Ci fu mai un dio che abbia cercato di venire a prendersi una nazione di mezzo a un'altra nazione mediante prove, segni, miracoli e battaglie, con mano potente e con braccio steso e con gesta tremende, come fece per voi l'Eterno, il vostro Dio, in Egitto, sotto i vostri occhi?
Deuteronomio 4:34

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André Rieu

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La CCR e Israele

di Marcello Cicchese

Qualcuno potrebbe pensare che lo scandalo provocato dall'esplosiva relazione dell'«Arcivescovo di Ulpiana, Nunzio apostolico» Carlo Maria Viganò pubblicata sul quotidiano "La Verità" del 26 agosto, in cui si scopre il coperchio su uno stomachevole secchio di immondizia fatta di veri e propri "crimini contro l'umanità" per la devastazione morale di giovani in via di formazione e sviluppo, siano la prova incontestabile della impossibilità per la CCR (Chiesa Cattolica Romana) di proclamarsi strumento divino, con l'autorità di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso su tutto quello che riguarda Dio e gli uomini, e di avere l'autorità di aprire e chiudere le porte del Regno dei Cieli. Non è così. Almeno nell'autocoscienza della CCR.
   L'Arcivescovo Carlo Maria Viganò termina la sua relazione su quell'immonda realtà fatta non soltanto di perversioni sessuali ma anche di complicità e silenzi, tra cui quello di Jorge Mario Bergoglio, detto Papa, con queste parole:
    «E nei momenti di grande prova che la grazia del Signore si rivela sovrabbondante e mette la sua misericordia senza limiti a disposizione di tutti; ma è concessa solo a chi è veramente pentito e propone sinceramente di emendarsi. Questo è il tempo opportuno per la Chiesa, per confessare i propri peccati, per convertirsi e fare penitenza. Preghiamo tutti per la Chiesa e per il Papa, ricordiamoci di quante volte ci ha chiesto di pregare per lui!
    Rinnoviamo tutti la fede nella Chiesa nostra madre: «Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica». Cristo non abbandonerà mai la sua Chiesa! L'ha generata nel suo sangue e la rianima continuamente con il suo Spirito! Maria, madre della Chiesa, prega per noi! Maria Vergine Regina' madre del Re della gloria, prega per noi!».
Secondo questa concezione, la CCR può uscire addirittura rafforzata da questi scandali, perché - penserà qualcuno - se Dio ha mantenuto in vita una simile istituzione religiosa per così tanto tempo, nonostante ci sia in essa così tanto letame, vuole dire che esiste un’elezione dipendente soltanto dalla scelta di Dio e non dalla maggiore o minore fedeltà degli uomini. La CCR avrebbe dunque una priorità per posizione, non per moralità. Ma questa è una caratteristica che Dio ha concesso storicamente soltanto al suo popolo Israele, e a nessun’altra istituzione storica.
   Si ha quindi un altro motivo per dire che la CCR si oppone strutturalmente, come istituzione, alla realtà di Israele. Biblicamente però si può essere certi che, per quanto riguarda istituzioni storiche, Israele rimarrà, la CCR no. Gli attuali scricchiolii che si sentono venire da quelle parti non sono doglie di parto ma segni premonitori di crollo.
   L’aspetto più grave della relazione di Viganò sta dunque nelle sue parole conclusive. Che sono false. Ed è proprio la falsità di quelle parole, l’uso improprio e menzognero del nome di Cristo, che apre le porte a tentazioni diaboliche a cui gli uomini non sono in grado di resistere.
   Inoltre è vero: la nefandezza dei costumi non ha mai scandalizzato le persone al punto da far cambiare posizioni che si ritengono sostenute da realtà superiori alle umane debolezze. La CCR potrebbe anzi diventare attraente per settori umani che fino ad ora si sono sentiti esclusi, come omosessuali e affini. Sta già accadendo. I tradizionalisti invece potrebbero veder confermata l’incrollabilità della CCR.
   Che poi l’immoralità dei chierici non sia decisiva per indurre le persone a smettere di dare credito alla CCR, è magistralmente espresso in forma ironica dal Boccaccio, che in una sua novella del Decamerone fa comparire un certo Abraam giudeo di Parigi che, pressato a convertirsi dal cristiano Giannotto di Civignì, decide di andare a Roma a vedere come stanno effettivamente le cose, e veduta la malvagità de' cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.


*


Il Decameron - Giornata Prima, Novella Seconda

di Giovanni Boccaccio

Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità de' cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.

Sì come io, graziose donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran rnercatante e buono uomo, il quale fu chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo e diritto e di gran traffico d'opera di drapperia; e avea singulare amistà con uno ricchissimo uomo giudeo, chiamato Abraam, il qual similmente mercatante era e diritto e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo Giannotto, gl'incominciò forte ad increscere che l'anima d'un così valente e savio e buono uomo per difetto di fede andasse a perdizione. E per ciò amichevolmente lo cominciò a pregare che egli lasciasse gli errori della fede giudaica e ritornasse alla verità cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come santa e buona, sempre prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al niente poteva discernere.
   Il giudeo rispondeva che niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella era nato e in quella intendeva e vivere e morire: né cosa sarebbe che mai da ciò il facesse rimuovere. Giannotto non stette per questo che egli, passati alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli, così grossamente come il più i mercatanti sanno fare, per quali ragioni la nostra era migliore che la giudaica. E come che il giudeo fosse nella giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l'amicizia grande che con Giannotto avea che il movesse, o forse parole le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell'uomo idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto; ma pure, ostinato in su la sua credenza, volger non si lasciava. Così come egli pertinace dimorava, così Giannotto di sollecitarlo non finiva giammai, tanto che il giudeo, da così continua instanzia vinto, disse:
   - Ecco, Giannotto, a te piace che io divenga cristiano, e io sono disposto a farlo, sì veramente che io voglio in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale tu dì che è vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi e i suoi costumi e similmente dei suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno tali che io possa tra per le tue parole e per quelli comprendere che la vostra fede sia migliore che la mia, come tu ti se' ingegnato di dimostrarmi, io farò quello che detto t'ho; ove così non fosse, io mi rimarrò giudeo come io mi sono.
   Quando Giannotto intese questo, fu in sé stesso oltremodo dolente, tacitamente dicendo:
   - Perduta ho la fatica, la quale ottimamente mi parea avere impiegata, credendomi costui aver convertito; per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scelerata e lorda de' cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma, se egli fosse cristiano fatto, senza fallo giudeo si ritornerebbe.
   E ad Abraam rivolto disse:
   - Deh, amico mio, perché vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa, come a te sarà d'andare di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, ad un ricco uomo come tu se', ci è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar qui chi il battesimo ti dea? E, se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che io ti dimostro, dove ha maggiori maestri e più savi uomini in quella, che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai o domanderai di chiarire? Per le quali cose al mio parere questa tua andata è di soperchio. Pensa che tali sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere e puoi, e tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al pastor principale. E perciò questa fatica, per mio consiglio, ti serberai in altra volta ad alcuno perdono, al quale io per avventura ti farò compagnia.
   A cui il giudeo rispose:
   - Io mi credo, Giannotto, che così sia come tu mi favelli, ma, recandoti le molte parole in una, io son del tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m'hai cotanto pregato) disposto ad andarvi, e altramenti mai non ne farò nulla.
   Giannotto, vedendo il voler suo, disse:
   - E tu va con buona ventura; - e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano, come la corte di Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette. Il giudeo montò a cavallo e, come più tosto potè, se n'andò in corte di Roma, là dove pervenuto da' suoi giudei fu onorevolmente ricevuto. E quivi dimorando, senza dire ad alcuno per che andato vi fosse, cautamente cominciò a riguardare alle maniere del papa e de' cardinali e degli altri prelati e di tutti i cortigiani; e tra che egli s'accorse, sì come uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato, egli trovò dal maggiore infino al minore generalmente tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora nella soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in tanto che la potenzia delle meretrici e de' garzoni in impetrare qualunque gran cosa non v'era di picciol potere. Oltre a questo, universalmente gulosi, bevitori, ebriachi e più al ventre serventi a guisa d'animali bruti, appresso alla lussuria, che ad altro, gli conobbe apertamente.
   E più avanti guardando, in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente l'uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero, o a' sacrifici o a' benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano, maggior mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di drappi o di alcun'altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia "procureria" posto nome, e alla gulosità "sustentazioni" quasi Iddio, lasciamo stare il significato de' vocaboli, ma la menzione de' pessimi animi non conoscesse, et a guisa degli uomini a' nomi delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali cose, insieme con molte altre le quali da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver veduto, propose di tornare a Parigi, e così fece. Al quale, come Giannotto seppe che venuto se n'era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se ne venne, e gran festa insieme si fecero; e, poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto il domandò quello che del santo padre e de' cardinali e degli altri cortigiani gli parea.
   Al quale il giudeo prestamente rispose:
   - Parmene male, che Iddio dea a quanti sono; e dicoti così che, se io ben seppi considerare, quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o esemplo di vita o d'altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve; ma lussuria, avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori (se piggiori essere possono in alcuno) mi vi parve in tanta grazia di tutti vedere, che io ho più tosto quella per una fucina di diaboliche operazioni che di divine. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore, e per consequente tutti gli altri, si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber di quella.
   E per ciò che io veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire, meritamente mi par discerner lo Spirito Santo esser d'essa, sì come di vera e di santa più che alcun'altra, fondamento e sostegno. Per la qual cosa, dove io rigido e duro stava a' tuoi conforti e non mi volea far cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian farmi. Andiamo adunque alla chiesa: e quivi, secondo il debito costume della vostra santa fede, mi fa battezzare.

(Notizie su Israele, 30 agosto 2018)




(da Facebook)


«Torinodanza filo israeliana». E' polemica

Volantini in centro

Manca poco all'inaugurazione del festival Torinodanza, al via il 10 settembre. E come ogni anno, puntuali, sui muri del centro città sono comparsi volantini contro Israele. Se nel 2016 a scatenare la protesta era stata la decisione di affidare l'apertura della rassegna alla Batsheva Dance Company, questa volta è bastata la presenza in cartellone di due spettacoli (su un totale di 18) di Sharon Eyal, coreografa proveniente dalla famosa compagnia israeliana.
   Il 29 e 30 settembre alle Fonderie Limone di Moncalieri andranno in scena «OCD Love» e «Love Chapter 2», appuntamenti inseriti nel programma del festival grazie al sostegno dell'ambasciata d'Israele in Italia.
   Ed è proprio questa collaborazione ad essere finita del mirino del collettivo studentesco torinese collegato alla rete internazionale Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), che di recente ha protestato anche contro il Giro d'Italia.
   «Ancora una volta Torinodanza è sponsorizzato dall'ufficio culturale dell'ambasciata israeliana in Italia, il cui logo che celebra i 70 anni di Israele compare in bella mostra», scrivono invitando a boicottare la rassegna. «In realtà - spiega la direttrice del festival, Anna Cremonini -, l'ambasciata dà solo un piccolo contributo, come fanno quasi tutti i Paesi che partecipano. Dal Canada alla Francia.
   È un'abitudine felice ed elegante delle rappresentanze culturali, oltre che un segno di interesse e adesione al progetto». La direttrice rivendica poi la scelta di ospitare Sharon Eyal: «Il livello di ricerca di questa giovane coreografa è molto interessante ed è giusto che trovi spazio in un festival internazionale come Torinodanza».

(Corriere Torino, 30 agosto 2018)


Iran, il suo uomo a Tel Aviv era il ministro dell'Energia

Gonen Segev fra il 1995 e il 1996 è stato ministro dell'Energia di Israele. Ora è accusato di essere una spia al servizio dell'Iran. Di solito accadeva il contrario. Alavi, capo degli 007 di Teheran: "Avevamo agganciato il membro di un governo potente".

di Fabio Scuto

Gonen Segev
GERUSALEMME - E' in una cella senza nome, non ha nemmeno un codice identificativo, ma il detenuto "X" del carcere di massima sicurezza nelle vicinanze di Gerusalemme, è su tutte le prime pagine dei giornali israeliani. Il carcerato misterioso si chiama Gonen Segev ed è un ex ministro, arrestato alla fine del suo mandato per traffico internazionale di stupefacenti; falsificò il suo passaporto diplomatico israeliano allungandone la durata per evitare i controlli all'aeroporto di Amsterdam.
   Pagato il suo debito con la giustizia anche per frodi finanziarie, Segev lasciò Israele nel 2007 e dal 2012 viveva in Nigeria, dove gestiva una clinica piuttosto frequentata.
   Finito nelle mani del Mossaci nel maggio di quest'anno nella Guinea Equatoriale, Segev è accusato di aver passato segreti al peggior nemico di Israele: l'Iran degli ayatollah. E ieri il capo dell'Intelligence iraniana, in una rara dichiarazione pubblica, senza mai farne il nome, ha fatto capire che Gonen era stato "arruolato" dalla Vevak, il servizio segreto di Teheran. Nelle udienze che si sono svolte dal 5 luglio presso la Corte Penale di Gerusalemme- davanti a tre giudici, a porte chiuse e sottoposte a censura per motivi di sicurezza - Gonen Segev stando alle indiscrezioni fatte trapelare, ha cercato di vendere la sua verità: avrebbe contattato gli iraniani, ma solo per fingersi un traditore e ottenere informazioni da girare poi al suo Paese . Un modo per riscattare il suo passato. Deputato nel 1992, ministro dell'Energia nel 1995, dopo aver lasciato la politica nel 1996 è scivolato via via in un mondo di ombre e loschi traffici.Nel 2002 cercò di vendere sistemi d'arma ai guerriglieri dello Sri Lanka, nel 2003 con la complicità della moglie tentò una truffa alla sua banca, nel 2004 cercò di contrabbandare 6 kg di ecstasy (32.000pasticche) dall'Olanda. Pizzicato dalla sicurezza dell'aeroporto Ben Gurion, finì in carcere e perse la licenza di medico per indegnità.
   Scontata la pena lasciò Israele e nel 2012 si stabilì ad Abuja, in Nigeria. Gli investigatori israeliani sono convinti che il Paese non sia stato scelto a caso, in Nigeria la presenza diplomatica iraniana è piuttosto numerosa. Lo Shin Bet ha le prove dei suoi contatti con l'ambasciata iraniana in Nigeria e di due viaggi a Teheran per incontrare i suoi "gestori", ai quali avrebbe passato "dozzine di rapporti". Secondo l'accusa avrebbe fornito informazioni acquisite quando era ministro dell'Energia e avrebbe aiutato a localizzare basi e istituzioni chiave nel sistema di difesa israeliano, oltre a fornire i nomi di diversi funzionari dell'intelligence. Segev, attraverso i suoi avvocati, nega di aver lavorato contro gli interessi di Israele.
   Lo scorso maggio l'ex ministro ha avuto la percezione che qualcosa intorno a lui si stava muovendo, che la sua clinica di Abuja era sotto controllo. Prese poche cose e molto denaro contante, Segev ha cercato di entrare in Guinea Equatoriale nel maggio 2018, dove è stato trattenuto a causa del suo passato criminale e consegnato agli uomini della sicurezza israeliana che lo attendevano sul posto.
   Martedì in una rara dichiarazione pubblica il potente ministro dell'Intelligence iraniana, Mahmoud Alavi, ha confermato, dopo precedenti smentite, che un ex ministro israeliano arrestato quest'anno e accusato di spionaggio per l'Iran era in realtà un agente di Teheran. "Di recente avete sentito che abbiamo agganciato un membro di un gabinetto di un potente paese", ha detto Alavi alla tv iraniana. Anche se non ha specificato a quale paese si riferiva, siti di news iraniani e molti commentatori l'hanno considerata come una prima ammissione dei rapporti con Segev. Il ministro Alavi ha anche annunciato che l'Iran ha arrestato dozzine di spie, senza però specificare quando siano avvenuti gli arresti né la nazionalità dei detenuti. Alavi ha anche rivelato altri dettagli sulla lotta all'Isis, responsabile di diversi attacchi, come quelli al Parlamento e al Mausoleo dell'ayatollah Khomeini a Teheran nel giugno dell'anno scorso: 230 "cellule terroristiche" smantellate, 180 i sospetti arrestati, e 130 le indagini ancora aperte. La guerra delle ombre continua.

(il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2018)


Il trabocchetto siriano. Come Siria, Iran e Russia hanno imbrigliato Israele

L'accordo di cooperazione militare tra Siria e Iran, raggiunto con la benedizione di Putin, non mette in sicurezza il territorio siriano, mette in sicurezza solo le mire iraniane e russe sulla Siria. E non sono mire pacifiche

Ora c'è l'ufficialità, l'Iran rimarrà in Siria molto a lungo. Ufficialmente per aiutare Damasco nella ricostruzione e per garantire la sicurezza, in realtà per garantire a Teheran il mantenimento del cosiddetto "corridoio sciita" e per fare in modo che l'Iran e i suoi alleati di Hezbollah possano preparare in tutta calma il loro attacco a Israele.
L'accordo firmato ieri dal ministro della difesa iraniano, Amir Hatami, e dal suo omologo siriano, Ali Abdullah Ayoub, viene definito "dettagliato e circostanziato" e punta a mettere in sicurezza la presenza iraniana e dei suoi alleati in Siria dagli attacchi preventivi israeliani, almeno sotto l'aspetto legale e del Diritto Internazionale....

(Rights Reporters, 29 agosto 2018)


La manomissione della sicurezza di Gaza

Hamas è ancora oggi l'entità più pericolosa per la Palestina, più pericolosa della macchina distruttiva israeliana.

di Jibril al-Abidi*, “Sharq al-Awsat” (11/08/2018).

Nessuno ignora il fatto che Israele cerchi sempre una scusa per opprimere i palestinesi attraverso i bombardamenti utilizzati come addestramento per i suoi soldati, ma tutta questa ingiustizia è dovuta anche alla manomissione di Hamas, l'ala militare dei Fratelli Musulmani.
   In passato Gaza godeva di un aeroporto internazionale che la collegava al resto del mondo, un porto per la navigazione e la pesca. A Gaza i palestinesi erano abili pescatori! Ma dal giorno del Colpo di Stato e da quando Hamas ha il controllo sulla Striscia di Gaza, la zona soffre di una cattiva gestione dell'elettricità e dell'acqua ed è rimasta fuori dal mondo, senza collegamenti aerei e marittimi; le assurde politiche di Hamas non hanno favorito alcun equilibrio politico, hanno aumentato i raid aerei israeliani che distruggono tutta la Striscia e rendono la vita un vero inferno. Non è un segreto che l'ex regime libico abbia usato Hamas per i propri scopi, poiché l'organizzazione palestinese è andata oltre confini, fino a Bengasi, dove le trappole esplosive causano la morte di tanti libici; ma Hamas continua a essere ancora oggi l'entità più pericolosa per la stessa Palestina, più pericolosa della macchina distruttiva israeliana che uccide civili innocenti sia a Gaza che in Cisgiordania. Dalla sua fondazione nel 1987, Hamas è stato in conflitto non solo con gli israeliani ma anche con il resto delle fazioni di resistenza palestinesi, rendendolo un movimento malvagio all'interno del consenso palestinese. Hamas, che sostiene di portare avanti un progetto di resistenza, si vede in contrasto con Fatah, che prende in considerazione un progetto di negoziato pacifico, mentre Hamas fa il "doppio gioco", un movimento di guerra durante la pace e un movimento di pace durante la guerra.
   Hamas ha ostacolato molti progetti per risolvere la crisi palestinese, tra cui l'iniziativa del re Abdullah bin Abdul Aziz nel 2002, che mirava a stabilire uno stato palestinese riconosciuto a livello internazionale sui confini del 1967 e il ritorno dei profughi e il ritiro dalle alture del Golan. In questa assurdità, il movimento di Hamas rimane un progetto distruttivo per qualsiasi consenso palestinese o addirittura arabo per risolvere la questione palestinese. È l'innocente popolo palestinese che sta pagando il prezzo come risultato di questa continua manomissione.

* Jibril al-Abidi è uno scrittore e ricercatore libico.
.
(Arab Press, 29 agosto 2018 - Traduzione e sintesi di Sabrina Campoli)


Nasrallah prenda nota: "Si è visto che ragnatela!"

Secondo il capo di Hezbollah, Israele sarebbe sull'orlo del collasso, un paese con i cittadini molli, grassi e codardi

Siamo a fine agosto, anche in Israele una stagione caratterizzata da scarse notizie dalla vita politica. Quest'anno, poi, la stagione di stanca rischia di essere presto seguita dalla "stagione scriteriata": il periodo prossimo al momento in cui vengono indette nuove elezioni, quando i mass-media vengono inondati da coloro che cercano di rimpiazzare il governo in carica dicendo che tutto va malissimo. Diranno che Israele sta andando a pezzi, che va verso la teocrazia, che sta diventando fascista, un fiasco completo sul piano economico e totalmente isolato su quello diplomatico, e che il cittadino israeliano medio non vede l'ora di andarsene. I rappresentanti governativi, naturalmente, replicheranno che le cose non sono mai andate così bene. È la stagione delle esagerazioni, quando il paese di cui sentiamo parlare sui mass-media somiglia ben poco a quello in cui vive la maggior parte di noi. E in mezzo a tutto quel vociare, è importante saper distinguere tra realtà e smodate esagerazioni....

(israele.net, 29 agosto 2018)


Ecco i nuovi missili di Israele: colpiranno tutto il Medio Oriente

di Lorenzo Vita

Israele continua a rafforzare il suo arsenale in vista di una possibile escalation con i suoi avversari in Medio Oriente. E lo fa attraverso un accordo del ministero della Difesa e Israel Military Industries che ha dato il via all'acquisizione di nuovi missili per centinaia di milioni di scicli che, a detta del ministro Avigdor Lieberman, "consentiranno alle Idf (Israel defense forces ndr) di coprire qualsiasi parte della regione entro pochi anni".
  L'obiettivo del governo di Benjamin Netanyahu è quindi chiaro: nessun luogo del Medio Oriente potrà sentirsi al sicuro dall'area di azione dei missili israeliani. Ed è un monito che vale non solo per l'Iran ma per tutti gli attori coinvolti nell'area.

 Cosa prevede l'accordo
  Il contratto siglato fra il ministero della Difesa e il gigante israeliano delle armi prevede l'acquisizione di missili ad alta precisione di diversi tipi, alcuni classificati e quindi inaccessibili alla stampa, che avranno un raggio d'azione fra i 30 e i 150 chilometri.
  Questo limite sembra contraddire quanto detto da Lieberman sulle capacità di raggiungere qualsiasi obiettivo in Medio Oriente, ma il fatto che esista una parte classificata lascia pensare che non sia da considerare totalmente esaustivo. O che probabilmente si prevede, nel medio termine, un aumento del raggio d'azione.
  Tra i missili che le Idf stanno acquistando dall'Imi c'è inoltre una versione migliorata del sistema di razzi d'artiglieria Accular. Come spiega Ynet, "il sistema può lanciare 18 missili di precisione nel territorio nemico in un minuto. È un sistema efficace, facile da usare, accessibile ed economico, ed è stato messo a disposizione dei comandanti di brigata e battaglione. Può essere utilizzato per colpire individui, strutture e infrastrutture e può colpire più obiettivi contemporaneamente".

 Israele rafforza l'arsenale balistico
  Da tempo la Difesa israeliana ha deciso di investire sui missili. Fa parte di una politica strategica molto chiara che ha condotto, nel febbraio di quest'anno, a creare anche una nuova unità di artiglieria per missili terra-terra con una portata fino a 300 chilometri. In quell'occasione, Lieberman approvò un budget iniziale di mezzo miliardo di dollari. Una cifra che fa comprendere gli investimenti senza precedenti del governo israeliano nella Difesa e soprattutto nel programma missilistico.
  Già in quest'occasione, si parlo di un programma di ammodernamento dell'arsenale missilistico partendo dal corto e medio raggio per poi proseguire verso lo sviluppo di nuovi missili a lungo raggio. E i media israeliani parlarono anche in quel caso di Israel industrial military come azienda incaricata.

 Un messaggio rivolto a Hamas e Hezbollah
  Il fatto che Israele renda noto questo accordo in questa fase di tensione in Medio Oriente, non è una causalità. Netanyahu, insieme all'amministrazione di Donald Trump, ha avviato una politica di enorme pressione sull'Iran e sui suoi alleati regionali, a partire da Hezbollah e dal governo siriano. Israele si è posto come obiettivo quello di colpire la strategia regionale iraniana. Ed è disposto a tutto: anche alla guerra. E lo si è visto con i raid in Siria dove l'aviazione dello Stato ebraico ha colpito semplicemente perché si è dichiarata minacciata dalla presenza di truppe legate a Teheran.
  Non va dimenticato poi che proprio nei giorni scorsi, l'Iran ha testato un nuovo missile. I Guardiani della Rivoluzione hanno lanciato dalla base di Bandar-e-Jask un missile Fateh-110 Mod 3 che si è inabissato nel Golfo Persico dopo un volo di circa 100 miglia. Si è trattato di un missile anti-nave, ma fa parte di una strategia di messaggi che si mandano tra avversari.
  In questo scontro, vanno poi inseriti due nemici israeliani molto più prossimi e che si legano fra loro ormai in maniera quasi inscindibile, come dimostrato dalle stesse esercitazioni delle Idf: Hamas e Hezbollah. I due gruppi, che rappresentano i nemici di Israele nel fronte sud e fronte nord, rientrano perfettamente nel raggio d'azione dei nuovi missili. Ed è significativo che la Difesa israeliana abbia rafforzato proprio questo settore. Molti ritengono che Israele sia pronto a una nuova guerra per colpire in maniera definitiva sia l'organizzazione che controlla Gaza sia il Partito di Dio in Libano. E questi segnali non inducono all'ottimismo.

(Gli occhi della guerra, 29 agosto 2018)


Soltanto Bontempelli disse no

Su 896 docenti universitari, fu l'unico a rifiutare la cattedra di un ebreo espulso. Nel dopoguerra venne estromesso dal Senato a causa di un'antologia per le scuole medie inneggiante al Duce.

di Gian Antonio Stella

Massimo Bontempelli
E solo Massimo Bontempelli disse no. Ottant'anni dopo, a rileggere la storia infame dei «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» firmati dal re Vittorio Emanuele III nella tenuta di San Rossore il 5 settembre 1938 («la data della vergogna per la cultura italiana», ha scritto lo storico Giovanni Belardelli) spicca il silenzio assordante degli 895 docenti universitari su 896 che dissero sì. E accettarono servili e contenti (quando non sgomitarono per contendersi il bottino) quelle cattedre regalate loro grazie alla espulsione dei professori ebrei.
   Una pagina nera. Diventata nerissima quando, a guerra finita, i docenti espulsi, costretti all'esilio o scampati ai campi di sterminio, chiesero di riavere il loro posto. E si trovarono davanti a una montagna tale di ostacoli burocratici, accademici e politici (dice tutto il titolo del decreto del 27 maggio 1946: «Riassunzione in ruolo di professori universitari già dispensati (sic!) per motivi politici e razziali») che molti preferirono nauseati lasciar perdere, altri rimasero là dove si erano rifugiati e qualcuno si uccise per il doppio rifiuto. Come il biologo Tullio Terni, che si tolse la vita con una fiala di cianuro il 25 aprile 1946, primo anniversario della Liberazione. Alla vigilia di quel decreto firmato dal diccì Guido Gonella che, scrivono Francesca Pelini e Ilaria Pavan nel libro La doppia epurazione (il Mulino, 2009), non voleva «turbare gli equilibri dati al momento della fine del conflitto».
   Equilibri che chi aveva approfittato della «manna» (così la chiamò Ernesto Rossi) dell'espulsione di tutti quei docenti e di altri 727 studiosi ebrei buttati fuori dalle accademie e dalle istituzioni culturali, ringhiosamente difese, rivolgendosi perfino alla magistratura neo-democratica per non restituire il posto arraffato grazie alle leggi fasciste. Una vergogna tale, ricorderà Giorgio Israel ne Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime (il Mulino, 2010 ), che dopo decenni era «assai facile trovarsi di fronte a reazioni virulente per aver soltanto osato ricordare i trascorsi razzisti di alcuni maestri di cui ancora oggi gli allievi, o gli allievi degli allievi, coltivavano un'adorazione intatta!».
   Basti ricordare, come fece anni fa sul «Corriere della Sera» Paolo Mieli, il matematico Mauro Picone, che in una lettera del 1939 scriveva: «Urge che gli scienziati di razza ariana collaborino il più attivamente possibile per mostrare come la scienza possa egualmente progredire anche senza l'intervento giudaico» e solo sette anni dopo, ricordando il matematico Guido Fubini morto esule nel 1943 a New York, «ebbe la sfrontatezza di scagliarsi contro "gli stolti, infami provvedimenti razziali", da lui a suo tempo applauditi e ora definiti "eterna vergogna"».
   «La reintegrazione dei docenti ebrei», ha scritto Pierluigi Battista ricordando l'esempio pisano, «fu registrata con estrema freddezza dalle autorità accademiche che affrontarono la questione con il distaccato stile burocratico di chi doveva risolvere una complicata e molesta incombenza». Una vergogna rimasta a lungo velata, fino ai libri di denuncia come L'università italiana e le leggi antiebraiche di Roberto Pinzi (Editori Riuniti, 1997) e altri ancora.
   Ecco, in questo impasto di orrori, furbizie, omertà, complicità e ipocrisie che infettarono l'università italiana a cavallo tra il «prima» e il «dopo» le leggi razziali, la guerra perduta e la lotta di Liberazione, Massimo Bontempelli pagò dazio due volte. Prima perché marchiato dai fascisti come «idiota e carogna», poi perché bollato dagli «antifascisti» ( compresi certi convertiti dell'ultima ora) come un «voltagabbana» dal passato destrorso.
   Nato a Como nel 1878, studente anarchico («fui orgoglioso di portare qua e là pacchi di manifesti sovversivi»), laurea in Filosofia con una tesi sul libero arbitrio e in Lettere con una sull'endecasillabo, docente, poeta, interventista, corrispondente di guerra, collaboratore del Fascio politico futurista di Filippo Tommaso Marinetti, tessera del Partito fascista fatta insieme col suo amico Luigi Pirandello (dirà: «Mai fatto vita di partito; anzi fino al 1948 non ero mai stato iscritto ad alcuno: il fascista non conta, non era un partito, era un'anagrafe»), cominciò a staccarsi dal regime nel 1936, dopo la guerra d'Abissinia. La prova? «Molti episodi documentatissimi», scriveranno anni dopo vari intellettuali (dal critico Luigi Baldacci al poeta Eugenio Montale, dal musicista Goffredo Petrassi al pittore Renato Guttuso) indignati per una feroce critica a Bontempelli di Mario Picchi, che sull'«Espresso» aveva scritto d'una «miserabile coscienza morale» per poi rincarare: «Artista piccolino, fascista grandicello».
   «Bontempelli è stato vittima d'un trattamento disonesto e di un abuso», scriverà Carlo Bo. «Eppure nei famosi vent'anni del periodo fra le due guerre è stato uno degli spiriti più vivi e attenti ai moti della società italiana».
   Certo è che diede prova d'aver la schiena dritta almeno in due momenti chiave. Il primo, dicevamo, quando fu l'unico (unico!) docente a rifiutare il dono di una cattedra «per chiara fama» rapinata a un ebreo, nel suo caso il grande Attilio Momigliano. Il secondo quando, nel novembre di quel 1938, ricordò Gabriele d'Annunzio, davanti ai gerarchi convenuti a Pescara, denunciando «il nuovo costume intonato al feticismo della violenza». Denuncia che gli costò non solo gli insulti di Achille Starace («Ho tolto la tessera all'accademico Bontempelli perché più idiota e carogna di così si muore»), ma l'ostracismo totale: vietata la ristampa dei suoi libri, vietato chiedergli conferenze ... Più l'imposizione del domicilio coatto: Venezia. Ma solo per sopire lo scandalo. «Fu il periodo più bello della sua vita», scriverà Bo nel suo ricordo dopo la morte, definendolo «un prosatore stupendo» e «il più libero e nello stesso tempo più depurato del secolo». «Nel palazzo sul Canal Grande che lo ospitava diventò per la parte più responsabile della cultura italiana un riferimento, un piccolo faro d'ìndipendenza». Cosa che non gli bastò, anni dopo, a evitare l'umiliazione più grande della sua vita.
   Scampato dopo 1'8 settembre 1943 alla condanna a morte decretata contro di lui dai nazisti per un libro del 1919 contro la Germania, sopravvissuto alla guerra, candidato a Siena col Fronte delle sinistre alle elezioni del 1948, Massimo Bontempelli fu eletto al Senato, ma subito trascinato davanti alla Giunta per le elezioni. Gli rinfacciarono d'aver firmato nel 1935 un pezzo intitolato Milizia santa su un'antologia (Oggi) di letture per le scuole medie contenente, come tutti i libri dell'epoca, parole d'esaltazione per il regime e il Duce. Antologia, tra l'altro, che lo scrittore aveva delegato, secondo il critico Franco Petroni, «a un perseguitato dal fascismo, che aveva bisogno di fare un po' di soldi e non poteva firmare col proprio nome».
   Un peccato secondario, rispetto a quelli dei tanti razzisti riciclati come il fisiologo Sabato Visco, che era stato «capo dell'ufficio per gli studi e la propaganda sulla razza del Minculpop», o il giurista Gaetano Azzariti, già a capo del Tribunale della razza (e destinato perfino alla presidenza della Corte costituzionale), o l'ex segretario di redazione della «Difesa della razza» Giorgio Almirante (eletto in quella stessa tornata) e altri ancora.
   Eppure fu lui, che Bo definiva «tutto fuor che uno scrittore impegnato e questo perché la sua fantasia non accettava nessun legame con la realtà», ad essere buttato fuori dal Senato come fascista. Il solo che, dopo quelle leggi infami sull'università, aveva avuto il fegato e la dignità di dire no.


LEGGI RAZZIALI

A partire dal settembre 1938, dopo il «Manifesto della razza» pubblicato nel luglio precedente, il regime fascista adottò una serie di provvedimenti antisemiti passati alla storia nel loro complesso come leggi razziali. Furono vietati i matrimoni tra ebrei e «ariani», fu epurato tutto il pubblico impiego, compresi gli enti parastatali. Gli studenti e i docenti ebrei vennero esclusi dalle scuole e dalle università e lo stesso avvenne nelle banche e nelle assicurazìoni. Furono interdetti agli israeliti il servizio militare e i ruoli professionali di notaio e giornalista. Fu vietato loro di essere proprietari di beni immobili al di sopra di un certo valore e di prendere a servizio personale domestico non ebraico. Gli ebrei di nazionalità straniera vennero espulsi dall'Italia.


(Corriere della Sera, 29 agosto 2018)


Wannsee 1942 e quella conferenza contro l'umano

«Verso la soluzione finale», un saggio per Einaudi di Peter Longerich, docente di storia tedesca a Londra.

di Claudio Vercelli

Della conferenza di Wannsee, tenutasi nella Berlino nazista il 20 gennaio 1942, in piena guerra, quei pochi che la conoscono spesso ritengono di sapere tutto quello che occorre conoscere di essa, mentre gli altri ne ignorano integralmente la sua stessa esistenza. Va quindi subito detto in cosa consistette, almeno sul piano formale. Poiché la sua comprensione ci restituisce il quadro all'interno del quale andò definitivamente maturando la politica del genocidio razzista. La materiale disponibilità di una copia del verbale della conferenza, redatto a caldo da Adolf Eichmann e conservatosi fino alla sua scoperta, nel 1947, rappresenta un'eccezione rispetto al calcolato oblio con il quale altri eventi di similare portata furono letteralmente resettati dalle memorie dei protagonisti nonché cancellati dal repertorio documentario. Fu infatti un simposio ristretto, aperto a una quindicina di alti funzionari e dignitari delle amministrazioni del Terzo Reich accomunate dall'essere coinvolte nell'identificazione di contenuti, pratiche e modalità della «soluzione finale della questione ebraica».
   Tre erano i gruppi di partecipanti: gli esponenti degli organi statali, che garantivano la «legalità amministrativa» della scelta di assassinare undici milioni di potenziali vittime; i delegati delle autorità civili di occupazione, che dovevano gestire i luoghi in cui il crimine di massa si sarebbe consumato; i funzionari delle SS, in rappresentanza dei loro uffici centrali o di quelli distaccati nelle zone invase, ai quali era richiesta la competenza tecnica e l'azione concreta. La divisione dei ruoli non era per nulla armoniosa, scontando una vera e propria competizione tra gruppi corporativi. In questo campo di tensioni, spicca la figura di Reinhardt Heydrich, capo della polizia di sicurezza, officiante della seduta e vero architetto della «sostenibilità» dell'omicidio di massa. Durante i brevi lavori della conferenza non si decise il merito del genocidio degli ebrei. Gli esponenti ministeriali, figure altolocate nella piramide burocratica ma non al supremo vertice politico, non ne avevano i titoli, le attribuzioni e men che meno la delega. Né si pervenne alla definitiva identificazione del «come» procedere alla distruzione dell'ebraismo europeo. I fatti si erano già incaricati di dimostrare che nessuna procedura unitaria era fattibile se non ci si fosse costantemente confrontati con i continui mutamenti di scenario: esigenze belliche della Germania, disponibilità di mezzi di trasporto, competizioni tra amministrazioni naziste, conflitti di ruoli tra decisori ai massimi vertici istituzionali ma - soprattutto - l'oracolare «volere del Führer», che gli astanti erano chiamati a interpretare e tradurre in fatti concreti. SEMMAI Si trattò di un evento all'insegna di un duplice movente: la corresponsabilizzazione per compromissione delle amministrazioni partecipanti e la delimitazione reciproca delle loro sfere di influenza.
   Più che parlarci esclusivamente della volontà omicida del nazismo la conferenza di Wannsee ci restituisce quindi lo spaccato di un regime al medesimo tempo dittatoriale e policratico, dove la promozione e il perseguimento di obiettivi sempre più enfatici, estranei alla stessa condotta bellica, diventava il punto di raccordo e di sintesi tra l'ampissima articolazione di poteri e sottopoteri che costituivano lo Stato hitleriano. Peter Longerich nel suo ultimo lavoro dedicato a Verso la soluzione finale. La conferenza di Wannsee (Einaudi, pp. 208, euro 26), pondera i fattori di quadro, restituendo al lettore il senso della complessità che stava alla base della definitiva trasformazione della Germania in una società omicida.
   L'autore, docente di storia tedesca presso l'Università di Londra, e fondatore del Royal Holloway's Holocaust Researeh Centre, in Italia è già conosciuto per un'ampia biografia dedicata a Joseph Goebbels, interamente costruita sui diari del ministro della propaganda. In questo nuovo libro si sforza di dare conto dei soggetti interessati, dei passaggi così come della mediazioni che compongono il processo decisionale che portò allo sterminio degli ebrei d'Europa.
   L'intelaiatura e le procedure che legittimarono un tale esito, infatti, demandano perlopiù a eventi, gesti, affermazioni consegnati alla parola non scritta. Il doppio binario di un percorso che da una parte si poggiava sulle strutture dello Stato legale e, dall'altra, si rifaceva alla condizione di eccezione, ha reso difficile, spesso imprevedibile, non la comprensione dei risultati, ossia lo sterminio medesimo, bensì l'identificazione dei transiti intermedi, sottoposti ad un sistematico occultamento. Sono in realtà questi ultimi, invece, che ci restituiscono l'ampia compromissione di una pluralità di burocrazie nella realizzazione di un crimine ineguagliabile. Del pari, analizzando come fa Longerich documenti e fonti disponibili, delle quali il verbale della conferenza era solo un pur importante tassello, diventa molto più comprensibile il reticolo di apparati che, prima ancora di impegnarsi nella prassi omicida, fecero sì che essa potesse concretamente assumere una plausibilità pseudo-morale, per poi trasfondersi in azioni tanto concrete quanto continuative. Anche da ciò deriva al lettore la netta percezione della natura «moderna» dello sterminio, in quanto crimine burocratico, esercitato in una logica di totale anestetizzazione etica, dove i paradigmi dell'efficacia e dell'efficienza si sostituiscono a ciò che resta di una residua coscienza umana.

(il manifesto, 29 agosto 2018)


Giusto tra le Nazioni, chi era Carlo Angela

 
Carlo Angela
C'è un giorno in cui la vita, sia essa pubblica o privata, è segnata da uno spartiacque. Quel giorno per Carlo Angela è il 25 aprile 2002, quando il suo nome compare sulla stele d'onore del Giardino dei Giusti, nel Museo Yad Vashem dell'Olocausto di Gerusalemme.
Fino a quel momento, Carlo è noto per essere il padre di Piero Angela, il noto giornalista che ha portato la scienza nelle case degli italiani, lasciando poi il testimone al figlio Alberto.
Carlo Angela si laurea in medicina all'Università di Torino vicino a Olcenengo, quella provincia di Vercelli, che gli diede i natali nel 1875. Poco dopo si trasferisce a Parigi dove frequenta corsi di neuropsichiatria.
Uomo di spicco della Massoneria italiana, Carlo si avvicina alla politica prima delle elezioni del 1924 senza riuscire a entrare in Parlamento. Da quella candidatura in poi, la sua vita incrocia volutamente la politica solo dopo la Liberazione, quando diventa sindaco di San Maurizio Canavese, vicino Torino.
Ed è proprio nel piccolo comune piemontese, che Carlo Angela "incontra" le sorti del popolo ebraico quando è medico presso una casa di cura per malattie mentali, in cui falsifica esami e cartelle cliniche per proteggere numerosi ebrei e antifascisti facendoli passare per malati, salvandoli dall'inferno dei lager nazisti.
Quegli insoliti movimenti nella clinica, però, attraggono su di sé le attenzioni del regime, la cui polizia compie una rappresaglia l'11 febbraio 1944, facendo rischiare la fucilazione a Carlo Angela.
Carlo Angela ha compiuto un gesto umano e solidale lontano dal clamore. La sua figura è entrata a far parte dei Giusti per aver atteso i tre elementi richiesti: aver salvato ebrei, rischiando per la propria vita e senza aver ricevuto alcuna ricompensa.
Carlo Angela muore a Torino nel 1949, grazie a lui sono sopravvissuti molti ebrei.

(Progetto Dreyfus, 29 agosto 2018)


Tel Aviv rende omaggio a ventitré "Italkim"

Ventitré biografie di italiani e tra questi ben sei insignite con il massimo riconoscimento del paese.

TEL AVIV - Ventitré biografie di italiani e tra questi ben 6 insignite con il massimo riconoscimento del paese, il 'Premio Israel'. A tutti loro, gli 'Italkim' che negli anni '20 e '30 fecero l'aliyà (l'immigrazione) in quella che allora era la Palestina sotto Mandato inglese, è dedicata la mostra che si apre il domani al Museo di Arte Ebraica Italiana U. Nahon di Gerusalemme. Un omaggio - ha detto il presidente dell'istituzione Jack Arbib - a chi ha contribuito con la sua opera alla costruzione dello Stato di Israele di cui nel 2018 si festeggiano i 70 anni della nascita. Una aliyà «di grande qualità» - ha aggiunto - che per scelta, o per costrizione imposta dall'antisemitismo razzista allora crescente in Italia, portò «ragazzi e ragazze provenienti da famiglie borghesi agiate a diventare pionieri in un paese che poco conoscevano ma che amavano profondamente».
   Le storie dei 23 Italkim sono diventate così il filo conduttore per raccontare «il loro apporto culturale, accademico e scientifico alla costruzione dello Stato sionista». Tra i 6 insigniti del Premio Israel ci sono uomini e donne che hanno aperto la via in molti campi del futuro stato: dal giurista Guido (Gad) Tedeschi, all'agronomo Yoel De Malach (Giulio De Angelis), al fisico Giulio Racah, al demografo Roberto
   Bachi, al linguista Gad Tzarfati, ad Ada Sereni grande capo in Italia dell'emigrazione clandestina in Israele. Senza dimenticare lo psicologo Enzo Bonaventura ed Enzo Sereni, marito di Ada, tra i fondatori del kibbutz 'Givat Brenner', ucciso nel campo di concentramento di Dachau.

(Il Piccolo, 27 agosto 2018)


La verità sulle carceri israeliane secondo Ahed Tamimi

La giovane provocatrice palestinese smentisce la sua stessa propaganda (e si schiera con Hezbollah attirandosi impietose critiche dagli arabi sunniti).

La routine quotidiana nel penitenziario israeliano è fatta di canti, balli, letture, tv e studi per gli esami di maturità. E' quanto ha affermato in un'intervista all'emittente russa RT TV Ahed Tamimi, la giovane palestinese che ha scontato otto mesi di detenzione per la sua esplicita istigazione al terrorismo diffusa su video e le aggressioni, reiterate per anni, a calci pugni insulti e sputi contro soldati israeliani, sempre calcolatamente inscenate davanti alle telecamere (senza peraltro essere mai riuscita a suscitare la desiderata reazione violenta, da filmare e diffondere). Le sue parole costituiscono una clamorosa smentita delle menzogne della propaganda anti-israeliana sulle carceri israeliane....

(israele.net, 28 agosto 2018)


L'Europa non bada a spese per favorire i nemici di Israele

Bruxelles si preoccupa di rafforzare l'Iran colpito dalle sanzioni americane e apre il portafogli al regime degli ayatollah.

di Maurizio Stefanini

«Un grave errore» e «una pillola avvelenata», è stata definita dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la decisione dell'Unione Europea di stanziare 18 milioni di euro a favore di un Iran che insiste nella sua volontà di distruggere Israele. Ma non solo l'Ue va avanti: addirittura amplia il pacchetto. I 18 milioni di aiuti in «cooperazione economica, ambientale e sociale con l'Iran» decisi dalla Commissione Europea per garantire il suo impegno «al rispetto dell'accordo sul nucleare con Teheran» sono infatti compresi nell'ambito di un più ampio pacchetto di misure da 50 milioni complessivi che «mirano a offrire sostegno al Paese nell'affrontare le sfide economiche e sociali che lo attanagliano».
  Nel dettaglio, 8 milioni di euro andranno alle piccole e medie imprese: «più lo sviluppo di specifiche catene di valore e assistenza tecnica all'Organizzazione per la promozione del commercio iraniana». Altri otto milioni saranno invece erogati per fornire supporto tecnico nel settore ambientale, mentre i restanti due andranno per la riduzione dei danni provocati dall'uso delle droghe. I progetti verranno attuati dalle agenzie degli stati membri, dall'International Trade Centre e altre organizzazioni, in stretta cooperazione con le controparti iraniane.

 Mogherini
  «Con il rinnovamento delle relazioni Ue-Iran in seguito all'accordo sul nucleare, si è sviluppata una cooperazione in molti settori, e siamo impegnati a sostenerla», ha dichiarato l'Alto Rappresentante dell'Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini. «L'Ue dimostra il suo sostegno al popolo iraniano e al suo sviluppo pacifico e sostenibile», ha aggiunto il commissario Ue allo sviluppo Neven Mimica.
  «L'Iran ha tentato di condurre un attacco terroristico sul suolo europeo poche settimane fa. È incredibile», ha commentato Netanyahu durante la sua visita nella capitale lituana Vilnius, dove ha visto tutti e tre i primi ministri baltici: il lituano Saulius Skvernelis, l'estone Juri Ratas e il lettone Maris Kucinskis. Il riferimento era al tentato attacco contro una manifestazione dell'opposizione iraniana in Francia alle fine di giugno. Lo Stato ebraico è preoccupato che gli sviluppi della crisi siriana possano portargli i Pasdaran alle porte di casa, e da vari mesi Servizi e Forze Armate israeliane stanno combattendo con gli iraniani nella stessa Siria senza esclusione di colpi. Anche a questa preoccupazione è legato l'irrigidimento di Trump. Secondo il primo ministro israeliano, è un siluro agli «sforzi per frenare l' aggressione iraniana nella regione e oltre la regione». Proprio un comunicato dell'opposizione iraniana in esilio ha ricordato che «molte multinazionali si sono già ritirate dagli affari con l'Iran perché la scelta è o l'Iran o gli Stati Uniti. Non molti sceglierebbero di fare affari con l'Iran invece che con una delle più grosse potenze del mondo». Il riferimento è a quell'esodo di imprese europee dall'Iran che è iniziato con la francese Total, malgrado la stessa Ue abbia minacciato punizioni contro i fuggiaschi.

 Opposizione
  Ma, dice sempre l'opposizione iraniana, «la cosa peggiore di tutta questa situazione è che l'Ue si sta dimenando per compiacere il regime teocratico in Iran non riuscendo a vedere il quadro complessivo. Non solo l'Ue sta completamente ignorando i crimini e le attività belliche del regime, ma sta anche mettendo le relazioni commerciali prima della vita dei suoi stessi cittadini tenuti in ostaggio in Iran. Perché i politici dell'Ue non chiedono che i loro cittadini vengano rilasciati con effetto immediato? I politici europei non hanno ascoltato o compreso la lunga lista di ragioni del presidente degli Stati Uniti per abbandonare l'accordo sul nucleare? O semplicemente non interessano loro?».
  Il comunicato era corredato da una delle famose foto di Federica Mogherini in chador: per ricordare che l'Alto Rappresentante, peraltro islamologa per formazione, tanto aveva puntato all'intesa con l'Iran, da sperare di venirne insignita anche con il Premio Nobel per la Pace. Rimanendone per altro con un palmo di naso: «è bene vedere il Premio Nobel per la pace 2017 all'Ican, condividiamo un forte impegno a raggiungere l' obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari», aveva commentato, quasi parafrasando la vecchia storia della volpe e dell'uva. Ma forse sta sperando in quello che al Comitato per il Premio Nobel di Oslo decideranno nella prossima tornata.

(Libero, 28 agosto 2018)


La tecnologia avanzata del sistema sanitario israeliano

di Beatrice Casella

Beatrice Casella
Laureata in economia internazionale e dello sviluppo, si è sempre appassionata del settore sanitario. Il tema della tesi di laurea triennale ha riguardato il tasso di mortalità infantile in Tanzania (paese dove ha vissuto alcuni anni). Per il suo master's degree si è concentrata sull'incidenza della politica e dell'economia nel garantire una salute globale. Praticante giornalista, ha lavorato a Milano con il Gruppo editoriale L'Espresso e attualmente lavora come Research Analyst per una società che si occupa di costruzioni sostenibili.

In Israele, l'assistenza sanitaria universale di base è obbligatoria dopo che la legge sull'assicurazione sanitaria, la "National Health Insurance Law" o "National Health Insurance Act", venne approvata nel 1995. Anche prima di questa legge, circa l'85% degli israeliani era già sotto copertura.
  Secondo un recente studio inglese, il sistema sanitario israeliano è considerato tra i 10 migliori del mondo principalmente grazie alla disponibilità delle cure preventive e le infrastrutture sanitarie molto avanzate. Tra queste risulta consono citare il Herzliya Medical Center, un ospedale privato ed una eccezionale istituzione medica nello stato israeliano.
  La clinica propone un'ampia gamma di trattamenti medici, procedure e servizi quali, la diagnostica accurata, consulti con i migliori specialisti israeliani ed innovativi trattamenti chirurgici di livello elevato. Al giorno d'oggi, gli interventi ammontano a circa 200.000 e quasi tutti sono stati eseguiti in dipartimenti sempre di più all'avanguardia. Come parte di un servizio personalizzato, l'ospedale prevede che ogni paziente venga assegnato ad un Case Manager il quale gestisce tutte le pratiche amministrative, logistiche e mediche.
  Questo centro medico è caratterizzato da qualità, professionalità e multilinguismo non facilmente riscontrabili in altre strutture ospedaliere, specialmente in Europa. In particolare, a differenza di altri paesi contraddistinti da un'industria molto forte del turismo medico, l'Herzliya Medical Center assume numerosi operatori sanitari multilingue, tra cui russi ed inglesi, tutti madrelingua.
  Gli strumenti utilizzati appartengono a recenti tecnologie mediche grazie alle quali le apparecchiature di diagnostica consentono di eseguire qualsiasi analisi per identificare le malattie in una fase precoce, ovvero prima della comparsa dei sintomi clinici. In ultimo, grazie ai moderni mezzi di controllo lo staff medico riesce a monitorare eventuali cambiamenti critici nelle condizioni dei pazienti e per prevenire lo sviluppo di complicanze. Tutti i membri dello staff sono ben addestrati e sono in grado di assistere i pazienti in situazioni anomale e di emergenza.
  Per sostituire le tecniche invasive quindi, sono state introdotte tecniche più sicure, come la colonscopia virtuale, sostituendo così la colonscopia standard, oppure una tomografia computerizzata del cuore, utilizzata come alternativa alla angiografia.
  Il settore medico israeliano è in continuo sviluppo e miglioramento. Le cure mediche israeliane vantano i più recenti risultati della ricerca clinica e biomedica e presso l'ospedale vengono messi in pratica quotidianamente.
  Il trattamento di alta qualità deriva anche da una grande preparazione del personale. L'ospedale collabora con più di 400 medici israeliani con una lunga e concreta esperienza. Chirurghi, anestesisti, oncologi, cardiologi e altri specialisti provengono da istituti di Israele o università straniere.
  Pertanto, Israele è all'avanguardia nell'utilizzo degli strumenti digitali in ambito sanitario. Il cittadino che ha bisogno del proprio medico di medicina generale può prenotare via web, tutti i referti sono trasmessi per via elettronica, tutto è archiviato in un vero big data sanitario.
  Israele ha ricevuto il più alto punteggio sulla qualità sanitaria in Medio Oriente e i suoi cittadini hanno un'aspettativa di vita di 82,5 anni - l'ottava più alta del mondo. Il sistema del paese assicura che ogni cittadino riceva la copertura sanitaria, ma i fornitori di assicurazioni devono competere per attirare clienti e ricevere fondi.
  Difatti, anche se i sevizi sanitari sono di buon livello soprattutto nelle città principali, il costo delle spese mediche è elevato. Ad esempio, un'occlusione intestinale può costare più di 17.000 euro. Per tale motivo viene fortemente consigliato a tutti i turisti o stranieri che si recano nel Paese per lavoro, di sottoscrivere l'Assicurazione sanitaria Travel Care che prevede anche l'eventuale rimpatrio aereo sanitario.

(Health Online - Health Italia, 28 agosto 2018)


L'Israele moderno ha molte più tribù di quello biblico

A cinquant'anni dalla fondazione dello Stato ebraico Elisa Pinna ne esplora la varietà e i contrasti stridenti.

di Antonio Carioti

Nella tradizione biblica le tribù di Israele erano dodici, come i figli di Giacobbe. Oggi però, mostra la giornalista dell'Ansa, Elisa Pinna nel libro Latte, miele e falafel (Edizioni Terra Santa), nello Stato d'Israele nato settant'anni fa dal progetto sionista, le tribù sono molto più numerose. Anche perché a quelle ebraiche se ne aggiungono tre cristiane e altrettante musulmane, senza contare i drusi, di lingua araba, ma (a parte quelli del Golan, che si sentono siriani) fedeli alle autorità israeliane.
   È un autentico mosaico quello descritto dall'autrice, con non poche sorprese per il lettore poco avvezzo alla complessità labirintica del Medio Oriente.
   Colpisce per esempio che l'integrazione dei russi (a volte neppure di religione ebraica), giunti in Israele dopo il crollo dell'Unione Sovietica neI 1991, sia riuscita meglio rispetto a quella degli ebrei orientali provenienti dai Paesi arabi, che sono approdati nella Terra promessa molto tempo prima, ma si sentono ancora in gran parte cittadini di serie B e al tempo stesso, anche per via delle gravi persecuzioni subite nei luoghi di origine, nutrono una spiccata ostilità nei riguardi dei palestinesi.
   Tuttavia i contrasti più stridenti sono altri: per esempio quello tra la ricca e secolarizzata Tel Aviv, una delle città più ospitali per i gay al mondo, e la comunità assistita dal governo degli ebrei ultraortodossi, chiusi in un fondamentalismo rigidissimo e persuasi che lo Stato d'Israele sia «solo una parentesi» nella vicenda millenaria del popolo eletto; oppure quello, ancora più drammatico, tra i rari pacifisti, impegnati a difendere i diritti umani dei palestinesi, e i sempre più numerosi coloni oltranzisti nazional-religiosi della Cisgiordania, convinti che gli arabi non abbiano alcun titolo per risiedere in una terra appartenente agli ebrei per diritto divino.
   Non è facile districarsi in uno scenario così complesso e difficile da governare ma bisogna riconoscere a Elisa Pinna il merito di averne tracciato un quadro molto esauriente.
   Nel giudizio politico, al forte pessimismo espresso da Bruno Segre, che paventa una catastrofe nel testo che chiude il volume, si può contrapporre un'esperienza storica che ha visto Israele sopravvivere con successo a molte crisi. Nonostante tutti i conflitti, si tratta di una società aperta. E questo le assicura un vantaggio importante in una regione mediorientale dove il fanatismo di ogni genere resta senza dubbio la malattia più grave.

(Corriere della Sera, 28 agosto 2018)


«Rubati dai nazisti, ridateli agli eredi»

Duello in Germania sugli Schiele contesi

di Elena Tebano

 
BERLINO - Da una parte la Fondazione tedesca nata per favorire la restituzione delle opere d'arte sottratte dai nazisti alle loro vittime, dall'altra gli eredi di un cabarettista (e collezionista) austriaco ebreo ucciso a Dachau, in mezzo un giudice di New York. E' polemica per la sorte di due acquerelli di Egon Schiele, ritrovati negli Stati Uniti in possesso del gallerista Richard Nagy, e dell'intera collezione a cui appartenevano. E soprattutto sui criteri usati per rintracciare le opere d'arte rubate agli ebrei perseguitati sotto il nazismo.
   I due dipinti di Schiele, Signora in grembiule nero del 1911 e Ragazza che si copre il viso del 1912, che insieme valgono oltre 4 milioni di euro, facevano parte della collezione dell'austriaco Fritz Grünbaum. Il suo nome oggi dice poco fuori dall'Austria, ma è stato uno dei padri del cabaret teutonico e una delle sue battute circola ancora: «Voglio andare all'inferno» cantava negli Anni 30, perché lì «il clima è piacevole, mite e caldo» e «la gente ha carattere e fascino».
   Neppure nell'inferno in terra che era Dachau Grünbaum perse la sua ironia: si racconta che alla guardia che gli negava un pezzo di sapone per lavarsi abbia risposto «chi non ha i soldi per comprare sapone non dovrebbe gestire un campo di concentramento». Nel lager Grünbaum morì nel 1941, un anno dopo la stessa fine atroce toccò alla moglie Elisabeth. Erano stati internati nel 1938: subito dopo il loro appartamento era stato «arianizzato» e i nazisti avevano catalogato la collezione, 453 quadri, tra i quali opere di Dürer, Degas, Rembrandt, e oltre sessanta dipinti di Egon Schiele. Di molti si sono perse le tracce, i pezzi di Schiele sono ricomparsi nel 1956 in Svizzera a un'asta del mercante d'arte Eberhard Kornfeld, che disse di averli comprati da una «rifugiata». Solo trent'anni dopo, quando gli eredi di Grünbaum hanno chiesto di riavere le opere, il mercante sostenne che la «rifugiata» era la sorella di Elisabeth, che avrebbe nascosto i dipinti di Schiele per poi recuperarli dopo la guerra. Una versione sempre contestata dai discendenti del cabarettista.
   E qui entra in gioco il «Deutsche Zentrum Kulturgutverluste», la fondazione governativa per «le opere culturali perdute», fondata nel 2015 dalla Germania proprio per restituire quello che è stato preso agli ebrei e alle altre vittime del nazismo. All'inizio, a differenza dell'Austria (nei cui musei statali si trovano altre opere provenienti dalla collezione Grünbaum e che ne rivendica il «legittimo» possesso), la Fondazione aveva inserito la collezione tra le opere rubate ai perseguitati. Adesso però l'ha tolta, dando credito alla versione dei mercanti d'arte. «Non è in discussione che Fritz Grünbaum sia stato perseguito dai Nazisti - ha detto al New York Times la portavoce tedesca Freya Paschen - questo non significa che tutta la sua collezione sia stata persa per colpa della persecuzione nazista». Tutto questo quando invece ad aprile un giudice americano ha stabilito che l'attuale proprietario dei due acquerelli Nagy debba restituirli agli eredi Grünbaum. Il gallerista ora ha fatto appello, ma la decisione del tribunale newyorchese ha riaperto la questione, che potrebbe riguardare anche altre opere della collezione. E soprattutto ha sollevato più di un dubbio sull'operato della Fondazione che dovrebbe aiutare a riparare almeno in parte le prevaricazioni del regime hitleriano.

(Corriere della Sera, 28 agosto 2018)


Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti

Lo storico Michele Sarfatti aggiunge nuovi documenti del 1940 sul destino degli internati nel campo italiano.

di Mirella Serri

Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni. La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l'entrata in guerra dell'Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l'Africa o il Medio Oriente.

 Lo spettro della Polonia
  Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei ... significa la loro condanna a morte». Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi).
  In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall'emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell'ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.

 Tutto precipita
  I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un'audace proposta: tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud. Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all'ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c'era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. Il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei». Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all'alleato tedesco che stava per tradire.
  «Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.

(La Stampa, 28 agosto 2018)


Dal Giappone a Israele: le donne ai vertici militari

di Francesco Palmas

Statua di Jeanne Hachette, eroina francese nota per le sue azioni durante l'assedio di Beauvais del 1472
Donne e forze armate: un binomio sempre più indissolubile, fatto di pagine memorabili, eroismo e coraggio. Gli esempi sono ormai tantissimi, perché il personale femminile si sta facendo strada anche nella [unzione chiave degli eserciti: il combattimento e la guerra. L'ultima novità viene dall'ultra-conservatore Giappone. Per la prima volta nella storia del Paese, una donna è diventata pilota di caccia, il 23 agosto scorso. Misa Matsushima ha appena ventisei anni. Sognava fin da bambina di poter volare su un jet da guerra. Ha colto l'occasione al volo non appena il ministero della Difesa, a Tokio, ha fatto cadere l'ultima barriera, levando l'interdizione alle donne di postulare per l'aviazione militare, in ruoli di prima linea.
   Misa seguirà il cammino di Kiyotaké Shigeno, un pioniere dell'aeronautica nipponica. Raggiungerà presto la base di Nyutabaru e la quinta squadra aerea, volando su un F-15. Il suo. Le manca solo uno stage di poche settimane e, poi, sarà pronta per l'allerta operativa. Sono storie che incoraggiano, perché le donne possono portare maggiore sensibilità umana in caso di guerra, limitando il deragliamento attuale delle operazioni belliche dai canoni del diritto dei conflitti armati. Tre colleghe di Misa sono prossime a emularla, in un Paese in cui le donne rappresentano appena il 6,4% dei 228mila militari in servizio. Da questo punto di vista, Israele è avanti anni luce. Il 7 agosto scorso una donna è diventata numero uno dello squadrone 122 Nachson, un'unità molto speciale dell'aviazione di Tsahal. Il "maggiore G.", 34enne, sarà promossa a tenente colonnello: «Un gran privilegio e un'immensa responsabilità», racconta. «Adesso mi attende il vero impegno. Sono fiera di prestare servizio nell'aviazione israeliana». Se molti Paesi arruolano già le donne nelle forze armate, ne limitano però i compiti a incarichi ausiliari. Israele, che non esenta le donne dal servizio militare obbligatorio, conta nei ranghi molti battaglioni di fanteria leggera, per il 60-70% composti da ufficiali e soldatesse donne, volontarie per servire nella mischia della battaglia.
   La selezione è molto dura. Metà delle candidate lascia le quattro unità leggere anzitempo, per incidenti o problemi muscoloscheletrici. Non è una cosa per tutte. Fra le prove di selezione bisogna superare un percorso combattente di 1,5 km, tappezzato di l5 ostacoli semi-insormontabili. Il tutto in meno di 17 minuti.
   Poi ci sono le marce zavorrate di 25 km (un fante d'assalto uomo si spinge fino a 80 km). Presto, le donne di Tsahal potranno servire anche sui cani armati, un altro tabù prossimo a cadere. Come Israele, la Norvegia è all'avanguardia nella parità dei sessi in campo militare. Dall'anno scorso, il generale Tonje Skinnarland comanda l'aviazione da guerra di Oslo. Mai una donna aveva raggiunto un tale livello di responsabilità.
   Non risultano omologhe in nessun'altra parte del mondo. Tonje non è nemmeno pilota, una prima assoluta per i capi di stato maggiore della Luftforsvaret, da sempre uomini e piloti. Ma non teme le sfide. Donne come lei ne vedremo altre in Norvegia, perché Oslo punta a una percentuale femminile nelle Forze armate pari al 20% degli effettivi entro il 2020. Dal 2016, il servizio di leva è obbligatorio per entrambi i sessi, un caso unico nella Nato. C'è da dire che, negli ultimi anni, sempre più donne stanno accedendo a ruoli di comando. L'ammiraglio americano Michelle Howard è stata per esempio la prima donna a tenere le redini del comando militare Nato di Napoli, prima di andare in pensione nel 2017. E, in Canada; il Generale Jennie Carignan ha sbaragliato tutti nell'ambito posto di capo di Stato maggiore per le operazioni dell'esercito.
   La storia militare abbonda di esempi di donne combattenti e comandanti. Delle Amazzoni raccontano Omero, Erodoto ed Eschilo. Molte città medioevali tributano tuttora gli onori alle guerriere che combatterono per la libertà. Beauvais celebra ogni anno sulla piazza onomastica ]eanne Hachette, ancora trionfante nell'imponenza della sua statua. Per non dire di Orléans e di Giovanna d'Arco, che liberò la città, occupata dagli inglesi, nel 1429. Eroine della storia, come le donne pilota sovietiche della seconda guerra mondiale o come le guerriere curde dello Ypj, che hanno partecipato a tutte le battaglie contro il Daesh, nel nord della Siria. Le donne sono preziose. Il personale femminile ha potuto accedere a luoghi e informazioni altrimenti preclusi ai maschi, vista la rigida segregazione dei sessi vigente in alcune parti del mondo. Pagine eroiche. Se ne scriveranno altre, nella terribile realtà della guerra.

(Avvenire, 28 agosto 2018)


70 anni in prima linea per l'ospedale più grande del Medioriente

Eccellenze d'Israele: Ospedale Sheba Tel Hashomer- Creato nel 1948, è oggi una realtà all'avanguardia in molti settori della medicina. Un grande evento con il presidente Rivlin ne ha celebrato l'anniversario.

di Dodi Hasbani

 
I miei primi contatti con l'Ospedale Sheba Tel Hashomer risalgono a circa tre anni fa. Assieme a mia moglie Diana eravamo intenzionati a trovare un progetto per concretizzare una donazione in memoria dei nostri genitori.
Abbiamo valutato diverse proposte e scelto di creare una "step down unit" in Sheba. La struttura è stata inaugurata in giugno 2016 e da allora abbiamo avuto molte occasioni di frequentare l'Ospedale e, in particolare, l'equipe che si occupa del fund raising, magistralmente diretta da Ada Cegla, apprezzando l'ottimo lavoro che svolgono.
Quest'anno ho avuto l'onore di essere nominato Ambassador of Good Will di Tel Hashomer Sheba e quindi di essere anche coinvolto nelle celebrazioni per l'anniversario della fondazione.
Nato nel giugno del 1948, un mese dopo la proclamazione dello Stato d'Israele, anche l'Ospedale Sheba Tel Hashomer ha compiuto quest'anno 70 anni. Per celebrare questo importante traguardo è stata organizzata una settimana di eventi che ha avuto come momento culminante la cerimonia del 14 giugno alla presenza del Presidente di Israele Reuven Rivlin nella sua residenza privata a Gerusalemme. Sono state anche organizzate una interessantissima survey circa le più recenti innovazioni in campo medico, gite ed escursioni uniche e una serata di Gala presso l'Ospedale alla quale hanno partecipato 1100 sostenitori.
Il Presidente Rivlin ha ricordato la storia di Tel Hashomer nato come ospedale militare e, dopo cinque anni nel 1953, per volontà del Direttore Dottor Chaim Sheba, aperto anche alla popolazione civile.
Durante la cerimonia ha parlato il Professor Itzhak Kreis, specialista in Medicina Interna, master in Amministrazione Sanitaria e Salute Pubblica. Kreis ha servito per 30 anni nell'esercito, dirigendo come Ufficiale Medico Capo dal 2011 al 2014 le varie missioni di aiuto in aree di tutto il mondo colpite da disastri; nel 2016 ha lasciato l'IDF con il grado di Generale per assumere la carica di Direttore Generale di Tel Hashomer Sheba.
Oggi Sheba è il più grande ospedale del Medioriente; sorge su 61 ettari, ha 120 dipartimenti e cliniche, 1700 letti, esegue 2 milioni di esami, ha 8543 addetti che comprendono medici, para medici, infermieri, operatori sanitari.
In Sheba vengono curate in media 1.000.000 di persone ogni anno di tutte le condizioni sociali, nazionalità e religioni provenienti da tutto il mondo compresi i territori palestinesi e la Siria. Tra le tante specialità, è famoso il reparto di primo intervento dopo disastri naturali come terremoti, alluvioni tsunami, sempre pronto ad agire tempestivamente in ogni parte del mondo. In questi giorni il reparto era in Guatemala a portare aiuto alla popolazione gravemente colpita dall'eruzione del vulcano Fuego (a giugno, ndr).
L'ospedale in questi anni ha continuato il suo sviluppo ampliandosi con la costruzione di nuove strutture all'avanguardia interamente finanziate da donazioni, mentre il Servizio Sanitario Pubblico garantisce la gestione ordinaria. Attualmente Sheba ha la responsabilità a livello nazionale della presa in carico di tutti i pazienti che necessitano di terapie intensive, dei casi di riabilitazione più gravi in particolar modo per soldati e civili vittime di attentati, degli ustionati gravi.
Dal 2001 è leader mondiale della simulazione medica (MSR) per la formazione del personale medico e paramedico sia civile che di Tsahal. Accanto ai reparti di cura coesistono numerosi reparti di ricerca fra i quali: The Advanced Technology Center, The Sheba Cancer Research Center, The Joseph Sagol Neuroscience Center, The Cell Replacement Therapy for Diabetes.
Questo permette una continuità fra ricerca e cura con incredibili e quotidiani progressi impensabili fino a pochi anni fa.

(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2018)


Israele acquista nuovi razzi precisione

Accordo con industrie. Lieberman, aumentano capacità offesa

GERUSALEMME - Il ministero della Difesa e le Industrie militari israeliane (Imi) hanno firmato un accordo di centinaia di milioni di shekel per missili di alta precisione.
Alcuni di questi hanno - secondo i media - un raggio tra i 30 e i 150 chilometri. "Stiamo acquistando e sviluppando sistemi di alta precisione - ha detto il ministro Avigdor Lieberman - che aumentano le capacità di offesa dell'esercito israeliano. In pochi anni potremo coprire il corto e il lungo raggio nell'area".

(ANSAmed, 27 agosto 2018)


"Un percorso fra Carte e Codici": alla scoperta del patrimonio ebraico Eventi a Cesena

di Piero Pasini

 
 
 
Con il convegno "Cesena Ebraica. Un percorso fra Carte e Codici", in programma domenica dalle 9 nella Sala Lignea della Biblioteca Malatestiana, si aprono ufficialmente le celebrazioni per il seicentesimo anno della nascita di Novello Malatesta. Un appuntamento sull'ebraismo con il quale Cesena aderisce per la prima volta, insieme ad altre novanta città italiane, alla Giornata Europea della Cultura Ebraica.
   "Questo convegno - dice il vicedirettore del comitato scientifico della Malatestiana Marino Mengozzi - intende celebrare un patrimonio di cultura ebraica grande e piccola conservato sia nella Biblioteca, quanto nell'Archivio di Stato e nell'Archivio Storico Diocesano. Dopo le relazione degli esperti seguirà la visita ad una ricca esposizione di antichi codici presso la Sala Piana. In particolare nella Malatestiana sono presenti sette manoscritti ebraici le cui origini risalgono al quattrocento ed appartennero a famiglie ebree della citta".
   "Sono inoltre presenti - continua il vicepresidente - alcuni documenti provenienti dalle carte della famiglia cesenate dei Saralvo che venne sterminata ad Auschwitz nel 1944". Nella Sala Piana della Biblioteca saranno esposti anche codici di cultura ebraica provenienti dall'archivio statale e da quello diocesano. "Potranno essere visti dei frammenti manoscritti di molti secoli fa, fino al milleduecento - spiega Mengozzi -, trovati per caso all'interno delle rilegature o collocati per fare spessore nei frontespizi di vecchi libri di tutt'altro argomento".
   Di altissimo livello i relatori che si succederanno a parlare dalle ore nove in poi: Mauro Perani, Università di Bologna, "I frammenti ebraici dell'archivio diocesano e dell'archivio comunale", Saverio Campanini, Università di Bologna, "Ovadia Sforno, filosofo ed esegeta", Giuliano Tamani, Università Ca' Foscari, "La tradizione ebraica (e latina) del Canone di Medicina di Avicenna", Silvia Di Donato, Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, "Il commento di Averroè alla logica di Aristotele e le tavole astronomiche di Abraham bar Hiyyah".
   La mostra dei codici rimarrà fino al 20 settembre e potrà essere visitata dal martedì al sabato in orario 9-19, domenica 10-19, lunedì 14-19.

(Cesena Today, 27 agosto 2018)


Acqua

di Daniela Fubini

L'attrice che in televisione fa la pubblicità progresso per convincere gli israeliani a non fare troppo spreco d'acqua è oggetto di caricature infinite, sia per l'intensità con cui pronuncia teatralmente "Israele si sta seccando" e frasi simili, sia per via dell'effetto zolle di terra essiccate al sole che l'ideatore dello spot ha un po' sadicamente deciso di usare sul suo bel viso. E non è che non abbia ragione, intendiamoci: il Kinneret o Lago di Tiberiade ogni anno scende di ulteriori manciate di centimetri e la pioggia invernale non basta più per riempirlo da decenni ormai. Al mio arrivo in Israele oltre dieci anni fa i locali si prodigavano in consigli su come evitare di buttare via acqua potabile non utilizzata, per esempio nell'atto quotidiano di regolare il calore della doccia: un secchio nella doccia e raccogli acqua pulita, non abbastanza calda per lavarsi ma ottima per lavare invece il pavimento o dar da bere alle piante. Ma in realtà, con i desalinizzatori e i sistemi di filtraggio per riutilizzo che abbiamo in funzione, l'acqua in Israele manca nel Kinneret e in generale a terra ma non nei tubi delle nostre case. E comunque ovviamente, secondo lo spirito vagamente anarchico insito nell'essere israeliano, la cosa in assoluto più popolare da fare lungo l'estate è andare a sguazzare in qualche ruscello o laghetto al nord: non c'è acqua? E noi ci godiamo quella che c'è, finché c'è. La cosa quest'anno è riuscita non benissimo per via di una poi scampata epidemia di leptospirosi causata a quanto pare proprio dalla carenza di acqua e quindi di corrente nei suddetti torrenti e laghetti, ma c'è da scommetterci che l'anno prossimo il popolo d'Israele si ritroverà di nuovo a bagno al nord per rinfrescare gli animi arroventati dall'estate.

(moked, 27 agosto 2018)


Joel Itman: arte ebraica applicata

«Cinque anni fa ho iniziato una ricerca sulle mie origini ebraiche europee, che mi hanno ispirato per creare arte ebraica. Anche se profondamente radicata nella tradizione, è completamente nuova». Così si racconta Joel Itman, il cui stile, colorato ed estroso, diverge dalle comuni rappresentazioni di temi artistici ebraici. «Per il mio lavoro - racconta - conduco approfondite ricerche su Ebraismo e cultura ebraica. Ciò che scopro e apprendo diventa fonte di ispirazione per creare ceramiche; tutti pezzi originali che poi fotografo e utilizzo come immagini per stampe artistiche, calendari, biglietti augurali e magneti. La descrizione che accompagna ogni lavoro invita chi guarda a condividere il mio viaggio esplorativo nella cultura ebraica».
   L'arte ebraica deve evolvere ed essere accessibile e comprensibile a tutti, attirando l'interesse sia della persona laica sia di quella ortodossa. «La mia arte rispecchia un Ebraismo vivo e vibrante», dice ancora Joel.
   Nato negli Stati Uniti, ha studiato arte e cinema a Minneapolis, Parigi e New York ed ha esposto negli Stati Uniti, in Italia e in Francia. Oggi vive a Milano. L'arte di Itman è popolata da personaggi, umani, animali e d'invenzione, che insieme condividono e trasmettono un messaggio universale d'umanità. I colori vibranti, le linee fluide e le forme fantastiche comunicano un senso di immediata e naturale vitalità e un certo tocco naif. L'educazione ebraica di Joel ha avuto un forte impatto sul suo lavoro: trae ispirazione da oggetti cerimoniali, mosaici, pergamene miniate e manufatti ebraici.
   Itman li reinventa nel suo stile luminoso, con voce contemporanea. Il suo lavoro fa percepire l'incredibile ricchezza del patrimonio ebraico: arte e tradizione come ponte tra antiche immagini e temi attuali.

(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2018)


Il tragico obiettivo di forgiare gli italiani

In un discorso al Consiglio nazionale del Pnf Mussolini rivelò il suo piano.

di Giordano Bruno Guerri

Dopo la conquista dell'impero, nel 1936, da profeta e duce Mussolini si trasformò in una specie di divinità. Voleva l'adesione religiosa non più soltanto dei fascisti ma di tutta la nazione, esigeva non più la fedeltà ma la fede.
   La fede si dimostra cambiando i propri istinti e sacrificando la ragione ai dogmi: fu questo il senso di provvedimenti irreali e insieme formalissimi, come il passaggio dal «lei» al «voi» (più consono alla vena maschia del regime e scevro dal «servilismo» del «lei»), il «passo romano», che imponeva ai soldati italiani, dalle gambe mediamente corte, un'imitazione del «passo dell'oca» dei più longilinei tedeschi. Nel quadro della «fascistizzazione integrale» si inserì anche la scelta razzista, solo in parte stimolata dall'alleanza con la Germania e dal problema di doversi distinguere, dopo la conquista dell'Etiopia, da una popolazione «inferiore» e dalla pelle scura.
   Popolo tradizionalmente non razzista, gli italiani si limitavano a una sorta di (...) diffidenza pregiudiziale sugli ebrei, insufflata dalla Chiesa. Erano stati i papi a creare i ghetti, a imporre agli ebrei di portare un cappello giallo, a fare mestieri umilianti come quello degli stracciaroli, odiosi come quello degli usurai. Dall'Ottocento era la gesuitica Civiltà cattolica a infierire su di loro. Il razzista Roberto Farinacci poté dichiarare: «Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli». «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti», dichiarava il Manifesto della razza, pubblicato il 14 luglio 1938 da un gruppo di modesti studiosi. Fino a quel momento il regime era stato piuttosto indifferente ai problemi della razza, a parte le remore naturali di un movimento nazionalista. Mussolini non era antisemita e come lui moltissimi gerarchi. Quasi nessuno credette davvero alla «differenza biologica»: riviste come La difesa della razza, di Telesio Interlandi, rappresentavano soltanto il fanatismo di qualche intellettuale. Nella logica del fascismo, però, il razzismo era uno strumento per «forgiare» - verbo che allora piaceva molto - i nuovi italiani: che dovevano sentirsi geneticamente superiori agli altri popoli, quindi dovevano eliminare ogni possibile «contaminazione», come quella ebraica.
   Il primo settembre 1938 venne istituito presso il ministero degli Interni il Consiglio superiore per la demografia e per la razza; lo stesso giorno si stabiliva con un decreto legge che gli ebrei residenti in Italia da dopo il 31 dicembre 1918 dovevano andarsene; veniva revocata la cittadinanza italiana agli ebrei stranieri che l'avevano ottenuta dopo quella data. A tutti venne vietato di porre la propria residenza entro i confini del regno, agli italiani furono vietati i matrimoni con gli ebrei e ai dipendenti statali con qualsiasi straniero. Venne vietato di accogliere nelle scuole gli studenti ebrei, di conferire incarichi e supplenze a docenti di razza ebraica, di usare libri di testo di autori ebraici, di accettare lasciti o donazioni per borse di studio da parte di ebrei; per non creare un analfabetismo razziale di Stato si istituirono sezioni particolari e a volte anche intere scuole per l'istruzione degli ebrei e si consentì agli universitari di terminare gli studi. Gli odiosi provvedimenti colpirono duecento insegnanti, 4.400 studenti elementari, mille delle medie e duecento universitari.
   Le uniche personalità di spicco che avversarono davvero i provvedimenti furono Italo Balbo, Massimo Bontempelli e Filippo Tommaso Marinetti. Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica proprio nel 1938, avendo sposato un'ebrea lasciò per protesta l'Italia. Gli altri intellettuali e gerarchi si adattarono all'antisemitismo al pari del popolo, forse soltanto perché c'era qualcuno su cui riversare la responsabilità e il malcontento per la stretta economica subita con le guerre d'Etiopia e di Spagna, con le sanzioni imposte dalla Società delle nazioni. Chi disapprovava limitò il dissenso a episodi di pietismo individuale. Non soddisfatto, il 25 ottobre 1938 Mussolini tenne al Consiglio nazionale del Pnf un discorso che non volle diffondere, però invitò i presenti a trasmetterlo «per diffusione orale»: «Alla fine dell'anno XVI ho individuato un nemico, un nemico del nostro regime. Questo nemico ha nome borghesia». (Solo nel 1941 arrivò a una definizione che egli stesso giudicò «definitiva» del borghese: «Il borghese è quella persona che sta bene ed è vile») Contro questo nemico si dettero i tre «poderosi cazzotti nello stomaco», secondo le parole del duce, dell'abolizione del «lei», dell'introduzione del passo romano e - appunto - del razzismo. È dunque errato il luogo comune per cui ai ripugnanti provvedimenti si arrivò per pedissequa imitazione della Germania nazista: facevano già parte della logica evoluzione del regime, e se influenza ci fu si dovette alla necessità di mettere l'Italia fascista al passo con i totalitarismi che sembravano sul punto di contendersi il mondo, quello hitleriano ma anche quello staliniano.
   Oltre ai «fascisti religiosi» anche molti giovani furono entusiasti. Cresciuti nel regime, suggestionati dalla propaganda, dagli esempi delle guide intellettuali e politiche, vennero affascinati soprattutto dalla visione di una nuova cultura in funzione antiborghese che sarebbe nata dal concetto di razza: solo dei «puri» e dei «forti» potevano permettersi di sentirsi razzialmente superiori. Alla borghesia era piaciuto il fascismo perché condivideva i suoi stessi valori (Dio, patria, famiglia), l'aveva difesa dagli attacchi del proletariato e - almeno così si faceva credere - dagli interessi del grande capitale. Le era piaciuto essere titillata nell'orgoglio nazionalistico e nei propri meriti di buon comportamento civile: non le poteva piacere, adesso, venire indicata - senza avere cambiato il proprio modo di essere, anzi avendo fatto sempre quel che il regime voleva - come la bestia nera del fascismo, da combattere e rieducare. La guerra alla borghesia, lo staracismo e l'assurda pretesa di intervenire in ogni aspetto della vita privata furono - più del razzismo - un vero e proprio boomerang per il regime: insieme all'alleanza con la Germania e alle difficoltà economiche danneggiarono il miraggio di rifondazione del fascismo e del popolo italiano dopo la conquista dell'impero, compromettendo il consenso accumulato.

(il Giornale, 26 agosto 2018)


Tutti sapevano che erano ebrei, ma nessuno li denunciò

Gli Ascoli e i Crema erano ben conosciuti in paese. Quando vennero promulgate le leggi razziali l'intera popolazione li protesse con il più assoluto silenzio.

Questa bella storia è stata raccontata dalla storica Laura Tirelli di Taino. Appassionata ricercatrice e protagonista di tante iniziative culturali, Tirelli è una voce importante per la sua capacità e competenza di tenere viva la memoria locale. In questo scritto, pubblicato sul suo profilo Facebook, ripercorre la storia della famiglia Crema di origine ebraica che durante le leggi razziali fasciste viveva a Taino.
   Nel 1938 il governo di Mussolini proclamò le leggi razziali contro gli ebrei. L'odio razziale non era però una componente della cultura e tradizione tainese, vi erano anzi due famiglie ebree che trascorrevano dei periodi di tempo a Taino ed erano ben conosciute e rispettate in paese: gli Ascoli e i Crema, questi ultimi erano imparentati con la famiglia Bielli di Cheglio.
   Arrigo Crema di Ispra aveva sposato la tainese Maria Bielli, detta Minela e quando le persecuzioni razziali divennero più pressanti, dopo l'8 settembre 1943, Arrigo con i genitori, i fratelli e le rispettive famiglie fuggì in Svizzera. La moglie Maria, non essendo ebrea rimase ad Ispra, però, temendo per i figli, li nascose a Taino. La più piccola, Maria Grazia, di tre anni fu sistemata allo Stallaccio presso la nonna materna, Angela Berrini; i più grandi, Ada, Franco e Rino, furono nascosti nel granaio di Virgilio Bielli, detto Firel, cognato di Maria Crema.
   Tutto il paese era a conoscenza della presenza di questi bambini, compreso il podestà e il segretario del fascio, ma nessuno denunciò nulla; l'intera popolazione anzi li protesse con il più assoluto silenzio e volutamente ignorando che portavano un cognome ebraico.
   Il prossimo 14 settembre questo episodio verrà ricordato con uno spettacolo musicale che si svolgerà nella corte dei Bielli a Cheglio nell'ambito del programma del "Festival del Lago Cromatico", promosso dall'associazione Musica Libera.

(Varese News, 27 agosto 2018)


Gaza - Slittano i colloqui al Cairo su una possibile tregua

Israele riapre da oggi il valico pedonale di Eretz

Le delegazioni palestinesi hanno rinviato i colloqui al Cairo riguardo una possibile tregua di lunga durata con Israele sostenuta da Egitto e Onu e sulla riconciliazione tra le varie fazioni. Lo ha detto il responsabile di Hamas Husam Badran, citato dai media palestinesi. I colloqui - che dovevano riprendere oggi - sono stati rinviati di alcuni giorni. Badran non ha fornito ulteriori dettagli sui motivi del rinvio.

(ANSAmed, 27 agosto 2018)


Ucraina: riaperta celebre sinagoga dell'800

di Nathan Greppi

 
La Sinagoga di Drohobyc, oggi
 
La Sinagoga di Drohobyc, ieri
Cinque anni di lavori e un milione di dollari: questo il costo del restauro di una sinagoga, che ai primi di agosto è stata aperta al pubblico. La sinagoga, costruita nell'800 e una delle più grandi dell'Europa orientale, è famosa anche per un altro motivo: qui è dove si sposò il Primo ministro israeliano Menachem Begin.
   Secondo il Jerusalem Post, l'uomo che ha finanziato il restauro è Victor Vekselberg, miliardario russo di origini ebraiche originario di Drohobyc. Vekselberg ha fatto ristrutturare anche la vecchia casa della sua famiglia, e ha fatto erigere un memoriale nella vicina foresta di Bronica. Begin sposò nella sinagoga Aliza Arnold nel 1939, poco prima che scoppiasse la guerra. Tra coloro che presenziarono vi fu Ze'ev Jabotinsky, capo del Movimento Revisionista.
   La sinagoga è nota anche perché è associata a un dipinto di Mauritius Gotlib, un artista ebreo anch'egli originario della stessa città. Il dipinto, intitolato "Preghiera ebraica in sinagoga per Yom Kippur"
Mauritius Gotlib - "Preghiera ebraica in sinagoga per Yom Kippur"
, oggi si trova nel Museo Nazionale di Tel Aviv.
   La costruzione della sinagoga è iniziata nel 1842 e si è conclusa nel 1865. All'epoca era la sinagoga più grande d'Europa, ed è situata in un ex-quartiere ebraico chiamato "Lan"; il nome deriva dal fatto che negli anni '30 del '600 il sindaco della città, Ivan Danilovich, concesse agli ebrei una porzione di terreno di un lan reale, unità di misura che equivale a circa 16 ettari.
   Secondo diverse fonti, dal 1942 al 1943 i nazisti uccisero tra gli 11mila e i 14mila ebrei a Drohobyc; centinaia di famiglie vennero fatte sparire nella foresta di Bronica. Oggi, la comunità ebraica locale è composta da 150 persone.

(Bet Magazine Mosaico, 26 agosto 2018)


Usa, via gli aiuti ai palestinesi OIp: i ricatti non ci fanno paura

Duecento milioni di dollari che Trump ha deciso di togliere ai progetti umanitari. La mossa per aumentare le pressioni su Abbas e spingere il piano di pace

dall’inviato a New York

Trump ha deciso togliere oltre 200 milioni di dollari in aiuti per i palestinesi, destinati a progetti umanitari a Gaza e in Cisgiordania. Una nuova iniziativa, dopo il taglio dei fondi per la United Nations Relief and Works Agency di gennaio, finalizzata ad aumentare la pressione sull'Autorità guidata da Abbas in vista della possibile presentazione di un piano di pace elaborato dal genero Jared Kushner. l'annuncio è stato fatto venerdì dal dipartimento di Stato, a seguito di una revisione delle pratiche di assistenza richiesta dal capo della Casa Bianca. Fonti diplomatiche hanno aggiunto che ora Foggy Bottom lavorerà con il Congresso per determinare la nuove priorità politiche a cui destinare i fondi risparmiati. Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell'Olp, ha risposto che l'amministrazione Usa sta usando «il gretto ricatto come strumento politico. Il popolo palestinese e la leadership non si lasceranno intimidire e non soccomberanno alla coercizione». L'ambasciatore a Washington Zomlot ha aggiunto che «usare gli aiuti umanitari e per lo sviluppo come armi non funziona».
   I rapporti tra l'amministrazione Trump e la leadership palestinese sono precipitati dopo la decisione della Casa Bianca di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferire l'ambasciata. Questo ha di fatto paralizzato i colloqui sulla proposta di pace a cui stanno lavorando Kushner, il consigliere Greenblatt e l'ambasciatore Friedman. A gennaio gli Usa avevano ridotto di 65 milioni di dollari il loro contributo da 125 milioni all'Unrwa, l'agenzia dell'Onu fondata nel 1949 per assistere i rifugiati palestinesi costretti a lasciare le loro case. Il consigliere per la sicurezza nazionale Bolton ha definito questa struttura «un meccanismo fallito», mentre Kushner aveva scritto in mail pubblicate da Foreign Policy che «è importante avere un onesto e sincero sforzo per demolire l'Unrwa», perché «perpetua lo status quo, è corrotta, inefficiente, e non aiuta la pace». Ora segue il taglio agli aiuti umanitari e per lo sviluppo.
   Kushner sta ancora lavorando ad un piano di pace, con l'appoggio dell'Arabia Saudita, ottenuto in cambio del mutamento di linea verso l'Iran. Era circolata anche l'ipotesi di presentarlo durante la prossima Assemblea generale dell'Onu, ma i palestinesi si oppongono. Greenblatt ha incontrato in segreto il figlio di Abbas, Tarek, che gli ha detto di non ritenere più possibile la soluzione dei «due Stati», perché gli insediamenti israeliani l'hanno resa impraticabile. Lui chiede invece un solo Stato, con diritti uguali per tutti i cittadini. Trump però avrebbe detto al re giordano Abdullah che questa ipotesi, per ragioni demografiche, «porterebbe all'elezione di un premier israeliano di nome Mohammed».

(La Stampa, 26 agosto 2018)



Il corpo non è per la fornicazione

Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da cosa alcuna. Le vivande sono per il ventre, e il ventre è per le vivande; ma Dio distruggerà e queste e quello. Il corpo però non è per la fornicazione, ma è per il Signore, e il Signore è per il corpo; e Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza. Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò io dunque le membra di Cristo per farne membra di una prostituta? Così non sia. Non sapete voi che chi si unisce a una prostituta è un corpo solo con lei? "Poiché - Dio dice - i due diventeranno una sola carne." Ma chi si unisce al Signore è uno spirito solo con lui.
Dalla prima lettera dell’apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 6

 


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