Notizie su Israele 8 - 8 maggio 2001


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L'ANTISEMITA ASSAD E L'ECUMENICO PAPA


Il presidente siriano Bashar Assad ha rilanciato a chiare lettere, davanti a tutto il mondo, l'accusa di "deicidio": uno dei piu' antichi e micidiali slogan dell'antisemitismo religioso, per secoli causa di innumerevoli persecuzioni e sofferenze ai danni del popolo ebraico in tutto il mondo cristiano.
"Gli israeliani hanno cercato di uccidere i principi di tutte le religioni con lo stessa mentalita' con cui hanno tradito Gesu' Cristo e nello stesso modo in cui hanno cercato di tradire e uccidere il profeta Maometto". Queste le parole pronunciate da Assad sabato a Damasco, al cospetto di papa Giovanni Paolo II in visita in Siria.
"Speravamo che dopo la Shoa' (genocidio nazista) affermazioni di questo genere fossero una cosa del passato - ha commentato domenica il vice ministro degli esteri israeliano, rabbino Michael Melchior - Tutti i leader del mondo civile dovrebbero condannare queste parole".
Melchior ha chiesto alla Chiesa cattolica di respingere "con repulsione" le affermazioni del presidente siriano. Ma il portavoce del papa Joaquin Navarro-Valls ha detto ai giornalisti che "il papa non interverra' in alcun modo: siamo ospiti del presidente ed egli ha espresso la propria opinione".

(Jerusalem Post, 6.05.01)


SAPEVATE CHE ...


... secondo un'inchiesta dell'"Economist Intelligence Unit",  gli Israeliani sono, quanto a salute, la seconda nazione al mondo dopo la Svezia?

... i Palestinesi dei territori dell'Autonomia quando alzano la loro bandiera gridano: "Oggi Gaza e Gerico - domani Gerusalemme"?

... gli Ebrei riconoscono nell'Antico Testamento due Messia (cfr. Zac. 9 e Dan. 7): il primo, il "Messia Ben Josef", è per i non Ebrei, e i secondo,il "Messia Ben David", verrà alla fine dei tempi soltanto per gli Ebrei?

(NAI - Nachrichten aus Israel)



LO SCONCERTO DEI PACIFISTI ISRAELIANI


Alla fine dello scorso luglio, dopo il fallimento del vertice di Camp David, assistendo amareggiato al trionfale rientro a Gaza di Arafat osannato come il "nuovo Saladino palestinese", l'autore israeliano Amos Oz scriveva parole che oggi suonano quasi profetiche: "Barak e' andato a Camp David per offrire la soluzione che io preconizzavo oltre trent'anni orsono: due Stati uno vicino all'altro, con una medesima capitale divisa in due, il riconoscimento reciproco e la mutua accettazione. Eppure i palestinesi hanno detto no. Insistono per il 'diritto al ritorno', quando ben sappiamo tutti che dalle nostre parti 'diritto al ritorno' e' un'antica formula araba in codice volta a predicare la liquidazione di Israele. Ma se vogliono avere anche Israele sappiano che mi troveranno dalla parte dei loro nemici. Io, vecchio pacifista con il cuore infranto, saliro' sulle barricate a combattere per la sopravvivenza del mio Stato ebraico. Per Arafat - concludeva Amos Oz - e' giunto il momento di decidere se mira a passare alla storia come un Che Guevara o un Nelson Mandela, comunque non puo' essere entrambi" (Corriere della Sera, 27.07.00). Esattamente due mesi dopo scoppiava la sanguinosa campagna palestinese di violenze, attacchi e attentati che dura tuttora. Una campagna che, oltre a mietere centinaia di vite umane, ha infranto molte speranze e molte convinzioni.
Negli ultimi dieci anni, nonostante terrorismo e battute d'arresto, sempre piu' israeliani si erano convinti che il processo negoziale avviato a Madrid (1991) e a Oslo (1993) avrebbe infine portato alla nascita di uno stato palestinese a fianco di Israele e a qualche onesta soluzione concordata per la gestione dei Luoghi Santi e il risarcimento delle sofferenze dei profughi. Oggi non ci crede quasi piu' nessuno. "Il processo di Oslo - riflette il politologo Shlomo Avineri dell'Universita' di Gerusalemme, da tempo schierato per il processo di pace - si fondava su un preciso presupposto: che la chiave per porre fine al conflitto fosse la fine del controllo israeliano sui territori occupati con la guerra dei sei giorni del 1967 e il riconoscimento dell'autodeterminazione per il popolo palestinese accanto a Israele. Questa ipotesi di fondo e' andata in pezzi negli ultimi sei mesi. Oggi e' chiaro che, sebbene l'occupazione del 1967 abbia contribuito ad acuire conflitto e inimicizia, essa non era e non e' la ragione vera del conflitto stesso. Le ragioni profonde del conflitto restano quelle che erano prima del 1967: il rifiuto ideologico da parte palestinese di accettare l'esistenza dello Stato di Israele". Quando i palestinesi pretendono il cosiddetto 'diritto al ritorno' dei profughi in Israele nella versione piu' estrema, quando negano spudoratamente i legami storici tra ebrei e Monte del Tempio, quando scrivono libri di testo scolastici che negano l'esistenza dello Stato di Israele, ragiona Avineri, "allora appare evidente che, dal punto di vita palestinese, la fine dell'occupazione dei territori iniziata nel 1967 non porra' fine al conflitto" (Ha'aretz, 21.03.01).
"Purtroppo le sorti del processo negoziale non dipendono da Israele - scrive un altro autorevole esponente del movimento pacifista israeliano, l'ex generale Shlomo Gazit - giacche' la persona che guida questo processo e che ne determina orientamenti e destino e' Arafat". E continua: "Ho appoggiato il processo di pace. Credevo e credo tuttora al concetto fondamentale di Oslo: riconoscimento reciproco e ricerca di una soluzione politica basata su due stati, fianco a fianco. Ma quel processo e' giunto a un bivio cruciale nel settembre 2000, quando Arafat ha lanciato la 'nuova intifada'. Oggi Arafat deve decidere: che messaggio intende inviare a Israele? Ha rinnegato gli accordi di Oslo e vuole tornare alla logica dello scontro come unica strada accettabile per i palestinesi?" (Jerusalem Post, 6.03.011).
Domande che restano senza risposta. Come trent'anni fa e come l'anno scorso nel Libano meridionale, Israele si trova nuovamente a dialogare solo con se stesso, a cercare da solo una via d'uscita dal momento che la controparte non sembra interessata a nessuna soluzione realistica e accettabile. "Israele deve portare avanti la logica di Oslo da solo, anche senza l'accordo dei palestinesi - insite Avineri - Deve prendere una serie di misure unilaterali per rimediare alle piu' grosse conseguenze della guerra del 1967, anche se questo non significa porre fine al conflitto, giacche' d'ora in poi sappiamo che l'occupazione del 1967 e' una cosa, e il conflitto in se' un'altra".
E' qui che sorge la tentazione di separare Israele dai territori palestinesi con una decisione unilaterale. "Sarebbe meglio arrivarci con un accordo - continua Avineri - ma l'impossibilita' di arrivare a un accordo non deve creare uno stallo su uno stato di cose intollerabile per entrambe le parti". "Oggi penso che Israele dovrebbe tracciare i propri confini, ritirarsi su di essi e, se necessario, difenderli", ha dichiarato Amos Oz alla Associated Press (1.04.01). Anche un altro strenuo sostenitore del processo di pace e leader dell'opposizione di sinistra come Yossi Sarid, dopo aver espresso il dubbio che Arafat "tenga piu' alla lotta armata che a uno stato palestinese", ha sostenuto che "Israele dovrebbe spostarsi su confini fissati in base alle necessita' della sicurezza". Ancora piu' esplicito Shlomo Gazit: "Quello che voglio e' una netta linea di separazione, chiusa ermeticamente" (Jerusalem Post, 1.04.01).
E' un'idea assai problematica, che solleva almeno tante incognite quante vorrebbe scioglierne: come dare continuita' territoriale ai palestinesi e confini difendibili a Israele? Che valore avrebbero questi confini sul piano del diritto internazionale? Sarebbe possibile chiudere del tutto questi confini agli scambi economici coi palestinesi? Tuttavia e' un'idea che sembra farsi strada: una sorta di opzione per il "meno peggio". Secondo un sondaggio pubblicato il 30 marzo da Yediot Ahront, il 74% degli ebrei israeliani sarebbe favorevole a una separazione unilaterale. "Sia strategicamente che moralmente - conclude Avineri - sarebbe il modo migliore per uscire dai guai attuali. Per certi versi torneremmo a una situazione simile a quella di prima del 1967, con la grande differenza che questa volta vi sarebbe dall'altra parte uno stato palestinese, accettato di fatto da Israele. In fondo, per Israele un Arafat presidente della Palestina e' meglio di un Arafat che un po' fa il capo di stato, un po' il guerrigliero e un po' il terrorista".

(NES, Notizie e stampa, n.4, anno 13)
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LIBRI


Lesly B. Flynn, "What the Church Owes the Jew", Magnus Press, USA 1998


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