Fa più impressione un rimprovero all’assennato,
che cento percosse allo stolto.
Proverbi 17:10  

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70 nazioni si ritrovano a Parigi per fare di Israele il grande imputato internazionale

Per Gerusalemme è "un nuovo processo Dreyfus"

di Giulio Meotti

Il loquace ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha invitato tutti gli ebrei di Francia a lasciare il paese europeo in segno di protesta contro la prossima conferenza di Parigi del 15 gennaio, dove i rappresentanti di settanta paesi si riuniranno per un "summit della pace" che Israele ha deciso di boicottare. "Forse è il momento di dire agli ebrei di Francia, 'questo non è il vostro paese, venite in Israele'", ha dichiarato Lieberman, il quale ha descritto la conferenza come un nuovo "processo Dreyfus" e "un tribunale contro lo stato di Israele": "Invece di un ebreo a essere sotto processo sarà l'intero popolo ebraico e lo stato di Israele". Shimon Samuels, a capo delle relazioni internazionali del Centro Wiesenthal, ha paragonato la conferenza di Parigi a quella di Monaco del 1938: "La conferenza si svolgerà in assenza del personaggio principale, Israele, come quella di Monaco fu organizzata in assenza della Cecoslovacchia".
  Il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha detto che la Francia è determinata a tenere la conferenza, nonostante il caos diplomatico seguito alla risoluzione con cui le Nazioni Unite hanno condannato Israele per la costruzione di insediamenti. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha avvertito che la comunità internazionale saprà come usare l'appuntamento di Parigi: "La conferenza è irrilevante, ma ci sono segnali che trasformeranno le decisioni prese in un'altra risoluzione del Consiglio di Sicurezza", ha detto ieri Netanyahu. Due giorni fa il presidente del Parlamento francese, Gérard Larcher, era a Gerusalemme per convincere gli israeliani a prendere parte alla conferenza. La prossima risoluzione potrebbe arrivare il 17 gennaio, tre giorni prima dell'insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump. "Gli strumenti che abbiamo oggi sono la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza, il discorso di Kerry e la conferenza di Parigi", ha fatto sapere un galvanizzato Husam Zumlot, consigliere del presidente palestinese Abu Mazen. A Parigi saranno offerti "incentivi" a israeliani e palestinesi per riprendere i negoziati. Svedesi, tedeschi e norvegesi saranno i protagonisti del summit e questo non lascia sperare niente di buono: Stoccolma e Oslo, infatti, sono le due capitali europee del risentimento antisraeliano. Israele teme che, dopo il Consiglio di sicurezza dell'Onu, anche il "Quartetto per il medio oriente", composto da Stati Uniti, Onu, Russia e Unione europea, possa adottare una mozione antisraeliana.
  Intanto il Consiglio dei diritti umani di Ginevra ha appena stanziato una cifra iniziale di 138.700 dollari per compilare una "lista nera" delle aziende che fanno affari con gli israeliani oltre le linee del 1967. La conferenza di Parigi si basa sulla "proposta di pace saudita", cioè l'impossibile ritiro di Israele sui confini del 1967, chiamati da Abba Eban "i confini di Auschwitz", la stretta fascia costiera che va da Hadera a Ashdod di appena dieci chilometri e su cui ha sempre pesato la minaccia di morte. La proposta saudita prevede anche il ritorno dei profughi, cioè la rinuncia al carattere ebraico dello stato. Il gran cerimoniere della conferenza di Parigi, il ministro degli Esteri Ayrault, non ha fatto mistero di avere una posizione antisraeliana, sostenendo che il conflitto con i palestinesi "alimenta le tensioni regionali e la propaganda dell'Isis". "Tra il 2002 e il 2014, la colonizzazione israeliana è esplosa", ha detto Ayrault, mentre Saeb Erekat, segretario generale dell'Olp, ha descritto la conferenza di Parigi nei seguenti termini: "Il mondo ha deciso di restituire alla Palestina il suo posto sulla mappa del mondo". Sì, al posto di Israele. E con il plauso delle democrazie. Come a Monaco.

(Il Foglio, 5 gennaio 2017)


La lezione di Israele: assassinare un terrorista è comunque omicidio

Il soldato ha sparato a un jihadita inerme. Il Paese sta con lui, ma il diritto non fa sconti

di Fiamma Nirenstein

Brutta aria
Il sergente, 19 enne, rischia 20 anni di carcere Le lacrime della famiglia
Un grosso problema
Governo e opposizione costernati. C'è chi chiede l'amnistia ad personam

 
Elor Azaria
 
Protesta per la condanna di Elor. Sul cartello: "Israele non abbandona il soldato sul campo di battaglia"    Video
C'è voluto un anno di scontri e di sofferenza morale, e adesso il sergente Elor Azaria, abbracciato in tribunale dalla sua mamma Oshra in lacrime, mentre il suo babbo disperato, il poliziotto Charlie, si mette le mani nei capelli e una folla disperata urla a sostegno di Elor «l'esercito è finito», è stato accusato di omicidio. Azaria ha 19 anni. Il ministro delle Difesa Yvette Lieberman come tanti altri politici dice di accettare a malincuore, ma di accogliere la decisione del tribunale. Ci vorrà un mese circa per arrivare alla inevitabile condanna che può arrivare fino a vent'anni; e fino ad allora sarà un corteo continuo, una marcia senza fine della parte più popolare di Israele; degli amici di Ramla, il paese povero in cui si trova la casa della famiglia Azaria; di uscite pubbliche dei tifosi della squadra Beitar Yerushalaim, la più radicale e strillona del Paese; e sarà il tempo delle prese di posizioni di politici di tutti i colori, strappati fra la necessità di onorare il corpo giudiziario, sempre venerato, del Paese, e invece la rabbia di vedere un soldato in estrema difficoltà condannato con un'accusa tanto pesante e, tuttavia, motivata punto per punto. Molti politici, compresa l'esponente della sinistra Shelly Yechimociv, chiedono che si proceda subito con un'amnistia ad personam, perché le colpe certo non sono tutte di Azaria, dicono, e «un soldato non può essere lasciato solo».
   La folla infuriata fuori del tribunale ha fatto capire quanto la rottura sia profonda, quanto sia difficile accogliere un codice morale così retto, così monumentale e costruito con tanta determinazione così da diventare l'unico testo di un esercito, l'Idf, a contenere il dovere di preservare al massimo la vita umana e la purezza delle armi, ovvero la moderazione nell'uso della forza.
   Con 97 pagine di sentenza la giudice Maya Heller a nome dei tre giudici che hanno votato all'unanimità il testo, ha respinto la linea di difesa di Azaria e l'ha accusato di omicidio. Il giovane di stanza a Hebron il 24 marzo dell'anno scorso era presente quando un terrorista si è gettato sui suoi compagni e ne ha ferito due con un accuminato coltello. Il terrorista poi è stato atterrato e ferito tanto da non essere in grado, secondo la giudice di compiere ulteriori atti di aggressione. Invece, secondo la difesa, il soldato ha sostenuto di aver pensato che il terrorista fosse ancora pericoloso e per questo gli ha sparato addosso. Di fatto il terrorista non era più in grado di colpire, e non era ancora morto, secondo i giudici. Azaria quindi, ha stabilito il tribunale, l'ha ucciso. Si capisce molto bene come la difesa del giovane abbia avuto successo: si basa nell'esperienza del pericolo senza fine, delle lunghe giornale di guerra dove in ogni angolo, si nasconde un rischio. Si nasconde nella rabbia profonda quando i compagni vengono uccisi; nella giovanissima età in cui si va per tre anni nell'esercito. Ti perseguita la memoria dei compagni che non ci sono più, i comandanti ti mettono mille volte in guardia dai pericoli e ti comandano di combattere cercando tuttavia di calmare ogni istinto aggressivo. Difficile, talvolta troppo difficile, soprattutto quando sei a Hebron, una città in cui i pochissimi ebrei rimati dopo lo sgombero (anche Hebron, come più del 90 per cento dei territori disputati è stata sgomberata) vivono in uno stato di assedio punteggiato di attacchi continui. Ma proprio martedì scorso il capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot ha detto: «Un soldato non è il bambino di tutti noi ( come ha detto il padre di Azaria, ndr), è un guerriero, un soldato, che deve dedicare la sua vita a portare avanti il compito che gli è stato affidato. Non deve esserci nessuna confusione su questo».
   E non ce n'è nel codice di comportamento: vi si scrive che «non tratterai mai le persone pensando al tuo beneficio, chiunque siano, ma sempre pensando alla loro essenza di persone». Ma è difficile farlo in questo Paese così perseguitato, che proprio oggi vede sorridere dalle pagine dei giornali la bellissima faccia del maggiore Hagay Ben Ari, comandante dei paracadutisti, morto a 31 anni in ospedale dopo due anni e mezzo di sofferenze dopo essere stato ferito a Gaza, dove combatteva per fare cessare la pioggia di missili sul suo Paese. Lo si ricorda come un eroe. Lascia la moglie e tre bambini.

(il Giornale, 5 gennaio 2017)


*


La lezione di Israele che condanna un suo soldato

di Riccardo Ghezzi

Elor Azaria, 20 anni, è un soldato dell'Idf, le forze di difesa israeliane. Un esercito tra i più efficienti al mondo, se non il più efficiente. Ma anche con regole d'ingaggio rigide e severe, indispensabili in uno scenario come quello israeliano in cui atteggiamenti e comportamenti dei militari si possono ripercuotere sulla sicurezza dei civili.
Eventuali errori dei soldati dovuti a qualche "testa calda" di troppo potrebbero mettere in serio rischio l'incolumità dei civili israeliani, ai danni dei quali potrebbero aumentare le aggressioni da parte dei palestinesi per qualche atteggiamento sopra le righe dei soldati dell'Idf.
Proprio per questo, gli israeliani in divisa sono sostanzialmente costretti a non sbagliare. Mai. A non farsi dominare dallo stress, dalla rabbia, nemmeno dalla paura. A non avere reazioni istintive o dovute alla delicatezza della situazione. In ogni frangente devono mantenere le calma e soprattutto eseguire gli ordini.
Elor Azaria non l'ha fatto. Ha sparato ad un palestinese a terra, ferito e ormai inoffensivo, sostanzialmente impossibilitato a muoversi. Un terrorista, che aveva apena aggredito degli altri soldati. Quel terrorista era stato ormai neutralizzato, c'era già un'ambulanza sul posto e la situazione era sotto controllo. Ma Elor Azaria ha preso la mira e ha sparato. L'ha freddato con un ultimo colpo. Un'esecuzione.
L'opinione pubblica israeliana si è divisa tra chi avrebbe voluto un'assoluzione del soldato perché, in fondo, ha ucciso un terrorista, e chi invece rimarca la differenza tra democrazia israeliana e paesi arabi, in cui invece i "martiri" assassini vengono premiati con vitalizi.
Qualcuno ha anche definito un eroe quel soldato, accusando Israele di aver abbandonato un proprio figlio. Non è stato così.
La condanna per omicidio colposo, già di per sé tenue rispetto alla dinamica dei fatti che lascerebbero pensare ad un omicidio volontario, è un segnale di Israele a tutti: non si cede all'opinione pubblica, lo stato di diritto israeliano non sarà sconfitto dalle continue aggressioni subite.
E i soldati che sbagliano pagano, anche per premiare i tanti che, nella stessa situazione, invece si comportano in modo irreprensibile.

(Sostenitori delle Forze dell’Ordine, 5 gennaio 2017)


Prima dell'addio, Obama sfascia la Casa Bianca

Fino al 20 gennaio Barack farà di tutto per disturbare il prossimo presidente. E gli consegnerà il proprio fallimento. Nobel della scorrettezza.

di Fausto Carioti

Condannato dagli elettori a lasciare il posto a Donald Trump, il Barack Obama di oggi è la versione oscura e rancorosa dell'uomo sorridente che otto anni fa divenne presidente degli Stati Uniti e subito, sulla fiducia che ispirava quel sorriso contagioso, si vide recapitato il Nobel per la Pace. Trascorre le sue ultime giornate alla Casa Bianca piazzando ovunque «roadblocks», provvedimenti varati d'urgenza e con procedure mai adottate prima che, come blocchi stradali, dovranno rallentare la partenza di Trump: la battuta che gira a Washington è che Obama ha lavorato più in queste settimane che in tutti gli anni passati. Tra i due, malgrado l'improbabile pettinatura, Trump riluce come maestro di stile e aplomb istituzionale. Riesce a reprimere la rabbia per i guai che l'altro gli combina e rassicura via Twitter elettori e Paesi amici: «Resistete, il 20 gennaio è vicino!».
   Il polemista conservatore Erick Ericsson scrive che «Obama e John Kerry», il responsabile della politica estera, «sono come inquilini che sfasciano la casa quando vengono sfrattati». Per il repubblicano Newt Gingrich «altre tre settimane così e chi sarà l'estremista? Trump o Obama?». Ma l'imbarazzo inizia a diventare evidente anche nei media vicini al partito democratico. II New York Times, che il 26 settembre aveva pubblicato un editoriale intitolato «Perché Donald Trump non deve essere presidente», nel quale del futuro vincitore diceva tutto il male che si può immaginare, adesso riconosce che Obama «sta usando ogni potere a disposizione per cementare la propria eredità e fissare le proprie priorità come legge delle leggi».
   E' lo stesso quotidiano della Grande Mela a fare l'elenco dei risultati prodotti fin qui dalla frenesia obamiana. 11 presidente uscente ha vietato le trivellazioni in vaste aree dell'Artico e dell'Atlantico, invocando «una oscura disposizione di una legge del 1953, che secondo lui gli dà l'autorità di agire unilateralmente». Veti imposti con una procedura mai usata prima da altri presidenti, che Trump non potrà rimuovere con altrettanta facilità.
   Dalle elezioni che hanno segnato la sconfitta di Hillary Clinton a oggi, Obama ha nominato 103 persone di propria fiducia negli alti livelli della pubblica amministrazione. Ha commutato la pena per 232 detenuti federali e ne ha graziati altri 78. Ieri ha incontrato i parlamentari democratici per stendere il piano di guerra con cui impedire che Trump possa cancellare (come ha promesso di fare) la Obamacare, la costosissima riforma sanitaria che per il presidente nato alle Hawaii rappresenta il culmine di otto anni di lavoro. Identico valore che sul fronte internazionale attribuisce all'accordo che ha autorizzato l'Iran a riprendere il progetto nucleare: altra intesa che potrebbe avere i giorni contad.
   Obama è quasi riuscito a fare perdere la pazienza in pubblico al successore quando ha annunciato il rilascio di altri detenuti dalla prigione di Guantanamo, almeno uno dei quali dovrà essere accolto in Italia, in base agli accordi presi con Matteo Renzi alla Casa Bianca. «Non devono esserci altre scarcerazioni da Gitmo. Sono persone estremamente pericolose e non devono tomare sul campo di battaglia», ha twittato un molto infastidito Trump. Senza risultato: sino al 20 gennaio comanda Obama e i suoi hanno subito fatto sapere che il programma di scarcerazioni va avanti.
   Lo sfizio della vendetta il presidente democratico se lo è tolto cacciando dagli Stati Uniti 35 diplomatici russi con le loro famiglie. Nella cupa paranoia che lo divora dall'8 novembre, Obama è davvero convinto che siano stati gli uomini di Vladimir Putin a decidere lo scontro tra Trump e la Clinton, ottenendo, grazie agli hacker del Cremlino, le mail della candidata democratica e girandole a Julian Assange, l'uomo dietro al sito Wikileaks, che poi le ha diffuse. Assange nega tutto, ma quel che più conta è che Obama, al momento di tirare fuori le prove definitive del coinvolgimento di Mosca, non ha mostrato nessuna pistola fumante, ma solo indizi deboli che semmai hanno instillato il dubbio in chi prima credeva nella colpa dei russi.
   L'altro grande pasticcio di politica estera lo ha combinato assieme a John Kerry, il suo segretario di Stato, consentendo - grazie alla clamorosa astensione del rappresentante di Washington - l'approvazione di una risoluzione delle Nazioni Unite che condanna gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Per sovrappiù, Kerry ha accusato Israele di avere « il governo più di destra della storia, la cui agenda è guidata dagli elementi più estremisti»: un discorso scomposto che è riuscito a fare irritare il primo ministro britannico Theresa May, la quale ha ricordato all'amministrazione Obama che il governo israeliano è figlio della democrazia.
   Se l'asse tra gli Stati Uniti e Israele non si rompe è solo perché il passaggio di consegne alla Casa Bianca è vicino. Trump assicura che tra pochi giorni la musica cambierà: «Non possiamo continuare a permettere che Israele sia trattato con totale disprezzo e mancanza di rispetto. Erano abituati ad avere un grande amico negli Stati Uniti...». L'idea di trasferire l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, cioè di riconoscere quest'ultima come capitale d'Israele, prendendo così parte nella storica disputa, non è nuova nella politica statunitense, ma se c'è uno che potrebbe mantenere la promessa fatta in campagna elettorale è proprio il presidente col ciuffo. Anche per questo il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, è uno dei tanti nel mondo che aspettano il 20 gennaio per festeggiare la liberazione da Obama.
   
(Libero, 5 gennaio 2017)



Parashà della settimana: Va-iggash (Si avvicinò)

Genesi 44:18-47:27

 - "Giuda si avvicinò (va-iggash) a Giuseppe e gli disse: «Permettimi, o signore, di dirti qualcosa senza che ti adiri contro il tuo servo»" (Gen. 44.18).
Questi due personaggi titanici si incontrano e si affrontano. Non si tratta solo dell'incontro tra due individui ma di due visioni diverse della storia del mondo. Giuda rappresenta la Redenzione che passa unicamente per la "santità" senza affrontare il male mentre Giuseppe ritiene che per arrivare alla Redenzione bisogna trasformare le forze del male verso il bene. La battaglia tra Giuda e Giuseppe viene descritta dal Midrasch come una lotta tra il leone e il toro animali possenti e simboli delle loro rispettive tribù. La regalità di Giuseppe rappresenta "il mondo materiale visibile" mentre la regalità di Giuda è quella del "mondo spirituale nascosto". La regalità di Giuseppe si esprime in Egitto (mitsraim) tra i limiti della natura, mentre quella di Giuda si esprime in terra d'Israele dove i limiti della materia vengono superati. Il conflitto tra i due fratelli cade nella lettura della Torah durante la festa di Hannukà dove le "otto luci" della menorah rappresentano queste due dimensioni. Le prime sette incarnano la materia mentre l'ottava luce rappresenta la spiritualità. Dall'unione di queste due dimensioni simboleggiate da Giuda e Giuseppe viene illuminata la notte dell'esilio con il ritorno del popolo ebraico nella Giudea-Samaria che sono rispettivamente le tribù di Giuda e di Giuseppe.
C'è ora da domandarsi: "Come mai tutte le Nazioni del mondo vogliono sradicare gli ebrei proprio dalla Giudea-Samaria?" Perché questa terra è la terra della promessa fatta da D-o ad Abramo quando da Ur Cassidim è arrivato in Shekem (Samaria) e quando in Hevron (Giudea) il padre del popolo ebraico per merito della circoncisione ha ricevuto da D-o il dono eterno della Terra d'Israele. Sono queste due tribù che faranno la storia del popolo ebraico e la "Bibbia" ne parla in modo chiaro ed inequivocabile.
Giuseppe si fa riconoscere ai suoi fratelli. "Egli alzò la voce in pianto e lo udirono gli Egiziani" Gen.45.2
Questi desiste dalla lotta perché ha capito che i suoi fratelli sono pronti al pentimento per riunire la famiglia. Tutto il libro della Genesi (Bereshit) non è altro che la ricerca della fraternità perduta dopo la morte di Abele e la vendita di Giuseppe, che è l'unico tra i grandi personaggi biblici che piange. Va notato che egli non piange durante i momenti difficili della sua vita, ma nei momenti di gioia insperata, dove le sue lacrime non possono essere trattenute. Piange quando ascolta i fratelli giunti in Egitto per comprare gli alimenti, che parlando in ebraico, si autoaccusano per aver peccato contro di lui.
"Giuseppe si tirò in disparte per non essere visto e pianse" (Gen. 42.24). Piange all'inizio di questa parashà dopo il commovente discorso di Giuda in favore di Beniamino. Piange sul collo del padre Giacobbe in Egitto e da ultimo quando apprende la richiesta di "perdono" da parte dei suoi fratelli per la loro colpa (Gen.50.15).
Le lacrime esprimono sentimenti genuini che lo stesso individuo non sa di possedere. Giuseppe durante la sua permanenza in Egitto credeva di aver dimenticato la sua famiglia e le sue tradizioni. Egli veste abiti egiziani, ha preso un nome egiziano (Tsafenat Paneah) sposa un'egiziana e a suo figlio dà il nome di Manasseh (che dimentica). Giuseppe dunque aveva sepolto ogni sentimento di attaccamento alla sua famiglia e avrebbe voluto punire i suoi fratelli per la loro crudeltà. Ma così non fu. Il pianto gli ha insegnato che nonostante le sue ragioni, egli non può recidere le radici con la sua famiglia. La vita di Giuseppe è simile a quella di molti ebrei che si sono allontanati dal loro popolo per ascoltare le "sirene" dell'assimilazione. Questi nostri ebrei alla fine comprenderanno che non si possono negare i sentimenti di appartenenza e ritorneranno alle loro origini, per recuperare la propria perduta identità.

Il Faraone e Giacobbe
L'incontro tra questi due uomini avviene in un clima di uguaglianza e di amicizia. Le parole del Faraone dirette a Giacobbe dimostrano la conoscenza che il re d'Egitto aveva nei confronti del patriarca. "Quanti sono gli anni della tua vita?" chiese il Faraone. La risposta di Giacobbe è piena di saggezza "Gli anni delle mie peregrinazioni sono centotrenta. Pochi e cattivi gli anni della mia vita" (Gen.47.8).
Con modestia Giacobbe distingue tra i giorni delle sue tribolazioni, delle sue prove e i giorni della sua vita in cui ha potuto realizzare i suoi progetti con l'aiuto di D-o. La sua missione era quella di fare il proprio dovere anche nella sventura per garantire un futuro alla sua famiglia (settanta anime scese in Egitto) da cui nascerà il popolo ebraico. F.C.

*

 - Abbiamo già detto che la storia d'Israele può essere vista come la politica di Dio, che naturalmente interferisce con quella degli uomini. La Torre di Babele, per esempio, era un progetto politico degli uomini; ma il Signore, che aveva la sua politica, li ha dispersi sulla faccia della terra e ha fatto nascere le nazioni. Dopo di che, per continuare a svolgere la sua politica in mezzo agli uomini Dio ha pensato di far nascere, si potrebbe proprio dire: "di mettere al mondo", la sua propria nazione: Israele.
Politica estera e politica interna di Dio s'intrecciano in modo davvero magistrale nella storia d'Israele. Dopo il concepimento avvenuto nel rapporto di Dio con i patriarchi, arriva il momento della gestazione, che deve servire a trasformare la tribù familiare in popolo. Entra in gioco allora la politica estera di Dio, il suo rapporto con la più grande potenza politica del momento: l'Egitto.
Giuseppe si trova in Egitto come conseguenza di una lotta fratricida dei figli di Lea contro i figli di Rachele, il che è una questione di politica interna; ma alla fine si ottiene che un membro della famiglia di Abramo diventa praticamente il padrone di tutto l'Egitto, e questo è un clamoroso risultato di politica estera.
Quando Giuseppe si fa riconoscere dai suoi fratelli ripete per ben tre volte, con insistenza: "Dio mi ha mandato davanti a voi" (Gen. 45:5,7,8). Perché? "Per conservarvi in vita", aggiunge Giuseppe. Questo è politica interna, perché è giusto che Dio si preoccupi di mantenere in vita il suo popolo. Ma non faceva prima, il Signore, a far cessare del tutto la carestia, o a provvedere in qualche modo miracoloso alla sopravvivenza della sua famiglia patriarcale senza che avvenisse quella serie di drammatici avvenimenti che per poco fanno morire di crepacuore il povero Giacobbe? E' una buona domanda. La risposta dovrà essere cercata indagando con attenzione "le vie di Dio" che, come ci viene detto nella Scrittura, non sono "le nostre vie" (Isaia 55:8).
Una prima risposta la dà Dio stesso quando appare in visione notturna a Giacobbe mentre si trova a Beer Sheba (Gen. 46:1-4). E' l'ultima volta che Dio appare a Giacobbe, e anche in questo caso mentre si trova in viaggio; a Giuseppe invece non è apparso mai. "Io sono Dio, il Dio di tuo padre. Non temere di scendere in Egitto", dice il Signore a Giacobbe. A Isacco invece nella precedente carestia Dio aveva detto "Non scendere in Egitto; dimora nel paese che io ti dirò" (Gen. 26:2). Adesso è giunto il momento stabilito e a Giacobbe Dio spiega il motivo per cui non deve esitare a scendere in Egitto: "perché là ti farò diventare una grande nazione". A Giuseppe Dio non aveva detto nulla, ma di lui è scritto che "l'Eterno era con lui"; a Giacobbe invece Dio stesso dice di persona: "Io scenderò con te in Egitto". Questo significa che la più potente nazione di quel tempo ha avuto l'onore di essere visitata da Dio, e per due volte il grandissimo Faraone pagano è stato benedetto da un semplice ebreo: "E Giacobbe benedisse Faraone" (Gen. 47:7,10).

Un problema di politica interna
Dio aveva dichiarato che nella progenie di Abramo sarebbero state benedette tutte le famiglie della terra. Come continuerà allora la linea della benedizione dopo Giacobbe? Proprio questo è il problema "politico" che sta alla base del contrasto tra Giuseppe e i suoi fratelli, o meglio: tra Giuseppe e Beniamino da una parte e tutti gli altri dall'altra. Giuda, quando nella sua commovente supplica si offre di restare schiavo in Egitto al posto di Beniamino, parla di "un giovane figlio... che è rimasto lui solo dei figli di sua madre e suo padre l'ama" (44:20). Si pensa subito all'aspetto affettivo della cosa, che certamente non sarà mancato, ma si dimentica che la Bibbia vuole presentare anzitutto la "linea politica" di Dio. Sara aveva chiesto di cacciare via Ismaele perché "il figlio di questa serva non deve essere erede con mio figlio Isacco" (Gen. 21:10). E il Signore ha approvato questo. Giacobbe aveva contrattato con Esaù l'eredità della benedizione di Abramo; poi nella sua lotta notturna con l'angelo aveva dimostrato come fosse attaccato alla benedizione. Come si può credere dunque che non avesse pensato a chi avrebbe dovuto raccogliere questa eredità? Dopo la morte presunta di Giuseppe, Giacobbe "ama" l'altro figlio di Rachele, cioè vede in lui l'erede. Nella sua supplica Giuda arriva a dire che "la sua anima (nefesh) è legata alla sua anima" (ונפשו קשורה בנפשו) (Gen. 44:30); e ai fratelli che gli chiedono di lasciar andare con loro Beniamino risponde che se durante il viaggio gli capitasse qualche disgrazia "voi fareste scendere con cordoglio la mia canizie nel soggiorno dei morti" (Gen. 42:38). Per Giacobbe questo significherebbe lasciare questa vita nella tristezza, portando il lutto per la morte dell'erede, quindi senza avere un futuro di speranza, con la convinzione che la linea della benedizione si è spezzata.
I fratelli di Giuseppe si erano davvero pentiti del tremendo crimine commesso e sarebbero volentieri tornati indietro, ma ormai non era più possibile. Il dolore inconsolabile del padre era poi un peso continuo che ricordava loro di avere rotto per sempre l'unità della famiglia. Le ultime parole di supplica che Giuda dice a Giuseppe sono decisive: "Come farei a risalire da mio padre senza avere con me il ragazzo? Ah, che io non veda il dolore che ne verrebbe a mio padre" (Gen. 44:34).
A queste parole Giuseppe grida di far uscire tutti, prorompe in pianto e si fa riconoscere dai suoi fratelli. La riconciliazione fra le due parti della famiglia è avvenuta: Giuda è disposto a rimanere schiavo per liberare Beniamino, il fratello di Giuseppe, che lui aveva proposto di vendere come schiavo agli Amalechiti. E Giuseppe si rivela come colui che perdona, non come colui che si vendica.
A Giacobbe Dio aveva detto in visione: "Io scenderò con te in Egitto, e te ne farò anche sicuramente risalire; e Giuseppe ti chiuderà gli occhi" (Gen. 46:4). Questo significa che Giacobbe non scenderà con cordoglio nel soggiorno dei morti, ma sarà serenamente "riunito al suo popolo" (Gen. 49:33), come era avvenuto per Abramo ed Isacco.

Un problema aperto?
Resta però in sospeso una questione: a chi andrà l'eredità spirituale? come proseguirà la linea della benedizione? Giuda, figlio di Lea, e Giuseppe, figlio di Rachele, si trovano l'uno davanti all'altro, ma non più in posizione di contesa. Non finirà con l'indicazione di uno e l'esclusione dell'altro.
Dopo Giacobbe la tribù familiare si avvia a diventare un popolo, prima di arrivare ad essere una nazione, e la linea della benedizione promessa alla progenie sarà destinata a diventare la linea messianica. E' noto allora che in un parte non trascurabile dell'ebraismo si parla di due distinte figure di Messia: Mashiach ben Yosef (figlio di Giuseppe) e Mashiach ben David (figlio di Davide). E' una tesi che non si può scartare con poche battute perché vuol rendere ragione del fatto indiscutibile che la Bibbia presenta un Messia che soffre e un Messia che trionfa. Sono due Messia? Alcuni dicono di sì. Altri invece dicono che è lo stesso Messia che si presenta in due momenti diversi. E tra questi si trovano gli scrittori dei quattro Vangeli.
Un'interpretazione della storia di Giuseppe data da un ebreo a un altro ebreo. M.C.

  (Notizie su Israele, 5 gennaio 2017)


'Buona scivolata nel 2017': se i tedeschi si augurano buon anno in yiddish

di Rossella Tercatin

"Buona scivolata". È questo il curioso augurio che si scambiano i tedeschi per celebrare l'inizio dell'anno nuovo. Alcuni lo attribuiscono a una certa superstizione legata alla tipica condizione delle strade di Germania a fine dicembre: con ghiaccio e neve dappertutto il rischio di scivolare non manca, e augurandoselo, per una sorta di legge del contrappasso, non accadrà. Altri linguisti tuttavia avanzano una spiegazione diversa: che la parola "rutsch", scivolata appunto, suoni in fondo molto simile all'ebraica "rosh", testa, che come in italiano indica anche il capodanno (Rosh HaShanah). "Ma i tedeschi il 31 dicembre si augurano Shanah Tovah?" si è così chiesto Cnaan Liphshiz, corrispondente europeo della Jewish Telegraphic Agency.
   "Molti sostengono che 'guten rutsch' sia uno delle centinaia di esempi di influenza sulle lingue germaniche del loro cugino di ceppo semita yiddish - spiega - Chi sostiene che 'rutsch' sia una deformazione di 'rosh' fa in parte affidamento sul fatto che il modo di dire sia relativamente nuovo, essendo stato documentato per la prima volta nel 1900 circa, e questo è compatibile con la teoria dell'origine yiddish perché la fine dell'Ottocento è stato un periodo di relativa apertura e reciproco influsso tra la cultura ebraica e tedesca in seguito al movimento dell'Haskalah (Illuminismo ebraico)".
   Tra i linguisti che si dichiarano concordi con questa posizione ci sono Heidi Stern, Leo Rosten, Alfred Klepsch and Petr Subrt.
   E tuttavia, fa notare ancora Liphshiz, se anche il popolare augurio per il nuovo anno non derivasse davvero dall'yiddish, il legame tra le due lingue rimane innegabile.
   "Nella sua 'Enciclopedia delle parole tedesche di provenienza yiddish', il linguista Hans Peter Althaus ha compilato una lista di 1100 termini, compresi alcuni chiaramente presi in prestito come 'schlamassel' e 'meschugge', che significano 'fallimento' e 'pazzo' - ma anche contributi più sottili". Tra quelli menzionati, 'miese' che vuol dire brutto tempo e deriva da 'misken', 'povero', oppure 'betucht', 'sicuro' che in tedesco descrive i quartieri della città più agiati. Per non parlare dell'olandese 'tof', usato come esclamazione per dire 'fantastico!' e chiaramente legato a 'tov', 'buono'.
   Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte della popolazione di lingua yiddish d'Europa è stata spazzata via. E se alcune comunità numericamente rilevanti sopravvivono in alcune città d'Europa, tra cui Vienna, Londra e Anversa, le influenze yiddish continuano ad arrivare provenienti soprattutto da un'altra fonte: l'inglese dei film, delle serie televisive e della musica americana. Perché negli Stati Uniti, dal bagel (il tipico panino a forma di ciambella), al lox (il salmone), l'yiddish permea il linguaggio a tavola e fuori, mentre il primo dizionario inglese-yiddish in 50 anni è stato pubblicato negli scorsi mesi dalla Indiana University Press. Una speranza per una lingua che ha fatto la storia ebraica. Ma anche, non va dimenticato, quella di tanti paesi, dall'Europa all'America.

(moked, 5 gennaio 2017)


Il memoriale ritrovato del primo ebreo che raccontò il Nuovo mondo

Risolto il giallo del manoscritto che svela la vera storia d'America del Cinquecento. Rubato nel 1932, il testo ha dimensioni minuscole per poterlo nascondere meglio all'Inquisizione.

di Joseph Berger

 
E' forse la testimonianza più significativa dell'arrivo degli ebrei nel Nuovo mondo: un piccolo, logoro taccuino di 180 pagine, scritte in grafia microscopica da Luis de Carvajal il giovane, di cui il testo narra la vita e le sofferenze. Fino al 1932, il manoscritto di de Carvajal, ebreo in segreto, messo al rogo nel 1596 dall'Inquisizione nella colonia spagnola del Messico, fu custodito presso gli archivi nazionali di quel paese. Poi sparì. Il furto lo rese oggetto ambitissimo da tutta una schiera di studiosi dell'Inquisizione e di collezionisti di libri rari. Non se n'è saputo nulla per più di ottant'anni, finché non è ricomparso 13 mesi fa, in una casa d'aste di Londra, che lo ha venduto per 1.500 dollari, senza comprenderne il valore.
  Ma quando è stato rimesso in vendita a Manhattan, da Swann Galleries, a un prezzo 50 volte superiore a quello pagato in Inghilterra solo pochi mesi prima, non è sfuggito a Leonard Milberg, importante collezionista di pubblicazioni ebraiche. Milberg ha consultato una serie di esperti che hanno confermato che poteva trattarsi in effetti del prezioso manoscritto, del valore stimato di 500.000 dollari. E che però risultava rubato.
  Nel marzo prossimo, il manoscritto farà ritorno in Messico. Fino al 12 di quel mese, in base agli accordi stipulati dal collezionista, sarà esposto alla New York Historical Society, in occasione di una mostra che narra l'esperienza dei primi ebrei in America del Nord e del Sud. «È la primissima testimonianza narrativa superstite di un ebreo del Nuovo Mondo», spiega David Szewczyk, esperto di libri antichi, «nonché il più antico manoscritto religioso esistente che narra l'arrivo nel Nuovo Mondo».
  L'odissea del taccuino, da quando venne scritto in Messico al suo ritrovamento a Manhattan, è ricca di misteri. De Carvajal era un ebreo spacciatosi per cattolico nella Nuova Spagna, l'attuale Messico, in un periodo in cui l'Inquisizione perseguitava gli eretici e i finti convertiti deportandoli, imprigionandoli, torturandoli e inscenando macabre esecuzioni pubbliche. De Carvajal, un mercante, venne arrestato nel 1590 con l'accusa di svolgere attività di proselitismo ebraico e in carcere scrisse un' autobiografia, Memorias, su fogli di dieci centimetri per sette, in cui si cambiò il suo nome in Joseph Lurnbroso-Giuseppe l'illuminato. L'incipit recita: «Salvato dal Signore da terribili pericoli, io, Joseph Lumbroso, di nazione ebraica e dei Pellegrini nelle Indie occidentali, grato della misericordia ricevuta dalle mani dell'Altissimo, mi rivolgo a tutti coloro che credono nel Santo dei Santi e che sperano in grandi grazie».
  Il memoriale racconta come Joseph avesse appreso dal padre di essere ebreo, si fosse circonciso con un vecchio paio di forbici, avesse abbracciato la fede e persuaso i suoi fratelli a fare altrettanto. Venne rimesso in libertà per un periodo di tempo -probabilmente perché le autorità potessero individuarne i contatti segreti con altri ebrei - e terminò il suo memoir inserendovi una serie di preghiere, i dieci comandamenti e 13 principi del filosofo ebreo Maimonide. Gli studiosi pensano che la decisione di realizzare il memoriale in miniatura fosse legata alla necessità di poterlo nascondere sotto un mantello o in tasca. Nel 1596, dopo essere stato nuovamente giudicato colpevole di praticare l'ebraismo, fu messo al rogo. Aveva trent'anni. Il manoscritto, ritrovato tra i suoi indumenti, fini negli Archivi azionali messicani che negli anni Trenta del '900 erano situati in un edificio adiacente al palazzo presidenziale.
  La scomparsa del libro resta un mistero. All'epoca erano almeno tre gli studiosi che consultavano i voluminosi atti dell'Inquisizione contro de Carvajal. Tutti sono stati sospettati in un modo o nell'altro nel corso degli anni. Uno di loro, uno storico, dipendente dell'archivio, che stava scrivendo un libro sulla famiglia Carvajal, accusò del furto un rivale, Jacob Nachbin, polacco di lingua Yiddish, docente di storia ebraica presso la Northwestern University dell'Illinois e l'attuale New Mexico State University di Las Cruces. Quest'ultimo trascorse circa tre mesi in carcere e fu poi rilasciato per insufficienza di prove. C'è chi pensa che il vero colpevole fosse il suo accusatore. Non si sa cosa sia stato del manoscritto fino al momento del ritrovamento a Londra. Il rabbino Martin A. Cohen dell'Hebrew Union College di New York, sostiene in un'intervista che pensa di averlo letto durante le ricerche condotte presso gli archivi messicani negli anni Cinquanta, in preparazione alla stesura di un libro su de Carvajal. Altri studiosi reputano più probabile che abbia consultato una trascrizione del testo originale.
  A Londra nel dicembre 2015, nel catalogo della casa d'aste Bloomsbury erano presenti «tre piccoli manoscritti religiosi». Il nostro manoscritto era descritto come «proveniente dalla biblioteca di una famiglia del Michigan che ne ha il possesso da molti decenni». Il successivo acquirente, identificato da un dirigente di Swann Galleries come mercante di libri rari, portò il manoscritto alla galleria che gli attribuì un valore oscillante tra 50mila 75mila dollari. Nonostante alcuni esperti valutino il manoscritto di de Carvajal nell'ordine dei 500mila dollari, Swann, pensando che si trattasse di una trascrizione - antica - lo prezzò come tale in catalogo.
  È così la scorsa estate l' ottantacinquenne Milberg, originario di Brooklyn, proprietario di una finanziaria nonché collezionista di pubblicazioni ebraiche e poesia irlandese, lo ha trovato. Ha deciso di acquistare la "copia" del manoscritto e di inserirla nella mostra della New York Historical Society, in cui sarebbero stati esposti numerosi pezzi della sua collezione. In seguito pensava di donarla alla Princeton University, di cui è ex alunno. Ma gli esperti consultati lo hanno convinto che il manoscritto era autentico e che era stato rubato. (uno dei motivi per cui Milberg reputa che si tratti dell'originale è che nessun copista si sarebbe dato la pena di riprodurlo in grafia tanto minuscola). Swann infine ha ritirato il manoscritto dalla vendita e i curatori messicani ne hanno confermato l'autenticità.
  Rick Stattler, resposabile della sezione libri rari di Swann, dice che nel momento in cui si è reso conto di avere davanti l'originale di de Carvajal ha provato un'emozione incredibile. Intanto Milberg ha concordato con il console generale messicano a New York, Diego Gomez Pickering, la restituzione del manoscritto. Milberg ha anche voluto che fossero realizzate copie digitali del testo per Princeton e la sinagoga ispano-portoghese di Manhattan, definendo l'operazione un suo personale atto di vendetta contro l'antisemitismo. «Voglio dimostrare che gli ebrei erano inseriti nel tessuto vitale del Nuovo mondo», dice. «Questo libro è stato scritto prima dell'avvento dei Padri Pellegrini».

(la Repubblica, 4 gennaio 20179


Israele cancellato dai libri di testo delle scuole palestinesi gestite dall'Onu

Agli alunni palestinesi vengono persino propinati documenti storici deliberatamente falsificati

Un'indagine israeliana sui libri scolastici usati nelle scuole palestinesi gestite dalle Nazioni Unite ha rilevato una costante e sistematica opera di delegittimazione e demonizzazione dello stato di Israele.
Si tratta di libri di testo redatti dal Ministero della Pubblica Istruzione dell'Autorità Palestinese che vengono utilizzati nelle scuole gestite dall'Unrwa, l'agenzia Onu per i profughi palestinesi, sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza.
Dall'esame dei testi si capisce che le scuole finanziate dalle Nazioni Unite non insegnano ai bambini palestinesi a riconoscere Israele come un paese esistente: né entro i confini teorici proposti dall'Onu nel 1947, né entro le linee armistiziali del periodo '49-'67, né entro alcun altra linea di confine....

(israele.net, 5 gennaio 2017)


Le belle parole

di Francesco Lucrezi

Nonostante gli auguri di rito, non c'è dubbio che questo nuovo anno inizi, per quel che riguarda le relazioni di Israele - e, più in generale, dell'ebraismo - con il resto del mondo, decisamente male. Il senso della famosa risoluzione, ONU, su cui già tanto si è detto, è infatti inequivocabile. Israele è solo, è alla sbarra, è sotto accusa, e, se prima c'era qualcuno, forte e potente, che lo difendeva per principio, su questa difesa "a scatola chiusa" non c'è più da fare affidamento. E, se l'America non difende più automaticamente l'alleato sul piano diplomatico, ancora meno ci sarà da fare affidamento - nel malaugurato caso di necessità - su un aiuto di tipo militare. Le belle parole non costano nulla, il Presidente eletto americano è stato prodigo di parole di amore per Israele - sia pure infarcite, dato il personaggio, di qualche gaffe di dubbio gusto -, ma ci penserebbe certamente dieci volte prima di impegnare gli Stati Uniti militarmente, essendo tutto il suo programma incentrato fondamentalmente sull'esclusiva protezione degli interessi dell'America (anzi, di una precisa parte dell'America). E di ciò, naturalmente, tutti i nemici di Israele non potranno che compiacersi. Israele è solo, la sua maggiore o minore vulnerabilità dipende esclusivamente dalla sua intrinseca forza o debolezza, non da aiuti esterni, che non ci sono e non ci saranno. Meglio esserne ben consapevoli.
   Riguardo alla natura di tale solitudine, non ci sarebbe neanche bisogno di rispondere alle solite dichiarazioni secondo cui "non è vero, Israele ha tanti amici, ma i veri amici non dicono sempre di sì, perseguire la soluzione 'due popoli due stati' è nello stesso interesse dello Stato ebraico, gli insediamenti sono un ostacolo alla pace, pronunciarsi contro gli insediamenti non vuol dire pronunciarsi contro Israele" ecc. ecc. Non ce ne sarebbe bisogno, tanto queste eterne chiacchiere, trite e ritrite, sono quello che sono, dei castelli di carta, bolle di sapone gonfiate solo da ipocrisia e malafede. Ma ricapitoliamo comunque, scusandoci di dover ripetere cose già dette mille volte, quelli che appaiono i punti salienti della questione:
   a) Gli insediamenti (indipendentemente dai comportamenti e dall'estremismo di alcuni dei loro abitanti) sono una conseguenza del conflitto (scaturente dal rifiuto arabo alla stessa esistenza di Israele come Stato ebraico, sovrano e indipendente, al di là di ogni questione di confini), e non la sua causa: prima del '67 non c'era neanche l'ombra di un solo ebreo al di là delle linea verde, e si è visto cos'è successo; allo stesso modo, quando, nel 2005, Israele si è ritirato da Gaza, si è vista, di nuovo, la risposta. Qualcuno ha forse notato un qualche cambiamento nelle successive posizioni della dirigenza palestinese (o nella generale disposizione d'animo del mondo arabo nei confronti dello Stato ebraico)? Il fronte del perenne rifiuto, della totale negazione e della sistematica criminalizzazione si è, se mai, rafforzato, non certo affievolito. Non ci vuole davvero molta fantasia per immaginare cosa accadrebbe, oggi come oggi, in una Cisgiordania finalmente "liberata", quali ringraziamenti arriverebbero.
   b) Che i suoi nemici dicano che Israele deve iniziare a smantellare gli insediamenti, per poi "essere smantellato", in altro modo, in tutto il resto, è un programma manifesto e chiarissimo, che è stato dichiarato apertamente in tutti i modi, anche se molto preferiscono fare finta di non sentire. Questi signori fanno benissimo il loro mestiere, sono lucidi e coerenti, è normale che all'ONU firmino le loro dichiarazioni in questo senso, sarebbe strano se non lo facessero; risoluzioni, bombe, coltelli, boicottaggi, si prende e si usa quel che passa il convento, tutto fa brodo.
   c) Che invece queste risoluzioni, con la pretesa di smantellamenti incondizionati e unilaterali, senza neanche una pallida finzione di negoziato e di trattativa, un timido accenno di minima richiesta alla controparte, un simbolico straccio di garanzia sulle conseguenze e sul futuro (anzi, con l'assoluta certezza che un Israele indebolito sarebbe nuovamente attaccato, resterebbe solo da vedere quando, probabilmente molto presto), siano firmate o non ostacolate anche da parte dei presunti amici, è davvero qualcosa di surreale. Israele non solo è criminale, ma deve andare sul patibolo con le sue gambe, deve collaborare docilmente al proprio "suicidio assistito".

(moked, 4 gennaio 2017)


Spagna-Israele: cala il gelo su relazioni bilaterali contraddistinte da alti e bassi

MADRID - Dopo la condanna del Consiglio di sicurezza dell'Onu agli insediamenti in Cisgiordania, la Spagna è uno dei paesi con cui Israele ha congelato le relazioni. Da qui parte il quotidiano "Abc" per tracciare un bilancio delle relazioni tra i due paesi, aperte ufficialmente 31 anni fa. Il lungo articolo poggia sulle riflessioni dell'ex ministro degli Esteri Miguel Anguel Moratinos che dà una sostanziale sufficienza al rapporto, apprezzando il grande livello di scambi economici e di cooperazione sviluppato ad esempio tra i servizi di intelligence per la lotta contro il terrorismo. Madrid, è la critica dell'ex ministro, avrebbe potuto impegnarsi di più nella regione e nel rapporto tra Israele e i paesi vicini. Spazio anche all'analisi di Florentino Portero, storico ed ex direttore del Centro Sefarad-Israel. In questa relazione la Spagna paga una simpatia per i palestinesi che ha attraversato i governi di tutti i colori politici: "la difesa spagnola della causa palestinese era in realtà un modo di accontentare i paesi arabi, da cui aveva ingressi commerciali".

(Agenzia Nova, 4 gennaio 2017)


Lo zar Vladimir Putin: io bombardo da solo

Lettera a Furio Colombo

Caro Furio Colombo,
quasi all'improvviso, verso la fine della presidenza Obama, Putin è andato a occupare il centro della scena, come protagonista e come regista di una storia di cui non conosciamo la trama. Nessuno, mi sembra, si sta domandando il perché.
Elio
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È un fatto che in tanti sembrano accettare il pretenzioso attivismo di Putin senza fare domande.Il suo schierarsi con Assad, uno dei peggiori e più feroci personaggi di governo del Medio Oriente, è stato valutato sul piano della strategia (ottima scelta, alla fine vince e incassa statura e autorità internazionale) ma non su quello della tragedia siriana che conserva intatto il suo male, prosegue con altri mezzi la sua guerra, ha piena libertà di persecuzione e impedisce il ritorno della marea di profughi. "Io bombardo da solo" è stato il logo del nuovo Cremlino. E il mondo lo ha lasciato libero di procedere alla distruzione completa di Aleppo, senza interferire e senza obiezioni.
Le Nazioni Unite hanno lasciato un uomo solo sul campo, Staffan de Mistura, che ha diminuito le stragi e salvato famiglie in fuga, ma è stato abbandonato senza mezzi per ogni altro tentativo di fermare o di salvare. In apparenza tutto è chiaro: Putin vuole che la sua Russia conti molto di più, e che ogni suo passo o iniziativa, d'ora in poi, meritino attenzione e rispetto.
Vuole comandare negli spazi lasciati liberi dalla tendenza americana (almeno ai tempi di Obama) di non affidarsi più alle guerre.
Lo spazio è libero. Ma per conto di chi? Questa domanda non è "dietrismo". È motivata dal fatto che nelle grandi questioni internazionali, e soprattutto nelle guerre, nessuno si muove da solo. O ha qualcuno sopra (interessi, mercati, lobby, produzioni, oppure alleanze ideologiche); o ha qualcuno sotto, un nuovo progetto di egemonia, regionale o mondiale.
Queste due condizioni sembrano mancare o almeno non si vedono. E allora la Russia appare come un agente solitario che provoca qualcosa di enorme e di incontrollabile che però favorisce la Russia stessa solo fino al punto di dichiararsi un agente di portata mondiale. Ma poi? Qualcuno nasconde la mano di qualcosa che potrebbe essere più grande di Putin e della sua conquista e alleanza di Assad. Naturalmente sta per arrivare Trump, proprio per merito dell'aiuto di Putin. Bisogna ammettere che i due hanno giocato bene. Nessuno, al momento, ha alcuna idea della strana intesa o alleanza o collaborazione che sta per nascere.

(il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2017)


A Castelnuovo il concerto "Klezmerata Fiorentina" per "Note di Passaggio"

 
Klezmerata Fiorentina
   
Domenica 8 gennaio alle 17, in Sala delle Mura, torna l'appuntamento con la rassegna "Note di Passaggio". Il concerto "Klezmerata fiorentina" proporrà musiche della tradizione ebraica dell'Est Europa.
La Klezmerata Fiorentina è stata fondata nel 2005 da quattro solisti di una delle più prestigiose orchestre italiane, il Maggio Musicale Fiorentino, e si è guadagnata il riconoscimento internazionale per il suo innovativo approccio all'autentica musica strumentale popolare degli ebrei ucraini, patrimonio artistico del violinista del gruppo, Igor Polesitsky. Il quartetto crea elaborate composizioni che trattano le melodie tradizionali, raccolte all'inizio del ventesimo secolo da pochi pionieri dell'etnomusicologia russo-ebraica, come un microcosmo emotivo della complessa, affascinante ed antica civiltà yiddish est-europea. La Klezmerata, fin dalla sua prima apparizione al Marta Argerich Project a Lugano, in Svizzera, si è conquistata l'attenzione e il supporto di alcune delle più importanti personalità della musica classica. Zubin Mehta descrive l'arte del gruppo come la «perfetta espressione tanto della gioia come del dolore. Non è solo ottimo intrattenimento, è alta creazione musicale!»
Tre prime parti dell'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino conducono un viaggio attraverso la musica klezmer. Come dice Igor Polesitsky, fondatore del gruppo, il klezmer non è un marchio generico e scontato per indicare musica di vaga sembianza balcanica, tzigana. I suoi strumenti, invece, "parlano yiddish, la nostra lingua dell'esilio, trasmettono quel senso dell'immenso dolore e, nello stesso tempo, dell'altrettanta immensa gioia della vita, che da sempre significa per me l'essenza della vera musica ebraica".
Nel concerto castelnovese si esibiranno Riccardo Crocilla al clarinetto, Francesco Furlanich alla fisarmonica e Riccardo Donati al contrabbasso.
L'iniziativa è organizzata dal Comune di Castelnuovo Rangone e dall'associazione "Amici della Musica Modena", l'ingresso al concerto è gratuito.

(Sassuolo 2000, 4 gennaio 2017


Ci conquisteranno facendo figli

Giulio Meotti: fra gli strumenti di conquista dell'Europa da parte dei musulmani c'è anche la loro natalità. In Francia si stanno aprendo tre moschee alla settimana.

di Goffredo Pistelli

Da qui al 2050 avremo un 20% di europei di fede islamica. Da un lato, ci saranno 80 europei su 100, in gran parte vecchi ed esausti e dall'altro 20 europei giovani, credenti, imbevuti magari di islam politico In molti paesi europei c'è il crollo della fertilità. Eppure questi sono paesi che hanno goduto di 70 anni di pace, di disponibilità di qualsiasi bene materiale, di libertà individuali che non hanno riscontri nei secoli precedenti Si nasce in meno, non per il disagio sociale. Abbiamo smesso di fare figli agli inizi degli anni 80 mentre lo sboom comincia nel 1985. Le condi- zioni allora erano eccellenti. Lo stato e gli enti locali spandevano con allegria
In tutta Europa diminuiscono i figli pro-capite mentre aumentano le vacanze, le auto, i telefonini. Nei supermercati, ad esempio, i reparti per i prodotti per gli animali sono diventati più grandi di quelli dedicati ai neonati. La scristianizzazione dell'Europa si lega all'ascesa dell'Islam europeo. Fateci caso, in Europa, non si parla d'altro: dal burkini, alle vignette su Maometto, all'Isis. Il nostro immaginario è dominato dalla questione musulmana Coloro che 40 anni fa si battevano contro l'oscurantismo cristiano sono gli stessi che considerano il burka un simbolo da rispettare, fregandosene dei diritti delle donne. Per una certa sinistra gli immigrati hanno sostituito il proletariato

Giulio Meotti ci riprova. Il giornalista di Il Foglio, 37 anni, aretino, grande esperto di Medio Oriente e noto per le sue simpatie, mai nascoste, per Israele e la sua democrazia, torna in libreria con un lavoro destinato a far discutere, La fine dell'Europa (Cantagalli), il cui sottotitolo dice già molto: Nuove moschee e chiese abbandonate. In 220 pagine sempre molto documentate, Meotti spiega come l'Europa e gli europei si stiano preparando a un futuro come quello descritto da Michel Houllebecq in Sottomissione (Bompiani) per la Francia, ossia una islamizzazione per via politica.

- Domanda. Meotti, lei parte dalla demografia: la chiave della conquista islamica del Vecchio Continente starebbe nel fatto che gli europei non vogliono più far figli mentre i musulmani ne fanno.
  I dati sono molto chiari: a parte Francia e Gran Bretagna, che fanno storia a sé, sono almeno 30 anni che in molti Paesi europei, dalla Spagna, all'Italia, alla Polonia, alla Germania, stiamo assistendo al crollo della fertilità, eppure ...

- Eppure?
  Eppure questi Paesi hanno goduto di 70 anni di pace, di disponibilità di qualsiasi bene materiale, cli libertà individuali che non hanno riscontri nei secoli precedenti, da ogni punto d vista. La fertilità è dimezzata, però.

- Spesso si associa la decisione di non far figli alle difficoltà economiche.
  Certo, la lettura mainstream di certi demografi è il disagio sociale: la mancanza di lavoro, di asili. La solita logica materialistica.

- Sbagliata?
  Lo dicono i dati. Prenda il caso italiano. Abbiamo smesso di fare figli all'inizio degli anni '80, lo «sboom» comincia fra il 1982 al 1985, vale a dire in condizioni economiche eccellenti, con debito pubblico da paura, in cui si spendeva e spandeva anche a livello di Stato. Mio fratello che, allora andava all'asilo, aveva lo scuolabus che veniva a prenderlo sotto casa, gratuitamente ovvio.

- Insomma, condizioni ideali per far figli.
  Eppure si continuò a non farne, e la tendenza accrebbe negli anni 90. E da allora si è continuato. Come osserva l'economista americano Nicholas Eberstadt, in tutta Europa diminuiscono i figli pro-capite mentre aumentano le vacanze, le auto, i telefonini per persona. Un fenomeno cominciato da tempo, anche nella cattolicissima Polonia, e che accadeva nella ricchissima Germania Ovest anteriunificazione. Ma il problema si può vedere il anche osservando le eccezioni in occidente.

- Del tipo?
  Penso agli Stati Uniti, dove la protezione sociale per le famiglie è bassa e tutto è basato sull'individuo. Eppure si fanno ancora figli. O a Israele, paese occidentale, aldilà della collocazione geografica, capitalistico, industrializzato, dove si fanno 3-4 figli a testa. E non stiamo parlando solo dei religiosi ortodossi. Il punto è da noi, in Europa, c'è un crollo della fiducia. Mai, quanto oggi, la parola «occidente» è associata al crepuscolo.

- Anche laddove di figli se ne fanno un po' di più, come in Francia e Gran Bretagna?
  Sì, perché là la demografia tiene per il fatto che ci sono grandi comunità musulmane che credono nella famiglia e fanno figli.

- A cosa è dovuta la perdita di fiducia degli europei, Meotti?
  C'è stato il crollo della religiosità e una corrispondente ondata di secolarizzazione. Lo svuotamento delle chiese è andato di pari passo al precipizio della fertilità. Ora, non è dimostrabile un legame diretto, fra i due fenomeni, ma l'osservazione della realtà è chiara.

- Laddove si crede meno, si smette di far figli, dice?
  Laddove individualismo ed edonismo prevalgono, i figli calano. Prenda la Spagna, che aveva, negli anni '70, un tasso demografico elevato, fra il 2,6 e il 2,7, in parte anche perché la dittatura franchista incentivava la maternità. Successivamente è piombata al record negativo di un tasso del 1,3-1,4: perderanno il 12-13% della popolazione nei prossimi 30-40 anni. E come se il periodo di massimo splendore della civiltà europea fosse stato raggiunto e fosse iniziato un declino inarrestabile.

- In tutto questo, le campagne tipo Fertility Day, fanno piuttosto arrabbiare.
  Sono un tabù vero. Quella del ministro Beatrice Lorenzin era stata una campagna piuttosto goffa, però in Italia del tema dell'inverno demografico non si può parlare. Non si può parlare dei nostri elevati tassi d'aborto, non si può osservare che i raparti per gli animali, nei supermarket, siano ormai più grandi di quelli dedicati ai neonati. Guai a osservare che, se apri la tv, trovi un talk show in cui c'è un sindacalista che parla di pensioni e quasi mai di aiuti alla famiglia.

- Lei, nel libro, parla di «peste bianca».
  Le epidemie del Medioevo, di peste nera appunto, ci decimarono. Quella attuale non sanguina, non fa morti, ma svuota i reparti di maternità. Ci sono paesi della vecchia Europa destinati a morire: come Ungheria, Romania, Repubblica Ceca. E anche la Russia, per quanto Vladimir Putin provi a invertire la tendenza con campagne un po' plebiscitarie, perderà milioni di persone.

- Poc'anzi lei annetteva la tendenza alla parallela secolarizzazione. Nel libro, associa poi fuga dal cristianesimo a crescita dell'Islam
  Lo scenario è questo: alla scristianizzazione dell'Europea si lega l'ascesa dell'Islam europeo. Non si parla d'altro: dal burkini alle vignette su Maometto, il nostro immaginario è dominato dalla questione musulmana.

- Una religione in ascesa.
  In Francia si aprono tre moschee alla settimana, lo dicono i dati ufficiali. In parallelo, le chiese, ormai vuote, vengono riconvertite in moschee, palestre, centri commerciali. Ne parlavo tempo fa con Rémi Brague, l'intellettuale cattolico francese, il quale ha individuato il declino del cristianesimo in una delle ragioni che hanno indotto i terroristi islamici ad attaccare a Parigi, a Marsiglia, a Rouen: un paese che non crede più, che non ha futuro, ripiegato su stesso, è un obiettivo interessante.

- E a livello europeo, la scristianizzazione che avanza di pari passo alla islamizzazione, che cosa comporterà?
  Comporterà che, di qui al 2050, avremo un 20% di europei di fede islamica, che non sarà l'Eurabia, preconizzata da Oriana Fallaci, ma lei immagini, da un lato, 80 europei su 100, vecchi ed esausti, e dall'altro, 20 europei giovani, credenti, imbevuti magari di Islam politico. Che ripercussioni si possono immaginare sulla vita pubblica?

- Il romanzo di Houellebecq che si avvera. Anzi, la profezia del leader algerino Houari Boumedienne, in un discorso all'Onu degli anni 70: «Vi conquisteremo facendo figli».
  Come notava l'orientalista britannico Bernard Lewis, sarà il terzo tentativo di conquista dell'Europa, stavolta riuscito, dopo che, a Poitiers e a Vienna, i musulmani erano stati fermati nei secoli scorsi.

- Una sottomissione politica, lei dice?
  Una sottomissione incruenta, soft. In prospettiva, gli islamisti ci disprezzano già per questo. Quando quelli dell'Isis dicono «noi amiamo la morte, voi la vita"» si riferiscono alla nostra stanchezza, al fatto che non reagiamo, non dico militarmente, ma neppure culturalmente. La considerazione dell'Europa è 'zero', come diceva Abdelhamiid Abaaoud, mente dell'assalto al Bataclan. C'è paradossalmente molto più rispetto per Israele.

- Paradosso per paradosso: tutta la nostra militata apertura non sembra servire a molto.
  A be', l'islamofilia imperversa. Gli stessi che 40 anni fa si battevano contro l'oscurantismo cristiano-cattolico, che fanno dell'antisemitismo un mantra, sono i primi che considerano il burka un simbolo di differenza da rispettare, fregandosene dei diritti delle donne. Gli stessi che si inalberano quando la Francia, con una decisione peraltro grottesca, vieta il burkini.

- Un'islamofilia che imperversa a sinistra.
  Per una certa sinistra benpensante, gli immigrati hanno sostituto il proletariato, sono un bacino sentimentale, per così dire, i nuovi dannati della terra. E di qui scatta l'appeasement: docili e indulgenti con coloro che ci stanno divorando. Insomma stiamo sfamando il coccodrillo. Del resto il Corano cantato in chiesa l'abbiamo già avuto, a Firenze mi pare. Per carità, un'ibridazione anche suggestiva, sapendo però cosa c'è da perdere e da guadagnare.

- La Chiesa di Francesco mi pare non si faccia soverchi problemi.
  Siamo al relativismo teologico, all'equivalenza sostanziale fra Bibbia e Corano. Io, che sono laico, lo posso dire senza problemi.

- Del resto Papa Bergoglio insiste sovente sul fatto che Dio non sia cattolico.
  Infatti. La sua visione è chiara. D'altra parte, dopo il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, praticamente non trova traccia della parola Islam nei discorsi di un pontefice. Lo stesso Ratzinger, per aver fatto quel discorso sull'Islam che si affermava con la spada, fu linciato pubblicamente, con le uccisioni di religiose e di don Andrea Santoro in Turchia, e poi la diplomazia vaticana lo obbligò alla visita riparatoria alla Moschea blu di Istanbul.

- Anche sul terrorismo, Francesco è stato netto: non è religioso ma colpa dei trafficanti d'armi.
  Sì, ricordando subito che i cristiani hanno i femminicidi. No, dopo Ratzinger che cercò di suonare la sveglia, l'approccio della Chiesa è cambiato radicalmente, a scapito dei cristiani di oriente, di comunità millenarie.

- Complessivamente mi pare pessimista. Non è invece che gli islamici andranno sempre più occidentalizzandosi?
  No, non vedo integrazione. Non sta avvenendo. In Francia, su sei milioni di musulmani, un buon 30% è di idee radicalsalafite: si rende conto quanti sono?

- L'assimilazione, tentata dai francesi in vari decenni, è fallita.
  Non ha funzionato. Anche perché, appunto, in Francia c'è questa idea di laicità un po' paradossale, che consisterebbe nell'abbracciare i valori dell'Illuminismo al canto della Marsigliese: eh no, il Corano è un po' più forte.

- E dunque sottomissione inevitabile, anche in Europa
  Finirà che introietteremo sempre più Islam nella vita sociale.

- D'altronde, se un europeo su cinque sarà musulmano ...
  Infatti, i figli di quella sinistra che, per 40 anni, ci hanno venduto la liberazione sessuale e l'aborto di massa, insomma i discendenti di questi secolaristi impenitenti, si troveranno a negoziare con gli imam di turno. Solo che ...

- Solo che?
  A quegli incontri si berrà rigorosamente succo d'arancia, mentre ai loro padri piaceva più il vino (ride).

- A parte quello, che Europa sarà?
  Un'Europa che abdicherà alla sua grandezza culturale e artistica, per tornare al settimo secolo dell'Arabia Saudita. Addio a Bach, addio a Brunelleschi, per non parlare di quell'islamofobo di Dante. Avremo sobrietà di costumi, separazione di uomini e donne, emarginazione degli omosessuali. Insomma, non mi pare il migliore dei mondi possibili.

(ItaliaOggi, 4 gennaio 2017)


Pio IX e i predatori del bambino perduto

La storia di Edgardo Mortara, il piccolo ebreo bolognese battezzato in segreto e sottratto alla famiglia per volontà del Papa, diventerà un film di Spielberg Nell'800 originò una battaglia politica e culturale che divise l'Italia e l'Europa.

di Elena Loewenthal

 
The Kidnapping of Edgardo Mortara, dipinto di Moritz Daniel Oppenheim, 1862
E' una storia terribile e spietata, ma anche carica di una malinconia straziante e persino di una strana, assurda dolcezza. È un incrocio fatale di destino personale e interessi pubblici, un gomitolo di contraddizioni che non c'è modo di sciogliere. È una storia oscena nel senso originario dell'aggettivo: l'assurda implosione di qualcosa che non doveva accadere e invece accade e diventa un pubblico scandalo. È, prima di tutto questo, una storia di dolore insopportabile, detto e taciuto, come ben racconta il quadro di Moritz Oppenheimer che ritrae la scena madre: un bambino smarrito ma al centro di tutto, conteso da mani e abiti talari. E una donna straziata. Chissà se in questo magnifico e tragico dipinto troverà ispirazione Steven Spielberg, che fra poche settimane inizierà in Italia le riprese del film basato su questa storia da cui è rimasto folgorato appena l'ha letta.

 Ordinato prete a 23 anni
  Il 23 giugno 1858 il piccolo Edgardo Mortara, neanche sette anni, viene prelevato per sempre dalla sua casa di Bologna. E ebreo, ma un giorno era stato segretamente battezzato dalla giovane domestica di casa, Anna Morisi, poco più che una bambina pure lei, tredici o quattordici anni. Tempo dopo l'Inquisizione di Bologna, città che all'epoca si trovava an- cora entro i confini dello Stato Pontificio, avvia le ricerche e ottenuta conferma dell'accaduto invia i gendarmi a prelevare il bambino per portarlo nella casa dei Catecumeni - istituzione creata apposta per neoconvertiti e mantenuta grazie a una tassazione imposta alle comunità ebraiche - così da avviare la sua «ineludibile» educazione cattolica.
  Perché? Per una terribile catena di incongruenze. I Mortara avevano in casa una domestica cattolica anche se agli ebrei ciò era vietato. Anna battezza il bambino (Edgardo aveva un anno soltanto, allora) per il terrore che muoia privo del sacramento, anche se ai cattolici era vietato battezzare ebrei di nascosto. Stando a una ferrea logica della fede, tutto era ormai irreparabile: entrato all'insaputa nella comunità di Cristo, il bambino andava strappato al suo mondo perché non incorresse nel peccato di apostasia. Doveva essere educato cristianamente, lontano da quel mondo di «perfidi» (nel senso di «infedeli») ebrei cui non apparteneva più dal momento in cui aveva ricevuto il battesimo.
  Da quel giorno i suoi genitori non lo videro quasi più, se non per brevi e strazianti sprazzi. Il piccolo Edgardo Mortara fu ordinato prete a ventitré anni, e prese il nome di Pio - lo stesso di quel Papa che lo aveva strappato alle sue radici, a sé stesso. Viaggiò a lungo nei panni di evangelizzatore e missionario. Trascorse gli ultimi anni di vita rinchiuso in un monastero e morì a Liegi nel marzo del 1940, mentre il nazismo imperversava in Europa.

 «Non possumus»
  Chissà quale e quanta solitudine attraversarono quel bambino e l'uomo che divenne: prima nel rapimento, poi nella vocazione, infine dentro la cella del monastero. Negli sporadici scambi di sguardi e parole con i genitori e i fratelli. Perché in realtà al piccolo Edgardo la vita fu rubata due volte, non una. La prima quel giorno in cui lo portarono via di casa perché vedesse la luce di quella fede che il battesimo gli aveva donato senza che lui lo sapesse. La seconda, e forse fu ancor più feroce, perché il suo divenne «il caso Mortara»: una battaglia culturale e politica che vedeva schierata da una parte la Chiesa più conservatrice e dall'altra le forze politiche e intellettuali - compresa una parte di clero - che premevano per far respirare al mondo il liberalismo. Quando la notizia del ratto prese a circolare si levarono proteste in tutta Europa. Si disse che al conte di Cavour il fattaccio facesse buon gioco per mettere in cattiva luce papa Pio IX e rinforzare le ragioni del Regno di Sardegna. «Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice ogni volta che gli chiedevano di restituire il piccolo alla sua famiglia, al suo mondo.

 Uno scontro di civiltà
  E poi c'era lui: il piccolo Edgardo che ben presto incominciò a parlare di illuminazione, di grazia della Provvidenza. Che da quando venne ordinato prete passò la vita e la vocazione a cercare di convertire ebrei. Che ancor prima dell'ordinazione non ne volle più sapere di tornare a casa, anche quando all'indomani del 20 settembre 1870 - presa di Porta Pia e fine dello Stato Pontificio - ne avrebbe avuto facoltà.
  Lo scontro di civiltà che si combatté intorno alla vita di Edgardo Mortara segna quel delicatissimo momento di passaggio verso il liberalismo, accompagna il processo di Emancipazione degli ebrei d'Europa e più in generale la conquista collettiva dei diritti civili. E spesso, nei lunghi strascichi della storia, nell'eco di dolore e rabbia ch'essa porta con sé, nella contemplazione disarmata di tutta quella assurdità, ci si dimentica che al centro c'è lui, quel bambino e quell'uomo che dal buio del giorno in cui lo portarono via da casa in poi e anche nella lunga stagione di una fede vissuta con dichiarata pienezza, conserva dentro di sé qualcosa di ermetico. Chissà qual era per lui il sapore della nostalgia, chissà quali ricordi di casa serbava nell'animo. Chissà se sapeva chi era. Chissà che cosa la sua fede incrollabile gli rivelava, e che cosa gli teneva nascosto.

(La Stampa, 4 gennaio 2017)


Hacker arabi scatenati in Italia: siti istituzionali abruzzesi sotto attacco

Cancellati quelli di Montesilvano, Roccascalegna, Mozzagrogna

ABRUZZO - Sito istituzionale scomparso, sfondo colorato con l'inconfondibile stemma di Anonymous "Arabe" ed una musica orientale ipnotica.
Consiste in questo l'attacco dimostrativo di una organizzazione molto attiva in Occidente che mira a lanciare messaggi per dimostrare la propria esistenza e combattere "l'invasore" occidentale, ma anche per far capire di poter fare anche altro.
L'organizzazione è attiva da diversi mesi e si ispira agli ideali arabi e alla cultura musulmana rigettando cultura e principi occidentali e filo israeliani. Al centro dei loro pensieri la questione palestinese irrisolta da 80 anni e l'odio per gli israeliani considerati usurpatori.
Ieri hanno attaccato numerosi siti, circa un centinaia, di cui una trentina in Italia, e circa 7 in Abruzzo.
Hanno fatto sparire il sito del Comune di Montesilvano ma anche quello di Mozzagrogna e quello di Roccascalegna e Castelfrentano. Sotto attacco anche alcuni altri siti di imprese private come quella di una agenzia di viaggi o di una officina meccanica ma c'è anche qualche studio di avvocato.

(PrimaDaNoi, 4 gennaio 2017)


Fiabe all'indice

Negli Stati Uniti è censura di libri per bambini. Il politicamente corretto fa strage di titoli

di Giulio Meotti

ROMA - In Francia, i giacobini originali sono impegnati a sfornare libri per bambini dai titoli edificanti: "Ho due papà che si amano", "Papà porta la gonna", "Signora Zazie, ha il pistolino?" e "La nuova gonna di Bill". In America, i "nuovi giacobini", come li definisce il Wall Street Journal, sono scatenati a purgare fiabe e libri illustrati per l'infanzia. Il Journal racconta quanto sta accadendo nel mondo della grande editoria americana con un articolo dal titolo: "La polizia del politicamente corretto si abbatte sui... libri per bambini". La "diversità" è diventata collera e si è trasformata in ripudio dei libri.
   Il primo caso è stato "A Birthday Cake for George Washington", libro per bambini "reo" di aver ritratto gli schiavi a casa del presidente americano come sorridenti e dunque sottomessi. Il fatto che il libro sia stato scritto da Ramin Ganeshram, una autrice iraniana di Trinidad, e illustrato da due afroamericane, non lo ha salvato dal macero. "Non crediamo che questo titolo soddisfi gli standard di adeguata presentazione delle informazioni per i bambini più piccoli", hanno detto dalla casa editrice Scholastic Publishing dopo le critiche al libro. C'era stata pure una petizione su Change.org per la sua rimozione dalle librerie.
   Poi è toccato al libro "A fine dessert" di Emily Jenkins, anch'esso colpevole di aver "degradato" gli schiavi mostrandoli felici nel preparare i dolcetti. E pensare che era stato scelto come uno dei migliori libri illustrati dal New York Times, con il recensore John Lithgow che aveva difeso "la scelta coraggiosa di ritrarre una donna schiava sorridente". Ma la campagna ideologica era già partita, e Reading While White, un blog letterario sul tema del razzismo nei libri per bambini, aveva accusato il volume di "perpetuare le immagini dolorose degli schiavi 'felici"'. Alla fine, pure l'autrice, Emily Jenkins, ha fatto autodafé, chiedendo scusa ai lettori in quanto era stata "insensibile". Lo schiavo nero deve essere sempre triste.
   "There Isa Tribe ofKids" di Lane Smith aveva avuto l'ardire di mostrare dei bambini che "giocano a fare gli indiani". Al macero pure questo titolo! Poi sono state ritirate dal commercio tutte le copie di "When We Was Fierce" di E. E. Charlton-Trujillo, dove uno slang è stato ritenuto "profondamente insensibile". Al macero, nonostante Publisher Weekly lo avesse elogiato come "una storia americana moderna, straziante e potente". "The continent" di Keira Drake è stato censurato perché mostrava con condiscendenza i popoli "incivili". E pochi giorni fa è stata fermata la pubblicazione di "Bad little children's books".
   Dalle cesoie del Catone a stelle e strisce passarono per primi, nel 1992, il "vecchio cinese" della "Pastorella e lo spazzacamino" (convertito nel "vecchio uomo"), mentre "Gli abiti nuovi dell'imperatore" sacrificarono pessimismo e tristezza. Prese questa decisione il Chronicle Book, l'editore statunitense, spingendo Glyn Jones, il miglior conoscitore della letteratura danese, a troncare ogni rapporto con l'editore dopo che gli era stato chiesto di cambiare il finale della "Piccola fiammiferaia" "per rendere la storia più allegra".
   Echi di quel Sessantotto in cui la fiaba doveva essere demistificata e Cappuccetto non poteva più vestirsi di rosso, ma doveva cambiare in giallo e in blu. Così, nel giro di qualche anno, le fiabe diventarono pedagogiche. E mortalmente noiose. E si finì con la ministra tedesca della Famiglia, Kristina Schròder, che se la prese con le favole dei fratelli Grimm, "sessiste e razziste", e con gli attivisti di Black Lives Matter che ora decidono persino cosa debbano leggere i bimbi d'America prima di addormentarsi.

(Il Foglio, 4 gennaio 2017)


I cristiani fanno da capri espiatori in Turchia. Arrestato pastore protestante

Andrew Brunson è stato incarcerato il 7 ottobre, con l'accusa di essere un «terrorista» gulenista. Da tempo Erdogan accusa i cristiani di voler rovesciare il suo governo.

di Leone Grotti

 
Il pastore Andrew Brunson
Andrew Brunson è un pastore protestante americano e per 23 anni ha vissuto in Turchia, a Izmir, senza mai «avere avuto problemi di alcun genere». Poi il 7 ottobre è stato convocato dal ministero degli Interni e da allora non è ancora uscito dal carcere della città.

 Accuse di terrorismo
  La moglie Norine è stata detenuta per due settimane, e poi rilasciata, mentre Brunson è rimasto nella struttura detentiva dell'ufficio immigrazione per due mesi senza poter contattare il suo avvocato. Fino a quando, l'8 dicembre, non è stato trasferito in un centro antiterrorismo e accusato formalmente di «essere membro di un'organizzazione terrorista armata». Quale? Non si sa. Accusato in base a quali prove? Non si sa.

 Gulenista
  «La cosa più frustrante è che non ci danno nessuna informazione», ha dichiarato l'avvocato di Brunson, che vuole restare anonimo, al Wall Street Journal. Sembra però che sia stato bollato come gulenista, dal nome dell'imam che vive in America e che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha accusato di aver organizzato il colpo di Stato fallito di luglio. Da allora, decine di migliaia di persone sono state arrestate con l'accusa di essere "gulenisti".

 Teoria della cospirazione cristiana
  Dopo i poliziotti, i giudici, i pubblici ministeri, i giornalisti, i docenti e i membri dell'esercito, ora anche i religiosi sarebbero "gulenisti". Secondo Aykan Erdemir, ex parlamentare turco, «Erdogan sta diffondendo la teoria della cospirazione dei cristiani per aumentare il sostegno popolare al suo governo». C'è più di un segnale a sostegno di questa ipotesi: a luglio un editorialista turco vicino al governo ha scritto che la madre di Gulen sarebbe ebrea e il padre armeno. Gulen stesso è stato accusato di essere «un membro del Consiglio vaticano». Altri giornali hanno ipotizzato che i gulenisti trovino facile riparo «nelle chiese in Turchia», mentre un altro ancora ha riportato che Gulen in realtà non è un imam ma un prete cattolico.

 «Mandria di infedeli»
  L'avvocato di Brunson ha presentato ricorso contro la carcerazione preventiva del suo assistito, invano. In attesa che il processo si concluda, dunque, dovrà restare in carcere. Brunson non è l'unico ad avere avuto problemi all'indomani del colpo di Stato: molti altri pastori, secondo il segretario generale dell'Unione delle chiese protestanti, «hanno ricevuto minacce di morte sui loro telefonini», mentre dal palco delle manifestazioni a favore di Erdogan, leader politici e islamici hanno accusato del golpe «l'esercito dei crociati, cristiani ed ebrei, quella mandria di infedeli».

(Tempi, 4 gennaio 2017)


Huawei in trattative per acquistare israeliana HexaTier

Huawei, il produttore cinese di smartphone che sta progressivamente conquistando il mercato globale della telefonia, sta negoziando l'acquisizione di HexaTier una startup israeliana, la cui tecnologia protegge i database nel cloud.
Hexatier si concentra sulla cybersicurezza, il mascheramento dei dati dinamici, attività di monitoraggio, e la "discovery of sensitive data", ovvero l'identificazione dei dati che è il primo passo fondamentale in qualsiasi programma di sicurezza delle informazioni efficace. Inoltre, il software consente al sistema di creare restrizioni d'accesso sulla base di una serie di fattori come l'indirizzo IP, l'anzianità e la geografia.
Questa indiscrezione è emersa da fonti anonime del settore, le quali hanno anche rivelato che sembra che la trattativa stia per raggiungere una ottima conclusione.
Huawei collaborerà con HexaTier al fine di istituire un centro di ricerca e sviluppo in Israele per i database in cloud.
I negoziati seguono una visita da parte del CEO di Huawei Ren Zhengfei in Israele, avvenuta alcune settimane fa. I funzionari HexaTier e Huawei si sono celati dietro un no comment.
HexaTier, è stata fondata nel 2009 dal CEO Amir Sadeh, ha 40 dipendenti suddivisi tra gli uffici a Tel Aviv, Boston, e la California ed ha recentemente raccolto un finanziamento pari a circa 14,5 milioni di dollari da fondi di Venture Capital israeliani tra cui JVP e Magma and Rhodium.

(SiliconWadi, 4 gennaio 2017)


Contraddizioni a sinistra

di Gianluca Pontecorvo
Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

Quella che oggi si fa chiamare "sinistra" mi sembra sia afflitta da una strana e ormai diffusa malattia: l'autolesionismo. In Italia uno degli ultimi politici di lungo corso, Massimo D'Alema, l'unica missione in cui è riuscito con successo è stato far cadere dall'interno i governi di sinistra. In America il presidente Obama a fine mandato ne ha combinata una dietro l'altra: ha contribuito a far perdere le elezioni alla sua candidata Hillary Clinton e ha attaccato politicamente la Russia di Putin riguardo le interferenze russe durante le elezioni. Putin si è riccamente beffato di Obama e questo ha provocato un'attesa e una speranza in Trump che nemmeno "The Donald" sperava di avere.
   Nel mentre le sinistre Europee non riescono a mettersi sedute per concordare una politica comune che riesca fattivamente ad arginare le derive antieuropeiste, xenofobe e nazionaliste. Troppo importanti il valore storico della sinistra dell'accoglienza, anche se tirano Tir su mercatini di natale che uccidono donne, anziani e bambini. Insomma, uno disastro totale.
   Gli uomini che fanno qui politica volgendo lo sguardo ai valori della sinistra però li conosciamo bene; pieni di sé che il petto rischia di scoppiare ma il maglione a collo alto è la tenuta d'ordinanza, utilizzano un registro linguistico molto alto proprio per sottolineare la differenza tra loro e il resto del mondo che Umberto Eco levati ma, al tempo stesso, sono sempre pronti a darti del fascista quando non segui pedissequamente le loro teorie.
   La sinistra difende altissimi valori e principi, molti dei quali sento miei e che condivido, ma aveva altri personaggi a rappresentarla una volta. I personaggi di oggi sono infatti, se vogliamo trovare un punto di riferimento nel contesto israeliano, lontani anni luce dal "Ben Gurion pensiero". Peccato comunque che il concetto politico di destra e sinistra per come lo conosciamo noi oggi sia morto e sepolto. Loro però ancora hanno falce e martello in testa e concetti come terzomondismo, antiamericanismo, difesa dei più deboli (i palestinesi per esempio) sono mode che nella loro testa non sono da riporre in soffitta.
   Il mondo ebraico italiano non è certo salvo da questo fenomeno. Anche noi abbiamo i nostri intellettuali che dalla loro tastiera pontificano teorie ormai dimostrate assurde dai fatti. C'è anche chi ha il coraggio di attaccare costantemente l'operato del governo Netanyahu qualsiasi cosa faccia, accusandolo addirittura di "maleducazione" a seguito della recente votazione all'ONU e del successivo colloquio con alcuni ambasciatori nel giorno del natale. Una linea politica inconsciamente autolesionista che mi fa pensare: "Netanyahu fa rodere il fegato a chi non ce l'ha".

(moked, 3 gennaio 2017)


Israele non restituirà più i corpi dei terroristi abbattuti

Ritorsioni contro Hamas, la guerra degli ostaggi e delle salme

I corpi dei terroristi di Hamas abbattuti dalle Israeli Defense Forces non saranno più restituiti ai loro famigliari ma ora sarà il governo israeliano a occuparsi della loro sepoltura. Questa la risposta di Netanyahu al video diffuso da Hamas in cui si vede un prigioniero israeliano (modello Gilad Shalit) legato davanti a una torta con tre candeline. Titolo: «Tre anni nelle mani di Hamas e la responsabilità è del governo israeliano». Sul volto del prigioniero è stato photoshoppato quello di Shaul Oron, giovane militare israeliano dato per morto e la cui salma sarebbe ancora nelle mani del movimento islamico. Il video prosegue con l'ingresso nel luogo di prigionia di Oron di un Netanyahu travestito da clown. In passato Hamas aveva anche inviato lettere contraffatte ai genitori di Oron, senza però dimostrare se il giovane sia ancora in vita.

(Libero, 3 gennaio 2017)


Aprite gli occhi, occidentali: ecco le nostre "colonie" che voi odiate
   Articolo OTTIMO!


di Jonathan Pacifici

 
Naftali Bennet osserva dall'alto la "colonia" di Malè HaAdumim
Quando il sole tramonta Gerusalemme si tinge d'oro. Noi siamo sul Monte Scupus, appena dietro l'Università Ebraica, quando l'importante uomo politico italiano, ammirando la bellezza del deserto della Giudea all'imbrunire, stende il braccio verso il Mar Morto, quasi a voler toccare le graziose case in lontananza. "E quel quartiere meraviglioso, cos'è Jonathan?", mi chiede. "Quello è Malè HaAdumim" rispondo io, "ciò che voi chiamate una colonia". "Non è possibile" dice il mio ospite. "Non può essere". Non riusciva a capacitarsi che un si' bel quartiere con le sue case ordinate, i giardini, i palazzi, le scuole e i centri commerciali fosse "una colonia", il male supremo secondo le cancellerie occidentali. Il problema dei problemi del pianeta. Un male talmente enorme da far si' che il segretario di Stato americano gli dedicasse tutto il suo discorso di fine mandato. Non era solo quel politico a essere confuso. Lo sono tutti coloro con un briciolo di onestà intellettuale, con un minimo di resistenza al pregiudizio e con un filo di simpatia per un popolo, il popolo ebraico, che ha dato all'umanità così tanto ricevendo quasi sempre in ritorno persecuzioni, ingiustizie e violenza. Ma che diamine sono queste "colonie"? E allora parliamone. Parliamone una volta per tutte. Magari andiamoci anche, andiamo a vedere con i nostri occhi cosa c'è a meno di tre minuti dall'Università che custodisce l'eredità di Albert Einstein.
   Ebbene ci sono persone normali. Persone che crescono famiglie splendide, che lavorano, che studiano e che creano. Ci sono agricoltori e ingegneri hi-tech, professori universitari e dipendenti pubblici. Ci sono tanti bambini che studiano in scuole moderne e affiancano lezioni di informatica e stampa 3D, con la Bibbia e la Mishnà. Che studiano la storia ebraica e la filosofia europea e che vengono educati al rispetto della dignità umana, all'importanza sacra della vita. Ci sono fabbriche nelle quali operai palestinesi lavorano a fianco di operai ebrei con pari salario, pensione e assicurazione medica. Ci sono serre hitech tra le più avanzate del pianeta e Università, ospedali e parchi industriali. C'è la legge, il diritto alla proprietà, tribunali che giudicano, scuole che educano e servizi pubblici che funzionano. Ci sono trasporti moderni, sanità, strade, ponti e fognature. C'è insomma tutto quello che ci si aspetta in un posto civile. E non è scontato in questa parte del pianeta. A pochi chilometri da qui si consuma nell'indifferenza di tutti la guerra civile siriana con le sue centinaia di migliaia di morti. A sud l'Egitto con le sue rivoluzioni, a nord la polveriera libanese con i terroristi di Hezbollah, e poi Hamas a Gaza. Quelle che voi chiamate "Colonie" sono semplicemente posti dove vivono ebrei. Persone normali che cercano di migliorare la propria società e il mondo. Persone che si alzano la mattina con buoni propositi e vanno a dormire la sera con buoni risultati. Posti normali in una regione anormale.
   Volete smantellare tutto in nome di una non meglio specificata pace, che non si capisce con chi andrebbe fatta, perché i palestinesi hanno sempre e solo detto di no. Ma poi, va bene, facciamo la pace, facciamo un bello Stato palestinese. Per ottenere cosa? Un'altra Siria? Un altro Libano? Un altra Gaza? Non ci sono abbastanza stati arabi dove vengono represse le più basilari libertà? Davvero l'odio per gli ebrei è ancora così forte da preferire un altro luogo nel quale lapidare gli omosessuali, mutilare i genitali delle bambine e sgozzare gli infedeli? Davvero vi sono così simpatici i mafiosi corrotti della Anp che si spartiscono i miliardi di euro dei contribuenti (anche italiani) estorti con la falsa promessa dell'immunità dal terrorismo? (Si veda il Lodo Moro di cui ha parlato il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga). I paesi arabi sono un tale successo da andarsene a inventare un altro? E' quello che manca oggi? Un altro posto dove scannarsi a vicenda tra sunniti e sciiti, Fatah e Hamas, Jiad e martiti di Al Aqsa e con l'occasione programamre la Jiad contro ebrei e cristiani?
   Siamo nel teatro dell'assurdo nel quale mentre non si riesce a fare nulla per le centinaia di migliaia di morti in Siria si condanna Israele per l'occupazione del Golan e si chiede all'Onu la restituzione alla Siria! Alla Siria! Ma a chi? Ad Assad e i suoi macellai? All'Isis? Ci odiate talmente che preferite le fiamme dell'inferno siriano ai campi coltivati e gli ospedali israeliani dove i bambini siriani vengono curati? Davvero non vedete che l'unico posto in medioriente dove un arabo può votare, può ricevere una assistenza medica e realizzarsi professionalmente è Israele?
   Ritiratevi, ci dite. Ci siamo ritirarti da Gaza e abbiamo ricevuto migliaia di missili mentre il mondo ci condannava se ci difendevamo. C'erano le serre e la civiltà ora ci sono solo le macerie lasciate da Hamas, i tunnel e gli arsenali dei terroristi. Ci siamo ritirati dal sud del Libano, è venuta l'Onu, ha tracciato la Linea blu. Era il 2000. Eppure questa settimana il neo premier Libanese Hariri ha giurato lotta a Israele "fino alla liberazione delle terre libanesi occupate". Ma quali sarebbero queste terre se persino l'Onu ha dovuto dire che non esistono? Ma è chiaro: qualsiasi posto dove vive un ebreo.
   Continuate a sbandierare il diritto internazionale, che guardacaso si applica solo a noi. Però non vi interessa l'opinione di rinomati giuristi internazionali come il professor Eugene Rostow, il giudice Arthur Goldberg e Stephen Schwebel che ha presieduto la Corte internazionale di Giustizia che dissentono sulla definizione stessa di Territori occupati. Ma perché approfondire se John Kerry e Federica Mogherini hanno già deciso che gli ebrei hanno torto. Ma tanto abbiamo sempre torto. Solo per il giorno della Memoria siamo simpatici. Solo se siamo morti o stiamo morendo. Se siamo vivi no.
   E non capite che è esattamente questo l'antisemitismo. L'antisemitismo non è solo la scritta sul muro o la battuta razzista. E' anche trascurare tutti i problemi del pianeta e ossessionarsi a voler trovare qualcosa su cui criticare gli ebrei. Gli ebrei, non Israele o il governo Netanyahu. Gli ebrei e solo gli ebrei. Davvero non c'era altro di cui parlare che le colonie? Il mondo non ha altri problemi su cui un intervento di Kerry sarebbe stato utile?
   Lo aveva capito perfettamente Martin Luhter King:
    "Tu dichiari, amico mio, di non odiare gli ebrei, di essere semplicemente "antisionista". E io dico, lascia che la verità risuoni alta dalle montagne, lascia che echeggi attraverso le valli della verde terra di Dio: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, questa e' la verità di Dio. Tutti gli uomini di buona volontà esulteranno nel compimento della promessa di Dio, che il suo Popolo sarebbe ritornato nella gioia per ricostruire la terra di cui era stato depredato. Questo è il sionismo, niente di più, niente di meno... E che cos'è l'antisionismo? E' negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che rivendichiamo giustamente per la gente dell'Africa e accordiamo senza riserve alle altre nazioni del globo. E' una discriminazione nei confronti degli ebrei per il fatto che sono ebrei, amico mio. In poche parole, è antisemitismo… Lascia che le mie parole echeggino nel profondo della tua anima: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, puoi starne certo".
(Il Foglio, 3 gennaio 2017)


Aleppo, la città che non esisterà più

Devastata come Dresda nella seconda guerra mondiale, la sua bellezza è ormai perduta. Restano soltanto rovine, e tutto è avvenuto sotto lo sguardo dell'Occidente.

di Fiamma Nirenstein

 
La si guarda, e non ci si crede: com'era bella Aleppo con le piscine azzurre, la folla di turisti nel suk, i lampioni alti fatti a spirale, le scale leggiadre, le palme e i cedri del Libano a ombreggiare i viali e le piazze assolate, le grandi strade del centro trafficate e affollate di negozi, i marciapiedi dove passeggiavano a braccetto i vecchi e i bambini prendevano aria, com'erano onorevoli quelle moschee dove il rosa era il colore dominante, deliziose le cornici di marmo delle finestre e i rosoni orientali sulle facciate, magnifici i tappeti di pietra colorata delle piazze e i pulvini fatti per il culto, imponenti le torri guerriere delle mura armate, ma anche tranquillizzante il quotidiano traffico delle auto.
   E oggi? Un gioco semplice di sovrapposizione di immagini di ieri e di oggi non può che travolgere ogni nostra convinzione. Per la mente contemporanea le immagini incredibili della distruzione di Aleppo sono semplicemente impossibili: siamo cresciuti nell'idea, anzi, nella convinzione progressista che dove erano rovine avremmo costruito, dove erano i morti sarebbero nati i bambini, dove la polvere della distruzione occupava il panorama, là si sarebbero costruite nuove abitazioni, templi, chiese, fabbriche, ospedali, scuole. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la distruzione di Dresda - che fu operata dalle forze Reali Britanniche - rimase come un sanguinoso punto interrogativo, persino se si trattava di sconfiggere il nazismo, la scelta spaventosa di radere al suolo la popolazione e la struttura stessa di un'antica città tedesca. Chi ha visitato la città dopo la ricostruzione, ha visto le lisce spianate cariche di senso di colpa che testimoniano l'inconcepibilità di quanto era stato fatto.
   Oggi Aleppo è come Dresda, la sua popolazione è stata decimata, i bambini sepolti nelle macerie, le bombe hanno seguitato a martellare gli edifici al di là di ogni comprensibile strategia, se non quella di spiaccicare il nemico. Le immagini di Aleppo bombardata assumono un rilievo, appunto, al fosforo, ancora più crudeli perché quell'anno 2016 è passato così, mentre si faceva tutto a pezzi, e nessuno ci ha potuto e voluto far nulla. Per la nostra mente occidentale le immagini che vediamo qui ripetono ciò che volevamo pensare finito per sempre.
   La città di Aleppo era bella e grande, oggi è un mucchio di mattoni e polvere impastati col sangue. E tutto questo è avvenuto sotto i nostri occhi: dell'Unione Europea non parleremo, non mette conto immaginare una strategia di intervento di questo corpo paralizzato; le Nazioni Unite hanno persino rifiutato, nel Consiglio di Sicurezza, di votare una no fly zone, preferendo occupazioni futili come i ripetuti voti contro Israele; Obama ha optato le sue personali ossessioni e la sua politica di appeasement, rinunciando a ottemperare alla promessa di reagire contro l'uso di gas chimici contro i civili. Certo, i terroristi dell'Isis ci hanno messo del loro, ma anche i suoi nemici che hanno sfruttato l'occasione per una vera pulizia etnica della parte sunnita, estremista o meno: Assad il tiranno dal volto improbabile che persegue a qualsiasi costo il suo potere; l'Iran, che come una tigre caccia ogni possibile preda per il suo potere sciita; i suoi valvassori, gli hezbollah. E alla loro testa, senza remore, il monolite Putin, un abilissimo personaggio costruitosi tutto intorno alla impellente necessità di entrare nei libri di storia come il vero discendende dello zar, o anche di Lenin e Stalin, non importa. Questo è il panorama, senza dimenticare Erdogan che spinge la Turchia in avventure che letteralmente gli scoppiano sempre in mano: prima migliore amico di Assad, poi pronto a odiarlo sopra ad ogni altro, addirittura gli aiuti all'Isis, infine al fianco dei russi per sconfiggere il Califfato.
   Mentre scriviamo da Gerusalemme, su Aleppo cade la notte della tregua che speriamo, comunque, duri almeno un po': il tempo di uscire dalle rovine, guardare la luna, montare su qualche veicolo, portare i bambini lontano. Così che odano i prossimi bombardamenti, perché ci saranno, come un'eco di tuono antico, finito. Questo resta di Aleppo. Questo resta della Siria, e nessuno si è mosso.
E non facciamoci illusioni: un'alleanza Putin, Assad, Khamenei, Nasrallah è la migliore garanzia che altre rovine si aggiungeranno ai mattoni sbreccati di Aleppo.

(il Giornale, 3 gennaio 2017)


Mezza Turchia sorride per la strage di Istanbul

Le autorità religiose e il partito di Erdogan guidavano una dura campagna contro il Natale e il Capodanno. E ora molti esultano: puniti i blasfemi cristiani.

di Carlo Panella

La notizia più sconvolgente del «giorno dopo» dell'attentato al night club Reina di Istanbul è che in Turchia a molti è piaciuto e che non pochi l'hanno approvato, come testimoniano i tanti tweet e pagine Facebook entusiasti. La ragione della popolarità di quel macello è semplice: ha punito i « blasfemi cristiani» che festeggiavano una festività deprecata da una massiccia campagna scatenata nelle ultime settimane dalle massime autorità religiose della Turchia, col pieno avvallo del Akp, il partito di governo di Erdogan. «Müslüman Noel kutlamaz», «Müslüman yilbasi kutlamaz»: «un musulmano non può festeggiare il Natale; un musulmano non può festeggiare il Capodanno», questi gli slogan ripetuti ossessivamente dalla Diyanet, l'Autorità per gli Affari Religiosi, l'organo che gestisce l'amministrazione del culto islamico nel Paese. Mehmet Gormez, il direttore della Diyanet ha quindi ordinato che nel sermone di venerdì 30 gli 80 mila imam di altrettante moschee della Turchia invitassero i musulmani a non «assumere atteggiamenti contrari alle loro usanze e agli ambienti di provenienza», con esplicito riferimento ai festeggiamenti per l'arrivo del 2017, che «rischiano di corrompere lo spirito del popolo turco».
   Alla campagna dell'Islam di Stato, si è poi aggiunta quella, ancora più aggressiva, degli Alperen Ocaklari, gli eredi dei Lupi Grigi, iper nazionalisti e musulmani, che hanno affisso manifesti in cui un vigoroso turco in costume tradizionale stende con un vigoroso pugno in faccia un povero Santa Claus, incuranti del fatto che San Nicolò, Santa Claus, nacque proprio in Turchia e che la sua casa è meta di pellegrinaggi. In alcuni quartieri di Istanbul, poi, vi sono stati episodi di violenza e manifestazioni con centinaia di aderenti contro la celebrazione di Yilbasi, il Capodanno, mentre molti negozi che tradizionalmente vendevano gli addobbi per gli alberi di Natale hanno cessato di venderli. Va tenuto presente che in Turchia il giorno di Natale non è ovviamente una festività, è un giorno feriale, ma nel corso degli ultimi decenni la festività di Yilbasi ha attecchito al punto tale che gli alberi di Natale in suo onore venivano preparati settimane prima e la notte del 31 dicembre è sempre stata occasione di grandi festeggiamenti. Ma per l'Islam fondamentalista seguito da Erdogan e dalla sua Akp, non solo quello jihadista, l' albero di Natale è un idolo venerato e quindi rappresenta il peggior peccato che possa compiere un musulmano, ma addirittura lo stesso calendario gregoriano, che Ataturk introdusse, è abusivo, è «cristiano» e quindi da rigettare. Per i musulmani infatti, siamo nel 1438, gli anni che intercorrono dal 622, anno dell'Egira, la fuga di Maometto dalla Mecca. In apparenza i conti non tornano (1438 più 622 fa infatti 2060) per la semplice ragione che secondo le prescrizioni di Maometto l'anno va calcolato sui cicli della luna ed è quindi di 354 giorni, più un giorno bisestile ogni tre anni. Così, festeggiare il 31 dicembre è doppio segnale di apostasia e di cedimento alle usanze idolatriche dei cristiani.
   Dunque, l'attentato del 31 dicembre arriva al culmine di una poderosa e intollerabile campagna anticristiana che ha coinvolto tutta la Turchia sotto la regìa del governo che ha dato precise istruzioni alle autorità religiose che controlla. Da qui, l'apprezzamento per la strage del Reina espressa in Rete o in tante, troppe coscienze. Definitivo e irrecuperabile passo per l'allontanamento della Turchia di Erdogan dall'Europa. Segnale pericolosissimo dell'allargamento a grandi strati popolari del più basso sentimento anticristiano.
   Ben cosciente di questo retroterra, l'Isis, non per la prima volta, ha dato prova di sapere ottenere consenso per le sue stragi (fenomeno che si era già largamente verificato nella comunità araba e islamica in Francia dopo gli attentati a Charlie Hebdo e del Bataclàn). La rivendicazione dell'Isis della strage del Reina, giunta ieri, è infatti chiarissima: «Per continuare le operazioni benedette che lo Stato Islamico sta conducendo contro la protettrice della croce, la Turchia, un soldato eroico del Califfato ha colpito uno dei più famosi night club dove i cristiani celebravano la loro vacanza apostata». Dunque, punizione della «apostasia» dei cristiani, ma anche avvertimento di sangue ad un governo turco che, nonostante le sue condanne delle festività cristiane, si è alleato in Siria con la «Santa Madre Russa» del cristianissimo Vladimir Putin per combattere i jihadisti e l'Isis stessa.
   Dunque, una rivendicazione che illustra meglio di un manuale i disastri della politica di Erdogan, che da un lato prepara il terreno per un consenso popolare alle infami e sanguinose punizioni dei «cristiani» messe in atto dall'Isis, e dall'altro non riesce a garantire minimamente la sicurezza dei suoi cittadini puniti con una serie ormai infinta di attentati a causa delle sue giravolte nella politica estera e nella guerra civile siriana: prima a fianco dei jihadisti e ora dei «cristiani» russi che li bombardano.

(Libero, 3 gennaio 2017)


I mercenari palestinesi al servizio di Assad

La comunità internazionale, sempre pronta a indignarsi per i palestinesi, preferisce ignorare che migliaia di miliziani palestinesi collaborano alla carneficina del popolo siriano.

Probabilmente non è un caso se, nel corso dell'ultimo secolo, i vari dirigenti palestinesi hanno sempre privilegiato alleanze internazionali non particolarmente felici e non particolarmente vantaggiose nemmeno per loro.
Si consideri l'alleanza formata dal Gran Muftì di Gerusalemme durante il Mandato britannico, Hajj Amin al-Husseini, che durante la seconda guerra mondiale sostenne attivamente Adolf Hitler e il Terzo Reich. Al-Husseini sperava che i tedeschi vincessero la guerra e che Hitler diventasse il Fuhrer del Medio Oriente. Dopo la sconfitta dei nazisti, tuttavia, l'Occidente non dimenticò completamente il ruolo svolto da al-Husseini, il che danneggiò gravemente la causa palestinese per oltre due decenni....

(israele.net, 3 gennaio 2017)


L'Ospedale Israelitico di Roma verso il rilancio, nominato il nuovo direttore generale

Giovanni Naccarato ha partecipato al risanamento di grandi gruppi. Verrà riaperta un'altra sede

di Valeria Arnaldi

 
L'Ospedale Israelitico di Roma
ROMA - Un mese fa circa, l'insediamento del nuovo Cda. Ieri, quello del nuovo direttore generale, Giovanni Naccarato, 44 anni. Nuovo corso per l'ospedale Israelitico, in piazza San Bartolomeo all'Isola, sull'isola Tiberina, che circa tredici mesi fa era stato commissariato a seguito dello scandalo giudiziario che ha portato all'arresto dell'ex-direttore generale. Dopo un periodo decisamente difficile, complicato dalla sospensione durata alcuni mesi delle autorizzazioni sanitarie della Regione Lazio, che ha determinato una inevitabile sofferenza finanziaria - non sono stati effettuati tagli al personale, né agli stipendi - ora si lavora al rilancio della struttura. Non a caso, Naccarato vanta una forte esperienza manageriale: dottore commercialista e revisore contabile, ha partecipato al risanamento e alla ristrutturazione di primari gruppi italiani quotati su mercati regolamentati. A lui il compito di risollevare la situazione finanziaria grazie a nuove strategie manageriali e a una attenta pianificazione delle attività sanitarie.

 I progetti
  Molti gli impegni in agenda, a partire dalla riapertura di una delle quattro sedi dell'Ospedale, quella in via Veronese 53, ancora in attesa che siano conclusi gli iter burocratici per il rilascio delle necessarie autorizzazioni. Non solo ripristino. L'attività di rilancio prevede nuovi interventi. Entro primavera saranno aperte tre librerie ebraiche all'interno delle sale d'attesa delle tre sedi dell'Ospedale attualmente aperte. In catalogo, testi del Talmud, massime sulla vita ebraica, romanzi, libri per bambini. Obiettivo, fornire modi e strumenti per approfondire la cultura ebraica nei suoi molteplici aspetti. Nel piano culturale pure la valorizzazione dello storico Tempio dei Giovani, sull'Isola.

 La mostra
  «L'ospedale rischiava di chiudere - ha ricordato il presidente dell'Ospedale Israelitico, Bruno Sed, nei giorni scorsi, in occasione dell'accensione pubblica della Hanukkah - Abbiamo lottato. Ha lottato la Comunità e hanno lottato soprattutto i dipendenti che hanno creduto in una storia che affonda le sue radici nel Seicento. Ce l'abbiamo fatta: ora la struttura è completamente restituita ai cittadini». E ancora: «Non è stato facile, eppure siamo riusciti a tornare un ospedale vivo, punto di riferimento di una sanità al servizio dei cittadini». Mentre si guarda al domani con interventi sul breve e medio periodo, non si trascura il programma di appuntamenti. Tra i primi, una mostra sulla storia della pubblicità dei medicinali tra gli anni Trenta e Sessanta, nonché la pubblicazione di un volume sull'Ospedale, realizzata in collaborazione con il Dipartimento Cultura della Comunità Ebraica di Roma per raccontare una pagina importante di storia della città.

(Il Messaggero, 3 gennaio 2017)


Ebrei, armeni e razzisti, il mito del sangue

Una rilettura analitica degli anni '30 del Novecento vista da un'originale prospettiva in un recente libro di Enrico Ferri. Ne parliamo con l'autore, docente alla Cusano.

È recentemente uscito negli USA, edito dalla Nova Publishers di New York, lo studio "Armenians-Aryans", che ha per sottotitolo "Il 'mito del sangue' le leggi razziali del 1938 e la comunità armena in Italia''. L'autore del libro, Enrico Ferri, insegna Filosofia del diritto e Storia dei Paesi Islamici ®. A partire da un episodio poco conosciuto degli anni Trenta dello scorso secolo, la questione dell'appartenenza o meno degli Armeni alla presunta razza ariana, si ricostruisce il dibattito che in quegli anni coinvolse la Germania, l'Italia e molte nazioni europee, sui criteri per definire la presunta razza di un popolo, con la prima importante distinzione tra ariani e non ariani, Non si trattava di un dibattito puramente teorico, poiché la classificazione razziale di un popolo comportava il riconoscimento o la perdita di una serie di diritti fondamentali.

- Professor Ferri, vorrei cominciare dalla questione di fondo del suo libro, il razzismo. Lei parla del razzismo come di una forma estrema e degenerata di etnocentrismo. Vuole definire in sintesi questa differenza?
  «Etnocentrismo significa riconoscere la centralità della propria comunità di appartenenza, dei suoi valori e della sua cultura. Se però si ritiene il gruppo a cui si appartiene, la sua cultura e la sua storia, come la più alta espressione della civiltà, quindi come il solo veramente legittimo, le caratteristiche della propria comunità sono prese come metro di misura del valore e del disvalore. In altre parole, per il razzista le altre comunità sono giudicate secondo la maggiore o minore vicinanza alla propria cultura e alle proprie caratteristiche. L'originalità, la diversità non costituiscono un valore, ma piuttosto un limite».

- Nel suo studio pubblicato negli USA lei analizza le vicende della comunità armena in Italia, proprio a partire dalla legislazione razzista promulgata prima in Germania, a partire dal 1933, e poi in Italia, nel 1938.
  «Sì, con una formulazione molto ambigua si parlò di leggi in "difesa della razza'; come fossero delle misure di salvaguardia e di protezione. Vennero definite "leggi razziali'; non razziste, come se fossero finalizzate a una scolastica classificazione delle razze e non a una discriminatoria selezione».

- "Le leggi a difesa della razza'' partivano dal presupposto che l'umanità era divisa in razze con diverse culture e valori, classificabili in modo gerarchico e chele razze superiori andavano protette dalla "contaminazione" e dagli incroci con le razze inferiori. È cosi?
  «Sì, a partire da una macro classificazione, fra ariani e non ariani, Gli ariani o indoeuropei erano considerati ai vertici della gerarchia raziale, mentre i semiti, cioè gli ebrei, e i neri erano descritti come l'antitesi degli ariani».

- Lei, però, nel suo libro mette bene in evidenza che categorie classificatorie come quelle di ariano non avevano una base scientifica credibile.
  «Si partiva dal fatto che in quasi tutte le lingue europee ci sono una serie di caratteristiche comuni e da questo si deduceva che ci sarebbe stata una lingua originaria comune e, di deduzione in deduzione, un popolo che la parlava. Se c'era stato un popolo con la sua lingua e cultura c'era sicuramente stata anche una sua terra originaria. Questa però è una costruzione ideologica, non c'è nessuna prova che esistesse né una lingua, né un popolo, né una patria originaria. Era difficile persino trovare un nome certo per definire questo popolo originario, chiamato volta per volta indo-europeo, indo-iranico, indo-germano, ariano ... Senza considerare la presunta terra d'origine: l'India, il nord della Germania, l'alto Danubio, il Polo Nord, l'Atlantide ...».

- In che modo gli armeni che vivevano in Italia furono coinvolti dalla legislazione razziale?
  «Se fossero stati considerati non ariani avrebbero perso una serie di diritti fondamentali: avrebbero avuto un destino simile a quello degli ebrei: discriminati prima, perseguitati poi».

- Quali furono gli argomenti a favore e/o contro la loro presunta arianità?
  «Secondo alcuni razzisti gli Armeni erano simili agli Ebrei, entrambi popoli diasporici e con una spiccata vocazione mercantile. Altri razzisti, invece, sottolinearono che gli Armeni erano il primo popolo ad aver adottato il cristianesimo e che nel medio-oriente rappresentavano un popolo con una cultura e un'identità europee».

- Lei però evidenzia anche una serie di altri motivi che ebbero un ruolo importante nella classificazione razziale degli armeni, alla fine considerati ariani.
  «Sì, ma non solo in quest'occasione. Basti pensare che i Giapponesi, asiatici non ariani, furono i principali alleati dell'Italia fascista e della Germania nazista e che Mussolini si proclamò come la "spada dell'Islam" e il protettore degli arabi, che erano semiti. Nel caso degli Armeni giocarono fattori storici importanti: erano stati perseguitati e sterminati dai Turchi nel 1915, contro i quali l'Italia aveva combattuto nella Prima guerra mondiale e tra le due nazioni c'erano stati importanti legami storici che risalivano ai tempi di Roma, senza considerare la limitata presenza degli armeni in Italia che non superava le 2000 unità».

- Esiste una riflessione che può riassumere il senso della sua ricerca?
  «Che si deve sempre ricorrere alla falsificazione e all'ideologia quando si vuole negare un dato elementare che Cicerone riassume con la frase che riporto all'inizio del mio libro: "Quale che sia la definizione di uomo che adottiamo, essa è valida per ogni uomo».

(Corriere dello Sport, 3 gennaio 2017)


A Roma gli ebrei avevano la stoffa anche quella di Cristina di Svezia

In un libro sulle antiche mappòt usate per avvolgere i rotoli della Torah i volti e le voci della comunità riprendono vita come in un film.

di Ariela Piattelli

 
Con ago e filo le donne del ghetto di Roma hanno liberato la creatività per lunghi secoli, quando agli ebrei era proibito ogni mestiere d'arte. Cucivano a mano, nelle loro case, perché il telaio era uno strumento troppo rumoroso. La storia delle famiglie ebraiche di Roma è scritta sulle mappòt (plurale di mappà), i drappi che rivestono la Torah (Pentateuco) e che le famiglie donavano alle sinagoghe per celebrare avvenimenti, ricorrenze, anniversari.
   Sono oltre 200 le mappòt custodite nel Museo Ebraico di Roma, che ne possiede la collezione più grande al mondo: un tesoro unico, che rivela storie, nomi e destini su tessuti pregiati, dalla fine del '500 a oggi. Alcuni giorni fa è stato presentato alla biblioteca degli Uffizi di Firenze il volume Antiche mappòt romane. Il prezioso archivio tessile del Museo Ebraico di Roma (ed. Campisano), a cura di Doretta Davanzo Poli, Olga Melasecchi e Amedeo Spagnoletto, che corona un grande progetto di Daniela Di Castro, la direttrice del Museo Ebraico scomparsa prematuramente nel 2010.
   «Ciò che emerge dalle mappòt romane è la fedeltà tenace a un'identità minacciata. Questi tessuti erano una forma di resilienza», spiega Alessandra Di Castro, direttrice del Museo Ebraico dal 2012. «Scorrendo il volume sembra di vivere un film in cui riprendono vita voci e personaggi di cui si percepiscono le preoccupazioni, ma soprattutto la profonda spiritualità». Un film «girato» con tecnologie all'avanguardia: il fotografo di opere d'arte Araldo De Luca ha inventato un carrello computerizzato per ottenere le immagini dei lunghi drappi.
   «Con il direttore degli Uffizi Eike Schmidt», annuncia Di Castro, «abbiamo deciso di fare una mostra delle mappòt nel 2018 proprio nel prestigioso museo di Firenze». Manufatti di tessuti pregiati con su ricamati gli stemmi delle famiglie, circondati da iscrizioni in ebraico, che comunicavano un avvenimento all'intera comunità, quando il Sefer, ovvero il rotolo della Torah, veniva innalzato, avvolto dalla mappà, in una sinagoga nel momento solenne della preghiera.
   «Nelle mappòt è scritta la storia di molte famiglie: le donavano alle sinagoghe in varie occasioni. Festività, eventi straordinari, nascite, festeggiamenti per un matrimonio, guarigioni da malattie, o in ricordo degli estinti», spiega la curatrice del museo Olga Melasecchi. «Ognuno di questi manufatti "ricuce" una storia, e in alcuni casi, intrecciando vari dati, è possibile ricostruire vicende delle singole famiglie».
   Nel corso dello studio sono state fatte vere e proprie scoperte. Come quella sull'addobbamento per il Sefer donato da Tranquillo Corcos, che era stato nominato rabbino capo della comunità nel 1703: «Per l'addobbamento era stata utilizzata una preziosa stoffa appartenuta a Cristina di Svezia. Daniela Di Castro riconobbe i simboli della famiglia reale, e infatti quel tessuto rivestiva l'interno della carrozza della regina».
   Poi c'è una mappà donata a una sinagoga nel 1749 dal padre di Anna Del Monte, la giovane rapita nel ghetto di Roma e rinchiusa della casa dei catecumeni con l'obiettivo, poi mancato, di convertirla al cristianesimo. «Il drappo, su cui è scritto il passo di Isaia "Sion verrà riscattata con il diritto e quelli che fanno ritorno con la giustizia", celebra il ritorno a casa della ragazza che ha difeso la sua identità», racconta Amedeo Spagnoletto. «A volte con le mappòt si celebravano eventi storici: ne abbiamo una che gli ebrei di Roma avevano deciso di donare alla comunità ebraica di Addis Abeba per il primo anno dell'impero italiano, ma questa non fu mai recapitata. Le mappòt erano uno strumento di comunicazione: con questi tessuti a quel tempo era possibile condividere informazioni, status e ispirare donazioni alle sinagoghe».
   La tradizione della mappà arriva dalla Spagna, ma a Roma assume caratteristiche uniche per l'uso dei tessuti e per l'arte del ricamo. «Le donne ebree del ghetto di Roma avevano maturato una competenza straordinaria nell'arte del ricamo e del cucito», spiega la storica dell'arte Doretta Davanzo Poli, «venivano addirittura impiegate nella cucitura dei tessuti destinati ai Pontefici, malgrado non fosse loro concesso. Era l'unico mezzo per esprimere creatività e fede dal profondo dell'anima. La loro arte del ricamo è unica, colorata, vistosa e in rilievo. L'attività di tessitura con filati coloratissimi, metalli nobili, quali oro e argento, viene realizzata con una tecnica che rende un effetto ottico straordinario, diverso da tutte le altre mappòt realizzate nel mondo. E la lavorazione a mano ha permesso a questi preziosi drappi di conservarsi e di arrivare ai giorni nostri».

(La Stampa, 3 gennaio 2017)


Netanyahu potrebbe svolgere un ruolo di mediazione tra Trump e Putin

GERUSALEMME - Alcuni consiglieri del presidente eletto statunitense Donald Trump gli avrebbero proposto di invitare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alla cerimonia di insediamento alla Casa Bianca del 20 gennaio. Lo riferiscono fonti Usa riprese dal quotidiano israeliano "Haaretz", precisando che l'ufficio del premier israeliano afferma di non aver ricevuto nessun invito. L'editoriale del quotidiano israeliano mette in relazione questa notizia con la seconda telefonata avvenuta nel corso dell'ultima settimana tra Netanyahu ed il presidente russo Vladimir Putin. L'analisi sostiene che tra le due notizie esisterebbe un nesso. Netanyahu, infatti, potrebbe rivelarsi un alleato indispensabile per Trump nel suo sforzo di conseguire un riavvicinamento diplomatico tra Washington e Mosca. Netanyahu potrebbe contribuire ad alleviare la resistenza dei senatori repubblicani statunitensi favorevoli alla linea dura contro la Russia, e rivelarsi così fondamentale al conseguimento di una distensione che dovrebbe passare necessariamente per la revoca delle sanzioni contro la Russia approvate dal presidente uscente degli Stati Uniti, Barack Obama nel 2014 e 2015.

(Agenzia Nova, 2 gennaio 2017)


L'odio per Israele unisce le forze oscure

L'antisemitismo è sopravvissuto alla Shoah. Il virus è mutato.

da Times (19/12/2016)

Come si fa a sapere se uno è antisemita?" Inizia così la column dell'ex ministro dell'Istruzione inglese, Michael Gove, uno dei leader della Brexit. "Ma l'antisemitismo non è un pregiudizio limitato a Richard Spencer, Hassan Nasrallah e l'ayatollah Ali Khamenei. Come si addice all'odio più antico e più durevole del mondo, esso ha molti più aderenti e assume molte forme diverse". In epoca medievale, quando gli individui avevano un senso del loro mondo attraverso il prisma della fede, l'antisemitismo era un pregiudizio religioso. Nel XIX e XX secolo - l'età del darwinismo - l'antisemitismo ha vestito il camice bianco dello scienziato. Le metafore biologiche sono state impiegate per modernizzare l'odio. Gli ebrei erano portatori di "contaminazione razziale", che doveva essere eliminato come una minaccia patologica per il futuro dell'umanità. "Questa convinzione ha portato al più grande crimine della storia. L'antisemitismo sarebbe dovuto morire nei forni della Shoah. Ma l'odio è sopravvissuto. E, come un virus, ha mutato". L'antisemitismo è passato da essere odio verso gli ebrei per motivi religiosi o razziali a ostilità verso la più orgogliosa espressione dell'identità ebraica: Israele. "Il boicottaggio è una forza crescente nelle nostre strade e campus. I suoi sostenitori dicono che dovremmo ignorare le idee di pensatori ebrei se quei pensatori provengono da Israele e trattare il commercio ebraico come una impresa criminale se tale attività è svolta in Israele. Si tratta di antisemitismo. E' l'ultima recrudescenza della questione secolare secondo cui l'ebreo può vivere solo a condizioni stabilite da altri. Una volta gli ebrei dovevano vivere nel ghetto, ora non possono vivere nella loro patria storica".
   Gove continua raccontando di Israele. "Circondato da nemici che hanno cercato di strangolarlo dalla nascita, continuamente minacciato dalla guerra e costantemente sotto attacco terroristico, una nazione a malapena delle dimensioni del Galles, senza risorse naturali, la cui metà del territorio è desertica, è diventata una democrazia fiorente, un centro di innovazione scientifica, uno dei principali fornitori al mondo di aiuti umanitari internazionali e l'unico stato da Casablanca a Kabul con una stampa libera, una magistratura libera, una fiorente economia, una libera impresa e la libertà per le persone di ogni orientamento sessuale a vivere e amare come vogliono. E questo è il motivo per cui attrae tale ostilità. Non a causa di ciò che fa Israele. Ma a causa di quello che è.
   E come funziona l'antisemitismo oggi? "Mantenendo vivi i pregiudizi, sbarazzandosi dei fatti, riducendo il sostegno a Israele, facendone l'unico paese al mondo il cui diritto di esistere è continuamente in discussione, denunciando l'università britannica di essere un 'avamposto sionista"'. Conclude Gove: "Le forze più oscure del nostro tempo sono unite da una cosa prima di tutto: il loro odio per il popolo ebraico e la loro patria".

(Il Foglio, 2 gennaio 2017)


"L'antisemitismo è come l'acqua"


Ebraismo, “Giardino domande” a Ferrara

Piante aromatiche e specie bibliche per avvicinarsi alla cultura

 
Il Giardino delle domande
FERRARA - Alloro, mirto, timo, lavanda e maggiorana: le piante aromatiche utilizzate per l'Havdalah, la preghiera che si recita al termine dello Shabbat, ci sono già tutte e saranno presto affiancate da frumento, orzo, olivo, vite, melograno, fico e palma da datteri, le sette specie bibliche. Il luogo in cui queste essenze trovano dimora è il 'Giardino delle domande', nel comprensorio del Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah a Ferrara.
"Con questo progetto, unico in Italia - spiega Simonetta Della Seta, direttore del Museo - vogliamo invitare il pubblico ad avvicinarsi alla cultura ebraica anche attraverso i suoi odori e i suoi sapori. Nel Giardino, inaugurato in primavera, si parlerà delle spezie presenti nella Bibbia e dei sentieri dell'alimentazione ebraica. L'approccio coinvolgerà i cinque sensi, facendo riflettere sulle differenze e sulle molte somiglianze con altre tradizioni". Il Giardino servirà anche a rispondere alle curiosità e alle domande più diffuse sull'alimentazione degli ebrei.

(ANSA, 2 gennaio 2017)


Una piazza sopra l'antico cimitero ebraico. I rabbini da Israele e Usa contro l'archistar

Mantova - Il progetto, firmato dall'archistar Stefano Boeri, si chiama «Piazza della terra» e sorgerà sull'antico cimitero ebraico. Per fermare il piano si sono mossi i rabbini dagli Usa e Israele. La giunta: «Troveremo una mediazione».

di Sabrina Pinardi

Per salvare l'antico cimitero di San Nicolò, a Mantova, dove riposano i resti di alcuni tra i più illustri cabalisti italiani, si sono scomodati rabbini dagli Stati Uniti e da Israele. Intenzionati a fermare le ruspe e mettere i paletti al progetto del Comune, che su un'area di 25 mila quadrati a ridosso del Lago Inferiore, che include anche il cimitero, vorrebbe una «Piazza della terra» con laboratori dedicati all'ambiente, un mercato per la promozione di prodotti agricoli locali e spazi per l'accoglienza dei disabili. Progetto firmato dall'archistar Stefano Boeri. Un piano di riqualificazione che ha ottenuto un finanziamento di 18 milioni di euro dalla Presidenza del Consiglio dei ministri grazie al Bando periferie, ma che preoccupa la Comunità ebraica mantovana e non solo: della vicenda si sta interessando anche l'Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane), che per voce della sua presidente Noemi ili Segni chiede di interrompere eventuali attività di demolizione per tutelare un luogo sacro.
   Nel cimitero di San Nicolò furono sepolti, a fine Seicento, Azariah Da Fano e Rabbi Moshè Zacuto, due tra i più eminenti cabalisti italiani. Oltre a tanti ebrei della comunità mantovana, che fino a metà Ottocento, con più di 2.000 componenti, era una delle più importanti d'Italia. L'antico cimitero, autorizzato da Francesco Gonzaga nel 1442 e chiuso nel 1786, era stato venduto dalla Comunità ebraica al genio militare austriaco nel 1852, ma ad alcune condizioni messe nere su bianco nell'atto notarile: tra queste che il terreno dovesse rimanere un prato, che venissero conservate le lapidi e fosse assicurato il diritto di entrarvi per poter rendere omaggi ai defunti. In seguito, su parte dell'area furono costruiti i capannoni della caserma del Gradaro, che ospitavano gli artiglieri del 4o Reggimento contraerei. Mentre durante la guerra, dal '43, divenne campo di concentramento per i militari italiani.
   Di proprietà del Demanio fino allo scorso agosto, quando è stata ceduto al Comune in concessione gratuita, oggi dell'antico cimitero non rimane nulla. Solo un'iscrizione in ebraico ricorda la passata destinazione di quel terreno. Ma per la Comunità ebraica, presieduta da Emanuele Colorni, rimane comunque un luogo della memoria da tutelare. E qui, secondo lo studioso, dovrebbe sorgere un grande giardino, senza le costruzioni volute dai nazisti, disegnato secondo le regole delle «sefìrot», gli strumenti di Dio secondo la cabala. «Stiamo organizzando un secondo momento tecnico per capire che spazi di mediazione ci sono - spiega l'assessore all'Urbanistica Andrea Murari - ma non intendiamo fermare il piano di riqualificazione dell'area, in stato di degrado assoluto. Il progetto è stato presentato e finanziato. Non possiamo permetterci di fermarlo». Intanto, prima di Natale, le ruspe sono entrate a pulire l'area e «renderla accessibile dopo anni di incuria». E i vincoli citati nell'atto di vendita di fine Ottocento? «Non stravolgeremo il luogo - chiude Murari - ci limiteremo a recuperarne gli spazi, compresi i capannoni ammalorati. E su eventuali vincoli si esprimerà la Soprintendenza archeologica».

(Corriere della Sera - Milano, 2 gennaio 2017)


"Mantova - Città capitale della cabala. Seppelliti qui i grandi maestri"


Artrosi: Il metodo israeliano

Il gigante farmaceutico con sede a Mumbai, la Sun Pharmaceutical Industries, ha firmato un accordo di licenza in esclusiva, per sviluppare un nuovo trattamento creato dall'israeliana Moebius Medical, per il dolore causato dall'osteoartrosi (secondo la corrente terminologia anglofona, anche osteoartrite).
L'iniezione MM-II lubrifica le articolazioni del ginocchio, riducendo l'attrito e il dolore causati da un'osteoartrosi (o artrosi) lieve-moderata.
L'osteoartrosi è una delle principali cause di dolore e disabilità tra gli adulti e colpisce più di 100 milioni di persone al mondo. Per comprendere ancora meglio la sua diffusione, basta pensare che più di 20 milioni di cittadini americani soffrono di artrosi del ginocchio.
Queste le parole di Moshe Weinstein, CEO di Moebius Medical:
Il fatto che la nostra nuova tecnologia sia stata concepita in Israele e sviluppata all'interno del RAD Biomed Accelerator, conferma la qualità unica dell'ecosistema biotecnologico del paese. La nostra tecnologia è nata dalla collaborazione multidisciplinare tra alcuni professori delle più prestigiose istituzioni di ricerca di Israele: il Prof. Yechezkel Barenholz dell'Università Ebraica di Gerusalemme, il Prof. Izhak Etzion del Technion di Haifa e la Prof.ssa Dorit Nitzan dell'Hadassah Medical Center.
La Sun Pharma è la quinta più grande azienda farmaceutica al mondo e finanzierà un ulteriore sviluppo della tecnologia MM-II al fine di intraprendere la commercializzazione a livello globale.
Grazie agli studi effettuati presso l'Hadassah Medical Center, la Moebius ha dimostrato l'alto potenziale di questa tecnica che risulta essere anche più sicura rispetto agli attuali trattamenti effettuati mediante iniezione di acido ialuronico.

(SiliconWadi, 2 gennaio 2017)


Erdogan sta pagando il conto della sua politica filo-jihadista

di Carlo Panella

Poche centinaia di metri separano il night club Reina che si affaccia sul Bosforo, nel quale la notte del 1 gennaio un jihadista armato ha fatto un massacro sparando ad alzo zero sulla folla, dallo stadio Arena Vodafone di Besiktas, davanti al quale il 10 dicembre, un autobomba e un kamikaze fecero 38 vittime, ma pare proprio che i due fatti di sangue abbiano ben diversi autori. L'attentato allo stadio è stato rivendicato dal gruppo crudo Tak, ancora più estremista del Pkk, invece, quest'ultimo pare abbia tutte le caratteristiche di un'azione dell'Isis, già responsabile dei 40 morti del!' attentato ali' aeroporto dì Istanbul del 28 giugno, che fece 48 morti. Attribuzione legata al target ben diverso. Davanti allo stadio, l'obbiettivo erano chiaramente i poliziotti del servizio d'ordine (28 uccisi), tipico degli attentati curdi, mentre al nightclub Reina e all'aeroporto le vittime prescelte sono stati civili e turisti, tipico target dell'Isis, come già al Bataclan e a Parigi il 13 novembre 2015. Al nightclub Reina infatti, è stata evidente la volontà di uccidere chi pratica "attività peccaminose" e condannate dalla sharia come "il ballo promiscuo" e la musica, bandita dalla più rigida legge islamica.
   In attesa di una rivendicazione - che spesso non arriva - il dato certo è che la Turchia vive l'ennesima giornata di sangue, l'ennesimo attentato che sfregia Istanbul, così come da due anni in qua sono state sfregiate più volte la capitale Ankara, Goziantep e altre città turche. È questa senza dubbio la conseguenza del contagio siriano, malamente gestito dal presidente Tayyp Erdogan. Da cinque anni infatti, la Turchia è il retroterra logistico e politico della guerra civile siriana, affrontata con un atteggiamento ondeggiante e spesso irresponsabile da un Erdogan che in una prima fase, dal 2011 al 2015 con l'obiettivo di provocare la fine del regime di Assad, ha favorito il transito di decine di migliaia di jihadisti attraverso la frontiera con la Siria tanto che è stata documentata addirittura una grossa fornitura di armi ai jihadisti attraverso la frontiera, sotto la protezione dei Servizi turchi. Ma dal 2015 in poi, questa cinica e mal calcolata complicità con i jihadisti si è ribaltata in un contrasto diretto, incluso un intervento militare turco di terra nel nord della Siria. Nel 2016 poi, a seguito del fallito colpo di Stato di luglio, Erdogan ha addirittura ribaltato la sua strategia estera ed ha finito per allearsi con Putin, sono ad allora suo diretto avversario nella crisi siriana - del quale aveva addirittura abbattuto un jet mesi prima - nel sostanziale appoggio a Assad, consolidato dal triumvirato Russia-Iran-Turchia che ha sancito l'espulsione degli Usa dal Medio Oriente (grazie alla pessima politica di Obama) e conseguito la conquista della strategica Aleppo. Nel corso di queste giravolte strategiche, Erdogan è riuscito nel capolavoro di moltiplicare i suoi nemici interni ed esterni e di fornire sempre più motivazioni ai jihadisti per "punire a morte" il suo Paese. Anche perché dal 2014 in poi ha intrecciato le sue strategie ondivaghe sulla Siria con la scelta di cercare una soluzione solo militare della questione curda, contrapponendo all'avventurismo suicida del Pkk una repressione feroce. Repressione che gli è stata molto utile per vincere le elezioni politiche, ma che ha ripiombato la Turchia nella guerra civile interna con migliaia di morti.
   La clamorosa uccisione a favor di telecamera da parte di un poliziotto dell'ambasciatore russo ad Ankara, è prova del caos incontrollato che regna oggi in Turchia, come della totale inefficienza delle forze di sicurezza turche. Anche in questo, è palese la responsabilità diretta di Erdogan che dopo il golpe fallito di luglio ha arrestato centinaia di generali e dirigenti dei Servizi, della polizia, della magistratura rendendo caotico e inefficace tutto il sistema di sicurezza interna. La facilità con cui un solo uomo ha potuto compiere il massacro di Capodanno ne è sconcertante prova.

(Libero, 2 gennaio 2017)


Hello, Trump

Berto l'edicolante

di Mario Pacifici

 
Berto non era uno chef, ma aveva un buon rapporto con la cucina. Niente cibi spazzatura, a casa sua, niente surgelati preconfezionati, niente panini a scappar via. Faceva la spesa giorno per giorno e poi la sera si metteva ai fornelli e s'industriava a preparare ogni volta qualcosa di speciale.
Era un rito quello. Un'arma contro la depressione. Un modo per sentire la casa ancora viva.
Apparecchiava la tavola, stappava una bottiglia e si lasciava coccolare dal calore del cibo e del vino.
Poi si schiantava sul divano e con una tavoletta di cioccolata amara e un buon bicchiere di whiskey, metteva fine alla sua giornata, accendendo la televisione.
Berto detestava le fiction, non amava i film e del calcio non si curava affatto. Più che altro faceva zapping fra i talk-show, lasciandosi cullare dall'accidioso chiacchiericcio di ospiti e conduttori, in attesa di essere sopraffatto dal sonno. A volte però, tirava le ore piccole, intrigato dallo scontro di tesi opposte e inconciliabili.
Ultimamente gli era successo con le elezioni americane.
Lui ne aveva seguito gli sviluppi fin dalle primarie. Aveva visto cadere ad uno ad uno molti dei candidati dati per favoriti: politici sostenuti dagli establishment; pargoli di dinastie blasonate dalla ricchezza e dal potere; giovani rampanti, sostenuti da vaste minoranze. Nessuno aveva retto al ciclone Trump da una parte, o allo strapotere economico della Clinton dall'altra.
Berto non aveva tifato per quei due ma li aveva visti avanzare come rulli compressori, fino a conquistare la sospirata candidatura. E a quel punto aveva provato sgomento. Possibile che una grande democrazia come quella degli USA non fosse stata capace di esprimere contendenti moralmente più qualificati? Dove era finito l'orgoglio americano? Chi avrebbe incarnato il sogno di libertà, democrazia e uguaglianza, additandolo al mondo come la strada maestra dello sviluppo e del progresso? Certo non quei due che avevano calpestato, ognuno a modo suo, quell'etica civica e politica che dovrebbe essere il più essenziale requisito di un Presidente.
Berto, a quel punto, era entrato in fissa e in attesa delle elezioni, aveva preso a seguire tutti i talk show, cercando in quel bailamme di chiacchiere qualche brandello di comprensione.
Chi avrebbe vinto? Quali sarebbero state le politiche dell'uno o dell'altro? Cosa ci si poteva attendere?
I conduttori guidavano il gioco e come novelli aruspici divinavano il futuro, facendosi forti di traballanti sondaggi. Ma tutto il loro gran parlare era vanificato, agli occhi di Berto, dalla singolare propensione a vaticinare Hillary come la sicura vincitrice dello scontro elettorale. E a palesare un unanime sollievo per l'inevitabile sconfitta di Trump. Ora, era più che plausibile che qualcuno la pensasse a quel modo. Ma quello sembrava un pensiero unico. Nessuno se ne discostava.
Berto, che per natura era diffidente, era insospettito da un così unanime consenso. Chi era Trump? E se era vero tutto quello che si diceva di lui, come aveva potuto cogliere tanto consenso alle primarie?
E, d'altro canto, chi era la Clinton? Poteva davvero guardare dall'alto al basso quel miliardario spocchioso che parlava a ruota libera, disseminando i suoi interventi di offese ed ingiurie? Dove aveva nascosto tutti gli scheletri che avevano costellato la sua carriera politica? Perché nessuno parlava del suo ruolo nella tragedia di Bengasi? O dei finanziamenti opachi che la sua fondazione raccoglieva dai satrapi del Medio Oriente?
Qualcosa non funzionava in quello schieramento monolitico. Berto lo sentiva a pelle. Trump era l'uomo nero e i conduttori lo scacciavano come fanno i bambini: mettendosi le mani davanti agli occhi. Lo delegittimavano, lo irridevano, ne certificavano l'irrilevanza. La sua era solo spazzatura e gli elettori ne avrebbero fatto scempio. E dunque via con i sondaggi, con le mappe colorate di blu e di rosso, con le interviste ai soloni del politically correct. La sentenza era sempre la stessa: Trump aveva già perso.
Poi le elezioni e il colpo di scena: l'Impresentabile aveva vinto e la Predestinata era caduta dal piedistallo.
Le redazioni erano entrate nel panico ma avevano corretto il tiro con invidiabile prontezza.
Trump, di punto in bianco, era diventato meno impresentabile. Vedrete, era tutta propaganda ... Ora che è Presidente cederà al pragmatismo, diventerà più moderato, si rimangerà le promesse ...
Non erano loro che si avvicinavano al vincitore. Era lui che si sarebbe piegato, per liberarsi dagli stereotipi che gli avevano cucito addosso.
Berto assisteva divertito a quei contorsionismi. Il flop dei pronostici non aveva insegnato nulla.
Il pagliaccio era sparito ma il Presidente che ne aveva preso il posto sembrava tutt'altro che remissivo.
Che ci si credesse o no, aveva intenzione di cambiare il mondo. A modo suo, certo, ma senza cedere nemmeno di una virgola a chi gli chiedeva di essere più morbido e malleabile. Non aveva alcuna intenzione di calarsi nelle politiche della Clinton. Quella roba lì, lui voleva cacciarla nella pattumiera della storia e non avrebbe salvato nulla dell'eredità di Obama. Lo aveva promesso e non avrebbe fatto sconti.
Come sempre, Berto valutava i fatti con la bussola del proprio buonsenso.
Trump avrebbe trasformato l'America con l'accetta, non con il cesello. E se questo induceva qualcuno alla speranza, lui se ne sentiva piuttosto spaventato.
Molte delle promesse che quell'uomo andava sbandierando gli sembravano minacciosi avvertimenti. E la sua ostinata avversione per la difesa dell'ambiente lo faceva rabbrividire.
Eppure, sotto sotto, c'era qualcosa che Berto amava in quel bislacco nuovo Presidente: la sua profonda avversione per il Politically Correct.
Smantellare quel risibile galateo della politica, gli sembrava una formidabile innovazione. Avrebbe liberato il campo dall'insopportabile zavorra di un imperforabile conformismo ideologico trasversale.
Berto aveva poche reminiscenze dei suoi fallimentari studi per la conversione, ma ricordava bene una delle massime del Talmud che lo avevano impressionato: l'ammonimento a non forzare la giustizia in favore del povero e a discapito del ricco. Non era quella un'esemplare condanna dei comportamenti tarati non sull'etica ma sulle convenzioni?
Spazzare via quelle convenzioni avrebbe dato nuovo vigore alla politica. L'avrebbe resa più etica. Avrebbe reso più evidente lo spartiacque fra verità e menzogna.
Nel pensar questo, Berto andava con la mente alle oscene sceneggiate delle Commissioni all'ONU, dove la verità era cacciata fuori della porta in forza di un consenso prestabilito. Per essere politically correct i paesi membri accettavano di sottoscrivere le più disonorevoli menzogne e si piegavano alle maggioranze precostituite senza nemmeno gridare il proprio dissenso. Abbattere quel totem, quel simulacro insopportabile di una verità prestabilita, avrebbe ristabilito ad ogni livello gli equilibri della dialettica.
Berto sorrise al faccione di Trump sul piccolo schermo e sollevò verso di lui il bicchiere di whiskey, prima di berne l'ultimo sorso.
Con la sua irruenza, pensava, Trump ha liberato il bimbo che c'è in noi.
E nessuno potrà più impedirci di gridare, quando occorra: "Il re è nudo!"

(Shalom, dicembre 2016)


Il 65% dei palestinesi non vuole soluzione a due stati, il 53% preferisce la lotta armata

Il giornalista arabo israeliano Khaled Abu Toameh sabato scorso ha twittato una serie di dati riguardanti l'opinione pubblica araba e la situazione in Giudea, Samaria e Gaza, tra cui una dichiarazione del presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, che ha fatto sapere di essere pronto a lavorare con l'amministrazione Trump per raggiungere un accordo di pace sulla base di una soluzione a due stati e la disponibilità di riconoscere ad Israele il diritto di esistere. Questo significherebbe che Israele dovrebbe restituire interamente i cosiddetti "territori liberati" del 1967 in cambio del riconoscimento da parte degli stati arabi.
Allo stesso tempo, secondo Abu Toameh, il 64% dei palestinesi vorrebbe le dimissioni di Abbas. Anche se i tweet del giornalista che riportano i risultati del sondaggio risultano senza fonte, Abu Toameh è considerato un professionista affidabile ed imparziale.
Sempre secondo il giornalista, lo stesso sondaggio ha rilevato che il 65% degli arabi che vivono nei territori dell'Autorità Nazionale Palestinesi ritiene che la soluzione a due stati non sia più praticabile e il 62% sarebbe favorevole ad abbandonare gli accordi di Oslo. Addirittura il 53% di loro sarebbe disposto a sostenere una intifada armata contro Israele.
Infine, secondo Abu Toameh, il 37% degli arabi che vivono nei territori dell'Autorità Nazionale Palestinese ritiene che un'azione armata contro Israele possa risultare la soluzione più efficace per ottenere risultati, mentre i negoziati finalizzati a riconoscere uno stato palestinese sarebbero una buona idea solo per il 33% di loro.
Cola a picco quindi la popolarità di Mahmoud Abbas detto Abu Mazen, anche nei territori della cosiddetta West Bank. L'attuale presidente dell'ANP sarebbe considerato troppo moderato dalla maggioranza della popolazione araba palestinese. La maggior parte degli arabi che popolano i territori della Cisgiordania ora rinnega gli accordi di Oslo e soprattutto preferirebbe una lotta armata ad un qualsiasi tentativo di negoziato per giungere alla soluzione a due stati.

((L'informale, 1 gennaio 2017)


Terrorismo a Istanbul: se tutti imparassimo da Israele

Apprendo le notizie dell'attacco terroristico di Istanbul da Tel Aviv, dove ho trascorso un capodanno sentendomi molto sicura. L'Europa dovrebbe capire che una convivenza tra Islam moderato e Occidente è assolutamente possibile, basta visitare Israele per capire come ebrei, cristiani e musulmani possono prosperare nella sicurezza”. L'ennesima strage in Turchia dopo quella di Berlino dovrebbe aprirci gli occhi su come si combatte il terrorismo.

di Valentina Rebecca Soluri

 
Una festa in un locale di Tel Aviv
Queste mie riflessioni davvero estemporanee potrebbero non essere molto popolari, e non credo che riceverò troppi "mi piace", ma sento comunque il dovere di condividere la mia esperienza, come cittadina europea e anche come giornalista. Scrivo da Tel Aviv, dove ieri sera sono andata a una bella festa di Capodanno, una festa affollata e divertente come migliaia di feste nel mondo, e come quella dove purtroppo hanno lasciato la vita 39 persone a Istanbul. Facciamo un passo indietro.
Un paio di anni fa, durante un mio precedente soggiorno in Israele, la polizia aeroportuale mi ha torchiato per cinque minuti buoni, esclusivamente perché avevo sul passaporto un timbro turco, avendo fatto scalo a Istanbul diretta a un'altra destinazione. Quando, mesi dopo, mi sono accorta un po' alla volta di quanti attentati stavano capitando continuamente in Turchia, ho capito che i servizi segreti israeliani sono davvero eccellenti, perché sapendo che cosa potrebbe succedere, tutelano la sicurezza dei propri cittadini anche a costo di perdere cinque minuti su qualsiasi turista insospettabile, nel mio caso una ragazza alta un metro e sessanta, senza precedenti penali e senza alcuna connessione al mondo musulmano. Oggi leggo naturalmente le prime sciocchezze sul web di qualcuno che vorrebbe vedere un coinvolgimento diretto, indiretto o occulto di Israele persino in questa ennesima folle strage. Chiedo veramente all'Europa di aprire gli occhi.
Aprire gli occhi non significa mettere all'indice la popolazione musulmana, ovvero circa due miliardi di persone; ci rendiamo conto, voglio sperare, che la percentuale di poveri pazzi che si fanno saltare in aria, si schiantano con un tir o fanno una strage con un kalashnikov è assolutamente infinitesimale. Dare inizio a una caccia alle streghe contro i musulmani tout court, recente delirio di molti, sarebbe una reazione politica stupida, cieca e figlia del razzismo e dell'ignoranza. Allo stesso tempo è necessario rendersi conto che esistono frange di Islam radicale che sfuggono completamente al nostro concetto occidentale del bene e del male; sono culture integraliste, mostruosamente violente nei confronti della donna e capaci di provocare centinaia di migliaia di morti - sono 200.000 in cinque anni i morti nello scontro tra sciiti e sunniti in Siria.
Per capire invece che una convivenza tra Islam moderato e Occidente è assolutamente possibile vorrei che tutti visitassero Israele. Vedrebbero che a Gerusalemme vivono, prosperano e commerciano insieme ebrei, cristiani e musulmani; vedrebbero città completamente arabe come Nazareth, dove nessuno mette in discussione il diritto della popolazione araba a vivere esattamente come i cittadini israeliani. Vedrebbero gli arabi israeliani impegnarsi in tre anni di servizio militare obbligatorio esattamente come gli ebrei; e tra parentesi, anche se io parlo per una generazione di pappemolli che il servizio militare in Italia non l'ha proprio visto, vi assicuro che ci si sente più sicuri in un paese dove qualsiasi ragazzo o ragazza è stato addestrato a riconoscere un sospetto, e per esempio a immobilizzarlo. Senza niente togliere all'importanza delle ragioni geopolitiche palesi o latenti che possono essere alla base dei continui attentati in Turchia, viene anche il dubbio che le loro forze di polizia e loro servizi segreti facciano acqua da tutte le parti, e che le famiglie che oggi piangono gli ennesimi morti civili lo debbano anche a una totale incapacità di gestione da parte delle forze di sicurezza.
Forse bisognerebbe anche aprire gli occhi sul fatto che continuare a ostracizzare Israele, ad esempio nelle varie risoluzioni ONU che ultimamente hanno visto scelte quantomeno discutibili, compiute per esempio dagli Stati Uniti, non è altro che un contentino ai paesi arabi signori del petrolio, spesso conniventi con l'Islam fanatico e radicale. Ebbene sì, i nostri governi scambiano un pochino della nostra sicurezza, ai mercatini di Natale, nelle discoteche, negli stadi, per non scontentare chi vende il prezioso oro nero, mentre della reale situazione dei palestinesi state tranquilli che non frega niente a nessuno. Perché altrimenti si capirebbe una buona volta che la popolazione civile palestinese avrebbe ogni interesse, per il momento e nella situazione geopolitica attuale così instabile, a essere governata da Israele anziché da un'autorità autonoma improvvisata che diventerebbe immediatamente satellite dello stato islamico. Ieri un ragazzo che aveva fatto il servizio militare a Gaza mi ha detto queste parole: "non è facile distinguere un terrorista da un civile, e non puoi sparare sui civili, perché il terrorista prende il civile, gli punta una pistola alla testa e poi gli dice, fai questo o quello per me".
Stamattina mi sveglio e leggo di un terribile attentato, e mi trovo a chiedermi se sarebbe potuto succedere anche a me, e mi trovo a rispondermi che per fortuna, probabilmente no, perché qui la polizia e servizi segreti funzionano, e il terrorismo hanno imparato a combatterlo. Le persone della mia età - la generazione nata negli anni '70 e '80 - soffrono ancora pericolosissimi pregiudizi contro Israele (il cosiddetto "antisionismo" che spesso maschera il buon vecchio antisemitismo), ma vi assicuro che chi oggi ha diciotto o vent'anni, gli adulti di domani per intenderci, inizia ad avere idee politiche completamente diverse, e sa di poter mettersi lo zaino in spalla e visitare Israele. Come ho fatto tante volte io, che oggi posso svegliarmi sapendo che mia madre ha dormito sonni tranquilli, mentre sua figlia faceva festa, al sicuro, a Tel Aviv.

(La Voce di New York, 1 gennaio 2017)


Israele, stime esportazioni 2016, più 3 per cento

GERUSALEMME - L'Istituto delle esportazioni israeliano prevede una crescita del settore del 6 per cento nell'anno nel 2017. Lo rivela un rapporto che traccia gli andamenti delle esportazioni di beni e servizi nel 2016, che hanno raggiunto un ammontare di 95 miliardi di dollari. Escludendo i proventi ottenuti dalle start-up e dalla vendita di diamanti, le esportazioni hanno registrato un più 2 per cento nel 2016 rispetto al 2015 (pari ad un valore di 86 miliardi di dollari). Le esportazioni di prodotti high-tech, che secondo le stime rappresentano il 43 per cento del totale delle esportazioni, hanno registrato un più 4 per cento (pari ad un volume d'affari di 41 miliardi di dollari). L'andamento positivo del settore tecnologico è dovuto al rapido incremento delle vendite di computer e software. Secondo le previsioni dell'istituto che monitora le esportazioni, nel 2017 è prevista una crescita del 6 per cento, quando le esportazioni potrebbe raggiungere un volume d'affari di circa 100 miliardi di dollari. Gli esperti prevedono un aumento del 4 per cento nelle esportazioni reali.

(Agenzia Nova, 1 gennaio 2017)


Audizione Seminario Kamea Dance Company - Israele

di Monica Boetti

Kamea Dance Company ha indetto uno speciale seminario audizione nella sede della compagnia a Beer Sheva, in Israele. I candidati selezionati potranno vivere in prima persona l'esperienza diretta della vita in compagnia nelle sue moderne sale danza. Durante i due giorni di seminario i partecipanti avranno l'opportunità di incontrare il coreografo Tamir Ginz, i ballerini e i maestri della compagnia e tutto lo staff.
Alla fine del seminario potrete avere una chiara immagine della vita in una delle compagnie top in Israele. Ai candidati selezionati verrà offerto un contratto per le stagioni 2017-2019.
Il seminario si svolgerà il 2 e 3 marzo 2017 a Beer Sheva (Israele), presso gli studi della Kamea Dance Company, HaShalom 13 Street. Il seminario include:

• lezioni di danza classica
• lezioni di danza contemporanea
• workshops intensivo di repertorio
• la possibilità di assistere alle prove di presentazione della compagnia
• a colloqui con il direttore artistico Tamir Ginz
• interviste per i candidati selezionati.

(Dancehall News, 1 gennaio 2017)


Blasoni antisemiti

Molte le università inglesi "proibite" agli ebrei. Vi si insegna che Israele è il male. E i regimi islamici le finanziano generosi.

di Giulio Meotti

Alla School of Orientai and African Studies le associazioni studentesche di necessità conformi all'ortodossia islamo-marxista "Risponderò alle tue domande quando ci sarà pace e giustizia per i palestinesi" ha detto una docente a una studentessa israeliana L'idea di boicottare le università israeliane è nata in Inghilterra nel 2002. Da allora ha raccolto migliaia di adesioni fra i professori L'insigne storico israeliano Benny Morris è stato quasi linciato durante una conferenza alla London School of Ecanomics

Prendiamo quello che è successo soltanto negli ultimi due mesi: l'organizzazione studentesca dell'Università di Manchester ha votato per boicottare Israele, la University of London ha invitato a parlare un oratore che ha definito Israele "nazista", allo University College London c'è stata una manifestazione che ha impedito una riunione di studenti ebrei. Non è la Germania del 1933, ma l'Inghilterra del 2016.
   "Alcune delle principali università della Gran Bretagna stanno diventando 'no-go zone' per gli studenti ebrei". E' quanto emerge ora da un rapporto della baronessa Ruth Deech, ex rettrice del Sant'Anna College di Oxford e a lungo esaminatrice di maggior grado della vita universitaria inglese. I suoi commenti arrivano dopo una serie di incidenti di alto profilo presso le migliori università dove gli studenti ebrei affermano di aver subito abusi verbali odi essere stati fisicamente attaccati. "Molte università sono a caccia di grandi donazioni da parte dell'Arabia Saudita e degli stati del Golfo, e forse hanno paura di offenderli", ha detto Deech. "Non so perché non stiano facendo nulla al riguardo, è davvero una brutta situazione. 'Ira gli studenti ebrei, cresce poco a poco la sensazione che alcune università si dovrebbero evitare".
   Deech ha fatto pure i nomi delle università inglesi che uno studente ebreo dovrebbe evitare: "Sicuramente la Scuola di studi orientali, Manchester, Southampton, Exeter e così via". Lo Spectator si è chiesto se la School of Orientai and African Studies (Soas) della London University non debba essere ribattezzata "scuola dell'antisemitismo". Si legge: "Praticamente tutte le società per studenti alla Soas non hanno altra scelta che conformarsi alla ortodossia islamo-marxista. Uno studente israeliano è stato espulso dalla società israeliana (che è fermamente 'antisionista') per aver avuto il coraggio di opporsi al boicottaggio. Non vi è nessuna tolleranza per chi contesta la demonizzazione di Israele e il visitatore occasionale potrebbe pensare che una sola religione è tollerata nel campus. C'è un sala 'multi-fede', ma la bacheca ha solo informazioni islamiche". In questa facoltà, 2.056 fra docenti universitari, studenti, presidi di facoltà, perfino gli inservienti e gli addetti alla sicurezza hanno votato a favore del boicottaggio di Israele in un referendum non vincolante. Il 73 per cento ha deciso per il boicottaggio totale delle istituzioni accademiche di Israele. A favore dell'esclusione dello stato ebraico il sessanta per cento dei docenti ordinari e dei "lecturers", i docenti associati. Non è un caso che sia la stessa università dove l'imam Yusuf al Qaradawi siede fra gli advisor del Journal of Islamic Studies.
   L'inchiesta della baronessa Deech è partita dopo che Alex Chalmers, studente di storia all'Università di Oxford e presidente dell'Associazione studentesca laburista che esiste dal 1919, la più influente, quella da cui ha lanciato la sua carriera anche Ed Miliband, si è dimesso con un gesto plateale di protesta contro quella che ha denunciato come una università piena di antisemiti. Chalmers ha detto che "gran parte" dei membri della "sinistra" in facoltà ha "un qualche tipo di problema con gli ebrei" e sfoggia "tendenze intolleranti". Secondo lo studente, a Oxford si "molestano gli studenti ebrei" e si "invitano oratori antisemiti". Ha paragonato questi gruppi di professori e studenti al Ku Klux Klan. "Nonostante l'impegno dichiarato per la liberazione, gli atteggiamenti di alcuni membri del club verso le minoranze stanno diventando avvelenati", ha detto Chalmers. "Spero che la mia decisione in qualche modo faccia conoscere l'antisemitismo che è passato inosservato da troppo tempo a Oxford".
   Alla Southampton University, una delle più prestigiose università pubbliche, è stato organizzato persino un convegno internazionale in cui a essere in discussione non è la politica di Israele, ma il suo "diritto all'esistenza" (si replica a primavera). La conferenza non aveva mai fatto mistero dell'obiettivo, contestare la natura stessa di Israele, come si legge: "Si tratta della legittimità nella legge internazionale dello stato ebraico di Israele. Anziché concentrarsi sulle azioni di Israele nei Territori occupati, la conferenza esplorerà la legittimità, la responsabilità e l'eccezionalismo che sono posti dalla natura stessa di Israele". Poco dopo la Queen Mary Students' Union si è gemellata con l'Università di Gaza, una delle centrali politiche e logistiche di Hamas, nella guerra allo stato ebraico. Capita che Marsha Levine, accademica dell'Università di Cambridge esperta in storia del cavallo, respinga una semplice richiesta di informazioni da parte di una studentessa israeliana spiegando il suo rifiuto come parte del boicottaggio di Israele. "Risponderò alle tue domande quando ci sarà pace e giustizia per i palestinesi in Palestina", ha detto Levine, che ha rincarato dicendo: "Gli ebrei si sono trasformati in mostri, sono diventati i nazisti". Succede che l'ex parlamentare George Galloway si sia rifiutato di dibattere in pubblico a Oxford con uno studente, Eylon Aslan Levy, quando aveva scoperto che aveva il passaporto israeliano.
   Dal campus di Oxford arrivano ogni giorno denunce di antisemitismo: gruppi di studenti che cantano "Razzi su Tel Aviv", studenti che chiedono ai loro compagni di studi ebrei di denunciare pubblicamente il sionismo e lo stato di Israele, studenti che usano l'epiteto "Zio" (una parola che normalmente si trova sui siti neonazisti). Un clima culminato nell'elezione di Malia Bouattia a presidente dell'Unione nazionale degli studenti, prima donna e prima musulmana a ricoprire la carica, che aveva definito la sua università - quella di Birmingham - un "avamposto sionista" e che il boicottaggio contro Israele non è abbastanza, distoglie i palestinesi dalla vera resistenza contro Israele. La polizia inglese è dovuta intervenire al King's College di Londra dopo che uno studente pro Israele è stato picchiato da manifestanti. Ospite d'onore Ami Ayalon, attivista per la pace ed ex capo dei servizi segreti israeliani. E' finita con lanci di sedie, finestre fracassate e allarmi antincendio. L'incontro è stato sospeso e l'edificio evacuato.
   Nel denunciare la situazione nelle università inglesi, la baronessa Deech ha detto di dovere la sua carriera alla Oxford University. "Trovo personalmente molto difficile, sono stata a Oxford per 45 anni o qualcosa del genere, e gli devo la mia carriera, ma non posso credere che la mia università non crei una commissione di indagine su questo". A Oxford, ormai, non si contano i casi di antisemitismo palese da parte del corpo docente. Come quello del patologo di Oxford Andrei Wilkie, che ha rifiutato ogni richiesta di dottorato proveniente da Israele. Uno studente della facoltà di Medicina dell'Università di Tel Aviv, Amit Duvshani, gli aveva scritto proponendo una collaborazione. Wilkie ha risposto così al ricercatore israeliano:
   "Non prenderei mai una persona che ha servito nell'esercito israeliano. Sono certo che troverà un altro laboratorio". Come il caso del poeta Tom Paulin, docente di Letteratura inglese all'Hertford College della Oxford University, che si è spinto fino a dire che gli "ebrei di Brooklyn" che si sono insediati in Cisgiordania dovrebbero essere "accoppati".
   Un documento trapelato e soppresso dal Labour di Jeremy Corbyn aveva dettagliato i casi di comportamento antisemita presso l'Università di Oxford, dove gli studenti ebrei oggi si sentono intimiditi fino al punto di non partecipare alle riunioni. Il Labour si è rifiutato di spiegare perché il suo comitato esecutivo nazionale ha pubblicato solo le raccomandazioni elaborate dalla baronessa Royall di Blaisdon, omettendo la sua scoperta di incidenti antisemiti. Era troppo compromettente per i membri dell'associazione laburista a Oxford.
   Mentre i missili lanciati dai terroristi palestinesi di Hamas e del Jihad islamico cadevano sui tetti delle scuole israeliane di Sderot, il sindacato inglese delle università e dei college non solo non manifestava solidarietà agli studenti israeliani, ma sceglieva proprio quel momento per lanciare il suo appello per il boicottaggio degli istituti accademici israeliani. A Manchester insegna Mona Baker, curatrice di una Encyclopedia of Translation Studies, che ha chiesto a due studiosi israeliani, Gideon Toury e Miriam Shlesinger, che facevano parte del comitato direttivo della rivista, di dare le dimissioni. In quanto israeliani.
   E' in questo clima che gli studenti ebrei in Inghilterra scelgono oggi le università anche sulla base del loro tasso di antisemitismo e di odio per Israele. I dati ufficiali da parte dell'Unione degli studenti ebrei dimostrano che alcune università del Gruppo Russell come Durham, Exeter, Newcastle e Cardiff hanno a malapena cento studenti ebrei. Stesso scenario per Birmingham, Nottingham, Leeds e Manchester. Tutte queste facoltà hanno una ottima reputazione accademica, sono tutte dotate di ottime strutture sportive e hanno requisiti di accesso quasi identici. Le chiamano "Jewnis", le università con alti tassi di iscrizioni ebraiche. E hanno qualcosa da offrire che Durham o Exeter non hanno. Aule senza odio per gli ebrei.
   L'idea di boicottare le università israeliane è nata in Inghilterra, il 6 aprile 2002, quando i coniugi Rose pubblicarono un appello per punire i colleghi israeliani, raccogliendo settecento firme. Da allora, il boicottaggio ha raccolto migliaia di adesioni fra i professori nel Regno Unito. Nel 2005 l'Association of university teachers, riunita per l'occasione a Eastbourne, ha votato a favore del boicottaggio degli atenei israeliani di Bar-Ilan e Haifa. Le proteste internazionali persuasero l'associazione aritirare la mozione. Ma al pregiudizio serviva solo riprendere fiato. André Oboler dell'Unione studenti ebrei disse che non si poteva considerare il cambiamento di posizione una vittoria definitiva. Così la National association ofteachers in further and higher education, la più grande organizzazione inglese di insegnanti composta da oltre 67 mila membri, ha approvato il boicottaggio d'Israele, accusandolo di "politiche da apartheid". Un anno fa il Guardian ha pubblicato una pagina intera firmata da trecento accademici britannici, docenti e ricercatori, che dicono di aver iniziato il boicottaggio di Israele e delle sue istituzioni accademiche. Fra gli accademici ci sono nomi di fama mondiale come Tom Kibble, fisico teorico dell'Imperial College di Londra; Timothy Shallice, già direttore dell'Institute of Cognitive Neuroscience all'University of College di Londra; Iain Borden, già preside della Bartlett School of Architecture.
   Nel 2011, Exeter si è rifiutata di punire un oratore che a una assemblea studentesca aveva detto che "Hitler aveva ragione". E guarda caso, quelle più antisemite sono le università che hanno ricevuto più donazioni dai paesi islamici. In uno studio del 2009 sul finanziamento islamico delle università del Regno Unito, Robin Simcox, ricercatore del Centro per la coesione sociale, ha analizzato undici università, come Oxford, Cambridge, Soas di Londra, Edimburgo, Durham e Exeter.
   Negli ultimi dieci anni, l'Arabia Saudita è stata una delle più grandi fonti di donazioni alle università britanniche, per promuovere lo studio dell'islam, del medio oriente e della letteratura araba. Il saudita Abdulaziz al Saud ha dato due milioni di sterline alla Oxford University. Nel frattempo, lo sceicco Sultan bin Muhammad al Qasimi, il sovrano di Sharjah - uno dei più conservatori fra gli Emirati Arabi Uniti - ha dato più di otto milioni di sterline alla Exeter Univeristy. Durham ha avuto milioni di sterline per costruire un Institute of Middle Eastern and Islamic Studies; Exeter ha avuto 750 mila sterline da Dubai e altrettante dal principe saudita Alwaleed bin Talal. E' la stessa università, guarda caso, dove Richard Seaford, classicista, ha detto alla Bbc che ha praticato per anni "un boicottaggio informale", rifiutando ogni pubblicazione israeliana. Gli studenti ebrei devono evitare con cura l'università di "John Jihadi", il boia dell'Isis, alias Mohammed Emwazi, che è stato un brillante studente della Westminster University.
   Non tira una bella aria neppure alla London School of Economics, dove l'insigne storico israeliano Benny Morris è stato quasi linciato durante una conferenza. Doveva tenere una lezione sulla guerra del 1948. Poche ore prima c'era stato un incendio, così Kingsway era stata chiusa e il taxi lo ha lasciato qualche isolato prima. Un gruppo di militanti lo ha circondato e aggredito chiamandolo "fascista", "razzista". Fuori dalla London School of Economics c'erano molte guardie del corpo e poliziotti, e manifestanti con cartelli "Morris è un fascista" e "Vattene a casa". All'uscita dopo la lezione il portavoce dell'ateneo chiese al pubblico di rimanere seduto per far uscire Morris in sicurezza. Se ne è andato da una porta secondaria. Morris era già stato costretto ad annullare una lezione all'Università di Cambridge.
   Questa ondata di antisemitismo sta scioccando il Regno Unito, perché questo era un paese fiero di non aver avuto ghetti per gli ebrei, pogrom, camere a gas o editti accademici antisemiti come in Germania. Ma adesso l'Inghilterra sembra destinata a nutrire questa nuova forma dell'odio più antico.

(Il Foglio, 31 dicembre 2016)


La porta dell'Uganda, 40 anni dopo l'operazione Entebbe

di Giovanna Mirabella

ENTEBBE - L'Africa è terra di contraddizioni, si sa. Atterrando in Uganda, la contraddizione comincia appena si è atterrati, in quello che dovrebbe essere un non-luogo per definizione, l'aeroporto. E che invece è una sintesi del passato e del presente del Paese, che ha fortissime ambizioni per il futuro.
  L'aeroporto di Entebbe è entrato nel mito esattamente 40 anni fa, nel 1976, scenario di una delle più rocambolesche missioni militari di salvataggio della storia. Il 27 giugno del 1976 il volo Air France 139 partì dall'aeroporto di Tel Aviv diretto a Parigi. Fece scalo ad Atene, dove imbarcò altri 58 passeggeri tra cui i quattro dirottatori: due palestinesi, membri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FLP, un'organizzazione terroristica di ispirazione marxista), e due tedeschi delle Revolutionäre Zellen, le Cellule rivoluzionarie, un'altra organizzazione di estrema sinistra. I dirottatori ordinarono di far rotta su Bengasi, in Libia, dove Gheddafi concesse loro di atterrare e fare uno stop di sette ore. Ripartito da Bengasi, il 28 giugno l'aereo atterrò nell'aeroporto di una piccola città sulle rive del lago Victoria, fino a quel momento quasi sconosciuta al mondo occidentale: Entebbe, in Uganda.
  L'Uganda, ex colonia britannica, era all'epoca governata dal dittatore Idi Amin Dada, che fornì appoggio sia logistico che militare ai dirottatori. Gli ostaggi vennero trasferiti in un terminal in disuso dell'aeroporto, dove gli ebrei furono separati dai prigionieri di altre nazionalità, successivamente rilasciati e rimandati in Francia con un volo Air France arrivato appositamente in Uganda. Iniziarono a quel punto le richieste di riscatto dei terroristi: 5 milioni di dollari e i rilascio di una cinquantina di ostaggi palestinesi detenuti in Israele e in Europa.
  Gli alti comandanti dell'esercito israeliano ebbero il tempo di presentare al governo una missione di salvataggio talmente ardita da risultare folle, almeno sulla carta, ma che di fatto segnò la nascita del mito dell'efficienza dell'esercito israeliano, in grado di proteggere i suoi connazionali in ogni parte del mondo. Il 3 luglio 4 Hercules decollarono da Israele trasportando circa 190 militari alla volta di Entebbe. Gli aerei militari atterrarono a fari spenti e senza alcun aiuto da parte delle torri di controllo su una delle piste più brevi dell'aeroporto, viaggiando radenti sullo specchio d'acqua del lago Vittoria. Fecero sbarcare da uno degli aerei una Mercedes nera, uguale a quella usata dal dittatore Amin, e due Jeep, mezzi che avrebbero dovuto permettere ai militari israeliani di avvicinarsi al terminal dove erano nascosti gli ostaggi senza destare sospetti. Il resto dei militari sarebbe atterrato pochi minuti dopo per presidiare l'aeroporto, distruggere la contraerea ugandese prima ancora che potesse alzarsi in volo e proteggere ostaggi e militari dopo il blitz al terminal.
  Fu così che, sfruttando l'effetto sorpresa e le informazioni tattiche ottenute da un'impresa israeliana che, anni prima, aveva materialmente costruito il terminal, i militari fecero irruzione e riuscirono a portare in salvo gli ostaggi. Il numero di perdite tra le fila israeliane fu estremamente ridotto viste le condizioni di partenza: 7 terroristi all'interno dell'hub e un'intero esercito, quello ugandese, connivente con il commando. Un ostaggio fu ucciso accidentalmente durante il blitz dal fuoco amico dell'esercito israeliano, che lo scambiò per un dirottatore; altri due ostaggi furono invece uccisi, durante il trasbordo sugli aerei che avrebbero dovuto riportarli a casa, dall'attacco ugandese. L'unica vittima dell'esercito fu il comandante delle forze speciali israeliane impegnate nel blitz al vecchio terminal, Yonatan Netanyahu, fratello di Benjamin. Fu a seguito della morte di Yoni, giovane e bellissimo militare, che prese il via la carriera politica del futuro primo ministro israeliano: in quella tragica occasione, Bibi Netanyahu organizzò una conferenza internazionale in suo onore e incominciò il lungo percorso politico che ne avrebbe fatto una delle più importanti e influenti personalità della politica israeliana. E' stato lui stesso ad ammetterlo, in una chat su Facebook qualche mese fa con i followers: "E' così che ho iniziato".
  Quest'anno Netanyahu è tornato a Entebbe proprio per celebrare il quarantennale dell'operazione, insieme al governo ugandese in pompa magna. La celebrazione è avvenuta davanti ai resti dell'Aerobus Air France, che sono stati posizionati nel bel mezzo di una spiaggia sulle rive del lago, che provvidenzialmente è stata chiamata Aero Beach. Non ci sono particolari indicazioni sul perché quello scheletro di aereo sia lì, quasi come se gli ugandesi si vergognassero di quello che il loro dittatore autorizzò che accadesse a Entebbe. I turisti più informati vanno comunque a visitarlo, i bimbi ugandesi ci giocano intorno, felici di avere un parco giochi gratuito.
  Oggi, il terminal esiste ancora, sebbene sia tuttora in disuso; davanti al terminal, stazionano almeno 6 aerei delle Nazioni Unite, simbolo del presidio del territorio. L'aeroporto di Entebbe oggi è uno dei migliori biglietti da visita possibili per l'Uganda: una porta d'accesso moderna e perfettamente funzionante, così diverso dagli altri aeroporti dell'Africa nera, che invece rimangono un po' arretrati e poco funzionali rispetto alle esigenze del viaggiatore medio occidentale. A Entebbe invece, appena arrivati, si viene accolti da una connessione internet 4G perfettamente funzionante, un free-wifi per tutti i passeggeri. I controlli nell'area passaporti sono effettuati da dispositivi a lettura ottica gestiti da funzionari gentili e competenti. Quasi tutti gli spazi pubblicitari sono occupati da pubblicità di operatori internet o di telefonia (la Vodafone ugandese è dappertutto). Scesi dall'aereo, il panorama fa invidia agli scenari fantastici del Re Leone disneyano: lo splendore e l'imponenza del Lago Vittoria, circondato da prati ben curati e personale in divisa che riportano immediatamente alla memoria un'epoca coloniale. E' da qui che inizia l'Uganda, tra passato storico e voglia di futuro tecnologico, che sta tornando lentamente ad essere la "Perla d'Africa", come la definì Winston Churchill.

(L'Huffington Post, 30 dicembre 2016)


Henry Orenstein, il sopravvissuto all'Olocausto inventore dei Transformers e re del poker

L'incredibile vita di Henry Orenstein

Henry Orenstein è un imprenditore di 93 anni noto per aver inventato una delle serie di giocattoli più famosa di sempre, i Transformers, e per aver reso celebre il poker in TV attraverso le poker cam, le piccole telecamere che riprendono le carte dei giocatori. La sua vita di imprenditore di successo è strabiliante, ed è resa ancora più incredibile dalla condizione di partenza di Orenstein, ebreo nato in Polonia e sopravvissuto per miracolo all'Olocausto.

 L'infanzia di Henry Orenstein
  Newsweek ha recentemente dedicato un lungo ritratto a Henry Orenstein, un famoso giocatore di poker, inventore e imprenditore di 93 anni, che da più di sessant'anni vive negli Stati Uniti. Nato nel 1923 in Polonia, a Hrubieszów, cittadina ai confini con l'Ucraina, Orenstein ha passato un'infanzia felice. Uno dei cinque figli di Lejb, imprenditore di discreto successo, e Golda Orenstein, una casalinga, Henry, nato con il nome di Henryk è stato un bravo studente impaurito dall'antisemitismo che si respirava anche nella Polonia nel periodo precedente all'invasione nazista. I suoi fratelli, Fred, Sam, Felix e Hanka, vivevano un'esistenza piuttosto benestante - uno di loro era un medico, l'altro un avvocato - grazie al successo delle attività imprenditoriale del padre Lejb.

 Henry Orenstein e lo sterminio nazista
  Prima che i nazisti invadessero il Paese in Polonia vivevano circa 3 milioni di ebrei. Poche centinaia di migliaia di loro sono sopravvissuti: si stima che una percentuale tra il 90 e il 97% degli ebrei polacchi sia stata uccisa dai nazisti. Gli Orenstein non sono riusciti purtroppo a sfuggire al destino, almeno alcuni di loro. I genitori, Lejb e Golda, sono stati ammazzati subito dopo esser stati finiti nelle mani naziste. Fred e Hanka sono stati uccisi poco prima della liberazione dei campi di concentramento. Nel 1939 i maschi della famiglia erano riusciti a scappare nell'area della Polonia garantita ai sovietici dalla spartizione decisa con il patto Molotov-Von Ribbentrop. L'invasione dell'Urss da parte della Germania aveva però riportato gli Orenstein in un'area a controlo nazista: dopo una fuga durata diverse settimane gli uomini si sono consegnati alla Gestapo, per esser destinati insieme a Hanka ai campi di concentramento.

 Henry Orenstein e il miracolo di esser sopravvisuto all'olocausto
  Henry Orenstein è riuscito a sopravvivere allo sterminio nazista passando in ben cinque campi di concentramento. Il giovane Henry, insieme ai fratelli, è entrato grazie a una bugia nel Chemiker Kommando, un gruppo di scienziati formato da prigionieri dei lager che doveva studiare nuove armi per far vincere la guerra alla Germania. In realtà il progetto era una sorta di truffa ideata dagli scienziati nazisti per evitare di esser mandati al fronte: Henry Orenstein ha raccontato come abbia passato più di un anno e mezzo a svolgere operazioni di matematica da scuole elementari, insieme ai suoi fratelli. Dopo la fine della guerra la vita del giovane ebreo, che aveva 22 anni nel 1945, si è diretta verso gli Stati Uniti. Orenstein rimarca il sollievo provato quando aveva notato che sui giornali statunitensi non ci fosse traccia di antisemitismo.

 Henry Orenstein e l'invenzione dei transformers
  Dopo diversi lavori molto umili, e una vita particolarmente disagiata, Henry Orenstein fonda Topper, una compagnia di giocattoli, che in poco tempo lo rende milionario. Il primo giocattolo che lo porta a guadagnare un milione di dollari è Betty The Beuatiful Bride, Elisabetta la bella sposa. Una bambola economica, da 9 dollari dell'epoca, che inizia una lunga serie di successi commerciali. Orenstein è un inventore che colleziona più di 100 brevetti, apertamente osteggiato dal colosso Mattel che teme i suoi giocattoli. Nel 1972 Topper è fallita, ma il sopravvisuto all'Olocausto rimane un consulente nell'industria dei giochi. Negli anni ottanta inventa i Transformers: l'idea gli viene grazie a una macchina che si trasformava in un aereo, creata dall'azienda giapponese Takara. Nel 1984 Henry Orenstein porta sul mercato, grazie alla società Hasbro, con cui collaborava, la macchina che si trasforma. Il giocattolo conosce un successo epocale, che lo rende uno dei brand più famosi del mondo, capace di diventare anche una nota serie cinematografica.

 Henry Orenstein e la rivoluzione del poker
  Come se non fosse abbastanza ricca di sorprese e fatti incredibili la sua vita, negli anni novanta Henry Orenstein rivoluziona anche il poker. Durante la sua vita nella Polonia occupata dai sovietici il giovane ebreo aveva imparato a giocare benissimo a scacchi, ma solo in tarda età, quando ha quasi settant'anni, impara a giocare a poker. All'epoca il gioco di carte non era così famoso come oggi: il suo successo è stato determinato dalla trasmissione in TV dei tornei di poker più importanti. L'inventore che ha permesso la commercializzazione del gioco di carte sul piccolo schermp è proprio Henry Orenstein, che ha creato la pokercam, la telecamera che consente di far vedere agli spettatori le carte in mano ai giocatori di poker.

 La vita incredibile di Henry Orenstein
Il successo delle pokercam hanno trasformato il gioco del poker, nel business miliardario partito negli anni novanta grazie alle trasmissioni TV ad esso dedicato. Orenstein è riuscito a convincere l'allora Ceo di NBC Sports a investire su questo gioco, per trovare un'alternativa economica a sport come basket o football economico diventati troppo costosi da trasmettere. Oltre ad aver ispirato diverse trasmissioni, Henry Orenstein è diventato uno dei migliori giocatori al mondo di poker, gioco che pratica ancora oggi coi suoi amici. A 93 anni vive sereno in un lussuoso appartamento di New York City insieme a sua moglie Susie, compagna di vita da diversi decenni, dopo una vita così incredibile che nessun scenaggiatore avrebbe potuto romanzare, ma che vale la pena raccontare.

(Giornalettismo, 31 dicembre 2016)


People of the Year: Israele

Il 2016 è stato l'anno in cui i cittadini europei hanno capito che cosa significa vivere a contatto con il terrorismo islamico. Nel 2017 la storia sarà la stessa; la libertà di Israele coincide con quella dell'occidente.

di Claudio Cerasa

Nessuno lo potrà ammettere fino in fondo ma anche per i campioni del politicamente corretto e dell'islamicamente corretto il 2016 è stato l'anno in cui l'Europa ha cominciato a poco a poco ad aprire gli occhi e a capire che non sono lupi solitari, che non sono pazzi omicidi, che non sono depressi, che non sono folli, che non sono squilibrati, che non sono poveri, che non sgozzano preti per caso, che non finiscono per caso al volante di un tir nel centro di una città, che non uccidono infedeli per capriccio, che non massacrano omosessuali per diletto e che non scelgono per sbaglio di uccidere solo chi non conosce a memoria alcuni passi del Corano.
Nessuno lo potrà ammettere fino in fondo, anche se ormai lo abbiamo capito tutti, ma il 2016 è stato l'anno in cui tutti i paesi d'Europa - chi vedendo scorrere sangue sul proprio territorio. chi vedendo scorrere il sangue dei propri cari in un paese amico - hanno sperimentato sulla propria pelle cosa significa vivere a contatto con il terrorismo di matrice islamista. Cosa significa vivere sotto assedio. Cosa significa combattere contro un nemico invisibile che uccide mosso non solo dall'odio ma da un unico e totalizzante progetto omicida: eliminare gli infedeli.
Nessuno lo potrà ammettere fino in fondo, anche se ormai lo abbiamo capito tutti, ma il 2016 è stato l'anno in cui i cittadini europei, e anche quelli italiani, hanno capito per la prima volta che cosa significa essere Israele. Hanno capito - loro, noi, meno le cancellerie, meno le burocrazie europee che scelgono di marchiare i prodotti israeliani, meno i paesi che triangolando con l'Unesco provano a cancellare la storia di Israele, e stendiamo un velo pietoso su Obama - che la guerra dalla quale l'Europa e l'occidente devono difendersi è la stessa guerra dalla quale deve difendersi Israele ogni giorno della sua vita. La guerra che l'Europa combatte con scarsa convinzione e poca consapevolezza contro lo Stato islamico è la stessa guerra mortale combattuta da Israele sui suoi confini. Contro Hezbollah. Contro Hamas. Contro l'Isis. Contro tutti coloro che ogni giorno minacciando la vita di un israeliano mettono in discussione la libertà dell'occidente.
Nessuno lo potrà ammettere fino in fondo ma la violenza islamista contro la quale Israele combatte da anni è la stessa che negli ultimi mesi ha attraversato Parigi e Nizza, Berlino e Istanbul, Bruxelles e Baghdad, Tel Aviv e Gerusalemme, Minnesota e New York, Sydney e San Bernardino, la stessa che ha colpito cristiani, ebrei, donne, omosessuali, yazidi, curdi e musulmani innocenti, la stessa che ha costretto alla fuga dalle loro terre milioni di profughi fuggiti per non essere macellati.
Nessuno lo potrà ammettere fino in fondo, ma il 2016 ci ha dimostrato, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che nonostante Obama, nonostante l'Onu, nonostante l'Unesco, Israele siamo noi. Lo abbiamo capito dopo una lunga striscia di sangue. Lo abbiamo capito dopo aver messo insieme i tasselli del mosaico dell'orrore. Con gli attentati riusciti e quelli non riusciti, di cui oggi il Foglio vi dà conto. "La sconfitta dell'islam militante - ha detto a settembre Benjamin Netanyahu di fronte alle stesse Nazioni Unite che provano ogni giorno a rosicchiare via un pezzo di storia di Israele - sarà una vittoria per tutta l'umanità, ma sarebbe soprattutto una vittoria per quei tanti musulmani che cercano una vita senza paura, una vita di pace, una vita di speranza. Ma per sconfiggere le forze dell'islam militante, dobbiamo lottare senza tregua. Dobbiamo combattere nel mondo reale. Dobbiamo combattere nel mondo virtuale. Dobbiamo smantellare le loro reti, interrompere i loro finanziamenti, screditare la loro ideologia. Possiamo sconfiggerli e noi li sconfiggeremo. Il medievalismo non può competere con la modernità. La speranza è più forte dell'odio, la libertà più forte della paura. Possiamo farcela". Israele siamo noi. E il paese dell'anno, il paese modello, non solo per questo. 2016, non può che essere questo. Buon Capodanno a tutti. E mai come oggi viva Israele.

(Il Foglio, 31 dicembre 2016)


“Israele siamo noi”. Ma chi sono questi noi? Noi occidentali? Noi democratici? Noi cristiani? Noi libertini? Il problema è aperto. E Israele potrebbe avere anche qualcosa da dire sulle risposte. M.C.


Caro Segretario di Stato Kerry

di David Harris

David Harris, Direttore esecutivo dell'American Jewish Committee
Caro Segretario di Stato John Kerry, ho ascoltato il suo discorso sul conflitto israelo-palestinese con la massima attenzione. L'ho ascoltato perché sono decenni che spero che questo conflitto abbia termine; perché so bene che la missione primaria degli ebrei è da sempre la ricerca di una pace sfuggente; e perché sono 25 anni che l'American Jewish Committee, l'organizzazione che dirigo, auspica una soluzione a due Stati. E l'ho ascoltato anche perché mi rendo conto che costruire nuovi insediamenti al di là della barriera di sicurezza è un grosso ostacolo verso il raggiungimento di un accordo finale.
    Inoltre, confido nella sua buona fede. Ne ho avuto esperienza diretta. Io l'ho sentita parlare in privato, non solo in pubblico. So bene che è sincero quando afferma che Israele deve rimanere uno Stato ebraico e democratico. Quando esprime tutta la sua angoscia per i bambini ebrei che risiedono in città di confine come Sderot e Kiryat, costretti quotidianamente a rischiare la vita, so che quel che dice viene non solo dalla testa ma dal profondo dell'anima. E riconosco che negli ultimi otto anni abbiamo assistito ad un livello di cooperazione bilaterale mai visto prima tra Washington e Gerusalemme a livello di intelligence e di difesa, presso le Nazioni Unite e le sue varie agenzie, e non solo. Lei ne ha citato vari esempi, ed ognuno corrisponde al vero.
   È vero: quante vite israeliane sono salve oggi grazie alla cooperazione tra Israele e gli Stati Uniti nel campo degli scudi missilistici? Quante situazioni potenzialmente tragiche sono state evitate grazie alla condivisione bilaterale di intelligence? Quante mozioni internazionali ostili ad Israele sono state bloccate grazie all'intervento dell'America?
   Eppure, mentre assorbivo ogni parola, ogni idea, le sue espressione facciali, il suo gesticolare, non mi sentivo perfettamente a mio agio. Volevo credere a tutto - alla speranza, alla visione, alla determinazione - eppure c'era qualcosa che mancava.
   Lei stesso ha affermato che la maggioranza degli israeliani è a favore della separazione e di un accordo con i palestinesi. Ed è vero, chiaramente. Ma quegli stessi sondaggi mettono in risalto il fatto che la popolazione teme che lo scopo ultimo dei loro vicini sia l'annientamento di Israele. In altre parole, gli israeliani sono schizofrenici, e vista la regione in cui risiedono ciò è perfettamente comprensibile. Da un lato, sono attratti dall'idea di due Stati per due popoli, di uno Stato palestinese "demilitarizzato" (e democratico?), e dalla fine del conflitto e delle richieste da entrambe le parti. Ma, nel profondo, pensano che tutto questo sia veramente possibile nel Medio Oriente di oggi, oppure pensano invece che sia tutto solo una visione romantica e sognatrice nata dalle buone intenzioni di chi abita da qualche altra parte?
   Dopotutto, questi sognatori si sono tenuti ben lontani dal Medio Oriente recentemente, direbbero molti israeliani: lontani dalla Siria, lontani dall'Iraq, dalla Libia, dall'Iran... la lista si allunga. E allora, perché dovrebbero fidarsi e consegnare il loro destino all'ennesimo "Piano"?
   Il timore più grande, mi viene ripetuto spesso, è che lo Stato palestinese diventerà con ogni probabilità uno Stato fallito, andando ad aggiungersi all'elenco degli Stati falliti della regione. Supponiamo che, per miracolo, Israele firmasse oggi stesso un accordo di pace con la leadership palestinese a Ramallah. Chi si troverebbe di fronte tra uno, cinque o dieci anni?
   Abbas non si è curato minimamente della sua successione, malgrado abbia superato gli ottant'anni di vita. I nodi verranno al pettine con violenza non appena giungerà il momento di contendersi il controllo dell'Autorità Palestinese, e Hamas, che ha già il controllo di Gaza, non resterà a guardare. La mancanza di stabilità in quell'area avrà ripercussioni non solo in Israele, ma anche - se non addirittura maggiormente - in Giordania.
   Vogliamo chiederci perché gli israeliani si sono spostati a destra, facendo mancare il loro appoggio e indebolendo i partiti di centrosinistra? C'è chi lo ha spiegato con l'immigrazione dall'Ex Unione Sovietica e con l'alto tasso di natalità degli ebrei ortodossi, ma il motivo principale, vi direbbero gli israeliani, sono gli eventi che si sono susseguiti dal 2000 ad oggi: lo sforzo determinato da parte del primo ministro Barak e del presidente Clinton di firmare un accordo a due Stati, accordo che non solo fu rifiutato dal leader dell'Olp Arafat, ma che in tutta risposta lanciò una seconda Intifada; il ritiro di Israele dal Libano meridionale, il cui vuoto è stato rapidamente colmato da Hezbollah e dal suo "Stato dentro lo Stato"; il ritiro di Israele da Gaza, in cui Hamas ha prima espulso l'Autorità Palestinese e poi preso il potere; e Abbas stesso, che mentre da un lato viene descritto come l'uomo con cui si farà la pace, dall'altro non si fa vedere al tavolo dei negoziati, intento com'è ad attizzare il fuoco della rivolta, del martirio, della delegittimazione di Israele.
   E arriviamo ora alla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu di venerdì scorso. Il punto doveva essere: in questo modo, abbiamo avvicinato le parti al tavolo dei negoziati? Per ora, mi sembra chiaro che le conseguenze vadano in tutt'altra direzione: la strategia di Abbas di internazionalizzare il conflitto e mettere Israele all'angolo è stata premiata, e dal suo canto Netanyahu dichiara che la comunità mondiale non è interessata a trattare Israele in maniera equa.
   E allora, perché questa risoluzione passata con l'astensione degli Usa, perché questo discorso proprio oggi, 24 giorni prima che Barack Obama consegni il potere alla prossima amministrazione i cui punti di vista - come lei ha affermato - sono ben diversi da quelli che ha espresso lei?
   Sarà forse per preparare il terreno ad ulteriori azioni del Consiglio di Sicurezza nei prossimi giorni, e per rafforzare la conferenza di Parigi di metà gennaio proposta dalla Francia? Sarà forse per creare una situazione che non possa essere facilmente ignorata o evitata dalla prossima amministrazione?
   Come ho detto all'inizio, io non dubito del suo impegno verso Israele, ma non riesco a non domandarmi cosa stia accadendo. A meno che lei non decida, tra oggi e il 20 gennaio, di esprimersi con forza sulla carneficina in Siria, sullo sfaldamento della Libia, sul ruolo destabilizzante dell'Iran in Medio Oriente e la sfida crescente alle forze Usa, sulla continua occupazione da parte russa della Crimea e dell'Ucraina orientale - tutti temi che toccano nel vivo gli interessi fondamentali statunitensi e che potrebbero essere affrontati in maniera differente dal Presidente Donald Trump e dalla sua squadra - allora perché concentrarsi proprio su questo tema - che coinvolge uno stretto alleato - ieri alle Nazioni Unite, oggi al Dipartimento di Stato, e domani magari di nuovo alle Nazioni Unite, con o senza l'iniziativa degli Usa, oppure a Parigi?
   Prima di chiudere, mi permetta di affrontare solo un'altra questione, nel nome della giustizia e dell'accuratezza storica. Uno dei suoi sei princìpi è la soluzione al problema dei rifugiati palestinesi. Ho atteso che lei menzionasse anche il problema dei rifugiati ebrei, ma - ahimè - ho atteso invano. Signor Segretario di Stato Kerry, come lei ben sa, ci furono due, non una sola popolazione di rifugiati nate a seguito del conflitto arabo-israeliano, ed erano pressappoco di uguale entità. Il fatto che una di queste sia stata tenuta in vita dall'Unrwa e dall'assenza di un mandato per trovare una nuova casa ai profughi (e ai loro discendenti in eterno, aggiungerei), mentre l'altra è stata affrontata da persone che hanno rifiutato di farsi strumentalizzare, scegliendo invece di rifarsi una vita, ciò non toglie che sia necessario affrontare le tragedie - e le pretese - di entrambe le popolazioni.
   Concludendo, proprio come lei e il compianto Shimon Peres, anche io mi rifiuto di abbandonare il futuro. Ho assistito a troppi miracoli politici nella mia vita per non credere che i cambiamenti epocali siano possibili: la fine dell'apartheid in Sud Africa; la pace di Israele con Egitto e Giordania; la riconciliazione franco-tedesca, il crollo del muro di Berlino e della Cortina di ferro; il ritorno della democrazia in Argentina, Brasile e Cile; il salvataggio di milioni di ebrei dall'Urss. Ma io provengo da una famiglia che ha vissuto direttamente i flagelli del Comunismo, del Nazismo, e del jihadismo, e ho imparato che dobbiamo essere capaci non solo di immaginare il meglio, ma anche di temere il peggio. Molti israeliani e i loro alleati hanno vissuto storie simili in famiglia. Quando la situazione lo richiede, gli israeliani agiscono. L'hanno fatto in passato, e lo faranno ancora. Una pace duratura è, ed è sempre stata, la loro priorità più importante.
   Ma per far sì che ciò accada devono poter credere che dall'altro lato del tavolo delle trattative siedano leader convinti sinceramente a voler negoziare in buona fede. Che questo sia il caso è ancora tutto da vedere, purtroppo.

(L'Opinione, 31 dicembre 2016)


Lo staff di Putin voleva vendetta, lui sceglie di ignorare Obama

Elegante e sprezzante, il presidente russo non fa rappresaglie, dismette i toni bellicosi e sorride a Trump.

di Anna Zafesova

 
MILANO - La nota regola che si vince rompendo i modelli di comportamento abituali ha ricevuto una brillante dimostrazione dal presidente russo, Vladimir Putin, che è andato contro gli stereotipi del suo personaggio politico. La suspense per l'attesa della terribile vendetta di Mosca per l'espulsione di 35 suoi diplomatici sotto copertura si è risolta nella maniera più sorprendente: Vladimir Putin è apparso in formato Babbo Natale, annunciando che non ci sarebbe stata alcuna rappresaglia, e che tutti i figli dei diplomatici americani accreditati a Mosca venivano invitati alla festa per bambini di fine anno al Cremlino. Poi ha mandato a prendere gli espulsi - che, a quanto pare, faticavano a trovare i biglietti aerei per adempiere all'ordine del governo di Washington di lasciare l'America in 72 ore - con un aereo della presidenza russa. Un gesto elegante e sprezzante, che nella Guerra fredda 2.0 fa vincere a Putin un match d'immagine importante.
   Nessuna giustificazione per le accuse di hackeraggio, "ci riserviamo il diritto di replicare, ma non ci abbasseremo all'irresponsabilità di una diplomazia da cucina", ha promesso il capo del Cremlino, tranquillizzando Washington: "Non creeremo problemi ai diplomatici americani. Non espelleremo nessuno. Non proibiremo alle loro famiglie e ai loro bambini di passare le vacanze nei luoghi cui sono abituati". Un tono da chi perdona invece di chiedere scusa, e Putin si rammarica che "l'Amministrazione Obama abbia deciso di concludere il suo lavoro in questa maniera, ma nonostante questo faccio al presidente e alla sua famiglia gli auguri per il nuovo anno, come li faccio al presidente eletto Donald Trump e a tutto il popolo americano".
   Quella che la Casa Bianca aveva preparato come la cannonata finale contro il Cremlino viene liquidata come un incidente spiacevole, tanto "i prossimi passi per ricostruire le relazioni verranno intrapresi in base alla politica del presidente Trump". In altre parole, Putin "perdona" Obama e di fatto lo liquida venti giorni prima della sua uscita di scena. Chi si aspettava la solita escalation asimmetrica, come da tradizione russa, è rimasto spiazzato. Poche ore prima il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, aveva parlato di una soluzione "senza alternative", prevista da tutti i protocolli della Guerra fredda, con l'inevitabile espulsione dello stesso numero di diplomatici americani, e nel fortino dell'ambasciata americana si attendeva di sapere chi avrebbe dovuto fare le valigie. La Cnn aveva annunciato l'imminente chiusura della scuola americana e della residenza di campagna dei diplomatici a Mosca, e il ministro degli Esteri Sergei Lavrov aveva già preparato una lista di 35 funzionari americani che dovevano festeggiare il Capodanno in patria: "La reciprocità è una legge della diplomazia", ha commentato.
   Invece la Russia ha deciso di mostrarsi buona, e soprattutto più forte dell'avversario. Al quale comunque a livello verbale non è stato risparmiato nulla. Il premier Dmitri Medvedev ha fatto un tweet in cui ha parlato di "agonia antirussa dell'Amministrazione Obama", aggiungendo un lapidario "Rip". La portavoce del ministero degli Esteri ha definito la Casa Bianca "un gruppo di falliti della politica, incattiviti e poco lungimiranti", salvando soltanto John Kerry, "un professionista che ha cercato di impedire il collasso internazionale del suo paese". Esponenti della Duma hanno accusato gli americani di paranoia, il politologo vicino al Cremlino Sergei Markov ha definito Obama "stupido e fallito" e un deputato del comune di Mosca ha proposto di dare il nome del presidente americano alle toilette pubbliche della capitale. Queste dichiarazioni vanno ben oltre il contegno diplomatico, e l'ambasciata russa a Londra ha diffuso un tweet con un anatroccolo (zoppo) e il commento "tutti, popolo americano incluso, sono felici della fine di questa sciagurata Amministrazione". Ma dopo lo sfogo, Putin ha regalato all'opinione pubblica russa un senso di superiorità. E ha aperto una linea di credito politica a Trump, mentre diversi giornali europei parlano di una mediazione che il vecchio Henry Kissinger sta cercando per il presidente eletto, e che dovrebbe includere il riconoscimento dell'annessione della Crimea e l'abolizione delle sanzioni.

(Il Foglio, 31 dicembre 2016)


Falliti gli ultimi colpi d'ala dell'anatra zoppa. Per Trump strada spianata con Russia e Israele

Il presidente Nobel per la pace umiliato dall'esclusione sulle trattative in Siria.

di Livio Caputo

Nella recente storia americana, nessun presidente uscente aveva mai tentato, nelle sue ultime settimane alla Casa Bianca da «anitra zoppa», di sabotare apertamente il programma del suo successore. A conclusione di otto anni di una politica estera giudicata dai più fallimentare, Obama ci ha provato: prima ha diretto i suoi strali contro Israele, con cui Trump vuole ripristinare i vecchi, strettissimi legami, ordinando di non opporre, come era consuetudine da decenni, il veto americano a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che condanna lo Stato ebraico per la politica di insediamenti in Cisgiordania e mette perfino in dubbio la legittimità della sua presenza a Gerusalemme Est. Sei giorni dopo, ha cercato di avvelenare ulteriormente i rapporti con la Russia, con cui Trump punta a una grande riconciliazione in funzione anti Isis, imponendo sanzioni severissime per il presunto hackeraggio del comitato centrale del Partito democratico da parte di agenti del Cremlino, che avevano l'obbiettivo di danneggiare la Clinton.
  Con questi colpi di coda, Obama contava presumibilmente di conseguire due obiettivi: da una parte, legare le mani al presidente-eletto mettendo i bastoni tra le ruote a due delle sue iniziative più innovative (e insinuando addirittura che abbia conquistato la Casa Bianca con l'aiuto dei russi); dall'altra, prendersi una specie di rivincita sui due leader internazionali, Netanyahu e Putin, che negli otto anni della sua presidenza, gli hanno creato i maggiori problemi e con cui ha avuto il peggiore rapporto personale. Salvo sorprese, sembra tuttavia aver fallito su entrambi i fronti.
  Nonostante il tentativo di giustificare la rinuncia al veto con la necessità di tenere vivo il concetto dei «due Stati», perseguito senza successo da decenni soprattutto a causa del rifiuto palestinese di riconoscere Israele come «Stato ebraico», la mossa ha finito con il ritorcersi contro Obama: è stata accolta malissimo dal Congresso (compresi molti esponenti democratici), ha spinto Trump a esortare gli israeliani a tenere duro «perché il 20 gennaio è ormai vicino» e non ha influito minimamente sulla politica di Netanyahu, che sa di potere contare sulla «protezione» del nuovo presidente. Anzi, è probabile che proprio per rispondere a Obama, Trump sposti davvero - come ha promesso - l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendola finalmente come capitale.
  Nella partita con i russi Obama aveva almeno una valida giustificazione: Cia e Fbi hanno raccolto solide prove che il Cremlino ha cercato di interferire - con una sofisticata offensiva cibernetica - nelle elezioni americane. Ma la rappresaglia adottata, con in testa la espulsione di ben 35 diplomatici, è sembrata fatta apposta per spingere il Cremlino - come è d'uso - a una ritorsione equivalente, alimentando ulteriormente la già esistente guerra fredda e rendendo difficilissima a Trump qualsiasi apertura. Per diverse ore, ieri, è parso che le cose andassero proprio così. Il ministro degli Esteri russo Lavrov aveva già perfino annunciato le contromisure in tv. Ma all'ultimo momento Putin - con una mossa che ha spiazzato tutti - ha detto che non intendeva reagire a questa «diplomazia di basso livello», ha invitato i bambini dei diplomatici americani al Cremlino e fatto a Obama gli auguri di buon anno. Trump potrà così rimuovere, entro un ragionevole periodo di tempo e senza eccessivo imbarazzo, sanzioni di per sé non del tutto ingiustificate (e approvate anche dai repubblicani) e proseguire nel suo piano; e il presidente Nobel per la pace, appena umiliato dall'esclusione dell'America per le trattative di pace in Siria, se ne andrà a casa con un altro insuccesso.

(il Giornale, 31 dicembre 2016)


"Chi sono gli sciacalli che vogliono fare la pelle a Israele". Parla Ruth Wisse

"La cosa più importante da capire è che l'antisemitismo non riguarda gli ebrei, ma coloro che organizzano la loro politica contro gli ebrei per distogliere l'attenzione da ciò su cui stanno cercando di farla franca".

di Giulio Meotti

Ruth Wisse
ROMA - La prende alla lontana, Ruth Wisse. "L'antisemitismo è l'organizzazione della politica contro gli ebrei", dice al Foglio la massima esperta al mondo di letteratura yiddish, 80 anni. Nata a Czernowitz, in Ucraina, come il poeta Paul Celan, oggi Wisse è docente a Harvard, dove è considerata una delle massime studiose della cultura ebraica contemporanea. "Da quando fu formulata nel 1870, questa politica è una strategia antiliberale che unisce destra e sinistra, laici e religiosi, radicali e tradizionalisti. Ha la funzione di unire in una coalizione elementi divergenti e altrimenti ostili. Fu questa la base dell'alleanza arabo-sovietica alle Nazioni Unite che permise di approvare la risoluzione del 1975 sul 'sionismo uguale razzismo'. E questo vale anche oggi". Il Consiglio di sicurezza dell'Onu, infatti, ha approvato la risoluzione 2334 che condanna Israele per i suoi insediamenti, ma de facto gli porta via anche la "legalità" di una Gerusalemme unita. "Non c'è niente di nuovo nel tentativo dell'Onu di organizzarsi contro Israele. Ciò che è nuovo è che gli Stati Uniti si siano uniti a quelli che Daniel Patrick Moynihan, ambasciatore americano al Palazzo di vetro, definì gli sciacalli".
  Mentre il medio oriente brucia, la massima istanza politica mondiale attacca e demonizza lo stato ebraico. "La cosa più importante da capire è che l'antisemitismo non riguarda gli ebrei, ma coloro che organizzano la loro politica contro gli ebrei per distogliere l'attenzione da ciò su cui stanno cercando di farla franca", dice Wisse al Foglio. "Gli ebrei e Israele non sono implicati in questi attacchi contro di loro. Essi possono essere danneggiati, ma non sono mai colpevoli delle accuse mosse contro di loro. La domanda è sempre circa la colpevolezza di chi li attacca. Cosa stanno nascondendo? Che cosa stanno tramando? Perché hanno bisogno di organizzare la loro politica contro gli ebrei?". Domande da rivolgere al Consiglio di sicurezza dell'Onu. "La guerra contro gli ebrei da quando è stato formulato l'antisemitismo nel 1870 è una guerra contro i valori della civiltà occidentale", prosegue Wisse. "Questa è stata la base della guerra araba contro Israele sin dalla sua fondazione e trovo pericoloso il voto dell'attuale Amministrazione perché mina i valori su cui è stata fondata l'America".
  L'Europa tutta ormai si sta schierando contro Israele. "L'Europa dovrà preoccuparsi di se stessa. La mia famiglia ha avuto la fortuna di fuggire dall'Europa nel 1940. La mia preoccupazione attuale sono gli Stati Uniti. L'aggressione del presidente e del suo segretario di stato è in definitiva contro ciò che la maggior parte di noi crede che l'America rappresenti. Questo è ciò che ha sconvolto il paese e a ragione. Obama è sempre stato ostile a Israele. E' un prodotto sia della chiesa del pastore Jeremiah Wright sia della sinistra radicale che ha formato una coalizione con gli arabi. Israele non potrà mai essere isolato finché ci sono nazioni civili o nazioni sulla loro strada per diventare 'civili'. Uno dei modi per identificare l'orientamento politico di un paese o di un partito o di un leader è quello di guardare al loro atteggiamento verso Israele. Da qui si vede la differenza tra l'Egitto di oggi e l'Iran, ad esempio. Israele prevarrà. Non sono altrettanto sicura di coloro che si sono messi contro lo stato ebraico. Tutti coloro che organizzano la politica contro gli ebrei dovrebbero ricordarsi il destino di Haman e di Hitler".

(Il Foglio, 31 dicembre 2016)


Gran Bretagna. Theresa May si schiera con Netanyahu e Trump

Su Israele Londra contro Kerry

di Nicol Degli Innocenti

Theresa May guarda al futuro:la premier britannica si è schierata dalla parte di Israele come Donald Trump, entrando così in rotta di collisione con l'amministrazione Obama. La May ha obiettato al discorso del segretario di Stato John Kerry perché troppo critico verso il Governo di Benjamin Netanyahu.
«Non riteniamo che il modo per negoziare la pace sia focalizzarsi su una sola questione,in questo caso la costruzione degli insediamenti, quando il conflitto tra Israeliani e Palestinesi è così profondamente complesso, - recita il comunicato di Downing Street. - E non riteniamo che sia appropriato criticare la composizione del Governo democraticamente eletto di un Paese alleato».
Dopo che gli Usa avevano rotto con anni di prassi, astenendosi dal voto del Consiglio di Sicurezza Onu di condanna degli insediamenti israeliani nei territori occupati, Kerry ha accusato il Governo israeliano di voler impedire la creazione di uno Stato palestinese.
Il dipartimento di Stato ha prontamente risposto alla May: «Siamo sorpresi dalle dichiarazioni della premier, dato che il discorso del segretario Kerry, che ha parlato di tutti i vari rischi per la soluzione dei due Stati, compreso il terrorismo, l'incitamento alla violenza e gli insediamenti, era del tutto in linea con la politica da lungo adottata dalla Gran Bretagna, e con il suo voto all'Onu la scorsa settimana».
Il dipartimento di Stato Usa ha poi ringraziato i molti Paesi, tra i quali la Germania, la Francia e il Canada, che hanno espresso il loro sostegno per le parole di Kerry, mentre la Gran Bretagna sembra essersi allineata con la posizione fortemente pro-Israele del futuro presidente Trump.
Un portavoce di Downing Street ha precisato che «il Governo britannico continua a credere che l'unica strada per una pace duratura in Medio Oriente passi da una soluzione dei due Stati. Continuiamo a credere che la costruzione di insediamenti nei territori palestinesi occupati sia illegale, e per questa ragione abbiamo sostenuto la risoluzione 2334. Ma siamo anche convinti che gli insediamenti non siano l'unico problema in questo conflitto. Il popolo di Israele ha il diritto di vivere senza la minaccia del terrorismo».

(Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2016)


L'allenatore deve essere licenziato?

L'allenatore è Netanyahu. Botta e risposta su "Moked - portale dell'ebraismo italiano".

Scrive Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
Sergio Della Pergola
29 dicembre 2016 - Con la risoluzione 2334 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è interrotta la tradizione maturata nel corso degli ultimi decenni di storia diplomatica secondo cui gli Stati Uniti pongono il veto a decisioni che possano sembrare negative nei confronti dello Stato d'Israele. La direttiva è arrivata chiaramente e direttamente dal Presidente uscente Barack Obama all'inizio dell'ultimo dei suoi 96 mesi di mandato presidenziale. In realtà non è successo nulla di nuovo. Il tono del discorso politico internazionale da sempre ripete gli stessi motivi, e in particolare rifiuta la narrativa israeliana riguardante lo stato dei territori occupati al termine della guerra dei Sei giorni del giugno 1967: territori in grandissima parte non annessi, ma tuttavia amministrati sotto la tutela delle forze militari israeliane. Nessun paese al mondo ha mai approvato la costruzione di insediamenti israeliani nei territori e in particolare in Giudea e Samaria, nota internazionalmente come Cisgiordania o West Bank. Tutti i paesi hanno votato contro, sempre, e in tutte le occasioni possibili. Con l'eccezione degli Stati Uniti. Nessun paese al mondo riconosce oggi Gerusalemme come capitale dello Stato d'Israele dove dovrebbero trovarsi le ambasciate di tutti i paesi che hanno rapporti con Israele. Gli Stati Uniti hanno giocato per anni con la retorica del trasferimento della sede diplomatica, ma a tutt'oggi l'ambasciata sta a Tel Aviv. Di fronte a questi fatti ben noti a tutti, lo stato ebraico sotto la direzione di Benyamin Netanyahu - Primo ministro (con interruzioni) fin dal 1996, e nel corso degli ultimi mesi anche ministro degli Esteri - ha giocato una partita diplomatica sciocca e temeraria. Questa politica autolesionista ha seguito due piste principali, entrambe insipienti e nocive per la causa di Israele. La prima pista è stata quella di ostentare in tutte le occasioni militanza politica a favore del partito Repubblicano statunitense, ossia a favore dell'opposizione politica al presidente Democratico in carica. Netanyahu si è accanitamente opposto a Obama in occasione delle diverse successive campagne elettorali, e lo ha addirittura sfidato pubblicamente in occasione di un plateale discorso a Camere americane congiunte. E dopo tutto questo Bibi si lamenta quando Obama compie la sua perfida e sottile vendetta politica negli ultimi sprazzi del suo mandato. Ancora più grave la seconda pista seguita dalla politica estera israeliana. Gli insediamenti nei territori non rappresentano un blocco unico e ineluttabile ma, al contrario, sono composti da varie stratificazioni che evocano situazioni sociologiche differenti e reazioni ben differenziate in Israele e nel mondo. Esistono i nuovi quartieri ebraici costruiti attorno a Gerusalemme dopo il 1967: Gilo (dove era situata l'artiglieria giordana che nel 1967 cannoneggiava le strade della città), Ramot, Talpiot Mizrach. Chiunque abbia la testa sulle spalle capisce che questi quartieri fanno parte permanente del comune di Gerusalemme, sono abitati non da coloni, ma da normali cittadini urbani, e nessuno sogna che possano essere sgomberati e consegnati a chicchessia. Poi esistono Ma'alé Adumim e Beitàr Élit, due città sui 40-50.000 abitanti a poche centinaia di metri dal vecchio confine, che fungono da quartieri dormitorio per Gerusalemme, anch'esse popolate da pacifici strati sociali medio-bassi. Fanno parte del consenso di ciò che Israele si terrà in qualsiasi accordo con i Palestinesi. Poi c'è il Gush Etzion, il complesso di insediamenti rurali che facevano parte della Palestina ebraica fino al 1948 e sono stati ricostruiti dopo il 1967. Anche questa parte viene raramente messa in discussione nell'ipotesi di un futuro accordo. Poi c'è Ariel, una città più all'interno della Samaria, meno facilmente accessibile. È legittimo discuterne, anche se è improbabile che possa venire rimossa. E poi ci sono diversi insediamenti ebraici isolati sulle colline circondate da villaggi arabi. Per citarne uno solo fra i tanti: Itzhar. Poche persone militanti che non offrono alcun vantaggio sul piano della difesa del territorio, ma al contrario richiedono un grande impegno di difesa militare. In questo caso l'ipotesi di uno sgombero in cambio di adeguato compenso non sarebbe totalmente implausibile e causerebbe fastidi a un numero relativamente minore di persone. Fin qui, tutto è stato costruito su terreni pubblici o regolarmente acquistati da enti e privati israeliani da venditori palestinesi. E infine esiste un piccolo insediamento di militanti, Ammona, che è stato costruito illegalmente sul terreno privato di un palestinese. Ammona è illegale secondo il diritto privato israeliano - non solo secondo il diritto internazionale - e la Corte Suprema israeliana ne ha ordinato lo sgombero già due anni fa, ma il governo di Israele finora ha procrastinato sine die. Nel presentare il caso di Israele di fronte al mondo, Netanyahu avrebbe potuto differenziare la sua politica, avrebbe potuto presentare dei distinguo, avrebbe potuto lasciare qualche spiraglio aperto al possibilismo. Per dare qualche credibilità alla sua stessa affermazione di sostegno alla soluzione di due stati per due popoli, avrebbe potuto lasciar intravvedere quali sono le porzioni di territorio sulle quali Israele non ha pretese o ambizioni. La via da lui scelta invece è stata quella di sostenere tutto e il massimo. Senza distinzione: Gilo, Ma'ale Adumim, Ariel, Izhar, Ammona. È tutto nostro, senza compromessi. Siamo orgogliosi, nelle parole di Netanyahu, di essere il governo che più di ogni altro ha a cuore la causa degli insediamenti e allo stesso tempo promuove una soluzione in cui milioni di palestinesi potranno rimanere nelle loro case ma senza diritto di voto - a spese dell'idea di uno stato d'Israele ebraico e democratico. Ma ora, proprio allo scadere del mandato di Obama, il mondo politico internazionale chiede chiarezza e esprime la sua insoddisfazione di fronte a questo tipo di discorsi.
Il voto al Consiglio di sicurezza è una colossale sconfitta diplomatica per Israele.
È in primo luogo uno schiaffo morale, un gesto di patente antipatia da parte di tutti i paesi coinvolti nel voto, amici, neutrali e nemici. Ma le conseguenze, soprattutto sul piano della Corte internazionale dell'Aja e delle possibili sanzioni economiche anti-israeliane, potrebbero essere molto pesanti.
Per consolarci, concludiamo allora con una metafora sportiva. Quando una squadra di calcio perde per un rigore subito al 96o minuto, è inutile incolpare l'arbitro venduto, il pubblico becero, i giocatori avversari simulatori, o perfino la nostra difesa ingenua e scarpona. Si deve licenziare immediatamente l'allenatore.


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Risponde Raffaele Besso, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Raffaele Besso
30 dicembre 2016 - Il professor Sergio Della Pergola, nel suo settimanale intervento sul notiziario Pagine Ebraiche 24, è riuscito a criticare contemporaneamente il cambiamento della politica USA ordinato da Obama nella votazione al Consiglio di sicurezza dell'ONU, che definisce "perfida e sottile vendetta politica", e tutta la politica del suo primo ministro Netanyahu, regolarmente rieletto dal popolo di Israele durante gli otto anni della presidenza di Obama, al punto dal richiederne, al termine del suo intervento, il "licenziamento immediato".
Peccato che, nella sua ben nota idiosincrasia nei confronti di Netanyahu, Della Pergola faccia affermazioni molto discutibili, ed ometta realtà che distruggerebbero le sue tesi.
Lasciamo perdere alcuni commenti del tutto personali sulla politica di Netanyahu, commenti che personalmente non condivido: "Partita diplomatica sciocca e temeraria", "Due piste seguite, entrambe insipienti e nocive per la causa di Israele", e che avrebbero forse dovuto essere esposti con tono meno assoluto, e passiamo oltre.
Quando Della Pergola parla di "Militanza a favore del partito repubblicano", dovrebbe spiegarsi meglio, visto che ricordo bene le affermazioni fatte da Netanyahu durante la campagna elettorale americana di neutralità nel confronto Trump - Clinton, a differenza della ben nota ingerenza di Obama nell'ultima campagna elettorale israeliana, con addirittura fondi abbondanti ($ 350,000) e illegali inviati al partito, poi uscito sconfitto, di Herzog e della Livni. Parimenti, quando scrive che Obama sarebbe stato "sfidato in occasione del discorso a Camere congiunte" omette il fatto fondamentale che Netanyahu aveva ricevuto un invito bipartisan a Washington dal Congresso, e nulla davvero gli impediva di accettare l'invito.
Decisamente più grave, a mio parere, è il detto, ed il non detto quando si entra nel vivo del discorso sulle cosiddette "colonie". Della Pergola, infatti, quando scrive, per alcune di esse: "nessuno sogna che possano essere sgomberati e consegnati a chicchessia" non può non sapere che Obama ed Abu Mazen parlano della totalità dei territori posti oltre la linea di cessate il fuoco del 1949 (linea che la Giordania pretese che non fosse considerata in futuro come linea di confine); quindi non parlano solo di Gilo, Ramot e Talpiot Mizrach che invece molti "sognano" che vengano sgomberate, ma dello stesso Kotel col quartiere ebraico, che è rimasto nella penna del professore Della Pergola. E chi lo autorizza poi a scrivere che "Gush Etzion viene raramente messa in discussione"? Questa affermazione è davvero incomprensibile. Penso tuttavia che queste parole siano propedeutiche alla affermazione che Netanyahu "avrebbe potuto lasciar intravvedere quali sono le porzioni di territorio sulle quali Israele non ha pretese o ambizioni", ma questo mi lascia perplesso, sia per la ingenuità politica di tale affermazione, sia perché sembra che ci si dimentichi degli accordi di Oslo che rispondono pienamente a questo interrogativo (accordi che, tra l'altro, non menzionano neppure uno stato palestinese, come Rabin pretese).
No, Netanyahu non dice "è tutto nostro", non "procrastina sine die" la soluzione del problema Ammona, e non ha mai pensato che "milioni di palestinesi potranno rimanere nelle loro case ma senza diritto di voto", ma forse, a differenza di Della Pergola, non dimentica che il Primo Ministro di Israele, e tutto il popolo che egli rappresenta, è stato offeso dal Presidente degli USA quando, in occasione del loro primo incontro, è stato fatto entrare alla Casa Bianca dalla porta di servizio ed ha dovuto fare anticamera aspettando che la famiglia Obama finisse di mangiare.
Chiudo suggerendo a Della Pergola di approfondire le sue conoscenze calcistiche; se infatti ritiene che nel calcio "si licenzi immediatamente l'allenatore la cui squadra perde per rigore al 96esimo minuto" (non trovo il caso cui allude), ricordo che alla Juve Conte, sconfitto ed eliminato dal Galatasaray a solo 5 minuti dalla fine in champions league, non venne affatto licenziato, ma, in dissidio con la sua società per un rinforzo richiesto ed arrivato solo un anno dopo, se ne andò per approdare prima alla guida degli azzurri, dove ottenne ottimi risultati, e poi alla guida del Chelsea, che oggi guida la classifica del campionato inglese. Se dunque questo è il paragone, Netanyahu deve solo ringraziare il professore Della Pergola.
Mi auguro inoltre che il Presidente eletto Trump porti a Gerusalemme l'ambasciata degli USA come votato dalla quasi totalità del Congresso USA nel 1995, a differenza di quanto affermato da Della Pergola che sostiene che "nessun Paese al mondo riconosce oggi Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele".

(moked, 30 dicembre 2016)


Su Israele l'ultimo flop di Obama

Ultimo fallimento della politica Usa

di Fiamma Nirenstein

 
 
 
E' una trama shakespeariana quella che travolge nel paradosso la presidenza Obama, lo sfondo è la tragedia siriana, il proscenio la commedia degli errori. Kerry sotto le luci dei riflettori, dopo la risoluzione anti-israeliana sostenuta da Obama, fa il suo discorsone sugli insediamenti convince i palestinesi, di aver già vinto la partita, che importa trattar? Questo è stato il ruolo degli USA di Obama, mentre stragi immense graffiano di rosso il Medio Oriente. Intanto, a Mosca, la Russia porta a compimento un gran colpo politico: incontra la sua storica nemica, la Turchia, leader dei paesi sunniti, capo della Fratellanza Musulmana, e si porta dietro l'Iran col suo favoloso record di violazione dei diritti umani, terrorista e belligerante, capo di tutti gli sciiti del mondo.
   Putin, Erdogan e Khamenei hanno firmato una tregua che è cominciata a mezzanotte: non si sa se funzionerà dato che l'Isis e Jabat al Nusra non hanno firmato, ma altre formazioni molto estreme, spinte dalla Turchia, amica loro, e dalla paura, sembrano starci. Si vedrà, ma intanto tre grosse potenze si sono messe d'accordo per piantarla con "quelle inutili chiacchiere intorno al tavolo" (l'ha detto il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov), ignorando i colloqui dell'ONU a Ginevra ("lavoriamo parallelamente" hanno detto) e mettendo da parte gli americani come parte irrilevante. Erdogan che dopo un lungo periodo di collaborazione intensiva con Assad ha invece sostenuto i ribelli compreso un ponte di passaggio per i foreign fighters dell'Isis, adesso si limita a dire che prima o poi Assad, il grande assassino, dovrà essere messo in discussione. Putin sostiene Assad, gli serve per affermare la sua presenza in Medio Oriente. A suo sostegno gli iraniani spediscono là, col loro braccio destro Hezbollah, una selva di feroci uomini armati agli ordini della Guardia Rivoluzionaria.
   E Obama? Obama usa i droni e mette ogni tanto a segno un buon colpo all'Isis, guarda da lontano i mostruosi bombardamenti di Aleppo, non riesce nemmeno a promuovere una decente impresa umanitaria. Sa che l'Iran, promosso dall'accordo nucleare da lui sponsorizzato, mette in fuga i sunniti terrorizzati che diventano profughi nel migliore dei casi e nel peggiore terroristi, e dall'abbandono della "linea rossa" anti armi di distruzione di massa, ha fatto un salto indietro lasciando tutto lo spazio a Putin. E tuttavia Obama e Kerry si figurano un grande ruolo in Medio Oriente, non quello di cercare di fermare i 450mila morti della guerra, ma i terribili, pericolosissimi insediamenti israeliani.
   Lo sgombero dei 21 insediamenti da Gaza di fatto consegnò a Hamas territorio per l'allargarsi dell'islamismo terrorista. Un paradosso? E che dire del ruolo di Obama, fra i presidenti più guerrafondai della storia americana?

(il Giornale, 30 dicembre 2016)


"Come va per Israele andrà per noi". Parla lo scrittore olandese Leon de Winter

"I miei figli sono a Tel Aviv, io resto legato all'Europa. Qui non c'è futuro per noi ebrei: i progressisti ci accusano di ogni male del mondo islamico, come è successo all'Onu".

di Giulio Meotti

ROMA - "E' l'ultimo tentativo dei progressisti occidentali di incolpare gli ebrei per le crisi esistenziali del mondo islamico". Così Leon de Winter, al Foglio, definisce la risoluzione 2334 delle Nazioni Unite che condanna gli insediamenti israeliani e che per la prima volta in quarant'anni è stata lasciata passare dagli Stati Uniti. Leon de Winter è il maggiore scrittore olandese vivente. "Fanno di tutto per tenere in vita l'illusione della soluzione a due stati. Non esiste. In questo momento della storia, non un singolo stato arabo è in grado di trasformarsi in uno stato democratico praticabile con pari diritti ai suoi cittadini. Ma le élite occidentali vorrebbero costringere Israele a sopportare i fallimenti di un altro stato arabo, il numero ventiquattro, con risultati prevedibili: la guerra, la distruzione, la morte. I progressisti vogliono vedere gli ebrei soffrire e vogliono liberarsi da quello che considerano il ricatto ebreo della storia". Perché anche solo il nome Israele li manda così fuori di testa? "Israele dimostra che è possibile la creazione di uno stato moderno basato sui valori tradizionali. Israele è sbocciato nonostante l'Olocausto, la mancanza di petrolio, le centinaia di milioni di nemici che lo circondano. Israele non si lamenta del colonialismo o imperialismo o nazionalismo o militarismo. Gli israeliani dimostrano che è falso l'assunto delle ideologie progressiste: alla fine, ciò che rende una società ricca, è che tipo di cultura le persone cercano di difendere. Israele non è definito dalla sua sofferenza o vittimismo, ma dal suo rivoluzionario concetto di un Dio che è giusto e che comunica con l'umanità".
   In Europa vibra il sentimento di separare il destino del Vecchio continente da quello degli ebrei. E' possibile? "No. Se Israele cade, l'occidente cadrà. Ma le nostre élite rifiutano di riconoscere la radice culturale-religiosa della nostra civiltà. Celebrano il multiculturalismo e negano che le culture e le religioni sono diverse nelle sue idee di base. Se le culture fossero uguali, non ci sarebbe stato alcun movimento nella storia del genere umano. Ma c'è movimento, come tutti sappiamo. Israele esiste nel mezzo del crollo di una civiltà antica, l'islam, i cui concetti e idee sono fatiscenti di fronte alla modernità. Molte altre religioni sopravvivono, ma l'islam, nella sua forma attuale, è un malato terminale, e fintanto che le nostre élite non riconoscono i sintomi, l'occidente sarà influenzato e prenderà la stessa malattia della decadenza".
   Ultima domanda. Gli ebrei europei stanno facendo le valigie, di nuovo. "Assistiamo alla fine dell'amore senza risposta degli ebrei per l'Europa", risponde al Foglio De Winter, che ha perso molti componenti della sua famiglia, gassati a Sobibór durante la Seconda guerra mondiale. "Dopo che le porte del ghetto si sono aperte, hanno provato di tutto per essere uguali tra uguali. Spesso ci sono riusciti. Abbiamo visto incredibili storie di successo degli ebrei nella scienza, nelle arti - ma ormai volge al termine. Gli ultimi ebrei se ne stanno andando, e sono per lo più sostituiti dai musulmani che mancano di questo amore profondo per la cultura europea e portano con sé il risentimento e la rabbia. Si tratta di una tragedia. I miei figli stanno ora studiando in Israele, per loro è un naturale sviluppo, ma per me… sento terribile tristezza. Ho affittato un appartamento a Tel Aviv, una città costruita dagli ebrei tedeschi che amavano la loro lingua così profondamente che essi pensavano di fare del tedesco la lingua ufficiale della loro nuova città e del loro nuovo paese. Temo che l'Europa sarà Jüdenrein nel 2050. Cosa accadrà al cristianesimo in Europa, quando la cultura da cui nacque Gesù sarà stata rimossa dal suolo europeo? Come potranno essere cristiani senza la presenza diretta dell'ebreo accanto a sé? Cosa resterà dell'Europa, quando il cristianesimo morirà?".

(Il Foglio, 30 dicembre 2016)


Israele e il prezzo dell'eredità di Obama

I liberal divisi sul presidente americano uscente e lo stato ebraico: un fardello in più. Gli europei aspettano l'occasione buona.

di Paola Peduzzi

 
Paola Peduzzi
MILANO - Che prezzo ha, in termini di coerenza, alleanze ed eredità politica, la soluzione a due stati per la questione israelo-palestinese? Barack Obama ha fissato il prezzo molto in alto: non ha niente da perdere, non ha elezioni in vista, non ha un partito da salvare (è a pezzi in ogni modo), ha soltanto un'eredità in politica estera da forgiare, all'ultimo, mentre risuona potentissima l'assenza americana nella tregua siglata in Siria. Così Obama ha alzato la posta: s'è astenuto all'Onu sulla risoluzione 2334 che condanna la politica degli insediamenti di Israele e ha fatto sì che il suo segretario di stato, John Kerry, sacrificasse sull'altare di una strategia moribonda - i due stati - un'alleanza esistenziale per l'America e per Israele.
   Kerry ha parlato di amicizia, nel suo discorso, stabilendo che gli amici - gli alleati - devono dirsi "le verità più dure", perché la lealtà è questo: saper dire a un amico quando sbaglia. Ma il punto non è tanto dirsi la verità, quanto in quali circostanze dirsele. Nel 1980, quando all'Onu accadde una cosa simile e il presidente americano era Jimmy Carter (una doppia astensione su due risoluzioni contro gli insediamenti e la politica dei rifugiati palestinesi, a poche settimane dalla fine della presidenza), il Washington Post scrisse un editoriale molto citato in questi giorni che s'intolava: "Unirsi agli sciacalli". Il Post aveva sostenuto Carter nella campagna contro Reagan, incarnava la visione liberal dell'America e del mondo, ma in quell'editoriale fu fermo con il presidente democratico: mostrare la "dura verità" in un consesso come quello dell'Onu, "un branco di nemici di Israele", equivale a unirsi a quel branco, e a metterlo prima dell'amicizia. Ci sono molti consessi in cui mostrare perplessità, l'Onu non è tra quelli.
   Il prezzo della propria eredità per Obama è il più alto immaginabile, ed è per questo che ha deciso di utilizzare questo ultimo mese di presidenza per ribadire una politica che è da sempre uguale e allo stesso tempo per criticare la politica "molto di destra" del governo Netanyahu, ostaggio dell'agenda dei settlers. Una dichiarazione puramente politica, che in termini tecnici potrebbe essere definita un'ingerenza, ma che vuole sottolineare una differenza presso l'elettorato americano (l'unico che abbia mai contato per Obama): noi democratici vogliamo la pace, coi repubblicani si vedrà. Il Partito democratico non ha apprezzato affatto il lascito del presidente uscente (che ha ignorato il partito per otto anni). Ci sono state critiche da parte di deputati e senatori democratici per l'astensione all'Onu e per il discorso di Kerry: per un partito che deve ricostruire la propria identità dopo una sconfitta elettorale brutale, la divisione su Israele è un fardello invero pesante.
   Poi c'è l'Europa, il pubblico più simpatetico nei confronti di Obama. A Parigi, il 15 gennaio, si terrà un incontro voluto dal presidente (uscente pure lui) François Hollande con una settantina di paesi per rilanciare il processo di pace. Per i palestinesi si tratta di una prova generale per quella risoluzione che sognano da sempre, e che (persino) l'Amministrazione Obama non ha concesso, sul riconoscimento dello stato palestinese da parte di tutto il mondo, escluso Israele. Per l'Europa, che ha elogiato il discorso di Kerry, è l'occasione di poter dire la propria, dopo aver perso la voce - e taciuto - su tutti gli altri dossier del Mediterraneo. Così il fatto che la strategia dal prezzo alto sia moribonda non conta poi un granché.

(Il Foglio, 30 dicembre 2016)


I palestinesi vogliono veramente uno Stato?

di David Harris (*)

Mentre i riflettori erano puntati sul voto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre scorso, quando 14 nazioni hanno votato a favore di una risoluzione critica di Israele e quando gli Stati Uniti, rompendo con la loro politica consolidata, hanno deciso di astenersi piuttosto di opporsi alla mozione, la questione delle motivazioni di fondo e del comportamento di parte palestinese non è stata analizzata.
   Ma avrebbe dovuto esserlo, perché in realtà è la chiave dell'intera questione.
   Non basta che i palestinesi abbiano rifiutato ogni offerta di un accordo di pace negli ultimi 70 anni, ma, tragicamente, i loro errori hanno fatto sì che d'ora in avanti le possibilità di trovare un accordo siano sempre meno.
   Il voto del Consiglio di Sicurezza dell'Onu di venerdì scorso ne è un esempio lampante.
   Se lo scopo era quello di aumentare le probabilità della creazione di uno Stato palestinese a fianco di quello israeliano (e non al suo posto!), allora è stato un fallimento totale, nonostante l'esito sbilenco della votazione. I diplomatici che si sono affrettati ad applaudirne il risultato - e non mi soffermerò qui a parlare di nazioni criminali come il Venezuela, che non portano una briciola di buona volontà al tavolo dei negoziati dell'Onu - dovrebbero ripensare bene a quello che hanno ottenuto.
   Se volevano stroncare Israele, vocazione di lunga data caratteristica di sin troppe nazioni dell'Onu, allora possono battersi il petto anche se, ahimè, è loro abitudine riservare queste critiche solo per l'unico Stato democratico del Medio Oriente. Ma per coloro il cui scopo sincero era quello di aumentare le probabilità di pace, allora hanno fatto un gran bel passo indietro, cadendo ancora una volta nella trappola palestinese.
   Tre cose sarebbero dovuto essere chiarissime per tutti, ormai.
   La prima è che, mentre la questione della costruzione degli insediamenti israeliani è certamente una materia altamente controversa, il punto chiave del conflitto è sempre stato il rifiuto da parte palestinese e dei loro sostenitori di riconoscere la legittimità di Israele e di negoziare in buona fede per giungere ad un accordo di pace duraturo. È stato così nel 1947-48, quando le Nazioni Unite proposero una soluzione a due Stati; è stato così nel 1967, nel 2000-2001, e nel 1998; è stato così durante il blocco di nuovi insediamenti deciso da Israele, guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, durato 10 mesi, tra il 2009 e il 2010, in risposta ad una richiesta statunitense; ed è stato così nel 2013-14, durante il più recente tentativo di colloqui diretti e bilaterali col supporto degli Stati Uniti.
   Il costante rifiuto da parte palestinese è ampiamente dimostrato dai fatti. Un commento particolarmente emblematico a proposito - che resta vero oggi come allora - proviene da una fonte improbabile. Nel 2003, il "New Yorker" citava così l'Ambasciatore Saudita presso gli Stati Uniti: "Mi si è spezzato il cuore quando (il presidente dell'Olp) Arafat non ha accettato l'offerta (di una soluzione a due Stati presentata da Israele con l'appoggio degli Usa nel 2001). Dal 1948, ogni volta che c'è qualcosa sul tavolo, diciamo di no. Poi invece diciamo di sì. Ma quando diciamo di sì, l'offerta non è più sul tavolo, e abbiamo meno davanti. Non è giunta l'ora di dire di sì?".
   Invece di occuparsi costantemente e ossessivamente delle azioni israeliani, perché i membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu non chiedono ai palestinesi di spiegare perché hanno evitato per settant'anni di arrivare ad un accordo soddisfacente per entrambe le parti?
   In secondo luogo, è ovvio che i palestinesi preferiscono usare scappatoie diplomatiche, evitando di sedersi al tavolo dei negoziati ma decidendo invece di internazionalizzare il conflitto. Questo li porta ad ottenere delle vittorie di breve durata, visto il peso numerico della Lega Araba, dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica, del Movimento dei Paesi Non-Allineati, per non parlare dell'arte dell'espediente politico, praticata da sin troppi Paesi membri dell'Onu da cui vorremmo aspettarci di più. Per i palestinesi, a cosa è servito tutto questo? A niente, se il vero scopo dei palestinesi fosse quello di ottenere un loro Stato a fianco di Israele.
   Anzi, questo modo di fare è riuscito solo a convincere molti israeliani che la leadership palestinese non è realmente interessata ad arrivare ad una soluzione, ma vuole solo continuare la lotta. Ma dovrebbe essere ormai chiaro che Israele è un Paese forte e che continua a rafforzarsi, e pensare che Israele possa cadere in ginocchio di fronte a pressioni di questo genere è pura illusione.
   In terzo luogo, non sarebbe ora che i membri responsabili della comunità internazionale si fermino un attimo per capire con più attenzione quale sia il modo migliore per raggiungere la pace?
   Israele ha firmato trattati duraturi con l'Egitto e con la Giordania. In entrambi i casi non sono stati siglati tramite l'Onu, ma tramite negoziati bilaterali. Israele ha fatto concessioni territoriali senza precedenti, cedendo terre che aveva conquistato nella guerra per la sua sopravvivenza del 1967, ma lo ha fatto confidando che il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il Re di Giordania Hussein avessero deciso sinceramente di smettere di far la guerra allo Stato ebraico.
   In Israele, sondaggio dopo sondaggio dimostra che la maggioranza della popolazione è a favore di un accordo a due stati con i palestinesi, ma è allo stesso tempo profondamente scettica riguardo la loro sincerità. E perché mai gli israeliani dovrebbero avere dubbi? Il presidente dell'Autorità Palestinese Abbas, nell'undicesimo anno dei suoi quattro anni di mandato dice prima una cosa e poi l'esatto opposto; dice che vuole giungere a un accordo e poi incita i suoi alla violenza, si rifiuta di sedersi al tavolo dei negoziati, cerca di mettere Israele all'angolo della diplomazia e presiede - se quello è il termine giusto - un'entità fortemente divisa, tra Hamas e Cisgiordania.
   Invece di assecondare i palestinesi trattandoli da bambini viziati, soccombendo ad ogni loro richiesta sbagliata e favorendo il loro comportamento controproducente, non sarebbe finalmente ora di vedere la situazione da entrambi i punti di vista (non solo da quello palestinese), imparare dal passato e aiutare a creare una situazione che porti ad un tangibile progresso?
   Quando emergeranno leader palestinesi che comprenderanno i lasciti del presidente Sadat e di Re Hussein, che offriranno il palmo e non il dorso della loro mano ad Israele, che riconosceranno le legittime preoccupazioni degli israeliani che devono essere prese in considerazione durante il dialogo, allora, che sia Benjamin Netanyahu il primo ministro, o che ci sia un altro leader eletto in futuro, troveranno un partner bendisposto. Tanto per capirci, Menachem Begin era tutt'altro che una colomba, era anzi un personaggio che nessuno avrebbe mai pensato disposto a dar via il Sinai, che era una vasta zona cuscinetto con giacimenti petroliferi e basi aeree, eppure lo cedette, fino all'ultimo granello di sabbia, pur di raggiungere la pace con l'Egitto.
   In altre parole, le lezioni della Storia sono tante, anche se di questi tempi pare che non ci sia proprio abbondanza di studenti di Storia alle Nazioni Unite (se ce ne fossero saprebbero ad esempio che non potrà mai esistere un Governo in Israele che possa riconoscere l'assurdità di chiamare "territori palestinesi occupati" la città vecchia di Gerusalemme e il Muro del Pianto, con i siti più sacri all'ebraismo).
   Il voto di venerdì scorso del Consiglio di Sicurezza dell'Onu verrà ricordato come una vittoria di Pirro per i palestinesi, e un passo indietro verso la ricerca della pace tra israeliani e palestinesi.

(*) Direttore esecutivo dell'American Jewish Committee

(L'Opinione, 30 dicembre 2016)


STRANEZZA
I palestinesi vogliono che ci sia uno stato palestinese?Risposta: NO
Gli israeliani vogliono che ci sia uno stato palestinese?Risposta: SI

SPIEGAZIONE
Gli israeliani vogliono uno stato ebraico in cui possano vivere in pace?Risposta: SI
I palestinesi vogliono uno stato israeliano in cui gli ebrei possano vivere?Risposta: NO


A sorpresa la Gran Bretagna critica Kerry: sbagliato focalizzarsi solo sugli insediamenti

La Gran Bretagna ha criticato fortemente il discorso del Segretario di Stato americano, John Kerry, affermando che è sbagliato focalizzarsi solo sugli insediamenti israeliani senza spendere una parola sull'incitamento alla violenza e sul terrorismo di matrice arabo-palestinese.
A esternare il disaccordo britannico con le parole di John Kerry è stato ieri sera il portavoce del Primo Ministro britannico. «Noi non crediamo che il modo di negoziare la pace tra arabi e israeliani sia quello di concentrarsi su un solo tema, in questo caso la costruzione degli insediamenti, quando chiaramente il conflitto tra israeliani e palestinesi è profondamente complesso, come non crediamo che sia opportuno attaccare la composizione di un Governo alleato democraticamente eletto» ha detto il portavoce di Theresa May....

(Right Reporters, 30 dicembre 2016)


Enel a Tel Aviv per intercettare la forza dell'innovazione

Accelerare le realtà del panorama locale è da luglio la mission dell'hub israeliano della utility italiana, che parte da droni e cybersecurity.

 
L'entrata dello spazio Enel all'interno della struttura di Sosa
rNella ricca Silicon Wadi, l'alternativa israeliana all'egemonia del tech statunitense, svetta da luglio una bandiera italiana: è quella di Enel, che ha deciso di aprire proprio in Israele il suo primo Innovation Hub, acceleratore di startup destinate a cambiare gli scenari dell'energia.
MIssion della utilityè lo scouting ed il sostegno delle startup nella fase di sviluppo e di commercializzazione, al fine di individuare in anticipo soggetti in grado di apportare valore e colmare gap di innovazione. Nell'hub israeliano le startup avranno la possibilità di entrare in contatto con le business lines del Gruppo, con l'obiettivo di sviluppare insieme nuove soluzioni, grazie al supporto previsto dal programma della multinazionale italiana, interessata ad entrare in contatto con diverse tecnologie in linea con le sue priorità strategiche.
Internet of Things industriale, Tecnologie Smart Home e Cyber Security sono alcuni tra i grandi ambiti su cui, con diversi fini, si giocherà la partita delle nuove vie alla gestione di energia nel prossimo futuro.
E l'ingresso come prima scelta nell'hub di Aperio, la startup che sviluppa soluzioni innovative con lo scopo di fornire cyber-resilienza a infrastrutture sensibili, dopo la vittoria nell'Enel Cyber Security Hackaton di settembre, dimostra l'importanza di avere il polso di questo peculiare segmento per l'utility presente in più di 30 paesi.
A confermarlo, anche il grande bacino di aziende innovative che hanno affollato i primi due bootcamp promossi dall'Innovation Hub, uno dedicato alla Cyber Security a novembre e uno sulle tecnologie dei droni, andato in scena il 12-13 dicembre.

(Wired.it, 30 dicembre 2016)


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