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Il papa chiede aiuto al rabbino
L'incontro a Roma tra un papa e un rabbino
di Marcello Cicchese
L'incontro è evidentemente asimmetrico. Il papa è un capo di stato; il rabbino no. Il papa è il leader di una religione con più di un miliardo di adepti nel mondo; il rabbino non è leader di nessuna religione, ma è soltanto il leader di una comunità religiosa locale di qualche migliaio di aderenti. Sembrerebbe dunque che il maggior onorato sia il rabbino, e che sia lui quello che trae maggiore vantaggio dall'incontro. Forse non è così. Era così nel passato, ma tutto fa pensare che le cose siano cambiate, anzi invertite. E' stato gia detto da molti che l'incontro di domani sarà diverso dagli altri, ma perché? Le cause indicate sono diverse. Una di queste sta certamente nel differente carattere dei due ultimi papi, che potrebbero essere visti come tipi umani rappresentanti con le loro persone un momento topico dell'inevitabile declino della chiesa cattolica. Ratzinger rappresenta l'ultimo sforzo di difesa teologica dell'istituzione; Bergoglio rappresenta il vecchio-nuovo progetto gesuitico di far navigare la barca cattolica al centro del flusso storico, con l'aspirazione a condizionarne e guidarne in modo decisivo gli eventi. Se per il primo continuava ad essere di una certa importanza quello che si dice di credere, per il secondo è molto più importante quello che si riesce a fare. A questo scopo i solenni rituali di una volta, anche se non possono essere troppo repentinamente aboliti per non averne contraccolpi interni, devono essere gradualmente abbandonati. Pragmatismo ci vuole. Bergoglio lo sa e lo sa fare. Ratzinger no.
Così oggi non sono più gli ebrei che vanno a baciare la pantofola del papa in Vaticano, ma è il papa, proprio lui in persona, che va in Sinagoga, in forma dimessa, raccomandandosi di non fare troppa pompa intorno a lui, ad onorare gli ebrei. Così si deve fare oggi. Come ieri si dovevano fare altre cose. Sempre per ottenere i medesimi risultati. Aggiornarsi bisogna, e questo Bergoglio lo sa fare.
Ma da sagace gesuita, Bergoglio probabilmente ha anche avvertito che il vento sta cambiamdo e che tra la Basilica di San Pietro e la Sinagoga chi oggi è più a rischio è la prima, non la seconda. Forse in Vaticano ha cominciato ad insinuarsi il dubbio che quanto a durata temporale la Sinagoga finisca per superare la Basilica. E allora, come hanno fatto tante altre volte i papi nel passato, in caso di minaccia dall'esterno è sempre bene tenersi buoni gli ebrei. Fermo restando, comunque, che questo appaia al di fuori non come espressione di debolezza, ma come gesto di magnanimità da parte di chi è superiore verso chi è inferiore. Perché è il papa - no, dico, il papa, mica uno qualsiasi -, che va di persona a trovare gli ebrei a casa loro. Saranno in grado gli ebrei di afferrare la grandezza di un simile gesto? E' dubbio. Perché si sa, gli ebrei sono sempre ebrei, e certe cose loro fanno fatica a capirle. Ma anche se non le capissero, saranno tutti gli altri a capirle. Capiranno di star assistendo a un sublime, teatrale esempio di misericordia da parte di un papa che arriva al punto di degnarsi di andare a casa degli ebrei. Potranno criticarlo, gli ebrei, dopo tutto questo? Israele? Che c'entra Israele? Lo stato di Palestina? Certo, perché? che c'è da dire? Lì il papa ha lasciato un angelo di bontà che gli ebrei residenti in Terra Santa dovranno soltanto riconoscere e accondiscendere. Interessi vaticani in Palestina? Forse, ma di questo il papa non s'interessa. Ci sono altri in Vaticano che se ne occupano. Lui invece ha altri compiti. Lui deve rappresentare la sublime misericordia papale verso tutti, perfino verso gli ebrei. Davanti alle telecamere. Davanti al mondo.
(Notizie su Israele, 16 gennaio 2016)
Anche in Francia coltellate agli ebrei
Lettera al Giornale
La settimana scorsa qui in Francia ci sono stati due morti accoltellati, ma la tv non ne ha parlato e i giornali hanno accennato ai due omicidi senza fornire le generalità dei morti e degli accoltellatori. Inoltre un ragazzo di origine turca di 15 anni ha accoltellato un insegnate ebreo che si recava a scuola. E un consigliere comunale ebreo è stato ritrovato morto accoltellato a casa sua. Poi si giudica severamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu il quale invita gli ebrei francesi a emigrare a Gerusalemme dove è vero che gli accoltellamenti sono quotidiani, ma almeno si possono condannare gli assassini.
Nerio Fornasier
Suresnes Nanterre (Ile de France)
(il Giornale, 16 gennaio 2016)
17 screens. I fratelli Bouroullec a Tel Aviv
Museum of Arts, Tel Aviv - fino al 19 marzo 2016. Ronan ed Erwan Bouroullec danno vita a una scenografia rarefatta di assemblaggi materici sorprendenti. In gioco, una speculazione sull'idea di "bordo" che ci spinge, ancora una volta, a interrogare i confini tra arte e design.
di Giulia Zappa
Oltre i limiti disciplinari
Una mostra sul confine, sul suo spessore (parafrasando Gilles Clément) e sulla liminalità nei possibili approcci alla definizione dello spazio. È quella che Ronan e Erwan Bouroullec, i fratelli più celebri del design francese, mettono in scena presso il Tel Aviv Museum of Arts attraverso la concezione di 17 installazioni - da cui il titolo della mostra, 17 Screens, a cura di Meira Yagid-Haimovici - in bilico tra geometria ed evanescenza.
Questo esperimento curioso, indubbiamente il più plateale "fuori tema" all'interno del loro corpus creativo, è il frutto di una ricerca libera da committenti privati, avviata un anno fa. Un esercizio di ibridazione disciplinare, potremmo dire, che parte dal disegno a mano libera, esplora accostamenti e assemblaggi materici ingegnosissimi (ceramica, vetro, tessuto, alluminio, plastica) e arriva a definire una rete di esili recinti site specific calati sulle peculiari dimensioni della sala.
Design e intimità
In questo viaggio tra le possibili scansioni dello spazio, tra modularità e composizioni libere, l'appassionato di design non potrà esimersi dallo scovare qua e là riferimenti al loro portfolio, nella maggioranza dei casi di tipologia squisitamente industriale: la bacchetta per montare le tende di Ready Made Curtain per Kvadrat, i moduli in plastica e tessuto di Algue e Clouds (rispettivamente per Vitra e Kvadrat), la libreria Cloud per Cappellini.
Eppure, le assonanze trascendono le citazioni più o meno esplicite e arrivano ad esplorare un terreno ben più metafisico qual è quello dato dal nostro senso di intimità: il perimetro identificato da un nastro basta a definire un passaggio, una stanza, una cuccia? Allo stesso modo, quale presupposto di divisione evoca una linea retta? E, infine, in chiave squisitamente meta-progettuale: come esportare l'idea di un perimetro avvolgente in un'architettura di interni domestica e reale?
Tel Aviv, fino al 19 marzo 2016
Ronan and Erwan Bouroullec - 17 Screens
a cura di Meira Yagid-Haimovici
Tel Aviv Museum of Art
27 Shaul Hamelech Blvd
+972 (0)3 6077020
(Artribune, 16 gennaio 2016)
Nel 2015 record di ebrei in fuga dall'Europa
In tutto sono stati 9880. La maggior parte viveva in Francia: "Non ci sentiamo più al sicuro".
Nel 2015 vi è stata la più alta emigrazione in Israele di ebrei dall'Europa occidentale: in tutto 9880. Lo ha annunciato l'Agenzia ebraica che ha indicato come causa del fenomeno la crescita di atti antisemiti in Occidente. In testa ci sono gli ebrei francesi: in circa 8.000 hanno lasciato la terza più grande comunità del mondo spinti dall'aumento degli attacchi antisemiti. Subito dopo gli ebrei inglesi (circa 800), poi quelli italiani e belgi.
«Questo numero record di ebrei europei in fuga indica che l'Europa non è più la loro casa e dovrebbe allarmare i leader Ue e servire - ha detto Nathan Sharansky, presidente dell'Agenzia ebraica citato dai media - come sveglia per tutti quelli interessati al futuro del Vecchio continente».
Proprio in Francia in questi ultimi giorni l'insegnate di una scuola ebraica di Marsiglia ha subito l'aggressione a colpi di machete da parte di un giovane arabo. Un episodio - senza dimenticare la strage all'Hypercacher di Parigi e a Charlie Hebdo - che ha indotto un esponente della locale comunità a chiedere agli ebrei di non andare in giro con la kippa' (il copricapo religioso) in modo da non essere individuati.
(La Stampa, 15 gennaio 2016)
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Emigrazione record di ebrei dall'Europea occidentale verso Israele
Sharansky: Un campanello d'allarme per l'Europa, un motivo d'orgoglio per Israele
Il flusso di immigrati ebrei dall'Europa occidentale in Israele sta toccando cifre da record storico come diretta conseguenza dell'aumento di aggressioni e attacchi antisemiti. Lo sottolinea l'Agenzia Ebraica, l'ente non profit che opera a stretto contatto con il governo israeliano e funge da collegamento con gli ebrei di tutto il mondo.
Secondo i dati diffusi giovedì, nel 2015 sono immigrati in Israele 9.880 ebrei dell'Europa occidentale: il dato annuale più alto mai registrato. La stragrande maggioranza, quasi 8.000, sono arrivati dalla Francia, dove un clamoroso incremento di manifestazioni e attacchi di stampo marcatamente antisemita ha fatto a pezzi il senso di sicurezza della terza comunità ebraica più grande del mondo...
(israele.net, 16 gennaio 2016)
Le note che tornano
Il 22 gennaio alle ore 12 sarà dedicato un albero di sughero al Maestro Arturo Toscanini all'Auditorium Parco della Musica di Roma, che il 27 gennaio ospiterà il concerto per il Giorno della Memoria "Toscanini: il Coraggio della Musica".
di Viviana Kasam
Toscanini fu un uomo eccezionale. Nelle qualità e nei difetti. Grandissimo musicista, creò l'immagine divistica del direttore d'orchestra che è entrata nel nostro immaginario collettivo. Come la Callas, è diventato un mito, e le sue interpretazioni sono considerate insuperabili.
Aveva però un pessimo carattere, irascibile, litigioso, aggressivo. Era quello che oggi si direbbe un maniaco sessuale, e se fosse vissuto nel XXI secolo sarebbe probabilmente finito come Strauss Kahn. Ma era anche uomo di grandissimi ideali e principi etici, e utilizzò il carisma della sua immagine per opporsi platealmente a fascismo e nazismo. Dante avrebbe definito il suo "il gran rifiuto" ma in accezione positiva: rifiutò infatti per ben due volte di suonare "Giovinezza" in apertura di un concerto a Bologna nel 1931, nonostante la pressante richiesta di Galeazzo Ciano, sottosegretario agli Interni e presente in sala. Questo gli valse un pestaggio delle camicie nere, e la confisca del passaporto da parte di Mussolini, che dovette però prontamente restituirglielo a causa delle proteste internazionali. Appena rientrato in possesso del documento, Toscanini si autoesiliò in America, giurando che non sarebbe è più tornato a suonare in Italia fino alla caduta del fascismo. Non solo. Rifiutò anche di inaugurare nel 1933 il Festival di Bayreuth, il più prestigioso evento musicale al mondo, nonostante avesse un contratto firmato con Furtwangler; e non valse a smuoverlo dalla sua decisione una lettera personale di Hitler.
Amico di Einstein, Toscanini si definiva "ebreo onorario", e amava ripetere che forse il suo nome, toponimo della regione Toscana, aveva radici ebraiche. E sua figlia Wanda si era sposata con il pianista ebreo Vladimir Horowitz.
Fin qui la storia che tutti conoscono. Meno nota invece, se non a qualche musicologo, un'altra pagina delle sua vita, quella che lo vide protagonista della operazione di salvataggio di un centinaio di musicisti ebrei, ideata dal violinista Bronislaw Huberman. Huberman, considerato il massimo virtuoso del suo tempo, si convertì al sionismo dopo aver suonato in Palestina e aver constatato la passione per la musica della popolazione ebrea residente, di tutte le classi sociali.
Avendo assistito impotente al licenziamento dei musicisti ebrei dalle orchestre del Reich (ne rimasero in carica solo alcuni che suonavano con i Berliner, per insistenza di Furtwangler), e prevedendo che le persecuzioni si sarebbero inasprite, ebbe l'idea di costituire una orchestra di sommi musicisti ebrei e trasferirla in pianta stabile in Palestina, aggirando, grazie al prestigio dell'iniziativa e al nome di Toscanini, le difficoltà che il Mandato Britannico opponeva alla concessione di visti per gli ebrei, per via delle proteste degli arabi e dei frequenti incidenti tra le due popolazioni residenti. Toscanini aveva promesso a Huberman che, se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe diretto gratis il primo concerto, trasformandolo in un evento mondiale. Così fu. Quell'orchestra, la Palestine Orchestra (PO), che sarebbe divenuta la Israel Philharmonic Orchestra (IPO) alla fondazione dello Stato di Israele, divenne subito famosa grazie al nome del direttore italiano e a quello di Einstein, che ne fu nominato presidente onorario e che si coinvolse personalmente nella levata di fondi in America. Un centinaio di musicisti e le loro famiglie ebbero così salva la vita (i pochi che per un motivo o per l'altro tornarono in Europa morirono tutti durante la Shoah).
Da anni ho il desiderio di fare qualcosa con questa bellissima storia e il desiderio si è intensificato negli ultimi tempi, perché Toscanini e Huberman ci danno un esempio di idealismo e di impegno e un messaggio di speranza più che mai necessari in questo momento. Ho pensato perciò di replicare quel concerto per il Giorno della Memoria, con una orchestra che di Arturo Toscanini porta il nome, e un direttore, Yoel Levi, che è il primo israeliano ad essere stato nominato Principal Guest Conductor della Israel Philharmonic Orchestra e che ne tiene alta l'eredità di eccellenza.
A ottant'anni da quella serata del 1936 replicheremo il programma del concerto di Toscanini, e saranno simbolicamente presenti tre musicisti della IPO, uno dei quali, il contrabbassista Gaby Vole, è il nipote di uno dei musicisti che Toscanini diresse allora. L'attore Umberto Orsini racconterà la storia di Toscanini, e avremo anche un filmato di clip e fotografie d'epoca, realizzato per noi da Josh Aronson, regista e produttore americano, autore del film Orchestra of exiles che ricostruisce la vicenda (di Aronson sta per uscire per i tipi di Penguin Random House anche l'omonimo libro, scritto insieme a Denise George).
A Toscanini dedicheremo anche, grazie all'associazione Gariwo, un albero di sughero e un cippo che ricorderà il suo impegno per salvare gli ebrei nel giardino dell'Auditorium Parco della Musica a Roma, perché il suo gesto sia si perenne memoria. Dopo aver organizzato per il Giorno della Memoria del 2014, insieme a Marilena Citelli Francese e in collaborazione con l'UCEI, il concerto "I violini della speranza", in ricordo degli strumenti che contribuirono a tener viva la spiritualità dei perseguitati in fuga e dei prigionieri, e nel 2015 "Tutto ciò che mi resta", una raccolta di musiche scritte nei campi di concentramento, mi sembra che "Toscanini: il potere della musica" chiuda il ciclo con un messaggio oggi estremamente importante: e che cioè ognuno di noi può fare qualcosa, che non siamo necessariamente oggetti passivi del terrorismo, ma che possiamo opporci con il nostro impegno e dare un esempio di coraggio e di dignità. È importante ricordare le vittime della ferocia nazista e fascista. Ma, come ho spesso discusso con il mio maestro, Haim Baharier, bisogna cercare di sottrarsi alla retorica, che finisce per imbalsamare la storia, ed evitare la tendenza a focalizzare l'identità ebraica in quella di vittime.
Vittima è una accezione passiva, e mortifica l'identità identità culturale e spirituale del nostro popolo. Insieme al ricordo delle vittime, dobbiamo, credo fermamente, ribadire la nostra creatività, il nostro pensiero, la nostra visione del mondo.
Con i tre concerti per il Giorno della Memoria ho cercato di ridare la voce e l'identità culturale a coloro cui la persecuzione ha cercatodi toglierla: agli strumenti destinati a tacere per sempre, alle musiche che si è cercato di cancellare, uccidendo chi le scriveva e chi leinterpretava, e impedendone l'esecuzione pubblica. Ora, con questo concerto, spero di contribuire a diffondere la consapevolezza che si può resistere al Male, che si possono avere e realizzare grandi sogni anche nelle avversità, e che ognuno di noi ha il dovere di far proprio l'esempio di Toscanini e di Huberman e difendere la dignità umana e la vita di tutti coloro che sono vittime di persecuzioni e discriminazioni.
(Pagine Ebraiche, gennaio 2016)
Il quinto nuovo sottomarino di Israele
Un nuovo alleato della Marina israeliana, pronto ad essere armato
Il sottomarino classe Dolphin II, il 'Rahav', dopo aver completato i test necessari ed aver abbandonato il cantiere di Kiel in Germania, è il quinto che è entrato in servizio al fianco della Marina israeliana. Alla cerimonia di benvenuto tenuta ad Haifa erano presenti il capo dello Stato Reuven Rivlin, il Premier Benyamin Netanyahu e il comandante della Marina Militare, ammiraglio Ran Rothberg.
Questo tipo di sottomarino, oltre ad agevolare missioni top secret ed essere una potenziale piattaforma d'attacco in incognito, è dotato di testate nucleari pronte ad essere armate e lanciamissili.
Un punto di vantaggio per la Marina israeliana, come ha dichiarato Netanyahu, «una superiorità militare sopra tutti i fronti militari».
(L'Indro, 15 gennaio 2016)
Il rabbino di Venezia: «Noi non toglieremo la kippah»
Scialom Bahbout detta la linea dopo le aggressioni in Francia ad ebrei con il tradizionale copricapo religioso. Episodio di intolleranza denunciato nei pressi di Santa Lucia: «Sono stato minacciato in lingua araba».
di Nadia De Lazzari
VENEZIA. «Mi trovavo nei pressi della stazione ferroviaria Santa Lucia quando mi si è avvicinato un uomo, un arabo, che con tono minaccioso mi ha insultato indicando la mia kippah (il copricapo simbolo della cultura e della religione ebraica). A quelle parole non ho risposto e ho tirato dritto. È la prima volta che mi succede. Ne parlerò al rabbino capo della Comunità ebraica Scialom Bahbout». L'episodio è successo giovedì 14 a S.C., veterinario originario di Cagliari e domiciliato in città. A S.C. è subito venuto in mente quello che è successo a Marsiglia, dove il presidente del concistoro ebraico, dopo la terza aggressione a un ebreo, ha chiesto ai correligionari di togliersi la kippah per ragioni di sicurezza. «Anche qui forse sta cambiando qualcosa» commenta il veterinario, «Anni fa non conoscevo Venezia e giravo con una mappa. Il clima era di grande cordialità, tutte le persone erano cordiali, non vorrei cambiasse qualcosa».
S.C. spiega che finora ha sempre indossato la kippah. «Finché si può ancora fare preferisco metterla, certo se ad ogni passo devo rischiare coltellate la toglierò. La sicurezza della vita è più importante. Nel pensiero ebraico c'è una corrente diversa: dice di distribuirla in giro per farla indossare a tutti».
Sulla questione interviene senza esitazioni il Rabbino capo della Comunità ebraica Scialom Bahbout. Le sue parole sono ferme, cita il Papa: «Non solo gli ebrei devono andare con la kippah, ma tutti devono indossarla seguendo anche l'esempio di Papa Francesco. Questa è la soluzione: tutti con la kippah come il re della Danimarca e l'intero popolo che a suo tempo con coraggio si misero ben visibile sui cappotti la stella gialla rifiutandosi così di introdurre l'obbligo per i soli ebrei di portarla perché non ci deve essere discriminazione. Se si arriva a questo punto hanno vinto gli altri. So che è una provocazione, ma alle provocazioni si risponde con un tono altrettanto provocatorio».
Nicola Giunta, calabrese, ingegnere, da pochi mesi abita in laguna, non sottovaluta la questione. «È inutile dire che la kippah non è un problema. Sta diventando un problema di sicurezza perché non si sa mai chi si incrocia per strada. Io la porto, non nei luoghi di lavoro. Personalmente per ragioni di sicurezza la sostituirei con un cappello. Quando c'è il dubbio o non si mette o si copre».
Di differente opinione è Yehudah Nuson Leib Cristofoli. Il cinquantenne veneziano non solo ha la kippah, anche altri segni ebraici, quali i tzitziot (frange) e i peyot (lunghi riccioli ai lati del viso). «Sono un Chassid, il primo e unico in città e la kippah la tengo» afferma deciso «Nascondendosi non aumenta la sicurezza, ci si indebolisce davanti a se stessi e di fronte agli altri. Una persona deve essere quella che è. Se questi malvagi vogliono colpire è sufficiente sfogliare l'elenco telefonico. Piuttosto la Francia ha un problema che deriva dall'Illuminismo: non accetta Ebraismo e Islam».
(la Nuova, 15 gennaio 2016)
Auctoria punta su Israele, al via la formazione per le agenzie di viaggio
Israele protagonista della programmazione 2016 di Auctoria.
L'operatore ha deciso di realizzare un programma di formazione rivolto non solo alle agenzie di viaggi, ma anche ai religiosi che accompagnano i viaggiatori in Terra Santa. Un piano di training che dal mese di febbraio vedrà l'operatore impegnato prima a Napoli e poi a Roma "per insegnare, in collaborazione con l'Ente del Turismo di Israele, come proporre la destinazione e quali indicazioni dare" spiega il titolare, Gerardo Napolitano.
Nelle intenzioni del tour operator, c'è anche quella di lanciare sul mercato italiano Eilat, una destinazione che viene proposta all'interno di tour culturali da 7 giorni, in abbinamento con Petra, in Giordania.
(TTG, 15 gennaio 2016)
Anche i gesti parlano
Voci di ebrei e di cattolici
di Fabrizio Contessa
«Il clima è sicuramente diverso rispetto a qualche decennio fa. Sarebbe sbagliato illudersi che i problemi non esistano più, ma alla Chiesa e ai suoi rappresentanti va comunque riconosciuto un impegno sincero. E questo è senz'altro un ottimo presupposto». Giuseppe Momigliano, presidente dell'Assemblea dei rabbini d'Italia, analizza così lo stato dei rapporti tra ebrei e cattolici a cinquant'anni da Nostra aetate e, soprattutto, alla vigilia della visita che domenica prossima Papa Francesco compirà al Tempio maggiore di Roma. Lo fa rispondendo alle domande di Adam Smulevich su «pagine ebraiche» di gennaio. All'importante appuntamento la terza visita di un Papa alla storica sinagoga romana il mensile dell'Unione delle comunità ebraiche italiane dedica uno speciale approfondimento, in cui dando ampio spazio anche a voci cattoliche, tra cui quella del direttore del nostro giornale, si sottolinea la necessità di rilanciare la stagione del dialogo. Non a caso, viene sottolineato, l'incontro del Pontefice con la più antica comunità della diaspora giudaica avverrà nella domenica che tradizionalmente in Italia è dedicata all'approfondimento e allo sviluppo del dialogo tra cattolici e ebrei.
Tuttavia, tiene subito a precisare il rabbino Momigliano, non è e non può assolutamente trattarsi di un dialogo a buon mercato. «Affinché funzioni davvero è fondamentale essere se stessi fino in fondo», afferma invitando a imparare «la lezione di Chanukkah», la festa ebraica delle luci. Occorre, cioè, «che dentro di noi arda una fiammella. La fiammella di un'identità solida e consapevole». Infatti, aggiunge con convinzione, «senza conoscenza profonda delle proprie radici, il dialogo non va da nessuna parte. Il dialogo non è infatti reciproco annullamento e neanche sfumatura di diversità. L'unicità che è propria di ogni esperienza religiosa è anzi un valore da difendere. Un valore che rende tutti più ricchi». In questo senso, è importante far sì che le differenze «che esistono e vanno tutelate » finiscano per non intaccare il lavoro comune sui grandi temi dell'attualità. Anche per questo Momigliano guarda con qualche distacco al documento firmato recentemente da alcuni esponenti del rabbinato internazionale «il piano teologico è sempre molto pericoloso e divisivo» mentre invita «a concentrarsi su questioni in cui la collaborazione tra ebrei e cattolici può trasformarsi in qualcosa di concreto». E qui entrano in ballo non solo la comune e giusta condanna delle violenze terroristiche che in modo blasfemo vengono compiute in nome di Dio, ma anche, se non prevalentemente, tutte quelle altre sfide che investono l'intera umanità: «emergenza sociale, difesa dell'ambiente e della famiglia». E, ribadisce, affinché i risultati vengano raggiunti «è necessario che ciascuno chiarisca la propria identità e trasmetta un messaggio comprensibile».
Proprio quello della comprensibilità dei gesti che accompagnano la strada del dialogo tra cattolici e ebrei è uno dei tasti su cui più insiste il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che in questi giorni ha rilasciato diverse interviste. Sollecitato dal vaticanista Paolo Rodari, in un colloquio che compare sul numero di gennaio di «Tracce», Di Segni offre in particolare due sottolineature riguardanti l'imminente visita del Pontefice al Tempio maggiore. Si tratta, afferma, di «un segno tangibile, visibile, mediaticamente comprensibile, di una continuità di buoni rapporti». Il secondo motivo, «contingente, ma non meno importante», riguarda «l'atmosfera avvelenata esistente nel mondo, e in Europa in particolare, a motivo di conflitti anche religiosi». Così «l'arrivo del Papa, che non ha paura di sfidare le minacce e i rischi perché abbia luogo un incontro di amicizia tra due mondi religiosi, è un grande segno in controtendenza».
La visita del Pontefice alla sinagoga, sottolinea inoltre Di Segni rispondendo alle domande di Stefania Falasca su «Avvenire» del 12 gennaio, «ha il suo significato e la sua forza proprio nel contesto storico che stiamo vivendo». Anche perché «nel percorso del dialogo nulla deve essere mai dato per scontato e non era scontato che ci potesse essere una nuova visita. Siamo sempre attenti al percorso comune e riteniamo ogni passo importante. La visita di Papa Francesco non sarà un mero rituale ereditato dai suoi predecessori, è una nuova tappa, si rinnova di sentimento e si coprirà di nuovi significati». Dell'esistenza di un «rapporto cordiale, costruttivo, di ascolto reciproco» con Papa Francesco riferisce Di Segni rispondendo a Roberto Zichittella sull'ultimo numero di «Famiglia Cristiana». Qui il rabbino capo prende a prestito «la grande metafora biblica che comincia con Caino e Abele e finisce con Giuseppe che incontra i fratelli» per rappresentare il cammino con i cattolici. «Non so a che punto siamo, ma c'è buona volontà e ci sono strumenti per affrontare i problemi e risolvere le difficoltà».
Nulla, insomma, può mai essere dato per scontato. Anche perché, come mette in guardia Lucio Brunelli, direttore dei servizi giornalistici di Tv2000, in un'intervista su «pagine ebraiche», i «pregiudizi sono sempre dietro l'angolo». Infatti, «un certo vento che soffia in Europa, e anche oltre l'Atlantico», sottolinea, «porta a vedere con sospetto tutte le minoranze religiose». Si tratta, di «un vento pagano, non religioso, in realtà, che richiede vigilanza e una testimonianza ferma e libera da parte della Chiesa cattolica e di tutta la società civile». In questo senso, aggiunge Brunelli, impegnato in queste ore a preparare la diretta televisiva della visita del Pontefice, «a me colpisce sempre l'ignoranza che molti cattolici hanno delle tradizioni dell'ebraismo. Come direttore di una televisione cattolica mi piacerebbe poter raccontare di più la vita quotidiana della comunità ebraica, nelle sue feste, nei suoi riti, nelle sue usanze. Credo che anche questo, sia un modo di fare dialogo, conoscendoci meglio in concreto».
(L'Osservatore Romano, 15 gennaio 2016)
Il Papa ha già ottenuto quello che vuole e si appresta a dare agli ebrei ciò di cui oggi non hanno bisogno. Quanto a diplomazia, i preti sono imbattibili. M.C.
I veri motivi dello scontro Iran-sunniti
Lettera dell'Ambasciatore di Israele a La Stampa
di Naor Gilon
Caro direttore,
ufficialmente - come noto - alla base della nuova e drammatica crisi diplomatica tra Iran e Arabia Saudita ci sono due avvenimenti: l'esecuzione dello Sceicco sciita Nimr al-Nimr a Riad e l'assalto alle rappresentanze diplomatiche saudite a Teheran e Mashhad.
Sempre ufficialmente, proprio le devastazioni portate dai manifestanti iraniani alle rappresentanze saudite sono all'origine della decisione di molti Paesi sunniti - tra questi Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Sudan, Gibuti, Egitto, Turchia e Kuwait - di condannare, ritirare o mutare (al ribasso) lo status delle loro rappresentanze diplomatiche nella Repubblica Islamica dell'Iran.
A questo punto, però, è necessario porsi una domanda: è davvero questo singolo episodio - per quanto grave - ad aver determinato la dura reazione dei Paesi sunniti? A mio parere no. Alla base di questa reazione, infatti, c'è qualcosa di più profondo. Un senso di malessere che, per troppo tempo, è stato ridimensionato o ignorato dall'Occidente.
Negli ultimi due anni, infatti, abbiamo assistito ad una politica occidentale volta a riportare l'Iran all'interno della Comunità internazionale. Apparentemente, si tratta di un buon proposito, ma i Paesi sunniti hanno percepito che sia stato creato uno sbilanciamento tra loro, alleati storici dell'Occidente, e lo Stato sciita dell'Iran.
Ecco alcuni esempi di quanto affermo. Mentre l'Occidente fa la corte all'Iran e promuove scambi economici, la politica estera di Teheran in Medio Oriente non è cambiata, anzi continua a destabilizzare gli Stati arabi della regione. Basti pensare alla condotta dell'Iran in Paesi quali Libano, Siria, Iraq, Bahrein e Sudan.
Ancora, l'annosa questione del programma missilistico dell'Iran. Nelle sole ultime settimane, testando nuovi missili balistici, il regime iraniano ha violato per ben due volte la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Non contento, l'Iran ha anche mostrato in tv due nuove «città missilistiche», degli impianti sotterranei in cui i Pasdaran nascondono i loro missili balistici. I Paesi sunniti vedono lo stesso Rouhani - guardato dal mondo come un moderato - affermare che, nonostante le Nazioni Unite, il programma missilistico di Teheran andrà avanti senza limiti. Di fronte a queste provocazioni iraniane, il mondo sunnita ha percepito la reazione occidentale come blanda e passiva.
Infine, la pena di morte: il mondo si è scandalizzato - a ragione - di fronte alla notizia delle esecuzioni in Arabia Saudita. Purtroppo, la pena di morte non è estranea alla regione mediorientale. Basti qui ricordare che, dalla sola elezione di Hassan Rouhani a Presidente dell'Iran, quasi 2.000 detenuti sono stati impiccati, diversi dei quali per ragioni politiche. Un record assoluto, avvenuto in piena violazione di ogni normativa internazionale, di fronte al quale la reazione occidentale è stata vista, anche in questo caso, come blanda e passiva.
Concludendo, quanto sta accadendo oggi fra l'Iran e i Paesi sunniti è il frutto di una serie di pericolosi eventi a cascata. Eventi che, molto chiaramente, dimostrano come la visione occidentale di un Iran «fonte di stabilizzazione» e «parte della soluzione» delle attuali crisi locali sia, agli occhi degli attori regionali, non solo non credibile, ma possa addirittura portare ad una escalation.
(La Stampa, 15 gennaio 2016)
Prima tocca alla kippah, poi gli ebrei scappano. Il caso Malmö
Nella terza città svedese più popolosa negli anni Settanta, la comunità ebraica contava oltre duemila membri: oggi ne sono rimasti meno di cinquecento. Gli altri sono partiti per Stoccolma o per Israele. "In questo momento, molti ebrei in Svezia hanno paura" scrive Johanna Schreiber, una nota giornalista che vive a Stoccolma.
di Giulio Meotti
ROMA - Nella zona industriale di Malmö, la terza città della Svezia da sempre governata dai socialdemocratici, c'è il celebre grattacielo a spirale realizzato dall'architetto spagnolo Santiago Calatrava. E' ispirato a un torso umano, che vuole simbolizzare le decine di etnie che vivono in città, tutte affratellate in un abbraccio multiculturale. Approssimativamente un terzo dei 300 mila abitanti di Malmö ha, infatti, un'origine straniera e questa percentuale è in costante aumento. Ma gli ebrei stanno fuggendo da Malmö. Negli anni Settanta, la comunità ebraica contava oltre duemila membri: oggi ne sono rimasti meno di cinquecento. Gli altri sono partiti per Stoccolma o per Israele. Il Centro Simon Wiesenthal ha diramato un avvertimento a tutti gli ebrei che si recano in visita a Malmö: "Togliete i segni religiosi in pubblico e non parlate ebraico". Malmö infatti è Marsiglia con cinque anni di anticipo (due giorni fa, le autorità ebraiche nella città francese hanno diffuso un avvertimento simile: "via la kippà, per il vostro bene"). Prima dell'attentato a Copenaghen, un anno fa, all'asilo nido ebraico di Malmö c'erano 23 bambini: oggi ne sono rimasti cinque. Le guardie armate di fronte alla scuola, più che calmare la popolazione ebraica, hanno scatenato il panico e i genitori preferiscono iscrivere i bambini alla scuola pubblica. E' la fine dell'identità ebraica, la diluizione. C'è chi sussurra che la sinagoga in città verrà presto trasformata in un museo. Dal 2010 a oggi, la sinagoga ha perso un terzo dei fedeli. Durante questo inverno, gli ebrei per strada sono stati apostrofati "morte agli ebrei" e "più coltellate", in riferimento alla Terza Intifada in Israele. Il rabbino, Shneur Kesselman, è costantemente attaccato per strada: quasi duecento gli episodi di antisemitismo in dieci anni. Il suo tradizionale abbigliamento chassidico - vestiti neri, cappello e barba lunga - lo rende facile da identificare come ebreo. A contribuire a questo clima in città è stato lo storico sindaco di Malmö, Ilmar Reepalu, che di fronte alle aggressioni a una manifestazione di solidarietà a favore degli ebrei disse erano stati gli ebrei stessi "a provocare tali violenze non avendo condannato i crimini israeliani commessi nella Striscia di Gaza".
"In questo momento, molti ebrei in Svezia hanno paura" scrive Johanna Schreiber, una nota giornalista che vive a Stoccolma. "I genitori hanno paura a lasciare i loro figli alla scuola materna ebraica, hanno paura ad andare in sinagoga e ci sono molte persone che stanno nascondendo le loro stelle di Davide, perché sono troppo spaventate per indossarle". Fra gli ebrei americani e in Israele, il nome di Malmö è associato alla città al mondo più pericolosa per gli ebrei. Eccetto le capitali del mondo arabo-islamico, ovviamente. Petter Ljunggren, un giornalista svedese che voleva testare la vita degli ebrei a Malmö, ha indossato una kippah e una collana con la stella di Davide. Il risultato è un documentario per la televisione di un'ora e intitolato "Odiare gli ebrei a Malmö". Nel quartiere simbolo dell'integrazione, Rosengard, contro Ljunggren sono state lanciate le uova dalle finestre. Alla fine, il giornalista è dovuto scappare e dismettere il copricapo ebraico. Un'altra giornalista ha percorso le strade di Södertälje indossando il velo islamico e non è stata importunata da nessuno. E' questo che insegna Malmö: per gli ebrei il passo successivo dopo essersi tolti la kippah è lasciare una città e poi un paese. Specie quando il tuo primo ministro e ministro degli Esteri dicono che contro Israele non esiste terrorismo e che sono gli israeliani a dover essere messi sotto inchiesta. La placida e civilissima Svezia, il "paradiso dei rifugiati" trasformatosi in un incubo per gli ebrei.
(Il Foglio, 15 gennaio 2016)
«Non dobbiamo nasconderci». Gli ebrei, la paura e il kippah-day
di Daria Gorodisky
Il Foglio ieri ha lanciato un'iniziativa: trasformare la prossima Giornata della memoria, il 27 Gennaio, in una Giornata della kippah. L'idea è nata dopo l'ultima aggressione di un ebreo a Marsiglia, lunedì scorso, da parte di un estremista islamico; e dal conseguente invito del presidente del Concistoro israelita della città, Zvi Ammar, a non indossare in strada il copricapo ebraico. E anche se il Gran Rabbino di Francia, Haim Korsia, ha replicato «continueremo a portare la kippah», la scelta della comunità di Marsiglia dà da pensare sul livello di allarme. Un allarme che però, spiega Il Foglio in prima pagina, riguarda tutto l'Occidente: «Un ebreo che si nasconde per paura di essere riconosciuto come ebreo è l'emblema perfetto di un mondo che costringe l'Occidente a nascondersi per paura di provocare la reazione di chi vuole accoltellare l'Occidente
Gli ebrei non devono nascondersi. L'Occidente non deve nascondersi».
Da chi? Il riferimento al crescente radicalismo islamico è esplicito. La Anti-Defamation League ha realizzato per la prima volta un sondaggio sui musulmani che vivono in Belgio, Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito: ne è risultato che il 55% di loro ha convinzioni e sentimenti antisemiti. Sono dati relativi al 2014 e, da allora, gli eventi dimostrano che sono peggiorati. L'appello del Foglio dunque è apprezzato dagli ebrei italiani. Pagine ebraiche 24, il notiziario online dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, ieri lo ha rilanciato. E la presidente della Comunità di Roma, Ruth Dureghello, lo ha definito «una battaglia coraggiosa, in controtendenza con chi nel mondo usa i simboli religiosi per scopi ben diversi». «È giusto aggiunge Dureghello mostrare la propria identità mentre si viene attaccati verbalmente, sui muri e fisicamente da chi è spacciatore di odio. Se ci si nasconde, significa che c'è una debolezza delle istituzioni». Anche Emanuele Fiano, deputato del Pd, aderisce all'iniziativa: «Libertà significa non avere paura di mostrare la propria identità, fino a quando non collida con i diritti altrui. La situazione oggi è molto preoccupante, c'è un Islam radicale e terrorista i cui simboli assumono una forza che avevamo dimenticato. Per fortuna in Italia per noi ebrei non c'è il livello di allerta della Francia».
(Corriere della Sera, 15 gennaio 2016)
Frase ebraica alla rovescia sulla targa del ghetto di Lerici
di Sondra Coggio
LERICI - Se n'è accorta un'insegnante, grazie alla segnalazione di un conoscente, che conosce bene la scrittura ebraica. Le parole incise sulla targa all'ingresso dello storico ghetto di Lerici, sono scritte al contrario.
La dicitura è corretta, le parole sono giuste, e significano proprio "quartiere ebraico antico", ma le lettere sono rovesciate, rispettosa come dovrebbero essere: in quanto l'ebraico si scrive e dunque si legge al contrario, rispetto alle altre lingue. E la conferma al sospetto, l'ha data il centro di cultura ebraica di Roma, alla quale si è rivolto un appassionato di storia lericina, Alessandro Manfredi Monguidi: venuto a conoscenza dell'errore, direttamente dall'insegnante che ha ricevuto la segnalazione. Un primo consulto con una esperta, Danila Paganini, aveva confortato la tesi dell'errore.
Ora la lettera ufficiale arrivata da Roma, a firma di Micol Temin, conferma che l'incisione è avvenuta alla rovescia. E' sbagliata, scrive, perchè "le lettere sono state riportate da sinistra a destra e non viceversa". La targa è stata inaugurata solo due anni fa, vista e fotografata chissà quante volte, anche dai turisti: ma nessuno se ne era accorto. Certo non era facile, accorgersene, visto che per farlo occorre una conoscenza adeguata della scrittura ebraica. Il caso è venuto alla luce nell'ambito di un approfondimento sul ghetto ebraico lericino, scritto da Manfredi Monguidi per il circolo culturale "La Rotonda".
La nota ha preso spunto dal libro di Valerio Botto, che ricostruisce in modo storico, attraverso la ricerca documentale, la storia del quartiere, ci sono passaggi di grande interesse, come le parti dedicate all'interazione fra lericini e famiglie in arrivo da fuori, testimoniata dai cognomi lericini riferibili a ebrei o convertiti. Agostino Cananeo, Alvise Zanacho, Michele Angelo, Giò e Francesco e Giulio Lorenzo Levantino, Francesco Sabatino, Albareco Sabbadino, Battista e Francesco Saione: riconducibile a Sion, ovvero Gerusalemme. E, successivamente, i Tedeschi, gli Spagnoli, i Della Costa, gli stessi Giacopello "dei Davidi", i Baracchini, i Barenco, i Berni, i De Benedetti, i Vallero, i Brondi, i Funaro
Manfredi Monguidi, con le sue note, iniziate nel 2012, ha suscitato curiosità, e riflessioni diverse.
E fra gli spunti arrivati, c'è stata anche la segnalazione dell'errore: del quale ha chiesto appunto conferma al centro di cultura ebraica, che ha ribadito l'errata incisione delle parole. Ora, si pone un problema: come rimediare. L'inaugurazione era avvenuta alla fine del gennaio del 2013. C'erano più di cento persone. Avevano collaborato fra l'altro studiosi di primo piano, impegnati da anni nella valorizzazione della storia del ghetto. L'errore nulla toglie al valore del gesto. Se davvero la scritta è alla rovescia, però, c'è un problema, che in qualche modo va risolto.
(Il Secolo XIX, 15 gennaio 2016)
Sul piano tecnico la cosa effettivamente è un po grave, per chi ha fatto lerrore e per chi non se ne è accorto. Dato il tipo di targa, qualcuno con un minimo di conoscenza dellebraico lavrà pur letta, prima e dopo che fosse appesa.
I like dell'odio
Le maschere di Facebook: oscura le pagine contro i palestinesi, ma non ha problemi se sono contro Israele
di Giulio Meotti
ROMA. - Il terrorismo contro Israele corre sui social media. Facebook, in particolare. Il Foglio, lo scorso 5 gennaio, ha rivelato ad esempio come alcuni ufficiali della Guardia presidenziale di Abu Mazen, presidente dell'Autorità palestinese, hanno creato pagine Facebook che incitano a pugnalare israeliani (anche ieri, due accoltellamenti di ufficiali dell'esercito israeliano). Adesso il colosso di Mark Zuckerberg è stato colto in fallo. Molti israeliani e simpatizzanti di Israele credono che Facebook permetta ai nemici dello stato ebraico di pubblicare sulle loro pagine. Per verificare questa teoria, il 28 dicembre la ong israeliana Shurat HaDin, nota anche come Israel Law Center, ha lanciato il suo "Big Facebook Experiment", in cui cerca di verificare se il gigante dei social media abbia un pregiudizio misurabile contro Israele. Il progetto è semplice: creare due pagine di Facebook, una anti palestinese e una anti israeliana. Poi segnalarle a Facebook come violazione delle sue regole etiche, ad esempio, l'incitamento all'odio e l'incitamento alla violenza. Poi aspettare e vedere cosa succede.
Ai fini dello studio, Shurat HaDin ha postato messaggi gemelli su entrambe le pagine, una pagina chiamata "Fermare Israele" e l'altra "Fermare la Palestina". Frasi come "vendetta contro il nemico arabo" e "morte a tutti gli arabi" vengono postate sulla pagina antipalestinese; "vendetta contro il nemico ebraico" e "morte a tutti gli ebrei" sulla pagina anti israeliana. Shurat HaDin ha anche postato immagini violente su entrambe le pagine. Il 30 dicembre, Shurat HaDin denuncia entrambe le pagine come una violazione delle norme di Facebook, usando lo stesso meccanismo: un semplice pulsante cliccabile con il mouse a disposizione di tutti gli utenti. Trascorse 24 ore, Facebook risponde alla ong dicendo che la pagina anti palestinese è stata chiusa perché "contenente minacce di violenza" e perché aveva "violato le nostre norme comunitarie". La pagina è diventata subito inaccessibile per tutti gli utenti. Diversa la risposta sulla pagina anti israeliana: il suo contenuto "non è in violazione delle regole di Facebook". Facebook ha cambiato idea dopo il 4 gennaio, quando Shurat HaDin ha pubblicato un video che mostra tutto l'esperimento, diventato virale sulla stampa israeliana e sui social media. Facebook il 5 gennaio dichiara che "entrambe queste pagine sono state ora rimosse".
Nitzana Darshan-Leitner, l'intrepido avvocato che dirige Shurat HaDin, ha detto che "con oltre trenta israeliani uccisi in attacchi terroristici da ottobre, con molti degli assassini che ricevono incoraggiamento e motivazione sui social media, è sconvolgente che Facebook avrebbe continuato a ignorare le istanze di incitamento contro gli israeliani, pur soddisfacendo rapidamente il suo obbligo di rimuovere le altre istanze di incitamento quando ritiene opportuno farlo, come abbiamo mostrato in questo esperimento". Nel mese di ottobre la stessa ong ha intentato una causa a New York contro Facebook per conto di ventimila israeliani sostenendo che il social network dei media permette l'incitamento dell'Intifada dei coltelli. Ieri è arrivato, senza bisogno di aggiungere altro, il commento del Wall Street Joumal: "Facebook non è alla radice del problema. Ma se l'antisemitismo entra a far parte del mainstream, allora forse Facebook deve riconsiderare il suo ruolo di spettatore".
Quello in cui i social media sono "safe" per i terroristi, ma non per gli ebrei.
(Il Foglio, 15 gennaio 2016)
Israele e Giordania riusciranno a salvare il Mar Morto?
Un canale tra i due Paesi dovrebbe trasportare le acque del Mar Rosso nel grande lago salato evitandone la scomparsa. Ma c'è un rischio: chimico
di Simone Ferrovecchio
Il Mar Morto sta scomparendo. Cosa fare per salvarlo? Israele e Giordania vogliono provarci con un canale, finanziato dai due Paesi con la collaborazione della Banca Mondiale per un costo previsto di dieci miliardi di dollari (oltre 9,3 miliardi di euro). Secondo il progetto questo canale collegherà il Mar Rosso e, appunto, il Mar Morto: l'acqua verrà incanalata ad Aqaba, in Giordania, e immessa nel Mar Morto, dopo un percorso di 200 chilometri: dovrebbero esserne trasportati 300 milioni di metri cubi l'anno. Il canale, che correrebbe nel deserto lungo la frontiera tra Giordania e Israele, legati da un trattato di pace dal 1994, produrrebbe anche elettricità: l'acqua infatti arriverebbe su un altopiano di 200 metri e sarebbe fatta cadere nel punto più profondo del Mar Morto, oltre 400 metri sotto il livello del mare, dove verrebbe costruita la centrale elettrica più grande della regione.
Il Mar Morto, lungo 80 chilometri e largo 18, tra Israele, Giordania e Cisgiordania, è in realtà un lago che si trova nella depressione più profonda della Terra, causata da un'evaporazione delle acque che dura da millenni e dai più recenti prelievi per scopi industriali (come quelli Potasb company) non compensati dall'apporto degli immissari. «Da decenni poi il livello delle acque cala per via del prelievo d'acqua dal fiume Giordano, unico immissario di rilievo» spiega Michael Krom, docente di Chimica marina e ambientale all'Università di Leeds e consulente di studi sul Mar Morto commissionati dalla Banca Mondiale. «Nel 1983 le acque erano a 396 metri sotto il livello del mare. Oggi sono a meno 428».
Krom è un fautore del progetto del canale, ma teme anche, come molte associazioni ambientaliste, che una reazione chimica tra acque di diversa salinità annulli qualità del Mar Morto note fin dai tempi dei Romani. «Se l'alta concentrazione di sali e minerali non consente la sopravvivenza di alcuna forma di vita nelle acque, il basso livello di raggi Uv e l'alto tasso di ossigeno nell'area creano un microclima unico per la salute umana e per oltre 400 specie di piante e 250 di animali» spiega Gidon Bromherg, direttore dell'organizzazione ambientalista israeliana Eco Peace Middle East e consulente dei governi giordano e israeliano.
Spiega Krom: «Nelle acque del Mar Morto la concentrazione di calcio e magnesio, preziosi contro allergie e infezioni delle vie respiratorie, è superiore di oltre il 70 per cento a quella della normale acqua marina. E altissima è anche la concentrazione di bromo, usato nelle terapie del sistema nervoso, e dello iodio, con cui si curano disfunzioni ghiandolari e dolori reumatici. Nessuno può dire se e quanto l'immissione di acqua estranea altererà questo delicatissimo equilibrio».
(Venerdì di Repubblica, 14 gennaio 2016)
Israele - Della Pergola: nel 2015 la più alta emigrazione di ebrei dall'Italia
GERUSALEMME - "E' il più alto numero di sempre, a parte gli anni 1948-49". Non ha dubbi il demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola nel quantificare l'emigrazione degli ebrei italiani nel 2015 in Israele, in rapporto ai dati complessivi forniti oggi dall'Agenzia Ebraica che parlano per lo stesso anno di circa diecimila persone dall'Europa occidentale. "Alla fine dell'anno appena passato sono stati 353: un dato che può apparire esiguo ma che non lo è - dice all'ANSA - a raffronto del numero altrettanto contenuto degli ebrei italiani, circa 30.000. Si parla di poco di più dell'1 per mille". Così come avvenuto per gli altri ebrei europei, anche per quelli italiani emigrati in Israele - sottolinea Della Pergola - "l'antisemitismo, in continuo aumento, è stato fonte di grande preoccupazione".
(ANSAmed, 14 gennaio 2016)
Quando gli ebrei erano confinati o nascosti anche da noi
di Andrea Filisetti
CLUSONE (BG) - Di quanto hanno vissuto gli ebrei durante la persecuzione nazifascista non si potrà mai scrivere abbastanza: impossibile rappresentare la tragedia dei loro patimenti e delle loro vicissitudini. Con il passare del tempo le vicende si fanno sempre più lontane, eppure si possono ancora aggiungere nuove pagine, come quella degli ebrei prima confinati e poi nascosti nei paesi dell'alta valle Seriana tra il 1941 e il 1945.
Dagli archivi comunali, per anni dimenticati o semplicemente sottovalutati, da vecchi faldoni ingialliti dal tempo affiorano nomi, volti e storie.
Sono documenti che testimoniano la presenza di un numero importante di persone perseguitate e confinate. Le ricerche sono in corso da un paio di anni, ma molto è già stato tolto dall'oblio. L'archivista Bernardino Pasinelli ne parlerà nell'ambito del XVIII ciclo "Fonti e temi di storia locale" organizzato dal Centro Studi Archivio Bergamasco, nel seminario da titolo: «Eravamo come sospesi nel nulla». Ebrei internati liberi nel Bergamasco (1940 - 1943), venerdì 5 febbraio 2016, ore 17,30 allo Spazio Viterbi del Palazzo della Provincia di Bergamo, in via Torquato Tasso 8. Bernardino Pasinelli sarà anche ospite a Decoder mercoledì 20 gennaio alle ore 20,30 (Antenna2 canale 88).
A Clusone ne arrivarono una cinquantina. A Rovetta cinque o sei. Nel Bergamasco furono internati oltre 130 ebrei in una ventina di Comuni. «Venivano principalmente da Milano - racconta l'archivista Bernardino Pasinelli - da una numerosa comunità cittadina». Il loro destino era segnato dai tracciati della rete ferroviaria. Dai campi di concentramento di Ferramonti di Tarsia in Calabria, di Tortoreto (Teramo) e altri ancora, venivano spostati a bordo di vagoni e destinati a località isolate con un presidio dei Carabinieri, allora oltre 600 in tutta Italia. Alle stazioni dell'Arma dovevano presentarsi ogni giorno per porre una firma su un registro. Era così impossibile per loro allontanarsi da quei borghi. «Anche se lontani - continua Bernardino - erano in comunicazione tra di loro. Si conoscevano e si scambiavano consigli anche su dove andare. Quelli a Clusone dialogavano con quelli alloggiati a Gromo, a Rovetta, a Sovere, a Gandino, dove da tempo sappiamo che si sono salvate una cinquantina di persone».
Ma oltre a quelli alloggiati ufficialmente, in alta valle giunsero ebrei anche in segreto, nascosti e rimasti invisibili per tutto il tempo. «Chi aveva notato qualcosa di sospetto non aveva parlato - racconta l'archivista - e a guerra finita in molti si sorpresero dell'esistenza di persone rimaste nascoste così a lungo. A Rovetta ad esempio, paese in cui erano state internate ufficialmente cinque o sei persone, trovarono rifugio una ventina di ebrei». E a raccontare queste storie sono i documenti esaminati negli archivi ed anche i racconti orali, il sentito dire di alcuni amici e parenti di chi sapeva e ha nascosto e aiutato gli ebrei.
«"Nessuno degli appartenenti alla razza ebraica ha preso dimora qui": è quanto scrive - spiega - il Podestà locale il 3 novembre del 1943 a seguito della richiesta di informazioni del 23 ottobre 1943 effettuata dalla Prefettura di Bergamo su indicazione del Comando Militare Germanico. Ed è probabile invece che l'autorità locale ben sapesse che non era così. Alcuni avevano certamente preso la via dei monti per arrivare in Svizzera, ma molti erano nascosti nelle soffitte e nelle cantine, nelle baite e nei conventi, aiutati da persone come don Giuseppe Bravi e dalle suore sacramentine di S. Lorenzo e di Songavazzo. Inoltre a Rovetta con Fino vi erano oltre 300 sfollati a causa della guerra e dei bombardamenti su Milano e dintorni, fra cui dodici profughi delle "Terre invase", fuggiti da Napoli e Reggio Calabria dopo lo sbarco degli Alleati».
L'archivio di Clusone custodisce una documentazione importante sulla quale sta indagando Mino Scandella, presidente del Circolo Culturale Baradello. «Ogni nucleo familiare presente aveva un fascicolo dedicato - spiega Bernardino -. Ne sono arrivati una cinquantina, forse anche di più. Molti sono stati trasferiti nei paesi vicini, dove poi si sono nascosti, scomparendo, oltre che nelle soffitte, anche tra le montagne. A Clusone si registra in quegli anni anche il passaggio di cittadini apparentemente provenienti da Paesi lontani: è il caso di alcuni ebrei nicaraguensi, quasi certamente ebrei che viaggiavano con documenti falsi». Si trova anche traccia di corrispondenza censurata, la posta degli ebrei non aveva privacy, poiché essi erano sottoposti al rigido controllo dei confinati.
La ricerca non è ancora conclusa anche se ha già dato frutti importanti. «È stato lo storico Sergio Luzzatto che mi ha invitato a indagare sulla presenza degli ebrei nei nostri comuni e, grazie all'autorizzazione della Sovraintendenza Archivistica, alla collaborazione di tanti impiegati comunali, ho iniziato il mio lavoro. Se l'archivio della Prefettura non fosse rimasto danneggiato in uno "scarto d'archivio" nel 1955 (momento in cui alcuni documenti sono stati destinati al macero) oggi si saprebbero più cose. Anche a Sovere ho trovato documenti importanti. Ho scoperto la storia di Israel Szafran, un giovane ebreo che studiava veterinaria a Pisa, internato a Clusone e a Sovere, quindi nascosto sui monti tra Sovere e Rovetta, dove incontra i partigiani della Camozzi ai quali si aggrega, aiutato dal loro capo Bepi Lanfranchi e da don Giuseppe Bravi, con i quali rimase in corrispondenza anche dopo la guerra e dopo avere raggiunto la Terra Promessa di Israele, come molti degli internati».
A Clusone viene trasferito anche un artista di origine ungherese Eugenio Kron, che si firmava come Kron Jeno. L'artista vi arriva il 3 settembre 1941. Pittore e incisore, era in Italia per lavoro dal 1928. Dal maggio del 1942 sino al novembre del 1943 si spostò con la moglie Maria Feldman e la suocera Adele Linder a Sovere. I tre ebrei vennero aiutati dal parroco di Sovere don Giorgi. Il sacerdote falsificò i documenti di battesimo per dimostrare che i Kron erano cattolici. Alcune opere di Jeno Kron sono conservate a Genova nelle collezioni del Comune, a Firenze nella Galleria degli Uffizi, a Milano nel Castello Sforzesco e a Roma nel Palazzo Corsini. Luoghi e persone di Sovere si possono ammirare nelle opere di Kron esposte all'Accademia delle Belle Arti di Budapest. «Chi li aveva ospitati a Sovere - spiega l'archivista Bernardino Pasinelli - mantenne con la famiglia Kron un'amicizia e una corrispondenza che è durata sino alla morte di Maria Feldmann, la moglie di Kron, verso la fine degli anni Ottanta. La Feldmann nelle sue lettere scriveva che ogni suo sogno bello era ambientato a Sovere e quei sogni le regalavano un risveglio più sereno».
(MyValley.it, 14 gennaio 2016)
Degli ebrei non ci si dimentica mai
di Valter Vecellio
La notizia è che un folto gruppo di accademici italiani lavora a un appello che invita la comunità scientifica al boicottaggio culturale di Israele, o quantomeno delle sue istituzioni ufficiali; una iniziativa sulla falsariga di quanto già accaduto in Gran Bretagna: «Non accetteremo inviti dalle istituzioni accademiche israeliane, non saremo referenti in alcuno dei loro eventi, non parteciperemo a conferenze da loro finanziate, organizzate o sponsorizzate, né coopereremo con loro», hanno scritto, nell'ottobre scorso, sul "Guardian", trecento docenti e ricercatori britannici. Reazione a quelle che hanno definito «violazioni intollerabili 230dei diritti umani inflitte a tutto il popolo palestinese». Si poteva non imitare l'iniziativa d'oltre Manica? Certo che no.
Sembra siano 150 gli accademici che hanno aderito a un testo ancora in fase di definizione; si vogliono evitare, si fa sapere, toni troppo duri. Non tanto per convinzione, piuttosto per coinvolgere la massima platea possibile. La sostanza, per quanto la si voglia indorare, è comunque un "No" alle istituzioni ufficiali di Israele; bontà dei promotori il no non si chiede sia applicato a singoli intellettuali e docenti israeliani, purché invitati (o invitanti) a titolo personale.
A Londra nelle settimane scorse è diffuso una sorta di contro-appello, promosso tra gli altri da J. K. Rowling, l'autrice di Harry Potter, dallo storico scozzese Niall Ferguson, e da Simon Schama, docente alla Columbia University: «Stiamo cercando di informare e incoraggiare il dialogo fra Israele e i palestinesi in una comunità culturale e creativa più ampia. I boicottaggi culturali che vogliono isolare Israele sono divisivi e discriminatori, e non favoriscono la pace».
Non è la prima volta che accademici italiani sottoscrivono appelli e documenti per il boicottaggio di Israele. Circa cinquecento antropologi, per esempio, hanno denunciato "il potere, l'oppressione e la violenza strutturale" di Israele. Si badi: "strutturale". Complimenti. L'appello chiede che "non si collabori a progetti o eventi ospitati o finanziati da istituzioni accademiche israeliane, non si insegni o si partecipi a conferenze di tali istituzioni, e non si pubblichi in riviste accademiche basate in Israele". In trentacinque, docenti nelle maggiori università italiane si sono appellati al Commissario europeo della Ricerca, Màire Geoghegan-Quinn, perché escludano le istituzioni "complici delle violazioni israeliane del diritto internazionale" dai programmi di ricerca finanziati dall'Unione europea. Come nella migliore inquisizione. I fautori del boicottaggio culturale (lo hanno fatto Steven Levitsky, docente ad Harvard, e Glenn Weyl, dell'università di Chicago dalle colonne della "Washington Post"), spiegano che "amano Israele"; invocano il boicottarlo per salvare Israele da se stessa.
Vedremo se anche in Italia avremo delle Rowling, dei Ferguson e dei Schama, capaci di reagire all'inquietante (e limitiamoci all'inquietante) appello per il boicottaggio culturale di Israele. Per quel che mi riguarda, da oggi, metterò in tasca, come un talismano una stella gialla; da esibire all'occorrenza.
(L'Opinione, 15 gennaio 2016)
Mantova, presenza ebraica nella città dei Gonzaga
Mantova, come la descrive Dante nella Divina Commedia, è adagiata e avvolta dalle acque dei suoi laghi. Scrigno di rara bellezza, la Mantova dei Gonzaga racchiude anche numerose vestigia della presenza ebraica. Cultura, arte, tradizione culinaria.
di Cinzia Dal Brolo
"Non molto ha corso, ch'el trova una lama, ne la qual si distende e la 'mpaluda"
(Dante Alighieri, Inferno, canto XX, (vv. 79-80)
I versi citati nella Divina Commedia ricordano l'ubicazione di Mantova, placidamente adagiata sulle acque dei suoi laghi, ma anche il suo destino di città vittima di alluvioni, e circondata da paludi; il cui profilo inconfondibile appare, mentre da Ponte San Giorgio ci avviciniamo alla città.
Conoscevo Mantova perché appassionata di libri, e quindi fedele seguace del Festival della Letteratura, organizzato annualmente a settembre; in altre occasioni ho visitato il centro storico, gustando alcune specialità locali, ma non conoscevo la "Mantova Ebraica" e la sua cultura. Ho potuto apprezzare e condividere questa bella esperienza nell'ambito di un Educational Tour organizzato dal Comune di Mantova e dalla Strada dei Vini Mantovani, che si è rivelato molto interessante, perché all'elemento culturale è stato abbinato anche l'aspetto enogastronomico.
La Sinagoga Norsa Torrazzo monumento nazionale
Mantova conserva numerose vestigia della presenza ebraica, alcune in buone condizioni, altre più trascurate. Certamente la storia della comunità ebraica, ampia e vivace, si lega indissolubilmente con le vicende cittadine; furono, infatti, i Gonzaga, duchi di Mantova, interessati agli affari e al commercio, a favorire l'insediamento e lo sviluppo degli ebrei in città. E con lo sviluppo delle attività economiche, la comunità ebraica si amplia, e raggiunge circa 2.000 unità nel Cinquecento.
Simbolo della religiosità ebraica, la Sinagoga Norsa Torrazzo (via Govi) è monumento nazionale e conserva numerosi arredi settecenteschi. All'ingresso troviamo gli elementi principali, a sinistra l'aron (armadio sacro) che contiene i rotoli della Torà, a destra la tevah (pulpito), entrambi di legno finemente lavorato e impreziosito da tessuti ricamati. La sala di preghiera è rettangolare, pareti e volta sono ricoperti di stucchi, esaltanti la magnificenza della famiglia Norsa o riproducenti versetti biblici in ebraico. Questa è l'unica sopravvissuta delle sei sinagoghe presenti nel Ghetto, istituito nel 1612, ed è stata fedelmente ricostruita dopo la demolizione del quartiere ebraico avvenuto all'inizio del '900.
Tra gli edifici meglio conservati spicca la Casa del Rabbino (via Bertani 54) che risale al 1680; costruita dall'architetto fiammingo Frans Geffels, prefetto delle Fabbriche Gonzaghesche, è un edificio di quattro piani, la cui facciata è decorata con fregi e mascheroni e presenta una serie di pannelli in stucco, di pregevole fattura.
Mantova "citta ideale"
Non poteva mancare la visita alla concattedrale di Sant'Andrea, la più grande chiesa di Mantova, che custodisce i quadri di Andrea Mantegna, qui sepolto; poco più in là Piazza Broletto e Piazza Sordello, circondate da edifici storici e palazzi eleganti, sono luoghi deliziosi e racchiudono il concetto di "città ideale" cui i Gonzaga si ispiravano. La luce di un bel pomeriggio invernale inonda le piazze, e noi gustiamo il camminare lento, scoprendo angoli curiosi e piccole botteghe artigianali, sapientemente guidati da Chiara Baroni e da Emanuele Colorni, Presidente della Comunità ebraica mantovana.
All'ora del tramonto raggiungiamo Palazzo Te (1525), straordinaria opera architettonica di Giulio Romano, inno alla bellezza e alla potenza dei Gonzaga, allegoria celebrata nelle Sale dei Giganti, Amore e Psiche, Sala dei Cavalli. Qui, ci attende una piacevole sorpresa, l'esecuzione di alcune composizioni da parte del Coro di Mantova Associazione culturale Pietro Pomponazzo, che ci ha regalato momenti di pura emozione. Tra i canti eseguiti mi colpisce il brano "Mizmor le David" (Salmo di Davide) inneggiante alla potenza di Dio.
L'ingente patrimonio musicale della comunità ebraica mantovana è stato recuperato e valorizzato proprio dalla Schola Cantorium e dell'Associazione Culturale P. Pomponazzo, da anni impegnate a difendere questa tradizione. I canti, infatti, traggono spunto da spartiti manoscritti ottocenteschi, che si ispirano a momenti di vita quotidiana (nascite, matrimoni, festività) durante i quali si consumava parecchio cibo.
La cucina ebraica e quella mantovana
La cucina ebraica, soggetta alle indicazioni e ai divieti della Torà (libro sacro) è molto legata alla tradizione; tra i suoi precetti il divieto di utilizzare a fini alimentari il sangue animale, il divieto di mangiare carne di maiale, le indicazioni che favoriscono il consumo di pollame, anatre, oche, faraone e determinati pesci (esclusi i crostacei). Nei secoli, si sviluppa una profonda contaminazione con la cucina mantovana, più robusta e ricca di salumi.
Mantova, infatti, è famosa per la carne di maiale e gli insaccati, i formaggi Grana Padano e Parmigiano Reggiano DOP, i dolci, le mostarde e chi vuole gustare la cucina tradizionale, non ha che l'imbarazzo della scelta, perché ovunque si mangia bene.
Noi vi suggeriamo l'osteria Fernelli (Via Fernelli 28A), in centro storico, un locale accogliente e grazioso, dove gustare il tagliere di salumi, oltre a saporiti formaggi abbinati a strepitose mostarde e marmellate fatte in casa. Poi gli immancabili tortelli di zucca (con amaretto) e per finire uno dei dolci tradizionali mantovani, la sbrisolona, una torta dura, fatta con burro, mandorle tritate e zucchero.
La cucina mantovana che più si avvicina alla tradizione kosher offre piatti come i bigoli con le sardelle, simili a spaghettoni freschi, fatti con il torchio e considerati di magro; il pesce (carpa, luccio) e il baccalà, che viene fatto cuocere in padella con succo di limone ed un trito di aglio e prezzemolo. Piatti semplici, ma gustosi, mangiati al ristorante "Bice la gallina felice"(via Carbonati) in centro a Mantova.
Infine, merita una particolare citazione l'osteria contemporanea "Lo Scalco Grasso"(via Trieste, 55), dove abbiamo gustato un ricco menù rispettoso della tradizione kosher, pur inserito nella cucina mantovana: tante verdure crude, tortelli, luccio in umido. Lo chef Vanni Righi, dopo una lunga esperienza all'estero, quattro anni fa ha inaugurato il locale proprio nella città di origine. Professionalità e simpatia, ambiente curato e originale. Chapeau!
(mondo in tasca, 13 gennaio 2016)
Dall'Italia +91 mila visitatori in Israele, il 30% per motivi religiosi
Israele è sicura e nel 2015 ha ricevuto 3,1 milioni di visitatori da tutto il mondo di cui 2,8 milioni turisti. Gli italiani, che rappresentano il sesto mercato, hanno registrato un +91 mila di visitatori, di cui 84 mila turisti. "Per questo, quest'anno abbiamo anche raddoppiato il nostro budget annuale di pubblicità nel vostro Paese", ha reso noto Avital Kotzer Adari, direttore Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo nel corso di una conferenza stampa promossa dal ministero del Turismo per presentare le iniziative rivolte ai pellegrini nell'Anno del Giubileo della Misericordia.
Adari ha spiegato che ancora non ci sono dati sulle affluenze di pellegrini in Terra Santa nel periodo delle festività natalizie. Tuttavia ha ricordato che il 30% degli italiani che vanno in Israele lo fanno per motivi religiosi. Quindi il direttore del'ufficio israeliano del Turismo ha invitato a non avere timori per viaggi nel Paese: "In Israele - ha spiegato - il livello di sicurezza personale è altissimo e ogni pellegrino è benvenuto, in particolare a motivo dell'esperienza spirituale del tutto speciale che compie attraverso il pellegrinaggio".
(Travelnostop, 14 gennaio 2016)
Così in tutta Europa è diventata pericolosa la kippah
I simboli ebraici stanno scomparendo da tutto il Vecchio continente a causa del timore di attacchi.
di Giulio Meotti
ROMA - L'agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali (Fra) rivela che un terzo degli ebrei del Vecchio continente ha smesso di indossare i simboli religiosi a causa del timore di attacchi. Un dato uscito prima che il presidente del concistoro ebraico di Marsiglia, Zvi Ammar, invitasse i suoi correligionari "a non indossare la kippah in strada per non essere riconosciuti come ebrei". "Lancio questo appello con dolore", ha detto due giorni fa Ammar al quotidiano la Provence, dopo l'ennesima aggressione a colpi di machete contro un insegnante ebreo nella città francese. Il professore è stato ferito a coltellate da un attentatore che ha detto di aver agito a nome dello Stato islamico. Non mettere la kippah, il copricapo religioso indossato dagli ebrei, "può salvare delle vite umane e niente è più importante di questo", ha detto Ammar. "E' triste arrivare a questo nel 2016 in un paese democratico come la Francia ma di fronte a una situazione eccezionale bisogna prendere misure eccezionali. Non voglio che si muoia a Marsiglia perché si porta una kippah in testa... Io stesso questo sabato, per la prima volta nella mia vita, non porterò la kippah per andare in sinagoga". Lo stesso appello è stato rivolto agli ebrei di Danimarca: le persone di religione ebraica che vivono o si trovano di passaggio in Danimarca "non dovrebbero indossare o mostrare i simboli della loro fede". Era pericoloso nella Danimarca del 1943, lo è ancora in quella del 2016.
"E' meglio che indossiate un altro copricapo", ha detto Josef Schuster, presidente del consiglio degli ebrei di Germania. E anche l'Abraham Geiger College a Potsdam, come la Scuola Or Avner di Berlino, hanno invitato gli studenti a non portare la kippah per strada. Anche la comunità ebraica di Norvegia ha adottato "l'invisibilità" come metodo per vivere più sicuri. Niente zucchetti per strada. Lo stesso succede in Svezia e in Belgio. I simboli ebraici stanno scomparendo da tutto il Vecchio continente. Il Congresso ebraico europeo ha un sondaggio-choc nel cassetto: "Un terzo degli ebrei europei sta pensando di emigrare". Si tratta di settecentomila persone. "Gli ebrei d'Europa sono a un bivio", ci dice Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo con sede a Bruxelles. "Il 2015 è stato un anno terribile per molti ebrei di tutta Europa. Non ci sono solo gli attacchi terroristici, ma la 'nuova normalità' per gli ebrei che subiscono minacce su base giornaliera". Gli ebrei, al ghetto, preferiranno l'esilio in Israele. Come quest'anno appena passato hanno fatto quasi diecimila francesi. "Se le autorità continuano ad aggiungere solo misure difensive, la costruzione di muri e porte più alti, più spessi, una maggiore presenza della polizia al di fuori di istituzioni ebraiche, tra cui gli asili nido, allora gli ebrei non vorranno vivere questa esistenza imprigionata e lasceranno l'Europa in gran numero. Al momento l'islamismo ha il sopravvento nella battaglia contro di noi. Il popolo ebraico è da sempre il 'canarino nella miniera': gli ebrei sono spesso il primo obiettivo, ma non l'ultimo". Michael Bensaadon, capo dell'organizzazione Klita che coordina gli sforzi per portare gli ebrei in Israele, parla dell'"ottanta per cento degli ebrei francesi che considera di fare l'alyah". Nell'ultimo anno, c'è stato un aumento del trenta per cento di partenze anche dall'Inghilterra.
Ieri, mentre dagli Stati Uniti arrivava la notizia che la chiesa metodista boicotterà quattro banche israeliane, il ministro degli Esteri svedese, Margot Wallström, apriva una inchiesta contro Israele per l'"esecuzione extragiudiziaria" dei terroristi palestinesi.
Tira una brutta aria per gli ebrei.
(Il Foglio, 14 gennaio 2016)
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Una kippah contro la resa dell'occidente
In Francia si consiglia agli ebrei di non usare simboli religiosi, per non provocare. Più che il velo, ora serve la testa. Appello per una giornata della kippah. Chi ci sta?
di Claudio Cerasa
La colpa è nostra, naturalmente, e se c'è un islamista che si fa esplodere a Mosul, un terrorista che uccide vignettisti, un fondamentalista che accoltella israeliani, una coppia di integralisti che fa una strage in un centro disabili, un uomo che a nome dell'Isis spara tredici colpi di pistola a un poliziotto di Philadelphia, la responsabilità è sempre dell'occidente mascalzone che, con il linguaggio, con le parole, con le guerre, con le bombe, non fa altro che provocare, in ogni angolo del mondo, la reazione del jihadismo e dell'integralismo di matrice islamista. Siamo noi che provochiamo, ovvio, non sono loro che agiscono, e forse, chissà, il modo migliore per non provocare questa reazione è quella di ritirarsi, di farsi da parte, di nascondersi, di fare di tutto per non innescare una possibile contro azione. E dunque meglio non parlare di islam, dice il progressista collettivo, meglio non fare sciocchezze, meglio non chiamare le cose con il loro nome. Meglio, molto meglio, preoccuparsi di far calare un velo ipocrita sulle radici del male e della violenza. Meglio, molto meglio, formulare appelli accorati contro la dilagante emergenza mondiale dell'islamofobia. Meglio, dunque, non parlare dei problemi veri, del rapporto che esiste tra uso della violenza e interpretazione dell'islam. E meglio, in definitiva, farsi da parte per evitare problemi. La ritirata culturale dell'occidente è un tema purtroppo presente con una certa costanza nella quotidianità delle cronache mondiali ma quando la ritirata si trasforma in una resa occorre smetterla di fischiettare, occorre smetterla di far finta di nulla e occorre semplicemente guardare la realtà con occhi diversi.
Mettiamoci la kippah, no? E' successo questo. Tre giorni fa a Marsiglia, nell'indifferenza dei grandi giornali, un insegnante che indossava la kippah è stato aggredito mentre si avvicinava alla Sinagoga. Il giorno dopo il concistoro israelitico di Marsiglia - nella stessa Francia che nel 2015 ha registrato l'84 per cento di attacchi antisemiti in più rispetto all'anno precedente e nella stessa Europa dove i veli islamici proliferano, dove le donne sono pronte a coprirsi il volto per protestare contro l'islamofobia, dove i simboli cristiani vengono nascosti in nome del politicamente corretto, dove i presidi di alcune scuole, ad Amsterdam, hanno dato la propria disponibilità a eliminare dal calendario scolastico un giorno di festività cristiana per sostituirlo con uno caro ai fedeli di religione islamica - ha invitato i fedeli della comunità ebraica a rassegnarsi, a non provocare e a non indossare più la kippah "in attesa di giorni migliori". Haìm Korsia, Gran Rabbino di Francia, si è dissociato dal concistoro di Marsiglia, affermando che "Noi continueremo a portare la kippah", ma il dato resta, il trend è drammatico e la potenza dei simboli ha un valore universale. Secondo un sondaggio di qualche tempo fa della European Union's Fundamental Rights Agency, un terzo degli ebrei in Europa ha già rinunciato a indossare simboli religiosi per paura di farsi riconoscere. Lo scorso anno, a febbraio, un appello simile a quello arrivato dal Concistoro di Marsiglia fu formulato dal presidente del consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, che invitò gli ebrei a "evitare la kippah dove ci sono molti musulmani".
E il tema ci sembra dunque evidente: si può accettare di passare da una ritirata tragica a una resa drammatica senza smuovere un dito, senza fare nulla, senza combattere, senza protestare, senza far suonare un campanello d'allarme che ci porti a capire che non si può continuare a ignorare che il rispetto di alcune identità religiose (avete capito quali) ci sta portando a coprire con un velo, letteralmente a nascondere, altre identità religiose (avete capito quali)? No che non si può. Un ebreo che si nasconde per paura di essere riconosciuto come ebreo è l'emblema perfetto di un mondo che costringe l'occidente a nascondersi per paura di provocare la reazione di chi vuole accoltellare l'occidente. Il primo febbraio verrà celebrato il World Hijab Day, la Giornata mondiale del velo islamico. Bene. Noi, nel nostro piccolo, quest'anno trasformeremo il 27 gennaio, la Giornata della memoria, nella nostra e nella vostra Giornata della kippah. Gli ebrei non devono nascondersi. L'occidente non deve nascondersi. Noi ci mettiamo la faccia. Se volete metterla anche voi inviate al Foglio la vostra foto a kippah@ilfoglio.it: la kippah ve la regaliamo noi.
(Il Foglio, 14 gennaio 2016)
Israele convoca l'ambasciatore della Svezia
Israele è ai ferri corti con la Svezia, tanto da aver convocato ieri al ministero degli Esteri a Gerusalemme l'ambasciatore Carl Magnus Nesser, rimproverando Stoccolma di presentare in modo distorto la realtà e di provocare «l'ira del governo e del popolo di Israele». Pietra dello scandalo per lo Stato ebraico le parole attribuite al capo della diplomazia svedese Margot Wallström che martedì aveva parlato della necessità di una indagine per appurare se Israele si sia macchiato di «esecuzioni extragiudiziali» di palestinesi nell'ondata di attentati contro civili e militari israeliani degli ultimi mesi. Dichiarazioni - considerate la classica goccia che fa traboccare il vaso - che hanno portato il direttore generale per l'Europa occidentale del ministero degli Esteri Aviv Shiron a dire all'ambasciatore svedese che «viste le nocive e prive di fondamento posizioni del ministro, la Svezia si è esclusa, nel prossimo futuro, da ogni ruolo nei confronti delle relazioni tra Israele e i palestinesi».
Una posizione che marca un gelo diplomatico nato - secondo alcuni analisti - da quando la Svezia, nello scorso ottobre, ha riconosciuto, finora unica tra i Paesi occidentali che hanno scelto invece mozioni parlamentari, lo Stato di Palestina. Un atto annunciato il 3 ottobre 2015 dal premier Stefan Lovfen e formalizzato il 30 ottobre, suscitando il plauso del mondo arabo e le furiose reazioni israeliane.
Già martedì le dichiarazioni di Wallström avevano provocato una dura reazione a Gerusalemme: il ministero degli Esteri aveva definito quelle parole sulle «esecuzioni extragiudiziali» dichiarazioni «irresponsabili e stravaganti» che danno «sostegno al terrorismo e incoraggiano così la violenza». Ieri il passo formale con una convocazione «d'urgenza» per manifestare al rappresentante di Stoccolma tutta l'irritazione di Israele.
(Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016)
Atleti israeliani boicottati. Mai più chiudere gli occhi
Lettera al Corriere del Trentino
di Marcello Malfer *
Come è facile mostrarsi altruisti, sensibili e coraggiosi di fronte alle ingiustizie del passato e indignarsi per le violenze di ieri magari ormai archiviate nei libri di storia, altrettanto facile è non accorgersi o non vedere i soprusi di oggi.
Un episodio, alla fine dell'anno appena trascorso, offre il segno di quanto sincera, diffusa e profonda sia la comune determinazione a far si che «mai più» si chiudano gli occhi. Due ragazzi che dovevano rappresentare lo Stato di Israele ai mondiali giovanili di Vela, una disciplina nella quale erano detentori del titolo mondiale e avevano alte possibilità di bissare il successo, sono stati esclusi perché il loro Paese è molto antipatico alla nazione ospitante. Possono venire, hanno detto, ma devono gareggiare sotto rigoroso anonimato, non si deve mai dire a quale Paese appartengono, non si deve mai vedere la loro bandiera bianco-azzurra. In caso di vittoria, non si dovrà ascoltare il loro inno nazionale.
Nella Federazione sportiva internazionale, presieduta guarda caso da un italiano («italiani brava gente»), qualcuno, ma solo qualcuno, ha mostrato un po' di imbarazzo, sia pure a bassa voce, denunciando che ciò sarebbe stato contrario allo spirito dello sport. C'è stato poi anche chi ha addirittura accennato alla possibilità di una reazione estrema: la scelta di disertare la manifestazione. Tale eventualità è stata adombrata anche per la delegazione italiana che alla fine ovviamente è rimasta «perché leggiamo si è deciso di non scaricare su ragazzi quindicenni contraddizioni molto più grandi di loro». Giusto, ben fatto. Doveroso tutelare il diritto dei nostri ragazzi a gareggiare, a rappresentare i colori del Paese, a fraternizzare con i coetanei di altre nazioni, a tenere alti i valori dello sport. Qualche altro ragazzo, però, è stato discriminato, peccato. Ma ci saranno delle ragioni, lo zampino dell'immancabile politica, vai a sapere. Non abbiamo preso noi tale decisione.
Si avvicina il Giorno della Memoria e certamente sentiremo dire, da tante cattedre con toni accorati e commossi, che la Shoa è stata anche permessa e agevolata da tutti quelli che per paura, conformismo, indifferenza e quieto vivere hanno girato la testa o chiuso gli occhi, scegliendo di non immischiarsi in faccende che non capivano o non approvavano ma che comunque non li riguardavano direttamente.
«Non deve succedere mai più»: questo ascolteremo fra pochi giorni. Mai più girare la testa di fronte ai segni del male.
* Presidente Associazione trentina Italia -Israele
(Corriere del Trentino, 14 gennaio 2016)
Francia: fa discutere l'appello ad evitare i simboli ebraici
di Eri Garuti
Portare la kippah in Francia equivale ad esporsi a un rischio? Dopo l'ultima aggressione a Marsiglia, il presidente del Concistorio israelitico locale, Zvi Ammar, ha suggerito ai fedeli di sospendere "fino a tempi migliori" l'uso del copricapo che li rende identificabili. La comunità ebraica si interroga.
"È nostro dovere preservare la sicurezza della nostra comunità - spiega Ammar - e forse oggi, in una situazione eccezionale, bisogna prendere decisioni eccezionali."
Un parere non condiviso dal Gran Rabbino di Francia, Haìm Korsia, né dal presidente della regione di Marsiglia, Christian Estrosi.
"Capisco le preoccupazioni" commenta Estrosi "ma credo che la cosa peggiore sarebbe dare l`impressione al nemico di avere paura. Noi non abbiamo paura. Non dobbiamo dare segni di debolezza."
Lunedì un insegnante che indossava la kippah era stato assalito da un 15enne di origine curdo-turca armato di machete e se l'era cavata con lievi ferite solo grazie alla sua prontezza di riflessi.
Tra gli ebrei di Marsiglia c'è chi ha paura.
"Portare la kippah richiede coraggio" ammette un uomo "quindi se si hanno figli, purtroppo è meglio essere più discreti."
"Non sono affatto d`accordo con ciò che dicono" ribatte una donna. "Perché nascondersi? Non dobbiamo. Siamo ebrei e fieri di esserlo. Perché dovremmo nasconderci?"
"Ho sempre avuto l'abitudine di portarla e la porterò sempre" assicura un altro ebreo di Marsiglia. "Non ho una paura maggiore oggi rispetto a 10 o 15 anni fa."
Il giovane aggressore, arrestato, ha detto di aver agito in nome di Allah e dell'Isil. Anche se il suo viene considerato un gesto isolato, negli ultimi anni le aggressioni agli ebrei, in Francia, si sono moltiplicate.
(euronews, 13 gennaio 2016)
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"Kippah in testa, senza paura". Il popolo della rete si mobilita
di Rachel Silvera
"Noi non dobbiamo cedere a niente. Continueremo a portare la kippà". È il messaggio che appare sul profilo twitter del Gran rabbino di Francia Haim Korsia. Parole inequivocabili, diffuse in rete dopo le dichiarazioni del presidente del Consistoire di Marsiglia (l'organizzazione ebraica locale che gestisce i servizi religiosi) Zvi Ammar, a seguito dell'aggressione antisemita di un insegnante ebreo da parte di un 15enne di origine turca.
Ammar - come riportato da le Figaro - ha infatti invitato i membri della comunità a non indossare il copricapo ebraico per questioni di sicurezza, adducendo l'importanza, per l'ebraismo, della sacralità della vita.
Una posizione che ha aperto un vivace dibattito in rete e ha reso virale l'hashtag #kippa, inondando gli ebrei di Marsiglia di messaggi di solidarietà.
Non solo rav Korsia ha sottolineato l'importanza di non cedere al ricatto estremista ma ha anche lanciato il guanto di sfida, invitando i tifosi dell'Olympique de Marseille a presentarsi con il capo coperto, in segno di solidarietà, nel corso del prossimo incontro con il Montpellier. Un'iniziativa che sta già riscuotendo i primi successi con tanto di diffusione di kippot con il motto della squadra "Droit au bout", dritti al punto.
Il caso Marsiglia inoltre ha oramai assunto un carattere esemplificativo, spingendo il popolo del web a dire la propria e coinvolgendo volti noti e meno noti. Il filosofo Bernard-Henri Levy difende a spada tratta la libertà: "La Repubblica - scrive - ha il dovere di proteggere chi indossa la kippah. E chi la indossa ha il diritto di vivere il proprio ebraismo come meglio crede". L'ex ministro dell'Istruzione francese Francois Bayrou sposa la causa: "Non dobbiamo cedere, come dice rav Korsia. Dobbiamo mostrare la nostra solidarietà". La vicenda scavalca i confini francesi e la social media manager israeliana Laura Ben-David si ribella: "Dire agli ebrei di non indossare la kippà per prevenire le aggressioni non è un po' come dire alle donne di non indossare le gonne per evitare gli stupri?".
Tra indignazione e polveroni, non manca lo spazio per un po' di amara ironia e leggerezza. Da quando è avvenuta la terribile aggressione di Marsiglia, il celebre vignettista Joann Sfar, papà del best seller Il gatto del rabbino, pubblica irresistibili disegni sulla questione, disegnando un panorama paradossale nel quale gli ebrei francesi per vivere al sicuro indossano la tenuta di un capo indiano e rinunciano alla kippah ritrovandosi così coinvolti in improbabili avventure, oppure girano per le strade con un burqa: "Avrei giurato che quella signora con il burqa mi abbia detto shabbat shalom" dice un passante, mentre l'assistente del rabbino con il volto coperto gli sussurra: "Rav, deve stare più attento o ci farà beccare". Per chi invece è un patito di shopping online sono già in vendita magliette personalizzate con la scritta ad hoc e c'è chi ha scelto il più inaspettato degli sponsor e ha twittato: "Fate come il papa: indossate la kippà". Infine Guy Birenbaum, giornalista di France Info, giura di aver trovato la kippà appropriata, quella con disegnato sopra Batman. Perché, in fondo, chi l'avrebbe mai detto che gli ebrei di Francia sarebbero diventati dei supereroi?
(moked, 13 gennaio 2016)
Il bagaglio che si trasporta da sé, da Israele il primo trolley robot
Addio valigie pesanti. Il trolley adesso si muove da solo, accanto al suo padrone come un fedele amico a quattro zampe.
È nato in un'azienda israeliana, la Bua Robotics, e promette di realizzare il sogno di ogni viaggiatore il primo prototipo di valigia robot: eliminare le fatiche del trasporto a mano.
A prima vista sembra un normalissimo bagaglio, ma, come mostra un video rilanciato da focus.it, la valigia si connette via bluetooth allo smartphone, dal quale è così possibile pilotarla e portarla accanto a sé. E non c'è rischio di perderla o che qualcuno possa rubarla. La valigia segnala costantemente al proprietario la sua posizione ed emette un segnale di allarme nel caso in cui si avvicini qualche male intenzionato. Insomma, mai più senza. Un gadget da tenere e a mente e da consigliare ai vostri clienti al debutto sul mercato, previsto dall'ideatore entro un anno.
(TTG italia, 13 gennaio 2016)
Dieci idee impossibili che gli israeliani hanno trasformato in realtà
Nessuna missione è impossibile per l'ingegno israeliano. Parliamo di persone che al posto di leggere "impossibile" leggono "possibile" e che non considerano il fallimento come un motivo per non provare.
Dite a un israeliano che la sua idea è assurda, e gli avrete appena fornito un motivo in più per andare avanti.
Sia che si trattasse di piantare nel deserto o che fosse lo sviluppo di una applicazione, la maggior parte delle innovazioni rivoluzionarie israeliane sono state inizialmente liquidate come impossibili - fino a quando un'azione coraggiosa le ha trasformate in realtà.
Hasson, Chief Scientist del Ministero dell'Economia israeliano, commenta con ISRAEL21c:
Gli israeliani amano risolvere i problemi.
Una cultura educativa che incoraggia alla scoperta, al pensiero indipendente e all'innovazione porta gli israeliani a leggere la parola "impossibile" come "possibile".
Ecco dieci invenzioni sorprendenti, ritenute impossibili ma diventate realtà.
1. Far fiorire il deserto
Nel 1959, Shai Ben Eliyahu e Hagai Porat ebbero l'idea di fondare un'impresa agricola a Ein Yahav, una base militare polverosa nel deserto israeliano dell'Arava.
Venivano considerati dei matti, racconta Aylon Gadiel, uno dei 550 agricoltori di Ein Yahav e ex direttore dell'Arava R&S:
Non si poteva vivere nella Arava, per non parlare di coltivare ortaggi. L'Agenzia Ebraica disse loro di no. Così ogni Venerdì andavano nella sede di Tel Aviv di Mapai [Partito Laburista] dove rimasero fino a che David Ben-Gurion scrisse loro una lettera.
I fondatori scavarono un pozzo per l'acqua e un piccolo orto, credendo che il clima fosse perfetto per coltivare, nonostante il terreno arido.
Dimostrarono la fattibilità dell'impresa, che rappresentò l'inizio dello sviluppo del metodo di irrigazione a goccia, all'inizio del 1960.
2. Rewalk Robotics
Rewalk è un esoscheletro robotico per disabili che permette agli individui con disabilità agli arti inferiori di alzarsi e camminare.
Il concetto di tornare a camminare per coloro che soffrono di disabilità agli arti sembra assurdo e quindi impossibile. Ma Rewalk è diventato realtà grazie alla tenacia di Amit Gofer inventore e esperto di ingegneria elettrica presso il Technion.
3. Muv Interactive
4 anni fa, alcuni investitori respinsero l'idea di Rami Parham di costruire un dispositivo indossabile per interagire con l'ambiente grazie alla rilevazione del movimento delle dita.
Oggi, la startup israeliana MUV Interactive ha sviluppato un oggetto straordinario per interagire con il mondo virtuale grazie ad una sorta di anello da indossare. MUV trasforma qualsiasi superficie in un touch screen interattivo. Il gioiello tecnologico, chiamato Bird, ha diversi sensori che catturano ogni movimento del dito, registrano e indicano la sua posizione e si collega via Bluetooth a tutti i dispositivi mobili.
4. Powemat
L'idea di Powemat è una superficie di ricarica senza cavo ed è nata da una conversazione tra i due imprenditori Ran Poliakine e Amir Ben-Shalom. Già altri avevano provato ad inventare un dispositivo con le medesime funzioni, però senza alcun successo. Questi due imprenditori hanno bruciato le tappe riuscendo a creare la loro idea nonostante i potenziali partner la bocciassero.
Tutti dicevano fosse fantastica ma nessuno era disposto a scommetterci. Alla fine, un accordo con Procter & Gamble (che possiede Duracell) ha portato ad una serie di soluzioni di ricarica wireless per iPhone e altri smartphone. Successivamente è arrivata la partnership con Starbucks, Mc Donald, General Motors e altre grandi aziende.
5. Pillola per l'insulina
Durante il secolo scorso, gli scienziati hanno cercato invano di elaborare una pillola al posto dell'iniezione di controllo della glicemia nei pazienti diabetici. Poi, è arrivata la Oramed Pharmaceuticals che sviluppa terapie orali a base di proteine fino ad oggi disponibili solo tramite iniezione.
Quando avviarono questo progetto quasi 30 anni fa all'Hadassah, sembrava impossibile rilasciare insulina per via orale. Oggi è solo una questione di tempo, a breve sarà sul mercato.
6. PillCam
Nel 2001, quando Gabriel Meron introdusse la prima pillola video per ispezionare il sistema digestivo, tutti, dai consumatori ai medici rimasero esterrefatti. Sembrava che Meron e la sua azienda, la Given Imaging, avessero portato in vita lo sci-fi del film Fantastic Voyage. Oggi la PillCam viene usata in tutto il mondo per registrare le immagini del tratto digestivo.
7. La bicicletta di cartone
Si tratta di una vera e propria bicicletta di cartone. Realizzata da Izhar Gafni, ha caratteristiche differenti rispetto ad altri esperimenti effettuati in precedenza. Il telaio e tutte le componenti non meccaniche sono in cartone, mentre catena, freni e ruote sono in plastica riciclata.
Se avessimo avuto $10 per ogni volta che abbiamo sentito "impossibile", probabilmente non ci sarebbe bisogno di alcuna raccolta di fondi per la nostra azienda.
8. Memoria del computer cancellabile
All'inizio degli anni '70, l'ingegnere elettronico israeliano Dov Frohman raggiunse l'impossibile quando inventò la EPROM (ovvero memoria di sola lettura programmabile e cancellabile), un chip che può anche mantenere i dati quando vi è una sospensione dell'alimentazione.
Questo chip fece vincere a Frohman l'Israel Prize. Per la cronaca Frohman è anche stato tra i fondatori di Intel, ed è uno responsabili della grande decisione di Intel di stabilire una succursale della multinazionale in Israele.
9. Waze
Quando i visionari fondatori decisero di cambiare il paradigma della navigazione, nessuno pensava che ce la potessero fare e che Waze diventasse in pochi anni la più utilizzata App per il traffico.
10. Trattamento della depressione
La ricerca per saperne di più sul cervello umano è una priorità assoluta in Israele, dove scienziati e ricercatori non solo indagando i misteri del cervello, ma anche come elaborare nuovi trattamenti per le malattie del cervello altrimenti incurabili. La Brainsway ha rivoluzionato il trattamento con la terapia chiamata Brainsway Deep TMS (profonda stimolazione magnetica transcranica).
Secondo gli studi, la terapia è efficace, sicura e generalmente ben tollerata per il trattamento di pazienti con gravi disturbi cerebrali. Il sistema è anche impiegato per il trattamento di numerose condizioni, tra cui l'autismo, Alzheimer, il disturbo bipolare, il dolore cronico, il disturbo depressivo, il Parkinson, la schizofrenia, smettere di fumare, disturbo da stress post-traumatico, la sclerosi multipla, disturbo ossessivo compulsivo e nei casi di riabilitazione da ictus.
Vi è una stimolazione del cervello con un approccio non invasivo basato sui campi magnetici brevi, non genera effetti collaterali e non richiede ricovero in ospedale o anestesia.
(SiliconWadi, 12 gennaio 2016)
Assemblea per la ricostituzione dell'Associazione Italia-Israele di Firenze
Riceviamo da Valentino Baldacci e volentieri diffondiamo.
Ieri pomeriggio si è tenuta l'Assemblea per la ricostituzione dell'Associazione Italia-Israele di Firenze. E' stata una bella assemblea, con una rilevante partecipazione, dove tutti hanno parlato delle proprie esperienze e del loro rapporto con lo Stato d'Israele. L'iniziativa sta avendo un notevole successo: tra i partecipanti all'assemblea e quelli che hanno scritto per aderire ma non potevano essere presenti siamo arrivati a circa 60 persone.
L'assemblea è stata diretta da Luigi Diamanti, membro dell'Esecutivo della Federazione nazionale delle Associazioni Italia-Israele. Al termine è stato eletto il nuovo Consiglio Direttivo, composto da cinque membri, che ha deciso di eleggermi presidente dell'Associazione fiorentina, con Zeffiro Ciuffoiletti e Gigliola Mariani Sacerdoti vicepresidenti. Gli altri due componenti sono Celeste Vichi e Cristina Monti Foti. Stiamo preparando il verbale dell'Assemblea che invieremo a tutti, presenti e non presenti, insieme al modulo di iscrizione. Poiché il numero delle persone che chiedono di iscriversi è notevole, penso che al massimo entro un mese faremo un'altra assemblea per definire il programma di attività.
Un cordiale saluto,
Valentino Baldacci
(Notizie su Israele, 13 gennaio 2016)
«D'Alema e Israele, un'ossessione unilaterale»
L'Ambasciatore di Israele in Italia: "L'ex premier vede in Israele un alleato problematico dell'Occidente, anziché vedervi ciò che è: una parte integrante dell'Occidente".
di Naor Gilon
Conoscendo l'esperienza di Massimo D'Alema in politica estera, dovrei essere sorpreso dalle sue dichiarazioni riguardo a Israele, così come riportate sul vostro quotidiano ieri (nella sua intervista «All'estero non siamo più protagonisti. Arabia e Israele da alleati a problemi»). Tuttavia, conoscendo le sue vedute unilaterali nei confronti di Israele e il fatto che queste distorcano la sua percezione della realtà, non sono rimasto sorpreso.
Da molti anni esiste nel signor D'Alema un'ossessione che vede in Israele l'origine di tutti i problemi del Medio Oriente e del mondo, a tal punto che egli è disposto a vedere in alcune organizzazioni terroristiche degli alleati per l'Occidente preferibili alla democrazia israeliana. Già dopo l'orribile attacco terroristico a Parigi, D'Alema mise in relazione il terrorismo estremista islamico con il conflitto israelopalestinese. Anche nell'intervista di ieri D'Alema correla il conflitto con l'atteggiamento negativo del mondo arabo verso l'Occidente. Nel migliore dei casi si tratta di un approccio naif, nel peggiore dei casi di una posizione ideologica anti-israeliana.
L'odio di settori del mondo musulmano nei confronti dell'Occidente (e dei suoi stessi popoli), e certamente l'orribile terrorismo contro l'Occidente, non è correlato al conflitto israelo-palestinese. Si tratta invece di un'ideologia omicida e sanguinaria, che vede nello stile di vita occidentale (democrazia, liberalismo, capitalismo) un assoluto contrasto al suo mondo di valori, e per queste persone Israele è chiaramente un tutt'uno con le democrazie occidentali contro cui bisogna combattere. Purtroppo non è così per D'Alema. L'ex premier vede in Israele «un alleato problematico» dell'Occidente, anziché vedervi ciò che è: una parte integrante dell'Occidente e una barriera all'espansione dell'estremismo e del fanatismo verso l'Occidente, un faro di libertà, democrazia e diritti nel Medio Oriente.
Per tutto ciò Israele merita forse sostegno? Non secondo D'Alema. Al contrario, il signor D'Alema continua anzi con l'ossessione di vedere proprio in Israele il punto focale dei problemi e ad esso preferisce dei regimi «famosi» per essere illuminati e paladini di democrazia e diritti umani, come quello iraniano. Secondo il suo approccio, «il nemico del mio nemico è mio amico», anche se l'amico è Hezbollah, un'organizzazione terroristica sanguinaria, secondo la definizione della stessa Ue. Sono certo che nell'intervista, alla domanda sulla sua visita di solidarietà di allora in Libano, accompagnato da un uomo di Hezbollah, sia sfuggito alla sua memoria il fatto che l'organizzazione terroristica avesse lanciato migliaia di missili sui centri abitati israeliani, che Hezbollah ha assassinato degli israeliani in suolo europeo nell'attentato di Burgas in Bulgaria nel 2012, che l'organizzazione è responsabile di attentati contro ambasciate israeliane in tutto il mondo e della morte di decine di persone, e che la stessa organizzazione ha compiuto dei sanguinosi attentati contro obiettivi americani in Libano. Hezbollah non si limita a compiere omicidi politici e a imporre il proprio potere in Libano mediante il terrorismo, ma già da tempo è coinvolto anche nella guerra in Siria.
Purtroppo l'ossessione anti-israeliana emerge anche nella deformazione della realtà riguardo alle relazioni con l'Iran. È chiaro a tutti che, senza le pressioni internazionali, l'Iran non sarebbe mai nemmeno giunto a dei colloqui con l'Occidente, e non si sarebbe pertanto raggiunto un accordo. Non si tratta di un interesse soltanto israeliano: è prima di tutto un interesse occidentale quello di non permettere che la bomba atomica finisca nelle mani di un regime sciita estremista. Anche il riferimento a Rouhani come a un «riformista» cozza con i fatti: sotto Rouhani il numero delle esecuzioni capitali in Iran è giunto al culmine, sotto Rouhani l'Iran conduce una politica di destabilizzazione dei Paesi del Medio Oriente, sotto Rouhani sono attivate in Iraq delle milizie sciite che perseguitano le minoranze, sunnite e cristiane. Ma perché guardare in faccia la realtà? Per D'Alema è sufficiente l'ossessione contro Israele per spiegare tutto.
(Corriere della Sera, 13 gennaio 2016)
Gli ebrei di Marsiglia: «Uscite senza kippah»
Dopo l'agguato a un insegnante
Il Concistoro israelitico di Marsiglia ha invitato i fedeli della locale comunità ebraica a non indossare la kippah, il classico copricapo indossato dai religiosi, «in attesa di giorni migliori». L'appello agli ebrei della città del sud della Francia è stato lanciato dopo l'agguato a un insegnante che indossava il copricapo degli ebrei, aggredito con una mannaia mentre si recava alla Sinagoga. L'uomo è riuscito a salvarsi miracolosamente, riportando solo ferite non gravi e l'attentatore, un giovane musulmano, è stato arrestato. Ma, da Parigi, è arrivata un'indicazione opposta. «Continueremo a portare la kippah», ha detto il gran rabbino di Francia, Haim Korsia. L'indicazione diffusa a Marsiglia ha dunque suscitato reazioni contrapposte: su Internet molti hanno reagito affermando che non bisogna «piegarsi alla paura del terrorismo».
(Corriere della Sera, 13 gennaio 2016)
"Boicotta Israele" anche in Italia
Centocinquanta accademici preparano un appello.
di Mario Baudino
Sulla falsariga di quanto è già accaduto in Gran Bretagna, un nutrito gruppo di accademici italiani sta lavorando a un appello che invita la comunità scientifica al boicottaggio culturale di Israele, o quantomeno delle sue istituzioni ufficiali. «Non accetteremo inviti dalle istituzioni accademiche israeliane, non saremo referenti in alcuno dei loro eventi, non parteciperemo a conferenze da loro finanziate, organizzate o sponsorizzate, né coopereremo con loro», avevano scritto trecento docenti e ricercatori britannici (sul Guardian) nell'ottobre scorso, motivando la decisione con le «violazioni intollerabili dei diritti umani inflitte a tutto il popolo palestinese».
Fra loro, molti italiani che insegnano all'estero. La conseguenza è che ora qualcosa di molto simile è in fase di definizione anche da noi. Sarebbero già 150 gli accademici che hanno aderito a un testo ancora non definitivo, come dice uno dei partecipanti, che vorrebbe evitare toni troppo radicali per coinvolgere la massima platea possibile. La sostanza è comunque un no alle istituzioni ufficiali di Israele, che però non si applicherebbe ai singoli intellettuali e docenti israeliani quando invitati (o invitanti) a titolo personale.
L'appello britannico - seguito peraltro da altri consimili, anche ad esempio fra gli antropologi delle nostre università - aveva com'è noto sollevato polemiche, e non solo consensi. C'è stato anche un «controappello», firmato tra gli altri da J. K. Rowling, l'autrice di Harry Potter. «Stiamo cercando di informare e incoraggiare il dialogo fra Israele e i palestinesi in una comunità culturale e creativa più ampia - vi si legge -. I boicottaggi culturali che vogliono isolare Israele sono divisivi e discriminatori, e non favoriscono la pace».
(La Stampa, 13 gennaio 2016)
Unaltra conferma: sì a singoli ebrei, che per lapertura culturale degli intellettuali possono perfino essere israeliani, ma no allo Stato dIsraele come tale. Lultima forma di antisemitismo è questa, sottoscritta da intellettuali. La forma precedente fu sottoscritta da intellettuali in altro modo: con le leggi razziali. M.C.
Centinaia di persone manifestano a Varsavia per Israele
Cristiani polacchi scendono in strada per protestare contro l'ondata di terrorismo in Israele.
Stupore dell'ambasciatore israeliano.
VARSAVIA - Domenica scorsa diverse centinaia di persone a Varsavia sono scese in strada in sostegno a Israele. La protesta, organizzata da cristiani, si è rivolta contro l'ondata di terrorismo che da tre mesi colpisce Israele.
Alla marcia hanno preso parte anche membri della comunità ebraica in Polonia. I manifestanti hanno ballato o cantato agitando bandiere polacche e israeliane.
L'ambasciatrice israeliana in Polonia, Anna Asari, era stupita. "Non ho mai visto una così grande manifestazione in sostegno a Israele", ha detto il diplomatico di fronte alla folla, secondo il portale di notizie "Arutz Sheva". La marcia è stata organizzata da diverse comunità evangeliche, tra cui il movimento dei "Polacchi per Gesù", insieme ad altre chiese locali in tutta la Polonia.
Al corteo si sono affiancate anche contro-manifestazioni, come l'organizzazione nazionalistica e antisemita "Rinascita Nazionale Polacca". I loro membri hanno cercato di disturbare la marcia, ma i manifestanti sono rimasti tranquilli.
Pawel Czyszek, del "Forum ebrei polacchi", ha motivato la sua partecipazione alla marcia con i resoconti negativi dei media su Israele. "Quando i media polacchi o europei riportano eventi in Israele, molto spesso sono inaffidabili e negativi per Israele", ha detto dopo la marcia al servizio di notizie ebraico JTA. "Ho marciato con loro portando una bandiera israeliana, perché voglio mostrare il mio sostegno a Israele. Agli israeliani vorrei dire che non sono soli."
(Israelnetz, 12 gennaio 2016 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Perché i media italiani, anche quelli ebraici, non riportano questa strana notizia?
Il triste presagio degli ebrei d'Europa
Attacchi antisemiti quotidiani. La Francia è il test. E stiamo perdendo.
Un giovane islamista ha aggredito a colpi di machete un insegnante ebreo che portava la kippah a Marsiglia. "Ho agito per Allah e per lo Stato islamico", ha dichiarato l'attentatore, fermato poco dopo dalla Police Nationale. Tranquilli: il procuratore che segue il caso, Brice Robin, ha detto che l'islamista non sembra essere affetto da disturbi psichici. "Le motivazioni non lasciano dubbi", ha scandito il presidente Hollande, deplorando l'ennesima "aggressione antisemita". Non ci voleva un genio per capirlo. Eppure, le notizie quotidiane di attacchi contro gli ebrei in Europa meritano sempre meno spazio sui giornali. Come se fossimo assuefatti alla dose quotidiana di antisemitismo spicciolo, a fari spenti. La settimana scorsa una cosa simile era successa in Inghilterra. "Senza gli ebrei, la Francia non sarebbe la Francia", ha detto il premier Valls alla commemorazione dell'attentato all'Hyper Cacher.
Verissimo. Soltanto che sta avvenendo: gli ebrei stanno lasciando la vecchia Europa. Solo nello scorso anno diecimila ebrei francesi hanno fatto le valigie alla volta di Israele e altri paesi. Nella comunità ebraica c'è un senso di impotenza e di triste presagio: "E' vero, in Israele ci sono gli attacchi con i coltelli. Ma almeno laggiù il governo israeliano è con noi. Qui il governo dorme", ripetono gli ebrei a Parigi e altrove. Vanno prese seriamente le parole della moglie di uno dei kamikaze del Bataclan, Kahina Amimour: "Fino a quando continuerete a offendere l'islam e i musulmani sarete dei potenziali obiettivi, non solo i poliziotti e gli ebrei, tutti". La Francia è il grande test, perché ospita la più vasta e vitale comunità ebraica d'Europa. E gli islamisti, i loro "compagni di viaggio" europei, sembrano avere la meglio. Almeno per ora. Come va per gli ebrei, va per tutti noi.
(Il Foglio, 12 gennaio 2016)
L'ebraico biblico alle radici della cultura occidentale
Si è concluso con la verifica finale, il corso di avviamento all'Ebraico biblico, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Bari Aldo Moro.
Riscoprire il passato e la memoria religiosa comune ai grandi monoteismi che hanno costruito la nostra storia, attraverso la lingua originaria con la quale l'Antico Testamento si è espresso: con questi obiettivi ha preso inizio lo scorso novembre un corso di avviamento all'Ebraico biblico, presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università di Bari Aldo Moro, su iniziativa dei docenti del settore cristianistico della scuola di Giorgio Otranto.
Una iniziativa di alto valore culturale, che ha trovato un ampio riscontro tra gli studenti: più di 150 iscritti, infatti, provenienti dalle province di Bari, Barletta-Andria-Trani, Brindisi e Foggia, hanno frequentato le 20 ore di formazione linguistica sotto la guida di don Angelo Garofalo, docente di Antico Testamento ed Ebraico biblico presso lo Studium Biblicum Francescanum di Gerusalemme.
«Sono rimasto estremamente soddisfatto - ha affermato don Angelo Garofalo - della qualità della partecipazione degli studenti, attivi e propositivi, e dell'interesse nei confronti di una lingua che permette un approccio diretto ai testi dell'Antico Testamento, che sono parte integrante della nostra tradizione. Tutto ciò costituisce una conferma al valore della formazione universitaria di carattere filologico: conoscere una lingua antica come l'ebraico biblico apre nuove strade agli studiosi di storia, in particolare di storia del cristianesimo antico, perché offre i mezzi per approcciarsi anche alla letteratura rabbinica dei primi secoli, con cui si confrontarono i Padri della Chiesa».
Tra i motivi di questo straordinario successo in termini di presenza e partecipazione, la possibilità di acquisire, con esperti di storia del cristianesimo e dell'ebraismo, gli strumenti linguistici e culturali per interpretare i segni della forte presenza ebraica nella storia della Puglia, che risale già al I secolo d.C.
«L'Università è il luogo in cui le culture possono e devono incrociarsi - ha dichiarato la prof.ssa Laura Carnevale, responsabile nazionale del FIRB-Futuro in ricerca 2010 e promotrice del corso -: attraverso lo studio e la conoscenza della lingua ebraica e, per esteso, del sistema culturale che ruota intorno al mondo semitico, è possibile rintracciare le comuni origini di cristianesimo ed ebraismo e proiettarsi in una dimensione universalistica ed ecumenica, per rispondere al riaffiorare di focolai antisemiti».
«Nell'ultimo secolo, - ha commentato la prof.ssa Ada Campione, Presidente del Corso di studi in Scienze dei Beni culturali - dopo la seconda guerra mondiale, la Puglia è diventata terra di approdo e di accoglienza per gli ebrei che tornavano a Gerusalemme: questo corso vuole costruire un ponte tra lo studio della storia e della cultura pugliese e della grande civiltà ebraica, sotto il segno della coesistenza e della tolleranza reciproche».
A conclusione del corso, gli studenti frequentanti hanno sostenuto un esame di traduzione e comprensione linguistica. L'auspicio è che sia possibile reiterare questa fortunata esperienza didattica, consolidandola nell'ambito dell'offerta formativa dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro.
(Traninews, 13 gennaio 2016)
Meis a Ferrara: insediamento del nuovo CdA
Si sono insediati ieri, alla presenza del Sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, il nuovo Presidente -Dario Disegni - e il Consiglio di Amministrazione della Fondazione MEIS di Ferrara (Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah).
Rinnovati lo scorso 28 dicembre dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Dario Franceschini, che, non potendo essere presente, ha fatto comunque pervenire al Consiglio un caloroso messaggio di saluto e l'augurio di buon lavoro, il Presidente e il nuovo CdA - composto da Carla di Francesco (nominata dal MiBACT), Renzo Gattegna (Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), Massimo Maisto (Vicesindaco del Comune di Ferrara) e Massimo Mezzetti (Assessore alla Cultura della Regione Emilia-Romagna) - opereranno con il sostegno del Ministero alle attività già in programma per questo 2016.
In primo luogo la selezione di un Direttore del Museo, per la cui individuazione è stato pubblicato oggi sul sito del museo, sull'albo pretorio del Comune di Ferrara e sul sito dello stesso Comune, dove rimarrà fino al 29 febbraio prossimo, data ultima per la presentazione delle candidature, l' avviso che indica ruolo e compiti e durata dell'incarico della nuova figura.
Attività già previste per il 2016 la mostra dal 24 gennaio al 21 febbraio in Castello Estense, dal titolo 'I mondi di Primo Levi. Una strenua chiarezza'e la Festa del Libro Ebraico che è stata spostata dal Chiostro di San Paolo a Palazzo Roverella e che si terrà non ad aprile, ma a settembre e durerà solo due giorni, sabato 3 e domenica 4.
Continua così l'attività di promozione culturale del nascente Museo, che nei prossimi due anni, potrà contare per il completamento dei lavori in cantiere dei sette milioni di euro stanziati dal MiBACT attraverso il Piano Strategico Grandi Progetti Culturali.
Dario Disegni, che da oltre vent'anni riveste posizioni di responsabilità nel mondo delle fondazioni e delle istituzioni culturali e museali, è Presidente della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia e della Comunità ebraica di Torino ed è inoltre, membro degli organi direttivi di varie istituzioni culturali e museali, tra le quali la Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino e il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, guiderà insieme al nuovo CdA il museo nel percorso già avviato in questi anni di raccolta delle testimonianze della bi millenaria presenza ebraica in Italia, di divulgazione della storia, pensiero e cultura dell'Ebraismo italiano dalle sue origini, con particolare attenzione alle testimonianze delle persecuzioni razziali ed alla Shoah, e della promozione dei valori della pace e della fratellanza tra popoli e dell'incontro tra culture e religioni diverse.
(Telestense.it, 12 gennaio 2016)
Mossad - L'esordio di Yossi Cohen: "Iran il pericolo più grande"
di Francesca Matalon
Esordisce con questo affondo Yossi Cohen, il nuovo capo del Mossad, investito ufficialmente dell'incarico nel corso di una cerimonia svoltasi ieri nella sede di Tel Aviv. "L'Iran continua a invocare la distruzione di Israele, mentre intensifica le sue capacità militari e rafforza il suo controllo sulla regione, utilizzando cellule terroristiche come mezzi per raggiungere questi obiettivi", ha dichiarato Cohen. "Sono sicuro - ha tuttavia rassicurato - che il Mossad avrà la forza necessaria per rispondere appropriatamente".
Accanto alla minaccia israeliana, sono anche il conflitto intestino al mondo musulmano e il rafforzamento delle organizzazioni terroristiche a preoccuparlo in quanto minaccia per il mondo intero, e per Israele in particolare. Il paese, ha sottolineato, è infatti "all'epicentro dello scontro che ha coinvolto il Medio Oriente negli ultimi anni e l'integralismo islamico si sta insinuando in tutti i paesi, causando il loro crollo".
Per questo il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che "la responsabilità del Mossad è immensa". "La nostra forza è legata alla volontà di alcuni tra i nostri figli e figlie migliori di portare il fardello di assicurare la vita, la libertà e la prosperità del paese", ha aggiunto lodando il lavoro dell'agenzia di intelligence.
Prima della vice direzione del Mossad, Cohen era stato nominato nel 2013 proprio da Netanyahu come suo consigliere per la sicurezza, e in gioventù le loro due famiglie abitavano vicine, nel quartiere di Katamon a Gerusalemme, dove è nato in una famiglia ortodossa. Suo padre Leo è stato un combattente dell'organizzazione paramilitare Irgun.
"Mi fido di te, Yossi, e così tutto Israele", ha detto Netantanyhu. Con trent'anni di servizio alle spalle, Cohen è un veterano del Mossad, conosciuto all'interno dell'organizzazione con il soprannome di 'Y' - o meglio con una 'yod' in ebraico. Alla cerimonia ha salutato così il suo predecessore Tamir Pardo: "Ci siamo conosciuti due decenni fa - il suo omaggio - e da allora abbiamo sempre cooperato, ho avuto il privilegio di essere il tuo vice e in quel periodo ho passato tanti giorni e tante notti a trarre ispirazione da te e a imparare cosa significa essere un analista in grado di andare in profondità".
(moked, 12 gennaio 2016)
I danzatori israreliani guidati da Ohad Naharin in arrivo a Modena
Magie e acrobazie della Batsheva Dance Company. In estate un tour fra Spoleto, Ravenna e Torino.
di Sergio Trombetta
Non era impresa facile entrare all'Opéra di Parigi, nei giorni anniversario di «Charlie Hebdo», per assistere allo spettacolo della Batsheva Dance Company, la più famosa e acclamata compagnia di danza israeliana diretta da un coreografo di genio come Ohad Naharin. Metal detector, ispezioni personali, lunghe file e inizio con un quarto d'ora di ritardo. Ma poi si assisteva a uno spettacolo fra i più entusiasmanti che possa capitare di questi tempi. Diretta da 25 anni da Naharin la «Batsheva» è il nome di punta, la nave ammiraglia di tutta la variegata e complessa danza contemporanea israeliana.
Il titolo in programma, «Three», ovviamente è un trittico di diversi pezzi presentati senza soluzione di continuità su musiche che vanno da Bach a Brian Eno ai Beach Boys. Un lavoro denso e compatto che il 22 gennaio sarà al Teatro Pavarotti di Modena in esclusiva italiana mentre l'estate vedrà gli israeliani con altri lavori a Spoleto, Ravenna e Torinodanza.
Mentre il pianoforte di Glenn Gould scandisce le prime note delle «Variazioni Goldberg» un danzatore solo in scena si muove con altrettanta lentezza come se volesse aprire gli spazi di silenzio fra le note e introdursi in un mondo di libertà totale di movimento. La musica va per la sua strada e i danzatori, soli, a coppie, con il resto della compagnia sullo sfondo a fare da coro, si scatenano in un fuoco d'artificio di gesti, una invenzione continua, inattesa, sorprendente, mai uguale a sé stessa, semplice, magari folk, oppure acrobatica, frenetica, spasmodica, che prende in continuazione in contropiede lo spettatore.
Merito di Naharin e del suo Metodo Gaga con cui lavora insieme ai danzatori che sono un vero concentrato di energia e sensualità. E anche ironia. Come quando fra i diversi pezzi (il primo è intitolato «Bellus») un giovanotto viene in scena con uno schermo sottobraccio dove il suo viso in primo piano annuncia il pezzo successivo. Che è «Humus», tutto femminile, spesso giocato sull'unisono, scandito in diverse sequenze brevi e coinvolgenti.
Si chiude con «Secus», e qui di nuovo la parola d'ordine è variare in continuazione la proposta coreografica, grazie anche al mix musicale che va dall'elettronica al pop, passando per ritmi latinoamericani e un tango danzato da due ragazzi. Alla fine applausi scroscianti e interminabili per i 18 danzatori che non sono soltanto israeliani, ma arrivano dai quattro continenti.
Le date degli spettacoli in tour
Al Teatro Pavarotti di Modena il 22 gennaio con «Three»
Al Festival di Spoleto il 1,2,3 luglio con «Deca Dance Spoleto»
Il 6 luglio al Ravenna Festival
Il 6 settembre a Torinodanza con «Last Work»
(La Stampa, 11 gennaio 2016)
Israele - Attivista di estrema sinistra accusato di collaborare con agenti dell'Anp
GERUSALEMME - Esdra Nawi, attivista di estrema sinistra, è stato convocato a comparire davanti al tribunale di Gerusalemme con l'accusa di essere in contatto con un agente del Servizio di sicurezza preventiva dell'Autorità nazionale palestinese. Lo riferisce il quotidiano locale "Jerusalem post" citando una dichiarazione della polizia di Giudea e Samaria. Ieri l'uomo era stato fermato alle aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv mentre sarebbe stato in procinto di lasciare il paese. Un funzionario delle forze di polizia israeliane riferisce che Nawi è accusato di essere in contatto con un agente straniero, crimine contro la sicurezza interna. La scorsa settimana in un filmato mandato in onda dall'emittente televisiva "Channel 2", realizzato con una telecamera nascosta, Nawi si vantava con alcune persone di come riusciva ad organizzare incontri con i palestinesi che stanno cercando di vendere i loro terreni agli ebrei dando poi i loro nomi e i loro numeri al Servizio di sicurezza palestinese. Nel video Nawi si compiaceva del fatto che gli uomini denunciati venissero poi torturati ed uccisi. Le indagini contro Nawi sono condotte dall'unità per i crimini a sfondo etnico della polizia di Giudea e Samaria che si occupa anche degli attacchi e dei crimini commessi dagli ebrei contro i palestinesi. Il filmato diffuso dall'emittente "Channel 2" è stato realizzato dall'organizzazione "Ad Kan" che ha invitato un gruppo di israeliani attivisti di estrema sinistra ad infiltrarsi nelle Ong israeliane in Cisgiordania.
(Agenzia Nova, 12 gennaio 2016)
F-35: Al via a Fort Worth l'assemblaggio del primo F-35 israeliano
di Davide Bartoccini
La Lockheed Martin e i funzionari del Ministero della Difesa dello Stato d'Israele hanno festeggiato la scorsa settimana l'inizio della procedura di assemblaggio per il primo F-35A "Adir" ("possente" in ebraico) che verra prodotto dall'azienda aerospaziale americana per Israele.
Il caccia multiruolo di 5a generazione designato come velivolo AS-1 è stato assemblato nelle sue quattro componenti principali presso l'Electronic Mate and Assembly Station avvicinandosi al prendere la sua forma ultima; si prevede sarà pronto per essere consegnato ed entrare in forza all'IAF, l'Israeli Air Force, nel prossimo mese di giugno.
Israele ha ordinato 33 F-35 nella versione A che prevede il Conventional Take Off and Landing (CTOL). Il contributo di Israele al programma F-35 comprende la produzione delle ali per gli aeromobili, per parte dell'Israel Aerospace Industries, lavori sulle componenti del casco di 3a generazione che indosseranno tutti i piloti di F-35, per parte della Elbit Systems Ltd. di Haifa, e la produzione di 16 elementi in composito che faranno parte della fusoliera dall'Elbit Systems-Cyclone F-35 center.
L'F-35A 'Adir' sarà un'introduzione significativa per il mantenimento qualitativo della capacità militare di Israele in Medio Oriente. Esso permetterà, attraverso la combinazione di tecnologia 'Stealth',velocità, agilità in combattimento e armamenti di ultima generazione, di fronteggiare e sconfiggere le possibili minacce emergenti nello spazio aereo e sul suolo israeliano.
Aharon Marmarosh, rappresentante israeliano della missione a New York ha dichiarato: "Questi aerei di 5a generazione permetteranno di migliorare notevolmente la capacità dell'IAF nella difesa dello lo Stato di Israele rispetto alle gravi minacce che deve fronteggiare", aggiungendo che tale data segna "un nuovo inizio per l'aviazione tattica d'Israele".
Jeff Babione, program manager dell'F-35 di Lockheed Martin, ha proseguito: "Lockheed Martin è orgogliosa della relazione con le forze armate israeliane. L'F-35A Adir rafforzerà il nostro solido rapporto con l'IAF assicurando la forza dell'aviazione militare israeliana che rimarrà tale per i decenni a venire".
(Difesa Online, 11 gennaio 2016)
Accoltellò alle spalle un palestinese, israeliano condannato a 21 mesi
ROMA - Il Tribunale della Corte penale di Tel Aviv ha condannato a 21 mesi di carcere Oz Segal, un israeliano che ad aprile scorso accoltello' un arabo palestinese, ferendolo gravemente. Come riporta il quotidiano israeliano Haaretz, ora Segal dovra' risarcire la vittima anche con 12.000 shekels (circa 2.800 euro) per i danni causati.
Il giudice che ha seguito il caso, Shamai Becker, ha trovato Segal colpevole di "aggressione aggravata dal possesso di arma da taglio", e ha respinto la richiesta di attenuanti per insanita' mentale avanzata dal legale. Per Segal, che ha colpito un netturbino arabo per la strada al grido di "morte agli arabi!", l'accusa aveva chiesto tra i 18 e i 38 mesi di reclusione, mentre il legale dell'imputato - fino a quel momento senza precedenti penali - aveva chiesto una condanna ai servizi sociali.
Oz Segal durante il processo ha motivato il suo gesto dichiarando che "delle voci e dei fantasmi lo perseguitavano", pertanto voleva finire in prigione in modo da potersi nascondere.
Il giudice nella sentenza, secondo Haaretz, ha scritto: "Non solo Segal era consapevole di stare commettendo un crimine, ma al contrario, se prendiamo in considerazione le sue motivazioni (che sono a nostro avviso assurde), secondo cui dei fantasmi lo stavano perseguitando e per questo voleva nascondersi in prigione, allora vediamo che ha scelto una soluzione e uno strumento che gli hanno permesso di raggiungere il suo scopo: finire dietro le sbarre".
E nel testo il giudice Becker prosegue: "Non solo Oz Segal ha deciso di commettere un crimine, ma e' stato lui stesso - e non delle voci, dei fantasmi o degli angeli - a scegliere di accoltellare un arabo" e quindi il tribunale ha constatato che "l'atto commesso e' estremamente grave. Non ci sono parole per descrivere cio' che un uomo che si guadagna da vivere pulendo le strade senza arrecare danno a nessuno, possa aver provato nel momento in cui qualcuno, improvvisamente, lo ha assalito alle spalle brandendo un coltello, e lo ha pugnalato alla schiena augurandogli la morte".
Il giudice ha respinto l'attenuante dell'insanita' mentale suggerita dal difensore dell'imputato, attenuante che invece aveva risparmiato a Segal una condanna nel 2011 per un reato che le fonti non specificano, ma che rientra sempre nel penale. Becker ha invece considerato l'aggravante della premeditazione, e pertanto escluso una riduzione di pena ai servizi sociali.
(Agenzia Dire, 12 gennaio 2016)
L'antisemitismo in Italia non è sicuramente nato con il fascismo
Ma ha le sue radici più forti ficcate nell'Italia post-risorgimentale
di Diego Gabutti
Come ovunque, anche nell'Italia postrisorgimentale l'Italia creata dagli eroi del Quarantotto, dagli anticlericali e dai garibaldini l'antisemitismo aveva salde radici. Qualunque cosa sia stata fantasticata in seguito, e ancora si fantastichi, per banalizzare le leggi razziali del fascismo, facendone un episodio
estraneo all'Italia e ai suoi intellòs, l'antisemitismo italiano era all'opera, disponeva cioè di teorici e organizzatori, fin dai primi anni del secolo. Tra questi, racconta Bruno Pischedda in un superbo e importante libro, L'idioma molesto, Aragno 2015, pp. 316, 20,00 euro, uno degl'inventori del giornalismo culturale italiano, Emilio Cecchi, storico della letteratura inglese, autore del classico Pesci rossi.
Abbiamo già segnalato, qualche giorno fa, il libro di Pischedda su «Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo razziale», ma è il caso di tornarci sopra, almeno per illustrarne la trama, i personaggi, i colpi di scena, le abiure, le smemoratezze. Quella dell'antisemitismo, racconta Pischedda, è una metastasi che invade l'Italia attraverso l'integralismo papista e le più trucide teorie del progresso. A Vienna gli austro-marxisti definiscono le sinistre teorie razziali dei mangiagiudei «socialismo degl'imbecilli». Anche la Francia, dove l'anarcosindacalismo dell'antisemita Sorel impera nelle file operaie, è piena di devoti al «socialismo degl'imbecilli». In Italia sono più i devoti al darwinismo (al nietzschianesimo, al wagnerisrno, al papismo) degl'imbecilli. Sono questi intellettuali provinciali, come Cecchi, che s'interessano di cose inutili, di romanzi idioti, di D'Annunzio, a vedere ovunque nasi a becco, candelieri a sette braccia, avanzi di sinagoga. Inviato speciale, Cecchi disprezzerà, dopo gli ebrei, anche i neri americani. Ammiccherà alle «faccette nere» africane e se la tirerà da biologo e da antropologo (lui, l'inventore della prosa d'arte, vale a dire del nulla caramellato) mettendo in guardia i civilizzati (gli ariani, gli eredi di Roma imperiale) dagl'inguacchi interrazziali. Critico letterario, gli piace Bacchelli e stronca i romanzi di John Fante e James Cain.
Di quel che capita nel mondo (è la maledizione dell'intellò italiano anche oggi, come Alberto Arbasino ha sempre predicato invano) non capiranno mai un cecio. Liquideranno con ironie imbarazzanti, da rivistina fiorentina, scritta in vernacolo culturale, il romanzo modernista da James Joyce a Marcel Proust, autore «dal sangue, dicono, misto» e daranno del «maiale» all'autore di best seller Guido da Verona (un ebreo) per le scene osé di Sciogli le trecce, Maria Maddalena e di Mimi Bluette fiore del mio giardino. C'e dentro tutto il jet set prefascista italiano, da Riccardo Bacchelli al fior da fiore dei rondisti: Soffici, Cardarelli, tale Marcello Cora, anche Alberto Savinio.
Ben prima che le furie del Novecento, i totalitarismi di destra e di sinistra, che furono tutti antisemiti, mettessero a punto le loro strategie genocide, la cultura giornalistica italiana e i campioni dell'elzeviro e della prosa d'arte erano già schierati con i mostri e aveva un che di mostruoso (il provincialismo, l'ottusità, il disumanesimo) anch'essa. Tra i mostri, spicca un ex sacerdote modernista, Monsignor Umberto Benigni. Amico d'Ernesto Buonaiuti e dei sacerdoti che in futuro saranno scomunicati per avere praticato (vade retro) il libero pensiero, e per un po' modernista egli stesso, Benigni creerà una sorta di servizio segreto, col tempo sempre meno tollerato dal Vaticano, incaricato di stanare ««i congiurati massoni, gli ebrei, gli anticattolici e gli anticristiani d'ogni fatta», naturalmente favoriti dalla propaganda nefasta che gli sparsi seguaci del movimento modernista si ostinano a fomentare. Provvedono alla raccolta delle notizie agenti infiltrati presso i circoli intellettuali della capitale e nella stessa curia vaticana, entro le redazioni dei giornali, nelle banche in cui si decidono gli assetti finanziari del paese, nelle segreterie dei maggiori partiti». Di questa Spectre degli antisemiti (o «degl'imbecilli», per dirla con gli austromarxisti) Emilio Cecchi fu un «agente«. Nel 1925 firmò, e subito ne prese le distanze, il manifesto degl'intellettuali antifascisti che Benedetto Croce e Giovanni Amendola avevano scritto in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti schierati a fianco del DUX dopo l'affaire Matteotti. Diventò presto un fascistone zelante e opportunista. Anglista, trasformò l'antologia Americana, celebrazione della letteratura degli Stati Uniti curata da Elio Vittorini per Bompiani, in una condanna degli scrittori americani, dei loro personaggi «trasformati in isteriche sgualdrine cariche di whisky e di scompensi sessuali: la poesia dell'ardimento e della conquista, il mito della frontiera, l'epos della miniera e del rancho, si sono trasportati nella cronaca nera; da romantica e idealista, l'avventura è diventata poliziesca. II pioniere è diventato gangster, bootlegger, aggiotatore». Poi la fine della guerra e l'oblio.
Come Vittorini, anche Pischedda, che non fa sconti all'intellighenzia razzista, di cui Emilio Cecchi fu uno degli esponenti di punta, non nasconde la sua ammirazione per il prosatore e il giornalista, per il «Cerchi scrittore». «Se anche dovremo sporgerci su panorami ingrati», scrive, «sarebbe ingeneroso misconoscere i molti meriti di una simile letteratura. Come attestano taluni paragrafi statunitensi dedicati alle officine fordiste, alla logistica complessa che regola la catena di montaggio, Cecchi seppe infondere acume e perizia tecnica nel lavoro di cronista itinerante. (... )Trascorrendo da un paese all'altro, considera temi economici, artistici, folk-lorici, s'inoltra nel dibattito tra i partiti, tratta di relazioni internazionali, offre un quadro veritiero della vita che si svolge nelle metropoli e nei villaggi più sperduti. Tuttavia ciascuno di questi argomenti ha da commisurarsi con un pregiudizio essenziale»: il razzismo, l'antisemitismo. Sarò ingeneroso, ma la prosa zuccherosa di Cecchi mi dà un po' di nausea a prescindere, anche senza leggerla. A pregiudizio, pregiudizio e mezzo.
(ItaliaOggi, 12 gennaio 2016)
Il vizietto di D'Alema su Israele
Israele e Arabia Saudita pari sono, come problemi del medio oriente
Massimo D'Alema ha nostalgia di se stesso e guarda il mondo con gli occhi velati dal rammarico di non esserci più, proprio ora che vorrebbe gridare forte, nei consessi internazionali, quel che ha sempre pensato: pensavate che Israele e l'Arabia Saudita fossero due alleati, "si sono rivelati due problemi". La fine dell'ostracismo "sbagliato" nei confronti dell'Iran è la dimostrazione che nell'isolamento non si servivano gli interessi dell'occidente, quanto piuttosto quelli dei "due problemi", gli israeliani spaventati dalla Bomba e i sauditi spaventati dalla perdita di potere, che li ha portati a "un atto deliberato, privo di senso", cioè l'esecuzione di Nimr al Nimr, "un chierico che non era un estremista". Il governo Netanyahu di Israele, secondo D'Alema, gioca "un ruolo negativo nella regione", espandendo le colonie e facendo "di fatto" scomparire la prospettiva di uno stato palestinese, e la comunità internazionale lo asseconda (!), perché "Israele non rispetta gli impegni sottoscritti, vìola le risoluzioni dell'Onu". La conseguenza è sempre la stessa, quella contrabbandata dagli antisemiti di tutto il mondo, l'odio verso l'occidente nel mondo arabo cresce perché per Israele si usano standard diversi (!), bisognerebbe ritrovare un equilibrio, "una convivenza basata sul rispetto dei diritti umani e dei princìpi del diritto internazionale".
E visto che di diritti si parla, come non schierarsi con l'Iran? I guerriglieri sciiti non sono alleati "ma combattono lo stesso nemico", e non comprenderlo è secondo D'Alema da aspiranti apprendisti, se non da "trogloditi": anche la sua famosa passeggiata a braccetto con un deputato di Hezbollah, nel 2006, fu un gesto di solidarietà giusto, ribadisce D'Alema, "spesso in Italia prevale l'ignoranza di trogloditi che non sanno di cosa si parli". A proposito di Italia: all'estero non siamo più protagonisti - appena Matteo Renzi ha rivendicato un ruolo guida in Libia, "l'Onu ha scelto un ambasciatore tedesco" - e il premier invece che "baccagliare con la Merkel" dovrebbe promuovere un progetto comune dei socialisti europei, intestarsi una nuova politica. In cui si dialoga a sinistra, come insegnano i segnali "interessanti" (!) che vengono da Portogallo e Spagna. Insomma un Ulivo europeo che fa l'occhietto ai turbanti sciiti: vaste programme, anzi déjà-vu. Nulla di nuovo, insomma, sotto i baffi dalemiani, incanutiti e nostalgici.
(Il Foglio, 12 gennaio 2016)
La posizione di questo ex Presidente del Consiglio italiano rappresenta la peggior forma di antisemitismo ragionato di sinistra ancora in circolazione. Continua a deprimere il solo ricordo di quello che diceva e faceva quando era Ministro degli Esteri. M.C.
Sfratto dei Goym: sapori ebraici in Maremma
Nello splendido borgo di Pitigliano, in provincia di Grosseto, la cucina kosher e la tradizione toscana hanno dato vita a un dolce dalla storia lunga e affascinante.
di Eleonora Autilio
Gustoso incontro di sapori e di culture, lo Sfratto dei Goym è molto più di un dolce. Si tratta di un vero e proprio simbolo del pittoresco borgo maremmano di Pitigliano (GR) che racconta una lunga storia di integrazione e di scambi tra il popolo toscano e quello ebraico.
La tradizione
E' una storia di integrazione ed intrecci culturali quella dello Sfratto dei Goym dei borghi maremmani di Pitigliano e Sorano. Questo ottimo dolce toscano, infatti, si presenta come un'interessante fusione di sapori e di tecniche tipici della cultura ebraica e della tradizione regionale. Questo gustoso "sposalizio" è il frutto di una lunga storia che ha inizio nel XVI secolo quando il popolo ebraico dell'Italia centrale, vittima delle persecuzioni di Cosimo II De' Medici che intendeva segregarlo nei ghetti di Roma, Ancona, Firenze e Siena, trovò rifugio in zone isolate ai margini della Toscana, come il pittoresco borgo di Pitigliano dove intraprese con la gente locale una convivenza estremamente pacifica. Nella località sorsero la sinagoga, diverse botteghe artigiane e il "forno delle azzime" (dove si preparava il pane non lievitato) e l'incontro tra i prodotti locali, come il miele e le noci, e le tradizioni legate alla cucina kosher, come quella di non utilizzare lievito, diede vita a diverse specialità, tra cui l'ottimo dolce ispirato alla forma del bastone con cui il messo incaricato bussava alle porte delle abitazioni ebraiche per intimare agli occupanti di lasciare le proprie case.
La denominazione
Questo dolce gustoso venne chiamato Sfratto dei Goym, dal nome del bastone utilizzato per allontanare il popolo ebraico dalle proprie abitazioni, chiamato, appunto, sfratto, e dal termine "Goym" utilizzato per definire coloro che non erano Ebrei. Questa specialità kosher/maremmana ha meritato l'attenzione della Fondazione Slow Food che ne ha fatto un suo Presidio.
Le caratteristiche
Come suggerisce il nome stesso, il dolce ricorda la forma di un piccolo bastone lungo circa 20-30 centimetri e del diametro di 3, caratterizzato da un involucro esterno a base di pasta non lievitata ottenuta con farina, zucchero, vino, olio d'oliva e talvolta uova, farcita con un ricco ripieno preparato con miele, noci, scorza d'arancia e noce moscata, e spennellata con dell'olio.
La produzione
Lo Sfratto dei Goym viene consumato prevalentemente durante il periodo delle Feste ma si trova durante tutto l'anno. Nei borghi di Pitigliano e Sorano sono rimasti ormai pochi produttori a prepararlo e tra di essi meritano certamente un assaggio quelli della bottega Delizie di Ale e Helga, scavata nel tufo, del Forno del Ghetto e della Pasticceria di Massimo e Marco Ulivieri.
La cultura
Sebbene lo Sfratto venga generalmente considerato il prodotto più rappresentativo del processo di contaminazione tra la cultura ebraica e quella maremmana, l'incontro tra le due cucine diede vita anche ad altre prelibatezze come la tegamata, uno stufato di manzo, pomodoro e patate, la Minestra di Lenticchie di Easù e il risotto con i carciofi.
In cucina
Si può scegliere di preparare lo Sfratto dei Goym utilizzando le uova, ottenendo in tal caso un impasto più soffice, oppure unendo soltanto farina, zucchero e vino che conferiscono una consistenza lievemente più sabbiosa. Non manca chi aromatizza l'impasto con un poco di liquore e chi, per rendere l'involucro esterno ancora più morbido, vi aggiunge del latte o del burro. In ogni caso, il dolce ottenuto, dalla caratteristica forma di bastone, viene generalmente servito in tavola tagliato a fettine sottili.
La ricetta
Ingredienti: Per la pasta: 500 grammi di farina, 200 grammi di zucchero, un bicchiere di vino bianco, un bicchiere di olio d'oliva.
Per la farcitura: 500 grammi di miele, 400 grammi di noci sgusciate, scorza d'arancia, noce moscata. Tritate le noci e mescolatele alla noce moscata e alla scorza d'arancia grattugiata, scaldate, quindi, il miele e cuocetelo a fuoco dolce per circa mezz'ora. Aggiungete le noci aromatizzate al miele caldo e lasciate freddare fin quando il composto non avrà raggiunto una consistenza sufficientemente compatta da poter essere lavorato e modellato dandogli la forma di bastoncini. Procedete, quindi, alla preparazione della pasta unendo la farina, lo zucchero, il vino e l'olio d'oliva. Tirate l'impasto e stendetelo creando dei rettangoli delle dimensioni di circa 10 x 20 centimetri che arrotolerete attorno ai bastoncini di farcitura, spennellerete con dell'olio ed infornerete per circa mezz'ora a 180o.
(Turismo.it, 12 gennaio 2016)
La correttezza di Israele
di Maurizio Del Maschio
Ricordate il rapporto ONU sulle presunte violazioni umanitarie perpetrate da Tzahal, le forze armate israeliane, durante la guerra dell'estate 2014 per far cessare il lancio di missili su Israele e per chiudere i tunnel scavati dal Hamas? Ora l'High Level Military Group, che ha preso in esame le accuse ha constatato e reso pubblico che da parte di Israele non sono state commesse violazioni, mentre sono state accertate numerose violazioni commesse da Hamas. Le forze armate israeliane non si sono limitate a rispettare il diritto dei conflitti armati, ma hanno persino superato i parametri minimi previsti dalle norme internazionali. È quanto emerge dal rapporto di ottanta pagine intitolato "An assessment of the 2014 Gaza conflict" redatto da undici alti ufficiali in pensione del gruppo HLMG. La squadra, di cui fa parte anche il generale italiano Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell'Aeronautica prima e della Difesa poi, non ha riscontrato alcuna violazione dei diritti umani da parte dell'esercito israeliano.
Il documento è stato pubblicato dalla Friends of Israel Initiative, il gruppo fondato nel 2010 per volontà dell'allora premier spagnolo José María Aznar per combattere la sistematica campagna di denigrazione e delegittimazione ai danni Israele. Già all'inizio di quest'anno il gruppo HLMG aveva presentato le proprie conclusioni alla Commissione per i Diritti Umani dell'ONU. Questo rapporto, frutto di indagini sul campo da parte degli esperti, ha constatato ancora una volta l'irreprensibilità dell'operato di Israele nella Striscia di Gaza nel conflitto del 2014, nonostante le stesse Nazioni Unite, insieme a numerose organizzazioni non governative (evidentemente di parte), avessero accusato lo Stato ebraico di crimini contro l'umanità. L'accusa di "Crimini contro l'umanità e genocidi" è uno strumento preferito dalla lawfare, la guerra asimmetrica fatta di false accuse di abusi di norme e procedure internazionali, portata avanti dagli oppositori di Israele. Una guerra combattuta per raggiungere obiettivi strategici che non possono essere raggiunti con mezzi politici e militari, con armi che cercano di limitare e bloccare la capacità di perseguire i legittimi interessi di sicurezza nazionale dello Stato ebraico.
Il punto di partenza dell'analisi degli eventi è la necessità di scegliere quale sia il diritto applicabile nei casi di specie. L'Occidente quasi due secoli fa ha iniziato a darsi delle regole per rendere un conflitto armato meno disumano possibile. Sono regole in linea con le carte più importanti, in primis quella dell'ONU, che quando applicate proteggono civili e infrastrutture civili. O si applicano queste regole oppure si sfocia nell'opinabile e nell'emozionale. Purtroppo, la sollecitazione emozionale soddisfa solo gli ingenui, ma non serve a regolare la convivenza civile tra popoli in conflitto. Il rispetto delle leggi dei conflitti armati è il vero problema delle guerre asimmetriche dell'epoca in cui viviamo. Sfruttare edifici intoccabili per principio, come luoghi di culto, ospedali e scuole, per crearsi un vantaggio tattico mette l'avversario che vuole rispettare le regole in condizione di svantaggio. Ciò vanifica anche l'asimmetria tecnologica garantita dagli armamenti di precisione che contribuiscono a ridurre i danni non voluti nei confronti dell'avversario. Questo atteggiamento viene sfruttato anche dal punto di vista mediatico: si costringe il nemico ad attaccare e poi lo si accusa di aver commesso un atto lesivo dei diritti umani. Questa è la vera asimmetria dei conflitti di oggi, tra chi rispetta determinate regole e chi queste regole non le rispetta, tra chi si sforza di realizzare un conflitto senza vittime e chi è disposto a morire e far morire persone innocenti pur di raggiungere il proprio obiettivo.
Occorre smascherare questo inganno dissimulato: Israele è colpevole perché non accetta un governo palestinese che includa un'organizzazione terroristica che ha giurato di distruggere lo Stato ebraico, non vuole aiutare tale organizzazione con le sue risorse economiche e mette in atto un embargo, congiuntamente con l'Egitto, che ostacola l'acquisto e impedisce la produzione di razzi e, infine, vuole impedire di usare calcestruzzo importato per scavare tunnel per scopi terroristici. Questa sfacciataggine nasconde un'intolleranza lievemente velata. Scambia l'effetto per la causa, tratta la richiesta del rispetto di sé come arroganza e l'autodifesa come aggressione. Pretende dallo Stato ebraico ciò che sarebbe rifiutato in qualsiasi altro luogo da qualunque altro Stato al mondo. In questa guerra, difendere la parte palestinese significa favorire la causa della barbarie, cancellare, nel nome di un falso umanitarismo, le distinzioni morali dalle quali emerge il concetto stesso di umanità.
Nel rapporti viene analizzato anche il numeri delle vittime civili, stimate in oltre 2.000 persone. L'Ufficio dell'ONU per gli affari umanitari ha attinto a piene mani dai dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas. I numeri erano pieni di incongruenze, tra nomi duplicati, età scorrette, inclusione fra le vittime dei morti da fuoco amico causate da Hamas o dalle sue organizzazioni affiliate (come nel caso di scoppio di razzi difettosi) e morti non in conseguenza del conflitto ma classificati come tali. Se da parte israeliana nessun crimine di guerra è stato dimostrato, dall'altra l'HLMG ha constatato che la morte della stragrande maggioranza dei civili Hamas è frutto della sua politica volta a causare, direttamente ed indirettamente, il maggior numero di civili palestinesi morti per fomentare l'odio anti-israeliano.
Il documento denuncia l'utilizzo da parte di Hamas di scudi umani e conferma molte delle accuse rivolte all'organizzazione terroristica circa lo sfruttamento di mezzi, strutture e "siti sensibili" delle Nazioni Unite, come l'UNRWA senza alcuna protesta ufficiale da parte di quest'ultima. All'occhio degli esperti non è nemmeno sfuggita la strategia mediatica messa in atto da Hamas che ha negato ai media la possibilità di documentare vittime e feriti tra i combattenti indirizzando i reporter sui civili feriti. Non di rado, secondo le testimonianze, Hamas avrebbe persino allestito false scene dopo i raids israeliani rimuovendo armi e combattenti e lasciando solo i civili prima di consentire l'accesso ai giornalisti.
Il rapporto, inoltre, ritiene adeguate le misure operative delle forze armate israeliane finalizzate ad evitare vittime civili. Tra esse è compreso il famoso "bussare sul tetto", le chiamate e i volantini per avvisare degli attacchi e la struttura organizzativa necessaria a garantire il rispetto del diritto di guerra e delle regole d'ingaggio. "Un rispetto degli standard spesso in contrasto con la convenienza militare che, come ha dichiarato il colonello Richard Kemp, comandante delle forze britanniche in Afghanistan, altre nazioni non sarebbero in grado di gestire". Ciò dimostra l'elevato livello etico delle forze armate israeliane, un livello a cui nessun altro esercito al mondo èpervenuto. Onore, quindi, a Israele e vergogna ai suoi nemici che, con la loro menzognera e ingannatrice attività, non prevarranno.
(Online News, 11 gennaio 2016)
Israele e altri, mai più esclusi da eventi velici internazionali
L'Isaf/World Sailing sul caso Malesia: niente sanzioni alla Federazione locale per i due atleti israeliani lasciati fuori, ma un raccomandazione per il futuro.
di Fabio Pozzo
Nessuna sanzione, almeno per ora, in capo alla Federazione vela malese per il caso dei due atleti israeliani del windsurf di fatto esclusi dai Mondiali tenutisi in Malesia sino al 3 gennaio scorso. L'Isaf/World Sailing - la federvela mondiale - presieduta dall'italiano Carlo Croce si è pronunciata soltanto con una raccomandazione per evitare che si ripresentino casi simili in futuro.
Riepilogando
Yoav Omer e Noy Drihan, due atleti israeliani del windsurf sono rimasti fuori dai Mondiali perché Israele ha scelto di non partecipare alle gare, a fronte delle condizioni imposte dall'organizzazione ospitante: principalmente, correre senza bandiera, senza inno in caso di vittoria, niente rapporti con i media, nessun comunicato stampa. Insomma, in modo anonimo, sotto l'egida dell'Isaf/World Sailing, la Federvela mondiale anziché con i colori dello Stato ebraico.
Secondo quanto spiegato da Croce, in una intervista a La Stampa, Israele si sarebbe iscritto in ritardo e la Malesia ha cercato di far partecipare comunque gli atleti israeliani, "ma era molto tardi per garantire loro una adeguata protezione. Hanno così chiesto al loro governo, che ha indicato le misure per far sì che gli atleti non diventassero facili bersagli. Ma il visto lo avrebbero rilasciato. Israele però ha deciso di non prendere parte, a queste condizioni, all'evento".
La raccomandazione
L'Isaf, dopo aver intrapreso "una profonda indagine sulla vicenda con la piena cooperazione del Comitato olimpico internazionale, ha deciso che "in futuro agli organizzatori di tutti gli eventi velici internazionali sarà richiesto di rispettare specifiche condizioni per assicurare che tutti i regatanti di tutte le nazioni possano partecipare equamente. Se queste condizioni non saranno rispettate, specifiche sanzioni saranno applicate a qualsiasi futuro evento internazionale che si svolgerà in quel Paese". Quanto alle condizioni, saranno resi noti i dettagli.
(La Stampa, 11 gennaio 2016)
*
Dunque la Federazione mondiale della vela se la cava con una raccomandazione generica a non farlo più. La spiegazione offerta dal presidente Carlo Croce è già stata smentita. Ripresentiamo un articolo di qualche giorno fa.
Gli israeliani smentiscono Croce: iscrizioni in tempo
di Gian Luca Pasini
Ma Carlo Croce ci è o ci fa? Sul Secolo XIX una intervista lascia inquietanti interrogativi. Croce cita date fantasiose che sembrano immaginare una corresponsabilità israeliana nella vicenda. Vediamo. Croce dice che le iscrizioni alla regata sono state chiuse il 6 agosto. Il documento ufficiale dice il primo giugno, qui: E' accettabile che ci si possa sbagliare a questo punto della vicenda su un particolare del genere?
Il presidente continua: "Israele si è iscritto il 10 ottobre". Affermazione clamorosa, perché se fosse vero abbiamo discusso del nulla. Bastava dire al mondo, gli israeliani non si erano iscritti in tempo e il caso non sarebbe esistito. Ci siamo presi la briga di chiedere una conferma ufficiale telefonando alla federvela israeliana che ci ha detto ufficialmente: "le nostre iscrizioni sono arrivate nei tempi previsti dal bando di regata, cioè entro il primo giugno". Basterebbe questo a confutare tutto il resto. Luca Bontempelli
(La Gazzetta dello Sport, 2 gennaio 2016)
New York: la comunità ebraica approva la cannabis terapeutica
di Stefano Delle Cave
A New York la cannabis è stata indicata dalla comunità ebraica come conforme ai dettami religiosi in quanto portatrice di benefici per la salute ed è stata rilasciata la prima certificazione ad una azienda produttrice.
Un'altra rivoluzione per la cannabis ad uso medico è in arrivo a New York: la comunità ebraica della città, la più nutrita di tutti gli Stati Uniti, ha dato il suo via libera alla certificazione kosher della cannabis per uso medico.
Il benestare è arrivato direttamente dall'associazione degli ebrei ortodossi in un momento particolare dato che, a partire dall'anno in corso 2016, nello stato della Grande Mela è legale vendere marijauna per finalità curative.
Una novità arrivata due anni dopo l'approvazione del noto Compassionate Care Act, documento tramite il quale si consente ai malati affetti da determinate patologie gravi di ricorrere alla marijuana come cura palliativa. Con l'arrivo del nuovo anno è diventata legale la vendita di marijuana e di semi di canapa femminizzati e autofiorenti come questi anche direttamente nelle farmacie o presso negozi specifici nati appositamente.
La cannabis terapeutica, il cui utilizzo ha esclusivamente finalità mediche e non di altro tipo, era stata dichiarata conforme ai dettami religiosi inerenti la nutrizione degli ebrei già nel 2013, in Israele; non a caso sempre in questo Stato la ricerca sulla cannabis è attiva da circa 20 anni.
La novità delle ultime ore riguarda semmai la certificazione rilasciata per la prima volta ad un'azienda di New York, che produrrà ora prodotti kosher derivati dalla cannabis medica.
Una certificazione che è arrivata, da parte della comunità ebraica, dopo attente analisi tese a certificare che la marijuana fosse stata prodotta seguendo tutte le norme kosher.
L'approvazione da parte della comunità ebraica di New York è un ulteriore balzo in avanti nell'utilizzo di questa sostanza in ambito curativo. "Non abbiamo problemi perchè porta benefici alla salute". Con queste parole il rabbino a capo della certificazione kosher ha giustificato la decisione.
Ricordiamo che il termine kosher indica il cibo che gli ebrei osservanti possono consumare, ed ha il significato di 'conforme alla legge'. Si parla quindi di un qualcosa di consentito dalle regole della tradizione religiosa ebraica.
L'azienda che ha ottenuto il via libera a produrre cannabis medica kosher ha evidenziato come questa certificazione tornerà utile per supportare i pazienti della comunità ebraica di New York, alleviando loro sofferenza e dolori dovuti a patologie gravi.
Gli ebrei osservanti, secondo le dichiarazioni del rabbino, non dovranno in alcun modo sentirsi in colpa per l'utilizzo di cannabis, purchè questo sia orientato esclusivamente a finalità mediche e curative.
(Cno Web Tv, 11 gennaio 2016)
La prova del nove della stabilità
Nel caos totale del mondo arabo circostante, il grosso dei palestinesi riconosce il valore della stabilità garantita da Israele, sia in termini economici che di sicurezza
Tra i palestinesi non mancano degli individui disposti ad alzarsi la mattina e, se appena se ne presenta l'opportunità, accoltellare degli ebrei o investirli con l'automobile. Eppure va sottolineato come questa a cui stiamo assistendo non è una rivolta popolare. Non vi è alcun segno di sollevazione di masse pronte ad affrontare i soldati per le strade, né sembra che riesca più a organizzarsi, sebbene non manchino i tentativi, una vera rete di cellule terroristiche in grado di effettuare attentati suicidi in Israele.
I singoli aggressori che cercano di colpire civili e soldati israeliani avranno pure alle spalle il sostegno di larga parte della piazza palestinese, sempre pronta a esaltare le loro imprese, ma è un dato di fatto che solo un limitato numero di palestinesi sembra disposto ad aggiungersi all'attuale ondata di terrorismo. Si discerne al contrario la volontà fra i palestinesi di evitare un'escalation delle violenze che in effetti sarebbe dannosissima per i palestinesi stessi....
(israele.net, 12 gennaio 2016)
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