| |
|
Il libro su Joseph Rabinowitz
Ieri si è tenuta a Milano, nell'ambito del Raduno Nazionale di EDIPI tuttora in corso, la presentazione del libro appena uscito di Kai Kjaer Hansen "Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico". Il libro, un'autentica novità nel panorama letterario italiano, merita non solo di essere letto, ma anche discusso e commentato in ambito sia cristiano sia ebraico. Ne presentiamo qui per intero la prefazione di Marcello Cicchese, di cui qualche settimana fa avevamo riportato soltanto qualche estratto.
| |
Joseph Rabinowitz (1837-1899)
|
Questo libro racconta la storia di un ebreo che si è convertito a Cristo. Formulata così, una frase simile provoca immediatamente due reazioni di tipo opposto: di accoglienza gioiosa fra i cristiani e di repulsione disgustata fra gli ebrei. Tenuto conto che per secoli cristianesimo ed ebraismo sono stati vissuti come due campi teologicamente e socialmente contrapposti, il passaggio di qualcuno da un campo all'altro, sempre nella stessa direzione, è stato considerato un tradimento dagli ebrei e una vittoria dai cristiani.
La storia di cui si parla in questo libro si svolge in modo diverso. Un ebreo russo, un vero ebreo di famiglia e tradizione, si converte a Cristo, come tanti altri prima di lui, ma il contesto dei due campi contrapposti in cui questo avviene è fortemente scosso in modo inusuale. E' bene dunque avvicinarsi a questo libro con curiosità e disponibilità a ripensare e mettere in discussione, se necessario, schemi mentali forse ben collaudati perché provenienti da una lunga tradizione, ma non adatti a capire l'imprevedibilità dell'agire di Dio.
Joseph Rabinowitz (1837-1899) è un nome pressoché sconosciuto in Italia. Nasce a Rezina, un piccolo paese della Bessarabia, attuale Moldavia, da genitori appartenenti entrambi a famiglie rabbiniche. Da ragazzo fu affidato per la sua formazione a uno zio materno, un pio e zelante ebreo appartenente ai chassidim, un devoto movimento ebraico molto diffuso a quel tempo nell'Europa dell'Est. Joseph imparò dallo zio a conoscere ed amare la Torà e il Talmud, ma durante l'adolescenza si familiarizzò anche con gli scritti di Moses Mendelssohn, famoso esponente dell'illuminismo ebraico e nonno del compositore Felix Mendelssohn Bartholdy. Le idee dell'ebraismo riformato fecero breccia nella mente vivace del giovane, e come lui stesso dichiarò in seguito, la chiarezza del pensare logico lo fece risvegliare dal sogno talmudico in cui era cresciuto. Pur essendo nato in una famiglia di rabbini e cresciuto in un ambiente chassidico, dall'età di 19 anni Rabinowitz diventò dunque un ebreo "illuminato", cioè aperto al mondo esterno, alla sua cultura e ai suoi costumi.
Il passaggio dallo chassidismo al libero pensiero potrebbe essere detta la prima conversione di Rabinowitz. Fu in questo periodo di travaglio che ricevette dalle mani di un altro ebreo, che in seguito diventerà suo parente, un Nuovo Testamento nell'edizione tradotta in ebraico dal noto teologo ed ebraista protestante Franz Delitzsch. Non si sa di preciso che cosa ne fece Rabinowitz negli anni seguenti, ma è quasi sicuro che nella sua nuova apertura mentale lo abbia letto, almeno in parte, se non altro per il desiderio di accrescere le sue conoscenze. E' certo comunque che non se ne distaccò mai, anche se per molti anni non diede alcun segno di essere stato convinto o influenzato dal suo contenuto.
Era un ebreo illuminato, ma ben presto arrivò a capire che le luci del progresso non avrebbero fugato le tenebre dell'odio contro gli ebrei: i pogrom che si susseguivano nell'Impero russo ne erano una continua e drammatica conferma. Rabinowitz allora non abbandonò il suo popolo, per cercare soluzioni personali ai suoi problemi. Al contrario, proprio la sua apertura mentale e la sua cultura lo spinsero a cercare per i suoi fratelli una via d'uscita dalla misera situazione in cui si trovavano, e si adoperò affinché questo avvenisse. Anche lui, come Herzl ma prima di lui, era "torturato" dal pensiero di trovare la soluzione della "questione ebraica".
Completò i suoi studi e diventò avvocato, cosa che a quei tempi era molto rara per un ebreo in Russia, e come tale si impegnò a difendere per quanto possibile le cause dei suoi correligionari. Volle migliorare il suo russo; studiò a fondo la legislazione della Bessarabia; pubblicò articoli sui giornali ebraici di Odessa; si mobilitò per favorire la creazione di scuole di Talmud-Torà affinché gli ebrei potessero studiare il russo e l'ebraico. Da tutti era considerato un "amico del popolo ebraico", anche dai religiosi, che pure certamente non condividevano le sue idee troppo aperte e moderne.
Nel novembre del 1881 fece domanda al governatore di Bessarabia di aprire una colonia agricola ebraica. Sperava che mediante l'onesto lavoro della terra si potessero alleviare le misere condizioni dei suoi fratelli ebrei, strappandoli dalla disperazione e anche dalla ricerca di equivoche soluzioni attraverso la manipolazione del denaro, cosa che aveva attirato il discredito su tutto il popolo ebraico. Alla fine del febbraio 1882 arrivò la risposta delle autorità: negativa. Nessuna autorizzazione, nessun fondo a disposizione per gli ebrei.
Dopo questa amara delusione decise, anche su pressioni di amici ed organizzazioni ebraiche, di fare un viaggio in Palestina. Il suo compito era di verificare se quella terra potesse essere il luogo in cui gli ebrei russi avrebbero potuto emigrare e trovare un'onorevole soluzione ai loro assillanti problemi di esistenza.
Partì, e - fatto importante - portò con sé il Nuovo Testamento che aveva ricevuto in dono.
Si mise dunque in viaggio verso la Terra Promessa. Dopo aver fatto tappa a Costantinopoli, arrivò a Giaffa nel maggio del 1882, lo stesso anno in cui gli Hovevei Zion (Amanti di Sion) fondavano Rishon LeZion, il primo insediamento ebraico in Palestina.
A Giaffa la sua prima impressione fu deprimente, e quelle successive ancora di più. Non gli ci volle molto per capire che la soluzione della questione ebraica non poteva trovarsi in Palestina. Gli sembrava anzi addirittura un imbroglio il tentativo di convincere gli ebrei a lasciare una posizione misera in Russia per emigrare in Palestina e trovarne un'altra ancora più misera. Tuttavia continuò il suo viaggio, avvertendo l'obbligo morale di rendere conto dei risultati della sua visita a coloro che ne erano a conoscenza e si aspettavano delle risposte.
Arrivò a Gerusalemme, e lì lo squallore della "città santa", a cui tutti gli ebrei rivolgono ogni anno il loro pensiero e indirizzano le loro speranze, non fece che aggravare il suo stato di abbattimento.
Una sera, poco prima del calar del sole, uscì a camminare per le vie di Gerusalemme. Triste e desolato, ripensando allo stato misero e senza speranza in cui si trovava il suo popolo, arrivò sul pendio del Monte degli Ulivi, non lontano dall'orto del Getsemani. E lì, proprio lì, vicino al luogo in cui Gesù aveva supplicato il Padre poco prima di morire, avvenne quella che in seguito sarà definita la sua conversione.
Stranamente, di questa sua conversione in seguito parlò molto poco, e quando ne veniva richiesto era sempre molto parco di parole. Come mai? Sulla base di quanto è avvenuto in seguito, si può azzardare una risposta: perché temeva che i suoi interlocutori cristiani non avrebbero capito. Vedremo più avanti il motivo.
La notizia della sua conversione si sparse prima di tutto in campo ebraico. E lì purtroppo avvenne quello che spesso avviene in questi casi: fu criticato, calunniato, disprezzato e bandito dalla vita della comunità ebraica.
Lentamente la notizia si sparse anche in campo cristiano. E anche lì avvenne quello che spesso avviene in questi casi: fu festosamente accolto, onorato come un eroe, sbandierato come un trofeo di guerra. Divenne anche oggetto di contesa tra diverse missioni che in quel tempo lavoravano tra gli ebrei: con collaudate armi diplomatiche "cristiane" si guerreggiò per stabilire a chi si dovesse attribuire il merito di una così importante conversione e a chi spettasse il diritto di "gestirne" i successivi sviluppi.
Nella zona di Kishinev, la cittadina in cui viveva Rabinowitz quando fece il suo viaggio in Palestina, lavorava da più di vent'anni un ecclesiastico luterano che svolgeva il compito di pastore per la piccola congregazione cristiana locale e per gli insediamenti tedeschi nella zona, oltre che di "cappellano di divisione" per i soldati luterani nell'esercito russo. Si chiamava Rudolf Faltin. Rabinowitz lasciò passare diversi mesi prima di decidersi a comunicargli la sua nuova fede in Gesù, e quando lo fece volle che l'incontro avvenisse in territorio neutro, cioè fuori da edifici ecclesiastici. Non voleva che la sua conversione a Cristo fosse intesa come un abbandono del suo popolo e un passaggio nel campo della società cristiana. In seguito si fece battezzare, ma volle dare al suo atto il significato di testimonianza a Cristo, non di inserimento in una denominazione cristiana già costituita. Il suo battesimo dunque avvenne in forma anomala, in una chiesa di Berlino, dove lui si trovava di passaggio, accompagnato da credenti che lo conoscevano personalmente, e dove probabilmente non sarebbe più tornato.
Torniamo allora al momento della sua suggestiva conversione a Gerusalemme. "Sul Monte degli Ulivi ho trovato Gesù" scrisse Rabinowitz a un suo amico qualche anno dopo. E tuttavia, quando Franz Delitzsch lesse la bozza della sua autobiografia gli fece notare che non aveva scritto nulla sul momento della sua conversione. Rabinowitz disse soltanto che la cosa era intenzionale. Perché questa reticenza? La storia di Gesù nei Vangeli dovrebbe far capire che in certi casi anche i silenzi parlano, ma chi non ha orecchie per udire non intende neanche quelli. Chi ascolta il racconto di una conversione spesso è desideroso di sentire quello che già si aspetta, che ha già sentito dire da altri, che forse lui stesso ha detto quando "ha dato la sua testimonianza". Probabilmente Rabinowitz aveva capito che se avesse detto in modo chiaro e preciso tutto quello che aveva sperimentato in quell'occasione, e soltanto quello, molti cristiani avrebbero detto che la sua non era una vera conversione.
Cerchiamo allora di ricostruire ciò che è essenziale dai frammenti che sono pervenuti e sono riportati nel libro. Il peso che gravava su Rabinowitz quando si trovava a Gerusalemme e camminava sul Monte degli Ulivi non era costituito dai suoi peccati personali, ma dalla misera, disperata condizione in cui si trovava il suo popolo in quel momento. Il problema del peccato gli salì alla mente, ma in quanto peccato del suo popolo. Il Muro del Pianto vicino a lui gli fece ricordare il passo di 2 Cronache 36:14-16, in cui il Signore annuncia la distruzione di Gerusalemme: "Tutti i capi dei sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, seguendo tutte le abominazioni delle nazioni; e contaminarono la casa dell'Eterno, ch'egli avea santificata a Gerusalemme. L'Eterno, Dio dei loro padri, mandò loro a più riprese degli ammonimenti, per mezzo dei suoi messaggeri, poiché voleva risparmiare il suo popolo e la sua propria dimora: ma quelli si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti". Il testo biblico poi continua con le parole che più di tutto colpirono Rabinowitz: "
finché l'ira dell'Eterno contro il suo popolo arrivò al punto che non ci fu più rimedio". Come colpito da un'improvvisa luce, comprese che le sofferenze degli ebrei e la desolazione della Palestina erano dovute al loro persistente rigetto del Cristo. Il rimedio doveva essere trovato in Lui.
Un uditore di uno dei pochi racconti che Rabinowitz fece della sua esperienza riporta per iscritto alcune parole:
«Improvvisamente una frase del Nuovo Testamento, che avevo letto 15 anni prima senza prestarvi attenzione, trafisse il mio cuore come un raggio di luce: 'Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi' (Giovanni 8:36)». Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, l'unico che salva Israele, prese forza sulla sua anima. Profondamente commosso, tornò immediatamente al suo alloggio, afferrò il Nuovo Testamento, e mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: '... senza di me non potete fare nulla' (Giovanni 15:5). In questo modo, per la provvidenza di Dio Onnipotente, fu illuminato dalla luce del Vangelo. 'Yeshua Achinu' (Gesù nostro fratello) rimase da allora lo slogan, con cui ritornò in Russia.»
La formula "Gesù nostro fratello" caratterizzò immediatamente la forma in cui la fede di Rabinowitz si manifestò in pubblico nei primi tempi. In ambito cristiano era indubbiamente nuova; qualcuno la trovò interessante, altri la criticarono, perché sembrava svalutare la grandezza del Signore Gesù. Quel "nostro" evidentemente si riferiva agli ebrei, e questo poteva apparire riduttivo ed esclusivo a chi non è ebreo. Qualcuno poi fece notare a Rabinowitz che non basta confessare Gesù come figlio di Davide, Messia e redentore d'Israele, bisogna riconoscere in Lui l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. A questo Rabinowitz arrivò molto presto; infatti le sue predicazioni in seguito conterranno sempre pressanti inviti al ravvedimento e alla fede in Gesù per il perdono dei peccati. Ma questo aspetto della salvezza per fede in Gesù, pur essendo fondamentale, non fu il primo a toccare Rabinowitz: come prima cosa per lui ci fu l'inaspettata scoperta dell'amore di Gesù per il suo popolo. Era venuto a Gerusalemme per trovare il modo in cui aiutare gli ebrei di Russia ad uscire dalla miseria senza vie d'uscita in cui si dibattevano, e non lo trovò. Ma trovò Gesù. Era venuto per alleviare le sofferenze dei suoi fratelli ebrei, e nel momento in cui disperava di poterlo fare trovò il "nostro fratello Gesù". Questo gli aprì la mente e il cuore, rendendolo attento a tutte le parole di Gesù, anche quelle che all'inizio non l'avevano colpito, cioè la sua morte, la sua risurrezione e il perdono dei peccati per tutti coloro che credono in Lui. Pochi anni dopo la sua conversione ebbe a dire: "Per prima cosa ho onorato Gesù come grande essere umano con cuore compassionevole, poi come colui che ha desiderato il bene del mio popolo, e alla fine come colui che ha portato i miei peccati".
In questo senso, la conversione di Rabinowitz, avvenuta negli stessi anni in cui si avviava il movimento del sionismo, ha valore di segno storico. Per secoli convertirsi a Cristo per un ebreo significava percorrere un cammino di allontanamento dal suo popolo: un cammino che alla fine doveva portare a un netto, doloroso distacco dalla comunità di origine. Il percorso di Rabinowitz è stato diverso: è l'amore per il suo popolo che gli ha fatto scoprire Gesù, facendogli trovare in Lui Qualcuno che gli ebrei possono chiamare "nostro fratello Gesù". Sul pendio del Monte degli Ulivi, Rabinowitz scoprì che Gesù ama il suo popolo, e in quel momento capì che soltanto in Lui si trova la soluzione definitiva della "questione ebraica". Questo cambiò radicalmente la sua vita.
La storia della conversione di Rabinowitz non ha il lieto fine che di solito si legge nei racconti missionari. Dopo pochi anni ci fu rottura irreparabile tra l'ebreo Rabinowitz e il luterano Faltin. Provare a dire chi avesse ragione è cosa ardua, e anche rischiosa, perché dal giudizio che si formula possono emergere inaspettati punti deboli della teologia di chi giudica. A entrambi gli uomini si può concedere di aver voluto sinceramente servire il Signore nel quadro della loro comprensione del messaggio evangelico, ma è proprio la società cristiana in cui si muoveva Faltin e in cui ha tentato di inserirsi Rabinowitz che ha fatto naufragio davanti all'emergere di un movimento spirituale inaspettato. E' stato il Signore a suscitarlo, ma il corpo dei credenti in Gesù non ha saputo riconoscerlo ed affrontarlo in modo adeguato perché si è fatto trovare teologicamente e spiritualmente impreparato.
Il gruppo che si era formato intorno alla predicazione di Rabinowitz prese il nome di "Israeliti del nuovo patto", ma non divenne mai una chiesa locale secondo il modello neotestamentario. Il motivo potrà sorprendere: perché in essa non si poteva battezzare. La singolarità di questa situazione fa emergere la gravità di una concezione teologica della chiesa che vive in osmosi con la società politica organizzata: in Russia il battesimo era un atto civile con il quale si diventava ufficialmente cristiani, e pertanto potevano amministrarlo soltanto persone autorizzate dal governo. Faltin aveva la licenza per battezzare, Rabinowitz no, nonostante ne avesse fatto regolare richiesta scritta. Un ebreo che si convertiva a Cristo poteva andare a farsi battezzare dal pastore Faltin, ma da quel momento cessava ufficialmente di essere ebreo e diventava un cristiano appartenente alla chiesa luterana. E questo, Rabinowitz non lo voleva assolutamente. «La soluzione della questione ebraica starebbe nel fatto che gli ebrei diventano luterani?» diceva polemicamente. Secondo lui, chiunque poteva andare a farsi battezzare da chi voleva «... e diventare luterano, russo o romano, ma il mio popolo, il mio gruppo, quello che il governo mi ha permesso di fondare, non può e non deve diventare tedesco, russo o romano! Non hanno nessun motivo per diventare qualcosa d'altro: loro sono ebrei, il mio popolo è Israele».
Dopo la rottura con il pastore luterano, Rabinowitz non perse totalmente l'appoggio delle chiese e delle missioni estere. Aiuti finanziari continuarono ad arrivargli da varie parti per la prosecuzione della sua opera di evangelizzazione tra gli ebrei. Questo però non sembra aver contribuito ad un sano sviluppo del nuovo movimento: i soldi, che pure sono importanti per molte cose, in campo spirituale spesso si rivelano essere una trappola tremenda.
Per concludere, bisogna dire che questo libro non è certamente il primo a raccontare la storia di Joseph Rabinowitz. Anzi, l'autore prende in esame, analizza e confronta testi di una letteratura già estesa sull'argomento. Per questo non sempre risulta di facile lettura, ma sempre di enorme interesse, perché solleva quasi ad ogni pagina problemi che richiedono una valutazione e spingono alla riflessione. E' un libro problematico, perché tocca problemi di comprensione della Scrittura che a quel tempo non erano stati affrontati e tali sono rimasti ancora oggi in larga parte della cristianità che pigramente si adagia su posizioni di una tradizione che nei casi migliori ha escluso o emarginato Israele e in quelli peggiori l'ha additato come centro di tutti i mali. Lo scossone che sarebbe potuto venire da una lettura attenta ed umile del testo biblico è arrivato invece attraverso uomini che non a caso, ancora una volta, sono ebrei. Nel movimento degli "Israeliti del nuovo patto" di Kishinev erano già presenti tutti i temi di discussione e i problemi di identità che si ritrovano oggi nel movimento degli ebrei messianici, in Israele e nel mondo.
Quanto a Joseph Rabinowitz, conviene ricordarlo con le parole di una dichiarazione che fece nel 1888: «Ho due soggetti che mi assorbono interamente: uno è il Signore Gesù Cristo, l'altro è Israele».
Kai Kjaer Hansen, "Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico", traduzione di Fiorella Ghirlanda, revisione di Nicla Costantino, ed. The New Thig - Padova, maggio 2017 - pp. 304, € 25,00.
(Notizie su Israele, 3 giugno 2017)
Il Conte L. Serristori e gli israeliti del Regno di Napoli
di Tommaso Todaro
Il conte Luigi Serristori (1793-1857), militare e uomo politico toscano, ricoprì diversi incarichi amministrativi e di governo alla corte di Leopoldo II.
Egli pubblicò nel 1839 un corposo volume dal titolo "Statistica dell'Italia" per i tipi della Stamperia Granducale di Firenze.
La seconda edizione, dalla quale sono ripresi i dati appresso illustrati è stata stampata, sempre in Firenze, nell'anno 1842.
Serristori ha classificato la popolazione dei vari Stati italiani, ove i dati raccolti glielo consentivano, per classi di età, condizione domestica (coniugati, scapoli, vedovi), origine (sudditi o stranieri) e religione.
In quest'ultimo caso, operando una distinzione tra cattolici, Israeliti e acattolici.
Nel "ramo ecclesiastico" di ciascuno Stato si è minuziosamente dilungato su diocesi, chiese, parrocchie, abbazie, conventi, seminari e quant'altro.
Il quadro riepilogativo delle superfici e popolazioni, dedotte dai dati pubblicati per i vari Stati italiani, è quello appresso riportato.
Nell'ultima colonna è indicata la popolazione ebraica residente.
STATO
|
Superficie
|
Popolazione 1839
|
Anno di riferimento popolaz.
|
Popolazione ebraica residente nel 1839
|
miglia italiane di 60 a grado
|
assoluta
|
relativa (ab/miglio q.)
|
Regno Lombardo-veneto
|
Non indic.
|
Non indic.
|
Non indic.
|
Non indic.
|
6.900
|
Regno di Sardegna (terraferma)
|
14.989,00
|
4.125.000
|
274
|
1.839
|
4.140
|
Ducato di Parma
|
1.712,00
|
465.673
|
272
|
1.833
|
630
|
Ducato di Modena
|
1.629,00
|
474.524
|
291
|
1.836
|
2.654
|
Ducato di Lucca
|
320,00
|
168.198
|
525
|
1.839
|
0
|
Granducato di Toscana
|
6.464,00
|
1.436.000
|
222
|
1.836
|
7.066
|
Stati pontifici
|
12.120,00
|
2.732.000
|
225
|
1.833
|
12.700
|
Regno delle Due Sicilie (terraferma)
|
23.100,00
|
6.141.895
|
266
|
1.839
|
0
|
Isola di Sicilia
|
7.787,20
|
1.954.795
|
251
|
1.839
|
0
|
Isola di Corsica
|
2.850,00
|
207.886
|
72
|
1.836
|
0
|
Isola di Sardegna
|
8.228,57
|
524.633
|
63
|
1.838
|
0
|
Totali
|
79.199,77
|
18.230.604
|
Media 246
|
1.839
|
34.090
|
Nota. La misura del miglio geografico in uso all'epoca nei vari Stati italiani, era di Km 1,85 (arrotondato) e del miglio quadrato di Kmq 3,4225 (Ferdinando Visconti - Del sistema metrico
Napoli, 1838).
Dai numeri esposti si deduce che la popolazione israelita residente in Italia nel 1839 rappresentava l'1,87 per mille di quella totale (1,87 Israeliti per ogni mille abitanti).
Comprendendo gli "ambulanti", il numero totale ascendeva a circa 40.000 individui. «Può ritenersi per vero, che circa 40 mila Israeliti vivano attualmente nella Penisola Italiana, calcolando quelli ambulanti» (pag. 371).
Nel Regno delle Due Sicilie non si contavano Israeliti residenti. «Non vi sono Israeliti domiciliati, ma solamente ambulanti, in specie in Napoli. Non esistono Sinagoghe autorizzate, ma soltanto un Campo-santo presso Napoli. Dopo l'espulsione avvenuta, regnando Carlo III, gl'Israeliti non sono che tollerati in questi dominj. Nelle isole di Sicilia, Sardegna e Corsica non vi sono Israeliti domiciliati.» (pag. 371)
In un'altra breve nota riferisce che «Circa l'anno 1740 Carlo III pubblicò un Editto in favore degl'Israeliti in forza del quale fu loro permesso di ritornare nel Regno, di esercitarvi liberamente il loro culto, e di domiciliarsi, ove loro più convenisse. Un gran numero di Ebrei refluì infatti verso questi dominj, ma sette anni dopo ne furono scacciati, il popolo mal tollerando quelle genti. Al presente non sonovi Ebrei, che in piccol numero, isolatamente stabiliti, essendo tuttora loro vietato di costituirsi in comunità: si fanno ascendere a circa 2 mila» (pag. 264).
Per contro i 47.210 religiosi (26.304 preti, 11.394 frati e 9.512 monache), distribuiti in 86 diocesi, rappresentavano il 2,59% della intera popolazione del Regno delle Due Sicilie, ossia un religioso per ogni 2,6 abitanti.
Riguardo ai residenti di "culto evangelico", la breve nota a pag. 264 riferisce che «Non esistono Chiese, o Tempj propriamente detti, non essendovi che cappelle presso le Legazioni estere, e presso i Consolati, delle quali il Governo non prende particolare notizia. Due Cappellani Protestanti pagati dal R. Erario sono addetti ai quattro Reggimenti Svizzeri capitolati».
Nel 1839 si contavano nel Regno solo 830 protestanti residenti di cui 270 anglicani e 560 di lingua francese e tedesca.
Il complesso degli Stati italiani, escludendo il Lombardo-Veneto, comprendeva invece 24 mila tra riformati e Greci non uniti, dei quali «20 e più mila Valdesi del Piemonte».
Rav Flaminio Servi (1841-1904), negli "Israeliti d'Europa" (Torino, 1871), accenna alla "Statistica comparativa della popolazione israelitica d'Italia" del Serristori, commentando che «Non sappiamo in qual modo l'egregio autore venisse a conoscere la popolazione israelitica d'Italia, ma egli è certo che in tutti gli Stati (meno in quello delle Due Sicilie) si approssimò al vero» (pagg.279-304).
Non dà però alcuna spiegazione sul perché ritenesse inattendibile il dato sugli Israeliti delle Due Sicilie.
Raffaele Mastriani ha lungamente recensito il lavoro del Serristori sulla "Statistica del Regno delle Due Sicilie - Domini di qua del Faro" (la settima e penultima dispensa dell'opera pubblicata dal Serristori - 1839) - "Annali Civili del Regno delle Due Sicilie", Vol. XXI, Settembre/Dicembre 1839).
Egli definisce l'opera di Serristori una «lodevole impresa da lui per il primo ideata, e per la quale non ha perdonato né fatiche né spese né diligenza, ma se dobbiamo giudicarne dalla parte da noi ora tolta in disamina, non sembra che abbia egli raggiunto il difficile scopo».
Pur tuttavia, per evidenti ragioni di orgoglio nazionale, lamenta inesattezze, moltissime lacune e discordanze, nulla scrivendo però sulla eventuale presenza e condizioni degli Israeliti nel Regno.
Dell'opera del Serristori fanno menzione anche gli "Annali di statistica, di economia pubblica, ecc. - Bollettino di notizie italiane e straniere
" stampato a Milano - fascicolo di Dicembre 1843, che ripropone il quadro numerico degli Israeliti in Italia, senza aggiungervi alcun commento.
Il Regno di Napoli non è mai stato tenero con gli ebrei. Precorrendo la politica razziale della Germania nazista, Re Ferdinando III di Spagna "cognominato il Cattolico", nel 1506 ordinò che tutti gli ebrei portassero sugli abiti un segno distintivo di colore rosso.
L'espulsione degli Israeliti dal Regno di Napoli avvenne a seguito del bando firmato a Madrid il 2 novembre 1510 e pubblicato a Napoli il successivo 23 novembre.
Si è trattato di un esodo forzato i cui effetti cessarono con l'entrata in Napoli di Garibaldi e l'unificazione dell'Italia sotto i Savoia. Ma questa è storia conosciuta.
Polverizzati i Borboni, annichilito Mussolini ed esiliati i Savoia firmaioli delle nefandezze razziali mussoliniane, rimane ancora il Italia un profondo strascico antisemita mascherato dal più becero antisionismo.
Un signore dalle lontane radici comuniste ebbe a dirmi una volta che gli ebrei in terra di Palestina erano degli abusivi, manifestando rammarico per l'insuccesso degli arabi che più volte avevano tentato di ricacciarli in mare.
Il politically correct non consente a molti amministratori dell'ex Regno delle Due Sicilie di sostenere apertamente quella tesi ma rimediano appoggiando iniziative come la Freedom Flotilla e conferendo o proponendo la cittadinanza onoraria a riconosciuti criminali antisemiti come Marwan Barghouti e Bilal Kayed, adottando politiche di "boicottaggio, disinvestimento e sanzione" contro lo Stato di Israele e via dicendo.
I secoli fluiscono veloci, passano uomini, regni, imperi e governi ma l'animosità contro gli Israeliti rimane una costante.
(Nuovo Monitore Napoletano, 3 giugno 2017)
L'ambiguo ruolo di Mosca nella guerra arabo-israeliana del 1967
Il conflitto inevitabile, l'ambizione di Nasser, i fini sovietici
di Antonio Donno
Il 14 maggio 1967 le forze egiziane furono messe nel più alto stato di allerta. Nello stesso giorno, il capo di stato maggiore egiziano, il generale Muhammad Fawzi, si recò a Damasco per coordinare una risposta all'imminente attacco delle forze israeliane, ma dovette constatare con sorpresa che non v'era alcuna mobilitazione israeliana ai confini meridionali della Siria. L'allarme che Mosca aveva dato ai siriani sulla concentrazione di Forze armate di Israele lungo la linea del Golan era falsa. Lo stesso Fawzi scrisse nelle sue memorie: "Da quel momento in poi, cominciai a pensare che l'informazione circa la concentrazione di truppe israeliane lungo il confine siriano non fosse la sola o la principale causa del dispiegamento militare che l'Egitto stava effettuando con tanta rapidità". Le esplicite affermazioni di Fawzi sarebbero sufficienti a chiudere il discorso sulle responsabilità arabe nello scoppio della guerra del 1967. Lo scrive Efraim Karsh, ora direttore del Begin-Sadat Center for Strategie Studies di Tel Aviv in un lungo articolo pubblicato il 19 maggio scorso sul sito del Besa Center. Dunque, Mosca aveva dato agli arabi un'informazione sbagliata. Perché? E' possibile che Mosca avesse accertato una realtà inesistente o Mosca aveva tutto l'interesse a spingere i suoi alleati arabi a un'ennesima guerra contro Israele? L'unico dato vero nella situazione di quel tempo - c'è da aggiungere - è che l'Unione sovietica era interessata a dare sostanza, anche militare, alla sua alleanza con alcuni paesi arabi che si definivano alquanto enfaticamente esponenti di un sedicente "socialismo arabo". Nel fare questo passo, Mosca si accollava una responsabilità pesantissima, anche in considerazione del terribile smacco politico che avrebbe guadagnato in caso di sconfitta dei suoi alleati. I sovietici si fidavano dei possenti aiuti militari che avevano dato a egiziani e siriani e si fidarono - ingenuamente, è il caso di dire - degli arabi. Il risultato fu catastrofico, sia militare per gli arabi, sia politico per Mosca.
Nasser fu informato da Fawzi, ma ignorò l'informazione. Il dado era ormai tratto. Nasser aveva l'ambizione, coltivata da molto tempo, di divenire il raìs incontestato del mondo arabo e i sovietici erano completamente d'accordo. Il blocco siro-egiziano vincente, sotto l'ombrello sovietico, avrebbe messo a mal partito i paesi arabi filo-occidentali (Giordania e Arabia Saudita), messo alle strette gli Stati Uniti e rimodulato l'assetto del medio oriente a favore dei sovietici e dei loro alleati arabi. Vera o falsa che fosse l'informativa sovietica, era il momento di vendicare la sconfitta del 1948 e quella del 1956 da parte di Israele. La guerra, perciò, era inevitabile, perché gli arabi, e Nasser in particolare, la volevano. In un editoriale di al Ahram del 26 maggio, il direttore scriveva a chiare lettere che la guerra era inevitabile e che Nasser prevedeva che Israele avrebbe attaccato entro le quarantotto-sessantadue ore; qualche giorno prima, il 22 maggio, in un discorso pubblico, Nasser aveva dichiarato: "Il nostro principale obiettivo sarà la distruzione di Israele. [
] Allah ci aiuterà certamente a ripristinare lo status quo antecedente il 1948".
Purtroppo per gli arabi - e per i sovietici, che però non credevano in Allah - le cose non andarono così. Lo scrittore egiziano Naguib Mahfouz, premio Nobel nel 1988- riferisce, a questo proposito, Karsh - ha scritto: "Quando Nasser tenne pomposamente la sua famosa conferenza-stampa, prima della guerra del giugno 1967, credetti che la vittoria su Israele fosse garantita. La ritenni una semplice passeggiata verso Tel Aviv, di ore o al massimo di giorni, perché ero convinto che saremmo divenuti la più grande potenza militare in tutto il medio oriente".
(Il Foglio, 3 giugno 2017)
Le Scarpe sulla Riva del Danubio
il Toccante Memoriale sullOlocausto degli Ebrei di Budapest
di Annalisa Lo Monaco
Sulle rive del Danubio, a Budapest, non lontano dal palazzo del Parlamento Ungherese, sono allineate sessanta paia di scarpe dallaria vissuta, che ricordano la moda degli anni 40. Ci sono scarpe da donna, da uomo e da bambino, lasciate lì, vicino allacqua, abbandonate in modo disordinato, come se i loro proprietari se le fossero appena tolte.
(Vanilla Magazine, 3 giugno 2017)
Si fingono musulmani moderati, ma escludono Israele
Al summit dell'Africa Occidentale
di Carlo Nicolato
Andò meglio lo scorso anno a Benjamin Netanyahu quando, primo premier israeliano dopo tanti anni in viaggio d'affari in Africa, incontrò con successo i leader di Rwanda, Uganda, Kenya ed Etiopia, tutti Paesi a maggioranza cristiana.
Con in mano un pacchetto di collaborazioni su agricoltura e lotta al terrorismo, quest'anno Netanyahu ha ritentato la sorte facendosi invitare al vertice dell'Ecowas, la Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale, che si tiene domani a Monrovia, in Liberia, ma si è rivelato un azzardo.
Netanyahu contava sui buoni rapporti con il presidente dell'Ecowas, Marcel Alain de Souza del Benin, o su quelli con la Guinea, con la quale ha da poco riallacciato rapporti ufficiali.
Ma non aveva fatto i conti con gli altri Paesi a maggioranza musulmana che compongono la Comunità. Tra i quali il Mali, la Mauritania, la Nigeria, che hanno ridotto al minimo le loro delegazioni, e il Senegal che l'ha ritirata.
Israele e Senegal sono ai ferri corti da qualche mese, da quando lo scorso dicembre il Paese africano ha votato a favore di una risoluzione delle Nazioni Unite contro la colonizzazione dei territori palestinesi occupati, provocando l'immediata reazione di Tel Aviv che ha di conseguenza ritirato il suo ambasciatore e annunciato la cancellazione di tutti gli aiuti a Dakar. Va ricordato che il Senegal viene ritenuto un Paese musulmano tra i più moderati, così come il Marocco, che è anzi quello moderato e filo-occidentale per eccellenza, e oltretutto l'invitato d'onore di questa 51esima sessione dell'Ecowas, convocata proprio per celebrare il «sì» alla domanda di adesione di Rabat alla Comunità. All'assemblea infatti avrebbe dovuto presenziare perfino re Mohammed VI, il quale tuttavia, vista la nefasta quanto inaspettata presenza del premier israeliano, nemico giurato tra le altre cose dell'amicissimo Senegal, ha preferito declinare.
L'assemblea decimata dovrà dunque votare l'adesione del Marocco senza il re del Marocco, che onora in questo modo la sua rinomata moderazione islamica, confermata dal suo ministro degli Esteri che ha giustificato la regale assenza con queste parole: il mio sovrano «vuole evitare di intervenire in un contesto di tensione e di controversia e desidera evitare qualsiasi promiscuità e confusione».
In realtà il laico e moderato Marocco con Israele non è mai stato moderato, tanto da avere interrotto le relazioni diplomatiche ufficiali con Tel Aviv da ben 17 anni. Dal 1975 invece il re marocchino presiede il Comitato Al-Quds (nome di Gerusalemme in Arabo) fondato appunto per sostenere la causa Palestinese contro Israele.
(Libero, 3 giugno 2017)
Il trauma del '67 inquieta Israele
Cinquantanni dopo la guerra dei sei giorni la pace resta un rischio: per questo non bisogna isolare lo stato ebraico.
di Yossi Klein Halevi
Nelle prossime settimane si prevedono accesi dibattiti attorno al 50o anniversario della Guerra dei sei giorni, che iniziò il 5 giugno del 1967, e durante la quale Israele sconfisse tre eserciti arabi per poi occupare la Cisgiordania, le alture del Golan e il deserto del Sinai. Ci saranno celebrazioni in Israele per commemorare la riunificazione di Gerusalemme, il cuore pulsante delle speranze e delle preghiere degli ebrei durante duemila anni di esilio. E ci saranno anche dibattiti e riflessioni sul futuro di Israele.
Il ricordo di quella guerra del 1967, nella memoria della comunità internazionale, ha inizio con la vittoria di Israele e la straordinaria dimostrazione di valore militare da parte dell'esercito israeliano che avrebbero trasformato l'intero Medio Oriente.
Tuttavia, per capire appieno l'impatto della guerra sulla psiche israeliana, occorre tornare ancora più indietro, alle settimane che precedettero il conflitto armato. Mentre si interrogano sul futuro della Cisgiordania, gli israeliani ricorderanno non solo la vittoria del giugno 1967, ma soprattutto la sensazione dolorosa di estrema ansia e vulnerabilità che precedette la guerra.
Conto alla rovescia
Il conto alla rovescia verso le ostilità prese avvio a metà maggio, quando il presidente egiziano Gamal Abdul Nasser decretò la mobilitazione di decine di migliaia di soldati verso i confini di Israele. Nasser ordinò alle forze di pace delle Nazioni Unite di ritirarsi e, cosa sorprendente, l'Onu obbedì senza neanche convocare il Consiglio di sicurezza. Subito dopo Nasser ordinò il blocco navale degli Stretti di Tiran, la via marittima a sud di Israele, per poi firmare accordi militari con la Siria e la Giordania.
Pretesto dell'aggressione araba non fu affatto l'occupazione territoriale, difatti la Cisgiordania era controllata dalla Giordania e Gaza dall'Egitto, bensì l'esistenza stessa di uno Stato ebraico. I leader arabi dichiararono che la distruzione di Israele era imminente.
Tutti gli israeliani e gli ebrei spaventati e ansiosi in giro per il mondo rimasero scioccati nel rendersi conto che l'Olocausto non aveva segnato la fine del genocidio contro gli ebrei, ma che il pericolo si era semplicemente spostato dall'Europa al Medio Oriente. E ancor più scioccati furono davanti alla scoperta che Israele avrebbe dovuto affrontare quella minaccia da solo.
La straordinaria vittoria israeliana lasciò sbalordito il mondo intero, e persino gli israeliani stessi. Lo stato ebraico uscì dalla Guerra dei sei giorni con un territorio tre volte più grande rispetto alle dimensioni precedenti.
Più tardi, Israele restituì all'Egitto il territorio più vasto conquistato, il deserto del Sinai, a seguito del trattato di pace tra i due Paesi siglato nel 1979. Per quel che riguarda le Alture del Golan, sottratte alla Siria, la maggioranza degli israeliani concorda nel ritenere che con ogni probabilità resteranno a far parte del territorio di Israele, sia per l'implosione dello Stato siriano che per la presenza dell'Isis e di altri gruppi terroristici operanti sul confine tra Siria e Israele.
La Cisgiordania
Il futuro resta invece incerto per la Cisgiordania, l'ultimo territorio conquistato nella Guerra dei sei giorni. Per Israele, è un dilemma assai spinoso. Se annette il territorio e assorbe al suo interno i diversi milioni di palestinesi che vi abitano, Israele sarà prima o poi costretto a scegliere se essere uno Stato ebraico o uno Stato democratico, due aspetti fondamentali della sua identità. Se concede ai palestinesi il diritto di voto, dovrà rinunciare alla maggioranza ebraica. Se nega il voto ai palestinesi, perderà la sua vocazione democratica.
Ma il ritiro da quelle terre nasconde rischi non meno allarmanti. Il ritorno ai confini precedenti al '67 rischia di esporre l'area metropolitana di Tel Aviv alla minaccia degli attacchi missilistici palestinesi dalle colline della Cisgiordania. Gli israeliani temono inoltre che dopo il ritiro, il gruppo fondamentalista e terroristico di Hamas prenda il controllo del territorio, come già accaduto a Gaza. A quale Stato mediorientale assomiglierebbe allora la Palestina: alla Siria? al Libano? all'Iraq? alla Libia?
Gli israeliani sono tormentati da due incubi. Il primo è che non ci sarà mai uno Stato palestinese e lo stallo si protrarrà all'infinito. Il secondo è che ci sarà uno Stato palestinese e Israele si ritroverà a vivere, anche se in modo diverso, la precarietà e l'insicurezza del maggio 1967.
Per coloro che appoggiano il ritiro, il ricordo della vittoria del giugno 1967 fornisce la prova schiacciante che persino nel peggiore dei casi Israele sarà in grado di difendersi. Per coloro che si oppongono al ritiro, il trauma del maggio 1967 resta un avvertimento che Israele potrebbe ritrovarsi nuovamente abbandonato e costretto ad agire da solo.
Il futuro
I pessimisti ammoniscono che ben poco è cambiato negli atteggiamenti del mondo arabo nei confronti di Israele. Avvertono che in un Medio Oriente in disfacimento, le garanzie internazionali sulla sicurezza di Israele come parte di un accordo per il ritiro dalla Cisgiordania non avranno alcun valore. Gli ottimisti, in Israele, controbattono che la Guerra dei Sei giorni ha contribuito a trasformare un piccolo Stato agrario e marginale di appena tre milioni di abitanti nella potenza tecnologica di oggi. Il Paese creato nel giugno '67 deve liberarsi dai traumi di quello del maggio '67.
La comunità internazionale, tuttavia, spesso rafforza le tesi dei pessimisti. La legittimità di Israele resta una questione aperta nel mondo islamico e sempre di più anche in alcuni settori dell'opinione pubblica occidentale. Quando gli israeliani si sentono assediati. di solito reagiscono irrigidendosi. Quando si sentono benvoluti, ecco che abbassano la guardia. Come quando, dopo la Guerra del Golfo del 1991 e la caduta dell'Unione Sovietica, decine di Paesi dell'Europa dell'Est, dell'Africa e dell'Asia riconobbero lo Stato ebraico e l'Onu si rimangiò la risoluzione sul sionismo come forma di razzismo. Israele reagì dando avvio al processo di pace di Oslo con i palestinesi.
Il modello è chiaro: umiliate e isolate Israele, e il Paese ripiomberà nel terrore del maggio 1967- Accogliete Israele nella comunità internazionale e i suoi cittadini si sentiranno pronti ad agire con la fiducia dei vincitori, capaci di affrontare ogni rischio per la pace.
(Corriere della Sera, 2 giugno 2017 - trad. Rita Baldassarre)
Gal Gadot: «La mia Wonder Woman moderna femminista che non odia gli uomini»
La bella attrice israeliana nel ruolo dell'eroina diventata un simbolo della lotta delle donne. Diretta da Patty Jenkins, la pellicola è nelle sale. Nel cast anche Robin Wright.
di Matteo Ghidoni
LOS ANGELES - Il personaggio di Wonder Woman è un'icona femminista, nata dalla penna di William Moulton Marston, nel 1941. Sin dalla sua creazione, la supereroina della DC Comics è diventata il simbolo dell'emancipazione femminile e del riscatto di quello che una volta era considerato il sesso debole. Da allora i tempi e i canoni estetici sono cambiati. Se nella tv degli anni '70, il volto dell'amazzone più forte al mondo era quello di Linda Carter, oggi a portare in scena Diana Prince è un'attrice il cui fascino e la cui freschezza, si dimostrano al passo con i tempi. L'attrice israeliana Gal Gadot è una cascata di qualità: bella, atletica, volto ingenuo e modi garbati. Veste la micro-tutina di Wonder Woman senza malizia, risultando proprio per questo ancora più sensuale. Il film della regista Patty Jenkins, da ieri nelle sale italiane (in Libano è stato boicottato) vede nel cast anche Chris Pine e la First Lady di House of Cards Robin Wright, ma la protagonista assoluta resta lei, la bellissima Gal Gadot.
- È fiera del fatto che Wonder Woman sia considerata un'icona femminista'?
«Sicuramente sì. Credo però che vada specificato cosa s'intende per femminismo. Ho notato che spesso ci si dichiara femministi in modo difensivo, anche le donne lo fanno. Si dovrebbe trattare di una scelta di libertà e uguaglianza, proprio come quella di Diana. È cresciuta su un'isola di sole donne, ma quando entra in contatto con gli uomini per la prima volta, li considera esattamente uguali a lei. Ognuno ha i propri limiti e le proprie qualità».
- Ha incontrato Linda Carter? Le ha dato qualche consiglio su come interpretare Wonder Woman?
«Ho incontrato Linda a New York, alle Nazioni Unite. E mi sono resa conto del perché avevano scelto lei per interpretare la prima Wonder Woman televisiva. Emana un'energia molto forte. È divertente, intelligente, furba e anche irriverente. Linda non mi ha dato consigli specifici, ma c'è stato un momento in cui mi ha passato una biro. L'ho vissuto come una specie di passaggio del testimone, è stato molto importante per me. Ho conservato quella penna».
- Lei è israeliana e ha fatto il servizio militare. Le è tornata utile la sua esperienza nell'esercito'?
«Nell'esercito mi addestravo ai combattimenti, ma il modo in cui ho dovuto recitare e i movimenti di Wonder Woman, non hanno niente a che vedere con quello che ho imparato facendo il militare».
- Quindi ha dovuto fare allenamenti specifici per questo fìlm?
«Ho cominciato a prepararmi sei mesi prima di iniziare le riprese. Ho fatto molta ginnastica in palestra, combattimenti, coreografie acrobatiche e anche diverse ore a cavallo».
- Era appassionata del fumetto originale di Wonder Woman'?
«In realtà non sono mai stata una fan dei fumetti. Quando mi hanno dato la parte però, ho iniziato a leggerne tantissimi. Il punto è che ci sono centinaia di versioni di Wonder Woman, e non puoi portarle in scena tutte. Ti devi concentrare su un solo arco temporale. Mi sono rimessa principalmente allo script, dopo averne parlato a lungo con Patty Jenkins».
- Come è stato venire diretta da una donna'?
«Non una donna qualsiasi. Dal momento in cui è stata scelta per la regia di questo film, ha avuto un'idea molto chiara su come avrebbe voluto che si sviluppasse la storia. È adorabile e intelligente, inoltre è stata operatrice per anni e sa come creare intimità con i suoi attori».
- Qual è stata la sfida più grande nel girare questo film?
«A essere sincera, è stato il gelo. Soprattutto nelle scene girate a Londra durante l'inverno, non è stato facile indossare sempre quel piccolo costumino. Sei giorni a settimana, per sei mesi, senza soste. Però l'energia all'interno del cast era così alta che un po' mi ha riscaldata».
- La prima parte del film è ambientata a Themyscira, l'isola abitata dalle amazzoni, non ci sono uomini attorno. Come è stato girare quelle scene?
«Una cosa del genere non si era mai vista, nel film combatte un intero esercito di donne. Davvero unico. Dietro le telecamere, è stato altrettanto epico. Mentre noi ragazze lavoravamo, si aggirava per questo paesino italiano (ndr Matera), un esercito di papà con i passeggini, che aspettava che le mogli finissero di girare le loro scene. È stato come vivere l'inizio di una nuova era».
(il Giornale, 2 giugno 2017)
Tel Aviv, 4-5 giugno, celebrazioni per la Festa della Repubblica
Iniziative dell'ambasciata d'Italia in Israele. Parteciperà il Presidente Reuven Rivlin.
TEL AVIV - Nell'ambito delle celebrazioni per la Festa della Repubblica 2017, l'ambasciata d'Italia in Israele, l'Istituto italiano di cultura, Ice Agenzia e la Camera di Commercio Israele-Italia, promuoveranno tre eventi riguardanti la cultura, la scienza e la musica. Lo riferisce un comunicato dell'ambasciata d'Italia a Tel Aviv. Gli eventi, previsti il 4 e 5 giugno prossimi, vedranno la partecipazione del presidente israeliano, Reuven Rivlin, e l'esibizione del cantante Idan Raichel. La sera di domenica 4 giugno è in programma, su inviti nominali, l'annuale ricevimento che si svolgerà presso la residenza dell'ambasciatore d'Italia, Francesco M. Talò. Quest'anno sarà eccezionalmente presente il presidente dello Stato d'Israele, Reuven Rivlin, oltre ai consueti ospiti del mondo istituzionale, dell'impresa e della cultura, si legge nel comunicato. Il cantante Idan Raichel regalerà qualche emozione con alcune delle sue canzoni. L'impatto ambientale del ricevimento sarà compensato dalla piantumazione di 120 alberi grazie alla collaborazione con il Kkl, proprio nel giorno della Giornata mondiale dell'ambiente. Dall'Italia verrà anche un pizzaiolo acrobatico. Il municipio di Tel Aviv si colorerà per l'occasione del tricolore, prosegue il comunicato.
(Agenzia Nova, 1 giugno 2017)
Malessere attorno a un nuovo studio sugli ebrei respinti dalla Svizzera
Una tesi di dottorato sostenuta a Ginevra illustra il tragico percorso di migliaia di ebrei che durante la Seconda guerra mondiale volevano lasciare la Francia per rifugiarsi in Svizzera. Si tratta di una questione estremamente sensibile nella Confederazione, già confrontata con la vicenda dei fondi in giacenza. Per il momento, soltanto i membri del comitato di esperti hanno potuto leggere lo studio nel dettaglio. Sollecitato da swissinfo.ch, uno di loro ha accettato di commentarlo per sottolinearne l'importanza, come pure le debolezze.
di Frédéric Burnand
«La mia ricerca offre un quadro molto più chiaro di quante persone sono fuggite e delle loro storie»
Ruth Fivaz-Silbermann
|
«È un accumulo di fatti, una cronaca un po' confusa senza una reale visione sintetica, senza un'analisi strutturata»
Hans-Ulrich Jost
|
GINEVRA - Un mattone di 938 pagine, frutto di 19 anni di ricerche. È la tesi intitolata "La fuga in Svizzera. Migrazioni, strategie, fuga, accoglienza, respingimento e destino dei rifugiati ebrei giunti dalla Francia durante la Seconda guerra mondiale», difesa alcuni giorni fa da Ruth Fivaz-Silbermann all'Università di Ginevra.
«La mia ricerca offre un quadro molto più chiaro di quante persone sono fuggite e delle loro storie: da dove venivano, perché fuggivano e in che modo? Tutti hanno potuto partire? Quali erano i pericoli?», precisa l'autrice.
Membro del comitato di esperti, lo storico Hans-Ulrich Jost rileva innanzitutto le nuove informazioni fornite dalla tesi. Tra queste: l'evocazione dei destini personali ricostituiti dalla ricercatrice, le somme considerevoli versate durante la loro fuga e il ruolo delle associazioni che si sono mobilitate in favore di questi ebrei che tentavano di fuggire dalla politica sterminatrice dei Nazisti adottata in tutta l'Europa occupata.
Hans-Ulrich Jost sottolinea inoltre la natura mansueta di una parte degli agenti francesi, descritta nella tesi, malgrado l'adesione del governo del maresciallo Pétain alla macchina omicida antisemita del Terzo Reich. Un'evocazione dettagliata e sensibile che permette di mettere dei volti e dei destini su una realtà troppo spesso ridotta a delle statistiche.
Metodo discutibile
La tesi validata dall'Università di Ginevra è tuttavia oppugnabile sul piano scientifico e metodologico, secondo Hans-Ulrich Jost. «È un accumulo di fatti, una cronica un po' confusa senza una reale visione sintetica, senza un'analisi strutturata», sanziona il professore onorario, il quale ha dedicato una parte importante delle sue ricerche a questo periodo nero della storia europea e quindi svizzera.
Una critica che non sorprende Marc Perrenoud, un altro storico che dagli anni '80 lavora sulla situazione degli ebrei in Svizzera. Perrenoud non ha potuto leggere la tesi non pubblicata di Ruth Fivaz-Silberman, ma conosce bene i suoi precedenti lavori sullo stesso tema. «Contengono informazioni importanti sui percorsi individuali e sull'atteggiamento umanitario», dice lo storico. Tuttavia, prosegue, l'accumulo di questi fatti non basta per strutturare delle analisi storiche valide, poiché bisogna mettere questi fatti in un contesto più ampio e tener conto di altri fattori.
Autorità svizzere a lungo anti-ebrei
Queste mancanze portano la ricercatrice a formulare interpretazioni alquanto contestabili. Come riportato dalla Televisione svizzera di lingua francese RTS, Ruth Fivaz-Silbermann considera che «Heinrich Rothmund, il direttore della divisione di polizia del Dipartimento federale di giustizia e polizia che incarnava la durezza della politica svizzera, non fosse così rigido nell'applicazione della decisione del governo elvetico, presa il 4 agosto 1942, di chiudere le frontiere agli ebrei. "Non era per nulla antisemita", ritiene la ricercatrice che ha scoperto numerosi documenti a testimonianza della politica meno restrittiva adottata da Heinrich Rothmund».
Secondo Marc Perrenoud, basta leggere i documenti diplomatici svizzeri e i rapporti della commissione Bergier per rendersi conto che Rothmund era una personalità complessa che non deve essere trattata come un capo espiatorio. Ma rimane ciononostante uno dei responsabili dell'antisemitismo elvetico, sebbene in maniera assai diversa rispetto ai nazisti o alla Francia di Vichy, puntualizza lo storico. Ciò è riassunto in una dichiarazione di Heinrich Rothmund scritta il 27 gennaio 1939: «Con la polizia degli stranieri, non abbiamo lottato da vent'anni contro l'aumento dell'inforestierimento (Überfremdung), e più in particolare contro la 'giudaizzazione' (Verjudung) della Svizzera, per poi vederci oggi imporre gli emigranti».
Marc Perrenoud precisa: «La politica delle autorità svizzere nei confronti degli ebrei durante la guerra s'inscrive in una continuità che risale almeno alla Prima guerra mondiale. L'obiettivo è sempre stato di limitare il numero di ebrei in Svizzera, contrariamente a quanto afferma Ruth Fivaz-Silbermann. Non c'è quindi stata alcuna rottura durante la guerra, bensì un rafforzamento di questa politica».
Dubbi sulle cifre
La ricerca della storica precisa che più di 15'000 ebrei si sono presentati alla frontiera franco-svizzera e che 2'844 di loro sono stati respinti. «Sappiamo anche che il 27% degli ebrei che cercavano rifugio in Svizzera sono giunti dall'Italia. Uno studio degli archivi del canton Ticino (non ancora pubblicato) ritiene che 6'000 ebrei abbiano attraversato la frontiera e che circa 300 siano stati respinti. Per le frontiere con la Germania e l'Austria non ci sono invece studi, ma pensiamo che il loro numero sia molto basso», afferma Ruth Fivaz-Silbermann.
Questo conteggio rimette in discussione la cifra di 24'398 civili, ebrei e non, che sono stati respinti alle frontiere svizzere tra il 1939 e il 1945, come indicato dalla commissione Bergier quasi vent'anni fa. Ricordiamo che questo gruppo di esperti indipendenti era stato incaricato dal governo svizzero di indagare sui fondi in giacenza depositati nelle banche svizzere da clienti ebrei e mai restituiti alle loro famiglie al termine della guerra, malgrado numerosi tentativi. Uno scandalo internazionale che aveva messo la Confederazione sotto pressione.
Il mandato della commissione Bergier, rammenta Hans-Ulrich Jost, portava sui fondi in giacenza e sull'atteggiamento delle autorità elvetiche nei confronti del regime nazista. Le pagine dedicate ai respingimenti erano soltanto un complemento per meglio illustrare la problematica centrale di questa ricerca condotta dal 1997 al 2002 e per spiegare che i documenti disponibili non permettono di stilare delle statistiche che consentono di determinare se le persone respinte fossero ebrei o meno.
Marc Perrenoud insiste: «Le lacune negli archivi sono note. Per un certo numero di respingimenti non c'è alcuna traccia scritta. Alcuni archivi sono scomparsi dopo il 1945. I documenti disponibili sono troppo lacunosi ed eterogenei per poter stilare delle statistiche precise ed esaustive». Una costatazione condivisa dalla maggior parte degli storici.
(swissinfo.ch, 1 giugno 2017)
Il ministro delle Finanze israeliano incontra il premier palestinese
Focus sul miglioramento dei rapporti economici
GERUSALEMME - Il ministro delle Finanze israeliano, Moshe Kahlon, ha incontrato nella tarda serata di ieri il primo ministro dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Rami Hamdallah. Al centro del colloquio le misure approvate lo scorso mese dal governo israeliano per facilitare la libertà di movimento dei palestinesi e migliorare i rapporti economici. La mossa del governo di Gerusalemme è avvenuta prima della visita del presidente Usa, Donald Trump, a Betlemme e Tel Aviv, avvenuta il 22 e 23 maggio scorsi. Le misure prevedono, tra le altre cose, l'estensione dell'orario di apertura dei valichi attraverso cui giornalmente transitano i palestinesi, ed il miglioramento di alcune infrastrutture. Il valico di Allenby Bridge rimarrà aperto tutto il giorno per i prossimi due mesi, in vista di un'apertura permanente a partire dal 2018. Il gabinetto israeliano ha approvato, inoltre, la costruzione di una zona industriale vicino al valico di Tarkumiya, a nord-ovest di Hebron, nella parte meridionale della Cisgiordania. Il piano prevede anche facilitazioni per la costruzione di case palestinesi in aree specifiche dell'area C della Cisgiordania.
(Agenzia Nova, 1 giugno 2017)
Libia 5 giugno 1967: è caccia all'ebreo al grido di "Idbah al Yahud"
Cinquanta anni fa il pogrom che segnò la fine della vita ebraica a Tripoli e Bengasi. Nel ricordo di chi non riuscì a fuggire come le famiglie Luzon e Raccah che furono massacrate.
di Raphael (Faelino) Luzon
"Idbah al Yahud" (sgozza gli Ebrei)! Con questo grido da far gelare il sangue migliaia di persone che brandivano asce, torce, coltelli e tutta una serie di armi improprie, invadeva Shara Omar El Muchtar, la via principale del quartiere della città vecchia dove abitava la maggior parte degli ebrei a Bengasi invadendo anche la piccola Shara Mbarak El Sherif dove abitavo. Un quartiere con palazzi di primo Novecento edificati dagli Italiani e dove si ergeva il bel palazzo del Municipio nella Maydan El Baladya (appunto Piazza del Municipio).
I manifestanti, lanciando slogan antiebraici, cominciarono ad appiccare il fuoco ai magazzini di mio padre colmi di medicinali, prodotti di cosmetica e profumi, sia sulla via principale dove c'erano diversi negozi di ebrei compreso l'ufficio di mio padre e sia nella via della nostra abitazione dove c'erano i depositi di medicinali della mia famiglia e quello di profumi della famiglia Zarrugh.
Uno dei magazzini si trovava proprio sotto casa nostra. Dalle porte e finestre sprangate penetrò un acre fumo nero. A casa c'era tutta la mia famiglia: i miei genitori e le mie due sorelle, mia zia e la figlia, lo scaccino Hammus ed i figlioletti ed un lontano parente rifugiatosi da noi. Era l'ora di pranzo ed eravamo appena tornati, sfuggiti alla folla inferocita. Temendo di morire soffocati, dal momento che il fumo tende ad andare verso l'alto, mio padre urlò di stenderci sul pavimento nella speranza che vi fosse qualcuno che ci avrebbe salvati da morte sicura. Udimmo una serie di esplosioni giungere anche dai magazzini di Zarrugh mentre, sotto casa, la via era piena all'inverosimile di una massa urlante ed armata.
Vi fu anche chi assalì la Sinagoga per incendiarla. Per la storia è importante ricordare che vi furono persone che costituirono un esempio di libici buoni, fra cui soprattutto Haj Mohammad Ali Alsabri, un notabile libico, nostro vicino. Prima ancora che giungesse la polizia, cominciò a respingere le persone di fronte alla Sinagoga (Sia el Kbira), gridando con tutto il fiato che aveva in corpo e vietando loro, grazie alla sua alta carica sociale, di incendiare quel luogo, destinato al culto di Dio ... Era il 5 Giugno 1967 ...
Come si arrivò a tutto questo? Già da un paio di anni c'era tensione, sfociata in una serie di manifestazioni antiebraiche di studenti universitari del movimento nasseriano, che diedero origine a scontri con la polizia, di fronte all'Università di Bengasi.
Due mesi prima c'era stata l'espulsione del contingente dell'Onu che divideva Israeliani ed Egiziani alla frontiera con conseguente chiusura dello stretto di Tiran per cercare di strangolare l'economia israeliana. Atto considerato come un casus belli da Israele che viveva quei giorni con un senso di pre-annientamento circondato da armate arabe che ogni giorno dichiaravano la loro intenzione di distruggerlo. Noi vivevamo nel terrore dopo circa 19 anni di relativa tranquillità e benessere grazie anche al boom economico avuto in Libia per la scoperta di ingenti quantità di petrolio. Quando ci si incontrava alla Sinagoga situata in Shara El Sabri (dietro casa nostra) era un continuo scambiarci opinioni ed angosce, ma nessuno sapeva cosa esattamente fare. I Rabbini cercavano di tranquillizzarci ed avere fede in D-o mentre gli adulti si interrogavano: partire? rimanere? Ciascuno citava "amici influenti" che rassicuravano ...
Tutti erano abbastanza legati al loro business e, come succede spesso agli ebrei, pochi o nessuno avevano annusato il pericolo e preso la decisione di scappare prima della tempesta.
L'inizio dei disordini, un vero e proprio pogrom, è stato addebitato allo scoppio della "Guerra dei sei giorni" la stessa mattina. Posso garantire che almeno tre mesi prima aleggiavano su tutta la Libia voci e sussurri che preannunciavano un "qualcosa" contro gli ebrei. Dal barbiere al farmacista dove ci servivamo tutti continuavano a dircelo a mezza bocca: "Sta per arrivare la vostra ora ... fra un po' ammazzeranno tutti gli ebrei...".
Il giorno antecedente al 5 giugno i nostri dipendenti e la donna che accudiva la casa, ci hanno annunciato che non sarebbero venuti il giorno dopo. Alcuni di loro erano in lacrime come presagendo (o sapevano?) che non ci avrebbero più rivisti. Quindi il pogrom era stato programmato prima e lo scoppio della guerra fu solo un alibi.
Il 5 giugno era il primo giorno degli esami finali nella nostra scuola media 'Giovanni XXIII' situata nei locali della Cattedrale che si trovava al centro di Bengasi gestita dai padri Francescani. Avevo 13 anni e quel giorno ero a scuola nel mezzo dell'esame di terza media, quando Padre Anselmo, un italiano direttore della scuola, entrò in classe, pallido, visibilmente nel panico. Sentimmo il tumulto di voci per le strade che urlavano di massacrare gli ebrei. Egli disse agli alunni ebrei di scendere con lui nell'ufficio del direttore. Capimmo che stava succedendo qualcosa di strano. Nell'ufficio in cui campeggiava un grande crocifisso, arredato con mobili antichi, egli ci raccontò che era scoppiata la guerra tra gli arabi e lo Stato d'Israele, e che in Libia erano in atto violente dimostrazioni contro Israele e contro gli ebrei locali. Lo ascoltammo attoniti e imbarazzati, dopo tutto la guerra non era in Libia, perché allora si verificavano tali fatti da noi? Che colpa ne avevamo? Tra di noi alunni passò come una scossa e tutti chiedevano a tutti: "Come torneremo a casa? Che ci faranno? Cosa starà succedendo alle nostre famiglie?".
Padre Anselmo si mise subito in comunicazione con i genitori di cui aveva il numero di telefono, per farli venire e portarci a casa, e proteggerci da qualunque attacco. Alcuni religiosi li aiutarono, portando a casa in salvo i bambini che nessuno dei familiari era venuto a prendere, ma nessuno portò via né me né mia sorella Betty perché, cercando mio padre al negozio, non avevano ottenuto risposta. Invece di aspettare il ritorno di alcuni preti, preferimmo tornare con qualcun'altro.
Mio padre, assalito nel negozio, era fuggito lui stesso rifugiandosi in casa.
Noi eravamo terrorizzati e, allo stesso tempo, incuriositi da tutto quel caos intorno a noi. Gruppi di persone che correvano in tutte le direzioni gridando slogan contro Israele. Dappertutto le voci delle radio ad altissimo volume che declamavano vittorie improbabili dove il numero degli aerei "sionisti" abbattuti aumentava di minuto in minuto. Vedemmo bruciare tutti i negozi i cui proprietari appartenevano alla
nostra comunità: il 99% dei negozi venne bruciato. Dopo alcune ore di disordini, la polizia e unità dell'esercito raccolsero tutti gli ebrei di Bengasi (230) per portarli in un luogo sicuro. Fummo alloggiati temporaneamente presso la centrale di polizia. Il comportamento nei nostri confronti fu buono e gentile, ci servirono tè e caffè. Ma poi giunse nuovamente il vocìo dei manifestanti. Dapprima lontano, poi sempre più vicino. La nostra paura crebbe ancor più di quella che avevamo provato a casa quando ci accorgemmo quanto fossero impauriti gli stessi ufficiali e i poliziotti, nonostante avessero armi e mezzi di protezione. La folla era sempre più incontenibile, armata di pietre, asce ed armi bianche, e la polizia era in tensione per via dell'ordine di non aprire il fuoco. Gli ufficiali ci ordinarono di salire nuovamente sui camion e ci evacuarono velocemente. Sui camion tutti erano sotto shock. I pochi che parlavano, sussurravano tra di loro scambiandosi i primi racconti delle scene tragiche a cui ciascuno aveva assistito qualche ora prima. Ci trasportarono in una base militare fuori città, "Remy", dove arrivammo dopo circa un'ora di viaggio, dicendoci che il luogo era più sicuro. Era un campo militare con diversi baracconi, a mo' di padiglioni. Ci portarono letti e brandine da campo, e nonostante non avessimo mangiato tutto il giorno, ci servirono solo tè, caffè e latte. Si giustificarono dicendo che erano troppo occupati a disperdere i manifestanti, e promisero che l'indomani ci avrebbero fornito del cibo.
Dopo ventidue, ventitré giorni di campo, per così dire, di raccolta, arrivarono alti ufficiali dell'esercito, facendoci presente che chiunque avesse voluto tornare in città, avrebbe potuto farlo, ma a proprio rischio e pericolo, poiché l'esercito non ci avrebbe più difeso, e inducendoci a lasciare il paese con il permesso di portare una sola valigia e venti sterline.
A Roma venimmo accolti da organizzazioni internazionali ebraiche come la JOINT, HIAS, da giovani volontari libici, giunti prima di noi, che si erano assunti il compito di accoglierci e da membri della comunità ebraica romana, e venimmo portati tutti in due grossi campi profughi, uno a Latina, e uno a Capua, vicino a Napoli. Ci svegliammo in questo campo di Capua, che conteneva altri profughi di paesi dell'est europeo. Debbo dire che era di molto peggiore e più mal organizzato di quello libico. Anzitutto era molto sporco: vi era una marea di insetti, di mosche e di scarafaggi, ed io, che sono sempre stato schizzinoso, per quattordici giorni mangiai poco o niente, nutrendomi solo di un po' di frutta, calando di molti chili, a tal punto che i miei genitori anticiparono l'uscita dal campo proprio perché io non riuscivo a mangiare niente, tutto mi faceva schifo.
Il contributo dell'ebraismo libico a quello italiano, una volta inserito nel mondo ebraico italiano, si concretizzò soprattutto nella nascita di istituzioni religiose. Quando gli ebrei chiamati tripolini, ma che di fatto erano libici di Tripoli e di Bengasi, arrivarono a Roma c'era solo un macellaio kasher. Con l'arrivo degli ebrei libici, le macellerie kasher divennero sei o sette, e i negozi che vendevano prodotti alimentari kasher si svilupparono come funghi, e tutta la comunità ebraica romana ebbe un grande vantaggio da questa iniezione di un ebraismo ancora saldamente attaccato alle tradizioni religiose.
Moltissimi ebrei libici vennero eletti nelle varie organizzazioni ebraiche, e si resero molto attivi. Il fatto favorì naturalmente l'integrazione. Si celebrarono i primi matrimoni "misti" tra ebrei romani ed ebrei libici, ed un po' alla volta le due comunità giunsero ad un modus vivendi abbastanza armonioso.
La comunità libica si organizzò quasi subito, affittando un appartamento e adibendolo a sinagoga, la quale continuò a funzionare in tal modo per parecchi anni, fino al 1985-1986, quando finalmente gli ebrei libici, con il contributo della Comunità Ebraica di Roma, acquistarono un ex cinema adibendolo a grande sinagoga, per far fronte a tutte le necessità. Infatti, l'appartamento adibito a sinagoga poteva anche andar bene per tutto l'anno, ma quando arrivavano le festività era insufficiente, e si doveva sempre affittare un cinema o un teatro o la palestra di una scuola. Questa vita del tempio costituiva ovviamente tutto un universo di personaggi tipici, come possiamo trovare anche in qualunque sinagoga, tipico di una certa comunità e di un certo modo di vivere e di agire. Nel frattempo, appena arrivati a Roma, ci aveva colpito la terribile notizia che uno zio, fratello di mio padre, la moglie e i loro sette figli maschi, erano dati per dispersi. Si seppe, successivamente, che erano stati prelevati da un ufficiale dell'esercito libico, la sera del 7 giugno 1967, che fra l'altro era il giorno della liberazione di Gerusalemme, e da allora erano scomparse le loro tracce. Nel corso dei primi tre o quattro anni della nostra permanenza a Roma, mio padre dedicò ogni ora del suo tempo per cercare di arrivare a capo di questa matassa. Contattava quotidianamente l'ambasciata libica, bombardò di lettere tutte le maggiori organizzazioni internazionali, dall'Onu alla Croce Rossa, all'Associazione per i Diritti dell'Uomo, all'Amnesty International, ad ambasciatori, a Capi di Stato, e la parola che tutti ripetevano era "dispersi". Poi, purtroppo, dopo tre o quattro anni, testimoni vari decisero di svelare il segreto. Essi rivelarono che la famiglia di mio zio, Shalom Luzon, con la moglie e i sette figli, nove membri, oltre ad un'altra famiglia di ebrei tripolini, la famiglia Raccah, altre cinque persone, quindi quattordici persone in tutto, vennero prelevate da questo ufficiale libico, El Gritli, portate fuori Tripoli, e dopo varie violenze, vennero trucidati. Resta il dato di fatto di questa grande tragedia, la perdita di due intere famiglie. Di conseguenza mio padre ebbe sempre il timore di recarsi in Libia per liquidare la sua proprietà, come hanno fatto altri, ed è uno dei pochissimi che non hanno mai liquidato niente. Siamo tutt'oggi in possesso di una documentazione attestante la proprietà di un'enorme quantità di denaro, sia depositato nelle banche che investito in proprietà e terreni, pignorati in Libia in attesa di un recupero, se mai avverrà.
(Shalom, maggio 2017)
*
Quell'esodo dimenticato
Nessuno ricorda decine di migliaia di ebrei fuggiti dai Paesi arabi. Per loro non vi è mai stata giustizia.
di Mario Del Monte
Il 1967, oltre a segnare con la Guerra dei Sei Giorni un capitolo importantissimo della storia dello Stato d'Israele, è anche l'anno in cui l'emigrazione ebraica dai paesi arabi ha toccato picchi altissimi. Obbligati a fuggire a causa delle persecuzioni, circa 850 mila ebrei si sono ritrovati a dover cercare rifugio in altre parti del mondo. Se questa storia a Roma è ben nota grazie alla presenza degli ebrei libici in altre parti del mondo è quasi del tutto sconosciuta. L'inizio di questo esodo si fa solitamente coincidere con la fine della guerra d'indipendenza fra Israele e gli Stati confinanti nel 1948. Con il fallimento dell'operazione militare i leader dei paesi arabi del Medio Oriente iniziarono una guerra fatta di incitamento alla violenza, terrorismo, espulsioni ed espropri nei confronti delle loro stesse comunità ebraiche. Le istituzioni ebraiche vennero prese d'assalto e spesso furono oggetto di episodi di violenza barbara. I leader delle comunità e gli importanti uomini d'affari ebrei vennero arbitrariamente arrestati e i loro beni confiscati dalle autorità. In pochi anni antiche e ricche comunità presenti in Iraq, Egitto, Siria, Yemen e Libia scomparirono del tutto portandosi via le tradizioni culturali e artistiche tipichedell'area. Per chi non volle o non riuscì ad andarsene le cose precipitarono ulteriormente: pogrom tacitamente acconsentiti dai governi e demolizioni di sinagoghe e cimiteri ebraici cancellarono ogni residua presenza, i pochi fortunati rimasti in vita furono costretti a rinunciare alla loro identità ebraica in pubblico e vennero del tutto spogliati di qualsiasi proprietà.
Per rendere meglio l'idea il totale delle terre confiscate agli ebrei nei paesi citati ammonta a circa 40 mila miglia quadrate, cinque volte la superfice dell'attuale Stato Ebraico. Gran parte degli espatriati trovò rifugio in Israele, altri finirono in Europa o negli Stati Uniti. Nel tempo questa ingiustizia è rimasta sotto traccia e i governi dei paesi arabi sembrano aver rimosso dalla loro memoria collettiva questo odioso crimine. Nemmeno le Nazioni Unite, sebbene si siano impegnate a risolvere il problema di tutti i rifugiati con la Risoluzione 242, hanno ancora mai intrapreso un discorso serio per almeno indennizzare i rifugiati ebrei. In parte questo è dovuto al fatto che i profughi ebrei sono stati profughi "anomali": invece di continuare a vivere nei campi a spese dello Stato e delle organizzazioni internazionali si sono integrati perfettamente nelle società in cui si sono stabiliti investendo nel futuro
invece di recriminare il doloroso passato.
(Shalom, maggio 2017)
Parlamento Ue: contrastare l'antisemitismo in Europa
Nelle scuole insegnare la tragedia dell'Olocausto
BRUXELLES - "L'incitamento all'odio e la violenza nei confronti dei cittadini ebrei europei sono incompatibili con i valori dell'Ue, per cui tutti gli Stati membri devono adottare misure per garantire" la loro sicurezza. Gli eurodeputati hanno votato oggi, in chiusura di sessione plenaria a Bruxelles, una risoluzione con la quale invitano i leader politici nazionali a opporsi "sistematicamente e pubblicamente" alle dichiarazioni antisemite e chiedono a ogni Stato membro di nominare un coordinatore nazionale per combattere l'antisemitismo. Nel documento si evidenzia che "la motivazione razziale deve rappresentare un aggravante nella persecuzione di atti criminali, e che gli atti antisemiti su internet dovrebbero essere perseguiti proprio come quelli commessi offline". Alcune annotazioni riguardano il contrasto transnazionale all'antisemitismo. Tutti gli Stati membri dovrebbero far propria la definizione di antisemitismo utilizzata dall'Alleanza per l'Olocausto. I motori di ricerca, i social media e le piattaforme "dovrebbero intraprendere azioni più decise per combattere l'odio anti-semitico". Inoltre la storia dell'Olocausto, o Shoah, "dovrebbe essere insegnata nelle scuole e i libri di storia dovrebbero fornire una descrizione accurata della storia e della vita degli ebrei, evitando tutte le forme di antisemitismo".
(SIR, Servizio Informazione Religiosa, 1 giugno 2017)
Israele: 'Aravrit', scrittura con lettere metà arabe e metà ebraiche
Sistema creato da tipografa Haifa, leggibile per entrambi i popoli
TEL AVIV - Si chiama 'Aravrit' e potrebbe essere un primo spiraglio nella coesistenza tra arabi ed ebrei. La tipografa israeliana Liron Lavi Turkenich ha infatti messo a punto un sistema di scrittura stilizzato che unisce i due antichi alfabeti, consentendo a chi parla arabo o ebraico di leggere le stesse parole.
A testimoniare il successo dell'idea c'è il dato di oltre un milione di persone che - secondo la Jewish Telgraphy Agency (Jta) - ha già visto il video postato su Facebook da Kan, il nuovo ente radiotelevisivo israeliano. "Credo - ha detto alla Jta Turkenich - che l'Aravrit mandi un messaggio che siamo entrambi qui e che più ci conosciamo e meglio possiamo fare.
Questo si applica agli ebrei e agli arabi israeliani, ma anche ad Israele e ai Palestinesi e ad Israele e ai paesi arabi". Secondo il sistema messo a punto, la parte superiore della lettera è in arabo, quella inferiore invece in ebraico: il risultato è che sia chi parla la prima lingua, sia chi la seconda, è in grado di leggere le lettere che compongono la parola. Basandosi sull'opera dell'oftalmologo francese Louis Emile Javal, che a fine '900 scoprì che le persone possono leggere normalmente anche solo usando la parte superiore delle lettere latine, Turkenich ha trovato che lo stesso vale sia per la linea inferiore delle 22 lettere dell'ebraico sia per quella superiore delle 29 lettere dell'alfabeto arabo.
E così la parola 'Pace' sarà letta come 'Shalom' nella parte inferiore da chi parla ebraico e come 'Salam' nella parte superiore per chi è di madre lingua araba.
Turkenich ha spiegato che il fatto di essere di Haifa, città a forte presenza araba nel nord di Israele, ha influito molto sulla messa a punto del suo sistema.
(ANSAmed, 1 giugno 2017)
L'ambasciata americana rimarrà a Tel Aviv altri sei mesi
Trump ha firmato un provvedimento in base al quale l'ambasciata americana in Israele resterà a Tel Aviv per altri sei mesi. Questo dovrebbe facilitare la ripresa del processo di pace.
TEL AVIV - Il presidente Usa Donald Trump ha firmato un provvedimento in base al quale l'ambasciata americana in Israele resterà a Tel Aviv per altri sei mesi. La decisione del presidente americano dovrebbe facilitare la ripresa del processo di pace.
Anche se Trump ha firmato il provvedimento che ritarda lo spostamento dell'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, la Casa Bianca ha precisato in una nota che «nessuno deve considerare questa mossa come un passo indietro di Trump nell'appoggio a Israele e all'alleanza fra Stati Uniti e Israele».
«Il presidente ha assunto la decisione per massimizzare le chance di successo nel negoziare un accordo fra Israele e i palestinesi, mantenendo il solenne impegno a difendere gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti», ha messo in evidenza la Casa Bianca.
Trump ha ripetutamente ribadito la sua intenzione di spostare l'ambasciata, il tema «non è se accadrà o meno» ma «quando accadrà».
«Sebbene Israele sia deluso del mancato spostamento, per ora, dell'ambasciata Usa a Gerusalemme, apprezza l'espressione dell'amicizia di oggi del presidente Trump e il suo impegno a muovere l'ambasciata nel futuro», ha riferito dal canto suo il premier israeliano Benyamin Netanyahu.
«Un passo positivo e importante che migliorerà le possibilità di raggiungere la pace», ha dichiarato invece, citato dall'agenzia Wafa, Nabil Abu Rudeina portavoce del presidente palestinese, Abu Mazen.
(tio.ch, 1 giugno 2017)
Cattivo Israele. Il demoralizzatore Lerner riscrive la guerra del 1967
Su Rai 3 il giornalista racconta la "guerra infinita". Il paradigma è sempre lo stesso: Israele deve rinunciare ruolo di "occupante" se vuole che finisca. Ecco perché sbaglia.
di Giulio Meotti
È sempre tragico vincere una guerra. Ancora più tragico quando a vincerla è Israele. Questo sembra dire, dietro ogni sorriso, Gad Lerner, che su Rai 3 ha raccontato in cinquanta minuti la "guerra infinita" del 1967. Un dramma politico e umano in cui gli israeliani sono il "cattivo" cui non resterebbe altra scelta tra il suicidio, la fuga o la guerra. Il paradigma è sempre lo stesso: Israele deve mettere fine al proprio ruolo di "occupante" se vuole che finisca la guerra infinita. Nulla sul fatto che nel giugno 1967 non esisteva uno stato di Palestina, che nel 1947 la partizione era stata respinta dal mondo arabo, che i "confini del 1967" erano solo la linea da cui gli arabi avrebbero dovuto riprendere la guerra interrotta, che l'Olp era nato nel 1964 e che, nel settembre 1967, il vertice arabo riunito a Khartoum proclamò: "No alla pace, no al riconoscimento, no al negoziato".
Di questa guerra "infinita", a Lerner, e meno che meno al suo interlocutore David Grossman, non viene mai in mente di dire qualcosa, tantomeno sull'incessante indottrinamento all'odio da parte palestinese. Il documentario, intervistando uno "storico egiziano", dà fiato pure all'idea grottesca che Gamal Nasser non volesse davvero attaccare Israele. Lerner dà la parola all'imam Izzedin Elzir, presidente dell'Ucoii, organizzazione islamica che vanta coi Fratelli musulmani una "vicinanza amichevole" (lo ha detto Hamza Piccardo a Repubblica) e che accusa gli israeliani di "terrorizzare e occupare" i palestinesi.
Lerner si appoggia a Censored Voices, le trascrizioni dei soldati israeliani che dopo il 1967 raccontarono di esecuzioni di egiziani nel Sinai. Secondo Martin Kramer, arabista e presidente dello Shalem College di Gerusalemme, l'effetto voluto da Censored Voices è quello di "demoralizzare" il sostegno a Israele. Va da sé che Lerner non accenni ai fondi europei dietro al film. Censored Voices è, infatti, prima che una pubblicazione italiana Feltrinelli, una produzione tedesca. Sul New York Times Yossi Klein Halevi ha definito Censored Voices "la narrativa che incolpa Israele".
La guerra dei Sei giorni non è affatto una "ferita", come intende Lerner, ma ha mutato il corso della storia per il meglio, garantendo la sopravvivenza di Israele e costringendo gli arabi a farci i conti. Il cuore del viaggio di Lerner è Hebron, la città più santa per la tradizione ebraica, seconda a Gerusalemme, e l'unica città palestinese in cui vive una comunità ebraica. Nel video di Lerner non c'è alcun riferimento al fatto che la comunità ebraica di Hebron è stata eliminata da un pogrom nel 1929 e che, nel 1967, gli ebrei sono tornati dove avevano vissuto fino a quel fatto terribile. Lerner non dice neppure che agli ebrei, e solo agli ebrei, è oggi interdetto il 97 per cento di Hebron, mentre le restrizioni per i palestinesi si applicano a una strada, visitata dai giornalisti di tutto il mondo, compreso Lerner. Nessun accenno al fatto che se un ebreo entra in territorio palestinese è immediatamente linciato.
Il racconto di Lerner da Hebron è incentrato su Baruch Goldstein, il medico israeliano che nel 1994 trucidò trenta musulmani. Un caso unico nella storia ebraica di Hebron, a fronte di centinaia di attacchi mortali contro gli ebrei in città. Di questi ha reso conto un coraggioso servizio delle Iene da Hebron a firma di Marco Maisano. Lerner termina su una equivalenza morale: le comunità ebraiche che festeggiano la liberazione di Gerusalemme e la piazza palestinese che festeggia Marwan Barghouti, terrorista pluriomicida.
Altro che vittoria "sprecata". Dal 1967, la popolazione israeliana è cresciuta da 2,6 milioni a 8,38 milioni, compresi due milioni di immigrati, e il prodotto nazionale lordo è cresciuto del 630 per cento. Aspettiamo che la Rai trasmetta la vera storia della guerra del 1967. La guerra, questa sì infinita, per cancellare Israele dalla mappa. Per porre fine alla vera occupazione che i nostri demoralizzatori si rifiutano di vedere. La presenza ebraica in medio oriente.
(Il Foglio, 1 giugno 2017)
Scontro a Wittenberg sulla Scrofa degli ebrei cara a Martin Lutero
di Vito Punzi
Tra i temi al centro del dibattito in Germania, con l'occasione dei 500 anni dall'esposizione delle 95 tesi da parte di Martin Lutero, c'è la memoria dell'antisernitismo dell'ex monaco agostiniano. Il suo odio verso gli ebrei, oltre che dichiarato in un famoso libello (che solo di recente è stato condannato con decisione dalle chiese riformate), è studiabile ancora in un bassorilievo in pietra raffigurante la cosiddetta «Scrofa degli ebrei» sulla facciata della chiesa di Wittenberg, dunque proprio li dove tutto ebbe inizio.
Al capezzoli della scrofa, ebrei che succhiano, in spregio al divieto di consumo di carne di maiale prescritto dalla Kasherut. Il bassorilievo è di un paio di secoli precedente (secolo XIV), tuttavia esso viene da sempre associato all'antisemitismo luterano, cosi un parroco di Lipsia, Thornas Piehler, e una suora di Darmstadt, Joela Krüger, evangelici, hanno creato l'Associazione per la rimozione del bassorilievo nell'anno giubilare della Riforma.
L'intento è che esso venga trasferito in un museo. Chiamato a decidere sarà il consiglio parrocchiale della chiesa. Nel frattempo, fino al 21 giugno, ogni mercoledì l'Associazione invita i fedeli a una veglia silenziosa (dalle 15 alle 19) nella piazza del Mercato della città. Dura battaglia, visto che il parroco, Johannes Block, è contrario alla rimozione, perché «quella scultura ricorda quanto di oscuro vi fosse anche nel grande Rifonnatore».
(Libero, 1 giugno 2017)
Il Libano ha vietato "Wonder Woman"
Perché l'attrice protagonista, Gal Gadot, è israeliana e ha fatto il servizio militare obbligatorio nell'esercito.
Il Libano ha ufficialmente vietato la proiezione nei cinema del paese del film Wonder Woman, che sarebbe dovuto uscire oggi. La motivazione della censura è che la protagonista Gal Gadot - che ha già interpretato Wonder Woman in Batman v Superman: Dawn of Justice - è una cittadina israeliana e un'ex soldatessa. Prima di fare l'attrice, infatti, Gadot era stata per due anni nell'esercito israeliano (noto con l'acronimo IDF, che sta per Israel Defense Forces) poiché in Israele il servizio militare femminile è obbligatorio.
Il divieto è stato annunciato ufficialmente sull'account Twitter di Lebanon's Grand Cinemas e poi confermato da altre fonti. La decisione è stata presa dal Ministero dell'Economia e del Commercio del Libano, che qualche giorno fa aveva fatto formalmente la richiesta.
Il ministero porta avanti da tempo una politica di boicottaggio nei confronti dei prodotti israeliani, che considera «tentativi nemici di infiltrazione nei nostri mercati». Lo stesso ministero aveva tentato di censurare anche il film Batman V Superman: Dawn of Justice, in cui Gadot compariva per la prima volta nel ruolo della principessa delle Amazzoni Diana, cioè Wonder Woman. I gruppi che sostengono la campagna per il boicottaggio ricordano che Gal Gadot nel 2014, durante il conflitto tra Israele e Hamas, aveva pubblicato su Instagram una foto di lei e della figlia accompagnata da un messaggio in cui diceva: «Il mio amore e le mie preghiere vanno ai ragazzi e alle ragazze che stanno rischiando la vita per proteggere la nazione dagli attacchi orrendi di Hamas, i cui miliziani si nascondono come vigliacchi dietro a donne e bambini».
(il Post, 1 giugno 2017)
Notizie archiviate
Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.
| |
|
|