnello (vedi Esodo 12,1-14), lo si deve alla capacità degli antichi rabbini di reinventare il rito.
  Barry W. Holtz, al termine del suo fine e penetrante libro Rabbi Akiva (Bollati Boringhieri), riporta una storia carica di forte valenza ermeneutica. Il grande rabbi (vissuto all'incirca tra il 50 e il 135 d.C.) propendeva per una spiegazione della Torah scritta (Pentateuco) volta a ricavare insegnamenti persino dai più minuti particolari del testo, compresi i segni grafici. Akiva aveva una scuola gremita di discepoli. Il racconto immagina che, ad un certo punto, Mosè in persona si sedesse nell'ultima fila degli alunni. Chi ricevette la Torah direttamente da Dio si mise ad ascoltare e non comprese nulla di quanto il maestro stava dicendo. Tuttavia, quando, a conclusione di una sua applicazione normativa, Akiva disse: «È Torah di Mosè dal Sinai», l'antica guida del popolo d'Israele comprese e si rallegrò. La fortuna goduta ai nostri giorni da questa narrazione è in massima parte dovuta al suo spessore ermeneutico. Prima di tutto essa esprime un senso di distanza: gli eredi si scoprono diversi dai loro padri. L'incomprensione da parte di Mosè rappresenta la consapevolezza della grande differenza esistente tra il punto di arrivo e quello di partenza. Per un sistema religioso è già ardito ammettere il problema ed è quindi impensabile che esso possa affermare l'invalicabilità di questo iato. Ecco dunque scendere in campo la finale gioia di Mosè, grazie alla quale si riconosce una continuità dove dapprima sembrava esserci una frattura.
  Holtz insegna al Jewish Theological Seminary, la prestigiosa istituzione dell'ebraismo americano conservatore dove operò pure A.J. Heschel, grande pensatore che dedicò profondi studi anche all'ermeneutica di Akiva. L'interesse principale del testo non va però in questa direzione. Il libro di Holtz non attribuisce neppure un ruolo privilegiato alla morte per mano dei Romani dell'antico rabbi, evento che ha fatto sì che, col tempo, Akiva diventasse il modello del martire ebreo. Proprio in questo orizzonte vanno recepite le ultime parole da lui pronunciate in punto di morte, tratte dall'inizio dello Shemà: «Ascolta Israele il Signore è nostro Dio, il Signore è Uno» (Deuteronomio 6,4). Neanche l'aspetto mistico, per quanto non ignorato, costituisce davvero il cuore del lavoro. Le componenti ora elencate, pur fondamentali, rientrano infatti in gran parte nella sfera indicata dal titolo dell'ultimo capitolo: «Epilogo: Akiva dopo Akiva». Ciò che più attira l'attenzione del nostro autore è la componente biografica incentrata sull'apporto arrecato da Akiva ai dibattiti, non ancora istituzionalizzati e fortemente dialettici, avuti con i suoi colleghi e i suoi discepoli. In definitiva il libro propone un approccio attento più alla vita che all'eredità.
  Holtz definisce la sua ricerca una «biografia immaginaria». L'aggettivo non tragga in inganno. Non sembri un paradosso affermare che è immaginaria proprio perché critica. Nell'ambito degli studi è ormai definitivamente archiviata l'idea che, attraverso le fonti, si possa giungere alla «storia reale» nel senso positivistico del termine. La constatazione non sospinge però a rifugiarsi nel romanzato. Le storie sono vere non già perché riportano per filo e per segno l'accaduto, bensì perché esprimono le idee dei loro inventori e trasmettitori.
  Di fronte a questo fatto il nostro autore è mosso più dall'istanza di calarsi in prima persona nella logica del racconto che da quella di ricostruire ambienti sociali o culturali. L'operazione non avviene con l'ingenua innocenza (ormai anch'essa perduta) propria di chi inventava narrazioni. Al contrario, essa si realizza attraverso il pungolo critico di chi, da un lato, decostruisce pretese certezze storiche e, dall'altro, individua i significati che i racconti intendono trasmettere; una operazione, quest'ultima, condotta da Holtz con un acume che si è inevitabilmente tentati di definire talmudico.
  Nel mare magnum della letteratura rabbinica, i riferimenti ad Akiva sono più di mille. Non manca quindi materiale per elaborare una biografia. Quando si ricostruisce una vita partendo da testi rabbinici, non è però dato ispirarsi, come si preoccupa di precisare l'autore, a un modello biografico antico alla Plutarco. Considerazioni analoghe del resto varrebbero per un confronto con i Vangeli (stranamente mai presi in considerazione da Holtz ); se infatti ci sono affinità non trascurabili tra le storie dedicate ai rabbi e le «biografie evangeliche» di Gesù, grandi sono pure le differenze. La più rilevante tra esse è costituita dalla veste frammentaria, perché corale, propria delle storie rabbiniche. Le narrazioni, oltre a essere sparse, non sono mai incentrate su un unico rabbi. I racconti sono infatti accomunati dalle discussioni, a volte persino aspre, tra maestri tutti dotati di un uguale diritto di parola.
  Perché in questo coro è emersa la voce solista di Akiva? Una delle ragioni principali sta nel fatto che egli incarna il fascino permanente del self-made man, vale a dire di colui che, estraneo a un mondo, riesce a entrarvi e a primeggiarvi in virtù della sua intelligenza, della sua forza di immaginazione e della sua tenacia. Nessun altro antico rabbino espresse tutto ciò come Akiva. Self-made man: inutile precisare che Akiva non tendeva a essere ricco e potente, la meta a cui aspirava era divenire saggio studiando e discutendo la Torah, anche a costo della vita.
  Gli oggetti delle discussioni rabbiniche sono spesso specifici del loro ambito e quindi impossibili da trasportare, sia pure con cautela, altrove. Non è però sempre così: a volte si affrontano temi di portata etica generale. In quest'ambito rientra, per esempio, la discussione relativa alla difficile arte di ammonire il prossimo. Un maestro sosteneva che nella sua generazione non c'era nessuno in grado di fare un monito, un altro dichiarava che non c'era alcuno capace di riceverlo; dal canto suo Akiva si chiedeva se ci fosse chi sapeva come ammonire. Intervenne infine un quarto rabbi il quale fece presente che, a causa sua, Rabbi Akiva fu ammonito per ben cinque volte e concluse il proprio intervento con queste parole: ogni volta che venne redarguito «egli mi amò sempre di più». Akiva si è trovato nelle condizioni escluse dagli altri due maestri: fu redarguito e seppe ricevere il rimprovero. Quella esperienza gli indicò che il peso determinante gravita sul come rimproverare il proprio prossimo. Se si sa come farlo, gli altri due scogli sono, di fatto, superati.

(Corriere della Sera, 9 settembre 2018)


Laburisti inglesi ancora nella bufera, infiltrazioni iraniane nel partito

La parlamentare laburista Joan Ryan ha denunciato presunte infiltrazioni di membri della propaganda iraniana all'interno del partito di Jeremy Corbyn, che avrebbero contribuito a far passare una mozione di sfiducia nei suoi confronti

di Jacopo Bongini

La parlamentare laburista Joan Ryan
Una nuova tegola si sta abbattendo addosso ai laburisti inglesi, già alle prese con le accuse di antisemitismo che hanno portato settimana scorsa il rabbino Jonathan Sacks ad auspicare la fuga degli ebrei dal Regno Unito nel caso Jeremy Corbyn dovesse venire eletto Primo Ministro.
   Questa volta la bufera si è scatenata direttamente all'interno del partito, per mano della parlamentare Joan Ryan, che in un'intervista rilasciata giovedì al quotidiano Daily Telegraph ha dichiarato come alcune persone considerate vicine al governo iraniano siano riuscite ad infiltrarsi nel Partito Laburista, allo scopo di condizionarne le votazioni interne. La Ryan fa esplicito riferimento alla mozione di sfiducia a cui è stata sottoposta lo scorso 6 settembre dalla direzione del partito e che è stata successivamente approvata con 94 voti a favore e 92 contrari; mozione presentata da alcuni membri del suo stesso collegio elettorale dopo che questi ultimi l'avevano accusata di essere eccessivamente critica nei confronti del segretario Corbyn in merito alla polemica sull'antisemitismo. Durante la votazione infatti, la parlamentare ha dichiarato di aver notato tra i presenti anche alcuni giornalisti di PressTv, un canale d'informazione all-news controllato direttamente dalla televisione di stato della Repubblica Islamica dell'Iran.
   La presenza dell'emittente, a cui è attualmente proibito trasmettere sul territorio britannico, sarebbe stata giustificata dal tesseramento - avvenuto nel maggio scorso - di uno dei suoi giornalisti al Partito Laburista. Secondo una fonte interna ai labour, il giornalista in questione sarebbe Roshan Salih, già noto per aver più volte descritto Israele come uno "Stato del terrore" e che proprio a causa del suo recente ingresso tra le file dei laburisti ha acquisito il diritto di partecipare alle votazioni riguardanti le mozioni di sfiducia dei singoli parlamentari, tra cui anche quella di Joan Ryan. Dal canto suo la Ryan, che ritiene di essere stata presa di mira per le sue simpatie filo israeliane (è presidente dell'associazione Amici laburisti d'Israele), ha dichiarato: "Sono sconvolta dal fatto che si siano potuti infiltrare nel Partito Laburista in questo modo e penso che sia necessario indagare, perché è una faccenda incredibilmente seria. Sono orgogliosa dei miei valori e non mi aspetto di essere il brindisi del portavoce del regime iraniano", chiedendo inoltre l'espulsione dei sostenitori del governo iraniano presenti nel partito ed apostrofando - in un tweet pubblicato dopo la sconfitta nella mozione - coloro che le avevano votato contro come "Trotskisti, stalinisti, comunisti ed estrema sinistra assortita. Non ho niente da spartire con loro". Nella serata di venerdì, un portavoce dei laburisti ha tuttavia affermato che non è loro intenzione mettere in discussione i singoli membri del partito.

(il Giornale, 9 settembre 2018)


Luoghi sacri, sapori e spettacoli: è il festival della cultura ebraica

Un percorso ebraico a due passi dal mare: dal 13 settembre parte la prima edizione del "Festival Livorno ebraica" che si snoderà sino alla fine di ottobre.

di Roberto Riu

Un percorso ebraico a due passi dal mare: dal 13 settembre parte la prima edizione del "Festival Livorno ebraica" che si snoderà sino alla fine di ottobre con tanti eventi fra visite guidate e spettacoli a cura della Cooperativa Amaranta e della Comunità ebraica livornese: «L'idea è di organizzare un evento annuale per Livorno - spiega Gilda Vigoni (Amaranta) - poiché pensiamo che l'ebraismo sia un qualcosa di peculiare della nostra città, un aspetto di cui gli stranieri sono informatissimi. Li vediamo venire con il pullman a visitare la sinagoga, la casa di Modigliani ed il museo ebraico. Bisogna un pochino che anche i livornesi prendano atto della fierezza di avere questa bellissima storia fatta di presenze e comunità straniere».
   Il primo passo del festival è costituito dall'apertura della sinagoga dal 13 settembre al 21 ottobre, tutte le mattine, dal lunedì al venerdì: «Questa è proprio un'iniziativa per i croceristi, facciamo un tentativo e se funziona si potrebbe aprire la sinagoga sempre, anche se non è così semplice trattandosi di un luogo sensibile. La sinagoga è, fra l'altro, molto visitata anche dagli studenti di Livorno e dintorni: ogni anno arrivano, ad esempio, seicento, settecento, studenti da Piombino. E la visita delle scuole ha una grande valenza sociale e culturale». Nel mese di ottobre si colloca inoltre la Giornata europea della cultura ebraica" ed il festival la racchiude perciò in una sorta di continuum proponendo vari eventi diluiti nel tempo anziché concentrati in un solo giorno: «Queste come le altre iniziative sono molto importanti - sottolinea Vittorio Mosseri, presidente della Comunità Ebraica di Livorno - prima di tutto per ricordare ai livornesi quello che i livornesi credo si stiano dimenticando.
   La Comunità ebraica di Livorno, la Nazione ebrea come era chiamata nel Seicento, è parte integrante della città e ne ha contribuito allo sviluppo. Bisogna che i livornesi riacquistino parte della propria storia. Perché perdere la propria storia significa non proiettarsi nel futuro. Il festival si inserisce nell'ambito della Giornata europea della cultura ebraica ed in quell'occasione presenteremo un libro sugli argenti appartenenti alla Comunità ebraica livornese».
   Per i docenti è poi prevista la presentazione al Museo ebraico di due progetti educational fra i quali "Saperi e sapori" che prevede la visita alla Sinagoga ed al Mercato Centrale con la scuola di cucina e la preparazione delle roschette. «Un evento a cui teniamo moltissimo è poi quello dedicato a Herbert Pagani e curato dalla Compagnia degli onesti»".
   Sono quindi previste visite guidate al Cimitero monumentale ebraico ed a quello di via don Aldo Mei, dove troviamo molti nomi richiamati nella toponomastica cittadina (Benamozegh, Attias, etc.), oltre ad un trekking ebraico dal Museo Yeshivà Marini sino alla casa natale di Amedeo Modigliani con sosta alla Sinagoga.
   Non mancherà poi un'apposita visita guidata alla casa natale di Amedeo Modigliani (via Roma 38) dove si potranno degustare dolcetti della tradizione livornese sefardita e vino kasher della "Cantina Giuliano" di Casciana Alta gestita da Eli e Lara Gathier che saranno presenti all'iniziativa.

(Il Messaggero, 8 settembre 2018)



Un nuovo cielo e una nuova terra

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».
E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «E' compiuto. Io sono l'alfa e l'omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell'acqua della vita. Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio. Ma per i codardi, gl'increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda».

Dal libro dell’Apocalisse, cap. 21

 


La verità come dissidenza: Intervista a Georges Bensoussan

di Niram Ferretti

La "colpa" di Georges Bensoussan, uno dei maggiori studiosi europei della Shoah, già responsabile editoriale del Memoriale della Shoah di Parigi e autore di libri fondamentali come, Il sionismo una storia politica e intellettuale, Genocidio. Una passione europea, l'eredità di Auschwitz, come ricordare, è stata quella di dire qualcosa di risaputo ma che si preferisce non dire troppo chiaramente. Associare l'antisemitismo all'Islam è oggi, in Francia ma non solo, un "reato" che può costare molto. La polizia del pensiero che si maschera con i panni nobilitanti dell'antirazzismo non tollera che si possa dire ciò che è evidente. Ma la realtà è davanti ai nostri occhi e bisogna avere il coraggio e l'onestà intellettuale di nominarla. La posta in gioco è alta. Quando, in una democrazia, dire la verità comincia a diventare una forma di dissidenza dovremmo essere tutti preoccupati.

 - Georges Bensoussan, l'anno scorso lei è stato citato in giudizio da un gruppo di associazioni contro il razzismo, Ligue de Droits de l'homme, SOS Racisme, Licra, MRP, CCIF. La ragione di ciò è dovuta al fatto che durante una trasmissione radiofonica su France 2 con il filosofo Alain Finkielkraut, lei ha parafrasato l'affermazione di un sociologo francese nato in Algeria che aveva affermato come l'antisemitismo sia un'eredità culturale che si tramanda nelle famiglie arabe. Come conseguenza è stato accusato di razzismo e quindi costretto a difendersi in due diversi processi, l'ultimo terminato a maggio. In entrambi i processi è stato assolto Qual è stato il significato complessivo di questa esperienza per lei?
    Questi due processi sono stati totalmente assurdi, e per questa stessa ragione, perfino emblematici dello stato in cui versa la società francese. Hanno rivelato sullo sfondo diverse fratture della sofferenza di un popolo che si sente derubato della propria vita. La prima frattura riguarda la negazione della realtà, dal momento che sono stati necessari due processi e molti mesi di istruttoria, il mobilitarsi della giustizia, di cui conosciamo il sovraccarico di lavoro, per riconoscere la realtà di un antisemitismo che numerose famiglie arabe condividono. Che si tratti di "Alcune famiglie" oppure "delle famiglie", cambia poco, dal momento che si sa che in francese "le" non significa "tutte le", ma una parte. L'anti-giudaismo che una volta funzionava nel Maghreb come codice culturale è stato importato. Ma quello che per lungo tempo non è stato altro che un anti-giudaismo fluttuante è diventato, alla seconda ed ancor più alla terza generazione, più virulento, talvolta degenerante in odio verso gli ebrei, ossessivo e focalizzato.
   Sono stati necessari quindi due processi per riconoscere che enunciando questa verità, non si emetteva un giudizio razzista e essenzializzante "sugli arabi" in generale. Un guazzabuglio che la dice lunga sulla volontà di non vedere e di non capire. Questi due processi hanno anche messo in luce la forza di una visione totalitaria del mondo che, tuttavia, si afferma sotto sembianze molto civili. Mi riferisco qui a quel famoso "politicamente corretto" che, poco alla volta, mira a creare un "uomo nuovo" che pensa, lavora e consuma "bene". Replica di un vecchio sogno totalizzante, se non totalitario, appartenente a queste società moderne caratterizzate dall'individualismo delle "folle solitarie", per dirla con le parole di David Riesman.
   Credere che l'esaurimento del comunismo sovietico e dei suoi epigoni alla fine del XX secolo avrebbe sradicato l'aspirazione totalitaria appare ingenuo. Quel "sogno" sembra indissociabile dalle società massificate, ostili alla libertà del singolo, a dispetto di un discorso di esaltazione senza fine dell'individuo, "voi, innanzitutto…". Perché il regno dell'individualismo, quest'altro nome della solitudine collettiva, appare anche come l'altra faccia di una massificazione totalitaria che provoca e induce lo stato di "guerra di tutti contro tutti".
   Tuttavia, questo caratterizza da molti secoli l'evoluzione di una società totalmente divorata dall'economia, dalla produzione, dalla norma, dalla produttività, dal profitto, dal consumo senza fine, ecc… Il paradosso è che oggi la sinistra, che per lungo tempo è stata associata all'idea di libertà, partecipa a questo processo di asservimento che promuove un uomo astratto, senza legami e senza radici, lavoratore intercambiabile e consumatore mai sazio.
   È il sogno terrificante del quale George Orwell aveva avuto presto la premonizione componendo 1984. Insieme ad altri, penso in particolare al francese Elie Halévy, Orwell aveva capito che il sogno totalitario non era limitato al comunismo o al nazismo ma sarebbe continuato sotto forme più sottili, nelle "società democratiche". Il "politicamente corretto" non è, dunque, la deviazione amabile delle nostre tradizioni politiche ed intellettuali più liberali. Sono già trascorsi quasi due secoli da quando, Tocqueville, nel 1835, aveva descritto e analizzato questo conformismo che rovina il pensiero e qualunque possibilità di fuga verso la libertà. Un sistema, come spiegava, che vi si lascia la libertà, a condizione che si rimanga dentro al cerchio. Allontanatevene e vi si lascerà la vita "peggiore della morte", scriveva. Trasgredite il codice del gregge e proverete la morte sociale dei dissidenti.
   Questi due processi hanno messo in luce anche delle fratture presenti nella società ebraica in Francia, ancora largamente dominata dalle élite dei notabili che devono il loro posto solo alla cooptazione, "figlio o figlia di…" e/o alla potenza del denaro. Élite che sono dunque, per il loro rango sociale, per forza vicine al potere, qualunque esso sia, e spaventate dall'idea di non piacergli, così come di prendere le distanze dal conformismo imperante. Senza pregiudizio verso la qualità umana di questi uomini e di queste donne, che peraltro può essere grande, è per questa ragione che la loro posizione sociale li divora, la loro funzione li assorbe. Di conseguenza, l'avvenire della società ebraica non è e non può essere la loro prima preoccupazione. Ciò che importa loro è innanzi tutto conservare le loro posizioni sociali.
    La società ebraica francese, non uso, volutamente la parola "comunità" è attraversata da una frattura che riproduce in modo identico quella che attraversa il paese. Da una parte ci sono le élite laureate, dotate di un capitale importante, culturale, scolastico e sociale ed economicamente agiate. Raggruppate nelle metropoli, e in particolare nei centri cittadini, traggono profitto dalla mondializzazione. Ultra-minoritarie, sono pur tuttavia loro che dominano in materia di cultura, che monopolizzano la parola pubblica e dunque privano la maggioranza della popolazione di qualsiasi espressione libera. E, per il resto, fanno la predica al minimo segno di ribellione per relegarlo nella sfera infamante del "populismo", quando non del cripto-fascismo. È quella che il geografo Christophe Guilluy chiama la "Francia dei piani alti". In secondo luogo, abbiamo la Francia suburbana. Si tratta, essenzialmente, di quei 500 "quartieri difficili" che raggruppano quasi 5 milioni di persone, sovente sono quasi delle zone di confinamento etnico-sociale dove la popolazione si trova in ostaggio, intrappolata tra il progredire dell'Islam politico da un lato, e dall'altro il mondo dei traffici di ogni tipo, stupefacenti prima di tutto. In terzo luogo, infine, c'è questa "Francia periferica" che raggruppa quasi il 60% della popolazione ed occupa la maggior parte del territorio: territori rurali, piccoli e medi agglomerati, centri cittadini e periferie abbandonate. È la parte maggioritaria del paese, vittima della de-industrializzazione e spesso colpita dalla disoccupazione di massa, mentre i posti di lavoro distrutti da oltre quarant'anni non sono stati necessariamente compensati dalla creazione di posti nel settore terziario.
   Questi sfaldamenti sociali e geografici rendono conto di una Francia esplosa e permettono di comprendere meglio il distacco rispetto alla cosa pubblica, come testimonia lo spettacolare progresso dell'astensione elettorale da una quarantina d'anni a questa parte. Questi sfaldamenti si ritrovano, almeno in parte, in seno alla società ebraica. I notabili che la dominano si occupano, da lungo tempo, di opere sociali, ma questo non li rende meno distaccati da ciò che accade nella"strada ebraica". Non si tratta di "chiusura di cuore". Ma semplicemente del fatto che non la vedono proprio…
   Ebbene, questo è il momento in cui gli ebrei di Francia si devono confrontare con la peggiore crisi della loro storia dal 1945. Molti hanno il sentimento che i loro "dirigenti" non li ascoltino, il che aggrava l'impressione del "si salvi chi può", il sentimento che nessuno prenda in considerazione la salvezza collettiva, come se ciascuno cercasse, prima di tutto, per la propria famiglia, una soluzione di salvataggio personale.

 - Il famoso scrittore algerino Boualem Sansal, ha scritto una lettera in sua difesa che è stata letta durante il primo processo. Relativamente al modo in cui gli ebrei sono percepiti nel mondo islamico ha dichiarato, "Affermare che l'antisemitismo è una parte della cultura è semplicemente ripetere ciò che è scritto nel Corano e insegnato nelle moschee". Quali sono le ragioni per le quali è diventato praticamente impossibile oggi affermare qualcosa di così ovvio, specialmente in Europa?
    Il substrato culturale di sinistra, ereditato dalla decolonizzazione, ha definitivamente messo i popoli musulmani nella condizione di popoli dominati e resi inferiori dall'Europa. Si è postulato che un dominante non possa essere un dominatore, e che una vittima del razzismo non possa essere razzista. Come se si dovesse assolutamente colmare di virtù la figura del dominato solo perché è dominato. A questa pia mitizzazione si aggiunge il crollo dell'utopia comunista, dapprima nella sua versione sovietica, poi in quella cubana e, ulteriormente, in quella cinese. Una parte della sinistra si è allora cercata un proletariato di sostituzione, in grado di cristallizzare il sogno di una società nuova e di un uomo nuovo: così è stato per l'immigrato economico in Occidente. E, per estensione, se non per scivolamento, nel corso degli anni, così è avvenuto per l'Islam, non solo perché era ed è tuttora la religione dominante di gran parte di questa immigrazione, ma anche perché, a partire dal 1978, la retorica iraniana sciita/khomeinista, che aveva rovesciato lo Scià, l'aveva elevato a religione degli oppressi.
   Quando, all'interno di un paese che fu a lungo colonizzatore questa memoria della decolonizzazione si coniuga col focalizzarsi sulla figura dell'immigrato musulmano, diventato il nuovo proletario portatore dei sogni di una società rinnovata, si comprende meglio perché l'Islam sia presto apparso come al di sopra di qualsiasi critica. Di conseguenza, come qualsiasi critica dell'islam appaia collegata al razzismo. Si aggiunga a questo che la Francia del dopo 1945 è sprofondata in un processo di contrizione memoriale che si è alimentato da due fonti: l'enorme sconfitta del 1940, della quale non si dirà mai a sufficienza quanto abbia danneggiato l'immagine del gallo gallico, e la guerra d'Algeria, con la sua estrema violenza, che ha traumatizzato una parte della sinistra.
   Ma ci sono state altre ragioni, impossibili da enunciare chiaramente, ma che tuttavia ognuno conosce. Sono le zone proibite del "politicamente corretto". In primo luogo, la questione dei rapporti demografici di forza e della spinta migratoria musulmana in Europa. Una parte di questa immigrazione, sotto la copertura della religione, è portatrice di un progetto politico. Si sa che nell'Islam la dimensione religiosa è indissociabile da quella politica, ed è per questo che l'espressione "Islam politico" appare sciocca agli studiosi di Islam, dal momento che l'Islam è politico dall'inizio alla fine.
   L'esposizione di questo substrato è difficile da elaborare: la paura di essere accusato di razzismo frena ogni discorso, soprattutto se l'analisi riguarda questa frangia della popolazione arabo-musulmana che è portatrice di una società altra. La si designa in Francia con l'epiteto "radicalizzata", senza diversa precisazione. Ma questa espressione può riferirsi allo stesso modo al cattolicesimo come al buddismo, all'estrema sinistra come all'estrema destra. Mentre ciascuno sa qui che non si tratta che di militanti islamisti, alcuni dei quali finiscono per militare nel terrorismo. Questa paura non verbalizzata di fronte a una parte di questa popolazione alimenta un' attitudine crescente alla sottomissione che conferisce un rilievo particolare al romanzo eponimo di Michel Houellebecq che fu pubblicato lo stesso giorno degli attentati di Charlie Hebdo, il 7 gennaio 2015. La paura interiorizzata porta a tenere un basso profilo. È congiunta ad una vulgata culturale di sinistra, predominante nei media e in una parte del mondo universitario. Qualsiasi messa in discussione dell'Islam, e non solo dell'islamismo, è proibita. Così come ogni interrogativo su un' immigrazione di insediamento che è meno ben integrata oggi di quanto non fosse ieri. Questo modificarsi lento e profondo del Paese è un dato di fatto. Ci si può rallegrare e si può deplorarlo, ma resta il fatto che alimenta lo smarrimento di una parte della popolazione che si sente spossessata della sua stessa patria.
   Si avrà un bel tacciare questi francesi di essere dei "populisti", ma questo non impedirà loro di provare questo malessere e questa collera. Sarà facile stigmatizzarli e camuffarli in razzisti primordiali o in fascisti in erba, ma questa attitudine subirà lo stesso riflesso di quei comunisti destabilizzati dalle insurrezioni popolari nell' Europa dell'Est del 1953, a Berlino, e che Brecht sbeffeggiava suggerendo che bisognava "sciogliere il popolo" ed eleggerne un altro. Accusando una gran parte delle classi popolari, in Francia come in Europa, di "sprofondare nel populismo", si è partecipi di questo riflesso delle élite borghesi, di sinistra come di destra, che non possono ascoltare il popolo quando non va nella loro stessa direzione, e che allora ne discreditano la parola assimilandola, da vicino o da lontano, al "fascismo".

 - Quando Ahmad al Tayyib, il Grande Imam dell'Università di Al Azhar al Cairo commenta il versetto 5:28 del Corano, "Scoprirai che i più veementi nella loro ostilità contro i credenti sono gli ebrei e gli idolatri" come ha fatto il 25 di ottobre del 2013, affermando, "Questa è una prospettiva storica che non è mutata fino ai nostri giorni », ciò non suscita scandalo. Se qualcuno con la sua reputazione di studioso afferma che l'antisemitismo è una configurazione musulmana portante viene trascinato in giudizio. Cosa sta accadendo?
    Credo che ciò sia dovuto a svariate ragioni. In primo luogo il sospetto di un'accusa di razzismo pesa come una spada di Damocle su tutte le espressioni contemporanee. Quando Finkielkraut diceva recentemente che l'antirazzismo era "il comunismo del XXI secolo", aveva visto giusto. È in nome di questa causa traviata che il pensiero è oggi imbavagliato in nome di un ideale di purezza. Per questa ragione accusare di razzismo un musulmano che tenga i discorsi che lei cita, significa correre il rischio di cadere noi stessi nell'accusa di razzismo. Questo perché si ritiene comunemente che un musulmano debba per definizione essere un "dominato" e un "dominato" non potrebbe mai essere razzista. È sulla base di questi semplicismi che si costruiscono alcune delle credenze contemporanee. A questo proposito ritengo ci sia una seconda ragione che spieghi questo mutismo, ed è il timore che oggi l'Islam suscita. Un timore suffragato innanzitutto dalla violenza di un terrorismo che colpisce in primo luogo i Paesi musulmani. Ma, al di là di qualsiasi macabra contabilità, "l'islamismo uccide più musulmani che non musulmani", resta la realtà di un attacco scatenato contro il mondo occidentale e ai suoi valori.
   Questa ideologia è strutturata. E' animata da un progetto politico che non arretrerà davanti ad alcun mezzo di comunicazione per arrivare al suo scopo. È per questa ragione che l'instaurarsi di un regime di tipo millenarista sarebbe una catastrofe per lo Stato di Israele e per molti suoi Stati confinanti, o anche più lontani. E questa ideologia strutturata fa tanto più paura perché il mondo occidentale appare intellettualmente disarmato per tenergli testa. E per svariate ragioni. Innanzitutto perché ha perso l'abitudine a combattere. In secondo luogo, perché è stato indebolito da decenni di disaffiliazione e di sradicamento, di confinamento delle vite individuali nelle loro funzioni di lavoro e di consumo. Confrontato pure alla cancellazione delle frontiere, sinonimo di arcaico. E alla distruzione dell'idea di nazione.
   Bisogna cogliere con un unico sguardo la spinta demografica dei paesi musulmani, l'esplosione demografica dell'Africa e l'ideologia islamista che deriva dalla "natura politica" dell'Islam. E' in questo modo che si comprende meglio perché l'Occidente appare vinto dalla paura, finanche, da un sentimento di capitolazione. Da qui emergono delle reazioni stranamente così contrastate: talora il silenzio mantenuto di fronte ad alcuni discorsi, e talvolta, al contrario, di fronte ad altri, la furia mediatica, giudiziaria ed intellettuale. In un contesto in cui i termini del combattimento sono stati capovolti: oggi il razzismo parla la lingua dell'antirazzismo, come si vede in Francia coi raduni "resi razzisti", nei quali, cioè, i "bianchi" sono esclusi, Alla stessa maniera, l'antisemitismo parla la lingua dell'antirazzismo. Si è sbarazzato della lingua arcaica del razzismo d'anteguerra, ed è in nome dell'antirazzismo che si può oramai odiare gli ebrei, perché sono portatori di una doppia identità che è "dunque" un doppio vettore di esclusione: il particolarismo ebraico da molto tempo non sopportato in Occidente, è il sionismo, questo movimento nazionale, assimilato a torto ad una ideologia, "razzista".

 - Durante il suo processo di primo grado, ad un certo punto, rivolgendosi alla corte, lei ha detto, "Stasera, Signora Presidente, per la prima volta in vita mia ho provato la tentazione dell'esilio". Lei vive sempre in Francia, ma esiste un altro tipo di « esilio » che un intellettuale e uno studioso può sperimentare, non è così?
    L'esilio del quale parlavo non era solo l'esilio geografico. Quella sera del 25 gennaio 2017, all'una del mattino, di fronte alla 17esima camera del tribunale correzionale di Parigi, avevo nella mia testa tante immagini che si sovrapponevano, tra le quali quella dell'esilio interiore. Pensavo a coloro che avevano dovuto fuggire dalla Germania dopo il 1933, a quelle figure di intellettuali che avevano abbandonato l'apatia di una certa Francia degli anni '30. E, certamente, pensavo a Bernanos, quell' anarchico conservatore, prima partito per la Spagna, e poi, fuggendo l'orrore della guerra civile, di ritorno in Francia, per ripartire, rapidamente, nel 1938, verso un altro esilio, il Brasile.
   Ma esiste un altro esilio, più essenziale, capitale, e del quale nessuno parla perché riguarda "persone senza importanza", è quello vissuto nel quotidiano da milioni di compatrioti, la sensazione di sentirsi straniero nel proprio Paese. Esclusi da ogni discorso pubblico quando questo viene confiscato dal linguaggio dell'ipocrisia di tanti politici dei quali si possono indovinare in anticipo le frasi, tanto sono prevedibili, fatte di un discorso formattato, imbalsamato ed insignificante. E' una parola confiscata da organi di informazione che si allineano su questa assenza di pensiero che caratterizza il "vivere insieme", uno strano slogan che parla a vuoto dicendo, precisamente, che noi non viviamo insieme. Ma viviamo gli uni a fianco degli altri in società frammentate e disarticolate. Laddove il razzismo progredisce sotto i tratti dell'antirazzismo, questa deriva alla quale ho già accennato e nella quale si è lasciata inghiottire la sinistra sociale da più di trentacinque anni, che serve anche a nascondere la realtà ininterrotta, è vissuta il più vicino possibile ai corpi, alla dominazione e allo sfruttamento.
   La sinistra sociale che resta dominante nella vita culturale francese ha sbarrato l'accesso ai posti nei grandi media, dove l'uniformità di giudizio confina con la stupidità di un nuovo Ordine morale mac-mahoniano. È questo l'esilio interiore, ed è questa la cosa peggiore: sentirsi straniero nel proprio Paese, privato di tutte le parole, stigmatizzato fino alla nausea per aver pensato male, qualificato come "razzista" per un sopracciglio alzato, per una virgola, una parola "di troppo": equivale ad una condanna a morte. Qualificato come "reazionario" colui che osa oltrepassare la stretta cerchia del conformismo democratico, per citare Tocqueville. Questa realtà dell'esilio interiore è quella di milioni di francesi che vivono sotto il peso di questa frattura inimmaginabile solo 20 anni fa, da un lato un discorso mediatico-culturale che mostra un Paese placato, nonostante alcuni problemi, è ovvio, e dall'altro lato la realtà di una Francia nella quale l'infelicità nazionale si impone alla coscienza collettiva. Il fervore isterico che ha accompagnato il successo francese alla Coppa del mondo di calcio a Mosca è espressione, tra le righe, di questo dolore, una gioia esagerata e esibita per credere di essere ancora una nazione. Come per nascondere questa disaffiliazione che avanza.

 - Nel 2015, l'anno della sua morte prematura, il noto studioso e storico dell'antisemitismo , Robert Wistrich, disse "Gli ebrei d'Europa non hanno un futuro". Quello stesso anno, a Gerusalemme, il Ministero degli Affari della Diaspora presentò un rapporto nel quale si evidenziava chiaramente che gli estremisti musulmani sono "i principali istigatori dell'antisemitismo globale". Quello stesso rapporto indicò specificamente la Francia come il Paese in Europa ad aver avuto l'ondata antisemita più rilevante. Qual è la sua prospettiva?
    Robert Wistrich è stato senza dubbio uno dei migliori storici dell'antisemitismo. Subito dopo la pubblicazione dei Territori perduti della Repubblica, nel 2004, mi aveva fatto invitare all'Università ebraica di Gerusalemme per parlare dell'antisemitismo in Francia. Era consapevole dei problemi francesi ed europei in generale. A seguito di questa conferenza mi aveva chiesto di scrivere un intervento sull'argomento per la collana di studi sull'antisemitismo che dirigeva presso l'Istituto Vidal Sasson dell'Università ebraica di Gerusalemme. Una pubblicazione in inglese. E il progetto fu realizzato.
   Tre anni dopo la sua morte non posso che sottoscrivere la sua analisi. Fondata su ragioni che riguardano la demografia, l'assenza di volontà politica dei dirigenti europei provenienti nella maggior parte dei casi, da classi borghesi, il peso dell'immigrazione musulmana, così come l'offensiva islamista, anche se tutti i musulmani, va ben sottolineato, non sono degli islamisti. Questa convergenza di fattori fa sì che l'avvenire degli ebrei d'Europa appaia agli sgoccioli. Ed ancor più il futuro degli ebrei in Francia, perché la Francia non soltanto raggruppa il 25% dei musulmani d'Europa, ma concentra anche la maggior corrente migratoria di popolazioni musulmane. È anche l'unico Paese d'Europa nel quale dal 2003 a oggi, 16 Ebrei sono stati uccisi in quanto Ebrei, un fenomeno inedito dalla Liberazione. E tutti assassinati da musulmani. Nessun altro paese d'Europa conosce una situazione analoga.
   Di fronte a questa offensiva islamista relativamente in sordina, in ogni caso raramente proclamata in quanto tale e la pratica del doppio linguaggio, la taqqiya, è propria di questo processo, i più lucidi tra gli europei non dimenticano che la storia non è un racconto per bambini, ma che è intessuta di tragico. Vedono in questa spinta islamista una nuova forma di totalitarismo e si allarmano di fronte all'attitudine di tanti contemporanei che appaiono ai loro occhi pronti ad arrendersi di fronte al pericolo. Insomma, temono una lenta deriva verso la sottomissione, ma per piccoli passi, insensibili, se ciascuno di essi è preso isolatamente, relativamente poco significativo in apparenza, e questo con l'unico scopo di "avere la pace". Se questo andamento si conferma, possiamo scommettere tranquillamente che tra 20 o 30 anni ciò che rimane della vita ebraica in Francia sarà spazzato via. E più esattamente "marranizzato". Questo, la "strada ebraica" (il popolo) lo comprende, lo sente e lo sa nonostante i proclami tranquillizzanti di dirigenti autoproclamatisi tali che, di nascita, si sentono così profondamente giustificati di esserci da essere incapaci di prevedere di non esserci più domani. Alla stregua di quella nobiltà d'Ancien Régime che, al termine dei dieci anni della Rivoluzione, non avrà imparato nulla né dimenticato nulla.
   Lo sfasamento è diventato un abisso tra il popolo e questi notabili israeliti i quali ripetono senza sosta che c'è un avvenire per gli ebrei in Francia. Ci credono davvero? O si rassicurano sul loro proprio avvenire mentre la gran massa degli ebrei di Francia ritiene, che il suo futuro, qui, è compromesso. Se il capo ha un compito, è quello di parlare un linguaggio veritiero nei confronti di migliaia di indifesi per permettere loro di cercare, mentre sono ancora in tempo, una soluzione decente per il loro disagio.

 - Nel loro pamphlet del 2011, « Islamofobia, Il crimine del pensiero del futuro totalitario », Robert Spencer e David Horowitz scrivono, « In 1984, l'incubo futuristico di George Orwell, i cittadini sono vigilati da una polizia segreta per « crimini del pensiero » commessi nei confronti dello Stato totalitario » Questi crimini consistono semplicemente in attitudini e idee che le autorità reputano politicamente scorrette…'Islamofobia' è il nome che viene dato oggi a un crimine del pensiero". Quanto è seria la situazione, e lei cosa prevede?
    L'islamofobia è una delle forme adottate in Occidente di quella che viene definita correttezza politica. Il termine stesso, che risale all'epoca coloniale all'inizio del XX secolo è stato ripreso e volgarizzato dagli islamisti. È destinato a far sentire gli occidentali colpevoli, a schiacciarli sotto questa accusa che porta con sé la promessa della morte sociale, il razzismo. L'obiettivo di questi ambienti sta diventando sempre più noto, tuttavia dobbiamo leggere attentamente i loro testi. Ai loro occhi, l'Occidente è un ventre molle, un gruppo di deboli e decadenti che hanno da tempo dimenticato il linguaggio delle armi. Questi circoli islamisti sono diffusi dalla schiera di coloro che, facendo riferimento alla formula di Lenin nel secolo scorso, si chiamano "utili idioti". Precedentemente lo erano del comunismo, dell'islamismo oggi, sostenendo, come ieri, ciecamente, un processo totalitario che finirà per stritolarli. Chi sono costoro? È questa parte della sinistra culturale che, nel contesto del crollo del sogno comunista, segnata dalla memoria del colonialismo, avendo sostituito a un proletariato indigeno, o nazionale, decretato imborghesito, (e pensano in silenzio che li abbia "profondamente delusi"), un proletariato immaginato e immaginario centrato sull'immigrazione.
   Ciò non rappresenta nulla di nuovo. È per questa ragione che mi sembra più importante individuare i conflitti futuri incominciando con lo smontare il termine "islamofobia", un non senso in sé, a meno di ristabilire il delitto di blasfemia abolito in Francia da più di due secoli. Questo termine, l'ho già detto, è stato imposto dagli ambienti islamisti e comunitaristi, a volte anti-islamisti ovvero etno-essenzialisti per i quali la società deve basarsi su comunità distinte e non sull'unità nazionale nella cornice di una strategia di conquista conforme ai testi fondativi dell'Islam, e in particolare a quegli hadiths mirati a imporre la legge dell'Islam ai non musulmani, ovunque essi siano sulla terra. Se il Corano è indubbiamente un "libro di saggezza", ciò che si è cristallizzato intorno ad esso rientra nell'ambito di un progetto di società estranea alla nozione di alterità. Si tratta, come si sente spesso dire, di un progetto di conquista destinato a condurre tutta l'umanità alla "fede originale", dal momento che saremmo tutti nati musulmani? Si tratta di rimettere sulla santa via un mondo non musulmano ancora restio alla verità del Profeta? Non spetta a noi entrare in questa discussione teologica nella quale la conclusione precede la domanda. Ma piuttosto concentrarci per comprendere la strategia di intimidazione messa in opera attraverso il ricatto del "razzismo". Essa ha come fine lo strangolamento del pensiero come George Orwell aveva intuito in 1984.
   Il politicamente corretto è arrivato essenzialmente dagli Stati Uniti a partire dagli anni '60. È stato diffuso nei decenni successivi in Europa occidentale da una parte della sinistra sociale, che trionfò poi in Francia con l'elezione di François Mitterrand nel 1981 e col regno del partito socialista. Questo clima si aggravò considerabilmente col fenomeno di "Corte" organizzato attorno a Mitterrand. La cortigianeria contribuisce a imbavagliare le coscienze, partecipando, in fine, a questo abbrutimento generalizzato del quale, trentacinque anni dopo, la morte sociale, elettorale e cerebrale del Partito Socialista è il segno più tragico.
   Il politicamente corretto, come ho detto, si ricollega ad un vecchio progetto totalitario che non è proprio alla nostra epoca, anche se l'età delle masse lo favorisce: un mondo senza conflitti mentre noi viviamo in un mondo sovrappopolato che corre verso la sua morte ecologica. Questo sogno puerile di un mondo che si è sbarazzato di ogni forma di guerra dimentica la parola di Eraclito che fa del conflitto il "padre di ogni cosa". È la controversia che rende possibile la libertà tra gli esseri umani. Ora, lungi dall'essere sinonimo di un mondo placato, il politicamente corretto è portatore di un conformismo di massa, che parte da un rischio di asservimento.
   In questo contesto l'antirazzismo è stato fuorviato per divenire "un prêt a penser" che ostacola la libertà di critica. Il riciclo da parte degli ambienti islamisti e comunitaristi del concetto di islamofobia vi ha trovato il suo tornaconto ed ha saputo insinuarsi con abilità. Il ricatto permanente del "razzismo", la passione messa nel rintracciare le "discriminazioni" quando si tratta quasi esclusivamente di differenze sessuali, di colore della pelle, di religione ma non più di dominazione di classe che è sparita: l'immensa schiera degli sfruttati ha lasciato il posto al regno dei LGBT, transessuali ed altre ortografie inclusiviste. In questo mondo nel quale il braccare isterico alla "discriminazione" occupa il fronte dei media, sono spariti lo sfruttamento e le vite precarie della maggioranza che subisce nel quotidiano questo lavaggio del cervello. Se io fossi un esponente del capitalismo finanziario che fa e disfa le vite di milioni di persone a forza di corsa al profitto, mi sfregherei le mani ogni giorno, soddisfatto per questa onda di stupidità rivestita degli orpelli del "progressismo".
   È qui la trama del "politicamente corretto", una delle peggiori espressioni del pensiero reazionario di oggi. Non conservatore: reazionario, che è radicalmente diverso. Nel cuore di una società trasparente e liscia, nella quale bisogna dirsi tutto, e che si riannoda col vecchio sogno di una società uniforme e cristallina, senza zone d'ombra, è il cuore del progetto totalitario, il progetto di un "uomo nuovo" porta all'incubo di una società nella quale la libertà di pensiero è vista come uno sfuggire alla regola del gruppo, e, in fine, come una manifestazione di inciviltà. Si noterà, d'altronde, l'uso e soprattutto il cattivo uso della parola "cittadino" nel preciso momento nel quale il principio di autorità, confuso ingenuamente con l'oppressione, è minato, e nel quale la nozione di bene comune, sempre messa in prima fila, è a mille miglia di distanza da ciò che è realmente vissuto da una gran parte della società.
   Ora, senza la libertà di critica, il sogno di una società placata porta al suo opposto, al mondo del sospetto di tutti contro tutti, e, in fin dei conti, della guerra di tutti contro tutti. La strumentalizzazione dell'antirazzismo è ascrivibile in Occidente a questo sogno terrificante nel quale si è paralizzati dalla paura di pensare diversamente. In un contesto simile quello di una disfatta annunciata, gli islamisti non hanno che da aspettare che il frutto caschi dall'albero.

 - Che posto occupa ancora la "differenza ebraica" e la sorte degli ebrei di Francia in questo quadro?
  Modesto. Incapace, in ogni caso, di resistere a lungo al rullo compressore della "sottomissione cittadina" che gli attentati del novembre 2015 avevano così tragicamente evidenziato. Se lo ricorda? Al posto di affermare la volontà di combattere il nemico che vi vuole annientare, una parte del pubblico francese era sceso in piazza con queste parole: "Voi non avrete il mio odio".
- Traduzione dal francese a cura di Claudia Bourdin e Emanuel Segre Amar

(L'informale, 8 settembre 2018)


I primi ebuses per Gerusalemme sono BYD

 
Bus elettrico BYD da 12m BYD 12m ebus
 
La flotta attualmente in servizio a Haifa, in Israele
L'azienda leader di autobus elettrici BYD ha confermato un ordine per i primi autobus elettrici per Gerusalemme, la capitale di Israele.
L'ordine, per sette ebus BYD da 12 metri, si basa su un'offerta precedente vinta da BYD nel 2016.
Diciassette autobus sono stati forniti ad Haifa, una città portuale nel nord di Israele, e sono operativi con l'operatore di trasporto pubblico Egged dalla metà del mese.
Vista l'eccellente prestazione di questi 17 veicoli in servizio ad Haifa, in particolare sui terreni collinari, Egged ha deciso di collocare questo ordine aggiuntivo per gli ebus a Gerusalemme. Gerusalemme è situata in una zona montuosa e si trova a 800 metri sopra il livello del mare.
L'ordine fa parte di un progetto più ampio, pienamente supportato dal Ministero dei trasporti e dal Ministero dell'Ambiente in Israele, e funge da punta di diamante per sperimentare e introdurre tecnologie per il trasporto alternativo nel mercato del trasporto pubblico in Israele. È la base per una rivoluzione verde nel settore del trasporto pubblico elettrico nei centri metropolitani.
Gli autobus dovrebbero essere consegnati nel primo trimestre del 2019.
Isbrand Ho, Managing Director di BYD Europe, ha dichiarato:
Siamo in una striscia vincente. Nelle scorse settimane abbiamo confermato gli ordini per l'Italia e la Norvegia e ora siamo lieti di annunciare il nostro secondo ordine per Israele. E ci sono altre novità in arrivo. I 17 autobus che hanno funzionato ad Haifa per quasi un anno si stanno comportando molto bene nell'area collinare e calda e siamo sicuri che questi sette autobus saranno all'altezza.

(Electric Motor News, 8 settembre 2018)


''De Magistris, parole sbagliate"

Anche questa estate il sindaco di Napoli Luigi De Magistris non si è fatto sfuggire l'occasione di nuove inopportune dichiarazioni relative alla situazione in Medio Oriente. Le parole con cui ha commentato la vicenda di Jorit Agoch, il writer arrestato e poi rilasciato dalle autorità israeliane dopo aver realizzato un murale illegale a Betlemme, hanno suscitato in questo senso più di una reazione. E in particolare della Comunità ebraica partenopea, che ha duramente condannato la sua definizione del muro di sicurezza che divide Israele dai territori dell'Anp come di un "muro dell'apartheid".
   In una nota la Comunità ha scritto: "Diversi iscritti della nostra Comunità e di altre Comunità italiane sono cittadini israeliani esposti, come gli altri abitanti di Israele, agli attacchi terroristici e missilistici e pertanto, in quanto nostri fratelli e nostri iscritti, questa Comunità avverte l'obbligo morale di sottolineare la necessità, da parte delle istituzioni, di affrontare la questione israelo-palestinese con equilibrio e nel rispetto dei diritti di entrambi i popoli coinvolti".
   L'espressìone "muro dell'apartheid" viene quindi definita "una distorsione che dimostra disprezzo per la sicurezza dei cittadini israeliani visto che da quando esiste quella barriera, gli attentati palestinesi in Israele si sono ridotti di più del 90%". Analogamente, viene fatto notare, definire la diciassettenne attivista palestinese Ahed Tamimi cui era dedicato il murale illegale "la ragazzina palestinese arrestata da minorenne per aver manifestato il legittimo disprezzo contro l'esercito occupante della sua terra", come De Magistris ha scritto, "è tendenzioso e mistificatorio dal momento che quella minorenne, educata all'odio fin dalla più tenera età e premiata dal leader turco Erdogan, è stata arrestata dopo aver aggredito un giovane militare israeliano mentre presidiava una strada, senza che questi avesse compiuto alcuna azione violenta e senza alcuna reazione da parte del militare".

(Italia Ebraica, settembre 2018)


Vernissage per cento ospiti. Le foto e la storia di Israele

di Roberta Petronio

Vernissage in bianco e nero al Museo di Roma in Trastevere, dove la fotografia è sempre la benvenuta. La mostra «Dreamers. 1968» è stata appena prorogata, e si è appena chiusa una retrospettiva della fotografa americana di origini ungheresi Sylvia Plachy, prodotta dal Robert Capa Contemporary Photography Center.
   L'altra sera un nuovo capitolo con l'opening della mostra di David Rubinger che racconta la storia dello Stato di Israele attraverso settanta scatti, entrando anche nel quotidiano (e privato) di personalità politiche come Golda Meir, ritratta nella sua cucina e al Knesset insieme a Marc Chagall.
   Cento ospiti per una visita in anteprima e un cocktail nel cortile interno del Museo, con la partecipazione dell'ambasciatore dello Stato d'Israele in Italia Ofer Sachs, che si è soffermato davanti alla fotosimbolo dei soldati israeliani davanti al Muro del Pianto, e di Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma.
   Le istituzioni italiane erano rappresentate da Anna Rossomando, vicepresidente del Senato. Nel parterre anche Gisella Kayser, vedova dell'artista (scomparso nel marzo 2017), Edwige Della Valle, curatrice e proprietaria delle opere in mostra, la presidente della commissione capitolina Turismo, moda e relazioni internazionali Carola Penna, e Francesca Jacobone, presidente di Zétema progetto cultura. Tra gli ospiti Ofer Sachs è l'ambasciatore di Israele in Italia

(Corriere della Sera - Roma, 8 settembre 2018)


Francia pericolosa per tutti gli ebrei

Il rabbino capo lo denuncia a Macron

di Marta Olivieri

 
Haïm Korsia
l ritorno dell'antisemitismo in Francia preoccupa la comunità ebraica che ha denunciato il fenomeno al presidente della repubblica, Emmanuel Macron. Il capo dell'Eliseo, per la prima volta, ha assistito alla cerimonia del 4 settembre, nella sinagoga della Vittoria, a Parigi, che segna l'inizio delle festività del Nuovo Anno ebraico (Rosh Hashana). Nel corso degli anni questa cerimonia è diventata un barometro della popolarità dei dirigenti politici presso i responsabili delle comunità ebraiche di Francia. «Se gli ebrei dovranno continuare a lasciare massicciamente il paese sarà unicamente perché la Francia avrà smesso di essere la Francia», ha dichiarato Joèl Mergui, presidente del Concistoro delle comunità ebraiche di Francia davanti a Macron. E ha insistito sulle preoccupazioni, soprattutto delle giovani generazioni di ebrei francesi che, ha detto, «non comprendono perché devono abbandonare i propri quartieri e perfino andare in esilio, lasciando la Francia per sfuggire agli atti di antisemitismo».
   Il rabbino capo di Francia, Haïm Korsia ha paragonato Macron al «muro occidentale» di Gerusalemme al quale vengono confidate pene e speranze senza che esso risponda, secondo quanto ha riportato Le Monde. Eppure, ha detto il rabbino capo, «sappiamo che qualcuno ci intende», predicendogli che sarebbe andato via con le tasche piene di bigliettini sui quali gli ebrei presenti gli avrebbero confidato speranze e paure, «La macellazione rituale, la circoncisione, le feste religiose», ha dichiarato Mergui non devono essere percepite come concessioni ma come ovvie libertà».

(ItaliaOggi, 8 settembre 2018)


Il record degli studenti israeliani: fanno più giorni di scuola

L'Italia, in un blocco di quattro nazioni, occupa il quarto posto, con 200 giorni sui banchi. Gli alunni della Repubblica Ceca battono la Nuova Zelanda e la Gran Bretagna.

Le vacanze sono agli sgoccioli, la campanella è iniziata già a suonare (nella Provincia di Bolzano). E insomma è venuto il momento di sfruttare le ultime ore di «libertà» prima di tornare sui banchi per milioni di studenti iscritti nelle scuole italiane. Le cui lezioni finiranno il 14 giugno (tra l'altro sempre nella stessa provincia autonoma). E se ai ragazzi quest'anno scolastico sembrerà un periodo infinito non hanno poi tutti i torti. Anche se quest'estate non sono mancate le polemiche sul fatto che l'istruzione italiana dia troppe vacanze ai giovanissimi. Estraendo i dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sugli Stati membri per quanto riguarda le scuole elementari viene fuori che gli israeliani sono quelli che stanno di più in classe: 219 giorni l'anno.

(WordWeb, 8 settembre 2018)


Corbyn, antisemita e illiberale. Ecco perché è un uomo pericoloso

di Bernard-Henri Lévy

Ha celebrato la liberazione di attivisti di Hamas con le mani sporche di sangue Quando parla di nazionalizzazioni e tasse, sembra rimasto al marxismo Anni '50 Come Orban e Le Pen gioisce alla prospettiva del crepuscolo della democrazia

Una volta un illustre inglese ammonì così gli europei che, per sfuggire alla guerra, accettarono l'onta del nazismo: alla fine oltre alla guerra vi toccherà il disonore.
   Fatte le debite proporzioni, forse oggi spetta agli europei dire ai loro partner britannici: a forza di fare giochetti, scherzare con il fuoco, mentire agli elettori e ai vostri alleati, barare con la storia e con la vostra stessa grandezza, correte il rischio di trovarvi tanto la Brexit come Jeremy Corbyn.
   Sulla catastrofe che sarà (sarebbe?) la Brexit, è stato detto tutto o quasi; e ora spetta al Regno Unito correre verso l'abisso, o, come disse, questa volta un illustre francese, «ritirare la mossa».
   Non sono invece sicuro che sia chiaro a tutti quale disdoro sarebbe per la patria di Disraeli e Churchill l'arrivo al potere di Jeremy Corbyn, il disastro di nuove elezioni generali dove potrebbe capitalizzare, come indicano i sondaggi, tanto sull'effetto-usura del suo avversario conservatore tanto su ciò che appare la sua «coerenza ideologica».
   Jeremy Corbyn - non sarà mai inutile ripeterlo - ha molta dimestichezza con i canali televisivi iraniani, che nel 2012 si sono rallegrati, chiamandoli «fratelli», per la liberazione di centinaia di attivisti palestinesi di Hamas, molti dei quali avevano le mani sporche di sangue.
   È quel parlamentare che non perde mai l'occasione per esprimere quale orgoglio sia stato per lui - un militante invecchiato subendo le pastoie di una rappresentanza politica che gli sembra forse imposta, monotona e priva di mordente - ricevere a Westminster i «compagni» di Hezbollah o incontrare e prendere un tè con un personaggio come Raed Salah, il cui principale contributo alla «causa palestinese» è avere definito gli ebrei «batteri», o «scimmie», o criminali che impastano il pane azzimo con il sangue dei «bambini non ebrei».
   È un «pellegrino di pace» di cui quest'estate la stampa britannica ha scovato video terribili che lo mostrano a Tunisi, in raccoglimento su delle tombe di cui una almeno è quella di uno degli organizzatori del massacro degli atleti israeliani a Monaco, nel 1972.
   È il politico poco attento che ha accettato di annoverare, tra i grandi finanziatori della sua campagna, un uomo, Ibrahim Hamami, che, dopo essere stato editorialista del quotidiano ufficiale di Hamas, si è fatto propagandista dell'assassinio all'arma bianca degli ebrei in Israele.
   È il gentile amico delle arti che nel 2012, quando i londinesi scoprirono scandalizzati che su un muro di Hanbury Street, era apparso un murale dell'artista americano Kalen Ockerman che rappresentava dei banchieri dal naso adunco in cerchio attorno a una mappa del mondo a forma di Monopoli, a sua volta appoggiata sulle schiene nude dei dannati della Terra, come prima reazione protestò perché era in pericolo la libertà di espressione.
   È il seguace della teoria della cospirazione che non teme, nelle interviste con la stampa iraniana, di attribuire a Israele le operazioni di «destabilizzazione» condotte «in Egitto» da «jihadisti».
   Ed è lo schietto antisemita che, nel 2013, durante una conferenza dove si erano uditi appelli a boicottare la Giornata della memoria o subdoli commenti sulla possibile responsabilità degli ebrei nel massacro dell'11 Settembre è stato capace di dichiarare che i «sionisti», anche quando vivevano in Gran Bretagna «da molto tempo» o anche «da una vita», avevano una difficoltà atavica a comprendere l'«ironia inglese».
   A questo dovete aggiungere la sua crassa ignoranza dei meccanismi di un'economia moderna e la sensazione che comunica, quando parla di ri-nazionalizzazioni, tassazione, norme anti-austerità, sistema sanitario, servizi pubblici, di essere rimasto ai tempi dell'archeomarxismo degli Anni Cinquanta.
   Aggiungete poi il suo folle odio per un'America accusata di tutti i mali e alla quale, secondo uno dei suoi luogotenenti, Seumas Milne, la buona vecchia Unione Sovietica, al tempo del suo splendore e nonostante una cosa di poco conto come decine di milioni di morti, è stata utile come «contrappeso».
   E non voglio nemmeno parlare del tropismo che lo porta ad allinearsi, quasi sempre, alle posizioni russe: la Siria ovviamente; il rifiuto di ritenere credibile l'ipotesi della mano del Cremlino nel tentato avvelenamento a Salisbury, dell'ex spia Skripal e di sua figlia; o ancora, poche settimane prima di assumere la guida del partito, l'affermazione che una fabbrica di notizie false come «Russia Today» era credibile almeno quanto la venerabile «Bbc».
   Oggi vi sono in Occidente una manciata di leader illiberali che gioiscono alla prospettiva di un crepuscolo della democrazia e dei valori dell'umanesimo europeo.
   Sono Viktor Orban in Ungheria, Matteo Salvini in Italia, Donald Trump negli Stati Uniti e Marine Le Pene Jean-Luc Mélenchon in Francia.
   E poco importa, in realtà, che siano «di sinistra» o «di destra» perché sono d'accordo sull'idea che l'Illuminismo sia tramontato e che Putin sia il loro grande uomo.
   Jeremy Corbyn è uno di loro. E la prospettiva di vederlo in carica, a rinforzo di questa oscura Internazionale, mi sembra temibile almeno quanto la Brexit.

(La Stampa, 8 settembre 2018 - trad. Carla Reschia)


Lo sconfitto

In "Destino francese", Zemmour torna il figlio di ebrei algerini nato nella banlieue. Un mondo che si è eclissato.

di Giulio Meotti

ROMA - "La storia della Francia scorreva nelle mie vene, riempiva l'aria che respiravo, forgiava i miei sogni; non immaginavo di essere l'ultima generazione a crescere così". Già dalle prime righe, il nuovo libro di Eric Zemmour, Destin français (in uscita in Francia per Albin Michel), è un tripudio nostalgico. Con il saggio precedente, Le suicide français, Zemmour aveva venduto mezzo milione di copie e stregato il paese. Nelle parole di Nicolas Chamfort, "in Francia si lascia in pace chi ha appiccato l'incendio e si castiga chi ha dato l'allarme". E' un po' il destino francese di questo giornalista e intellettuale "reazionario". Il suo nuovo libro, anticipato ieri dal Figaro, è un gigantesco rifiuto della damnatio memoriae. "René Grousset ci ha dato una lezione sull'importanza della crociata di Urbano II, che si oppone alla doxa contemporanea", scrive Zemmour a proposito di uno dei tabù contemporanei. "Secondo lui, il Papa ha permesso all'Europa di ritardare di quasi quattro secoli l'avanzata dell'islam e prepararsi alla lenta comparsa di un Rinascimento che non sarebbe mai accaduto sotto il giogo islamico". E cita la frase di Grousset: "La crociata non era altro che l'istinto di conservazione della società occidentale in presenza del pericolo più formidabile che avesse mai avuto".
   Zemmour ricorda al lettore che Urbano II, Pietro l'Eremita, Goffredo di Buglione e san Luigi erano tutti francesi. "Abbiamo dimenticato che, grazie a loro, siamo sfuggiti alla colonizzazione islamica e che l'Europa, radicata nella ragione greca, nella legge romana e nell'umanesimo cristiano, ha potuto elevarsi a un destino inaudito e glorioso". Poi il monito: "Chi non conquista più è conquistato. Ancora una volta, la Repubblica si trova di fronte all'islam. Ancora una volta, la nazione ritorna ai suoi eterni dèmoni della divisione, dell'odio francese, della guerra civile".
   La Francia non è più un impero, non è più il centro culturale del mondo, non assimila più, non è più "la figlia prediletta della chiesa". Per questo, molti non capiscono che diavolo vada cercando questo Zemmour. La sensazione è che sia uno sconfitto. Che resti il figlio dei "piedi neri", i francesi fuggiti dall'Algeria decolonizzata e sbarcati con le valigie sui marciapiedi dell'Esagono. Non solo, un ebreo berbero. "La Francia era la vita; l'Algeria, la nostalgia. La Francia, la grande nazione; l'Algeria, la piccola patria", riassume Zemmour. Il padre parlava arabo nei café di Le Goutte d'Or, appuntandosi in un taccuino le frasi di Victor Hugo, Poco prima della sua morte disse a Zemmour: "Sono stanco di sentire in televisione 'gli ebrei di Francia'. Non sono un ebreo di Francia, sono un ebreo francese". Qui c'è l'eco di future tragedie.
   Zemmour nel libro racconta di quando è tornato a Draney, la banlieue parigina dove è nato. Dal parco dove ha giocato a calcio con i suoi amici al piccolo bar, tutto è rimasto uguale. Sono le persone a essere cambiate. Nel parco, Zemmour incontra ragazze velate. "Ai miei tempi, sarebbe stato impensabile", scrive. "La Francia era, tramite le coste mediterranee, in intimo contatto con il mondo greco, romano, bizantino; tramite la costa atlantica, con i vichinghi scandinavi; tramite i Pirenei, con l'islam; tramite il Reno, con i barbari", scrive Zemmour. Una identità che potrebbe essere mantenuta, conclude, solo da una identità e da uno stato molto forti, ma anche passando da una serie di conflitti interni. Ma chi è disposto a pagare questo prezzo, a parte il malpensante "Z"?

(Il Foglio, 8 settembre 2018)


Medio Oriente: Iran, Russia e Turchia, il nuovo asse con il quale fare i conti

Quello in Siria non è solo un conflitto che da guerra civile si è trasformato in una guerra regionale, ormai il territorio siriano è diventato una sorta di esperimento per i futuri assetti del Medio Oriente e non solo.

Iran, Russia e Turchia si ritrovano a Teheran per discutere della imminente offensiva nella provincia siriana di Idlib e soprattutto dei futuri assetti della Siria. Il fatto che per l'ennesima volta in una riunione che decide il futuro della Siria non ci sia Assad, cioè il Presidente siriano ancora in carica, la dice lunga sull'importanza che viene data a quest'uomo, pari a quella di un pupazzo.
La riunione del nuovo asse del male è stata anche l'occasione per Putin e per Erdogan di incontrare faccia a faccia il leader supremo iraniano, l'Ayatollah Ali Khamenei. In particolare è stata l'occasione per ribadire la vicinanza degli sciiti iraniani alla Fratellanza Musulmana sunnita rappresentata da Erdogan che si è auto-elevato a capo della potentissima setta islamica radicale....

(Rights Reporters, 8 settembre 2018)


Dal Mar Morto a Tel Aviv in bicicletta: un'avventura da raccontare

 
FERRARA - E' appena tornato dalla sua ultima grande impresa, ma tra uno spettacolo comico e un altro sta già pensando alla prossima. Paolo Franceschini, noto comico ferrarese molto conosciuto anche in Polesine, da qualche settimana ha concluso il suo tour in bicicletta in Israele, partendo dal Mar Morto, il punto più basso del mondo (423 metri sotto il livello del mare) e raggiungendo Tel Aviv. Il tutto a un anno esatto dalla gara in mountain bike che l'aveva visto protagonista sull'Himalaya, che è invece il punto più alto del mondo.
   Il progetto si chiama "Sì, si può fare", portato avanti da Franceschini, Daniele Sala e Giacomo Galliani: "E' un progetto aperto a chiunque si metta in testa di voler provare a fare un'esperienza di vita che sembra inizialmente folle o più grande di te - spiega Franceschini -. L'idea è nata una sera, tra noi, quando ci siamo chiesti "Cosa dite, attraversiamo Israele in bicicletta?" e ci siamo risposti "Sì, si può fare". Ora vogliamo portarlo in giro per l'Italia, per cercare tramite un esempio concreto di far capire a chiunque che può fare qualsiasi cosa. Un modo per spronare le persone a uscire dall'ordinario".
   Tante le avventure vissute in questo viaggio, dal blocco alla frontiera in Israele per verificare che all'interno della bicicletta, portata dall'Italia, non ci fosse nulla di pericoloso, a un furto subito durante uno spettacolo comico, passando per delle meraviglie della natura: "Il Mar Morto è incredibile: così salato da galleggiare sulle sue acque - racconta il comico ferrarese -. Siamo arrivati a Enghedi, a -423 metri dal livello del mare, a una temperatura di circa 50 gradi. Abbiamo poi percorso il mar Morto verso sud e poi abbiamo iniziato l'attraversata, passando per la famosa salita dello Scorpione, verso l'interno di Israele. Siamo poi arrivati a Gerusalemme, oltre 700 metri dal mare, e il giorno successivo siamo andati da Gerusalemme a Tel Aviv. Un viaggio fantastico, attraversando deserto e città meravigliose".
   Arrivati a Tel Aviv, poi, Franceschini si è esibito in uno spettacolo comico in una gelateria gestita da italiani. E proprio durante lo spettacolo un ladro ha rubato tutta l'attrezzatura dal furgone. "In due ore la polizia di Israele non solo ha trovato il ladro, ma aveva preso anche tutte le impronte digitali all'interno del furgone per farle combaciare e vedere che il ladro fosse realmente la persona fermata con la refurtiva. Efficienza a dire poco".
   Un'esperienza che rimarrà indimenticabile: "Israele è fantastico, la zona del Mar Morto bellissima e suggestiva, così come Gerusalemme e Tel Aviv. Certo, c'era caldissimo, ma è stata molto più semplice da raggiungere rispetto all'Himalaya. In questo caso era una competizione e l'occasione di fare un percorso unico nel suo genere, ovviamente è stato un viaggio più lungo".

(Rovigo in Diretta, 8 settembre 2018)


Una federazione fra Autorità Palestinese e Giordania?

Non è una prospettiva insensata, ma gli ostacoli sono numerosi e i nemici potenti

di Ugo Volli

   Una federazione fra Autorità Palestinese e Giordania? Non si sa se per inabilità fisica, dato che si dice fisicamente e mentalmente molto provato, o per disperazione, ma non c'è nessuno nella politica mediorientale che sia più loquace di Mahmoud Abbas, "presidente" dell'Autorità Palestinese (titolo da scrivere tra virgolette, perché la sua elezione avvenne il 15 gennaio 2005 per quattro anni e ormai è nove anni e mezzo oltre la scadenza). Qualche giorno fa ha dichiarato di volere "uno stato demilitarizzato" "nei confini del '67" "dove ci sia "polizia e non esercito", difesa "da bastoni e non da armi" . Questo l'ha detto a degli accademici israeliani che hanno pensato bene di fargli visita, naturalmente in nome della pace. Poi, a un gruppo di politici israeliani di estrema sinistra ha detto di "essere d'accordo al 99% con il capo dello Shin Bet", il servizio di sicurezza israeliano. Ha fatto capire ad altri che tutto il mondo cospira contro di lui, in particolare quei "banditi" che dirigono Hamas, naturalmente d'accordo con Israele.
   Sono tutte "rivelazioni" che non valgono molto, visto che sono fatte in privato a tifosi stranieri. E però una di queste è significativa, dato che riguarda un tema di notevole importanza e che nessuno dei soggetti coinvolti l'ha smentita. Abbas avrebbe cioè detto ai suoi interlocutori israeliani (sempre i politici di estrema sinistra, Meretz e Peace Now) che il piano di pace americano su cui Trump sta lavorando da un anno, si baserebbe su una federazione fra Autorità Palestinese e Giordania soggiungendo di essersi detto disponibile, a patto che vi aderisse anche Israele (il che equivale a rifiutarla, dato che Israele non potrà certo mai accettare di entrarvi in minoranza di abitanti e di entità federate).
   E' una notizia che ha delle basi serie, e infatti la proposta in linea generale era già stata fatta, prima di essere sepolta dalla retorica dei due stati. Infatti la Giordania stessa non è che una parte molto consistente ( circa il 70%) del Mandato di Palestina assegnato alla Gran Bretagna dalla Società delle Nazioni, che essa già nel 1923 staccò dal Mandato, con un'operazione di dubbia legalità, per assegnarla alla popolazione araba del Mandato (che dunque ha già il suo stato) e alla famiglia dei suoi alleati, i Hashemiti. C'è poi il fatto che la Giordania occupò Giudea e Samaria fra il 1948 e il 1967 (illegalmente e senza riconoscimento internazionale, ma anche senza alcuna opposizione dal parte dei futuri "palestinesi"). Infine bisogna ricordare che sono di provenienza palestinese l'80% circa dei cittadini giordani (fino alla regina Rania; ma anche i maggiori dirigenti palestinisti, Abbas in testa, conservano i loro passaporti giordani) e dunque anche sul piano demografico quello è già il loro stato.
   Contro a questa ipotesi vi è il fatto che la dirigenza palestinista ha sempre cercato di rovesciare la dinastia hashemita (che non viene da lontano, dato che per secoli sono stati i custodi della Mecca) e che il padre dell'attuale sovrano, Hussein, fu costretto a reprimere nel sangue un colpo di stato guidato da Arafat nel 1970 (il famoso "settembre nero") e che quindi anche il sovrano attuale Abdullah e la sua corte temono il rafforzamento delle correnti palestiniste che inevitabilmente avverrebbe se ci fosse un legame politico fra Giordania e autonomia palestinese. Ma il regime giordano ha solidi rapporti con gli Stati Uniti e anche con Israele, che gli garantisce in molto modi protezione militare.
   Dunque l'idea non è insensata, è possibile che nasca una federazione come quella rivelata da Abbas, a patto che vi sia una seria garanzia americana e israeliana e magari anche saudita. L'ostacolo è la dirigenza palestinista, ma la divisione fra Fatah e Hamas, oltre al declino fisico e mentale di Abbas e al caos che potrebbe seguire la sua uscita di scena rendono l'ipotesi meno impossibile di quel che si dice. Un'autonomia palestinese demilitarizzata, in qualche modo unita alla Giordania e da essa commissariata, finanziata per lo sviluppo e non per aiutare il terrore potrebbe essere una soluzione accettabile anche per Israele. Forse ha ragione Trump e questa è la sola linea realistica in direzione di uno svelenimento del conflitto arabo con Israele. Ma naturalmente uno sviluppo del genere susciterebbe la furia dei terroristi e dei loro protettori (l'Iran, ma anche la Turchia, il Qatar e in un certo senso l'Unione Europea, salvo che le prossime elezioni rovescino la sua politica estera), che sull'odio contro Israele hanno investito molto. La rivelazione di Abbas è chiaramente un tentativo di far saltare questa ipotesi. Vedremo pian piano se "l'accordo del secolo" promesso da Trump avrà la forza di concretizzarsi almeno in parte.

(Progetto Dreyfus, 7 settembre 2018)


Si era definito Hitler e Israele gli ha fatto festa

E’ il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte

di Angelica Ratti

 
Rodrigo Duterte e Benjamin Netanyahu
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è trovato a dover compiere un complicato esercizio diplomatico in nome degli interessi economici accogliendo in Israele il presidente filippino Rodrigo Duterte. Proprio colui che in passato, due anni fa, nel 2016, non aveva esitato a paragonarsi ad Hitler. Parole che fecero scandalo.
   In nome della ragion di Stato il primo ministro israeliano, pur essendo molto sensibile alla questione della Shoah, l'Olocausto degli ebrei, ha preferito lasciar correre accettando le scuse del presidente filippino riguardo la sua infelice uscita passata. All'epoca, Duterte aveva dichiarato che il capo della Germania nazista aveva ucciso 3 milioni di ebrei. Nelle Filippine ci sono 3 milioni di drogati e «sarei felice di massacrarli» aveva aggiunto. Parole che non sono rimaste lettera morta: migliaia di trafficanti di droga, ma anche oppositori sono stati uccisi senza processo da quando Rodrigo Duterte è andato al potere.
   Sul fronte diplomatico, il premier israeliano fa bene a curare i rapporti con un presidente il cui paese si è astenuto a più riprese nelle votazioni delle risoluzioni dell'Onu ostili a Israele. Inoltre, la visita del presidente filippino, la prima di un capo di stato delle Filippine mai avvenuta in Israele, era legata ad una serie di interessi da parte dei due paesi, con Israele interessato a concludere dei contratti per la vendita di armi e droni ai filippini nel momento in cui l'Asia è considerata come il mercato più promettente. Inoltre, la società petrolifera israeliana, Ratio Petroleum, scommette sull'autorizzazione che il presidente filippino Rodrigo Duterte, dovrebbe dare all'accordo per lo sfruttamento di un giacimento al largo del suo arcipelago.
   Per stemperare la tensione derivante dal paragone infelice con Hitler, il presidente filippino, durante la sua visita in Israele, ha visitato il memoriale dell'Olocausto a Gerusalemme, Yad Vashem, come ha riportato Le Figaro, e ha reso omaggio anche al monumento che rende omaggio ai filippini che hanno aperto le porte delle proprie case a centinaia di rifugiati ebrei durante la seconda guerra mondiale. Un atto di contrizione.

(ItaliaOggi, 7 settembre 2018)


L'ex presidente paraguayano accusa il suo governo di tradire l'amico Israele

                                        Horacio Cartes                                                                                      Mario Abdo Benitez
ASSUNZIONE - Decidendo di riportare l'ambasciata da Gerusalemme a Tel Aviv, il presidente del Paraguay Mario Abdo Benitez ha "tradito" Israele e il sentimento del popolo paraguaiano. Lo ha detto l'ex presidente del Paraguay, Horacio Cartes, in un messaggio pubblicato sul proprio account di Twitter. "Oggi sono stati traditi i valori della civiltà giudaico-cristiana; oggi si è tradito un amico! Oggi si è tradita la volontà e il sentimento del popolo paraguaiano! Oggi si è tradita l'amicizia tra il Paraguay e Israele. Tutti i popoli che hanno girato le spalle a Israele lo hanno pagato caro", ha detto Cartes, che a maggio scorso - poche settimane prima di lasciare l'incarico - aveva deciso di spostare la rappresentanza diplomatica a Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 7 settembre 2018)


Un'agenzia filopalestinese ha scritto:
«Il ministro degli Esteri palestinese, Riyad al-Maliki, ha riferito che il presidente Mahmoud Abbas ha incaricato il ministero degli Esteri di avviare immediatamente il processo di apertura di un'ambasciata palestinese in Paraguay, aggiungendo che contatterà la sua controparte ad Asunción per prendere tutte le misure necessarie e adeguate».
Proprio come se uno Stato di Palestina esistesse davvero. Ma a Mahmoud Abbas ormai non resta più altro che passare il tempo immergendosi nel gioco del "Presidente di uno Stato che non c’è". M.C.


Nasreen: la cantante arabo musulmana si è convertita all'ebraismo

La famosa cantante palestinese
non è “palestinese”, ma arabo-israeliana
Nasreen Qadri, dopo aver cantato nei festeggiamenti dell'Indipendenza di Israele l'anno scorso, ha dichiarato di aver completato il suo processo di conversione all'ebraismo.
Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot ha riferito che Nasreen ha cambiato anche nome. Ora si fa chiamare Bracha ("Benedizione" in ebraico) . La conversione era iniziata con il fidanzamento con un musicista ebreo ma con il quale i rapporti si sono poi deteriorati. Nonostante la loro separazione nel settembre 2017, Bracha (Nasreen) è andata fino in fondo, dimostrando il suo vero desiderio di essere ebrea.
Durante la cerimonia di conversione avvenuta lo scorso fine settimana, Bracha si è immersa nel Mikvah (bagno rituale ebraico) in una festa sotto la direzione del rabbino Dudu Dery che ha accompagnato e guidato il processo di conversione della cantante.

(ArabPress, 7 settembre 2018)


«I 70 anni di Israele ignorati dalla Provincia di Bolzano»

Da oggi mostra in Galleria civica. Steinhaus: «Un'assenza che un po' ci ferisce»

di AlanConti

BOLZANO - Quadri e sculture per raccontare una storia millenaria travagliata. Fatta di divisioni che non hanno margini di trattativa, odio, violenza, intolleranza ma anche sogni diventati realtà. Come quello di avere una propria terra. Il Comune di Bolzano ha organizzato la mostra «Israele, 70 anni di storia» che sarà inaugurata questa mattina alle 10 alla Galleria Civica di piazza Domenicani.
   Diversi i reperti che raccontano i difficili passaggi storici di questo popolo attraverso un filo rosso steso dal curatore Federico Steinhaus. «La condizione attuale di Israele non parrebbe così difforme da quella altoatesina - spiega l'autore meranese - perché anche gli ebrei vivono in un territorio diviso. La differenza, enorme, è che non si può costruire un dialogo se una delle due parti non vuole parlare. È esattamente quello che accade sistematicamente in Palestina. Purtroppo Israele continua a pagare un conto enormemente salato alla sua storia e continua ad essere un popolo che deve fronteggiare chi lo vuole annientare. Una pena che non è stata inflitta nemmeno alla Germania nazista dopo gli orrori che ha perpetrato».
   La mostra, che rimarrà aperta fino al 28 settembre, ha ottenuto anche l'appoggio istituzionale della Regione Trentino Alto Adige ma c'è un'assenza rumorosa. «Purtroppo la Provincia si è dimenticata di noi - spiega con una punta di ironia Steinhaus - e questo ci ha un po' ferito. Non possiamo negare che abbiamo sempre ottenuto l'appoggio di Palazzo Widmann quando abbiamo organizzato attività collegate alla Shoah, ma stavolta ci hanno ignorato. Posso capire che quando si tratta di ragionare sull'intera storia di Israele, non solo sull'Olocausto, ci sia qualche resistenza in più».
   Convinto, invece, l'appoggio del sindaco Renzo Caramaschi. «In questi giorni ricorre l'anniversario della promulgazione delle leggi razziali anche in Italia. Una "schifezza" fatta per rincorrere la Germania nazista. Noi appoggiamo tutte le iniziative che sottolineino la complessità e il valore dei popoli».
   Per l'iniziativa saranno attivati accorgimenti di sicurezza, ma senza piani straordinari. L'antisemitismo in Alto Adige registra fortunatamente un arretramento. «Oggi l'odio è di matrice islamica - chiude Steinhaus - e non più un residuo della mentalità nazista. In passato sul nostro territorio abbiamo avuto dei problemi di intolleranza, ma oggi dobbiamo guardarci di più dall'importazione di odio in arrivo da alcuni Paesi islamici. Purtroppo c'è sempre un pericolo per Israele».

(Corriere del Trentino, 7 settembre 2018)


Si celebra Rosh Ha-shanà, il capodanno ebraico

Dal 9 all'11 settembre cerimonie in sinagoga

di Daniele Silva

Gli ebrei torinesi, insieme alle comunità ebraiche di tutto il mondo, celebrano "Rosh Ha-shanà", ovvero il capodanno, a partire da domenica 9 settembre. L'inizio della festa è l'occasione per ritrovarsi nella sinagoga di piazzetta Primo Levi. Durante le preghiere, che si tengono anche nelle due mattine del 10 e 11 settembre, si leggono i passi della Torah che raccontano il celebre episodio del sacrificio di Isacco, figlio di Abramo. Il rito prevede anche l'ascolto del suono dello Shofar, uno strumento a fiato ricavato dal corno di un ariete. Lo Shofar, suonato cento volte nell'arco della funzione, ha due importanti significati simbolici: da un lato ricorda alcune vicende particolarmente sentite dell'Antico Testamento, dall'altro invita il popolo ebraico a compiere le "mitzvot" (i precetti) e le buone azioni, attraverso la "teshuvà", il pentimento. RoshHa-Shanà inaugura il periodo più intenso dell'intero calendario religioso ebraico, ovvero quello dei dieci "giorni penitenziali", durante i quali è necessario riflettere sulle proprie azioni, fare pentimento ed espiare i peccati commessi nell'anno appena concluso, in vista del digiuno di Yom Kippur. Nei giorni della festa il calendario lunare termina il suo ciclo, ricominciando dal primo mese (Tishri). L'inizio d'anno si festeggia anche in famiglia, con una cena rituale e cibi tipici (mele con il miele, zucca, fichi, melograno, pesce).

(La Stampa - Torino Sette, 7 settembre 2018)


"Il 40 per cento degli ebrei inglesi se ne andrà in caso di vittoria di Corbyn"

Un sondaggio e il rabbino Sacks: "Mai cosi male da 362 anni"

di Giulio Meotti

ROMA - Ieri mattina, alle fermate degli autobus di Westminster, Waterloo e Bloomsbury, a Londra, sono apparsi manifesti abusivi che definivano Israele "razzista". Non a caso è successo il giorno dopo in cui il Labour, contro la volontà del suo segretario Jeremy Corbyn, ha finalmente adottato la definizione internazionale sull'antisemitismo, fra cui l'attacco allo stato ebraico come forma di razzismo (Corbyn era sempre stato contrario a questa clausola). La London Palestine Action ha rivendicato l'affissione dei manifesti.
   Oggi la vita ebraica in Gran Bretagna è più minacciata che in qualsiasi momento dalla Seconda guerra mondiale e a causa di un uomo, il leader del partito laburista Corbyn, e della politica fetida che lo circonda. Nelle stesse ore dei manifesti, Scotland Yard annunciava l'apertura di una inchiesta su 21 casi di antisemitismo nel Labour, fra cui un membro del partito che avrebbe scritto:
   "Dobbiamo liberarci degli ebrei, un cancro per tutti noi". La comunità ebraica inglese è sprofondata in un vero e proprio stato di angoscia e di assedio, tanto che ieri è uscito un sondaggio secondo cui il 40 per cento di loro "sta seriamente pensando di emigrare" in caso di vittoria di Corbyn alle prossime elezioni. Persino dopo l'attacco alla comunità ebraica francese nel gennaio 2015, quella percentuale era ferma all'undici per cento.
   Il sondaggio ha dato sostanza ai commenti all'inizio di questa settimana dall'ex rabbino capo britannico, Lord (Jonathan) Sacks, che ha detto in un'intervista alla Bbc che con l'ascesa di Corbyn gli ebrei stanno affrontando una "minaccia esistenziale" in Gran Bretagna e che molti stanno pensando di lasciare il nazione. "Non conosco altre occasioni in questi 362 anni in cui gli ebrei - la maggior parte della nostra comunità - si sono chiesti 'questo paese è sicuro per allevare i nostri figli?'", ha detto Sacks. L'ex rabbino, una delle personalità ebraiche più influenti e rispettate al mondo, la scorsa settimana aveva già descritto Corbyn come "un antisemita" che ha "dato sostegno a razzisti, terroristi e mercanti di odio". Lo scorso aprile Pinchas Goldsmith, presidente della Conferenza europea dei rabbini, aveva avvertito: "Gli ebrei potrebbero fuggire se Corbyn venisse eletto". Poi, a luglio, 68 rabbini britannici avevano scritto una lettera aperta al Guardian in cui accusavano la leadership laburista di ignorare la comunità ebraica e l'antisemitismo "grave e diffuso" che affligge il partito. Poco dopo, con una mossa senza precedenti, i tre principali giornali ebraici del paese avevano pubblicato la stessa copertina in cui parlavano di una "minaccia esistenziale alla vita ebraica" in Gran Bretagna.
   Corbyn è stato a lungo associato - involontariamente dice lui - con il negazionista dell'Olocausto Paul Eisen. È stato un membro di gruppi Facebook pieni di cospirazioni antiebraiche. Corbyn ha ospitato un evento sul Memoriale dell'Olocausto in cui il governo israeliano è stato paragonato ai nazisti. Poi è apparso sulla televisione iraniana per celebrare il rilascio di terroristi palestinesi da parte di Israele in un doloroso scambio di prigionieri con Hamas. E si è riferito ai detenuti come a "fratelli". Ma forse la rivelazione più terribile è emersa il mese scorso. Nel 2014, Corbyn ha deposto una corona di fiori sulle tombe di terroristi coinvolti nell'omicidio di atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco nel 1972. All'evento era accanto a un leader del Fronte popolare per il Liberazione della Palestina, un gruppo con una storia di cinquant'anni di terrorismo in Israele e all'estero. Mai prima d'ora uno dei due grandi partiti in Gran Bretagna aveva considerato la creazione di Israele, all'indomani dell'Olocausto, come un atto colonialista, come pensa Corbyn. In un'altra diatriba, nei giorni scorsi, Corbyn ha detto che "i sionisti" non sanno apprezzare la proverbiale ironia britannica. Quest'ultimo intervento ha spinto J.K. Rowling, l'autrice della saga di Harry Potter, a scontrarsi con un collega scrittore, Simon Maginn, alias Simon Nolan. Quest'ultimo ha definito l'indignazione ebraica "sintetica", invitando la comunità a "spiegare il tuo profondo e feroce senso di ferita". Rowling, che non è ebrea, ha twittato in risposta: "Come osi dire a un ebreo che il loro oltraggio è 'palesemente sintetico'? Di quale altra minoranza parleresti in questo modo?". Già, di quale altra minoranza gli antisemiti inglesi di sinistra, sempre così traboccanti di umanitarismo, parlerebbero in questo modo?

(Il Foglio, 7 settembre 2018)


Scatti da Israele, raccontare la Storia (e le storie) per immagini

In mostra al Museo di Roma in Trastevere gli scatti di David Rubinger, morto l'anno scorso a 92 anni dopo una vita da fotoreporter

Il Primo Ministro Golda Meir nella sua cucina prepara il caffè per i suoi ospiti
Raccontare un Paese non solo attraverso la grande Storia, ma documentando il fascino discreto della vita quotidiana e i gesti comuni di personaggi cruciali: è quanto ha fatto David Rubinger, scomparso l'anno passato a 92 anni, per sessanta testimone fedele con la sua macchina fotografica dei cambiamenti avvenuti in Israele. Rubinger è entrato nella carne viva di un popolo, e ora una mostra promossa da Roma Capitale con la Comunità ebraica di Roma e l'ambasciata d'Israele in Italia al Museo di Roma in Trastevere ne illustra l'attività: una settantina di immagini in bianco e nero fra le più simboliche e significative. Anche se tutto, nella produzione di Rubinger, ha i contorni della necessità. La curatrice è Edvige Della Valle, dalla cui collezione privata provengono le immagini.

 «I soldati nella Guerra dei Sei Giorni»
  È il 7 giugno 1967 quando Rubinger ritrae tre soldati israeliani davanti al Muro del pianto, nella Guerra dei Sei Giorni. «Ciò che ha reso significativa quella foto sono state le circostanze in cui fu scattata - amava ricordare - ed è stato questo che l'ha resa il simbolo in cui si identifica la gente». Per la giusta inquadratura si era dovuto rannicchiare in un minimo anfratto, fino quasi a scomparire.

 Giorgia Calò: «Situazioni intime e ufficiali»
  Precisa Giorgia Calò, assessore alla Cultura e all'archivio storico della Comunità ebraica di Roma: «Per lui aveva la stessa importanza, ritrarre situazioni intime o ufficiali. Così Golda Meir è rappresentata mentre imbocca suo nipote, e nel momento di preparare il caffè. Shimon Peres riordina i volumi della sua libreria in pantaloncini. Ehud Olmert viene sorpreso ad aiutare la moglie in cucina. Quadretti domestici, all'apparenza, che senza retorica mettono in scena le grandi sfide dello Stato ebraico». Ancora, giovani che nel 1947 festeggiano la risoluzione per la fondazione dello Stato d'Israele; l'abbraccio di due fratelli all'indomani dell'operazione Salomone che portò migliaia di ebrei etiopi in Israele; Giovanni Paolo II, e quel gesto rivoluzionario di infilare in una fessura del Muro del Pianto la preghiera per il perdono e la fratellanza.

 Nella Brigata Ebraica la sua prima macchina fotografica
  Rubinger non cercava lo scoop, ma l'identità. Nato in Austria, lasciò il suo Paese nel '39 e si trasferì in Medioriente per sfuggire alle persecuzioni antisemite. Combatté il nazismo arruolandosi nella Brigata Ebraica dell'esercito britannico, per tornare poi in Israele, al collo una Argus regalatagli da un'amica francese. Fotoreporter per HaOlam HaZeh, Yediot Ahronot e per The Jerusalem Post, è stato anche l'inviato in Israele di testate prestigiose come Time e Life: l'unico autorizzato a scattare nella mensa della Knesset, il Parlamento israeliano. E primo fotografo a ricevere l'Israel Prize. Una vita scandita da cinquecentomila scatti. E una esibita inconsapevolezza. «Ottima foto» si complimentò sua moglie per una foto divenuta epocale. Ma lui fece spallucce, non prendendola sul serio.

(Corriere della Sera - Roma, 7 settembre 2018)


Ambasciatore d'Israele a Roma, l'incarico al giornalista Eydar

di Daniel Reichel

 
Dror Eydar
Il prossimo ambasciatore d'Israele a Roma sarà il giornalista del quotidiano Israel Hayom, Dror Eydar. La scelta del Primo ministro Benjamin Netanyahu è stata annunciata nelle scorse ore e Eydar, se dovesse superare tutti i passaggi necessari, inizierà il suo incarico a partire dalla prossima estate, una volta concluso il mandato dell'attuale ambasciatore Ofer Sachs. Editorialista di Israel Hayom sin dalla sua nascita nel 2007, Eydar ha dichiarato che rappresentare Israele era "un sogno di lunga data". Rispondendo a una domanda se avesse chiesto lui la posizione o fosse stata una scelta autonoma del Primo ministro Netanyahu, ha spiegato che si è trattato di "un desiderio reciproco". "Come ricercatore di storia e letteratura, il privilegio di rappresentare lo Stato di Israele a Roma, con tutto il bagaglio diplomatico, nazionale e religioso che lega i due popoli e risale a migliaia di anni fa, assume un significato speciale. Come ho fatto come giornalista e in altre posizioni in Israele e in tutto il mondo, cercherò di dedicare tutte le mie energie e conoscenze per rappresentare Israele fedelmente e con coraggio", ha dichiarato Eydar.
   Per Boaz Bismuth, direttore di Israel Hayom - quotidiano del magnate americano Sheldon Adelson - la nomina di Eydar è "un grande onore" per il giornale. "Dror si sposterà su una piattaforma diversa per fare quello che sa far meglio: difendere il buon nome di Israele e la retta via". Prima della nomina - scrive lo stesso Israel Hayom - Eydar ha parlato con Netanyahu e ha espresso il suo desiderio di rappresentare Israele a livello internazionale. Ricoprendo anche l'incarico di ministro degli Esteri, Netanyahu ha il diritto di effettuare un certo numero di nomine politico-diplomatiche. Da qui la scelta del giornalista, alla prima esperienza diplomatica.
   "Uno dei modelli con cui sono cresciuto fin da bambino è il rabbino Yaakov Herzog, un intellettuale acuto e coraggioso che ha rappresentato Israele a livello internazionale in vari ruoli. Ho ricevuto in regalo il suo libro "Un popolo che abita da solo" quando ho finito la scuola media a Kfar Saba. Da allora, ho letto il libro più volte e l'ho usato spesso. Ringrazio il Primo ministro per avermi dato l'opportunità di seguire le sue orme". Nei suoi editoriali su Israel Hayom, quotidiano notoriamente vicino all'attuale Premier israeliano, Eydar ha ad esempio difeso la recente e discussa legge sullo Stato-nazione: "La legge nazionale protegge Israele dal pericolo di diventare uno stato binazionale, e anche dalla direzione in cui l'ha spinta il giudice Aharon Barak: quello che in termini accademici è chiamato 'uno stato di tutti i suoi cittadini', ma che in realtà è diretto a diventare 'lo stato di tutte le sue nazionalità'. Senza questa legge, alla fine del processo, i cittadini arabi di Israele avrebbero chiesto l'autonomia nazionale. Lo chiedono ora, ma senza la legge della nazionalità, la loro strada era spianata".

(moked, 6 settembre 2018)


Enrica Calabresi, la professoressa ebrea morta per la scuola

Fu una delle prime italiane laureate in una disciplina scientifica, l'unico docente espulso tre volte da università e scuola per volontà del fascismo. Margherita Hack: l'ho vista cacciare dalla scuola da un giorno all'altro, questo mi ha aperto gli occhi: è allora che sono diventata antifascista.

di Giulio Gori

Enrica Calabresi
E stata una delle prime donne in Italia a laurearsi in una disciplina scientifica, varcando le porte di un mondo fino ad allora riservato agli uomini. È stata forse l'unico docente ad essere espulsa tre volte dall'Università e dalla scuola per volontà del fascismo. Ed è tra i pochi che, per evitare il campo di sterminio, ha scelto di togliersi la vita, bevendo una fiala di veleno. È la storia della professoressa Enrica Calabresi, ebrea, che ha dedicato la sua vita, fino a sacrificarla, ad una missione: insegnare. La storia di Enrica, vittima delle leggi razziali e del nazifascismo, è raccontata dal giornalista Paolo Ciampi nel libro «Un nome» (Giuntina). Nata a Ferrara nel 1891, si iscrivere a Firenze a Scienze Naturali da studentessa fuori sede e qui si laurea in Zoologia nel '14. All'Università conosce un brillante scienziato, Giovan Battista De Gasperi, con cui nasce una storia d'amore. Ma il fidanzato muore in battaglia nella Grande Guerra e Enrica, ormai sola, consacra la sua vita all'insegnamento e alla scienza. Nel '31, con l'obbligo di giuramento di fedeltà al fascismo, lei che è semplice ricercatrice e non quindi obbligata a farlo, viene comunque allontanata dall'Università: è donna e non è iscritta al Pnf. Enrica è costretta a re inventarsi insegnante di scienze al liceo Galileo di via Martelli, ma riesce poi a ottenere la cattedra di Entomologia a Pisa. Fino al 1938, alle leggi razziali, quando viene espulsa da entrambe le istituzioni perché ebrea. Margherita Hack, sua allieva al Galileo, ne resterà molto segnata: «L'ho vista cacciare dalla scuola da un giorno all'altro. Questo mi ha aperto gli occhi, ha segnato in me una frattura: è allora che sono diventata antifascista».
   Enrica Calabresi non si arrende. E diventa professoressa alla «scuola ebraica», al numero 5 di via Farini, accanto alla sinagoga: due stanze in cui, attorno a un tavolo, insegna ai bambini e ai ragazzi a loro volta esclusi dalle loro scuole in quanto ebrei. La vita di Enrica si svolge tutta negli 800 metri tra la casa di via del Proconsolo e le due stanze di via Farini, dove il conformismo va oltre le stesse leggi razziali, dove si cambia marciapiede per togliere il saluto all'ebrea un tempo amica. Lei, che parla inglese, legge ai ragazzi i giornali proibiti della «Perfida Albione», critica le leggi razziali e il regime di fronte agli allievi: «Tra queste mura amiche finisce per sbottonarsi», scrive Ciampi. Fino all'estate del '43, quando come ogni anno è in villeggiatura nella fattoria di famiglia a San Gallo Bolognese. L'8 settembre, i parenti fuggono in Svizzera, dove si salveranno. Lei invece vuole insegnare. E, con un segreto in tasca, varca gli Appennini verso Sud, verso la sua citta di adozione, verso la sua scuola. Ma la scuola non esiste più, Margherita Hack la incrocia in piazza Signoria, «strisciava contro i muri come un animale spaurito». Enrica ha paura, ma non si nasconde. Nel gennaio ‘44 è arrestata e imprigionata a Santa Verdiana. Sta per partire per Auschwitz, ma la notte tra il 19 e il 20 gennaio, estrae il segreto dalla tasca, una fiala di veleno. Oggi a Firenze, per ricordarla, c'è una lapide all'ingresso del museo della Specola. Il suo nome, ignoto ai più, è stato svelato dal libro «Un nome»: non risultava nelle liste dei deportati. «Non ha preso quel treno per Auschwitz - scrive Ciampi - A suo modo Enrica ha vinto».
   
(Corriere fiorentino, 6 settembre 2018)


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Leggi razziali, ricordare non basta. Di Segni: anche oggi parole d'odio

Ieri la commemorazione, il 20 la cerimonia delle scuse dei rettori: «L'Università fu complice».

di Jacopo Storni

SAN ROSSORE - Quel giorno, come ogni giorno, il re Vittorio Emanuele III si alzò presto. Nella sua residenza estiva di San Rossore, i suoi cinque figli ancora dormivano. Come ogni mattina, si fece accompagnare dall'autista, nella sua Balilla nera, in riva al mare per la consueta passeggiata. Accanto al mare, la pineta sterminata. Poi, come sempre, intorno alle 10 rientrò nella villa residenziale per gli affari di Stato.
   Arrivarono i segretari coi plichi da firmare. Tra questi, c'era il documento sulle leggi razziali, volute da Mussolini. Il re si appoggiò alla scrivania, impugnò la penna, firmò. Erano le 11. Un segno d'inchiostro, tanto è bastato a cambiare la storia. Ebbero inizio le persecuzioni degli ebrei italiani, cacciati dalle scuole, espulsi dalle università. Tutto cominciò qui, nel parco di San Rossore, dove Vittorio Emanuele III passava sei mesi all'anno tra battute di caccia, mare e lavoro. Oggi la villa residenziale non c'è più, spazzata via dai tedeschi in ritirata.
   Restano le cascine rosse degli inservienti, i pini marittimi e i covoni di paglia. Al posto della residenza reale, c'è un assolato prato con l'erba seccata dal sole. c'è un ulivo appena nato e una targa dorata: «Pisa non dimentica».
   Proprio qui, nell'ottantesimo anniversario delle leggi razziali, si sono tenute ieri mattina le iniziative per ricordare vittime e perseguitati. Ma commemorare non basta. «Non possiamo limitarci alle cerimonie commemorative - ammonisce la presidente delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni - dobbiamo invece chiederci se potrà accadere nuovamente, capire quali erano i segnali premonitori alla firma. E sarebbe miope se oggi non denunciassimo le parole di odio verso soggetti altri che ogni giorno segnano lo spazio pubblico. Ci sono segnali inquietanti che generano incertezza». Non occorre solo ricordare, serve guardarsi indietro e dentro per capire come sia stata possibile tanta crudeltà, alzare la guardia perché qualcosa di simile non si ripeta.
   Perché il male trionfi, è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione, diceva il filosofo britannico Burke. Ottant'anni fa ci furono dei buoni, gli accademici, che non fecero nulla, non si opposero alle leggi, tollerarono l'allontanamento degli ebrei dalle cattedre e dalle aule. Ieri il rettore dell'Università di Pisa Paolo Mancarella, in rappresentanza di quel mondo accademico connivente, ha chiesto scusa. «A quel tempo tutta l'Accademia si rese complice ed esecutrice di quell'infamia. Sentiamo forte oggi il dovere di chiedere scusa e tenere alta la memoria». Le scuse culmineranno nell'evento del 20 settembre, nel Palazzo della Sapienza dell'Ateneo pisano, alla presenza della Conferenza dei Rettori e dell'Unione delle Comunità Ebraiche. Sarà la prima volta che in Italia un rappresentante delle istituzioni compie pubblicamente un simile gesto.
   Commemorazioni, ma non solo. «Non si possono fare celebrazioni rituali - dice il governatore Enrico Rossi - bisogna prendere lezione dalla storia e saper leggere il presente, visto che oggi si avvertono analogie, ci sono fenomeni che giustificano preoccupazioni rispetto all'insorgere di una cultura razzista che individua capri espiatori rispetto a problemi». E poi: «Veniamo da un'estate dove è stato fatto un goliardico gioco a sparare pallini con carabine di gomma sui neri, è preoccupante». Presenti alle cerimonie anche la vicepresidente della Regione Monica Barni e il sindaco di Pisa Michele Conti, che ha detto: «Aldilà delle parole dobbiamo mantenere vivo il ricordo affinché firme di questo tipo non ci siano più».
   Durante la giornata, è stata inaugurata al parco la mostra «1938 - La storia», un ricordo sull'esclusione degli ebrei attraverso foto, documenti e giornali. Il taglio del nastro c'è stato prima dell'arrivo del governatore Rossi, che si è arrabbiato: «Mi è parso uno sgarbo istituzionale». Sempre ieri mattina, si è tenuta la commemorazione al cimitero ebraico di Pisa con la deposizione di una corona in ricordo degli ebrei vittime dalle leggi razziali. Tra gli eventi previsti a Pisa, la conferenza internazionale «A ottanta anni dalle leggi razziali fasciste: tendenze e sviluppi della storiografia internazionale sull'antisemitismo e la Shoah» e a Siena il convegno «1938-1948. Dalla discriminazione alla tutela dei diritti» promosso dall'Istituto Sangalli.

(Corriere fiorentino, 6 settembre 2018)


Nella destra xenofoba dell'AfD nasce il gruppo degli ebrei

In Germania aumentano gli iscritti al partito nazionalista e negazionista

di Walter Rauhe

BERLINO - Ebrei che militano nelle file di un partito populista e di estrema destra, e questo proprio in un Paese come la Germania? Quella che può apparire come un'antitesi poco verosimile è invece realtà all'interno dell'Alternative für Deutschland (AfD). Ufficialmente sono almeno tre i cittadini tedeschi di fede ebraica iscritti al partito ultranazionalista e anti-tutto (anti-islamico, anti-immigrati, anti-euro, anti-globalizzazione, anti-Merkel) accusato di condividere e propagare ideologie apertamente negazioniste, xenofobe e antisemitiche. Ma il vero numero degli ebrei già in possesso di una tessera del partito e di quelli intenzionati ad aderirvi in futuro è più alto e sembra destinato ad aumentare ulteriormente.
   Secondo indiscrezioni che già da qualche tempo circolano sulla stampa tedesca, ai primi di ottobre verrà fondata a Offenbach, nei pressi di Francoforte, la prima associazione degli «Ebrei nella AfD». Promotore dell'iniziativa è un certo Wolfgang Fuhl, dal settembre del 2017 deputato della AfD al Bundestag e membro della comunità ebraica di Lörrach, nel Sud-Ovest della Germania. La biografia politica del 58enne è piuttosto movimentata: da giovane militava negli ambienti del movimento studentesco in una cellula d'ispirazione maoista. Successivamente è passato agli Jusos, la federazione giovanile del Partito socialdemocratico, è stato per alcuni anni attivista e funzionario dei sindacati e nel 2013 è passato all'Alternative für Deutschland. Insieme a Emanuel Krauskopf, delegato dell'AfD a Francoforte dove era anche membro del consiglio amministrativo della comunità ebraica locale, Krauskopf motiva la sua scelta di aderire al partito della destra populista con la sua netta opposizione alla politica migratoria di Angela Merkel. Aprendo nel 2015 le frontiere a quasi un milione di profughi provenienti prevalentemente dalla Siria, dall'Afghanistan e dall'Iraq, la cancelliera avrebbe contribuito ad accelerare il processo di islamizzazione della società tedesca. «Per noi ebrei questo ha provocato un drastico aumento delle aggressioni e degli episodi di antisemitismo dal momento che la stragrande maggioranza dei migranti è di fede islamica e odia lo Stato d'Israele e più in generale tutti gli ebrei», spiega Krauskopf. Il fatto che il co-presidente dell'AtD Alexander Gauland abbia minimizzato più volte i crimini commessi dalla Germania nazista, che il leader regionale della Turingia Björn Höcke abbia definito il Memoriale dell'Olocausto a Berlino come un monumento vergognoso o che i partecipanti ad una visita guidata nell'ex campo di concentramento di Sachsenhausen organizzata dalla capogruppo dell'AfD al Bundestag Alice Weidel abbiano messo in dubbio l'esistenza delle camere a gas, non sembra dare fastidio a Krauskopf, Fuhl e agli altri ebrei iscritti al partito.
   «Ma la presenza di ebrei in partiti d'ispirazione xenofoba e antisemita non è un'eccezione», spiega Micha Brumlik del Centro di Studi ebraici di Berlino. Nel 1919, ai tempi della Repubblica di Weimar, alcuni reduci della Prima guerra mondiale fondarono l'associazione ultraconservatrice dei «Soldati ebrei del fronte» mentre alcuni anni dopo un gruppo di fanatici sostenitori di Adolf Hitler diede vita all'«Unione degli ebrei tedesco-nazionali». Il loro appoggio incondizionato all'ideologia nazista e persino alle sue dottrine razziali non risparmiò ai componenti del gruppo persecuzioni e la deportazione nei campi di sterminio.

(La Stampa, 6 settembre 2018)


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Un ebreo tedesco che voleva morire con la croce uncinata sul petto

Riportiamo alcuni estratti da un articolo scritto diversi anni fa sulla rivista evangelica “Il Cristiano” con il titolo “Un moderato, equilibrato, ‘evangelico’ antisemitismo” di Marcello Cicchese. L’articolo è già presente da tempo sul nostro sito.

Dopo la prima guerra mondiale veniva stampato a Bad Blankenburg (Turingia), nella sede dell'Alleanza Evangelica Tedesca, un settimanale dal titolo "Heilig dem Herrn" ("Santo al Signore"). Il direttore era un uomo di Dio molto noto come evangelista in Germania, tanto da essere chiamato il "Moody tedesco": Ernst Moderson. La cerchia dei lettori è facilmente intuibile dal tipo di articoli e dalla sede in cui il giornale veniva pubblicato: cristiani evangelici di varie chiese libere, credenti pietisti di chiese evangeliche di Stato e, in genere, credenti biblici nati di nuovo attaccati alla Scrittura, dediti alla missione e all'evangelizzazione.
   Il settimanale aveva una rubrica dedicata all'attualità che compariva sotto il titolo "Zeitspiegel" ("Specchio dei tempi"). Per molti anni fu curata da un anziano credente di nome Wilhelm Goebel (da non confondere con Joseph Paul Goebbels, il gerarca nazista). Non si può dire molto di questa persona, se non che nel 1933 aveva più di sessant'anni, aveva buone conoscenze di storia e letteratura, era capace di scrivere in buona lingua ed era ben informato sui fatti della politica degli ultimi decenni. Era anche impegnato in opere di assistenza sociale: nella sua città, infatti, dirigeva la locale Croce Blu, un'opera di recupero degli alcolizzati.
   A partire dal 1933 la rubrica "Zeitspiegel" diventò un allegato della rivista "Heilig dem Herrn", e da quel momento Wilhelm Goebel figurò come direttore dell'allegato, mentre Ernst Moderson continuava ad essere il direttore responsabile di tutta la rivista.
   Sulle quattro densissime pagine di "Zeitspiegel" (scritte in un piccolo e fitto gotico) Wilhelm Goebel raccoglieva ogni settimana una quantità enorme di notizie, citazioni di giornali, considerazioni, lettere di lettori, sue risposte, brani di libri, poesie, polemiche. Anche prima dell'avvento del nazismo era ritornato più volte sulla delicata "questione ebraica", più che mai attuale nella Germania fra le due guerre, con considerazioni che certamente non dovevano risultare gradite agli eventuali lettori ebrei. Naturalmente aveva affrontato il tema anche da un punto di vista biblico, e le sue considerazioni avevano trovato il consenso di molti, anche se non proprio di tutti.

[...]

Le considerazioni del direttore di "Zeitspiegel" non possono essere considerate come semplici opinioni personali di una mente non equilibrata. La rivista "Heilig dem Herrn", di cui Goebel curava l'allegato di attualità politica, raggiunse in Germania la tiratura di 100.000 copie, e poiché era un'espressione dell'Alleanza Evangelica Tedesca, era letta in diversi ambienti evangelici.

[...]
   
Il primo atto pubblico contro gli ebrei dopo l'assunzione del cancellierato da parte di Hitler fu l'organizzazione di un boicottaggio contro i negozi ebrei, fatto dal partito nazionalsocialista il 1o aprile 1933. Sono note le fotografie dei miliziani nazisti davanti a un negozio di ebrei con la scritta: "Tedeschi, difendetevi! Non comprate dagli ebrei!". Chi vede adesso quelle fotografie pensa subito alla protervia dei prepotenti tedeschi contro i deboli ebrei, ma in quel momento il sentimento diffuso in Germania era esattamente il contrario: i tedeschi si sentivano economicamente e politicamente deboli in conseguenza dell'oppressione sulla Germania operata dall'economia internazionale manovrata dai superpotenti ebrei. L'azione promossa dal partito nazional socialista si presentava come un'azione di difesa davanti alla menzognera campagna d'odio condotta dall'internazionalismo ebraico.
   
[...]
   
Dopo aver invitato ripetutamente i lettori a esprimere il loro sentimento nazionale tedesco unendosi nel boicottaggio ai negozi degli ebrei, il direttore di "Zeitspiegel", come tutti gli autentici antisemiti inconsapevoli, sottolinea ancora una volta che lui non ce l'ha con gli ebrei in quanto tali, perché in fondo anche tra loro "non tutti sono così nefasti".
    «Al lettore attento non sarà sfuggito che ho accentuato il fatto che parlavo di questi, di quelli e di tali ebrei. Ce sono anche altri, e dico questo sottolineandolo. Questi però, come sempre succede, non si mettono in mostra come gli altri. E questo fatto noi, tedeschi nazionali e soprattutto credenti cristiani, non vogliamo mai dimenticarlo. Non tutti gli ebrei sono così nefasti come quelli che hanno causato la nostra rovina. Sicuramente adesso ci sono alcuni innocenti che devono soffrire insieme ai colpevoli. E adesso prego i miei lettori, anche i nazionalsocialisti fra di loro, di leggere la seguente lettera che qui riporto.»
Goebel invita adesso proprio i nazionalsocialisti a leggere con attenzione la lettera che sta per riportare, e questo per un motivo davvero eccezionale: chi scrive è un ebreo che si professa... nazionalsocialista. Attenzione dunque camerati - sembra dire il direttore di "Zeitspiegel" - non trattate male tutti gli ebrei perché tra di loro potreste trovare uno dei vostri. Questo è il testo completo della lettera riportata:
    «Già da molto tempo era mia intenzione scrivere a Lei come editore di "Zeitspiegel", allegato del settimanale "Heilig dem Herrn". Però fino ad ora non mi è riuscito perché l'ultimo anno di lotta del movimento hitleriano è stato molto pesante, e ogni persona che ha comprensione di dove stiamo andando non poteva far altro che mettere tutte le sue forze a disposizione del movimento. Anzitutto un grazie di cuore per la sua virile difesa dell'idea. Lei non si fa spaventare da nulla e va avanti impavido nel suo cammino.
       Tempo fa, quando i cosiddetti moderni giudeocristiani volevano istruirla, volevo già scriverle. Ma stavamo proprio nel mezzo delle elezioni e quindi non è stato possibile. Certamente la sorprenderà il fatto che io, come ebreo diventato credente in Cristo, sono un tenace sostenitore del movimento hitleriano. Anche se non sono un membro iscritto, noi credenti del cristianesimo positivo sappiamo che il servizio è la cosa principale. I cristiani che pensano e agiscono diversamente, anche se padroneggiano bene la lingua di Canaan, sono solo pii chiacchieroni.
       Il NSDAP [il partito nazionalsocialista, ndr] non vuole essere riconosciuto soltanto come un fattore economico; il movimento vuole essere pensato e compreso come una visione mondiale. Su questo non ci lasciamo intimidire da nulla, no, ogni giorno che passa Hitler ci diventa più caro.
       E' un errore di molti credenti cristiani il fatto che riconoscono Dio soltanto nella Bibbia; Dio, il Creatore, si rivela anche nella storia dei popoli, e proprio come onnipotente Creatore del cielo e della terra.
       Ai giudeocristiani che pensano diversamente oso dire arditamente che non conoscono la storia del loro popolo, e tali cristiani a noi servono molto poco, anzi ci danneggiano.
       Certamente Dio si è rivelato in carne per ogni singola persona, ed è altrettanto certo che la rivelazione è consistita anche nel fatto che ogni popolo è stato consacrato a Dio attraverso Cristo. E' l'Onnipotente che ha creato ogni popolo e ogni razza nella sua specificità. E' Lui che ad ogni popolo ha dato la sua propria anima. Proprio nella molteplicità dei popoli e delle razze riconosco Dio come il padrone del mondo. Come tale Egli vuole anche essere conosciuto da noi uomini tratti dalla terra.
       Naturalmente anch'io, come israelita, devo preoccuparmi di onorare e rispettare l'anima del mio popolo. Per questo è necessario che mi immerga nella storia del mio popolo e poi nella storia del popolo in cui Dio mi ha posto. Si sente allora la domanda: "Che posizione devo assumere?" O: "Che cosa sarà di me?" Ma già il servire rende felici e soddisfatti. Perché noi cristiani non vogliamo essere soltanto uomini del presente, perché per vocazione siamo uomini dell'eternità. Questo dovrebbero capire quel tipo di giudeocristiani, altrimenti dovrebbero riandare là da dove sono venuti, e non contribuire a lacerare il popolo tedesco.
       Che cosa è successo, da far eccitare tanto gli ebrei e i compagni ebrei?
       Il popolo tedesco ha ritrovato la sua anima, la sua coscienza nazionale e popolare. Ogni ebreo cristiano dovrebbe sapere che un popolo che perde la sua coscienza nazionale e popolare è maledetto. Soltanto un popolo consapevolmente nazional-popolare può essere in relazione con Dio. Questo ci insegna a sufficienza la storia delle missioni. Il legame nazional-popolare è voluto da Dio. Quello internazionale è contro Dio. Internazionalismo e dichiarato ateismo vanno a braccetto. Noi, esseri tratti dalla polvere e peccatori, non dobbiamo mescolare insieme tutti i popoli. Questo il Creatore lo ha riservato a Sé. Soltanto la coscienza nazional-popolare ci porta a dire: "Gloria a Dio nei luoghi altissimi, pace in terra agli uomini di suo gradimento".
       Quanto ho scritto in questa lettera può bastare per oggi. Sono un uomo malato e devo usare con parsimonia le mie forze. Soltanto una cosa per finire. Ho vincolato il mio medico curante al seguente impegno:
       Io porto la croce uncinata non in pubblico, ma sotto la giacca, perché non voglio essere una provocazione fra gli ebrei, ma quando presto o tardi dovrò prendere la strada di tutti i mortali, voglio entrare nell'eternità con la croce in mano e la croce uncinata sul petto, e dire al mio Signore e Salvatore: Signor mio e Dio mio, eccomi, non ho potuto fare altrimenti. "Sieg Heil'' [saluto nazista].»
[...]
   
“Un moderato, equilibrato, ‘evangelico’ antisemitismo” PDF

(Notizie su Israele, 6 settembre 2018)


L'89 per cento degli ebrei israeliani è pessimista sull'accordo di pace entro il 2019

GERUSALEMME - L'89 per cento degli ebrei residenti nello Stato di Israele è pessimista sulla possibilità di un accordo di pace con palestinesi nell'anno ebraico 5779, che inizierà il prossimo 21 settembre.
   E' quanto emerge da un sondaggio Peace Index organizzato dall'Istituto israeliano per la democrazia e dall'Università di Tel Aviv. In base al rapporto anche la popolazione araba residente in Israele condivide questa percezione pessimistica, con circa il 71 per cento degli intervistati che sostiene che vi siano "scarse probabilità" per un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. Dal 1999 Peace Index chiede ad un campione della popolazione israeliana un'opinione sul sostegno alla soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese. Dall'avvio del primo sondaggio raramente il sostegno è sceso al di sotto del 50 per cento.
   Tuttavia nell'ultimo rapporto solo il 47 per cento degli ebrei israeliani ha risposto in modo affermativo alla domanda "Sostieni la firma di un accordo di pace basato sulla formula di due popoli due Stati?" Tra gli israeliani che si definiscono di destra, solo il 25 per cento si è detto favorevole alla soluzione dei Due stati, sostenuta invece dal 70 per cento delle persone di orientamento moderato e dal 91,5 per cento degli intervistati che si sono definiti di sinistra.

(Agenzia Nova, 5 settembre 2018)


Una finestra su Tel Aviv al MAXXI

di Sofia Sacco

ROMA - Nasce dal rapporto di collaborazione che lega il MAXX (Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo) all'Ambasciata di Israele, a cura di Nitza Metzger Szmuk, la mostra dal grande significato storico, architettonico e artistico, in occasione dei 70 anni dalla fondazione dello Stato di Israele.
   La metamorfosi della capitale israeliana, la cosiddetta "Citta bianca" assume una valore evolutivo senza eguali. Una città bianca, dato l'uso ricorrente dell'intonaco locale di calce spenta, ma che racchiude numerose sfumature artistiche e concettuali.
   La cultura ottimistica che ha reso Tel Aviv Patrimonio mondiale dell'umanità dell'Unesco nel 2003 diventa un esempio di opportunità, un tentativo di abbattere i confini culturali in un perfetto mix di contaminazioni europee orientali e occidentali minuziosamente riuscito.
   Il primo momento del percorso focalizza l'attenzione sul Piano Geddes, presentato a Tel Aviv nel 1925 come il connubio di armonia e funzionalità della città che sarebbe cresciuta nel dinamismo sociale. La forma e la sequenza degli edifici in rapporto alle dimensioni della strada hanno l'obiettivo di conferire senso di libertà ai passanti, attraverso un'ottica minimalista.
   Anche chiamata "the city of balconies", Tel Aviv sfrutta questo elemento strutturale per esigenze simboliche : una città che si affaccia alla vita diurna e notturna, una città che guarda al futuro.
   Il cuore della mostra è la presentazione degli architetti che hanno contribuito alla costruzione della città moderna. L'architettura locale diventa figlia della scuola tedesca, di Le Corbusier e dell'Espressionismo.
   Più in particolare consiste nelle conoscenze multidisciplinari e nelle diverse influenze: lo scambio delle correnti e gli influssi bauhaus diventano un esperimento architettonico con un messaggio ermetico che abbatte confini, colma le fratture culturali sotto un'ottica puramente progressista.

(Eventi Culturali Magazine, 5 settembre 2018)


Ecco come Hamas ha hackerato gli smartphone dell'esercito israeliano

Hamas ha utilizzato tre app per Android allo scopo di infiltrare l'esercito israeliano.

di Francesco Galofaro

La guerra asimmetrica dei palestinesi non si combatte più con le pietre e gli aquiloni, buoni per abbindolare giornalisti sentimentali. Le forze impari tra i contendenti possono essere riequilibrate nella cyber-guerra. Così, Hamas ha utilizzato tre app per Android allo scopo di infiltrare l'esercito israeliano: WinkChat e GlanceLove, dedicate agli appuntamenti romantici, e GlodenCup, che permetteva di assistere ai mondiali di calcio in Russia. Le app erano disponibili sul PlayStore ufficiale e pubblicizzate da account fasulli su Facebook che rinviavano l'uno all'altro.
   Secondo il quotidiano Hareetz, prima che i servizi segreti israeliani potessero rendersene conto, il malware aveva infettato gli smartphone di alcune centinaia di militari, collegandosi al GPS e trasmettendo la loro posizione ad Hamas, permettendo al nemico di profilare la linea del fronte e svelando la posizione delle basi militari segrete. La tecnica impiegata è complessa e raffinata, allo scopo di aggirare i controlli che Google impone alle applicazioni in vendita nello store. Si basa su tre livelli:
  1. installata la App, l'utente le dà il permesso di accedere a connessioni, sms, macchina fotografica e memoria esterna; a questo punto può fruire, del tutto ignaro, dei contenuti promessi;
  2. la App installa un secondo file: è quest'ultimo ad appropriarsi di tutti i dati sensibili e a inviarli all'organizzazione avversaria;
  3. se lo smartphone appartiene a un bersaglio interessante - un soldato, un ufficiale ecc. - la app chiede il consenso di scaricare un terzo componente, che trasforma lo smartphone in una smart-cimice, capace di ascoltare e registrare le chiamate, prendere fotografie, ascoltare quel che avviene nell'ambiente tramite il microfono, e perfino autodistruggersi.
Israele attribuisce l'attacco ad Hamas. L'organizzazione AridViper aveva già portato avanti un attacco simile nel 2015, basandosi su attacchi di tipo spear phishing - ossia mirati a uno specifico individuo o organizzazione - che permettevano alla vittima di scaricare, insieme con contenuti pornografici, un'applicazione malevola.
   Esistono altri gruppi di hacker palestinesi, ma tutti condividono i medesimi server, il che suggerisce un'organizzazione unica per far fronte comune.
   Israele è a propria volta uno degli Stati più avanzati nel gruppo della cyberguerra. Lo si ritiene responsabile, insieme agli Stati Uniti, del virus Stuxnet, che tra il novembre del 2009 e il gennaio del 2010 distrusse il 30% delle centrifughe con le quali l'Iran produceva uranio arricchito semplicemente facendole lavorare per brevi periodi al di sopra della velocità massima consentita.
   Il conflitto tra Hamas e Israele dimostra come esista oggi una sovranità algoritmica. La tradizionale sovranità dello Stato, infatti, poggia sempre più su dispositivi di natura elettronica, connessi in rete. Così lo Stato finisce per confinare immediatamente col resto del mondo, quasi si trattasse di una potenza marittima. Le nuove minacce alla sovranità provengono allora da questo spazio virtuale eterotopico, dove ogni giorno si combattono guerre non dichiarate senza negoziati né trattati di pace.

(l'Antidiplomatico, 5 settembre 2018)


Net@, la lezione hi-tech israeliana sbarca a Milano

Il progetto hi-tech per giovani Net@ arriva in Italia, sostenuto con un grande concerto

 
 
La musica e la tecnologia insieme per portare un messaggio positivo per il futuro dei giovani. Questi due campi si intrecceranno a Milano il 29 settembre in occasione del Concerto della speranza eseguito dai giovani talenti della Israel Young Filarmonic Orchestra - Jerusalem Music Centre, diretti dal Maestro Zvi Carrnelì, con al fianco, ospite d'eccezione, Cesare Picco, celebre jazzista italiano. Il programma sarà caratterizzato da una miscela di armonie classiche dei diversi mondi che convergono in Israele. Durante la serata, grazie all'ampio schermo dell'Auditorium di Milano, il pubblico potrà assistere alla proiezione di diversi documentari storici. I ragazzi della Young Israel Philharmonic suoneranno preziosi strumenti salvati dalla Shoah e recuperati in una abbazia vicina a Zurigo dove sono stati conservati per anni. Sarà inoltre l'occasione per sostenere, grazie all'iniziativa del Keren Hayesod, l'arrivo in Italia di un progetto israeliano di successo: Net@, l'iniziativa nata oltre 10 anni fa per formare i giovani svantaggiati delle periferie d'Israele affinché ottengano le competenze necessarie per poter scegliere le professioni legate all'alta tecnologia.
   Il programma Net@ opera in 24 città israeliane in collaborazione con un'organizzazione no-profit israeliana chiamata Tapuach, al fianco dell'agenzia Ebraica, Keren Hayesod e Cisco. Gli studenti frequentano le lezioni per quattro ore due volte alla settimana per tre anni. Al termine degli studi, gli studenti devono affrontare gli esami internazionali di certificazione informatica, e vi riescono con ottime percentuali. Oltre alle competenze informatiche, gli studenti imparano nozioni di leadership e responsabilità comunitaria. Entro la fine del secondo anno, iniziano a guidare gli studenti più giovani.
   Il progetto offre attualmente un programma speciale di coesistenza tra ebrei, cristiani e musulmani a Nazareth, Acca e Ramla. Ai partecipanti viene data l'opportunità di creare relazioni significative con i loro coetanei provenienti da culture diverse. Si insegna non solo a eccellere nella comunità hi-tech, ma anche a diventare sostenitori della comunicazione tra le culture, promuovendo così la coesistenza pacifica. L'ambizione ora è di portare questa esperienza anche in Italia e svilupparla a partire da Milano.

(Italia Ebraica, settembre 2018)


Svizzera - Una guida per i turisti ebrei

L'idea è partita da Davos Klosters e dalla Federazione delle comunità israelite per migliorare i rapporti tra esercenti e clienti.

Una guida-tutorial per i turisti di religione ebraica. L'idea è partita dalla destinazione Davos Klosters e dalla Federazione svizzera delle comunità israelite per migliorare i rapporti tra albergatori, ristoratori e anche cittadini grigionesi, e una fetta dei propri clienti. La guida si rivolgerebbe sia agli esercenti che agli stessi turisti, alla luce di un paio di casi recenti che hanno sollevato discussioni.
   Questo perché i turisti ebrei sono un po' dei discoli quando sono in vacanza? "Complice la rapidità e l'ampiezza con cui si diffondono oggi le notizie in rete, questa è l'impressione che si potrebbe avere", spiega interpellato durante il radiogiornale il nostro corrispondente da Coira Manuele Ferrari, che però aggiunge: "Di fatto va però detto che la situazione è molto meno drammatica di quanto possa sembrare. Un esempio è la lettera scritta lo scorso mese di agosto dal direttore della destinazione turistica di Davos Klosters, nella quale - su indicazione di alcuni ospiti - si segnalavano alcuni comportamenti di turisti ebrei ortodossi che avevano creato scontento. Discussioni ancora più animate le aveva causate il cartello affisso all'entrata di una piscina nell'estate 2017 in cui si chiedeva agli ospiti ebrei di fare la doccia prima di entrare in acqua, indicazione scritta in buona fede ma che aveva sbagliato tono, creando molto trambusto".
   La guida si rivolge ad entrambe le parti perché molto spesso i problemi sono dati dalla reciproca poca informazione. E gli albergatori, anche loro, devono informarsi. Con la guida si vorrebbe dar loro uno strumento nel quale sono presentati gli aspetti principali di cui tener conto, quando si trovano di fronte un turista ebreo. Tra questi, sicuramente indicazioni sull'alimentazione, l'importanza della cucina kosher,informazioni sul come e a chi rivolgersi quando la persona arriva in albergo. Ma anche spiegazioni, ad esempio, sul perché per strada l'uomo cammini davanti e la donna segua.

(RSI News, 5 settembre 2018)


L'incrollabile sostegno degli evangelici a Israele

Il sostegno all'estero dei cristiani messianici conservatori si avvia a superare quello della diaspora ebraica. La Fratellanza Internazionale di cristiani ed ebrei ha versato 200 milioni di dollari per far venire 700.000 ebrei in Israele.

di Claire Bastier

La raccolta è iniziata nelle prime ore del mattino. Sulla parte di viti piantate nell'insediamento israeliano di Ofra in Cisgiordania, i volontari pongono i grappoli neri in scatole sul terreno. In questo paesaggio di colline pelate, si compiacciono felicemente della loro missione. "Contribuiamo alla profezia!", dice uno di loro.
  Nel quadro della Evangelical HaYovel Association, questi volontari, per lo più provenienti dagli Stati Uniti, si offrono volontari per la raccolta negli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Fondato nel 2007 da una coppia di cristiani americani, Tommy e Sherri Waller, HaYovel ("Il Giubileo" in ebraico) mira a contribuire alla "restaurazione profetica della terra di Israele" rendendola fruttuosa. Per giustificare ciò, Sherri Waller cita la Bibbia: "Pianterai ancora delle vigne sui monti di Samaria" (Geremia 31,5).
  Sin dal suo inizio, HaYovel ha mobilitato più di 1.800 "lavoratori" per la raccolta in Cisgiordania. Un chiaro sostegno alla colonizzazione israeliana nei territori palestinesi occupati, che questi cristiani considerano il "cuore storico e spirituale di Israele" e che essi definiscono come il nome biblico di "Giudea e Samaria" come i coloni israeliani. Da una prospettiva messianica, ritengono che il ritorno di tutti gli ebrei nella terra di Israele - confermato dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 - prefiguri il ritorno del Messia, Gesù Cristo, e l'istituzione del Regno di Dio sulla terra per mille anni.

 Profezia biblica
  "Prendendosi cura del popolo eletto", i fondatori di HaYovel intendono portare avanti la profezia biblica: "Tutte le nazioni saranno benedette se Israele lo sarà da Dio, - dice Sherri Waller - anche gli arabi avranno una vita migliore". In questa prospettiva, credono che i palestinesi siano ammessi in Cisgiordania, ma che la terra appartenga agli ebrei. Quando non lavorano nei vigneti, i partecipanti ricevono insegnamenti basati sulla Bibbia. Al loro ritorno a casa, saranno "ambasciatori" di Israele, accreditati con un certificato rilasciato dal Consiglio regionale della Giudea-Samaria e, dal 2018, dal Ministero israeliano per gli affari strategici.
  Dopo la vittoria israeliana della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, buona parte degli evangelici americani - il 25% dei cristiani negli Stati Uniti - sostiene attivamente Israele. Non tutti appartengono al movimento radicale dei cristiani sionisti che, come HaYovel, stanno agendo per un "ritorno" degli ebrei nella Palestina storica. Ma si assumono un sostegno zelante per Israele nel nome di una fede evangelica protestante basata sulla conversione, sul cristianesimo decentrato e sulla lettura approfondita della Bibbia.
  Quando negli anni '70, la destra evangelica acquistò influenza nella sfera pubblica e politica degli Stati Uniti, la filantropia cristiana americana iniziò a sostenere l'immigrazione ebraica, in particolare dai paesi dell'Unione Sovietica, in cooperazione con l'Agenzia ebraica, responsabile dell'immigrazione in Israele nella diaspora. Fondata nel 1983, la fondazione dell'International Fellowship of Christians and Jews (IFCJ), finanziata da donazioni evangeliche, ha donato $ 200 milioni (€ 172 milioni) per far immigrare più di 700.000 ebrei in Israele nell'arco di quindici anni.
  Il sostegno evangelico non è sempre stato ben accolto dagli ebrei israeliani. La maggior parte degli ebrei ortodossi continua a rifiutarlo per paura del proselitismo. Inoltre, alcune organizzazioni cristiane non nascondono il fatto che il segno dei tempi messianici sarà la conversione degli ebrei. Ma la maggior parte non lo menziona nella loro attuale missione, preferendo giustificare la propria azione con il debito dovuto agli ebrei dopo secoli di persecuzioni in Europa.
  "Questi cristiani sono semplicemente amici di Israele. Il loro dono è legato alla loro fede, è molto emozionale", afferma il rabbino israeliano-americano Yechiel Eckstein, presidente dell'IFCJ. La sua fondazione raccoglie tra 130 e 140 milioni di dollari l'anno (tra 110 e 120 milioni di euro), soprattutto dagli Stati Uniti (85%), che finanziano quattrocento progetti, principalmente in Israele.
  Ogni anno, centinaia di milioni di dollari vengono donati a fondazioni ebraiche israeliane che investono in Israele per aiutare i sopravvissuti dell'Olocausto, i poveri, la ristrutturazione di infrastrutture pubbliche o programmi educativi. Il dono degli ebrei americani continua a dominare (dai tre ai quattro miliardi di dollari all'anno), ma quello dei cristiani sta crescendo. "Negli ultimi dieci anni, il sostegno degli ebrei americani è diminuito perché la loro percezione di Israele sta cambiando e le generazioni più giovani preferiscono sostenere altre cause. Dall'altra parte invece le comunità evangeliche, che hanno una grande affinità con Israele, crescono ovunque", ha dichiarato Hagai Katz, professore alla Ben Gurion University e specialista di filantropia.

 Affare politico
  Nel 2017, dei 630 milioni di cristiani evangelici, 200 milioni sono in Asia, 122 milioni in America Latina e 97 milioni negli Stati Uniti: una vera manna per i finanziatori ebrei israeliani. "Attraverso Internet e i media, stiamo prendendo di mira paesi come il Brasile e la Cina perché sono il futuro delle donazioni per Israele", afferma Eckstein.
  Finanziario o ideologico, il sostegno evangelico a Israele è, prima di tutto, un affare politico. Il trasferimento dell'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, il 14 maggio, ha rappresentato una vittoria per la destra evangelica americana, un pilastro del corpo elettorale del presidente Donald Trump che per questo spostamento ha fatto una campagna fin dal 1980. L'episodio ha anche mostrato l'importanza che adesso il governo del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu conferisce ai suoi alleati cristiani conservatori.
  Per molto tempo sostenuto dalla diaspora ebraica, il governo israeliano ha fatto un cambiamento storico e strategico, basato sulla base molto più ampia degli evangelici, a rischio di perdere l'appoggio degli ebrei liberali e dei democratici americani. Da diversi anni, negli Stati Uniti come in Israele, Netanyahu non perde occasione per corteggiare il pubblico cristiano conservatore. "Sa bene come parlare a loro, è innegabile", dice il rabbino Eckstein.
  Il sostegno degli evangelici americani è talmente accettato dal governo di destra israeliano da poter rispondere all'agenda nazionalista della sua frangia più radicale. Nel mese di gennaio, Naftali Bennett, ministro dell'istruzione e leader del partito religioso nazionalista Focolare ebraico, ha approvato per la prima volta il finanziamento fino a un milione di shekel (240.000 euro) a un programma basato sulla Bibbia, nell'insediamento di Ariel in Cisgiordania.
  Fondato nel 2010, il National Leadership Center è stato costruito attraverso donazioni sui fondi di sviluppo di Ariel da parte dell'organizzazione evangelica americana US Israel Education Association, che sostiene la colonizzazione israeliana in Cisgiordania. I fondi stanziati nel 2018 dal governo consentiranno a quattromila giovani svantaggiati, principalmente ebrei etiopici, di partecipare gratuitamente alle attività sportive bibliche del centro. Secondo un cartello all'ingresso, esse mirano "a formare la futura generazione dello Stato di Israele".

(Le Monde, 5 settembre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Ci proponiamo di ritornare con calma sulla situazione descritta da questo articolo, che certamente può provocare reazioni diversissime in tutti i campi, a conferma del fatto che il giudizio su Israele provoca divisioni trasversali in tutti gli schieramenti: ebrei, cristiani, politici, democratici, sovranisti, populisti, e così via. Può bastare per il momento la reazione di un ebreo che si è trovato per la prima volta davanti allo strano quadro di cristiani sostenitori appassionati dello stato ebraico: “Sarà quello che sarà, - ha detto - ma se dopo secoli che nel nome di Gesù si sono accaniti con tanto odio contro di noi, se adesso troviamo qualcuno che nel nome di Gesù ci vuol fare del bene, dobbiamo respingerlo?” ha concluso l’ebreo con ebraica pragmaticità. E’ possibile che Netanyahu abbia avuto un pensiero simile, e gli evangelici non sono tanto ingenui da pensare che questo sia un segno della sua conversione al cristianesimo. Si può dire però che ha saputo fare bene il suo mestiere di politico, a favore non solo suo, come fanno inevitabilmente tutti i politici, ma anche della sua nazione. E di questo, come amici d’Israele, gli siamo grati. M.C.


Israele - Ufficio Statistica: 8.907mila abitanti, 74.4% ebrei

Gli israeliani hanno raggiunto il numero di 8.907mila: il 74.4% è costituito da ebrei, il 20.9% da arabi. I dati sono stati resi noti dall'Ufficio Centrale di Statistica alla vigilia del nuovo anno ebraico, il 5779, che entra domenica prossima.
Rispetto all'anno passato, gli israeliani sono aumentati di 162mila unità e 29mila sono stati quelli emigrati dall'estero. Se le previsioni saranno confermate, si calcola che dal 2024 gli abitanti del paese saranno 10 milioni, 15 dal 2048 e 20 milioni dal 2065. Secondo l'Ufficio, l'89% degli israeliani di dichiara "soddisfatto" della propria vita, mentre un 37% di dice "insoddisfatto" delle proprie finanze e un 31% ha difficoltà a pagare i propri conti. L'aspettativa di vita è di 84.6 anni per le donne e 80.7 per gli uomini.

(ANSAmed, 5 settembre 2018)


Il mistero di ''The Angel" dura da 40 anni e agita ancora Egitto e Israele

In arrivo su Netflix il film sulla spia Ashraf Marwan

dii Rolla Scolari

MILANO - Il 26 giugno del 2007 Ashraf Marwan cadde, o si gettò, dal balcone della sua casa londinese, affacciata su un giardino di rose a pochi metri da Piccadilly Circus. Il giorno dopo, i giornali britannici, israeliani ed egiziani parlavano di una morte misteriosa. Misteriosa in realtà è stata l'intera vita del 63enne egiziano, cui Netflix ha dedicato un film da 12 milioni di dollari, che andrà in onda per la prima volta il 14 settembre. Gli intrighi attorno alle attività del genero del rais egiziano Gamal Abdel Nasser sono degni di un romanzo di John Le Carré: per gli israeliani, è tra le spie più importanti della loro storia, l'uomo che a poche ore dalla guerra dello Yom Kippur del 1973 avrebbe avvertito i vertici dell'esercito dell'imminente attacco.
   Nato nel 1944, Marwan era figlio di un generale alla testa del programma chimico militare egiziano. Genero del presidente Nasser, Marwan ha lavorato prima nel gabinetto del leader ed è poi diventato uno dei consiglieri politici del suo successore, Anwar el Sadat. Nel trailer del film, intitolato The Angel, dal nome in codice della presunta spia, Marwan, chiuso in una rossa cabina del telefono in una piovosa Londra, contatta l'ambasciata israeliana: "Sono in possesso di informazioni di interesse per i servizi segreti israeliani". La sua storia, emersa negli anni da inchieste giornalistiche e accademiche israeliane, racconta come Marwan abbia iniziato a collaborare con il Mossad nel 1969, convincendo gli 007 nemici della sua sincerità soltanto dopo aver mostrato loro i protocolli segreti di colloqui sulla vendita di armamenti tra l'ex Urss e l'Egitto. La produzione franco-israeliana prende spunto da un libro del 2016 dell'israeliano Uri Bar-Joseph.
   L'arrivo su Netflix di una questione che da oltre un decennio imbarazza il Cairo ha innescato un nuovo dibattito in Egitto, e riacceso i dubbi sia israeliani sia egiziani. Ashraf Marwan è stato uno degli asset di intelligence più centrali nella storia di Israele, accerchiato ai suoi confini dalle armate arabe, o un doppio agente che ha invece imbrogliato con arte gli israeliani e rafforzato gli egiziani? Un'indagine interna del Mossad ha provato che non c'è stato doppio gioco. Nel 2002, però, quando un'intervista dell'accademico israeliano Ahron Bregman al quotidiano egiziano al Ahram rivelò al mondo che Marwan - genero di un leader carismatico e centrale nella storia nazionale - era l'agente della soffiata del Kippur, l'Egitto si affrettò a rivelare alla stampa nazionale e internazionale che gli israeliani si erano sbagliati: l'uomo era in realtà una spia egiziana ben infiltrata nel Mossad, ma al soldo del Cairo. Al suo funerale, dopo quel misterioso volo dal balcone, il feretro era ricoperto dalla bandiera egiziana. La presenza alla funzione del figlio-delfino dell'allora presidente Hosni Mubarak, Gamal, e soprattutto quella dell'iconico ex capo dei servizi segreti, Omar Suleiman, volevano essere la risposta definitiva del regime alle domande sull'attività di Marwan.
   Oggi sui social in Egitto c'è chi si chiede se un film di produzione israeliana possa diventare il resoconto definitivo di un mistero lungo quarant'anni, mentre altri temono che Netflix rischi di sollevare le ire del regime egiziano che non si fa scrupoli nel censurare social media e canali televisivi.
   "Perché aiuti gli israeliani", dice una voce fuori campo, nel trailer. "Perché milioni di innocenti moriranno da entrambe le parti. Ecco perché", risponde Marwan. E' chiaro fin dal titolo che per il regista israeliano Ariel Vromen il protagonista, interpretato dall'attore olandese di origini tunisine Marwan Kenzari, è l'eroe che ha arginato una guerra. Zvi Zamir, l'allora capo del Mossad, incontrò "l'Angelo" a Londra il 5 ottobre del 1973, poche ore prima dello scoppio di un conflitto che in Egitto è ancora conosciuto come la vittoria del 6 ottobre. Durante l'incontro, Marwan avrebbe avvertito di un attacco imminente. All'interno dell'intelligence in Israele c'è ancora però chi sostiene che, se non si fosse riposta totale fiducia soltanto nelle informazioni di un unico uomo, giudicato fondamentale per i suoi legami con gli alti vertici egiziani, l'esercito israeliano sarebbe stato in allerta molti giorni prima rispetto alla soffiata, grazie a quanto già sapevano i servizi segreti. Per alcuni, Marwan non avrebbe così reso un servizio all'esercito nemico, al contrario. Così il mistero sopravvive, nonostante Netflix.

(Il Foglio, 5 settembre 2018)


Siria, raid israeliano contro sospette basi iraniane

di Giordano Stabile

L'aviazione israeliana ha compiuto questo pomeriggio un massiccio raid sul Wadi Ayoun, vicino a Masyaf, e nell'area di Harf Bnamra, fra le provincia siriane di Hama e Tartus. L'obiettivo sembrano essere installazioni militari iraniane individuate dell'intelligence nelle scorse settimane. In raid precedenti Israele aveva invece colpito il centro di ricerche militari di Masyaf.
   Pochi giorni fa un rapporto israeliano, basato su immagini satellitari di ImageSat International, aveva notato nuove costruzioni in una zona montuosa fra le province di Hama, Tartus e Lattakia. La costruzione di nuovi edifici e hangar faceva pensare, secondo gli analisti israeliani, alla dislocazione di missili terra-terra, in grado di colpire Israele. Le installazioni erano giudicate molto simili a quelle nelle basi missilistiche di Parchin e Khojier in Iran.
   Il governo di Damasco ha confermato i raid. Le difese anti-aeree hanno reagito, hanno detto i media di Stato, e "intercettato numerosi missili lanciati dai jet israeliani". Il raid arriva dopo sospetti attacchi nel weekend all'aeroporto di Damasco e due giorni fa al confine fra Siria e Iraq, vicino al valico di Al-Tanf, dove sarebbe stato colpito un convoglio di una milizia sciita legata all'Iran. L'azione israeliana arriva dopo i pesanti attacchi dell'aviazione russa contro i ribelli nella vicina provincia di Idlib.

(La Stampa, 4 settembre 2018)


"Netanyahu ha maggiori probabilità di accordo con Hamas che non con Anp"

L'attuale governo israeliano guidato dal premier Benjamin Netanyahu ha maggiori possibilità di raggiungere un accordo con il movimento Hamas che con l'Autorità nazionale palestinese (Anp). È quanto emerge dall'intervista rilasciata da Hussein Agha, storico consigliere del presidente dell'Anp Mahmoud Abbas alla rivista britannica specializzata in questioni israeliane "Fathoum". "Teoricamente i partner naturali per una sorta di 'pace' ora sono Hamas e la destra israeliana. Sono gli unici due partner che possono raggiungere un accordo che sia accettabile per entrambi e che allo stesso tempo si adatti alle loro rispettive ideologie", ha detto Agha nell'intervista, che è stata pubblicata come parte di un'edizione speciale della rivista che segna i 25 anni dalla firma degli accordi di Oslo.
   Agha, che ha partecipato per conto di Abbas a negoziati segreti e sforzi diplomatici non ufficiali con Israele nel corso degli ultimi due decenni, ha spiegato perché ritiene che il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu e Hamas abbiano il potenziale per raggiungere alcuni intenti: "Nessuna delle due parti crede in una risoluzione permanente del conflitto, in modo che ciascuno possa accettare accordi interinali che si estendono per lunghi periodi di tempo". Agha ha spiegato che in contrasto con Hamas, che è un movimento islamista con forti legami con i Fratelli Musulmani, l'Organizzazione per la liberazione della palestinese (Olp) e Fatah, le parti non religiose del movimento nazionale palestinese, sono concentrati su un accordo finale con Israele, ma attualmente non vi è un partner in Israele per il tipo di accordo da loro richiesto. "Netanyahu non ha un partner palestinese per il tipo accordo che ha in mente", ha osservato Agha. Secondo l'ex consigliere di Abbas, Netanyahu "potrebbe trovare (un partner) in Hamas", considerato che al movimento al potere nella Striscia di Gaza "non importa ciò che ottiene in un particolare momento" e "credono nell'accumulo di risorse e nella costruzione di una società islamica", quindi sono "flessibili" e sono convinti che "Israele scomparirà".
   Agha ha rivelato che nelle ultime settimane Israele e Hamas hanno tenuto negoziati non ufficiali, attraverso la mediazione delle Nazioni Unite e dell'Egitto, per un cessate il fuoco a lungo termine a Gaza. Il governo Netanyahu ha condotto questi negoziati nonostante le precedenti promesse dei membri del governo di invadere Gaza e porre fine al decennale governo dell'enclave palestinese retta da Hamas. Tali negoziati hanno lo scopo di rafforzare il movimento islamista a scapito dell'Anp.

(Agenzia Nova, 4 settembre 2018)


Rosh Hashanah 2018: data, significato e tradizioni del Capodanno ebraico

di Costanza Mauro

 
Rosh Hashanah 2018 è il capodanno ebraico, quando cade? Scopriamo la data, il significato e le tradizioni legate a una delle festività ebraiche più importanti

 Rosh Hashanah
  Fra le ricorrenze più importanti del calendario ebraico c'è senza dubbio Rosh Hashanah. Rosh Hashanah è il capodanno ebraico, ma invece di traghettarci dal 2018 al 2019, segna il passaggio fra il 5578 e il 5579. Il calendario ebraico conta gli anni a partire dall'anno della creazione e non segue quindi il calendario gregoriano, ecco perché questo scarto così ampio fra le due date. Ma qual è la data di Rosh Hashanah? Quando cade? E il suo significato? Ecco un articolo guida per introdurvi a questa particolare festività. E ricordatevi di augurare a tutti un L'shanah tovah o un semplice Shanah tovah, ovvero buon anno!

 Data
  Il Rosh Hashanah cade tra il 10 e l'11 settembre 2018. Il Rosh Hashanah è una festa mobile, ma cade sempre nello stesso periodo, ovvero a cavallo fra settembre-ottobre e le date limite indicative sono il 6 settembre e il 5 ottobre. Si parte dalla Pasqua ebraica per calcolare il giorno in cui cade il Capodanno ebraico. La Pasqua ebraica è chiamata Pesach e il Rosh Hashanah cade esattamente 162 giorni dopo questa importante ricorrenza che ricorda la fuga del popolo ebraico dall'Egitto e l'esodo che li condusse nella Terra Promessa. Oltre a questi limiti temporali, ci sono anche dei giorni che bisogna rispettare, nel senso che il Rosh Hashanah non può svolgersi da giovedì a domenica (inizia infatti la domenica sera). La festa di Rosh Hashanah dura due giorni, durata rispettata in particolare dalla corrente ortodossa dell'ebraismo.

 Significato
  Le festività sono spesso legate a eventi narrati nei testi sacri e così verrebbe da pensare che per Rosh Hashanah sia lo stesso. Invece non c'è alcun evento che Rosh Hashanah celebra direttamente, o per meglio dire in nessun testo della tradizione ebraica viene fatto riferimento a questa particolare ricorrenza. Qual è allora il significato di Rosh Hashanah? E' una celebrazione della creazione di Dio e in particolare è legata al suono di uno strumento, lo shofar, ricavato dal corno di un animale che si dice si sia udito dopo che il Signore ebbe creato Adamo e quindi l'uomo. Secondo la tradizione ebraica Dio creò l'universo in 6 giorni e il sesto giorno finalmente creò l'uomo che sugellò la fine dell'opera di creazione che venne celebrata proprio attraverso il suono di gloria dello shofar. Proprio per questa ragione con Rosh Hashanah si ricorda e festeggia questo ultimo passaggio, l'avvento dell'uomo, come compimento perfetto del lavoro divino. Sempre il suono dello shofar collegherebbe Rosh Hashanah ad un'altra importantissima festa ebraica, ovvero lo Yom Kippur, e servirebbe proprio a sollecitare gli uomini a prepararsi al momento della penitenza.

 Tradizioni
  Esistono alcune tradizioni che si rispettano in occasione del Rosh Hashanah, anche se talune possono avere declinazioni specifiche che cambiano da famiglia a famiglia. Vediamo insieme di quali si tratta.
Tashlik. Durante il Rosh Hashanah si è soliti recarsi in prossimità di un corso d'acqua, ma anche di un lago o uno stagno, e gettarvi un sasso. Dato che Rosh Hashanah è anche un momento di riflessione in cui si fanno buoni propositi per l'anno a venire, con questo gesto simbolico, compiuto accompagnandolo con le parole di Michea: "Perché Tu, Dio, getterai nel mare più profondo le nostre colpe", ci si vuole impegnare ad gettarsi alle spalle i propri comportamenti sbagliati e ad essere migliori in avvenire.
Colore bianco. E' il colore di cui si ammanta la sinagoga nelle celebrazioni del Rosh Hashanah
Seder. Il seder di Pesach è probabilmente il più famoso e seguito, ma esiste anche un seder di Rosh Hashanah e indica un insieme di caratteristiche rituali, che vanno dalle preghiere al cibo, che si svolgono durante la cena del Capodanno ebraico dopo la preghiera del kiddush.

 Ricette e cibo
  Mele, Datteri, Fichi, Zucca, Finocchi, Agnello, Pesci.
  Questa costituisce una lista abbastanza completa dei cibi che si consumano durante la cena di Rosh Hashanah. Non si parla tanto di ricette tipiche, generalmente ogni famiglia ha le sue tradizioni culinarie, ma di cibi singoli, perché ciascuno di essi ha un significato ben preciso, anzi è un vero e proprio simbolo che integra il seder. Molto spesso nelle preparazioni viene incluso il miele, perché durante il Rosh Hashanah ci si augura che ciò che l'anno nuovo porterà sarà dolce. E così ad esempio pezzettini di mele vengono intinti nel miele prima di essere gustati e allo stesso modo si consumano i fichi, frutto dolce per eccellenza, zuccherino dall'inizio alla fine, proprio come si desidera che sia l'anno che verrà. L'agnello ricorda invece il sacrificio di Isacco, mentre i pesci sono nuovamente auspicio di prosperità.
  Durante la cena di Rosh Hashanah si consuma anche la caratteristica challa in forma rotonda che vuole significare sia la ciclicità e il ripetersi degli anni, sia augurare un anno senza spigoli e quindi difficoltà. Tutto viene preparato seguendo i precetti della cucina kosher ebraica.

 Melograno
  Un altro dei cibi protagonisti di Rosh Hashanah è il melograno che tradizionalmente si condivide con ospiti e familiari. Come avrete notato, molti dei cibi simbolo di Rosh Hashanah hanno come simbologia l'idea del molteplice e il dolce e cosa più di una melagrana rappresenta tanto la dolcezza, attraverso il suo sapore, quanto la molteplicità, grazie al numero dei suoi chicchi? Ecco perché è benaugurante mangiare il melograno, perché rappresenta al contempo la speranza che il futuro abbia per noi in serbo "cose dolci" e che la nostra bontà si moltiplichi.

 Festività ebraiche 2018-2019
  10-11 settembre 2018: Rosh Hashanah, Capodanno ebraico
  18-19 settembre 2018: Vigilia e Yom Kippur (Digiuno ed espiazione)
  24 settembre - 1 ottobre 2018: Sukkot, Festa delle Capanne
  3- 10 dicembre 2018: Hanukkah
  21 marzo 2019: Purim
  20-27 aprile 2019: Pesach, Pasqua ebraica

(Pianeta Donna, 4 settembre 2018)


Il boom turistico di Israele

di Claudio Vercelli

 
Alla faccia di un Medio Oriente altrimenti tormentato, il turismo in Israele va a gonfie vele. A metà del 2018 la cifra di ingressi aveva superato la soglia dei due milioni di individui (una persona ogni quattro abitanti, come se in Italia fossero arrivati in sei mesi 15 milioni di stranieri paganti), garantendo alla casse di Gerusalemme introiti per l'ordine di 3,3 miliardi di dollari. Insieme all'high-tech il settore si muove quindi secondo le migliori previsioni e promette, in prospettiva, un futuro prodigioso. La stessa rete di accoglienza, coordinata dal ministero competente e dall'ufficio nazionale israeliano del turismo, sta vivendo una sorta di "stress test", dove deve misurare la propria capacità di assorbire la domanda crescente proveniente dall'estero.
   La composizione dei flussi turistici è inoltre notevolmente cambiata in questi ultimi anni. Si tratta di una profonda trasformazione culturale che si riflette poi sulle aspettative che il "turista" (termine che non esaurisce in sé la varietà delle motivazioni per cui ci si muove per Israele) nutre rispetto all'esperienza che andrà facendo in circa 22mila chilometri quadrati. Tale è la grandezza dello Stato ebraico: un piccolo spazio fisico per un territorio gigantesco dal punto di vista della ricchezza paesaggistica ma anche culturale. Ed il turista si aspetta per l'appunto di fare una tale esperienza dei luoghi e delle persone. Cosa che evidentemente gli è offerta. Con il felice paradosso che lo Stato degli ebrei è sempre più spesso frequentato anche da non ebrei, alla ricerca di qualcosa e qualcuno che altri luoghi non sanno offrirgli con una pari intensità. Per l'appunto, il mutamento della composizione dei flussi turistici ha molto a che fare con le destinazioni e, quindi, con le motivazioni della visita. Tradizionalmente il turismo in Israele, superati gli anni difficili del consolidamento dello Stato, raccoglieva perlopiù alcuni flussi connotati da ragioni peculiari: gli ebrei non israeliani in visita da parenti o interessati a conoscere l'esperienza nazionale ebraica; i "pellegrini", quasi sempre cristiani, diretti in "Terra santa"; i laici coinvolti dall'esplorazione di una giovane nazione, che è al centro del monoteismo religioso ma anche di un'esperienza politica che ha caratteri peculiari rispetto a tutta la storia del Novecento e così via.
   A partire dagli anni Ottanta Israele ha assunto anche la funzione di paese dove "fare le vacanze", offrendo un ventaglio sempre più ampio di opportunità al riguardo, soprattutto coniugando svago e riposo a viaggio culturale. I conflitti regionali, come anche il terrorismo, hanno inciso solo in parte nella media generale dei flussi di ingresso. I momenti di minore accesso sono stati poi riassorbiti e compensati dalle fasi espansive.
   Oggi, tuttavia, è subentrato un nuovo modo di fare turismo, che surclassa quelli precedenti. E' un turismo diffuso, alla ricerca di una pluralità di occasioni di conoscenza, coniugando le spiagge ai luoghi sacri, il raccoglimento dei memoriali allo "stordimento" metropolitano, l'innovazione dei campus e dei siti di eccellenza dell'high tech con il tradizionalismo della religiosità, la libertà di esprimere se stessi con il rigore del rispetto che si deve a chi è diverso da sé. Forse, la stessa nozione di "turismo" risulta in questo caso essere un po' riduttiva. Poiché chi entra in Israele non vuole solo vedere e conoscere ma soprattutto riconoscersi". Cosa vuol dire? Anche per il viaggiatore non ebreo il Paese è qualcosa che rimanda alla propria identità. Ancora una volta è l'idea di mosaico a restituire il significato della complessità di Eretz Israel e, ancor di più, di chi ci vive quotidianamente. Israele è da sempre una nazione porosa, dai tempi dell'Esilio ad oggi, con o senza uno Stato a disposizione.
   Assorbe ciò che gli occorre per l'esistenza, a partire dalla materia prima grezza, e lo restituisce come prodotto finito, compiuto, all'umanità.
   La forza d'Israele riposa quindi in questa capacità attrattiva, che sia esercitata da dei luoghi fisici come, non di meno, da un modo di porsi nei confronti del mondo intero che rivela il senso del mistero della vita. Un mistero che non potrà mai essere rivelato. Ecco che cosa probabilmente cercano coloro che fanno l'esperienza d'Israele, oggi.

(Pagine Ebraiche, settembre 2018)


Il presidente israeliano spiega Hitler al filippino Duterte

Il leader asiatico si era paragonato al Führer per giustificare la guerra ai trafficanti di droga. Il capo di Stato di Tel Aviv gli ricorda che il dittatore "fu il diavolo"

Il presidente filippino Rodrigo Duterte, che in passato si era paragonato a Adolf Hitler, è stato ricevuto in una visita di stato a Tel Aviv. Il presidente di Israele Reuven Rivlin ha detto al suo omologo che "Hitler era il diavolo sulla terra".
 Nel 2016 Duterte aveva paragonato la sua guerra contro i trafficanti di droga con la persecuzione degli ebrei in Germania durante il nazismo. Il leader asiatico aveva detto che "Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei, beh, ci sono tre milioni di tossicodipendenti (nelle Filippine, ndr) e sarei felice di massacrarli". Pochi giorni dopo era stato costretto a scusarsi e aveva compiuto una visita in una sinagoga.
   Durante il loro incontro a Tel Aviv, Duterte e Rivel hanno parlato degli accordi commerciali tra i due paesi. Duterte ha spiegato che Israele "ha fornito un'assistenza cruciale" nell'equipaggiamento contro i jihadisti nella città di Marawi nel 2017. Il presidente filippino ha detto che "in termini di strategia militare, specialmente per la raccolta di informazioni, le istruzioni che do ai nostri soldati sono: c'è solo un paese da cui comprare, Israele".
   L'incontro tra i due capi di Stato ha generato grandi polemiche a Tel Aviv. Alcuni attivisti dei diritti umani hanno accusato il presidente Rivlin di aver chiuso un occhio davanti alle violenze commesse da Duterte nelle Filippine, per non compromettere gli accordi commerciali tra i due paesi. Ultimamente, Manila ha avviato un programma di militarizzazione e ha stipulato un'intesa con Tel Aviv per l'acquisto degli armamenti.

(Il Foglio, 4 settembre 2018)


Che cosa significa l’ingiuria “marrano” e perché oggi è una parola che non significa niente

Un termine dall’origine discussa che nasce da un’ingiuria. Con il termine marrano e marrani,che deriva dallo spagnolo e significa “giovane porco”, venivano in maniera gergale individuati e offesi in Spagna gli ebrei o i musulmani che si erano convertiti al cristianesimo: i “conversos” o “cristianos nuevos”. Oggi è una parola di solo valore storico e il suo uso ingiurioso è venuto meno.

"Tortura dell’Ebreo" di Piero della Francesca
Una parola controversa, senza dubbio. Un termine dall'origine discussa, che nasce da un'ingiuria. Con il termine marrano e marrani,che a quanto pare deriva dallo spagnolo e ingiurioso "marrano", che significa "giovane porco", venivano in maniera gergale individuati e offesi in Spagna gli ebrei o i musulmani che si erano convertiti al cristianesimo. Condizione che valeva anche per i loro discendenti. Nel 1380 addirittura un decreto del re castigliano vietò di usare questo termine particolarmente ingiurioso. E così si decise che i marrani dovevano essere denominati col nome più ufficiale di "conversos" o "cristianos nuevos".
  Nei secoli successivi con le persecuzione di cui furono vittime gli ebrei e il diffuso antisemitismo e sospetto nei confronti dei convertiti, il termine marrano non ha mai smesso di essere popolare. Oggi non ha più ragione d'esistere, e infatti anche il suo uso ingiurioso è venuto meno, restando però nella terminologia storica. Ovviamente, l'epoca in cui fu maggiormente utilizzato in senso dispregiativo questo termine è quello dell'Inquisizione. Dalla Treccani apprendiamo che:
Stato e Chiesa cercarono con tutti i mezzi, specialmente mediante l'Inquisizione, rinnovata nel 1481, di cancellare radicalmente ogni resto di attaccamento alla fede ebraica. Anche l'espulsione dalla Spagna degli ebrei rimasti nella loro fede (1492) mirava particolarmente a troncare ogni rapporto dei marrani con l'ebraismo. Molti dei marrani e dei loro discendenti, processati e convinti di giudaizzare, vennero condannati al rogo. Molti per contro riuscirono a fuggire per recarsi in paesi ove fosse loro possibile il ritorno alla religione dei padri.
Dopo le azioni di repressione violenta ed espulsione della Inquisizione spagnola, molti marrani finirono in Portogallo, dove furono inizialmente accolti e poi anche qui mandati al rogo. La Santa Inquisizione portoghese, infatti, fu istituita nel 1536 con il compito di reprimerne la presenza e rimuovere la pratica segreta del culto ebraico da parte dei convertiti. Per secoli, infatti, i marrani di Portogallo conservarono il senso di appartenenza all'ebraismo e l'attaccamento segreto al culto ebraico. Oggi sono sopravvissuti soltanto alcuni pochi marrani nel Portogallo settentrionale, "fra i quali si è manifestato un movimento di ritorno all'ebraismo" - sempre secondo la voce Treccani - e nelle Baleari, dove sono designati col nome dichuetas.

(fanpage, 4 settembre 2018)


Il «diritto al ritorno» palestinese, i numeri Onu e Israele

Lettera a Livio Caputo

Gentile Caputo, seguo da anni il conflitto israeliano-palestinese e leggo che uno degli ostacoli principali alla pace è la richiesta di un «diritto al ritorno» per i profughi che - alcuni volenti, altri nolenti - lasciarono i loro villaggi in quello che adesso è lo Stato ebraico e cercarono rifugio nei Paesi limitrofi, che peraltro si sono sempre rifiutati di integrarli e li hanno confinati in campi gestiti e finanziati da un' apposita agenzia delle Nazioni unite (Unrwa), Quello che non capisco è come mai, 70 anni dopo quella che gli arabi chiamano «la catastrofe», questi profughi siano, secondo la stessa Unrwa, 5,3 milioni, rendendo la possibilità di un loro ritorno in Israele del tutto irrealistica.
Giuliano Del Frate



Il problema del «diritto al ritorno» sta proprio qui: l'Unrwa, sotto pressione della maggioranza terzomondista al Palazzo di Vetro, considera profughi non solo i circa 20-25mila sopravvissuti all'esodo del '48 (cifra risultante da uno studio ordinato dal Congresso americano, chissà perché mai reso pubblico) ma tutti i loro discendenti, anche di terza, quarta o quinta generazione. Inoltre, comprende nel totale non solo quelli che continuano a vivere con i suoi sussidi nei campi, soprattutto in Libano, in Giordania e in Siria, diventati nel frattempo veri e propri agglomerati urbani, ma anche tutti i palestinesi che si sono rifatti una vita in Arabia saudita, in America, in Australia e in Europa, e per buona misura anche quelli che si sono stabiliti a Gaza sotto la sovranità di Hamas. È evidente che non solo Israele non potrà mai accogliere neppure un decimo di costoro senza rinunciare al suo essere Stato ebraico, ma anche che oggi i villaggi e le case abbandonate a suo tempo non esistono più. Molti ritengono che la richiesta palestinese di un diritto al ritorno non debba essere presa alla lettera e che al tavolo negoziale Abu Mazen o chi per lui si accontenterebbe di un suo riconoscimento simbolico. Ma fino a quando lo si sbandiera come un punto irrinunciabile di qualsiasi accordo, Israele ha buon gioco a sostenere che avviare nuove trattative ha poco senso.
Livio Caputo

(il Giornale, 4 settembre 2018)


Netanyahu riceve Duterte, "Alleati contro il terrorismo"

di Giordano Stabile

Un capo di Stato che si è vantato di essere «come Hitler» davanti ai volti delle vittime dell'Olocausto nel Vad Yashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme. Così vuole la realpolitik. Il presidente filippino Rodrigo Duterte è uno dei leader più controversi al mondo, con una massiccia dose di folklore e battute a dir poco di cattivo gusto, ma con Israele ha costruito una alleanza di ferro contro il terrorismo islamista e nel campo della sicurezza e della tecnologia militare.
  Le esternazioni sopra le righe sono quindi passate in secondo piano. Prima di partire per Gerusalemme, dove ieri ha incontrato il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha parlato a ruota libera con i giornalisti. Un reporter gli ha chiesto che cosa intendeva fare contro l'ondata di stupri a Manila. «Ci sono tante belle donne, è normale che ci siano anche tante violenze», è stata la risposta. In Israele, dopo aver reso omaggio alle vittime della barbarie nazista, ha poi precisato che si trattava soltanto di ironia e ha anche chiesto scusa per un'altra frase rimasta negli annali, quel «vai a quel Paese, figlio di puttana» che aveva rivolto all'ex presidente Barack Obama dopo essere stato criticato per le violazioni dei diritti umani.

 Contro lsis e droga, con modi spicci
  Obama gli sta antipatico, ha fatto capire. «Donald Trump è un mio amico - ha precisato-. Obama è invece un tipo freddo». Con Netanyahu s'intende e ha parlato soprattutto di affari. Il programma del viaggio prevede anche la visita ad aziende militari specializzate in apparecchiature elettroniche e missilistiche, forniture preziose per la lotta alla guerriglia islamista. Duterte ha stroncato l'insurrezione guidata dall'Isis nell'isola a maggioranza musulmana di Mindanao ma non ha ancora eliminato la minaccia nonostante i metodi spicci e le esecuzioni sommarie. Gli stessi usati contro il traffico di droga. Lui stesso ha rivelato di aver ucciso a sangue freddo uno spacciatore, a colpi di pistola, quando era nell'esercito.
  Ma non c'è soltanto l'aspetto militare. È previsto un accordo per una concessione petrolifera nelle Filippine alla compagnia israeliana Ratio Petroleum e uno, molto sentito dall'opinione pubblica interna, per migliorare le condizioni degli immigrati filippini, 30 mila in Israele. D'ora in poi il datore di lavoro dovrà versare una cauzione di soli 800 dollari, più il costo del biglietto aereo. Centinaia di connazionali si sono radunati davanti all'hotel Ramada a Gerusalemme prima del suo arrivo. «È la prima volta che un presidente viene da noi. È molto criticato ma è un buon presidente, ha eliminato la droga», ha spiegato uno di loro.

(La Stampa, 4 settembre 2018)


È un brutto errore accostare Israele all'Iran

di Ermanno Tedeschi

L'articolo di Davide Ferrario pubblicato sul Corriere Torino «Boicottare le idee non serve» affronta un tema molto delicato e difficile. Tutte le forme di cultura dall'arte alla letteratura, dalla musica alla danza sono libere espressioni che devono essere sempre rispettate e tutelate se non ledono i diritti umani; esse rappresentano uno strumento fondamentale di comunicazione tra popoli di religioni e tradizioni diverse. La cultura ha una missione diplomatica di grande importanza diretta a fare superare pregiudizi e false interpretazioni della realtà.
   I boicottaggi culturali e commerciali sono l'antitesi della libertà e della democrazia, frutto di pregiudizi e di mancanza di informazione, unicamente diretti ad alimentare l'odio e l'intolleranza. Non condivido però il parallelismo tra Israele ed Iran: Israele è l'unica vera democrazia del Medio Oriente dove tutti possono esprimere liberamente le proprie idee, acquistare prodotti senza essere sottoposti a censura ed alcuna forma di limitazione.
   Tutto ciò non avviene in Iran e in altri paesi arabi dove chi esprime liberamente le proprie idee attraverso espressioni di carattere culturale è sottoposto a severe pene, a volte rimettendoci anche la vita.
   Esistono artisti iraniani e di altri paesi arabi di grande valore, basti pensare al cinema e alla letteratura, che per essere liberi di esprimersi hanno dovuto lasciare il loro Paese per andare dove la libertà di espressione è garantita. Questo è il punto vero che deve essere considerato.
   Il boicottaggio culturale nei confronti d'Israele è diventato quasi normale anche in Italia e a Torino, dove la nostra Università non ha di fatto mai ostacolato manifestazioni contro Israele.
   Non bisogna confondere la politica di uno Stato con il diritto fondamentale ad esprimersi, sempre che questo sia esercitato in modo corretto e nel rispetto delle regole fondamentali che tutelano la libertà di espressione. Purtroppo la volontà di alcuni artisti di non accettare inviti da parte d'Israele sembra essere quasi una moda e uno strumento per attirare attenzione; ciò ha poco a che fare con precise ideologie politiche. Attenzione quindi a non confondere le acque facendo di tutta l'erba un fascio, perché si rischia di tornare indietro nel tempo invece di andare avanti.

(Corriere Torino, 4 settembre 2018)


Un mondo di storie dal popolo del Libro Piccoli e grandi al Museo Wagner

Favole e racconti della tradizione ebraica accompagnati dalla musica di Davide Casali

di Patrizia Piccione

 
TRIESTE - "Pa'am achat", ovvero il "C'era una volta" delle fiabe e delle leggende yiddish della tradizione ebraica. Un patrimonio narrativo le cui radici affondano nella storia millenaria del popolo ebraico a comporne la ricca trama, scritta e orale, del tessuto culturale e religioso. Storie, favole e leggende, sia molto antiche sia più recenti, per mantenere intatto e, anzi, rafforzare il legame con le proprie origini.
   L'edizione 2018 della Giornata europea della cultura ebraica è dedicata quest'anno proprio al narrare, allo storytelling, un aspetto fondante della cultura del cosiddetto "Popolo del Libro", ricorrenza che il prossimo 14 ottobre sarà celebrata con manifestazioni e iniziative anche nel nostro Paese in pressappoco 90 città italiane. Questo pomeriggio alle 17, al Museo Carlo e Vera Wagner, protagonisti dell'appuntamento all'interno del cartellone di Trieste Estate 2018 "Un mondo di storie" - rassegna promossa dalla biblioteca Quarantotti Gambini con il contributo delle volontarie di Nati per leggere - le fiabe e i racconti della tradizione ebraica.
   L'incontro (con ingresso libero e gratuito, fino a esaurimento dei posti disponibili) ospitato al museo di via del Monte 5, nasce dalla collaborazione tra la biblioteca comunale e la biblioteca del Mondo Accri, appuntamento strutturato per favorire la conoscenza delle tradizioni e sensibilizzare il pubblico "da 4 a... 99 anni" sui temi della tolleranza reciproca e della multiculturalità. Ad accompagnare grandi e piccini lungo i ramificati dedali dello storytelling del popolo d'Israele, l'assessore alla cultura della Comunità ebraica di Trieste, Mauro Tabor, accompagnato dalle volontarie di Nati per leggere, e dalla colonna sonora live di Davide Casali, per un variegato pot-pourri narrativo di "maize", cioè fiabe, tra cui la celebre "Il matrimonio che salvò una città", antica leggenda yiddish che racconta come grazie al matrimonio tra due orfani la cittadina di Pinsk venne salvata da un'epidemia di colera.
   L'odierno rendez-vous, con inclusa merenda kosher per tutti, sul tema del narrare, focus della 19ma Giornata europea della cultura ebraica, anticipa di pochi giorni l'importante appuntamento di "Rosh Hashana"", il Capodanno religioso ebraico, che inizierà questa domenica al tramonto e si concluderà, sempre al tramonto, martedì 11 settembre.

(Il Piccolo, 4 settembre 2018)


Roma - Ospedale israelitico, stop alla gestione temporanea

La Prefettura di Roma ha comunicato la fine del commissariamento per la struttura ospedaliera.

L'Ospedale Israelitico comunica "di aver ricevuto dalla Prefettura della Provincia di Roma la comunicazione di cessazione della misura straordinaria e temporanea di gestione. Al 30 giugno 2018 è concluso l'incarico del Dottor Claudio D'Amarlo in qualità di commissario prefettizio limitatamente alla completa esecuzione contrattuale con la Regione Lazio, regolante la prestazione di servizi sanitari per conto e a carico del Servizio Sanitario Nazionale". «Siamo grati al Dottor D'Amarlo - dichiara il Presidente del Cda dell'Ospedale Israelitico, Bruno Sed - per il lavoro che ha svolto con dedizione e rigore istituzionale. Il Commissario Prefettizio ha accompagnato l'Ospedale in una fase complicata della sua storia, sin dai suoi primi atti ha sempre dimostrato impegno nel voler restituire alla struttura la sua normale funzione nei rapporti con la Regione, comprendendo quanto il servizio sanitario prestato fosse di fondamentale importanza per i cittadini. Colgo l'occasione per ringraziare anche il suo predecessore, Narciso Mostarda, il Prefetto Paola Basiloni, il Presidente dell' Anac Raffaele Cantone e il Ministro della Salute. Infine ho il dovere di menzionare lo straordinario lavoro che da ormai quasi due anni porta avanti il nostro Direttore Generale, Giovanni Naccarato, assieme a tutto il management e alla Direzione Sanitaria. Loro, assieme ai medici dell'Israelitico che hanno lavorato senza sosta anche nei momenti più complicati, sono il cuore del rilancio di un Ospedale che da 400 anni è protagonista della sanità nel Lazio», conclude Sed.
   «Con la chiusura del commissariamento prefettizio l'Ospedale Israelitico può volgere lo sguardo totalmente in avanti e continuare in una fase di rilancio che ha già lasciato i primi segni». «Nel ringraziare anch'io il Dottor D'Amarlo - dichiara il Direttore Generale, Giovanni Naccarato - ricordando il supporto concreto che ha dato all'Ospedale nei rapporti con la Regione, sono orgoglioso di cogliere l'occasione per ricordare che oggi tutti e quattro i presidi dell'israelitico sono attivi».

(il Romanista, 4 settembre 2018)


Sette giri intorno al mondo

di Rav Alberto Moshe Somekh

Parafrasando il Talmud si potrebbe affermare che chi non ha assistito a Hosha'anà Rabbà a Roma non ha mai visto Hosha'anà Rabbà in vita sua. Che cos'è Hosha'anà Rabbà? Nelle parole di un rabbino piemontese del primo Ottocento, "l'ultimo delle mezze feste delle Capanne vien detto Hosha'anà Rabbà, voce ebraica che indica salvezza grande, essendo questo giorno distinto per le numerose preghiere che si fanno a Dio specialmente per le piogge dell'anno nei tempi opportuni a vantaggio delle campagne, e s'implora altresì la divina clemenza pel perdono de' peccati ed accettazione della penitenza messa di già in pratica dal Capo d'Anno sino a questo giorno. Si usa pure in esso giorno da ogni Israelita entrare nel Tempio non solo colla Palma, Cedro e Mirto in mano, come ne' precedenti giorni, ma con alcuni rami di Salice annodati assieme, che sul fine di tutte le orazioni si batte con essi sul terreno cinque volte, e se ne strappano da essi le foglie, volendo con ciò concedere al desiderio che si ha di sterminare il vizio, abbattere le passioni, sciogliere la nociva unione de' peccati. E si scelgono per la cerimonia i rami di Salice che secondo i dotti Rabbini sono il vero simbolo del peccato e della umana fragilità, atta a piegarsi al vizio ed a ciò che è più dannoso che utile".
   L'uso romano di affollare il Bet ha-Kenesset particolarmente le mattine di Rosh Chodesh Elul e di Hosha'anà Rabbà è con ogni verosimiglianza un antichissimo Minhag di Eretz Israel. Nel Talmud Yerushalmì Rosh ha-Shanah 4,8 è riportata un'interpretazione midrashica del versetto: "E Me giorno dopo giorno ricercano" (Yesha'yahu 58,2) a nome di R. Yonah, fra i capi della Yeshivah di Tiberiade nel IV sec. (Ta'anit
Etrog d'argento, sec. XVIII, Germania

23b ). La reduplicazione della parola "giorno" nel versetto, dice R. Yonah, allude a due giornate speciali dell'anno in cui la ricerca di H. è particolarmente sentita: yom teqi'ah, "il giorno in cui si suona lo Shofar" e yom 'aravah, "il giorno in cui si prendono in mano i salici". "In essi - spiegano i commentatori - tutti vanno a ricercare il S.B. nel Bet ha-Kenesset, dal più grande al più piccolo: sono il giorno di Rosh ha-Shanah e Hosha'anà Rabbà, nei quali tutti quanti rispettivamente ascoltano il suono dello shofar e tutti prendono in mano i salici" (Qorban ha-'Edah, Penè Mosheh). È probabile che il riferimento di yom teqi'ah a Rosh ha-Shanah sia stato sentito a un certo punto come ovvio e sia stato reinterpretato come richiamo a Rosh Chodesh Elul, una volta introdotto l'uso di cominciare a suonare lo Shofar in questa occasione. Hosha'anà Rabbà segna dunque la fine del periodo di 51 giorni di Teshuvah, pari al valore numerico della parola "na" (per favore!), iniziatosi con Rosh Chodesh Elul.
   Roma non è la sola Comunità che io abbia visitato la mattina di Hosha'anà Rabbà. Negli anni mi è capitato di trovarmi in questa occasione in realtà differenti. Nel 1990 mi recai alla Shearith Israel, la Sinagoga degli Ebrei spagnoli e portoghesi presenti a New York fin dal 1654. I sette giri con i salici e i Sifrè Torah, che rappresentano l'altro momento fondamentale della Tefìllah, erano eseguiti con grande ordine e ciascuno intervallati dal suono di lunghi Shofarot scuri dal timbro estremamente grave. Terminata questa funzione mi recai con il mio Lulav a Williamsburg a vedere quella dei Chassidim di Satmar. I Chassidim hanno l'abitudine di protrarre l'orario della Tefìllah e sapevo che li avrei trovati ancora intenti a pregare. Entrai nel principale Bet Midrash e potei osservare centinaia di uomini, tutti rigorosamente avvolti nei loro Tallitot candidi con il Lulav in mano agitarsi ritmicamente come un sol uomo, uno accanto all'altro. Sembravano davvero una legione armata! Vent'anni dopo mi trovai invece a Venezia. La Tefillah di Hosha'anà Rabbà si svolgeva qui nell'atmosfera unica della Scola Canton. Il lungo rito sefardita seguito in questa Comunità prevede che i sette giri siano intervallati da Selichot, recitate dal Chazan con le risposte del pubblico. La melodia adottata per la frase "H. melekh, H. malakh, H. yimlokh le'olam wa-'ed" (H. regna, H. ha regnato, H. regnerà in eterno) che si ripete al termine di ogni giro mi è rimasta impressa: ricorda il movimento ondulatorio della gondola e -mi dicono- è uno dei leit-motiv musicali del rito veneziano.
   Ma quello che più ha lasciato traccia nel mio cuore è stato Hosha'anà Rabbà del 1987: cadeva di mercoledì. Ero giovane rabbino a Bologna e non sarei riuscito a trovare Minian per quattro mattine festive di seguito fino allo Shabbat compreso. Martedì sera andai a colpo sicuro: telefonai al compianto Rav Lattes di Modena. Gli chiesi semplicemente a che ora l'indomani mattina si sarebbe svolta la funzione. "Alle sei -mi rispose - perché poi i ragazzi devono andare a scuola". Alle sei meno due minuti varcavo il portone del Bet ha-Kenesset di Modena. Dodici uomini erano già al proprio posto per la Tefillah! Non posso tralasciare che accanto al rabbino Lattes si stagliava l'alta statura (in tutti i sensi) del presidente della Comunità di Modena, il dottor Massimiliano Eckert z.l. con i Tefillin sul capo, secondo l'uso seguito dagli ashkenaziti nella mezza festa. Ebraismo italiano d'altri tempi. Che per il merito di questi tzaddiqim il S.B. ci accordi chatimah tovah.

(Pagine Ebraiche, settembre 2018)


Israele - Presentato al governo il progetto di una città riservata ai cristiani aramei

NAZARET - Il progetto di costruire una nuova città riservata ai "cristiani aramei", motivato anche con l'intenzione di custodire il linguaggio e la loro cultura aramaica, è stato sottoposto all'attenzione del governo d'Israele e al Premier israeliano Benjamin Netanyahu. A rivelarlo su un website statunitense è stato Shadi Khalloul, Presidente della Associazione cristiani aramaici d'Israele e membro di Philos Project, organizzazione di politici, giornalisti e intellettuali cristiani con sede a New York, impegnata a "guidare il cambiamento in Medio Oriente"). I "cristiani aramei" vengono definiti da Shadi Khalloul nel suo intervento sul The Daily Wire come "nativi di Israele e discendenti dei primi credenti in Cristo" in quella terra.
   L'aramaico non è una lingua morta, come si ripete nei corsi universitari in Occidente, Università del Durante gli studi universitari nel Nevada, sentendo dire che quella aramaica era una "lingua morta", Khalloul avrebbe intuito che la sua "missione" era quella di preservare la cultura e la lingua aramaica, anche allo scopo di "facilitare" la convivenza tra i cristiani e il popolo ebraico. Il progetto di una città per i cristiani aramei in Israele viene presentato da Shadi Khalloul come "qualcosa che può rafforzare Israele come Stato ebraico, mostrando al mondo che noi israeliani stiamo costruendo e preservando" la comunità aramea "come l'unico Paese per i cristiani perseguitati in Medio Oriente".
   "Come minoranza" ha spiegato Shadi Khalloul "vogliamo vivere come cristiani aramei indigeni e essere in grado di avere un'unica città aramaica dove preservare la nostra fede cristiana, il linguaggio aramaico, l'identità etnica, la nostra eredità e manifestare meglio le nostre radici comuni con gli ebrei".
   Già da tempo, il Presidente dell'Associazione cristiani aramaici di Israele ha presentato al governo israeliano il progetto di costruire nel nord di Israele la "città degli aramei", che dovrebbe chiamarsi Aram Hiram, con un nome che unisce l'appellativo Aram - con cui venivano indicati i regni aramaici nella Bibbia - e il riferimento al Re Hiram, che fornì a Re Salomone il legno dei cedri del Libano utilizzato nella costruzione del Tempio di Gerusalemme. Secondo quanto riferito dallo stesso Shadi Khalloul, la richiesta e il progetto di costruzione della città sarebbe nelle mani del Premier israeliano Benjamin Netanyahu.
   Nel settembre 2014, come riferito dall'Agenzia Fides, il Ministero degli Interni israeliano ha firmato un provvedimento per riconoscere l'identità "aramea" come identità nazionale distinta, da aggiungere nel registro delle nazionalità presenti nel Paese. Tale disposizione fu presa con l'intento dichiarato di permettere a 200 famiglie cristiane di identificarsi come appartenenti all'antica nazionalità, e così registrarsi come "aramei" piuttosto che come arabi nei documenti di identità. Il provvedimento del governo israeliano fu definito dai vescovi cattolici di Terra Santa come "un tentativo di separare i cristiani palestinesi dagli altri palestinesi" realizzato a partire da motivazioni ideologiche e pretestuose.

(agenzia fides, 3 settembre 2018)


Le elezioni amministrative in Israele: una nuova fase per la rappresentanza araba?

Per la prima volta parteciperà alle elezioni municipali di Gerusalemme la lista araba "Gerusalemme dei gerosolimitani", e la lista araba alle elezioni di Tel Aviv-Giaffa, "La mia Giaffa".

di Giovanni Quer

In un Paese piccolo come Israele le elezioni amministrative sembrano avere poca importanza. Da qualche anno però le campagne elettorali delle maggiori città israeliane indicano cambiamenti sociali e politici di portata nazionale. Le elezioni a Gerusalemme, per esempio, dànno idea dei rapporti di forza tra laici, religiosi sionisti e haredim (anche ultra-ortodossi); a Haifa, tradizionalmente città "rossa", si può capire l'indebolimento della sinistra a favore dei partiti di centro; a Tel Aviv si percepisce il futuro dei laici e ultra liberali. Quest'anno vi è un'altra novità, cioè una nuova organizzazione politica delle minoranze arabe. Per la prima volta parteciperà alle elezioni municipali di Gerusalemme la lista araba "Gerusalemme dei gerosolimitani", e la lista araba alle elezioni di Tel Aviv-Giaffa, "La mia Giaffa".
  Dopo la Guerra dei Sei Giorni, Israele considera la città come unita e indivisibile. La popolazione araba di Gerusalemme costituisce circa il 40% dei residenti, che vive secondo uno statuto speciale. La maggior parte dei residenti arabi di Gerusalemme si considera palestinese e non accetta la cittadinanza israeliana, benché negli ultimi dieci anni sia aumentato il numero di richiedenti passaporto israeliano. La politica palestinese ha sempre rifiutato di riconoscere l'amministrazione israeliana, e per questo motivo la maggior parte dei residenti arabi non ha mai partecipato alle elezioni.
  I quartieri arabi di Gerusalemme sono stati prevalentemente autonomi, con un proprio sistema scolastico sottoposto alle autorità palestinesi e un libero territorio di attività politica delle varie fazioni palestinesi. Dallo scoppio dell'Intifada Al-Aqsa, Israele ha progressivamente aumentato il controllo sui quartieri arabi, ma le differenze strutturali e sociali rimangono radicali. Solo il 9-11% (secondo diverse statistiche) del bilancio municipale è dedicato ai quartieri arabi. Il governo Netanyahu ha deciso di occuparsi della città con il programma "Portare il cambiamento", inaugurato a maggio 2018 con un bilancio di circa mezzo miliardo di euro destinato al miglioramento delle infrastrutture (trasporti, scuole, strade, pianificazione urbana), alle attività culturali e all'adozione del sistema scolastico israeliano. C'è chi vede questa mossa come un passo per la "normalizzazione" e il consolidamento del controllo israeliano sulla città.
  Non così Ramadan Dabbash, medico del quartiere arabo Sur Baher, che ha fondato un partito di gerosolimitani arabi per la partecipazione alla vita della città. Dabbash, che si è unito al Likud nel 2014, ha in programma un doppio cambiamento: portare al Consiglio Municipale la voce dei residenti arabi, delle loro esigenze e dei loro interessi, e cambiare la posizione politica di boicottaggio contro l'amministrazione israeliana. Dabbash potrebbe essere il primo consigliere arabo della città e il suo programma è molto pragmatico: pianificazione urbana, finanziamenti per scuole, reti di trasporto pubblico, servizi per giovani.
  Intanto, l'organizzazione delle elezioni a Gerusalemme è stata criticata: solo 6 seggi sono stati aperti nei quartieri arabi, di cui 3 nel quartiere misto Bet Safafa e con i 3 rimanenti che dovrebbero servire 80,000 votanti l'uno (rispetto alla media di 2,000 votanti per seggio nei quartieri ebraici).
  La seconda novità è a Tel Aviv-Giaffa, alle cui elezioni parteciperà la lista araba "La mia Giaffa" con due candidati, Abed Abu Shuhada e Lisa Hinania, giovani trentenni che vogliono rappresentare i residenti arabi della città. Alla presentazione del loro programma politico la scorsa settimana, i due candidati hanno specificato che intendono rappresentare tutti i cittadini di Giaffa, ebrei e arabi, ma con un particolare riferimento alla popolazione araba, marginalizzata da quelle che sono considerate politiche municipali discriminatorie.
  Al contrario di Gerusalemme, Giaffa soffre meno di carenza di infrastrutture pubbliche, ma la differenza di investimenti nei servizi culturali ed educativi tra nord Tel Aviv e Giaffa è indice, secondo i candidati, di una discriminazione verso i cittadini arabi della città. Il loro obiettivo è riportare la comunità araba e la cultura araba al centro del discorso politico, sociale e culturale. Giaffa ospita varie istituzioni culturali che offrono servizi sia in ebraico sia in arabo, e ha visto di recente uno sviluppo delle iniziative sociali comuni. L'aspirazione dei due candidati è di riportare la cultura araba al centro delle attività culturali e politiche della città, dopo anni di marginalizzazione. In secondo luogo, i candidati sottolineano l'importanza dei servizi sociali alle fasce più deboli della popolazione araba che sono state spinte ai confini della città dopo la trasformazione del centro storico di Giaffa.
  La partecipazione politica della comunità araba nella città di Haifa è invece consolidata. Per tradizione, uno dei vice sindaci è arabo e il consiglio comunale comprende sia consiglieri legati al partito arabo Balad (di ispirazione pan-arabista), sia consiglieri arabi del partito misto Hadash/Jabha. Quest'anno invece una candidata sindaca della comunità russa ha iniziato una campagna elettorale rivolta ai numerosi cittadini che vivono prevalentemente in circoli russofoni (asili, istituzioni culturali, negozi ecc.).
  All'ombra delle numerose critiche sulla legge che dichiara Israele Stato-nazione del popolo ebraico e non fa menzione delle minoranze, c'è una mobilitazione politica delle comunità arabe per la rappresentanza locale che può andare oltre le narrative sull'identità e i discorsi sull'appartenenza nazionale.
  Questo cambiamento potrà avere un effetto anche sui partiti arabi nazionali, spesso criticati dalle stesse comunità arabe per la loro maggiore attenzione alle questioni legate al conflitto e minore interesse ad avanzare le esigenze delle varie comunità di lingua araba.
  Le nuove idee e i nuovi volti degli intraprendenti politici locali si focalizzano sugli interessi e i bisogni delle comunità. Tuttavia è ancora da vedere come saranno trattate le differenze socio-economiche tra le comunità cristiane e quelle musulmane, con diversi interessi e necessità. Rappresentare una comunità così diversificata è un complesso progetto politico che può unificare le diversità contro un comune avversario (le amministrazioni israeliane a Gerusalemme, il progetto sionista a livello nazionale, la narrativa ebraica a Tel Aviv), oppure può essere l'inizio di un'effettiva partecipazione che rappresenti un nuovo modello di politica delle minoranze.

(formiche.net, 3 settembre 2018)


Israele, radio pubblica trasmette musica di Wagner. Costretta alle scuse

La radio pubblica israeliana si è scusata per aver trasmesso musica di Richard Wagner, il compositore tedesco preferito di Adolf Hitler, definendolo un "errore".

di Raffaello Binelli

La musica di Richard Wagner scatena un putiferio in Israele. La radio pubblica si è scusata per averla mandata in onda, parlando di un "errore".
   Le opere del compositore tedesco preferito di Adolf Hitler non sono vietate, però c'è un certo pudore: orchestre e artisti evitano di riproporle a causa delle critiche che ciò può suscitare. A scatenare la polemica è stato "Il crepuscolo degli dei", mandato in onda venerdì dalla stazione di musica classica, Kol HaMusica.
   Come è successo durante il fine settimana, con diversi ascoltatori che si sono lamentati per la scelta. Le musiche di Wagner sono considerate intrise di sentimenti antisemiti e idee sulla purezza della razza. Non a caso già nel 1981, quando l'Orchestra Filarmonica israeliana aveva provato a proporre le musiche del compositore tedesco, era stata duramente attaccata. Così è stato per l'emittente radiofonica pubblica: "Le direttive sono rimaste quelle che sono state per anni, la musica di Wagner non verrà suonata" sul canale di musica classica, ha assicurato una portavoce, motivando la decisione con il "dolore che una simile trasmissione evocherebbe tra i sopravvissuti all'Olocausto".
   Poi sono arrivate le scuse: "Il direttore musicale ha fatto un errore nella scelta artistica", è stata "una decisione sbagliata" e "ce ne scusiamo con i nostri ascoltatori".

(il Giornale, 3 settembre 2018)


Il piano di pace Usa per il Medio Oriente "Palestinesi confederati con la Giordania"

La rivelazione di Abu Mazen, che però chiede: "L'intesa sia allargata anche allo Stato di Israele"

di Giordano Stabile

L'Amministrazione Trump seppellisce la soluzione «due popoli, due Stati», filo conduttore di 25 anni di trattative fra i palestinesi e Israele, e propone al presidente Abu Mazen «una confederazione con la Giordania». L'ha rivelato ieri lo stesso raiss palestinese in un incontro con attivisti israeliani di PeaceNow e deputati israeliani dell'opposizione. «Gli americani mi hanno proposto una confederazione con la Giordania - ha spiegato -. Ho risposto che volevo sì una confederazione, ma con la Giordania e anche con Israele». Un modo per dire no, perché lo Stato ebraico non accetterà mai un'unione del genere.
   La confederazione è una vecchia idea, poi messa da parte dagli accordi di Oslo nel 1993. Ora il presidente Donald Trump ne ha fatto il perno centrale del suo «accordo del secolo» su consiglio del trio che conduce le nuove trattative: il consigliere alla Casa Bianca Jared Kushner, l'inviato speciale Jasan Greenblatt e l'ambasciatore in Israele, David Friedman. Il presidente aveva promesso la scorsa settimana che i palestinesi avrebbero avuto «qualcosa di molto buono» per compensare il trasferimento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, un gesto che apre la strada al riconoscimento della Città santa come capitale «unica e indivisibile» di Israele. Ma il «qualcosa di buono», inteso come confederazione, è destinato ad alimentare ancora di più la rabbia e la frustrazione dei palestinesi, che alla frontiera di Gaza hanno condotto cinque mesi di manifestazioni, con un bilancio di oltre 160 morti.

 L'appoggio del Likud
  L'idea di una confederazione con la Giordania è sostenuta soprattutto dal partito del premier Benjamin Netanyahu, il Likud. Non piace alla leadership palestinese, che dovrebbe rinunciare al sogno di una piena sovranità. La Cisgiordania ha fatto parte del regno hashemita dal 1949 al 1967, ma nel 1988 Amman ha rinunciato a ogni pretesa territoriale, proprio per spianare la strada allo Stato palestinese indipendente. Poi, sotto la spinta dell'allora presidente americano Bill Clinton, nel 1993 si era arrivati a un accordo che prevedeva «due popoli, due Stati», con quello palestinese che si sarebbe esteso su Cisgiordania e Gaza, a parte minori modifiche dei confini. Ma le trattative da allora sono in stalla.
   «Non è mai esistita la soluzione due popoli, due Stati, ma soltanto la narrativa due popoli, due Stati», ha tagliato corto l'ambasciatore Friedman in un editoriale poco dopo il suo insediamento. Siamo quindi alla soluzione «uno Stato», che unisca territori oltre il Giordano e la Giordania, dove i palestinesi sono già la metà della popolazione, cinque milioni su dieci. In questo senso la Casa Bianca avrebbe chiesto ad Amman di concedere la cittadinanza a due milioni di profughi.
   È l'altro perno del piano americano. I palestinesi con lo status di rifugiati sono oltre cinque milioni fra Libano, Siria, Giordania, Cisgiordania e Gaza. Washington vorrebbe ridurli a mezzo milione o anche meno, per disinnescare la richiesta del «diritto al ritorno» in Israele, un nodo che blocca le trattative. E che Trump vuole tranciare con metodi spicci. Tre giorni fa l'Amministrazione ha tagliato tutti i fondi all'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) perché «estende all'infinito» l'esistenza stessa dei profughi. Niente Stato e meno soldi, per l'82enne Abu Mazen, dalla salute sempre più precaria, è un triste tramonto.

(La Stampa, 3 settembre 2018)


La fine del finto pacifista Abu Mazen: Trump ha svelato la sua incapacità

Il bilancio di una leadership azzoppata. Mai una vittoria e ora gli Usa dialogano più di lui con Hamas. L'ultimo scivolone rivelatore: ha bocciato il piano americano per una confederazione tra i palestinesi e la Giordania

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Non c'è giorno ormai in cui Abu Mazen, al secolo Mahmoud Abbas, non denunci con le parole e coi fatti, il declino del suo potere, anzi, la sua agonia, mentre altri uomini, altri eventi, occupano lo spazio della scena palestinese, e anche del suo eventuale, difficile tuttavia, sviluppo.
   Ieri l'ultima uscita di Abu Mazen denuncia per l'ennesima volta il rifiuto verticale a ogni proposta di un piano di pace che provenga dagli Stati Uniti, dall'odiato presidente Trump che ha osato riconoscere che Gerusalemme è la capitale d'Israele: questo, più di ogni altro evento, ha messo il punto esclamativo sul fallimento di una politica. Abu Mazen non ha ottenuto guadagni storici rifiutando ogni accordo; ha cercato di costruirsi un'immagine decente e pacifista all' estero, gestendo invece con determinazione e con la distribuzione di molto denaro (proveniente dagli aiuti del mondo intero) la continua spinta al terrorismo; non ha fatto spazio a una successione, e ora è assediato dai suoi peggiori nemici. Con un comunicato di ieri, Abu Mazen condanna l'idea che i palestinesi e la Giordania debbano formare una confederazione e aggiungendo sarcasticamente che «allora dovrebbe farne parte anche Israele», un tema peraltro mai confermato dagli americani come parte di un piano di pace ma che potrebbe presto venire all'orizzonte carico di promesse economiche e di pubblico interesse: ma lui vede il piano americano come parte della cospirazione di cui parla di continuo per annientare la causa nazionale palestinese. Non è così: è la politica palestinese, la sua politica, quella di Abu Mazen ereditata da Arafat, dichiarazioni di buone intenzioni e terrorismo, che finalmente è stata messa a nudo da una serie di mosse del governo di Trump, e dalla sua rappresentante all'Onu, Nikki Haley.
   Due sono le questioni principali di questi ultimi giorni: il dialogo che, sopra la testa di Abu Mazen, e con un bizzarro ponte qatarese ma, soprattutto, egiziano, Israele ha condotto per neutralizzare Hamas ed evitare l'ennesima guerra a Gaza. Una strategia lungimirante, che limita morti e feriti e lascia le mani libere a Gerusalemme per un compito che sta a cuore a tutto il mondo sunnita: spingere via dalla Siria l'Iran che assedia il Medio Oriente.
   Per ora la guerra non c'è, Hamas certo non è diventato sionista, ma è stato fermato; Abu Mazen, irritatissimo, ha dichiarato che l'unico ad avere titolo per fare una qualsiasi accordo con Israele è lui, e che semmai Hamas vuole aggregarsi a lui deve consegnargli territori e milizie. Naturalmente, non se ne parla, mentre gli sforzi arabi di pacificazione procedono lasciandolo isolato a dir di no all'Egitto, al Qatar, a Trump ... e a Israele come al solito.
   E le accuse di Abu Mazen volano. Di più ancora poiché, altra scelta epocale, gli Stati Uniti hanno deciso di smettere di riconoscere come profughi quei palestinesi che da 70 anni si dichiarano tali dopo la guerra del 1948, passando ai figli dei figli, sempre più numerosi, tutti i diritti attribuiti (solo a loro fra tutti i profughi) dalla molto benevola Onu. Ora l'Unrwa, l'organizzazione ad hoc, mentre la definizione di profugo viene rivista, non riceverà più i 300 milioni di dollari l'anno che gli Usa le conferiscono. I cosiddetti rifugiati palestinesi sono intanto passati da 500mila a 5 milioni: l'Unrwa non solo li mantiene ma fa una politica che ha prevenuto la soluzione del conflitto. L'Unrwa ha prevenuto il ricollocamento dei profughi: la cronista ricorda il desiderio rifiutato dalla comunità di un suo stringer residente del campo profughi di Deheshe di andarsene per sempre a vivere altrove con la giovane moglie. Proibito, non si fa (poi lui ce l'ha fatta lo stesso). Si resta profughi, figli compresi, a scuola in strutture che adottano libri di testo pieni di odio e di incitamento al terrorismo. La destrutturazione di questo sistema rende nulla una delle ragioni d'essere della politica di Abu Mazen, che è il diritto al ritorno.
   Abu Mazen dal 2005 quando è diventato presidente dell'Autorità Palestinese non ha portato a casa una sola vittoria strategica, anche se Israele, invitandolo al tavolo di pace più e più volte, gli ha offerto svariate possibilità. Adesso la sua tetragona, rabbiosa muraglia è peggiorata, il suo retaggio si è macchiato di molte affermazioni propriamente antisemite e revisioniste, la sua difesa dei salari ai terroristi in carcere da quando (altra sconfitta) i fondi americani sono stati tagliati, lascia senza parole. È un leader battuto dai nuovi tempi cui non sa dare altro che risposte sbagliate.

(il Giornale, 3 settembre 2018)


"Onu, senti l'allarme rosso in Israele?"

Un ragazzo scrive al segretario generale Guterres

Scrive Ycdioth Ahronoth (20/8)

 
Uriah Hatzroni mostra la lettera che ha scritto al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres
Uriah Hatzroni, 15enne israeliano che abita nel moshav Yated, vicino al confine con la striscia di Gaza, ha scritto una lettera personale al segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nella quale descrive la sua vita sotto la continua minaccia dei razzi palestinesi. "Ora siamo nel periodo delle vacanze estive - scrive Uriah - quando i ragazzini come me dovrebbero potersi divertire e stare con gli amici, e invece siamo costretti in casa o nei rifugi, con la paura di uscire nel caso vi siano lanci contro di noi di razzi o aquiloni incendiari. Signor Segretario Generale, i ragazzini dovrebbero avere il diritto di stare fuori a giocare, e non nei rifugi antiaerei. Negli ultimi mesi, io e la mia famiglia non abbiamo avuto un solo giorno tranquillo, una sola notte tranquilla. Sempre e solo allarme rosso. Signor segretario generale, ha mai sentito parlare dell'allarme rosso? E' la sirena che ci avverte quando ci sparano addosso razzi e colpi di mortaio. Lo sapeva che, quando suona l'allarme, abbiamo 15 secondi di tempo (!!), a volte anche meno, per metterci al riparo: quindici secondi che separano la vita dalla morte?". Nella lettera, inviata in occasione della Giornata della gioventù che l'Onu celebra il 12 agosto, Uriah aggiunge: "I miei amici e io, migliaia di bambini e adolescenti che abitano nelle comunità attorno alla striscia di Gaza, viviamo da anni in aree protette. Non quelle a cui si riferisce la risoluzione delle Nazioni Unite, ma quelle che hanno lo scopo di proteggermi e salvare la mia vita da attacchi di razzi e proiettili di mortaio, dai tunnel per infiltrazioni terroristiche e ultimamente da palloni e ordigni incendiari lanciati da Gaza, che è controllata da Hamas, un'organizzazione riconosciuta come terroristica a livello internazionale. Spesso lo spazio protetto che dovrebbe farti sentire al sicuro diventa proprio il luogo dove aleggiano l'ansia e le paure più profonde. Mentre te ne stai rannicchiato con la tua famiglia o con gli amici nello spazio protetto, tendendo le orecchie al suono terrificante dei colpi di razzo e alla sirena che divampa nell'aria, la tua mente non può smettere di andare agli altri tuoi famigliari e amici che potrebbero non aver trovato in tempo un nascondiglio ed essere in pericolo, e ti chiedi cosa potrà distruggere il missile quando si abbatterà al suolo, e preghi con tutto il cuore per la buona sorte".
   "Signor segretario generale nei mesi scorsi, in realtà negli anni scorsi, questa è diventata la routine per migliaia di ragazzini come me che vivono nel sud di Israele, con la terribile paura che in qualsiasi momento il silenzio venga rotto dal bombardamento. Il senso di ansia e profonda insicurezza pervade anche il più forte di noi. E ciò che non fa meno male è il fatto che noi, figli d'Israele, sentiamo che il mondo, compresa l'Onu, ci ha abbandonati come se i nostri diritti, il nostro futuro, fossero in qualche modo meno degni o meno importanti". Uriah Hatzroni conclude la sua lettera esprimendo la speranza in un futuro migliore. "I miei amici e io - scrive - continueremo a credere e sognare che verrà il giorno in cui i muri dell'odio diventeranno ponti di amicizia e convivenza, in cui i figli dell'intera regione, israeliani e palestinesi, vivranno una fanciullezza bella, buona e al sicuro".
   
(Il Foglio, 3 settembre 2018)


Sulle orme del Messia

Convegno 14-15-16 settembre 2018 a Poggio Ubertini (Montespertoli FI)

In concomitanza con l'uscita del suo primo libro tradotto in italiano, "Sulle orme del Messia", arriverà in Italia il Dr. Arnold Fruchtenbaum, teologo ebreo messianico che è considerato per la sua conoscenza della Scrittura in generale, e della parte escatologica in particolare, una pietra miliare della teologia mondiale. Il Dr. Fruchtenbaum con il suo stile incisivo e chiaro ci guiderà nello studio di molte tematiche estremamente importanti che andranno dallo studio delle festività ebraiche, ad aspetti escatologici più approfonditi.
   Il motivo per cui il Dr. Fruchtenbaum è pressoché sconosciuto in Italia, ma ampiamente apprezzato nel resto del mondo, e in Europa in particolare (Germania, Svizzera, Inghilterra, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, solo per citarne alcune), è perché non esisteva materiale tradotto in italiano. Il Signore ci ha dato la gioia e l'onore di collaborare con Ariel Ministries, la missione fondata e diretta dal Dr. Fruchtenabaum, nel tradurre il suo libro più famoso nel mondo "The Footsteps of the Messiah" (Sulle Orme del Messia), convinti che la nostra nazione ne sarà grandemente edificata.
   Oratori più conosciuti in ambito italiano, quali Charles Ryrie (suo professore ai tempi dell'università), Roger Liebi e Norbert Lieth (Direttore Internazionale di Chiamata di Mezzanotte, che spesso cita il Dr. Fruchtenabum nelle sue conferenze, vista l'assidua presenza del Dr. Fruchtenbaum in Germania), sono solo alcuni dei nomi che si sono arricchiti attraverso gli studi del Dr. Fruchtenabum.

Per informazioni:
sulleormedelmessia@gmail.com

Locandina

(La Chiesa Evangelica di Montemurlo)


*


Arnold Fruchtenbaum, chi è?

di Marcello Cicchese

Arnold Fruchtenbaum
«Vi è una grande differenza fra la testimonianza di un credente "gentile" e quella di un credente di origini ebraiche. Spesso i credenti gentili iniziano la loro testimonianza partendo dall'infanzia o addirittura tornano indietro fino alla loro nascita. La testimonianza di un credente ebreo, invece, deve iniziare da molto prima.»
   Con queste parole Arnold Fruchtenbaum inizia un suo lungo articolo di testimonianza. La cosa deve far riflettere, perché prendendo conoscenza di quello che è avvenuto a un ebreo come lui, siamo costretti ad entrare in relazione con ciò che in un certo senso ha dovuto lasciare, ma di cui d'altra parte continua a sentirsi parte: il popolo ebraico.
   Un ebreo che arriva a credere in Gesù non riconosce in Lui soltanto il suo personale Signore e Salvatore, ma anche il Messia del popolo a cui appartiene e a cui vorrebbe continuare ad appartenere. Inevitabilmente quindi è portato ad esaminare in quale punto di fede si trovava il suo popolo nel momento in cui lui si è convertito a Gesù e quali sono state le reazioni del suo ambiente quando ha annunciato di aver creduto che Gesù è il Messia promesso da Dio a Israele.
   Nel caso di Arnold, le conseguenze della sua conversione furono particolarmente dure. All'età di tredici anni arrivò alla convinzione, leggendo il Nuovo Testamento, che Gesù è davvero il Messia di Israele e lo accettò come suo Signore e Salvatore. In famiglia non trovò alcuna comprensione, tutt'altro. Suo padre, discendente da una famiglia di ebrei polacchi ultraortodossi, pur avendo abbandonato dopo l'Olocausto la tradizionale pratica religiosa, trovava inaccettabile che il suo figlio primogenito si schierasse - così pensava - dalla parte degli sterminatori cristiani del suo popolo. Per lui questo era un tradimento. Quindi fece sapere al figlio che poteva rimanere in famiglia fino al compimento dei suoi studi liceali, ma il giorno dopo aver ottenuto il diploma avrebbe dovuto lasciare subito e definitivamente la casa. E per confermare e sottolineare l'incolmabile distacco che ormai lo separava dal figlio, nell'ultimo anno di permanenza in casa non gli rivolse più nemmeno una parola: silenzio totale, anche a tavola. Come se non esistesse.
   Arriva il giorno del diploma. E' una serena e luminosa mattina del giugno 1962. Qualche giorno dopo ci sarebbe stata la cerimonia ufficiale della consegna dei diplomi. Arnold però non ha tempo di aspettare: il giorno dopo dovrà partire, e lui deve fare le valigie. E poi, a che sarebbe servito partecipare alla cerimonia? I suoi genitori non sarebbero venuti. E se anche fossero venuti, suo padre non gli avrebbe rivolto la parola, mentre tutti gli altri avrebbero ricevuto congratulazioni e auguri dai loro cari. Meglio andarsene via subito.
   Il giorno dopo, di buon mattino, Arnold si appresta a lasciare definitivamente l'appartamento al secondo piano di Los Angeles in cui ha vissuto per tanti anni con la sua famiglia. C'è silenzio in casa. I genitori sono usciti inusualmente presto; anche dei suoi tre fratelli più piccoli non c'è traccia. A salutarlo non c'è nessuno. Esce di casa senza dire o udire una parola, chiude con garbo per l'ultima volta la porta dell'appartamento dei suoi genitori, scende lentamente le scale e sale sull'auto che l'aspetta per portarlo lontano da casa.
   Sono passati ormai cinquantasei anni da quando Arnold fu mandato via di casa per la sua fede in Gesù Messia, e ancora oggi può testimoniare che il Signore ha mantenuto fede alle parole di quel versetto che lo aveva rassicurato negli ultimi giorni passati nella casa dei suoi genitori: "Il mio Dio provvederà a ogni vostro bisogno, secondo la sua gloriosa ricchezza" (Filippesi 4:19). E così è stato.
   Il Signore ha concesso ad Arnold Fruchtenbaum la possibilità di dedicarsi totalmente allo studio della Scrittura e al suo insegnamento. La sua biografia e le notizie sulla sua produzione teologica possono essere trovate facilmente in rete, ma tra le sue numerose opere vale la pena di segnalare quella che è forse la più poderosa e panoramica, anche se probabilmente non tra le più lette: "The Missing Link in Systematic Theology" ("L'anello mancante nella teologia sistematica"). L'autore difende decisamente l'approccio dispensazionalista alle Scritture, pur esaminandone criticamente le diverse ramificazioni. Coloro che in ambito evangelico tendono ad assumere un atteggiamento di sufficienza verso questo tipo di approccio, presentandolo in forma schematizzata e distorta, farebbero bene a leggere attentamente questo testo di oltre mille pagine e a fare i conti con il suo autore, che a sua volta si è deciso a fare i conti con tanti altri approcci teologici del nostro tempo, come la teologia della sostituzione e la teologia del patto, mettendone in evidenza i punti deboli.
   Uno dei punti deboli di tante teologie che vogliono essere sistematiche sta proprio nel posto che viene assegnato (o non assegnato) a Israele, perché se la dottrina di Israele non è ben collocata, tutto l'impianto teologico ne risente e va fuori posto. Per usare un linguaggio che piace ai teologi, si può dire che il tema Israele appartiene alla cristologia; dunque non entra soltanto come passato o futuro della storia della salvezza, ma come espressione fondamentale del rapporto che Dio vuole avere con gli uomini, a qualsiasi tempo essi appartengano.
   Il fondamento della teologia di Fruchtenbaum si trova naturalmente nella Scrittura; più precisamente, nell'uso letteralistico ed estensivo del testo biblico. Quando nei suoi commentari prende in considerazione qualche tema di scottante interesse, si può essere certi che nella sua trattazione sono presi in considerazione tutti i rilevanti passaggi biblici collegati all'argomento.
   Un altro suo libro di particolare interesse è "Messianic Christology", nel quale prende in esame in modo analitico tutti i passi dell'Antico Testamento in cui sono presenti annunci, in forma più o meno esplicita, della prima venuta del Messia Gesù. Con questa sua fatica ha voluto certamente rispondere alla domanda principale che un ebreo si pone quando gli arriva il messaggio del Vangelo: ma è proprio vero che Gesù è il Messia di Israele? E' una domanda che i cristiani gentili di solito non si pongono perché ne considerano scontata la risposta, anche se poi non saprebbero dimostrarla con la Bibbia alla mano. Fruchtenbaum invece l'ha fatto, prendendo in considerazione anche interpretazioni date dai rabbini di passi controversi come Isaia 53.
   Il libro di Fruchtenbaum che invece tratta in modo esteso la seconda venuta di Gesù è "The Footsteps of the Messiah", tradotto già in diverse lingue e fra non molto anche in italiano. Non si tratta, come in tanti altri casi, della colorita presentazione di qualche aspetto particolare di avvenimenti del futuro che oggi attraggono l'interesse di molti. E' un "freddo" lavoro biblico su un tema che può appassionare, anzi deve appassionare, chi è davvero interessato all'opera di Dio nella storia e cerca risposte alle inevitabili domande non nelle coinvolgenti esperienze personali o non nelle eccitanti "rivelazioni" offerte al pubblico da sedicenti profeti, ma nell'unico posto dove si possono trovare: la Sacra Scrittura. Il lavoro di Fruchtenbaum si caratterizza per la sua estensione e chiarezza, e proprio per questo anche il lettore che eventualmente non fosse del tutto convinto di qualche spiegazione può essere in grado di formulare con chiarezza il suo dubbio e cercare nella Bibbia un'altra spiegazione.
   Un altro tema che Fruchtenbaum riprende continuamente nei suoi studi e affronta in tutti i suoi aspetti è il rapporto Israele-Chiesa. Anche chi pensa di potersi disinteressare di profezie e problemi escatologici ad esse collegate, non può evitare di avere convinzioni più o meno precise su questo argomento e di esserne in qualche misura condizionato nel suo parlare e nel suo agire. Seguendo una linea chiaramente dispensazionalista, Fruchtenbaum sottolinea la distinzione tra Israele e Chiesa, ma esamina anche i punti deboli di questa teologia. Sostiene, per esempio, che la diffusa presentazione di Israele come "popolo di Dio terrestre" e Chiesa come "popolo di Dio celeste" non è adeguata ad esprimere correttamente questo rapporto. E naturalmente ne presenta i motivi biblici.
   Arnold Fruchtenbaum ha girato tutto il mondo nel suo servizio di insegnamento biblico, ma fino ad ora non è mai stato in Italia. E' in programma una sua visita a settembre nel centro evangelico di Poggio Ubertini.

(Chiamata di Mezzanotte, maggio-giugno 2018)


Esplosioni all'aeroporto militare di Damasco: possibile raid israeliano, ma Assad nega

Per l'Osservatorio siriano dei diritti umani si tratta di un'azione militare di Israele: ci sarebbero almeno 2 morti e 11 feriti

Nella notte tra sabato 1 e domenica 2 settembre, ci sono state due violente esplosioni nell'aeroporto militare di Mezzeh a Damasco, in Siria.
Le esplosioni hanno colpito un deposito di munizioni. Secondo l'Osservatorio siriano dei diritti umani, si tratterebbe di un attacco compiuto dalle forze militari di Israele e almeno due persone sarebbero rimaste uccise.
Le vittime sarebbero due miliziani dei gruppi filo-regime e ci sono stati anche 11 feriti, alcuni dei quali sono in condizioni critiche.
Il capo del gruppo di monitoraggio con sede nel Regno Unito Rami Abdel Rahman ha detto che Israele avrebbe lanciato un missile dalle alture del Golan.
Il governo di Bashar al-Assad ha però smentito qualsiasi coinvolgimento da parte di Israele, e ha dichiarato che la deflagrazione sarebbe stata causata da un guasto elettrico.
Israele in passato ha lanciato diversi attacchi contro la Siria, ed è stata accusata di aver colpito proprio l'aeroporto militare di Mezzeh lo scorso anno.
Mezzeh è la sede di ufficiali dell'esercito siriano nonché di apparati dell'intelligence.
Lo scorso maggio, Israele aveva dichiarato di aver attaccato una struttura militare iraniana in Siria in seguito a un presunto attacco missilistico iraniano sul territorio israeliano.
A giugno, Israele aveva invece comunicato di aver abbattuto un aereo da guerra siriano entrato nel suo spazio aereo.
Il governo di Benjamin Netanyahu, appena una settimana fa, aveva aspramente criticato l'accordo di collaborazione militare firmato a Damasco da Assad e dal ministro della Difesa dell'Iran.

(TPI News, 2 settembre 2018)


Israele-Filippine: possibile accordo energetico e vendita di armi durante la visita di Duterte

GERUSALEMME - Durante la visita in Israele il presidente filippino Rodrigo Duterte potrebbe firmare un accordo nel settore petrolifero e prendere visione di sistema d'arma avanzati. Lo riferisce oggi il quotidiano israeliano "Haaretz". La società israeliana Ratio Petroleum tre anni fa si è aggiudicata la licenza di esplorazione in un giacimento offshore delle Filippine, ma è in attesa della firma di Duterte. Fonti citate da "Haaretz" spiegano che la società avrebbe chiesto l'intervento del ministero degli Esteri per sbloccare la questione. L'agenda pubblica di Duterte non fa riferimento a una eventuale vendita di armi, nonostante siano previste visite presso strutture militari israeliane, aggiunge "Haaretz". La presunta vendita di armi israeliane alle Filippine ha provocato critiche da parte dell'opinione pubblica a causa della violazione dei diritti umani nel paese del sud-est asiatico.

(Agenzia Nova, 2 settembre 2018)


Netanyahu, importante passo Usa su Unrwa

Premier: l'agenzia va abolita, rende immortali profughi

Gli Usa hanno compiuto "un passo molto importante" con il taglio dei fondi all'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i profughi palestinesi. Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu nel suo primo commento alla decisione di Washington che ha causato invece l'ira dei palestinesi.
"Un'agenzia - ha spiegato Netanyahu ricordando il diverso trattamento usato da Israele verso i suoi stessi profughi - che perpetua i rifugiati... Così finalmente si è cominciato a risolvere il problema".
Per il premier è necessario "abolire l'istituzione, prendere i fondi ed aiutare veramente a riabilitare i profughi il cui vero numero è una frazione di quello riportato dall'Unrwa".
"Israele - ha concluso Netanyahu - sostiene questo importante cambio" da parte degli Usa.

(ANSAmed, 2 settembre 2018)


UNRWA e finti profughi palestinesi devono essere un problema arabo

di Adrian Niscemi

Dalla Giordania arriva l'allarme sui tagli alla UNRWA voluto dal Presidente Trump. Si temono conseguenze "umanitarie, sociali e sulla sicurezza". Ma i ricchi Paesi arabi non vanno oltre le proteste e tengono i forzieri ben chiusi.

La decisione del Presidente americano, Donald Trump, di tagliare tutti gli aiuti alla UNRWA ha scatenato un putiferio sia in Europa che nel mondo arabo. La Giordania, che ospita quasi due milioni di finti profughi palestinesi, teme disordini e ventila «problemi per la sicurezza». Tuttavia, a parte l'Unione Europea e a livello individuale alcuni Paesi europei (soprattutto Germania e Svezia), il mondo arabo che dovrebbe assumersi le maggiori responsabilità su questa massa di finti profughi, sembra non aprire i forzieri e continua a pretendere che sia l'occidente a farsi carico di cinque milioni di arabi....

(Rights Reporters, 2 settembre 2018)


La musica si divide (ancora) su Israele

Lana Del Rey rinuncia: «Verrò quando potrò cantare anche in Palestina». Come lei Waters e Costello. I sì di molti altri, dai Rolling Stones a Rihanna

di Davide Frattini

 
Cantare o non cantare? Questo è il problema
No, non canterò. Perché il coraggio, uno, se non ce l'ha, mica se lo può dare
Gìà l'estate di quattro anni fa Lana Del Rey aveva cancellato all'ultimo momento il concerto previsto a Tel Aviv. Allora la scusa erano stati i cinquantuno giorni di guerra tra Israele e Hamas, la paura che le sirene antimissile risuonassero durante il suo spettacolo. Questa volta la cantante americana ha dato ascolto alle sirene che l'hanno supplicata di annullare la partecipazione al festival musicale organizzato da un kibbutz in Galilea, dove avrebbe dovuto esibirsi il 7 settembre.
   Anche se assicura che la decisione non è politica - «verrò quando potrò salire sul palco sia in Israele sia in Palestina» - ha finito con il dare ascolto ai propagandisti del movimento BDS (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni). Roger Waters da ex bassista dei Pink Floyd è tra i volti più celebri della campagna internazionale contro lo Stato ebraico e ha lanciato un appello a Lana Del Rey attraverso Facebook. Le sue pressioni e quelle dei gruppi pro-palestinesi in passato hanno convinto a cassare gli show anche Lorde, Elvis Costello, Natalie Imbroglia, Gil Scott-Heron. Spesso la giustificazione fornita è tecnica, a volte le date annunciate e sparite sono il risultato di incomprensioni, pochi sfruttano l'incidente per dichiarazioni politiche. In ogni caso il movimento BDS dichiara vittoria.
   Quello che irrita di più i fan israeliani sono le esitazioni. O come l'ha messa John Lydon in stile Sex Pistols prima di un concerto a Tel Aviv: «Promettere lo spettacolo e poi scappare è disgustoso. Israeliani vi amiamo, quanto al vostro governo che vada ... ». Come lui altre star non hanno mai fatto marcia indietro - malgrado gli avvertimenti, le petizioni e per qualcuno le minacce di morte: tra gli altri Paul McCartney, Madonna, i Rolling Stones, i Radiohead, Elton John, Rihanna, Britney Spears, Justin Bieber, i Depeche Mode, i Chainsmokers.

(Corriere della Sera, 2 settembre 2018)


Corbyn, l'antisemitismo e il "suggeritore"

Gran Bretagna Field, storico deputato. lascia il Labour e attacca il leader. Il ruolo dello spin doctor

di Andrea Valdambrini

Se Theresa May di problemi ne ha in abbondanza, a cominciare dalla Brexit, anche sul fronte dell'opposizione del Regno le acque sembrano tutt'altro che tranquille.
   Frank Field, deputato laburista di lungo corso, ha lasciato il Partito - ma non il seggio parlamentare - lanciando un pesante atto d'accusa: il Labour di Corbyn è diventato. "una forza favorevole all'antisemitismo nella cultura politica britannica", ha scritto nella sua lettera d'addio.
   Eletto in un collegio di Liverpool, Field è a Westminster da 40 anni: tra i più anziani in servizio. Qualcuno nel suo partito ha provato a depotenziare le dimissioni parlando di problemi con gli elettori del suo collegio, che non hanno gradito il fatto che il loro deputato su Brexit ha votato con il governo conservatore. "Una scusa per andarsene", dicono i corbyniani. Eppure, il problema rimane. Che Jeremy Corbyn avesse una posizione filo-palestinese e critica verso Israele, è noto. Da settimane però il leader laburista è al centro di pesanti accuse, riferite ad episodi disseminati lungo il suo percorso politico, riportati ora alla luce dai media.
   La settimana scorsa il Daily Mail ha ripescato un video del 2013 in cui Jeremy il Rosso accusava il gruppo dei Sionisti britannici di "mancare del senso dell'ironia inglese", provocando la reazione indignata dell'ex rabbino capo Lord Sachs.
   Se in questo caso più recente Corbyn se l'è cavata precisando che antisionismo e antisemitismo non sono equivalenti, più complicato giustificare la sua presenza a Tunisi nel 2014, alla cerimonia in onore degli assassini della strage di Monaco '72, quando furono rapiti e uccisi undici atleti israeliani da parte di un commando palestinese.
   Grande imbarazzo anche per l'articolo apparso ad inizio agosto sul quotidiano The Times, in cui si ricorda un evento da lui stesso organizzato nel2010 nel corso del quale un sopravvissuto alla Shoah paragonò Israele al nazismo. In questo contesto, in cui sono maturate le dimissioni di Field, qualcuno punta il dito contro Seumas Milne, spin doctor del leader laburista. È il quotidiano Times of Israel ad affrontare la questione, descrivendo Milne come un motore (neanche troppo) occulto di pulsioni antisemite.
   Contro di lui, ex editorialista del Guardian, vengono messe in fila numerose circostanze, ricostruite attraverso le testimonianze di chi negli anni lo ha conosciuto. Studente a Oxford con simpatie maoiste, da giovane trascorre un anno sabbatico in Libano, dove si avvicina alla causa palestinese. Che non abbandonerà mai, fondendola presto con una netta avversione nei confronti della politica Usa in Medio Oriente.Per lui, ricostruisce il quotidiano di Gerusalemme, la Russia di Putin ha diritto di aggredire la Crimea, mentre a Tel A eviv è vietato difendersi dalle aggressioni dei palestinesi nei Territori occupati.
   "L'ho sempre considerato più un propagandista che un giornalista", sussurra un ex collega del Guardian. "È un radical-chic per cui tutti coloro che si oppongono alla potenza Usa meritano di essere sostenuti", chiosa Dave Rich, autore della monografia La questione ebraica della sinistra: Corbyn e l'antisemitismo.
   A Westminster, però, c'è più prosa che ideologia. In molti si chiedono se l'uscita di Field e le difficoltà di Corbyn non preludano al ritorno in grande stile nel Labour dei fedeli di Tony Blair nella campagna d'autunno

(il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2018)


Quando la patria uccide, il Meis ricorda gli ebrei altoatesini

Sabine Mayr e Joachim Innerhofer presentano le storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige

Una foto scattata il 13 aprile 1926, all'Hotel Bellaria di Merano, in occasione del matrimonio di Sara Gans e Josef Bermann, ultimo Presidente della Comunità ebraica meranese prima della Shoah
Una pagina importante e dolorosa dell'ebraismo e della Shoah italiani è stata scritta in Alto Adige, nella città di Merano, la cui eredità ebraica si lega ai nomi di Sigmund Freud, Stefan Zweig e Franz Kafka, che in questa terra hanno soggiornato, al pari delle famiglie Rothschild e Weizmann.
  Il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah fa luce sulla vicenda degli ebrei altoatesini martedì 4 settembre, alle ore 17, ospitando nel proprio bookshop (via Piangipane 81, Ferrara - ingresso gratuito) la presentazione del libro "Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige" (Edizione Raetia, Bolzano 2016) da parte degli autori Sabine Mayr e Joachim Innerhofer.
  A influenzare con il proprio operato la vita sociale ed economica del Sudtirolo sono state soprattutto figure come il rabbino Aron Tänzer di Bratislava, i medici Raphael Hausmann di Breslavia e Alfred Lustig dall'Ungheria, il filosofo Moritz Lazarus, i banchieri Ernst e Arnold Schwarz, Friedrich Stransky e i fratelli Biedermann, i commercianti Moritz e Hermann Götz di Trebíc, i ristoratori e albergatori Kasher Josef e Leopold Bermann, il batteriologo Wolfgang Gronich dalla Bucovina e le scrittrici femministe Clara Schreiber e Nahida Lazarus. Mentre la variante clericale tirolese dell'aggressivo antisemitismo politico di Vienna cresceva rapidamente già dal 1870, gli ebrei meranesi erano molto attivi, convinti del liberalismo democratico, e si impegnavano per la società.
  Nel 1938 erano circa milleduecento. Consultando archivi locali, nazionali e internazionali, Mayr e Innerhofer hanno rintracciato una moltitudine di imprenditori, negozianti, avvocati, artisti, attori, artigiani, fotografi e musicisti oggi dimenticati, che a partire dal 1938 furono derubati delle loro proprietà e costretti alla fuga. "Quando la patria uccide" ripercorre le loro vite e la sofferenza di tante famiglie, l'odio cristiano, le diffamazioni e la violenza, gli oltraggi e le privazioni, l'espropriazione e l'assassinio di circa centocinquanta ebrei. Come avvenne in Germania e in Austria, la maggior parte degli "ariani" italiani e sudtirolesi approfittò della condizione dei perseguitati, che a Merano subirono enormi perdite immobiliari: oltre venti ville furono vendute a prezzi irrisori e mai restituite.
  Nel settembre 1943, il Sanatorio ebraico di Merano fu trasformato in una stazione di disinfezione. Il 16 settembre vennero arrestate venticinque persone, con l'attiva collaborazione della popolazione locale, delle SS, degli appartenenti al Südtiroler Ordnungsdienst (un'organizzazione ausiliaria para-poliziesca), del SD (Sicherheitsdienst, il servizio segreto delle SS) e della Gestapo, sotto la direzione degli ufficiali Heinz Andergassen, Alfons Niederwieser e Alois Schintlholzer. La sera di quello stesso giorno, gli ultimi ebrei meranesi furono deportati nel campo di rieducazione al lavoro di Reichenau, a Innsbruck, e solo uno di loro sopravvisse.
  Dopo il 1945 a molti degli ebrei superstiti fu negato il risarcimento dei danni materiali e il ricordo delle vittime venne rimosso. Una cancellazione cui "Quando la patria uccide" oppone ora la ricostruzione delle molteplici forme nelle quali l'antisemitismo si manifestò in Sudtirolo, dei nomi dei colpevoli, delle sofferenze delle tante vittime della Shoah e del loro contributo alla medicina, all'economia, alle infrastrutture, alla cultura, al turismo, al giornalismo e alla vita sociale.
  Come spiegheranno al pubblico gli autori, la stesura del libro è stata resa possibile grazie alla collaborazione delle famiglie ebraiche dei sopravvissuti, alle quindici testimonianze dirette raccolte - tra gli altri, Aziadé Gabai, Lola Polacco, Roberto Furcht, Cesare Finzi, Fritz Singer, Leopold Bermann, Emanuele Neiger, Eva-Maria Ranke, Michael Breuer e Sofie Goetz - e alle voci dei discendenti delle vittime, che oggi vivono in Italia, in Israele, in Inghilterra e negli Stati Uniti.
  A introdurre la presentazione, Simonetta Della Seta, direttore del Meis, con la partecipazione di Cesare Finzi, nato a Ferrara nel 1930, figlio del commerciante Enzo Finzi e della mantovana Nella Rimini. Cesare Finzi è stato primario cardiologo all'ospedale di Faenza. Dopo aver saputo del tragico destino degli zii e dei cugini Carpi di Bolzano, nel settembre 1943 fugge da Ferrara con lo pseudonimo di Cesare Franzi e riesce a mettersi in salvo. Ha scritto i libri "Il giorno che cambiò la mia vita" (2009) e "Qualcuno si è salvato" (2006), e da anni racconta la sua storia agli studenti nelle scuole.
  Presenti anche Bruno Laufer - figlio del commerciante Oskar Laufer, è nato a Vienna nel 1937. L'anno successivo, la sua famiglia scappa a Merano e nel luglio del 1939 deve abbandonare la provincia di Bolzano. Bruno sopravvive nascondendosi in casa di contadini italiani - e Lydia Cevidalli, violinista e figlia di Aziadé Gabai, nasce a Merano nel 1924. Suo nonno era il noto commerciante di oggetti antichi e tappeti Suleiman Gabai, che all'inizio degli anni Venti si era trasferito col padre Sabetai da Monaco a Merano, dove comprò Villa Dilber.
  Maria Luisa Crosina, laureata a Padova in Lettere e Filosofia, presta la sua opera quale libera ricercatrice, consulente storica, paleografa, saggista e traduttrice, e collabora con importanti istituzioni ed enti italiani ed esteri. Ha scritto numerose pubblicazioni su temi legati all'ebraismo e alla storia dell'Alto Garda. Con il suo libro "Le storie ritrovate. Ebrei nella provincia di Trento 1938-1945" ha prestato un contributo fondamentale alla memoria degli ebrei del Trentino.
  Gli autori: Sabine Mayr ha studiato all'Università di Vienna e ha lavorato per l'Osce. Ha pubblicato la biografia "Die Sternfelds", in collaborazione con Albert Sternfeld, e altri libri sul rapporto dell'Austria con il proprio passato e con Israele. Joachim Innerhofer ha studiato all'Università di Innsbruck, è stato per molti anni redattore del quotidiano "Südtiroler Tageszeitung" e oggi dirige il Museo ebraico a Merano. È membro della Comunità ebraica di Merano.

(estense.com, 1 settembre 2018)


Anteprima di 900fest "Tra Klezmer e Anima Ebraica" con il duo Gurfinkel

 
Il Duo Gurfinkel
Giovedì 6 settembre, per il programma estivo dell'Emilia Romagna Festival, presso il Chiostro dei Musei di San Domenico a Forlì andrà in scena "Tra Klezmer e Anima Ebraica", uno spettacolo musicale ispirato dall'identità ebraica, eseguito dal Duo Gurfinkel, formato dai gemelli clarinettisti Daniel e Alexander Gurfinkel, e da Elisaveta Blumina al pianoforte. Il concerto in programma come anteprima del 900fest 2018, sarà introdotto dall'intervento dello storico Michele Sarfatti, dal titolo "Ottanta anni fa, le prime leggi antiebraiche", in programma presso Palazzo Romagnoli (Via Albicini,12) alle ore 16.
   Nel 1938 in Italia furono emanata le leggi antiebraiche. Da allora sono passati 80 anni. Il recupero della Storia, di ciò che nella Storia è andato perduto, quando la Storia sembra ormai sepolta, è un tratto tipico del 900fest - il festival forlivese che da anni propone una rilettura degli eventi che ci hanno formato. Quest'anno, in collaborazione con l'Emilia Romagna Festival per la giornata del 6 settembre, oltre alla Storia si intende recuperare la cultura, quella cultura che ha rischiato di andare perduta per sempre e che ora risuona come l'eco di un tempo antico. A volte la memoria affiora come un relitto. Quel relitto, come un'antica terra da riscoprire, quest'anno è "Tra Kelzmer e Anima Ebraica", il concerto presentato dal Duo Gurfinkel e da Elisaveta Blumina, con una scelta di brani insieme colti e popolari, accomunati dalla stessa antichissima sonorità.
   Il Duo Gurfinkel, composto dai gemelli clarinettisti Daniel e Alexander Gurfinkel, sembra uscito da una favola ebraica. Provenienti da una famiglia di clarinettisti, i Gurfinkel possono vantarsi di avere nel sangue la stessa tradizione che intendono recuperare: il nonno, infatti, era un famoso insegnante e arrangiatore, e il padre, Michael Gurfinkel, è primo clarinetto della Israel Symphony Orchestra e della Israeli Opera ed è uno dei principali clarinettisti in Israele e all'estero. I gemelli non sono da meno: nati nel 1992, hanno iniziato la loro educazione musicale nel 2000 e già all'età di 12 anni sono stati invitati da Zubin Mehta ad apparire come solisti nel concerto annuale per giovani musicisti con la Israel Philharmonic Orchestra. Nelle ultime stagioni, il Duo Gurfinkel è stato nuovamente impegnato con Mehta e la Israel Philharmonic e si è esibito all'estero andando in tournée in Francia con l'Orchestre National des Pays de la Loire, esibendosi inoltre con i Virtuosi di Mosca, con l'Orchestra Sinfonica Israeliana Rishon Le Zion, con l'Orchestra da Camera Mozartiana di Roma in Vaticano, con la Georgian National Symphony Orchestra e la Brandenburg Symphonics. Nel novembre 2016, il duo ha vinto il II premio al XVIII Concorso Internazionale di Musica da Camera "Concorso Fiorindo" di Nichelino.
   Ingresso libero.

(Forlì Today, 1 settembre 2018)


Domenica a Fiume la Giornata del patrimonio ebraico

di Virna Baraba

Una delle opere di Laura Fonovich esposte alla sinagoga fiumana (foto: Rina Brumini)

Domenica 2 settembre, nella sinagoga a Fiume, si terra' la Giornata del patrimonio ebraico. La manifestazione, che iniziera' alle 17.30, e' patrocinata dalla Citta' di Fiume e dalla Contea litoraneo-montana.
  La Giornata del patrimonio ebraico viene promossa in collaborazione con l'associazione Amici di Israele di Gorizia.
  Coordinatrice del progetto e' Rina Brumini. Si avra' l'esibizione del cantante David Danijel, la degustazione di cibi della tradizione ebraica e vini kasher e la presentazione del libro di Rina Brumini Židovska zajednica u Rijeci (La comunita' ebraica a Fiume).
  Sempre domani alla sinagoga fiumana inaugurazione della mostra dal titolo Esilio della luce dell'artista milanese di origini istriane Laura Fonovich. Si potranno ammirare 14 opere realizzate con una tecnica davvero particolare che unisce pittura, fotografia e scultura.
  Rina Brumini ci ha presentato i vari contenuti della Giornata del patrimonio ebraico mentre Laura Fonovich si sofferma sulla tecnica da lei usata per la realizzazione delle opere che si potranno ammirare anche a Fiume a partire da domani. Ci ha parlato pure delle sue origini istriane.
  Rina Brumini presenta la Giornata del patrimonio ebraico:
Laura Bruni



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(Radio Rijeka, 1 settembre 2018)


Difesa personale israeliana, boom di iscritti in Campania ai corsi di Krav Maga

Decine di nuovi allievi in Campania per i corsi di Krav Maga (difesa personale israeliana) del Pro Combat Institute.

di Emanuela Sorrentino

Il Krav Maga è un metodo israeliano concepito per aumentare le probabilità di sopravvivenza in caso di aggressione, basato su movimenti semplici e istintivi, ed è proprio la sua grande efficacia e velocità di apprendimento ad aver catturato l'attenzione dell'utenza, visto che il tema della sicurezza è sempre più sentito.
La scuola, operativa ormai da oltre un decennio in Campania nell'ambito della difesa personale, in seguito alla crescente richiesta di maggiore sicurezza da parte non solo di membri delle forze dell'ordine, ma anche di comuni cittadini ha visto aumentare il numero di iscrizioni. «Non ci aspettavamo il riscontro di questi ultimi anni - spiega Vincenzo Gaudino, capo istruttore della Pro Combat -. In fondo il Krav Maga è un metodo che nasce per esigenze professionali, invece sono sempre di più le persone comuni che a Napoli si avvicinano ai nostri corsi».

(Il Mattino, 1 settembre 2018)


Iran, nuova sfida: "missili balistici schierati in Iraq"

Segno dell'inasprimento della tensione nell'area in un'atmosfera già tesa nei rapporti tra Washington e Teheran dopo il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare

L'Iran ha fornito a milizie irachene sue alleate missili balistici a corto raggio in grado di colpire Israele e l'Arabia Saudita. È quanto emerge da un'approfondita inchiesta della Reuters, basata su una serie di interviste con alti esponenti degli apparati militari e di intelligence dell'Iran, dell'Iraq e di Paesi occidentali. In questo modo, oltre che dalla Siria e dallo Yemen, anche dall'Iraq l'Iran può minacciare direttamente con missili balistici Israele e Arabia Saudita, suoi nemici e alleati strategici degli Stati Uniti. Segno dell'inasprimento della tensione nell'area in un'atmosfera già tesa nei rapporti tra Washington e Teheran dopo il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo sul nucleare.
  Secondo quanto riporta Reuters, la decisione di stabilire degli avamposti missilistici nel vicino Iraq era stata presa più di un anno fa. Si pensava, in principio, di aprire delle fabbriche missilistiche o di riattivarne alcune risalenti all'epoca di Saddam e di affidare la produzione ai miliziani sciiti iracheni, sostenuti da Teheran ufficialmente per combattere il "terrorismo dello Stato islamico". Poi, i pasdaran hanno deciso di fornire alcuni missili - Zelzal, Zolfaqar, Fateh-110 - con raggi variabili, da 200 a 700 chilometri, capaci di colpire Tel Aviv e Riad. Oltre alla fornitura, però, l'Iran ne ha avviato anche la produzione in loco e, precisamente, in tre siti diversi: a Zaafaraniya, a est di Baghdad; vicino Karbala, la città santa sciita nel sud del paese; e nel Kurdistan iracheno, probabilmente nella regione di Sulaymaniya, dominata dal clan dei Talabani da decenni protetti dall'Iran.

 Tensioni e schieramenti
  Secondo la Repubblica islamica, sono Israele, l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti che la minacciano e non il contrario. Nei mesi scorsi, i raid attribuiti a Israele nella guerra in Siria si sono intensificati. Da anni, inoltre, gli Stati Uniti mantengono un contingente militare sia in Iraq che nella Siria orientale, proprio al confine con i territori iracheni. Sempre in Siria, invece, i pasdaran iraniani sono presenti in forze e coordinano una serie di milizie siriane, irachene e afghane. L'Iran poi sostiene direttamente gli Hezbollah libanesi anti-israeliani e diverse milizie sciite irachene.

 Yemen
  In Yemen, l'insurrezione degli Huthi contrastata dall'Arabia Saudita trova l'appoggio dell'Iran, tanto che la Repubblica islamica è stata accusata più volte dagli Stati Uniti e dai suoi alleati di inviare armi al gruppo sciita. Da mesi gli Huthi lanciano periodicamente missili balistici contro obiettivi anche civili in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e in altre aree dello Yemen.

(TGCOM24, 31 agosto 2018)


Israele e l'Arabia nel mirino dell'Iran. Teheran sposta i missili in Siria e Iraq

Riattivata una vecchia base dei tempi di Saddam vicino a Baghdad. I centri sotto il controllo delle milizie Pasdaran. Per i servizi segreti di Gerusalemme gli impianti saranno adattati e resi operativi entro l'inizio del 2019

di Giordano Stabile

Alcuni degli ordigni si possono assemblare sul posto e montare su rampe mobili Una delle installazioni è vicina a una base russa protetta dal sistema S-400

L' Iran sposta missili in Siria e Iraq e mette nel mirino Tel Aviv e Riad. È la risposta dei Pasdaran alle tensioni con gli Stati Uniti e Israele. Il loro comandante, Mohammad Ali Jafari, l'aveva detto: «Se ci colpiscono, noi colpiremo le loro basi e i loro alleati». Per farlo i Guardiani della rivoluzione vogliono trasformare i due Paesi arabi vicini in basi avanzate. E seguono il modello Hezbollah, la milizia sciita libanese che con il suo leader Hassan Nasrallah si è vantata di poter bombardare con razzi e missili «per un mese" Israele.

 L'lntelligence
  I'Intelligence israeliana segue le mosse dell'avversario. Ieri ha fatto filtrare ai media locali le ultime, preoccupanti scoperte, confermate anche da «due fonti dei servizi iracheni». Teheran ha trasferito missili a corto e medio raggio alle milizie alleate irachene. I missili sono del tipo Zelzal, Fateh-110 e Zofaqar, con un raggio d'azione fra i 200 e i 700 chilometri. Sono stati piazzati nella cittadina di Al-Zafaraniya, a Est di Baghdad, e Jurf al-Sakhar, a Nord di Kerbala. Sono in grado di colpire gran parte del territorio dello Stato ebraico e dell'Arabia Saudita.
  Sono zone sotto il controllo delle milizie sciite irachene, in particolare la Kataeb Hezbollah, quella più legata ai Pasdaran e al comandante delle loro forze speciali Qassem Soleimani. Fonti di intelligence occidentali sostengono anche che alcuni miliziani sono stati addestrati a operare il lancio dei missili. In particolare la località Al-Zafaraniya è stata scelta perché è presente una vecchia fabbrica di missili dei tempi di Saddam Hussein, riattivata dagli sciiti nel 2016 con l'assistenza iraniana. Gli ordigni quindi possono essere anche assemblati sul posto. Un ufficiale iraniano ha confermato: «È un piano di riserva, ci sono soltanto due dozzine di missili, ma l'arsenale può essere aumentato se necessario».
  Il governo iracheno non ha commentato. Il paradosso è che trent'anni fa era il programma missilistico e nucleare di Saddam Hussein a preoccupare Israele, tanto da fornire armamenti e pezzi di ricambio a Teheran durante la guerra Iran-Iraq. Ora la minaccia sono i missili degli ayatollah, e Baghdad, dopo la cacciata del raiss, è diventato uno Stato sempre più vicino agli iraniani. L'lntelligence occidentale ha notato negli ultimi mesi l'arrivo anche di rampe di lancio, mentre gli occhi dei satelliti israeliani hanno registrato movimenti simili nella vicina Siria.

 Le foto satellitari
  Le immagini di ImageSat International (Isi) mostrano attività nell'area di Wadi Jahannam, fra le province di Hama e di Lattakia. La costruzione di nuovi edifici e hangar fanno pensare alla dislocazione di missili terra- terra, in grado di colpire Israele. Le installazioni sono molto simili a quelle nella basi missilistiche di Parchin e Khojier in Iran. Il sospetto è che siano le stesse unità delle forze aerospaziali dei Pasdaran a gestire la base, che si trova vicino a una installazione russa con missili anti-aerei S-400 e a un centro di ricerche militare, già colpito dai raid israeliani, quello di Masyaf. La prossimità delle difese russe rende però più difficile un eventuale nuovo attacco. Per l'Intelligence israeliana la base sarà completata entro l'inizio del 2019 . Visti i precedenti, è probabile un blitz prima di allora per renderla inutilizzabile.

(La Stampa, 1 settembre 2018)


Israele: e se criticassimo la politica di Netanyahu verso l'Iran?

Da quando è in carica il Premier israeliano Netanyahu è sempre stato giudicato un "falco" dai suoi oppositori. Purtroppo credo che nulla della politica di Netanyahu verso l'Iran dimostri che sia un falco e forse è arrivato il momento che lo diventi veramente.

Il falco Netanyahu… è questo che si dice del Primo Ministro di Israele nei gruppi che si oppongono allo Stato Ebraico o anche solo allo stesso Premier israeliano, che sia un falco. Beh, io non so cosa intendono gli oppositori di Netanyahu con la parola "falco", so che con l'Iran (ma anche con Hamas) lo avrei voluto vedere più falco e meno colomba.
Ho sempre difeso la politica di Netanyahu, lo avrei fatto comunque per qualsiasi premier israeliano. L'ho difeso persino quando andava a Mosca a chiedere il permesso di fare qualche raid in Siria contro le basi iraniane e di Hezbollah, anche se quelli bravi lo chiamano "coordinamento". Ma per come si sono messe le cose con l'Iran (a anche con Hamas) temo che qualcosa nella strategia del Premier israeliano non abbia funzionato proprio a puntino....

(Rights Reporters, 1 settembre 2018)


Giaffa, la Chelsea
Distretto di Londra, situato nel Royal Borough of Kensington and Chelsea. Al centro del quartiere passa la King's Road, fulcro della moda mondiale negli anni Sessanta
israeliana

Il baricentro creativo di Tel Aviv migra sempre più a sud: preme su quella parte di Giaffa non ancora mainstream e scommette su un pubblico consapevole. Nel cuore di un'area industriale in fase di transizione, tra una fabbrica di chiusure lampo e un laboratorio di falegnameria, alle spalle dello stadio di calcio, Gordon Gallery ha aperto il terzo spazio cittadino dedicato all'arte contemporanea.
La galleria - 165 mq di un ex magazzino abbandonato - concilia la presenza e il rumore dei capannoni industriali con il silenzio e le esigenze di artisti e collezionisti. Nella via parallela ha traslocato, dal ben più centrale viale Rothschild, la galleria Alon Segev con il suo portfolio di artisti contemporanei affermati. Dall'algida Stoccolrna, Robert Weil e David Neuman hanno puntato la Iocation perfetta per lo spazio satellite Magasin III Jaffa, tra le attività commerciali del quartiere arabo. I 180 mq di un edificio centenario sono stati riprogettati per offrire una fruizione dello spazio, pure dall'esterno, a ogni ora del giorno e della notte.

(la Repubblica, 1 settembre 2018)


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