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Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora
Avevamo promesso di tornare sull'argomento degli evangelici che sostengono Israele. L'articolo che segue vuol essere una riflessione che si propone di dire qualcosa sui fatti così come accadono, ma tenendo conto del piano di Dio così come si riesce a capire dalla Bibbia. I termini ebraismo e cristianesimo, che in nessun caso hanno valore teologico ma solo indicativo di realtà sociali, qui sono usati in modo approssimativo e tecnico al solo fine di inquadrare un tema ed esporre una tesi che vuol essere soltanto uno stimolo alla riflessione.
di Marcello Cicchese
L'ebraismo ruota intorno a un centro territoriale: Gerusalemme (Salmo 137:5). Al centro di questo centro si trova il Tempio, la casa dell'Eterno (Salmo 122:1).
Il Messia Gesù "è venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto" (Giovanni 1:11), ma prima di lasciare questa terra ha detto: "Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Io vi dico che non mi vedrete più, fino al giorno in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!" (Luca 13:35).
Dopo la sua risurrezione Gesù fu assunto in cielo, e subito dopo la sua ascesa si presentarono alla folla radunata due uomini in vesti bianche che rivolsero loro queste parole: "Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che vi è stato tolto, ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo" (Atti 1:11).
Quaranta giorni dopo scese sui discepoli lo Spirito Santo promesso da Gesù, e al popolo radunato l'apostolo Pietro rivolse queste parole: «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà» (Atti 1:38-39).
Tremila persone scesero nelle acque del battesimo in quell'occasione e altre se ne aggiunsero in seguito fino ad arrivare a cinquemila. Nacque a questo punto il primo nucleo di ciò che poi si chiamerà "chiesa", ma che allora poteva considerarsi soltanto come un movimento interno al popolo ebraico che annunciava di credere in Gesù come il Messia promesso a Israele. Chiameremo "gruppo messianico" questa particolare sottosocietà della nazione israelitica di quel tempo.
Le autorità ebraiche si opposero a questo movimento, e dopo aver respinto Gesù come Messia respinsero anche, con fatale coerenza, i discepoli che proclamavano la risurrezione del Messia Gesù.
Dopo qualche tempo, con sorpresa, i messianici s'accorsero che lo Spirito Santo promesso da Gesù cadeva anche all'esterno di Israele, perché molti gentili manifestarono di credere in Gesù come loro Signore e Salvatore e vollero essere battezzati. Il gruppo messianico dunque si allargò ai gentili, ma non per questo intendeva uscire dall'ambito del popolo ebraico. La conversione dei gentili non era intesa come un movimento di Israele verso l'esterno, ma, al contrario, come un'attrazione che l'esterno gentile provava verso Israele. I gentili che arrivavano a credere in Gesù manifestavano, con il loro stesso atto di fede, la volontà di porsi in relazione con Israele; ed era una relazione che in un primo tempo non poteva che essere di subordine, perché i credenti nel Messia d'Israele che provenivano dal paganesimo avevano bisogno di essere istruiti su tutto ciò che riguardava le Scritture e le tradizioni ebraiche. E gli istruttori non potevano che essere i messianici ebrei. Dunque "prima il giudeo e poi il greco", come dirà in seguito l'apostolo Paolo (Romani 1:17).
Israele perde il centro
La presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio furono un trauma tremendo per la nazione israelitica, e quindi anche per il gruppo messianico. I messianici però erano stati avvertiti da Gesù: "Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina" (Luca 21:20). Credettero a quella parola, e quando videro formarsi la prima cerchia dell'assedio, prima che fosse troppo tardi lasciarono la città e si rifugiarono nella città di Pella.
Con la caduta di Gerusalemme, la distruzione del Tempio e la successiva repressione della rivolta di Bar Kokhba nel 135 d.C., il popolo ebraico perse il suo centro, cioè la casa dell'Eterno in mezzo a Gerusalemme.
Di conseguenza, anche il gruppo messianico perse il suo centro territoriale, perché credere in Gesù come Messia d'Israele e ottenere il beneficio del perdono dei peccati e la promessa di vita eterna non li esimeva dal considerare Gerusalemme il centro del mondo, il luogo in cui Gesù era vissuto, morto, risuscitato e in cui avrebbe posato i suoi piedi al suo ritorno.
Ma quello che l'imperatore Adriano voleva, era proprio far perdere a Gerusalemme il posto di centro del popolo ebraico; quindi ne cambiò il nome in Aelia Capitolina e proibì agli ebrei di abitarvi.
Da quel momento la diaspora ebraica, cominciata con la caduta del primo Tempio ma mitigata fino ad allora dalla presenza di Gerusalemme come centro di riferimento storico-politico dell'ebraismo, diventò spazialmente di dimensioni mondiali e temporalmente di dimensioni che finirono per essere considerate eterne: Gerusalemme ebraica non esiste più, né mai più ci sarà. Resta solo come aspirazione ideale, come rimpianto eterno che favorisce il raccogliersi del popolo ebraico intorno al nuovo centro: la Torà. Non più storia, ma istruzione; non più politica, ma devozione. L'ebraismo perde il centro politico territoriale e va in diaspora a tempo indeterminato.
Il gruppo messianico, nato originariamente come sottosocietà di Israele apertasi in seguito all'ingresso dei gentili, entrò anche lui in diaspora, nel senso che perse il naturale collegamento che aveva avuto con Gerusalemme, centro originario della diffusione del Vangelo. Il suo distacco però fu meno traumatico, perché il suo centro adesso era in cielo, nel Messia Gesù che siede alla destra di Dio (Matteo 22:44). Lo Spirito Santo diffuso tra i discepoli e presente individualmente in tutti coloro che di vero cuore si erano ravveduti e avevano creduto in Gesù Messia, sosteneva questa fede.
La corruzione del cristianesimo era stata prevista
Com'è potuto accadere allora che quel piccolo gruppo messianico uscito dal costato del popolo ebraico abbia potuto trasformarsi nei secoli in un impero religioso-politico mondiale con centro in Roma? Alcuni spiegano la cosa parlando di corruzione del cristianesimo primitivo, aspirando romanticamente ad un "ritorno alle origini". Chi parla così però non tiene conto che nel Nuovo Testamento è già predetta la corruzione del cristianesimo storico, perché in esso sono presenti fin dall'inizio i semi del falso vangelo seminati dall'Avversario. Gesù l'aveva detto:
"Egli propose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi; ma, quand'è cresciuto, è maggiore dei legumi e diventa un albero; tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami»" (Matteo 13:31-32).
Questa parabola fa parte delle sette cosiddette "parabole del regno", che da molti sono interpretate in senso positivo, come preannuncio di un cristianesimo vincente che si espande e trionfa. E' vero il contrario: sono parabole che preannunciano uno sviluppo abnorme e corrotto prodotto dal seme della Parola di Dio in un terreno che l'ha ricevuto ma ne ha usato la potenza a fini di dominio. E' vero che il cristianesimo, come fenomeno storico-politico, col passare del tempo si estenderà nel mondo, perché la potenza redentrice del Vangelo non può essere arrestata, ma il suo successo politico spingerà gli uccelli del cielo della parabola (simboli demoniaci che nella parabola delle zizzanie portano via subito il seme del Vangelo dal cuore di chi lo riceve) ad annidarsi tra i rami dell'albero e a trarne sordidi vantaggi. Ed è quello che è successo.
Il cristianesimo corrotto si accentra
Dopo la distruzione del Tempio e la sparizione di Gerusalemme come centro della nazione ebraica, il gruppo che adesso possiamo chiamare "messianico-cristiano" per la sua costituzione etnicamente mista, avrebbe dovuto rimanere sempre in diaspora, come Israele e, nei limiti del possibile, insieme a Israele. La diaspora, che per gli ebrei è un giudizio, per i discepoli di Gesù è una vocazione: "E disse loro: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura" (Marco 16:15).
Ma questo non è avvenuto, e l'ex gruppo messianico trasformatosi in quell'istituzione politica chiamata "Chiesa", dopo aver raggiunto una sufficiente distanza non solo da Israele ma anche dall'originario messaggio di Gesù, sentì il bisogno di avere un centro politico territoriale che ne esprimesse il carattere imperiale, consono alla sua pretesa missione. Questo centro naturalmente non poteva essere Gerusalemme, troppo vicina alla storia degli ebrei e, soprattutto, troppo vicina al Gesù del Vangelo da cui aveva preso le distanze. Al momento opportuno si presentò l'occasione adatta: l'impero romano in dissoluzione. Così la Chiesa istituzionale, invece di disperdersi tra le genti assegnò a Roma il posto di centro della cristianità e di tutto il mondo.
La predicazione del Vangelo, che avrebbe dovuto continuare ad avvenire in diaspora, si alterò al punto da far pensare che il compito dei discepoli di Gesù fosse quello di lavorare alla costruzione e allo sviluppo del "centro", da cui avrebbe dovuto irradiarsi in tutto il mondo la civiltà cristiana ben organizzata in tutte le sue stratificazioni. E naturalmente al centro di questo centro avrebbe dovuto esserci "Uno" che rappresentasse nella sua persona il Sovrano temporaneamente assente. Lo chiameranno "Papa", e ce n'è ancora uno in circolazione.
Le parole del Vangelo portano frutto in diaspora
Tuttavia, nonostante le zizzanie seminate dall'Avversario nel campo del mondo affinché le piante cattive si mescolassero con quelle buone, il seme della parola del Vangelo ha continuato ad essere accolto dagli uomini, e dove ciò è davvero avvenuto non sono sorte imponenti basiliche, e duomi, e cattedrali, e monasteri, ma sono spuntati gruppi più o meno grandi di persone che si sono ritrovate insieme "nel nome di Gesù". In certi tempi e in certi luoghi questo potrebbe essere avvenuto anche all'ombra di qualche duomo, ma in ogni caso non era il duomo ad essere importante, ma le persone che si radunavano nel nome di Gesù. Perché Gesù l'aveva detto: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro" (Matteo 18:20). Come si vede, le cattedrali a questo scopo non servono.
Abbiamo cominciato col dire che l'ebraismo ha un centro territoriale: Gerusalemme. Adesso aggiungiamo che il cristianesimo autentico non ne ha. Non avrebbe mai dovuto esistere un centro cristiano territoriale, ad imitazione e in sostituzione del centro ebraico. I discepoli di Gesù sono chiamati a vivere in diaspora, come sono stati gli ebrei per tanti secoli, anche se in forma e posizione diverse. Storicamente è avvenuto che l'ebraismo ha perso il centro e il cristianesimo se ne è costruito uno. Il "cristianesimo accentrato" è espresso in forma esemplare dalla CCR (Chiesa Cattolica Romana), che ben rappresenta l'albero della parabola in cui si vengono a rifugiare farabutti di ogni tipo, come agevolmente si può vedere anche in questi giorni.
Quanto agli evangelici, certamente anche tra di loro si trova di tutto, nel bene e nel male, ma la loro posizione nel mondo è fondamentalmente diversa da quella cattolica. Le dottrine e i comportamenti possono essere diversi, ma non esiste né si ricerca un centro territoriale. E' un "cristianesimo diasporico" che ha un solo Centro: Gesù, che ora siede in cielo alla destra di Dio, è presente in mezzo ai suoi nella persona dello Spirito Santo, e un giorno tornerà sulla terra per completare la sua missione. E quando ciò avverrà, al centro del mondo ci sarà Israele, con capitale Gerusalemme, non lo Stato del Vaticano, con al centro la Basilica di San Pietro.
Il cristianesimo accentrato si disgrega; il cristianesimo diasporico si rinforza
Due cose sono indubbiamente nuove nel cristianesimo dei nostri tempi. La prima è che oggi il cristianesimo accentrato sta perdendo i pezzi, come mostra l'articolo di Giulio Meotti che qui sotto riportiamo ed è una specie di lamento funebre sulla caduta del cristianesimo trionfante di una volta: chiese che si svuotano, chiese che si chiudono, chiese che si affittano, chiese che si danno in comodato, chiese che si vendono agli islamici, e così via piangendo. Ma per questo non c'è da piangere: il cristianesimo accentrato e trionfante non ha futuro. Ed è bene che sia così.
La seconda è che oggi nel cristianesimo diasporico, che invece continua ad espandersi in forma non registrata dai media, si è destato in qualche sua parte uno "strano", imprevedibile amore per Israele. Si possono dare varie spiegazioni del fenomeno; molte sono maliziose, e mentre chi le fa pensa di rivelare basse ragioni in chi viene indicato, in realtà quello che si rivela è la bassezza di chi indica. Qui se ne propone una, che non ha la pretesa di essere "la" spiegazione, ma si offre alla riflessione di chi è interessato:
l'interesse e l'amore per Israele che spunta oggi nel cristianesimo diasporico è nostalgia e attrazione per quel centro territoriale che appartiene al popolo ebraico, nel passato è stato perso, ed ora si sta ricostituendo intorno al popolo e allo Stato di Israele.
Abbiamo già detto che per gli evangelici il centro è Gesù che siede alla destra del Padre, ma si sa anche che un giorno Gesù tornerà sulla terra e "i suoi piedi si poseranno sul monte degli Ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme, a oriente" (Zaccaria 14:4). Con la costituzione dello Stato ebraico è avvenuto il più grande miracolo degli ultimi due secoli. Un miracolo storico, diluito in decenni e tuttora in esecuzione: il popolo ebraico è tornato sulla sua terra, l'ha fatta rifiorire, la difende. E questo è potuto avvenire perché Colui che siede alla destra del Padre l'ha desiderato. Gesù aspetta il giorno in cui il suo popolo gli dirà: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore". E questo avverrà in Israele, a Gerusalemme. E se Gesù guarda con amore e desiderio a questo luogo e a questo popolo, i discepoli che lo seguono condividono con Lui il suo stesso amore e desiderio.
(Notizie su Israele, 21 settembre 2018)
Crollano le roccaforti. È il tramonto dell'Europa cattolica
Irlanda, Baviera, Francia, Austria, Spagna: quasi espugnate anche le ultime ridotte. Resiste solo la Polonia.
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Quando Ratzinger disse. "C'è una città europea dove i cristiani sono soltanto l'otto per cento della popolazione"
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"La fede è evaporata", ha detto Friedrich Wetter, subentrato a Ratzinger come arcivescovo di Monaco, dove c'è un solo candidato al sacerdozio
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di Giulio Meotti
Cinque anni fa, l'arcivescovo e primate d'Irlanda, Diarmuid Martin, pubblicò un articolo intitolato "Un'Irlanda post-cattolica?". Martin vi prefigurava uno scenario in cui "il cattolicesimo è stato spodestato". Si direbbe che quello scenario oggi si è quasi avverato, a giudicare dalla veduta aerea del Parco Phoenix di Dublino, dove Papa Francesco ha presenziato all'ultimo giorno della sua storica visita nel paese. E' lo stesso parco in cui un altro Papa, Giovanni Paolo II, si presentò quarant'anni fa. Un lasso di tempo molto breve. Per Wojtyla, arrivarono 1,2 milioni di persone. Dublino aveva le vie deserte. Un terzo di tutti gli irlandesi si era riversato sull'immenso parco della capitale. Per Papa Bergoglio, appena in 120 mila, di cui seimila operatori della pubblica sicurezza. E avevano venduto mezzo milione di biglietti. Meno di un terzo si è presentato. E' un decimo della presenza che ci fu nel 1979 per Giovanni Paolo II. Ed eravamo in Irlanda. Se lo stesso evento fosse stato organizzato in un altro paese europeo, avremmo visto forse un parco ancora più spoglio.
Vaste aree dell'Europa sono oggi già completamente risucchiate dalla secolarizzazione e sono in via
Dal 1995 a oggi, il numero di sacerdoti attivi in Irlanda è diminuito del 43 per cento. E tre su quattro avranno più di 60 anni nel 2030
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definitiva di scristianizzazione: Olanda, Belgio, Inghilterra, Svizzera, tutti i paesi scandinavi, Repubblica Ceca, per citarne soltanto alcuni. Nazioni praticamente già "perse" per il cattolicesimo e dove il fervore religioso è riservato a pochi anziani e all'islam. Ma un fenomeno forse più grave, e meno conosciuto, sta colpendo anche le famose ridotte del cattolicesimo.
L'Economist ha titolato "Il vuoto dentro. Il cattolicesimo si sta svuotando nelle sue tradizionali roccaforti europee". Lo sguardo che il Papa ha distolto dall'Europa, per rivolgerlo invece alle periferie, appare strategico. "Oggi la Repubblica democratica del Congo ha lo stesso numero di cattolici dell'Austria e della Germania messe insieme", ha scritto John Allen su Foreign Policy." E l'India ha più cattolici di Canada e Irlanda messi insieme". Come si misura il "vuoto" di cui parla l'Economist? Dal numero delle vocazioni, dalla frequenza alla messa, dall'accorpamento delle parrocchie e delle diocesi. E il trend appare molto chiaro ovunque nei paesi che erano sempre stati assegnati di default all'emisfero cattolico.
Nel 2001 l'allora cardinale Joseph Ratzinger parlò in termini spietati delle terribili implicazioni della contrazione della fede in Europa. E pose domande radicali sulla sostenibilità dell'identità dell'Europa: "Per incominciare: la chiesa si ridurrà numericamente?", disse Ratzinger a Peter Seewald. "Quando ho fatto questa affermazione, mi sono piovuti da tutte le parti rimproveri di pessimismo. E oggi tutti i divieti paiono caduti in disuso, tranne quello riguardante ciò che viene chiamato pessimismo e che spesso non è altro che sano realismo. Nel frattempo i più ammettono la diminuzione della percentuale di cristiani battezzati nell'Europa di oggi. In una città come Magdeburgo la percentuale dei cristiani è solo dell'otto per cento della popolazione complessiva, comprendendo - si badi bene - tutte le confessioni cristiane. I dati statistici mostrano tendenze inconfutabili". Sono trascorsi diciassette anni da quella intervista e i dati statistici da allora sono quasi ovunque crollati a picco.
Nel 2015, l'Irlanda è diventata il primo paese al mondo ad approvare il matrimonio omosessuale con un voto popolare. E in maggio l'Irlanda ha spazzato via tramite referendum anche un divieto di aborto fra i più restrittivi al mondo. "Illustra bene quanto rapida sia stata la secolarizzazione irlandese", ha detto la scorsa settimana al Washington Post Crawford Gribben, professore di Storia alla Queen's University di
In Lussemburgo, piccola enclave un tempo interamente cattolica nel cuore dell'Europa, le parrocchie scenderanno da 274 a 33
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Belfast. La frequenza in chiesa si è inaridita. "Si può vedere in una mattina di domenica nelle parrocchie di tutto il paese, dove sacerdoti anziani presiedono file polverosi di banchi e distribuiscono l'Eucaristia con mani tremanti a una fila di pensionati", ha commentato il Washington Post. "I segni del declino religioso sono ovunque. Il paese elogiato da un Papa nel 1961 come il più fecondo produttore di preti cattolici, oggi vede quei ranghi assottigliarsi rapidamente. Quest'anno, solo sei giovani sono entrati nel seminario nazionale presso il Collegio di St. Patrick a Maynooth a studiare per il sacerdozio". Secondo l'Irish Times, "è il numero più basso dalla sua fondazione nel 1795".
Si prevede che le presenze settimanali alla messa nell'arcidiocesi di Dublino scenderanno di un altro terzo nei prossimi quindici anni, mentre il numero di sacerdoti che servono nelle parrocchie diminuirà del sessanta per cento. "E questa è la proiezione più ottimistica", scrive l'Irish Times. Una relazione preparata per il Consiglio dei sacerdoti di Dublino da consulenti esterni osserva che i tre quarti dei sacerdoti avranno più di sessant'anni entro il 2030. Il rapporto ha rilevato anche che dal 2000 il tasso di matrimoni cattolici nell'arcidiocesi sta crollando a un tasso annuo del quattro per cento. A novembre, l'Associazione dei preti cattolici ha rivelato che dal 1995 il numero di preti cattolici attivi in Irlanda è diminuito del 43 per cento, da 3.550 a 2.019. In tutto, ora ci sono circa ottanta uomini che si preparano per diventare sacerdoti nel seminario nazionale. Solo nel 1990, quel numero era di 525. La diocesi di Clogher in Irlanda ha raggruppato 37 parrocchie in 14 "aree pastorali".
Come ha spiegato Jason Horowitz sul New York Times in un dettagliato resoconto pubblicato a maggio, i bastioni del cattolicesimo europeo stanno venendo giù uno a uno. "Nel Lussemburgo completamente cattolico il governo, guidato da un premier gay, ha abolito l'insegnamento religioso nelle scuole statali. Soltanto un cattolico su cinque va a messa in Spagna e molte delle 68 diocesi del paese non riportano
In quindici anni, il numero di seminaristi in Spagna è diminuito del 27 per cento. La metà delle parrocchie non ha un sacerdote fisso
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ammissioni al seminario. Nell'Italia tradizionalmente cattolica, fino al 40 per cento delle parrocchie cattoliche è gestito da clero di origine straniera". L'arcidiocesi cattolica del Lussemburgo riduce le sue 274 parrocchie a sole 33.
Il cattolicesimo spagnolo, che era uno dei più saldi in Europa, è ancora tramortito dalle guerre ideologiche degli anni di Zapatero e, da allora, è praticamente silente, menomato, incapace di risalire la china di una secolarizzazione travolgente. Non solo metà delle parrocchie spagnole sono ora prive di sacerdoti, ma anche l'età media dei chierici è salita a quasi 65 anni. Nel 2016 sono stati ordinati 138 sacerdoti nelle settanta diocesi in Spagna, rispetto ai 150 ordinati l'anno precedente. Ricardo Blàzquez, presidente della Conferenza episcopale, ha avvertito pochi mesi fa: "Se diversi decenni fa l'abbondanza di sacerdoti era straordinaria, attualmente è la scarsità a essere straordinaria".
Nella Castilla y Leon ci sono più di cinquecento villaggi in cui i parrocchiani non possono partecipare alla messa se non salgono in auto. Non è un problema nuovo: nel 2002 era già uscita la notizia che un villaggio di Leon, Cebrones del Rio, di quasi settecento abitanti, era stato lasciato senza la messa per la festa di Ognissanti. I dati sui seminaristi della Conferenza episcopale spagnola sono impietosi: nel 2002 in Spagna c'erano 1.736 seminaristi sparsi in tutto il paese, il crollo è stato continuo da allora e nel 2018 i seminaristi sono scesi a 1.263. In totale, negli ultimi quindici anni il numero di seminaristi è diminuito in Spagna del 27 per cento, sebbene il dissanguamento si sia stabilizzato dal 2009, quando è stato registrato il minimo storico. Negli ultimi anni, come le parrocchie, sono stati rinforzati con sacerdoti stranieri. Un totale di 109 sacerdoti è stato ordinato in Spagna nel 2017, il 21 per cento in meno rispetto al 2016. Uno studio finanziato dalla chiesa ha dimostrato che, delle 23.286 parrocchie in Spagna, non meno di 10.615 non avevano sacerdoti permanenti.
El Pais ha raccontato la storia di Teo Nieto, un sacerdote cattolico. "Essere un prete in Spagna non è più quello di una volta". Compie in auto una media di 138 chilometri al giorno per dire messa in tutte le parrocchie sotto la sua guida. Il sacerdote fa sei messe ogni fine settimana, due il sabato e quattro la
In Francia nel 2018 saranno ordinati 114 sacerdoti: nel 2017 erano stati 133. 58 diocesi non avranno neanche un'ordinazione
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domenica, insieme ad altre sei durante la settimana, per un totale di 624 messe all'anno. "Il suo destino è tutt'altro che insolito nella Spagna centrale: a Salamanca, Cuenca, Segovia e Burgos, i parroci coprono molta strada. Un altro fattore è che la Spagna sta diventando più laica. Nel 2000, sette matrimoni su dieci sono stati celebrati in chiesa, mentre nel 2015 il numero è sceso a tre su dieci. Dei bambini nati nel 2013, è stato battezzato il 21 per cento in meno rispetto al 2005, secondo la chiesa cattolica".
Il sud dell'Olanda, ultima ridotta del cattolicesimo in quel paese consegnatosi all'ateismo, è quasi perso. Ma già la visita in Olanda nel 1985 di Giovanni Paolo II aveva mostrato tutto questo. Le strade di Utrecht,
capitale dei cattolici olandesi, erano vuote quando il pontefice passò in auto. E a Den Bosch, durante la processione, arrivarono appena ottomila persone. Il presidente della Conferenza episcopale olandese, il cardinale Willem Eijk, ha introdotto piani per fondere le parrocchie dell'arcidiocesi di Utrecht da 326 a 48.
Persino la regione che ospita il santuario mariano più noto al mondo, Lourdes, è quasi ormai interamente scristianizzata. Avignone, la città dei Papi, è oggi nota come "la città dei salafiti", una delle città francesi a maggior tasso di islamizzazione. Della Francia "figlia prediletta della chiesa cattolica" resta soltanto un flebile ricordo. La rivista Esprit di recente ha spiegato che ci sarà "una chiesa ultra-minoritaria in una società scristianizzata". Nella diocesi di Evreux, il cristianesimo ha fatto parte del tessuto della vita per quindici secoli. Dei suoi 600 mila abitanti, circa 400 mila potrebbero definirsi, almeno in modo approssimativo, "cattolici". Ma ha solo sette preti con meno di quarant'anni.
A ben guardare, il cattolicesimo francese si sta frammentando dal momento che il centro regge a malapena. La Francia sta assistendo a un numero sempre più basso di ordinazioni sacerdotali. Secondo le cifre appena pubblicate da La Croix, "nel 2018 verranno ordinati 114 nuovi sacerdoti. Si tratta di un calo significativo rispetto al 2017, quando furono ordinati 133 sacerdoti. Il declino è abbastanza netto a Parigi, con sei ordinazioni, quando ne aveva avute dieci un anno fa e undici nel 2016. Ci sono anche 58 diocesi che quest'anno non avranno un'unica ordinazione".
La Croix spiega anche che le diocesi francesi perderanno in media un quarto dei preti attivi entro il 2024. A Nantes, i sacerdoti diminuiranno della metà, da 148 a 75, e a La Rochelle passeranno da 104 a 45. Nel
L'Austria passerà da 660 a 150 parrocchie. "E' inutile nascondere la testa sotto la sabbia", dicono dall'arcidiocesi di Vienna
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2016, c'erano poco meno di sedicimila sacerdoti in Francia. Ogni anno sono circa ottocento le morti naturali nel clero. Data la tendenza demografica inevitabile, la Francia avrà seimila sacerdoti fra dieci anni. "Al ritmo attuale, tra dieci anni non ci saranno più di 80 preti diocesani contro i 180 attuali", ha detto il
vicario generale della diocesi di Tolosa, Hervé Gaignard,
Stessa situazione in Austria, dove le chiese sono ovunque (ce ne sono 42 soltanto a Salisburgo). Ma solo nella diocesi di Vienna ormai ben un quarto dei fedeli cattolici sono immigrati. "Tutti si rendono conto che non puoi semplicemente nascondere la testa nella sabbia" ha detto a Ncr Michael Pruller, portavoce della grande arcidiocesi di Vienna nell'annunciare la "grande riorganizzazione", ovvero la riduzione delle attuali 660 parrocchie dell'arcidiocesi di Vienna a 150. Appena ventidue è il numero dei nuovi sacerdoti in Austria, e di questi soltanto otto sono austriaci, quattro tedeschi, quattro nigeriani, tre polacchi, un americano, un cileno e un vietnamita. In una conversazione pasquale con la stampa, il cardinale Christoph Schònborn ha insistito sul fatto che "la chiesa del popolo non è morta". Ma uno studio molto citato dall'Istituto di Vienna per la demografia (per conto dell'Accademia delle scienze), spiega che il cattolicesimo è chiaramente in declino e nel breve futuro il numero di cattolici scenderà al di sotto del cinquanta percento. Già nel suo libro del 1990 "Before Infallibility: Liberal Catholicism in Biedermeier Vienna", Adam Bunnell descriveva così Vienna: "In nessun luogo la presenza del passato è più visibile che nelle chiese viennesi vuote ma comunque ben tenute che si incontrano in ogni angolo. Se le chiese sono ora vuote tranne che per qualche occasione, se il potere della chiesa non è che l'ombra di quello che era una volta, il cattolicesimo rimane parte integrante della coscienza di questo luogo. I viennesi pagheranno l'imposta alla chiesa anno dopo anno, non per visitare le chiese tranne che a Natale o a Pasqua - per il battesimo, il matrimonio o la sepoltura - ma per preservare la tradizione, per conservare il passato, per poter mostrare ai bambini ancora lo splendore e la bellezza in pompa magna". Dietro la stupefacente facciata barocca, il cattolicesimo austriaco è tuttavia eroso da una
A Utrecht, "capitale" dei cattolici nell'Olanda scristianizzata, un piano per fondere le parrocchie: passeranno da 326 a 48
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crisi senza precedenti.
In tutta la Germania il numero di preti è diminuito di oltre un quarto negli ultimi vent'anni. Nelle
27 diocesi del paese, 76 giovani sono stati ordinati preti diocesani nel 2017, come rivela un'indagine dell'agenzia di stampa cattolica (Kna). Nel 2016 le ordinazioni erano state 82. Nel 1995 ben 186 sacerdoti erano stati consacrati in Germania. Per la prima volta in cento anni, non c'è stata una sola ordinazione nella diocesi di Osnabruck.
Una delle diocesi cattoliche più antiche della Germania, Treviri, passerà da 172 a 35 parrocchie, con una riduzione dell'ottanta per cento come da annuncio a maggio della portavoce, Judith Rupp, Già nel 2007, il settimanale Der Spiegel scriveva che "la chiesa cattolica in Germania sta esaurendo le vocazioni". Dieci anni dopo, le vocazioni anche nella cattolicissima Baviera sono praticamente finite. Ma non solo. Katholisch.de, il sito ufficiale della chiesa tedesca, ha rivelato che anche la diocesi di Magonza, quella di origine del cardinale conservatore Gerhard Muller, nell'ultimo anno non ha ordinato nessun sacerdote. Secondo le cifre pubblicate dalla Conferenza episcopale tedesca, mai prima d'ora sono stati ordinati così pochi sacerdoti in Germania. Nel 2015 un totale di 58 uomini sono diventati sacerdoti nel paese. Nell'ultimo decennio, il numero delle ordinazioni si è dimezzato: nel 2005 sono stati ordinati 122 sacerdoti diocesani. Nel 1965, il numero era di cinquecento. La diocesi di Hildesheim nel nord della Germania ha di recente "importato" dodici sacerdoti dall'India per far loro imparare il tedesco e dire messa. Hildesheim, una delle 27 diocesi cattoliche in Germania, ha attualmente 265 sacerdoti, ma ne ha ordinati solo 33 nell'ultimo decennio e solo uno quest'anno.
"La fede è evaporata", ha detto un malinconico cardinale Friedrich Wetter, subentrato a Ratzinger come arcivescovo di Monaco dal 1982 al 2007. L'arcidiocesi di Monaco ha attirato l'anno scorso un solo candidato
ln Baviera ha chiuso l'ultimo convento delle Brigidine. Erano rimaste soltanto due suore, di cui una in un ospizio
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al sacerdozio. Lo ha rivelato lo stesso presidente della Conferenza episcopale tedesca, cardinale Reinhard Marx, che ha parlato in una riunione diocesana e ha rivelato il fatto straordinario. In tutta l'arcidiocesi di Monaco di Baviera, terra di origine di Papa Benedetto XVI, oggi ci sono appena 37 seminaristi nei vari stadi di formazione a fronte di circa 1,7 milioni di cattolici. In confronto, la diocesi americana di Lincoln, in Nebraska, ha attualmente 49 seminaristi per circa 96 mila cattolici.
Quando Ratzinger divenne Papa, alla messa di celebrazione nella sua cittadina natale di Traunstein non c'erano più di 75 persone nella chiesa che poteva contenerne mille. Nel 2011 anche la Baviera si svegliò scoprendo che i cattolici per la prima volta erano diventati minoranza anche in quel Land bastione della chiesa romana. Il dato emerse dal bilancio della curia di Monaco e Frisinga: i fedeli erano scesi a 1,77 milioni, il 49 per cento dei residenti. Nel 1987 (l'anno dell'ultimo censimento nell'allora Germania Ovest) il 67,2 per cento dei bavaresi ancora si dichiarava cattolico. E un anno fa, le autorità della chiesa cattolica bavarese hanno chiuso l'ultima abbazia delle monache Brigidine della Germania. Dal 1496, l'ex abbazia benedettina di Altomunster ospitava un ordine religioso femminile. Il Vaticano nel 2015 ne aveva però ordinato la chiusura dopo che il numero delle suore era sceso a due. di cui una era finita in una casa di riposo.
In Europa "resiste" per adesso soltanto la Polonia, dove il quaranta per cento della popolazione va ancora a messa (nel resto dei paesi cattolici questa cifra si aggira dal cinque al dieci per cento). I polacchi sono
Resta soltanto la Polonia, che esporta preti in tutto il mondo e dove il quaranta per cento della popolazione va ancora a messa
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praticamente tutti battezzati, ed esportano ancora sacerdoti nel resto del Vecchio continente. La Bbc ha riferito che "un quarto di tutti i seminaristi in Europa è polacco". Nel 2017, la Polonia ha ordinato 323 nuovi sacerdoti, il triplo della Spagna, un altro paese cattolico ma con dieci milioni in più di abitanti. Ha scritto Stephen Bullivant, direttore del Centro Benedetto XVI presso l'Università St Mary di Twickenham che di recente ha curato il più approfondito studio sulla scomparsa dei cattolici in Europa: "La probabilità che un cattolico polacco sulla ventina vada a messa una volta a settimana è 24 volte più grande di quella di un belga. Al contrario, è dieci volte più probabile che un cattolico belga non metta mai piede in una chiesa rispetto a un polacco". Al di là del giudizio sul merito della manifestazione ai confini polacchi contro "l'islamizzazione dell'Europa" che si è tenuta un anno fa, quel milione di fedeli era qualcosa di mai visto altrove in Europa.
In Irlanda il fenomeno era già noto nel 2004, quando la diocesi di Dublino, la più grande del paese, non aveva pianificato ordinazioni per l'anno successivo. Nel 1970, 750 persone avevano cercato di diventare sacerdoti. Nel 2003, il numero era già sceso a 39. Tutti i seminari in Irlanda tranne uno hanno chiuso. Per la prima volta nella storia non c'erano abbastanza sacerdoti in Irlanda - un paese forgiato nel cattolicesimo - per tutte le sue chiese. Banogue, una piccola parrocchia di Limerick, fu tra le prime a perdere il suo sacerdote a tempo pieno, un fatto che scioccò e lanciò un segnale di avvertimento a tutto il paese e alla chiesa. David Blake, un cattolico di Limerick, disse all'inviato del New York Times che era andato a cercare di capire quella crisi: "E' un po' come se stessimo sistemando le sedie a sdraio sul Titanic e non ci rendessimo conto che la nave sta affondando".
(Il Foglio, 1 settembre 2018)
«Leggi razziali, furono un tradimento». L'Università chiede scusa agli ebrei
Pisa, ieri la cerimonia del ricordo.
Firma a San Rossore
Il 5 settembre 1938, nella tenuta di San Rossore a Pisa, il re Vittorio Emanuele III firmò il provvedimento in difesa della razza, «Regio decreto 1381, nei confronti degli ebrei stranieri».
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Ottomila vittime
Nel giro di qualche anno le nuove norme portarono alla deportazione e allo sterminio di quasi 8.000 ebrei (oltre circa 2.000 deportati dai possedimenti), dei quali solo 826 riuscirono a sopravvivere.
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I docenti espulsi
Le università italiane furono coinvolte e, spesso, complici di questo processo. Solo nell'Ateneo di Pisa furono espulsi 20 docenti e quasi 300 studenti e fu impedita l'iscrizione di studenti ebrei.
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di Gabriele Masiero
PISA - E' l'abbraccio tra il rettore dell'università di Pisa, Paolo Mancarella, e Di Segni, presidente dell'Ucei, l'unione delle comunità ebraiche italiane, il momento più significativo della Cerimonia del ricordo e delle scuse, promosso dall'ateneo pisano per risarcire in qualche modo gli ebrei a 80 anni dall'entrata in vigore delle leggi razziali.
Un abbraccio caloroso e sincero per chiedere scusa a nome di tutto il mondo accademico italiano ma che non sana una ferita ancora aperta. Lo si capisce dalle parole pronunciate poco prima proprio da Di Segni: «Ottant'anni sono la durata di tre generazioni. Un'eternità. Tanto abbiamo atteso per ascoltare queste parole nel nostro Paese. E' importante oggi tradurre la vostra solenne dichiarazione in fatti, saper trasmettere una ferma convinzione a chi tentenna, a chi desidera essere parte dell'accademia italiana. La nostra generazione ha ricevuto da chi ha vissuto l'esclusione un messaggio e una missiva che non ha carattere di rivendicazione o restituzione di odio ma di vigilanza e rispetto della libertà e del riconoscimento dell'altro e di partecipazione alla ricostruzione e allo sviluppo culturale e accademico dell'Italia e dell'Europa».
Mancarella definisce «storica la giornata» di ieri e promette: «Dobbiamo avere la forza di non obbedire mai, di non obnubilare mai la mente per cedere a nuove inique ragioni, di Stato, di corporazione, di carriera, di quieto vivere, di indulgenza reciproca. La moralità degli studenti e dei docenti che allora subirono l'ingiustizia ci guidi nel ricordo, nella riparazione, nella ricostruzione delle virtù civiche oggi necessarie alla resistenza contro tutte le discriminazioni, anche quelle del nostro tempo perché intravedo nubi preoccupanti in Italia e in Europa, ma direi in tutto il mondo. Noi non dobbiamo obbedire mai più a ciechi intendimenti che calpestino la ragione e annullino la dignità dell'uomo».
Mette in guardia dai pericoli di oggi anche il presidente della Crui, Gaetano Manfredi: «Le leggi razziali sono state una profonda ferita per il mondo accademico italiano perché tradirono la missione autentica delle università che è quella di tutelare tutte le culture. Oggi dobbiamo chiedere scusa trasformando questa assunzione di responsabilità in un impegno concreto e quotidiano per impedire che certi pericoli, ancora presenti nella società contemporanea, possano tornare. L'Università esiste da mille anni proprio perché ha saputo sempre essere il luogo dello scambio culturale e del rispetto, prima ancora della nascita delle nazioni. E deve continuare a essere quel luogo assicurando protezione a tutte le culture, le diverse religioni e le diverse opinioni. Solo così potrà incarnare la propria missione più autentica dal punto di vista didattico e della ricerca scientifica senza tradirla di nuovo come avvenne nel 1938».
(La Nazione, 21 settembre 2018)
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Scusarsi è facile, dobbiamo impedire che capiti ancora»
A Pisa i rettori chiedono perdono per le leggi razziali. Di Segni (Ucei): abbiamo atteso troppo questo giorno. Mancarella: Qui molti anni fa sono avvenute cose che non sarebbero mai dovute accadere. Ci sono vite che, a partire da questo luogo, sono state sospese, stravolte, distrutte.
di Mauro Bonciani
PISA - Ottanta anni dopo. Nel «doloroso ricordo di una delle pagine più tristi e vergognose della nostra storia» - come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio ha definito la firma delle leggi razziali a San Rossore nel settembre del 1938 - da Pisa arriva un messaggio forte e inedito. Di risarcimento per le responsabilità delle Università e del mondo accademico italiano, unito all'impegno a rivolgersi ai giovani con un linguaggio contemporaneo che parli loro di discriminazioni, razzismo, vera scienza. Anche il ministero dell'Istruzione, in una nota del ministro Marco Bussetti «chiede perdono per una pagina terribile».
La «cerimonia del ricordo e delle scuse», tenutasi alla Sapienza alla presenza di tutti i rettori degli Atenei italiani e di esponenti della comunità ebraiche italiane e voluta dall'Università di Pisa, è stata contrassegnata da momenti di assoluto silenzio quando il rettore ha elencato i depurati e i deportati, dagli applausi ai passaggi più significativi dei discorsi ufficiali del rettore Paolo Mancarella e di Noemi Di Segni, presidentessa delle Comunità ebraiche italiane. Una giornata «che rimarrà nel cuore di tutti gli ebrei italiani e non solo, per sempre», come ha detto la senatrice a vita Liliana Segre nel suo videomessaggio.
«Qui molti anni fa sono avvenute cose che non sarebbero mai dovute accadere. Ci sono vite che, a partire da questo luogo, sono state sospese, stravolte, distrutte», ha esordito Paolo Mancarella nel discorso in cui ha sottolineato più volte il concetto di obbedienza dietro cui tantissimi si sono riparati per restare inerti. «L'incontro di oggi vuole essere di risarcimento morale e civile da parte dell'istituzione che si rese corresponsabile: l'università obbedì alle leggi razziali - ha scandito - La parola scuse che abbiamo dovuto usare solo per far comprendere la nostra intenzione è eloquente, ma al contempo inappropriata e inadeguata. Noi oggi sentiamo il dovere di dire parole nette pur senza averne il diritto. Troppo facile quindi chiedere scusa, ma dobbiamo avere la forza di non cedere a nuove inique ragioni di Stato, di carriera, di quieto vivere». «Cosa farei oggi io?» ha domandato alla coscienza di tutti il rettore, facendo proprie le parole della lettera del professor Naftoli Emdin (il testo nel box qui accanto) chiudendo con una citazione di don Lorenzo Milani: «L'obbedienza non è più una virtù. Ecco non dobbiamo obbedire mai più a ciechi intendimenti che calpestino la ragione e annullino la dignità dell'uomo». Noemi Di Segni ha esortato alla vigilanza contro ogni razzismo, ribadito che «l'Altro siamo Noi», ricordato le colpe degli scienziati nel nefasto Manifesto della Razza, e ha sottolineato: «Ottanta anni sono per i demografi la durata di una intera vita e di tre generazioni. Per tutti noi sono un'eternità. Tanto abbiamo atteso per ascoltare queste parole nel nostro Paese».
Alla cerimonia (con la vice sindaco di Pisa Raffaella Bonsangue arrivata in forte ritardo) è seguito l'inizio del convegno storico su antisemitismo e Shoah. Nel cortile della Sapienza gli ebrei pisani sono rimasti a lungo ad abbracciarsi. «Lei è Flora Cava, io Lia Gallichi, della famiglia Gallichi sterminata quasi completamente nel 1944 nell'eccidio ad opera dei nazisti in casa Pardo, il presidente della comunità pisana; ci chiamiamo scherzando le ragazze del 1938 - dice Lia - E stato bello, abbiamo riannodato fili e storie. Questa cerimonia è arrivata tardissimo, abbiamo aspettato tanto ... ».
(Corriere fiorentino, 21 settembre 2018)
"Zachor, l'impegno del ricordo per salvaguardare il futuro"
di Daniel Reichel
Ottant'anni fa Trieste fu il simbolo del tradimento e dell'infamia: dal balcone di Piazza Unità il 18 settembre 1938 Mussolini annunciò le Leggi razziste. Con un colpo di spugna e davanti a una folla di migliaia di persone che applaudivano, il fascismo decise di cancellare i diritti civili conquistati dagli ebrei italiani dopo secoli di sofferenza. "Tutto il mondo dovrebbe chiedere scusa agli ebrei, io non sono il mondo ma il sindaco di Trieste e a nome della città chiedo scusa", ha dichiarato il primo cittadino Roberto Dipiazza nelle scorse ore in occasione dell'iniziativa organizzata con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e la Comunità ebraica triestina per ricordare il 18 settembre 1938. Ed è proprio il principio del ricordo che è al centro della targa svelata in questo 80esimo anniversario: "Zachor. Ricorda quello che ti fece Amalek quando eri in cammino
. (Deut. XXV, 17). Il 18 settembre 1938 in questa piazza l'offesa del regime fascista ai diritti civili raggiungeva il suo culmine con l'annuncio dei provvedimenti in difesa della cosiddetta razza italiana. A ottant'anni dall'evento il Comune di Trieste, la Comunità Ebraica di Trieste e l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane pongono questa epigrafe affinché le nuove generazioni ricordino e vigilino sulla salvaguardia dei diritti fondamentali di libertà e solidarietà civile", il testo della targa letto da due bambini della scuola ebraica, monito anche per il presente, come ha ricordato la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni. "In questa sede, in questa Piazza e in questa particolare giornata, dobbiamo con fermezza denunciare le parole di odio, le violenze verbali e fisiche rivolte contro individui o collettività che ogni giorno di più sentiamo pronunciate e difese anche nello spazio pubblico. - le parole della Presidente UCEI - Cerimonie e raggruppamenti nostalgici di matrice neo fascista con assenza, avallo o sottovalutazione dell'impatto che queste hanno su chi è fragile o impreparato, da parte della classe politica. Segnali inquietanti e preoccupanti che generano incertezza e che temiamo dover inevitabilmente accostare a quella esclusione, allora elusa e sottovalutata. Questo oggi accade e nessuno può restare inerte". Un appello alle istituzioni e ai cittadini a rimanere vigili, quello di Di Segni, che ha sottolineato come allora, nella Piazza Unità del 1938 il pericolo non erano solo le parole di Mussolini ma anche l'applauso convinto delle migliaia di persone presenti. "La speranza è che da questa piazza, nuovamente affollata, - ha detto Di Segni - possa riverberare un messaggio esattamente opposto a quello di 80 anni fa - un messaggio pronunciato dai massimi esponenti delle istituzioni - per la tutela dei diritti e non quello per la tutela della razza, che riscuota applausi e adesioni perché corrisponde alla ragionevolezza e desiderio di convivenza sociale". "Il testo riportato sulla targa inizia con il termine Zachor che in ebraico significa ricorda - ha sottolineato il presidente della Comunità ebraica Salonichio -. Perpetuare la memoria di ciò che avvenne è una responsabilità ed un valore che tutti noi dobbiamo salvaguardare. La targa verrà collocata, speriamo in tempi rapidi, in un luogo ben visibile presso il porticato del Municipio. Ci auguriamo che i passanti che la incroceranno sul loro cammino siano indotti, almeno per quell'attimo, a leggerla e a riflettere su ciò che accadde in quel lontano 18 settembre 1938".
(moked, 21 settembre 2018)
Israele: la Russia si assuma le proprie responsabilità sulla Siria
Una delegazione israeliana guidata dal comandante delle IAF è volata a Mosca per spiegare ai russi cosa è veramente successo al loro aereo abbattuto dai siriani. E mentre si fa strada l'ipotesi che l'incidente sia stato studiato a tavolino proprio per incolpare Israele, Gerusalemme chiede che la Russia si assuma le proprie responsabilità su quanto avviene in Siria.
L'incidente di pochi giorni fa nel quale la contraerea siriana ha abbattuto un aereo russo ha innalzato la tensione tra Russia e Israele. Anche se sembra chiarito che nel momento in cui l'aereo è stato abbattuto i caccia israeliani reduci da un raid su Latakia fossero già rientrati in Israele e che Siria e Iran abbiano cercato di approfittare della situazione indicando il raid israeliano come causa principale dell'incidente, ieri sera il viceministro degli esteri russo, Sergey Vershinin, ha minacciosamente affermato che «da oggi la Russia prenderà le misure necessarie per eliminare qualsiasi minaccia alla vita dei militari russi in Siria» con un velato (ma non tanto) riferimento a possibili futuri raid israeliani in territorio siriano....
(Rights Reporters, 21 settembre 2018)
Aereo abbattuto. Vertice a Mosca con gli israeliani
"Colpa solo siriana"
di Giordano Stabile
La Russia chiude lo spazio aereo nel Nord della Siria e Israele invia una delegazione a Mosca per chiarire la dinamica dell'abbattimento dell'Ilyushin Il-20 ed evitare che la crisi blocchi la sua libertà di manovra sui cieli siriani. Ieri il comandante dell'aviazione Amikam Norkin è arrivato nella capitale russa assieme a ufficiali dell'intelligence. I militari israeliani hanno spiegato che la responsabilità dell'incidente è della contraerea siriana e che non sono state le manovre dei loro F-16 a mettere in pericolo il velivolo russo. In effetti è emerso che la batteria di S-200 che ha lanciato il missile non aveva il dispositivo che permette di distinguere gli aerei nemici da quelli amici. È intervenuto anche il presidente siriano Bashar al-Assad, per dare la colpa a Israele, ma intanto il battaglione che gestiva la batteria è finito sotto inchiesta.
Ora l'obiettivo di Mosca è evitare che si ripeta l'incidente. Israele ha offerto un più stretto coordinamento, anche se il premier Benjamin Netanyahu ha ribadito che i raid anti-iraniani continueranno. L'esercito israeliano ha pubblicato le foto satellitari del raid su Lattakia, con i depositi di armi destinate a Hezbollah, distrutti. I russi hanno chiuso lo spazio aereo e marittimo fra Siria e Cipro di fatto istituendo una no fly-zone per i jet israeliani. Le tensioni sono destinate a rimanere. Israele ha allargato il suo raggio d'azione al Nord dopo che Mosca non ha mantenuto la promessa di far ritirare le milizie sciite e Pasdaran a 100 chilometri dal Golan. E il raid di lunedì notte ha preso di mira per la prima volta Lattakia, a soli 30 km dalla base aerea russa di Hmeimim.
(La Stampa, 21 settembre 2018)
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Oggi a Mosca il capo di Stato maggiore dell'aeronautica di Israele
Dopo labbattimento dellaereo russo da parte della contraerea siriana
GERUSALEMME - Il capo di Stato maggiore dell'Aeronautica israeliana guida oggi a una delegazione a Mosca per chiarire le circostanze nelle quali un aereo russo è stato accidentalmente abbattuto dalla contraerea siriana durante un raid israeliano. Lunedì sera la contraerea di Damasco ha colpito per errore un Iliushin-20 sopra il Mediterraneo, uccidendo le 15 persone a bordo. Nello stesso momento missili israeliani colpivano depositi di armi nella provincia di Latakia, nel nord est della Siria.
Le forze armate israeliane hanno scelto la via della trasparenza. Il generale Amikam Norkin presenterà "il rapporto sulla situazione di quella sera
relativo a tutti i suoi aspetti" ha scritto Tsahal in un comunicato. La Russia ha inizialmente accusato i piloti israeliani di aver usato l'aereo russo come schermo per sfuggire ai lanci siriani. Ma Israele ha replicato che l'aereo russo era lontano dai luoghi attaccati dai jet dello stato ebraico, inoltre l'Iliushin è stato abbattuto quando i caccia di Israele erano già rientrati nel loro spazio aereo.
In una conversazione telefonica martedì il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso "tristezza" per l'accaduto al presidente russo Vladimir Putin e gli ha offerto aiuto per l'indagine. Con toni più concilianti, Putin ha poi parlato di una "catena di circostanze accidentali tragiche", esortando Israele "a non permettere che questo genere di circostanze vengano replicate" ha detto il Cremlino.
Ma il presidente siriano Bashar al-Assad, alleato di Mosca, ieri ha usato parole pesanti. "Questo disgraziato incidente è il risultato dell'arroganza e della depravazione israeliana" ha scritto in una lettera di condoglianze a Putin.
(askanews, 20 settembre 2018)
Trasformare missili in opere d'arte: la storia di Yaron Bob
di Nathan Greppi
Dodici anni fa la sua casa venne colpita da uno dei razzi di Hamas; in seguito a ciò, lo scultore israeliano Yaron Bob, che vive nel piccolo villaggio di Yated vicino al confine con Gaza, decise di riutilizzare i resti dei missili caduti nella zona per creare opere d'arte dalle forme più svariate: fiori, menorot e simboli di pace.
"Ho guardato quel razzo, e il razzo ha guardato me, come se mi stesse sfidando, e mi ha fatto così imbestialire che mi sono detto 'devo cancellargli il sorriso dalla faccia, smettila di avere paura,' e così ne ho ritagliato degli anelli," ha dichiarato Bob in un'intervista a Ynet.
Per Bob scolpire non è solo un semplice passatempo, ma lo aiuta anche a gestire il disturbo da deficit di attenzione di cui soffre. Per questo in passato gestiva anche dei workshop di scultura per aiutare i giovani studenti che soffrivano del suo stesso disturbo. Un giorno, durante una di queste lezioni, la sirena si mise a suonare, e un razzo atterrò a soli 10 metri da lui, devastando il suo capannone, ma causandogli anche un trauma psicologico, di cui soffre ancor oggi.
Dopo l'esplosione, Bob tornò nel suo luogo di lavoro per mettersi a pulire, e fu allora che decise di trasformare in arte uno strumento di distruzione. Ritagliò il razzo e con i pezzi creò diverse sculture a forma di fiore, che regalò alle famiglie colpite e al sindaco della città di Sderot, che lo spinsero a continuare questo lavoro. Molti dei razzi che ha utilizzato gli sono stati concessi dalla polizia dopo che questa ha verificato che non rimanessero tracce di esplosivo.
Ad oggi, i fiori da lui creati sono stati mostrati al defunto presidente Shimon Peres, all'ex-segretario ONU Ban Ki-Moon, e ai politici Hillary Clinton e Tony Blair. "Erano emozionati e stupiti per il gesto," ha affermato Bob. Inoltre, in passato ha donato una scultura a forma di Menorah alla sinagoga di Montreal. Quando li vende, una parte del ricavato lo usa per finanziare la costruzione di camere blindate dove rifugiarsi quando ci sono allarmi.
Ma esiste un tipo di razzi che Bob non intende riciclare per le sue opere: quelli che hanno causato danni fisici alle persone, poiché secondo lui delle sculture create con quei razzi portano con sé un'energia negativa: "I fiori che scolpisco non appassiscono, come il desiderio di pace del popolo d'Israele," ha concluso.
(Bet Magazine Mosaico, 20 settembre 2018)
Gii ebrei divorziano da Corbyn
La comunità ebraica londinese attacca a muso duro il leader del partito laburista. E' accusato di sostenere l'ondata di antisemitismo.
di Andrea Brenta
Una nuvola nera aleggia da mesi sul Partito Laburista britannico, addensandosi particolarmente sulle sezioni londinesi di Finchley e Golders Gree. Ovvero, la circoscrizione con l'elettorato ebraico più importante del Regno Unito.
All'origine di questa tempesta estiva ci sono le accuse di compiacenza nei confronti dell'antisemitismo rivolte al leader dei Labour, Jeremy Corbyn. Alle elezioni municipali di maggio, il partito ha perso cinque seggi. Una sconfitta che brucia nella circoscrizione di Barnet. Come spiega a Le Monde Barry Rawlings, responsabile locale del partito, il quartiere «ha pagato il prezzo per il comportamento del Labour sull'antisemitismo». In un clima avvelenato, i conservatori sono riusciti a mobilitare l'elettorato ebraico, paventando i rischi del «Labour di Corbyn», «In quei giorni sui social media 250 membri del partito (su 540 mila) associavano gli ebrei o Israele a un'espressione o a immagini antisemite», racconta Gez Sagar, pilastro dei Labour a Barnet. «La direzione del partito avrebbe dovuto reagire immediatamente. Non l'ha fatto e i media e poi i Tory ne hanno approfittato».
Già lo scorso anno la denuncia rivolta alle autorità nazionali del partito nei confronti di tweet manifestamente antisemiti di un'attivista locale del partito era rimasta lettera morta. La donna è stata sospesa solo dopo che il suo comportamento è stato reso pubblico dalla stampa. Ma la risposta degli elettori è stata terribile. «Nelle mie visite porta a porta mi sono ritrovata spesso davanti a persone in lacrime che balbettavano: "Ho votato Labour per tutta la vita. Questa volta, mi spiace, non posso più"», racconta Sara Conway, consigliere municipale di Burnt Oak, una zona di Barnet. Qui, su una sezione di circa 2 mila iscritti, si contano in media cinque defezioni a settimana.
Le accuse rivolte a Corbyn sono quelle di non aver avviato il dialogo con la comunità ebraica. L'impasse in Medio Oriente e i social media hanno esacerbato la questione e fatto il resto. A luglio la deputata laburista Margaret Hodge ha dichiarato che Corbyn «ha scelto di trasformare il Labour in uno spazio ostile agli ebrei». In agosto l'ex rabbino Jonathan Sacks ha paragonato il leader all'ex deputato britannico di estrema destra razzista Enoch Powell. Mentre nientemeno che il premier israeliano Benyamin Nétanyahou in un tweet ha espresso la propria «condanna senza equivoci» di Corbyn, accusandolo di aver reso omaggio ai militanti del commando di Settembre nero. responsabili della morte degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972.
Lo stupore dei militanti laburisti deriva dall'incapacità del loro leader di frenare le polemiche, come se in ogni occasione Corbyn mettesse il dito nella piaga anziché fasciare la ferita. Soltanto in agosto il leader laburista ha ammesso che il suo partito ha un «reale problema» con l'antisemitismo e ha assicurato che «ristabilire la fiducia» della comunità ebraica era la sua priorità. Ora i militanti sperano che al congresso di Liverpool, in programma dal 23 al 26 settembre, Corbyn saprà trovare le parole giuste per «tendere la mano» agli elettori ebrei.
(ItaliaOggi, 20 settembre 2018)
riflesso
di Giorgio Berruto
Agrigento, Matera, Ferrara, oggi Torino (presso l'Archivio di Stato fino al 14 ottobre), poi Milano. Sono le tappe dell'itinerario italiano della mostra "Entire Life in a Package", personale dell'artista israeliana Orna Ben Ami. Le opere di Orna sono composte da ferro saldato su scatti fotografici che riprendono chi lascia una casa e va via, migra: il materiale duro per definizione e l'attualità in presa diretta. In questo modo, sottolinea il curatore Ermanno Tedeschi, "pone in rilievo un elemento, una valigia o una bambola che richiamano alla forza e alla crudezza della fuga dal proprio paese e all'aspettativa per una nuova vita". L'obiettivo è evidenziare la dimensione umana del migrante, spesso misconosciuta e calpestata nel discorso pubblico contemporaneo. Non la migrazione come fenomeno, dunque, ma la persona che migra. "Israele è da sempre al centro di percorsi di migrazione", ha chiarito l'addetto culturale dell'Ambasciata di Israele in Italia Eldad Golan, intervenuto all'inaugurazione, non può dunque non essere particolarmente sensibile a "speranze, aspettative, paure, necessità dei migranti di ogni tempo".
Delle ventiquattro opere esposte, quella che vedete riprodotta mi ha colpito in special modo. È intitolata "Riflesso", ed è creata a partire da una foto scattata in Macedonia nel 2015 da Stoyan Nenov per l'agenzia Reuters. Nella parte superiore vediamo un blocco unico, una massa amorfa in cui si perdono le distinzioni individuali. Sotto questa massa senza vita, che sappiamo nascondere persone, una sottile striscia di terra malferma divide dal riflesso, attraverso cui si distinguono colori, volti, si intravedono sguardi e sensazioni. È un invito alla meditazione sui temi della realtà e della percezione non meno che sull'attualità: la vita che scorre non scorre, è immobilizzata in una colata di ferro che distrugge i visi e azzera la possibilità di guardare negli occhi. Eppure questa rimane la realtà primaria, quella dei corpi. Al di sotto, il riflesso ha qualcosa di meno e qualcosa di più. In alto, sullo sfondo del cielo omogeneo, l'inquietante contorno di fili del telefono e armature di cemento, limite di uno spazio fuori dal tempo. Quello, sembra dire Orna, del migrante.
(moked, 20 settembre 2018)
Ecco come sono stati "informati" i palestinesi dell'attentato mortale di domenica a Gush Etzion
Menzogne e istigazione all'odio ad opera dei gruppi terroristici e dell'Autorità Palestinese non si fermano nemmeno davanti all'evidenza.
In fatto di fake news, l'informazione palestinese resta imbattibile. Si consideri come è stata "informata" l'opinione pubblica palestinese dell'attentato mortale di domenica scorsa presso Gerusalemme.
I fatti. Verso mezzogiorno un 17enne palestinese, Khalil Jabarin, originario di Yatta (a sud di Hebron), ha aggredito a freddo e pugnalato alla schiena Ari Fuld, 54enne israelo-americano padre di quattro figli, sul marciapiede davanti all'ingresso di un centro commerciale a Gush Etzion (poco a sud di Gerusalemme). L'intero incidente è stato filmato da diverse telecamere di sicurezza e diffuso on-line da più fonti. Benché gravemente ferito, prima di crollare a terra Fuld è riuscito a inseguire brevemente e a ferire a sua volta Jabarin prima che questi potesse pugnalare qualcun altro, in particolare Hila Peretz, una venditrice di falafel, che afferma: "Fuld mi ha davvero salvato la vita. E' più che un eroe: ha dato la sua vita per me". Anche questa circostanza risulta confermata dal video di una telecamera di sicurezza. Trasportato d'urgenza al centro medico Shaare Zedek di Gerusalemme, nonostante gli sforzi dei medici Ari Fuld non è sopravvissuto alle ferite subite....
(israele.net, 20 settembre 2018)
El Al, ospitalità e comfort sui voli diretti per la Terra Santa
Nel 2018 El Al Israel Airlines compie 70 anni e celebra insieme allo Stato di Israele questo importante anniversario, a testimonianza di quanto la sua crescita ed evoluzione siano intrinsecamente legate alla storia del Paese.
Le rotte dall'Italia
Presente in Italia dal 1949, El Al oggi opera fino a 32 collegamenti diretti settimanali per Israele da quattro aeroporti: Roma Fiumicino, Milano Malpensa, Venezia Marco Polo e Napoli Capodichino. Sulle rotte tra l'Italia e Israele vengono impiegati principalmente aeromobili Boeing 737/800 e 737/900 di nuovissima generazione con la doppia configurazione Business ed Economy. In alcuni casi, inoltre, i collegamenti sono effettuati con i Dreamliner 787: aeromobili acquisiti recentemente, altamente innovativi e tra i più efficienti nel panorama dell'aviazione mondiale.
Ospitalità e comfort
L'ospitalità israeliana è tangibile non appena si sale a bordo di un volo El Al, con il tradizionale benvenuto da parte degli assistenti di volo e un servizio accurato e puntuale che comprende un'esperienza culinaria garantita dai migliori chef israeliani, oltre a una selezione di vini di grande qualità. Gli aeromobili sono dotati di ogni comfort, grazie alle poltrone leggere, eleganti ed ergonomiche, frutto delle tecnologie più avanzate. Il nuovo sistema di illuminazione cambia di intensità e colore a seconda della fase di volo,il sistema di intrattenimento all'avanguardia denominato dreamstream è fruibile su tutti i dispositivi mobili dei passeggeri.
Il prestigioso servizio offerto da El Al in Business è di livello internazionale. Sulle tratte a lungo raggio, infatti, la compagnia aerea prevede poltrone-letto per un'esperienza di volo confortevole e rilassante.
Viaggi religiosi di gruppo
Un viaggio in Israele è un'esperienza a 360 gradi, per il pellegrino la Terra Santa rappresenta la meta fondamentale del suo percorso religioso e spirituale. Per l'organizzazione dei viaggi di gruppo El Al mette a disposizione la sua esperienza, cortesia e professionalità attraverso un servizio dedicato fornito dal Groupdesk, che valuta ed elabora le richieste dei tour operator per ottimizzare l'esperienza di viaggio e pellegrinaggio in Israele.
Il viaggio in Israele di carattere storico, artistico, culturale e il pellegrinaggio dalla connotazione religiosa e spirituale prevedono tradizionalmente un soggiorno di 8 giorni/7 notti. Negli ultimi anni notiamo un diverso trend dove la gamma di offerte è più articolata e varia, affiancando ai pacchetti tradizionali formule più flessibili, come i city break e i long weekend il cui costo oscilla tra i 400 ed i 500 euro.
Questa diversificazione è stata incoraggiata da El Al con un operativo che spesso prevede la doppia rotazione giornaliera, in collaborazione con le iniziative dei tour operator che interpretano le diverse esigenze dei clienti.
Il 2017 è stato un anno molto positivo per Israele che ha evidenziato un trend di grande crescita: i dati del ministero del Turismo, infatti, registrano un incremento di poco inferiore al 30% rispetto all'anno precedente.
Il viaggio in Israele inizia con il cordiale Shalom con cui El Al accoglie i passeggeri a bordo dei propri aeromobili perché El Al è più di una compagnia aerea. È Israele.
El Al Israel Airlines
Ufficio prenotazioni e biglietteria
06-42020310 / 02-72000212
(LAgenzia di Viaggi, 19 settembre 2018)
Florentine e Jaffa, i quartieri di Tel Aviv tutti da scoprire
Ce li racconta Dafna Kastiel, israeliana di origine europea e titolare dell'azienda di famiglia, che nel suo Paese è simbolo di mobili e decoro.
«Mio nonno era bulgaro, la nonna invece era greca: la mia famiglia è in Israele da 70 anni, dall'anno di fondazione dello Stato» racconta Dafna Kastiel, terza generazione di un'azienda il cui nome in Israele è simbolo di mobili e decor. Dafna ha imparato tutto in quella fabbrica ospitata da un edificio in stile Bauhaus a Florentine, una ex zona industriale che a Tel Aviv ora è considerata un quartiere emergente, corteggiato dagli hipster. Lì la società Kastiel faceva mobili su misura, dalle sedie per il primo Parlamento al tavolo per l'ambasciata italiana di Tel Aviv. «E anche se da quest'anno abbiamo deciso di chiudere, perché è diventato troppo difficile produrre, non mi sono arresa. Voglio continuare a portare lo spirito di Israele nei miei disegni, dare vita alle mie aspirazioni. Sto progettando uno showroom per Negev Ceramics e mi faccio ispirare da altri giovani. Oggi c'è una nuova generazione di studenti e designer, tra cui molte donne, che "sentono" gli spazi dell'abitare in modo vivo e stimolante».
Dafna, però, ha scelto di abitare in un'altra zona della città. «La mia casa è a Jaffa. Ho scelto di stare lì prima che diventasse di moda. Ha un'atmosfera contagiosa, è una comunità versatile, con colori e religioni differenti. Non ci sono grandi supermercati, ma un piccolo negozio di alimentari, la macelleria e il fruttivendolo. Mi piace particolarmente al venerdì mattina, quando attorno al mercato si respira l'atmosfera del weekend, visto che in Israele sabato è festa. Scendo presto, prendo un caffè con una fetta di torta al Milk (Rehov Beit Eshel 5) o la mia colazione preferita: l'hummus da Abu Hasan, in Ha' Dolfin street, il migliore della città. E poi mi metto a curiosare. Potrei trascorrere così tutta la giornata, pranzare con un piatto di pesce da Jopea Kitchen bar (Rabi Pinchas 9) e, al tramonto, scendere verso il porto vecchio: è questo il momento più bello».
Un weekenda Old Jaffa
La chiamano Old Jaffa o semplicemente Jaffa ed è la città vecchia, stretta attorno alla piazza dell'orologio e alla chiesa di St. Peter, dalla quale scende un dedalo di stradine verso il vecchio porto, il lungomare e alcune delle spiagge più tranquille di Tel Aviv.
Dove fare shopping
Qui c'è il marchio storico di moda israeliana Maskit, oggi diretto da Sharon Tal, che ha lavorato anche per Alexander McQueen. Più popolari le tante botteghe di rigattieri, negozi di modernariato e design attorno al mercato delle pulci, che si tiene tutti i giorni, tranne il sabato (orari: 10-18 da domenica a giovedì, 9-14 il venerdì).
Dove dormire
Il Market House ha un'atmosfera bohémienne, offre ai suoi ospiti l'happy hour e bici per spostarsi in città. Per informazioni: Go Israel e Cities Break.
(Donna Moderna, 19 settembre 2018)
Squadra di Israele si allena a Imperia con i ragazzi della Rari Nantes
Ogni pomeriggio, i ragazzi di Israele sostengono gli allenamenti insieme ai pari età della Rari. Iniziativa nata grazie all'amicizia tra la coach imperiese Mercedes Stieber e la ex pallanuotista ungherese Jusztina Kovacs
Ventisette giovani pallanuotisti israeliani dell' EMEK HAYARDEN sono in ritiro ad Imperia per svolgere i loro allenamenti prima dell'inizio della stagione in patria.
Si tratta di ragazzi provenienti dalla città di Afikim, situata sul Lago di Tiberiade, di età compresa tra i 13 e i 18 anni che si alleneranno fino a domenica presso la Piscina Cascione di Imperia. Al mattino, svolgeranno allenamenti tra loro mentre ogni pomeriggio si uniscono ai giovani giallorossi, per alcune piccole amichevoli.
"Gli atleti - precisa la società imperiese - sono allenati da Or Gil, ex allenatore dell'Israele di pallanuoto, e dall'ungherese Jusztina Kovacs che era già stata ad Imperia nel 2012 quando la Cascione ospitava la LEN Champions Cup e giocava nel Kyriat Tivon. La Kovacs è amica di Merci Stieber e, durante il giorno, spesso scambiano battute a bordovasca".
(Riviera.it, 19 settembre 2018)
Il doppio filo che lega Russia e Israele in Siria
L'abbattimento dell'aereo non incrina i rapporti tra Mosca e Tel Aviv. Anzi, potrebbe rafforzarli. Ecco quali sono gli interessi incrociati delle due potenze nell'area.
di Riccardo Amati
La Russia minimizza l'incidente, perché le relazioni con Israele sono determinanti al fine di rendere permanente il suo ritorno in Medio Oriente e quindi al ruolo di grande potenza. Confermando i rischi e i pericoli che l'avventura militare siriana ancora comporta, l'abbattimento dell'aereo spia a largo di Latakia potrebbe semmai portare a un rafforzamento della partnership con Gerusalemme (o Tel Aviv, se preferite), nella prospettiva di soluzioni diplomatiche per il dopoguerra in grado di dare stabilità e prestigio alla posizione di forza riconquistata da Mosca sullo scacchiere internazionale dopo 25 anni di assenza. Le parole con cui Vladimir Putin ha ridimensionato l'episodio costato la vita a 15 militari russi definendolo «una catena di tragici eventi casuali» suonano come uno schiaffo al suo ministro della difesa Sergei Shoigu, che aveva dato tutta la colpa a Israele («un atto ostile, risultato di azioni irresponsabili da parte dei militari israeliani») e preannunciato ritorsioni. Al di là di ogni valutazione sui cortocircuiti ricorrenti ai vertici del regime di Mosca, la correzione del tiro non lascia dubbi: le contromisure si limiteranno ad «assicurare ulteriormente la sicurezza del nostro personale e delle nostre installazioni in Siria», ha detto Putin. E una telefonata col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha subito disinnescato la crisi.
L'accordo tra Israele e Russia resta intatto
L'accordo di deconfliction con Israele resta intatto: nessuna interferenza sull'azione russa per ridare tutta la Siria a Bashar al-Assad, in cambio del via libera di fatto alle azioni di Israele sul territorio siriano contro gli obiettivi legati all'Iran e alla sua emanazione libanese, Hezbollah. Negli ultimi 18 mesi sono stati oltre 200 i raid degli aerei con la stella di David su bersagli di questo tipo, hanno reso noto fonti militari israeliane. La Russia non ha mai davvero protestato. I contatti costanti tra le forze armate e i servizi di sicurezza dei due Paesi hanno sempre evitato scontri diretti. Il ricognitore Yl-20 abbattuto il 18 settembre è stato vittima dei sistemi anti-aerei in mano all'esercito di Assad, non del fuoco diretto israeliano. «Israele e Russia hanno molti interessi in comune, in Siria», spiega a Lettera43.it Andrei Kortunov, direttore del Consiglio russo per gli affari internazionali, un centro studi del Cremlino. Per la Russia, il maggiore di questi interessi è quello di poter essere il broker di un futuro accordo di pace di Gerusalemme con Damasco. Per Israele, è il ritorno delle milizie di Hezbollah in Libano, a guerra finita. A una distanza maggiore possibile dalle di fatto annesse ma tuttora disputate alture del Golan. Quella tra Mosca e Gerusalemme non è un'alleanza, ma una relazione fondata sugli interessi nazionali delle due parti. Ciò le garantisce un grado di stabilità sufficiente per sopportare le pesanti divergenze sul ruolo dell'Iran nella regione.
Fin dall'inizio delle operazioni militari intraprese per soccorrere Assad, la Russia ha mantenuto contatti stretti con Israele, evitando che il partner si sentisse minacciato dal dispositivo bellico che Mosca stava costruendo in Siria. Ha dimostrato di tenere in considerazione i timori di Israele per la sua sicurezza. Nel 2013 cancellò il previsto rifornimento di sistemi di difesa anti-area S-300 a Damasco, su esplicita richiesta di Netanyahu. Non ha rifornito di armi Hezbollah, e ha insistito perché l'esercito di Assad non trasferisse a Hezbollah gli armamenti con cui lo riforniva. Eppure la milizia filo-iraniana è stata e rimane l'alleato più efficace dei russi per le operazioni sul terreno in Siria. Il corteggiamento a Gerusalemme era iniziato già prima del conflitto siriano. Nel 2010, mentre la retorica anti-israeliana dell'allora presidente dell'Iran Mahmoud Ahmadinejad raggiungeva il culmine, la Russia aveva sospeso la consegna di sofisticati sistemi di difesa missilistica a Teheran, che li aveva già pagati. Una conferma della relativa solidità di rapporti costruiti nel tempo sul piano diplomatico e continuati con la collaborazione per evitare incidenti diretti sul teatro bellico arrivò quando, nel marzo del 2014, l'Assemblea generale dell'Onu condannò la Russia per l'annessione della Crimea: Israele si astenne. E non partecipò alle sanzioni contro Mosca.
Le pressioni di Netanyahu in chiave anti-iraniana
Israele conta sulla possibilità che la Russia riesca a garantire che nella Siria post-bellica non siano presenti forze militari straniere, a parte le sue. In particolare, Netanyahu da almeno due anni insiste con Putin affinché non sia permessa una presenza iraniana nella forma di una base navale sul Mediterraneo o di installazioni di Hezbollah e di altre milizie sciite nel Golan. La Russia appare disposta ad accettare queste richieste. L'alleanza con l'Iran resta prioritaria, ma a Mosca si ritiene di poterla gestire tenendo conto delle esigenze israeliane. «I russi considerano l'Iran una società complessa, con un sistema politico elaborato e caratterizzato da contrappesi», scrive il direttore del think tank Carnegie di Mosca Dmitri Trenin. «L'esperienza di Mosca con i leader iraniani suggerisce che - sebbene siano tipi difficili - facendo leva su interessi nazionali, economici o personali, un modo di trattare con loro si trova sempre». A Gerusalemme si scommette su questa expertise. Ai tempi dell'Unione Sovietica, Israele era l'avversario per antonomasia di Mosca in Medio Oriente. Oggi è un partner indispensabile per la sua politica militare e diplomatica in una regione dove Mosca è tornata senza una grande strategia. Col solo obiettivo di proiettare di nuovo la sua potenza sulla scena internazionale, al livello più alto. L'affidabilità di Israele come partner è corroborata da motivi economici di alta rilevanza strategica: da 10 anni l'industria della difesa russa compra tecnologia israeliana per i droni. Lo Stato ebraico è diventato la fonte di approvvigionamento pressoché esclusiva di Mosca nel settore. A confortare la stabilità delle relazioni ci sono anche le affinità culturali: il russo è la lingua non ufficiale più diffusa in Israele. Lo parla un milione e mezzo di persone, ovvero circa il 20% della popolazione. Effetto dell'imponente immigrazione dall'ex Urss.
Ogni escalation in Siria danneggerebbe Mosca e Tel Aviv
«Forse, dopo l'abbattimento dell'areo e la tragica perdita di vite, le relazioni tra Russia e Israele si rafforzeranno ancor più», suggerisce Trenin. La previsione potrebbe avverarsi, perché l'incidente dell' Yl-20 niente toglie alle ragioni di questa partnership inedita nella storia della diplomazia, mentre rende sempre più necessaria la collaborazione. Si tratta di evitare che nei pericolosi cieli della Siria, dove scorrazzano gli aerei da guerra di almeno sei Paesi (Russia, Israele, Siria, Turchia, Gran Bretagna, Usa), si verifichino eventi incontrollati con conseguenze letali. Non solo perché Mosca ha perso almeno 20 aerei e i relativi equipaggi dall'inizio delle ostilità. Ma perché ogni escalation, involontaria o provocata, renderebbe impraticabili gli obiettivi di Vladimir Putin in Medio Oriente. E attenterebbe alla sicurezza di Israele.
(Lettera43, 19 settembre 2018)
Yom Kippur, quando finì l'infallibilità di Israele
6 ottobre 1973. Il Mossad avverte dell'attacco a sorpresa, i militari lo snobbano. Così lo Stato ebraico rischiò di perdere il terzo conflitto contro gli arabi.
GERUSALEMME - In occasione dello Yom Kippur sono stati declassificati in Israele molti documenti relativi all'attacco di Egitto e Siria. Lo Stato ebraico fu sorpreso da quell'attacco nonostante i molti segnali che venivano dal Cairo e Damasco, gli avvertimenti dell'intelligence, le manovre delle forze armate egiziane lungo il Canale di Suez. Il 6 ottobre 1973 Israele fu colpito nella data più intima delle sue festività, il Kippur, il giorno dell'espiazione (dei peccati). Unica giornata dell'anno in cui Israele rimane immobile, è tutto chiuso, non ci sono notiziari tv né radio, chiusi ristoranti e caffè. Persino porti, aeroporti e le frontiere restano, per 24 ore, sbarrati.
La notte del 5 ottobre 1973, mentre i generali dello Stato maggiore si salutavano con il rituale augurio per il Kippur - "Hatima Tova" - dandosi appuntamento 48 ore dopo, convinti che non ci sarebbe stato nessun attacco contro lo Stato ebraico, il capo del Mossad Zvi Zamir mandava da Londra un messaggio destinato al primo ministro Golda Meir che avvertiva di imminente attacco: "L'esercito egiziano e l'esercito siriano sono pronti a lanciare un attacco sabato 6.10.'73 al crepuscolo",recita la prima riga del documento, reso pubblico dagli Archivi di Stato. Nella sua missiva di 5 pagine, completa di note manoscritte a margine, il capo del Mossad scriveva che la guerra poteva potenzialmente essere evitata se Israele avesse reso pubblico il piano di attacco.
Anche se nessuno aveva mai visto l'originale, il documento scritto da Zamir era noto, così come lo era l'identità della sua fonte, Ashraf Marwan, un confidente dell'allora presidente egiziano Anwar Sadat, genero in disgrazia dell'ex presidente Nasser. Il documento include però dettagli sulle informazioni che Marwan aveva passato a Zamir mai rese note, come il suo suggerimento su come scongiurare la guerra.
La pubblicazione di un comunicato del Mossad è un evento davvero raro, i documenti dell'Istituto rimangono in genere classificati per diversi decenni. Meno rara è stata invece la decisione degli Archivi del ministero della Difesa di rilasciare le trascrizioni della riunione dei generali dell'Idf il giorno prima della guerra. Le trascrizioni indicano che gli alti ufficiali avevano notato la mobilitazione di egiziani e siriani ma riportano come il capo dell'Intelligence militare, Eli Zeira, ritenesse le probabilità d'un attacco "molto basse, quasi inesistenti".
Il Mossad era però certo della sua fonte. Marwan era una "importante risorsa" fin dagli anni Sessanta, il suo nome in codice era "Angelo". Due giorni prima aveva contattato il suo gestore nel Mossad e chiesto un incontro con Zamir proprio per avvertirlo dell'imminente attacco e come sarebbe stato condotto.
Marwan disse al Mossad che l'Egitto avrebbe probabilmente limitato l'azione alla penisola del Sinai, che Israele aveva conquistato nella Guerra dei Sei giorni nel 1967.
Il mattino dello Yom Kippur del 1973 la guerra trovò l'esercito israeliano impreparato, nonostante la lettera di avvertimento di Zamir e le altre pericolose avvisaglie. Oltre 2.500 soldati israeliani morirono nei combattimenti, insieme a migliaia di militari egiziani, siriani e iracheni.
La pubblicazione del documento, 45 anni dopo getta nuova luce su una vecchia polemica, sulla responsabilità del mancato allarme degli attacchi imminenti. La guerra del Kippur e i fallimenti dell'intelligence che hanno impedito ai militari di vedere ciò che era così ovvio in retrospettiva, rimangono argomenti scottanti in Israele. Dopo la guerra, la commissione investigativa Agranat riconobbe Eli Zeira colpevole di "gravi errori" di giudizio. Ancora oggi, il 90enne ex capo dei servizi segreti militari si considera non responsabile, ammette errori di valutazione ma su Marwan rimane sempre della stessa idea: era un agente doppio e inaffidabile. Anche Zamir, 93 anni, non ha perso la verve e incolpa Zeira e l'Idf dei fallimenti dei servizi segreti militari che hanno fatto sì che Israele venisse colto di sorpresa. Nel 2004, cercando di promuovere la sua teoria su Marwan, Zeira rese noto il nome dell'agente che aveva avvertito il Mossad. Tre anni dopo Marwan, nel frattempo stabilitosi a Londra, cadde da un balcone della casa di Chelsea. Zamir ha chiesto che Zeira fosse processato per aver rivelato il nome di Marwan, e sebbene l'ex procuratore generale Yehuda Weinstein nel 2012 lo abbia condannato, decise di non processarlo, citando il contributo alla sicurezza nazionale, l'età avanzata e i molti anni trascorsi dagli eventi. F.S.
(il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2018)
Siria, jet russo abbattuto tensione Mosca-Israele. Ma il razzo è di Assad
Errore di Damasco mentre era in corso un raid di Gerusalemme: quattordici morti. Putin: tragica catena di eventi. Il dolore di Netanyahu.
di Pierluigi Franco
L'incidente
«Una catena di tragiche circostanze accidentali». Così il presidente russo, Vladimir Putin, ha spento la tensione diplomatica salita ieri con Israele dopo l'abbattimento di un aereo da ricognizione Ilyushin-20 (Il-20), con la morte di l5 soldati russi, per un errore dell'artiglieria contraerea siriana. La prima notizia sull'incidente era stata data ieri mattina dal ministero della Difesa russo dopo che si erano «persi i contatti con 1'Il-20 mentre quattro F-16 israeliani attaccavano obiettivi siriani nella provincia di Latakia».
Incrocio fatale
Da Mosca era arrivata anche la notizia che «i radar russi avevano registrato lanci di missili dalla fregata francese Auvergne, che era in zona». Ma ad abbattere l'aereo russo, in realtà, è stato il fuoco antiaereo dell'alleato siriano, probabilmente tratto in inganno dall'intreccio di voli nell'area. L'abbattimento è infatti avvenuto sul Mediterraneo, a circa35 chilometri dalla costa siriana, mentre l'aereo Il-20stava tornando alla base russa di Hmeimim, nelle vicinanze di Latakia dove era appena avvenuto l'attacco israeliano. La reazione immediata della Russia è stata dura e ha fatto temere il peggio. Mosca ha subito parlato di «azioni irresponsabili» di Israele, affermando che l'avvertimento degli attacchi era stato dato meno di un minuto prima, non rendendo possibile l'allontanamento dell'aereo russo. E un portavoce della Difesa era arrivato ad affermare che gli aerei israeliani avevano «deliberatamente creato una situazione pericolosa per le navi di superficie e gli aerei nella zona».
Duro anche il ministro della Difesa russo, Serghei Shoigu, che in una telefonata al suo omologo israeliano, Avigdor Lieberman, aveva confermato ieri mattina «la piena responsabilità di Israele», minacciando «provvedimenti in risposta». Questo mentre il ministero degli Esteri russo convocava il vice-ambasciatore israeliano per le rimostranze ufficiali. Ma già nel pomeriggio, da Mosca e da Tel Aviv, sono arrivate le rassicurazioni. Putin ha parlato di tragiche circostanze, smorzando così le parole del suo ministro e affermando che la risposta russa sarà diretta a garantire la sicurezza del proprio personale e delle proprie strutture, escludendo quindi qualunque rivalsa nei confronti di Tel Aviv.
La telefonata
Poi è arrivata anche la telefonata a Putin del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha espresso «dolore a nome dello Stato di Israele», rimarcando la responsabilità esclusiva della Siria a causa del fuoco antiaereo «ampio e impreciso» e impegnandosi a fornire «tutte le informazioni necessarie» nelle indagini sull'incidente. Ma l'episodio ha fatto uscire dal silenzio anche le Forze di difesa israeliane (Idf), solitamente restie a parlare delle operazioni in Siria. In una nota, oltre al «dispiacere per la morte dei militari russi» e a dichiarare la piena responsabilità siriana, l'Idf ha espresso preoccupazione per quello che definisce «arroccamento militare» dell'Iran in Siria e per le spedizioni di armi iraniane verso le milizie sciite libanesi di Hezbollah. L'Idf ha infatti riferito che i suoi F-16 stavano prendendo di mira strutture militari siriane «da cui sarebbero stati trasferiti a Hezbollah in Libano sistemi iraniani per fabbricare armi letali». Secondo fonti di Tel Aviv, Israele avrebbe colpito più di 200 obiettivi iraniani in Siria negli ultimi 18 mesi. Un'azione che la Russia sembra tollerare e che Israele vorrebbe continuare.
(Il Messaggero, 19 settembre 2018)
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Russia-Israele: abbattimento dell'aereo Il-20
MOSCA - Ieri pomeriggio, poi, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avuto un colloquio telefonico con Putin nel quale ha ribadito che la Siria è "responsabile" dell'abbattimento. "Il primo ministro, a nome dello Stato di Israele, ha espresso tristezza per la morte dei militari russi e ha affermato che la responsabilità dell'aereo abbattuto ricade sulla Siria", si legge in un comunicato del governo di Tel Aviv. Netanyahu ha sottolineato "l'importanza del continuo coordinamento nel settore della sicurezza tra Israele e Russia che è riuscito ad evitare molte vittime da entrambe le parti negli ultimi tre anni". Il capo dell'esecutivo israeliano ha ribadito a Putin che il paese è determinato ad impedire un radicamento della presenza militare iraniana in Siria. Inoltre, Israele condividerà tutte le informazioni sul raid di questa notte con Mosca, ha aggiunto Netanyahu. Il premier ha proposto, infine, di inviare a Mosca i vertici dell'Aviazione israeliana "per fornire tutte le informazioni necessarie".
(Agenzia Nova, 19 settembre 2018)
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Siria, dopo il raid di Israele arriva la risposta della Russia
di Lorenzo Vita
La Russia ha confermato che l'Ilyushin-20 è stato abbattuto per errore dalla contraerea siriana. Una conferma che sa di ammissione: l'errore c'è stato, ma da parte dell'alleato siriano. E per adesso, Israele, per quanto chiaramente responsabile da un punto di vista generale, non è considerato il colpevole diretto dell'abbattimento dell'aereo russo.
Mosca è fortemente adirata per quanto avvenuto questa notte nei cieli di Latakia. E non potrebbe essere altrimenti, visto che il bombardamento israeliano non solo ha colpito l'area vicino la base di Khmeimim, ma ha anche causato, in maniera ancora tutta da chiarire, l'abbattimento di un aereo e la morte dei 15 membri dell'equipaggio.
Ma, dietro l'ira del Cremlino e dei vertici militari russi, si nascondono anche una serie di trame ancora poco chiare che fanno capire perché la reazione russa sembra mantenersi in quegli stessi ranghi che, fino a questo momento, hanno caratterizzato gli equilibri fra Israele e Russia in tutto il conflitto siriano.
La questione è certamente grave, a tal punto che si sono mossi sia Vladimir Putin che Sergei Shoigu e l'ambasciatore israeliano a Mosca è stato immediatamente convocato per chiedere delucidazioni su quanto avvenuto nella notte. E per ora i rapporti appaiono tesi.
I militari russi hanno accusato subito Israele di non aver avvertito in tempo il comando in Siria per evitare una tragedia. E la Russia ha, almeno nelle prime ore, accusato apertamente lo Stato ebraico di avere sulla coscienza la morte dei 15 soldati imbarcati sull'Il-20 per averlo usato come "copertura" per eludere gli S-200 siriani.
Il portavoce della Difesa russa, Igor Konashenkov, ha denunciato che "gli aerei israeliani hanno deliberatamente creato una situazione pericolosa a Latakia", definendo come "irresponsabili" le azioni dell'aeronautica dello Stato ebraico. Mentre il ministro Shoigu, come cita Tass, ha detto che "la responsabilità per l'abbattimento dell'aereo russo e per la morte degli uomini del suo equipaggio è solamente di Israele".
"Il ministero della Difesa ha usato i diversi canali di comunicazioni disponibili, e in diverse occasioni, per sollecitare Israele ad astenersi dal condurre raid aerei in Siria, raid che minacciano la sicurezza del personale militare russo", ha continuato il capo della Difesa russa. "Al comando militare russo in Siria è stato notificato il raid degli F-16 israeliani solo un minuto prima dell'inizio", ha continuato Shoigu, ricordando che "le azioni del ministero della Difesa israeliano non rispettano lo spirito della partnership russo israeliana e quindi ci riserviamo il diritto di adottare misure di rappresaglia".
Ma a queste reazioni, che in un primo momento sembravano essere improntate a una vera e propria escalation fra Mosca e Tel Aviv, sono poi seguite parole molto più concilianti da parte di Putin. Il presidente russo, in conferenza stampa a Mosca dove ha incontrato Viktor Orban, si è mostrato molto più conciliante rispetto ai suoi vertici militari. Il leader del Cremlino ha parlato dell'abbattimento dell'aereo come "risultato di una catena di circostanze tragiche", negando l'accusa rivolta a Israele di aver colpito deliberatamente, o attraverso tattiche dei suoi F-16, l'aereo-spia.
E per adesso, la reazione russa - sintetizzata nelle parole di Putin - sembra essere decisamente controllata. Il presidente russo ha infatti detto che è previsto un forte incremento della difesa delle basi in Siria. "Per quanto riguarda le misure di ritorsione, saranno innanzitutto mirate a garantire ulteriormente la sicurezza del nostro personale militare e delle strutture in Siria", ha detto il leader russo e, ha continuato, "saranno passi che tutti noteranno". E adesso sono in molti a credere che l'ipotesi più accreditata sia un aumento del contingente presente in Siria, in particolare dei mezzi aerei, per imporre una no-fly zone in tutta l'area di Latakia.
Secondo Rivista italiana difesa, "agli attuali 20 cacciabombardieri tattici Su-24M2 Fencer (12 aerei) e Su-34 Fullback (8 apparecchi) ed ai 4 caccia multiruolo Su-35S Flanker, dovrebbero aggiungersi una ventina di velivoli costituiti da altri caccia multiruolo Su-30SM e Su-35S e da cacciabombardieri Su-34 Fullback, oltre ad una manciata di aerei da supporto, tra cui almeno una coppia di aerocisterne Il-78M".
Se confermate queste indiscrezioni, il piano di Mosca, a questo punto, sarebbe avere il totale controllo dei cieli siriani, ma confermerebbe anche una linea tutto sommato morbida nei confronti di Israele. Una scelta dettata anche dal fatto che Mosca e Tel Aviv dialogano costantemente sulle operazioni in Siria. E la rottura del canale militare e diplomatico di due comandi non sembra utile a nessuna delle parti.
La guerra in Siria, ad ogni modo, sembra ancora lontana dal trovare una fine. E il raid a Latakia ne è la dimostrazione: c'è ancora molto di cui discutere. E gli attacchi servono anche come laboratori diplomatici e militari per capire le mosse e le capacità dei propri nemici (così come dei propri partner). Del resto, come spiegato da Fulvio Scaglione su questa testata, il fatto che questo raid sia arrivato nelle ore successive al vertice di Sochi per Idlib, è un segnale chiaro di come questi attacchi siano sempre "una continuazione della politica con altri mezzi".
(Gli occhi della guerra, 19 settembre 2018)
Da fascisti e antisemiti a campioni repubblicani
Lettera a il Giornale
In questi giorni gli attacchi contro Vittorio Emanuele III per aver firmato le leggi razziali nel 1938 si stanno moltiplicando. Ma la storia che viene raccontata è manipolata, distorta, e in parte insabbiata. Perché non ricordare che fu Vittorio Emanuele III nel 1904 a inaugurare la Sinagoga di Roma? E che Casa Savoia ebbe sempre rispetto per gli ebrei fin dall'epoca di Re Carlo Alberto e dello Statuto Albertino? E che gli ebrei (a esempio Sidney Sonnino) ebbero incarichi, titoli nobiliari, onorificenze da Casa Savoia? E che nel Senato del Regno nel 1938 sedevano 8 italiani di religione ebraica, nominati dal Re Vittorio Emanuele III? E che, sempre nel Senato del Regno, era presente un centinaio di antifascisti? Anche loro nominati dal Re! Nessuno di questi senatori chiese udienza al Re per chiedergli di non firmare quelle leggi. Perché non leggere il Diario di Ciano, dove si mostra chiaramente che il Re ebbe pietà degli ebrei e per questo fece infuriare Mussolini che parlò di «ventimila italiani con la schiena debole che si commuovono per la sorte degli ebrei»? Il Re disse che era uno di quei ventimila! Perché non raccontare che Norberto Bobbio nel 1938 era un «fascista da sempre» (sic!) e si impadronì di una cattedra universitaria lasciata da un professore ebreo? Poi, nel dopoguerra, divenne antifascista e Sandro Pertini lo nominò pure senatore, ma si guardò bene dal restituire la cattedra che aveva ottenuto in quel modo! Inoltre ci furono tanti antisemiti in quegli anni in Italia, come il giornalista Giorgio Bocca, padre Agostino Gemelli (a cui è stato intitolato il famoso Policlinico), Amintore Fanfani che scrisse l'attuale Costituzione antifascista (scritta, quindi, anche da un fascista e antisemita dichiarato). Niente male. Io non sono ipocrita, né conformista e perciò sto con Vittorio Emanuele III. Senza se e senza ma.
Marco Razzoli Cagliari
(il Giornale, 19 settembre 2018)
La frenesia con cui certa stampa si accanisce contro Vittorio Emanuele III per aver firmato le leggi razziali è sospetta. Vittorio Emanuele III è stato Re dItalia per quarantasei anni, dunque è parte ineliminabile della storia italiana. Se ha firmato le leggi razziali, non è stato per un personale, improvviso raptus criminale, ma perché in quel momento ha espresso, in figura e in atti, nellesercizio delle sue funzioni, lunità della nazione italiana. Dopo quella firma non si è verificata nessuna rivoluzione popolare in Italia, a conferma che Re e nazione erano uniti e tali restano ancora oggi nella responsabilità di quell'atto. Se come italiani esultiamo tutti insieme quando la nostra nazionale vince il campionato mondiale di calcio, e ci riconosciamo con entusiasmo nella nostra squadra che vince per tutti noi, allora dobbiamo vergognarci tutti insieme per la firma apposta sotto quelle leggi razziali, riconoscendoci con umiliazione nel nostro Re che lha fatto per tutti noi. Gli ebrei italiani, naturalmente, sono esclusi. M.C.
Chengdu più vicina a Israele: Sichuan Airlines inaugura il volo per Tel Aviv
Continua l'espansione di Sichuan Airlines che sta allargando la propria rete di voli internazionali con l'inaugurazione di una rotta tra Chengdu e Tel Aviv. Il nuovo servizio, che avrà inizio il 26 settembre, sarà operato da aeromobili A330 di Airbus con una capacità di 277 posti in classe economica e una capacità di 24 posti in Business Class. In una fase successiva, la compagnia aerea servirà la tratta con il suo ultimo aeromobile in flotta, l'A350. Il tempo di volo sarà di 8 ore e 20 minuti, rendendo il viaggio più breve tra Israele e Cina.
La nuova rotta da Tel Aviv sarà servita il mercoledì e la domenica. I voli partiranno da Tel Aviv alle 15.35, con arrivo a Chengdu alle 6 del giorno successivo. I voli di ritorno partiranno da Chengdu alle 2.15, con arrivo a Tel Aviv alle 7.35 dello stesso giorno.
In questo modo la compagnia cinese espanderà la partnership con TAL Aviation costituita poco più di due anni fa in concomitanza con il lancio della rotta da parte della compagnia tra Chengdu e Praga. TAL Aviation fornirà una varietà di servizi al mercato israeliano General Sales Agent nominato dalla compagnia aerea.
Gideon Thaler, CEO di TAL Aviation, commenta: "Siamo entusiasti di espandere la cooperazione tra Sichuan Airlines e TAL Aviation e, con l'inaugurazione di questa tratta, offriremo al mercato israeliano il servizio di volo più breve tra Israele e Cina. in grado di offrire comode coincidenze con Sichuan Airlines in Cina e in Asia".
(Travelnostop, 19 settembre 2018)
Una riflessione e un augurio per Yom Kippur
di Ugo Volli
Gli ebrei di tutto il mondo si preparano in queste ore al giorno più solenne del loro calendario liturgico, il Giorno dell'Espiazione o Yom Kippur. Si tratta di un momento di autoesame e pentimento per gli errori e i peccati commessi, che si sostanzia in una giornata intera, 26 ore di digiuno, concentrazione, esame di coscienza e preghiere. E' la ricorrenza che forse più caratterizza la tradizione ebraica rispetto alle altre esperienze religiose. Per questa ragione la difficile prova del digiuno è quella che continua ad attirare più fedeli, l'ultima abbandonata dagli assimilati, la più toccante per le coscienze incerte.
La logica della giornata non è quella di ottenere un'assoluzione attraverso il rituale: l'etica ebraica bada soprattutto ai fatti. Prima di essere in condizione di poter chiedere l'indulgenza divina bisogna chiedere scusa per i torti fatti agli altri; e anche per quanto riguarda le trasgressioni compiute contro la legge divina il pentimento ha da essere un vero ritorno nella strada della legge e non semplicemente una richiesta di scuse.
L'aspetto più significativo è il modo in cui ci si pone in questo processo: ciascuno è solo di fronte alla sua coscienza e alla divinità, non vi sono intermediari che possano distribuire il perdono o anche solo formulare un giudizio. Ma nelle preghiere la richiesta di indulgenza e anche l'elenco dei peccati commessi sono formulati al plurale. Il torto e anche l'esigenza di salvezza riguardano collettivamente il popolo ebraico. Non basta per esempio sapere di non aver ucciso nessuno o di non aver commesso spergiuro per non essere coinvolti in questi misfatti, perché c'è qualcuno che l'ha fatto e la responsabilità non è solo sua, ma collettiva.
Anche l'esame di coscienza dunque dev'essere collettivo, e andare al di là dei formulari liturgici. Per questo mi permetto di indicare una strada di riflessione che vorrei condividere nel grande corpo del popolo ebraico che rifletterà su se stesso nella lunga giornata che va da martedì sera a mercoledì sera. Il popolo ebraico è oggi immerso in un problema, che è il frutto di un errore (o se vogliamo di un peccato, perché la parola chet che si usa per definirlo indica innanzitutto un errore). Il pericolo è la perdita di unità e di solidarietà. Vi è una parte minoritaria ma consistente del popolo ebraico, soprattutto negli Stati Uniti, ma in parte anche in Europa, che si sente alienato dai destini complessivi e in particolare da quelli dell'entità politica che raggruppa ormai la maggioranza degli ebrei del mondo e per tutti costituisce un rifugio e una garanzia, lo Stato di Israele. L'errore è doppio e consiste da un lato nel privilegiare le proprie posizioni politiche (spesso assolutizzate come scelte morali) sull'identità collettiva. Dall'altro nel pretendere di anteporre le proprie scelte personali a quelle formate collettivamente, nel rifiutare dunque la solidarietà e l'appoggio alle decisioni dello stato di Israele quando esse non coincidono con le scelte politiche del proprio partito, nel sentirsi superiori alla collettività. Talvolta esso si spinge fino all'alleanza chiara ed esplicita con i nemici di Israele e degli ebrei. Il rischio è quello della divisione, dell'indebolimento, di una dispersione morale prima che politica. L'aggravante è che un errore così grave venga compiuto con senso di superiorità e presunzione etica.
Certamente si tratta di temi politici, che possono essere completamente analizzati solo in sede politica. Ma dato che l'ebraismo è religione di popolo e non semplice fede individuale e che Yom Kippur esalta proprio questa dimensione collettiva, vale la pena di rifletterci a fondo anche in questa giornata. A tutti i membri del mio popolo che si preparano per Kippur auguro una buona riflessione e spero che essa sia riconosciuta e accettata, "ben sigillata" dalla divinità, come si usa dire.
(Progetto Dreyfus, 18 settembre 2018)
Parma2064. Dove il parmigiano è questione di fede. Ebraica
A Zibello il primo caseificio che produce esclusivamente formaggio seguendo la Torah. Non si lavora il sabato, nei giorni di festa religiosa e per un mese l'anno, in autunno.
Come tutto quello che riguarda la produzione del cibo in Emilia Romagna, anche il procedimento che porta alla nascita del Parmigiano Reggiano ha qualcosa di mistico, insito nella rituale ripetizione di azioni che - al netto dell'avanzamento tecnologico - sono sempre le stesse. Quando, nell'aprile del 2018, Parma2064 ha dato - è proprio il caso di dirlo - forma all'idea di tentare la strada della produzione di un Parmigiano Reggiano Kasher, questo carattere spirituale è sembrato addirittura amplificare la propria portata.
La decisione di destinare all'impresa, in modo esclusivo, un caseificio situato a Zibello, patria del culatello, precedentemente utilizzato per la lavorazione del formaggio tradizionale, è invece suonato come il segno della volontà di integrare una concezione alternativa nella cultura della Food Valley, più che come una sfida allo stato delle cose.
Il casaro Salvatore Sale ricorda come, il giorno del taglio del nastro, una delegazione di rabbini stranieri fosse presente a quello che assumeva i contorni di un vero e proprio evento internazionale. E di fatto lo era, perché frutto del lavoro dell'unico caseificio impegnato nella lavorazione esclusiva della variante Kasher del Parmigiano Reggiano.
«Ho anche dovuto rimettermi sui libri - ammette il casaro - perché il rabbino che supervisiona e partecipa alle varie fasi di produzione arriva ogni settimana dalla Francia ed è necessario che ci capiamo». In effetti, vista la rigidità delle regole in materia alimentare, ispirate dalla Torah e codificate nello Shulkhan Aruk, è fondamentale che ogni passaggio avvenga nel rigoroso rispetto delle leggi ebraiche, compresa quella che impone l'inattività nel giorno di sabato e durante le più importanti festività del calendario ebraico, garantita dalla firma sul sigillo che impedisce l'ingresso del latte in stabilimento per quattro mungiture ogni settimana (da venerdì sera a domenica mattina) e per un mese intero ogni anno (tra settembre e ottobre). Questo particolare Parmigiano Reggiano prodotto da Parma2064 nel caseificio di Zibello si distingue per l'uso esclusivo del caglio di vitello liquido certificato Kasher, prodotto secondo metodi di estrazione che escludono categoricamente la contaminazione con eventuali residui di carne.
Il sorvegliante (detto mashghiah), che non deve essere necessariamente un rabbino ma deve essere di religione ebraica, è presente lungo tutte le fasi del processo produttivo, che presidia sin dall'inizio con il carico del latte sui camion diretti dalle stalle al caseificio, seguendoli nel loro percorso quotidiano, così da garantire che il latte arrivi solo dalle stalle certificate kasher e dalla mungitura di vacche "adatte" alla produzione di latte kasher.
L'unico intervento diretto del sorvegliante nelle fasi di produzione del formaggio è la distribuzione del caglio nelle "caldaie", in cui avviene la coagulazione del latte. Esclusi i giorni di sabato e domenica, quando la produzione si ferma, negli altri 5 giorni della settimana (da lunedì a venerdì), la procedura è la stessa seguita per il parmigiano tradizionale. Nello stabilimento di Zibello si utilizzano 20 "caldaie" per ottenere tra le 40 e le 46 forme quotidiane, tutte contrassegnate dal rabbino con una dicitura identificativa in lingua ebraica.
(Gazzetta di Parma, 18 settembre 2018)
Raid israeliano in Siria, la contraerea siriana abbatte per sbaglio aereo russo
di Giordano Stabile
I sistemi anti-aerei siriani hanno abbattuto per sbaglio questa notte un aereo da trasporto russo con a bordo 14 militari. Il velivolo, un Il-20, si trovava a circa 35 chilometri dalla costa davanti a Lattakia quando si è ritrovato in mezzo a una battaglia aerea. Quattro F-15 israeliani hanno attaccato postazioni e installazioni militari fra la provincia di Lattakia e quella di Hama, dove l'Intelligence occidentale sospetta che l'Iran sia costruendo una base per il lancio di missili terra-terra.
Battaglia nei cieli del Mediterraneo
I raid hanno colpito anche postazioni nell'area di Baniya, in provincia di Tartus, sempre sulla costa mediterranea. I sistemi anti-aerei siriani di fabbricazione russa - S-200 e Pantsir S2 - hanno reagito come al solito. Ma questa volta nello spazio aereo solcato dai jet e dai missili anti-aerei c'era anche il velivolo da trasporto russo.
«I contatti con l'equipaggio di un Il-20 si sono interrotti nel Mar Mediterraneo a 35 chilometri dalle coste siriane - ha comunicato il ministero della Difesa di Mosca -. L'aereo rientrava alla base aerea di Hmeimim». La sorte dei militari «è ignota» e sono in corso ricerche.
Scongiurato l'assalto a Idlib
L'abbattimento è arrivato a poche ore dall'accordo fra Russia e Turchia per evitare l'attacco a Idlib e una probabile strage di civili. Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan hanno raggiunto nel vertice di ieri a Sochi, nella Russia meridionale, un accordo per scongiurare una sanguinosa battaglia urbana, «una catastrofe» e «una crisi umanitaria» da evitare a tutti i costi, nelle parole del presidente turco. Erdogan e Putin hanno concordato di istituire invece una «fascia demilitarizzata» lungo i bordi della provincia, a partire dal 15 ottobre. La zona cuscinetto sarà profonda «15-20 chilometri», ha precisato Putin, e sarà pattugliata da militari turchi e russi. Nella aeree limitrofe sia i ribelli che l'esercito di Bashar al-Assad ritireranno le armi pesanti. Il ministro russo della Difesa Sergei Shoigu ha confermato che «non ci sarà alcuna offensiva» russo-siriana.
(La Stampa, 18 settembre 2018)
Perché in Israele la sinistra è morta?
La questione palestinese sembra scomparsa dall'agenda internazionale. Ciò non è dovuto solo alla guerra in Siria ma anche alla crisi della sinistra israeliana.
di Domenico Bilotti
La questione palestinese sembra essersi eclissata dai monitor degli opinionisti internazionali. Ce n'è qualche ragione pratica (l'essersi riprodotti, nella stessa macroregione geografica, conflitti di portata ancora superiore e con ricadute visibili più immediate), ma manca in questo oblio qualsivoglia ragione giustificativa strategica. La questione palestinese è ancora oggi legata a filo doppio al tema della sicurezza internazionale: lo è all'interno dei confini israeliani, ma anche fuori da quei confini. L'islamismo politico radicale ha buon gioco a strattonare il vessillo di Gaza quando vuole creare consenso nelle proprie aree di originario radicamento e proporsi come nuova istanza panaraba dei giorni nostri. Contemporaneamente, il declino di visibilità del problema in Israele rende sempre più ignorate e mimetiche le posizioni governative, che non stanno dimostrando di avere specificamente a cuore la pacificazione, ancora una volta dentro e fuori i propri confini.
La soluzione diplomatica preferenziale degli ultimi decenni (quella dei "due Stati") si è rivelata nei fatti inservibile: il riconoscimento internazionale della statualità per la regione palestinese è arrivato tardi e incompleto, oltre che non assistito dalla debita cooperazione nell'area. Non solo: il richiamo ai "due Stati" per "due popoli" è sempre più annacquato e proclamativo. Quali sono questi Stati? Come se ne tracciano i confini? E, una volta tracciati o tracciabili, saranno effettivamente rimosse le condizioni che hanno da così tanto tempo reso la regione una polveriera, oltre che un corridoio preferenziale per le più varie forme di propaganda politica?
Il grande assente di questo dibattito, come ricordato posto già ai margini dell'agone politico internazionale, sembra essere il Partito laburista israeliano. Nell'effettiva storia interna e statutaria di quel partito il tema della pacificazione non era stato da poco, dando luogo per altro verso a una vivace corrente federalista democratica. I laburisti avevano anzi rappresentato per almeno tre decenni (dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta) il volto riformatore dell'élite israeliana. Attenti a politiche prudentemente redistributive, negli intendimenti non ostili alle rivendicazioni palestinesi, capaci di produrre una serie di riforme che nell'ordinamento israeliano si erano tradotte non in una costituzione formale, ma in una pluralità di "leggi generali" e "leggi fondamentali" che certamente svolgevano la funzione di costituzione in senso materiale.
La socialdemocrazia ebraica aveva dimostrato di volersi misurare col lascito remoto della propria tradizione, anche dal punto di vista religioso, ma respingendo le interpretazioni ultra-ortodosse che sono ora ritornate in auge in molti quartieri di Gerusalemme e che orientano spesso le decisioni politiche persino nei livelli decentrati. L'ascesa di quell'ortodossia, ancora oggi minoritaria ma costituitasi in minoranza pertinace che peraltro poco si dedica al dialogo interreligioso, sembra avere ricalcato le orme della caduta dei laburisti. A lungo forza politica egemone nel Paese, sovente alleata con l'ala marxista della sinistra nazionale, il partito laburista dagli anni Duemila ad oggi ha registrato perdite di consenso a macchia d'olio, intaccando la stessa memoria collettiva di alcuni suoi storici leader di orientamento progressista (Golda Meir, Shimon Peres, Yitzhak Rabin).
Questa emorragia elettorale non ha impedito ai deputati eletti, mano a mano in minor numero, di allearsi ora con Likud, il partito conservatore, ora con i centristi di Kadima, che sono stati assolutamente cauti o persino inoperosi sui temi dei diritti civili, politici e sociali.
Adesso il partito sembra star tentando di ricostruire la propria narrazione e la propria identità partendo dagli ambiti in cui il suo radicamento non era del tutto venuto meno: l'accademia, il sindacato, la rappresentanza negli organismi internazionali (ivi compresi gli alleati del Partito del socialismo europeo e dell'Internazionale socialista).
Israele sperimenta insomma i travagli di tutte le sinistre che abbiano governato nella fase espansiva delle prestazioni sociali e che, al loro impoverimento, si sono trovate progressivamente spoglie di simboli, voti e soprattutto idee. La modernizzazione liberaldemocratica perseguita dall'ala europeista dei laburisti ha lasciato il campo a forme molto più spicce di propaganda che tuttavia sono senz'altro apparse ben più legate agli interessi immediati e reali della popolazione (a prescindere se poi questi ultimi siano stati effettivamente attuati o meno).
Per una malintesa eterogenesi dei fini, il mito dell'ebreo errante si è così proiettato sulla diaspora organizzativa e di riconoscimento sociale della sinistra storica: in un caso, però, quella fuga è stata dettata da contingenze storiche anche gravi; ai giorni nostri, l'eclissi della sinistra politica, anche in Israele, si è spesso ammantata di una volontaria abdicazione dai temi reali dell'ingiustizia civile. Non più in grado di rivendicare autorevolezza nell'abbatterli, non più capace di correggerli con l'azione governativa, non più sufficientemente forte quantomeno da orientarli attraverso la combinazione di provvedimenti legislativi e iniziative di massa. Quella stessa sinistra sul piano della pacificazione in Palestina si era fermata agli accordi di Oslo, che pure avevano fatto credere per vicinissime la pace e la prosperità; oggi, riprendere il filo della concordia passa necessariamente dal dotarsi di un programma materiale e di una carica ideale che l'intera dirigenza internazionale delle socialdemocrazie sembra sempre più in difficoltà ad incarnare.
(ilsussidiario.net, 18 settembre 2018)
Il libro di Vittorio Bendaut alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato
(alberto a.) - Si può leggere in tanti modi questo La stella e la mezzaluna - Breve storia degli ebrei nei domini dell'Islam (Edizione Guerini e associati), presentato domenica 16 settembre da Vittorio Bendaut alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato.
E' un saggio storico di straordinaria attualità, una riflessione di un fine orientalista, ebreo ma buon conoscitore della realtà collocata attorno ai confini di Israele. Eppure è soprattutto un libro godibile in cui Bendaut si "sporca le mani" con la storia raccogliendo aneddoti e curiosità capaci di affascinare qualsiasi lettore.
"Quella dei rapporti con l'Islam è sempre stata una storia di contaminazione - premette Elio Carmi, vicepresidente della Comunità, introducendo l'ospite, per altro di casa nel cortile delle Api - in certi periodi una storia felice, in altri più problematica". Bandaut però non entra nel merito della situazione contemporanea, il suo saggio si ferma al 1917. La considerazione da cui parte però è ciò che rende interessante il libro permettendoci di leggere anche l'attualità in tutta un'altra chiave. "Per il mondo ebraico il rapporto con l'Islam è stato molto più decisivo rispetto a quello con il Cristianesimo" afferma Bendaut. Insomma pensare ad un ebraismo eurocentrico è falso, il baricentro è sempre stato spostato molto più ad Est. Un esempio: i rabbini non hanno mai usato lingue europee per i loro testi, niente latino, niente greco, persino la traduzione della Bibbia in greco detta "dei 70" è stata abbandonata dopo che questo è diventato la lingua ufficiale degli intellettuali occidentali. In compenso hanno usato molto l'arabo per scrivere della loro fede. Del resto era una lingua ospitale, prestigiosa presso gli uomini di cultura, tanto che ha fornito le basi per l'ebraismo contemporaneo. E si potrebbe continuare a lungo con altre rivelazioni che rendono prezioso questo volume a qualsiasi livello di lettura.
Domenica 23 settembre la giornata Europea del Patrimonio 2018 ha un titolo che sembra fatto apposta per la Comunità Ebraica Casalese: l'arte di condividere. Prendendo spunto da questo Elio Carmi condurrà due visite guidate straordinarie attraverso alcune opere d'arte che fanno parte del patrimonio di vicolo Salomone Olper spiegando i lavori di Boero, Levi, Mondino, Recalcati e molti altri.
(Il Monferrato, 18 settembre 2018)
Israele accoglie mille etiopi "Falashmura»
Israele ha approvato l'immigrazione dall'Etiopia di mille membri della comunità Falashmura - etiopi con radici ebraiche ma convertiti al cristianesimo molte generazioni fa - che abbiano già nel Paese congiunti di primo grado. Lo ha annunciato il premier Benjamin Netanyahu, venendo così incontro alle richieste dei 130mila Falasha - di origine etiopica e di religione ebraica - che da tempo si sono stabiliti in Israele. I Falashmura, essendo considerati convertiti al cristianesimo, non sarebbero autorizzati ad immigrare in Israele in base alla "Legge del Ritorno". Tuttavia, molti fra di loro hanno creato nuclei familiari con i Falasha, e 1.300 Falashmura si sono già riuniti con i congiunti in Israele. «Si tratta di una decisione non semplice», ha detto Netanyahu. Che ha anche criticato un episodio di discriminazione nei confronti di ebrei origine etiopica. «Non accettiamo alcuna forma di razzismo né contro gli ebrei giunti dall'Etiopia né contro altri», ha detto in riferimento alla disposizione di un rabbino ortodosso secondo il quale le donne Falasha dovrebbero essere tenute lontane dalla confezione del cibo perché «è dubbio che siano ebree a tutti gli effetti».
(Avvenire, 18 settembre 2018)
Israele - Pubblicate foto satellitari del palazzo di Assad
In quello che sembra un tacito avvertimento il ministero israeliano della Difesa israeliano ha pubblicato l'immagine satellitare del palazzo del presidente siriano Bashar al Assad.
di Raffaello Binelli
A trenta anni dal primo lancio nello spazio, il Ministero della Difesa israeliana pubblica alcune immagini dal suo ultimo satellite spia.
Si vedono i carri armati siriani, l'aeroporto internazionale di Damasco e la residenza di Bashar Assad. Immagini che possono apparire una tacita minaccia. Sabato notte lo scalo è stato colpito da un attacco missilistico, che il regime siriano attribuisce ad Israele.
Le tre foto, scattate dal satellite spia Ofek 11, ufficialmente sono state diffuse per celebrare l'anniversario del lancio orbitale. Ma come sottolinea Times of Israel aver scelto proprio quelle foto sembra una dimostrazione di forza, un messaggio molto chiaro. Di recente Israele ha fatto diversi raid militari contro obiettivi iraniani in Siria, dopo aver ribadito più di una volta che non intende tollerare la presenza di forze militari iraniane alla propria frontiera. Secondo dati forniti della Difesa israeliana, ve ne sono stati oltre 200 a partire dal 2017.
Al momento Israele non ha rilasciato alcun commento sull'attacco di sabato scorso all'aeroporto di Damasco. Il primo ministro Benyamin Netanyahu ieri però ha detto che "Israele lavora costantemente per impedire ai nostri nemici di procurarsi armi avanzate". Secondo alcune indicazioni riportate dai media, nell'attacco sarebbe è stato colpito un aereo iraniano carico di armi.
Ma torniamo al satellite spia Ofek 11: è stato lanciato il 13 settembre 2016 usando un razzo Shavit, lo stesso modello di base utilizzato per mandare in orbita il primo satellite Ofek 30 anni prima. Si è unito ad altri satelliti (dieci o forse di più) che forniscono informazioni alle forze di sicurezza israeliane. "La qualità delle immagini e delle fotografie prodotte dai nostri diversi satelliti è incredibile e ci fornisce preziose informazioni", ha detto Amnon Harari, il capo del programma spaziale del Ministero della Difesa.
(il Giornale, 17 settembre 2018)
Una nuova base militare a Cipro Nord. Le mire di Erdogan nel Mediterraneo
Il premier Erdogan ha smentito la notizia con forza, ma la settimana scorsa la Marina turca ha chiesto l'autorizzazione al Ministero degli Esteri per impiantare una base militare a Cipro Nord.
di Marta Ottaviani
Non sono ancora venti di guerra, ma nel Mediterraneo orientale tira davvero una brutta aria, dove la crisi siriana sembra essere solo il preludio di tensioni ben più consistenti e rischiose, se non altro per il giro di soldi che ruota loro attorno.
Il premier Erdogan ha smentito la notizia con forza, ma la settimana scorsa la Marina turca ha chiesto l'autorizzazione al Ministero degli Esteri per impiantare una base militare a Cipro Nord. La triste vicenda dell'isola, è nota ai più, ma gioverà ricordarla, anche perché serve per fare capire la serietà della situazione.
Cipro è spaccata in due dall'intervento militare turco del 1974, ufficialmente effettuato per proteggere la minoranza turcofona e musulmana. Da quel momento, l'isola vive una situazione paradossale. Due terzi dell'isola, a maggioranza greca, fanno parte della Ue come Repubblica di Cipro, riconosciuta da tutta la comunità nazionale, ma non da Ankara. Particolare, questo, che rappresenta uno degli ostacoli più grossi all'ingresso della Turchia in Unione Europea. Un terzo della superficie è di fatto occupato dalle truppe turche e dal 1974 si chiama Repubblica turca di Cipro Nord, riconosciuta solo da Ankara, ma non dalla comunità internazionale.
Di fatto, un protettorato, sul quale la Turchia ha inviato oltre 40mila persone fra militari e coloni per creare un legame indissolubile con la Mezzaluna. Da quando poi sono state scoperte in fondo al Mediterraneo ingenti riserve di gas naturale, Cipro è passata da una questione etnico-religiosa, a un'opportunità irrinunciabile per mettere le mani sopra un tesoro da miliardi di dollari e soprattutto rompere la continuità di acque territoriali e zone economiche esclusive che la parte greca e Atene potrebbero vantare.
Per cementare le ambizioni di Ankara, in effetti, manca solo una base militare, che andrebbe a operare in un mare, il Mediterraneo Orientale, che negli ultimi anni sta diventando sempre più affollato e dove al momento circolano navi di almeno 12 Paesi, Stati Uniti e Russia in testa. Proprio Washington, nelle scorse settimane, ha aumentato la sua presenza militare in Grecia, segno che quella parte di Vecchio Continente è destinata a diventare sempre più calda.
Il presidente Erdogan, l'ha tagliata corta. "Non abbiamo bisogno di costruire una base a Cipro - ha detto ai giornalisti -. L'isola è molto vicina, in caso di bisogno con i caccia può essere raggiunta i pochi minuti". Nessuno dei presenti, però, gli ha fatto notare che la base era per le forze marittime, non per l'aviazione e che la richiesta al ministero degli Esteri è già stata fatta.
Fonti militari, al contrario, dicono che una base nella zona di Famagosta, nella parte orientale dell'isola, sotto il controllo turco, potrebbe facilitare e non poco, il dispiegamento di navi da guerra che impiegherebbero meno e potrebbero rimanere di più nelle zone contese.
Insomma, Ankara si sta preparando a quello che potrebbe essere il più grande conflitto nel Mediterraneo sul medio termine e dove potrebbe vedersela con il Paese che al momento rappresenta il suo più grande alleato: la Russia. Mosca ha grossi interessi nella parte greca di Cipro e sta monitorando con attenzione le mosse di Ankara. Nell'area sono attivi anche Egitto e Israele, che stanno sondando i fondali con la Repubblica di Cipro e che non sono certo noti per i loro buoni rapporti con la Turchia. La premesse perché vada a finire male ci sono tutte.
(formiche.net, 17 settembre 2018)
Antisemitismo in Germania: "E' mezzanotte e cinque"
Sgomento per un attacco rimasto "quasi inosservato" contro un ristorante kosher a Chemnitz
di Paul De Maeyer
Tra fine agosto e inizio settembre, la terza città del Land tedesco della Sassonia, Chemnitz, è stata a più riprese teatro di dimostrazioni di simpatizzanti dell'estrema destra, scesi in piazza per protestare contro la morte di un cittadino tedesco 35enne, accoltellato domenica 26 agosto dopo un litigio con un siriano 23enne e un iracheno 22enne.
Come ha rivelato la Welt am Sonntag (l'edizione domenicale del quotidiano Die Welt) del 9 settembre, durante una di queste manifestazioni è passato la sera di lunedì 27 agosto "quasi inosservato" un attacco lanciato contro un ristorante ebraico da una decina di persone appartenenti alla "scena neonazista".
Gli autori dell'attacco, che erano mascherati e vestiti di nero, hanno gettato pietre e bottiglie contro il locale, che si chiama Schalom (cioè "Pace"), e urlato "sparisci dalla Germania, tu maiale ebreo""Hau ab aus Deutschland, du Judensau".
Judensau significa letteralmente "scrofa" o "troia ebrea"
. Il proprietario del ristorante, Uwe Dziuballa, è rimasto ferito alla spalla destra, così riporta la Welt.
Secondo il quotidiano, si è trattato di "uno dei più gravi attacchi di matrice antisemita degli ultimi anni". Mentre un portavoce del ministero dell'Interno ha parlato di "un atto politicamente motivato a sfondo antisemita", l'incaricato del governo federale per la vita ebraica in Germania e per la lotta contro l'antisemitismo un incarico creato il 18 gennaio scorso dal Bundestag , Felix Klein, si è mostrato allarmato.
"Se le notizie risultano vere, con l'attacco contro il ristorante ebraico di Chemnitz ci troviamo davanti ad una nuova qualità di crimine antisemita. Qui vengono risvegliati i peggiori ricordi degli anni '30", così ha dichiarato l'esperto in diritto internazionale, in netto riferimento agli attacchi contro negozi ebrei sferrati in epoca nazionalsocialista, culminati nella notte tra il 9 e 10 novembre 1938 nella cosiddetta "Notte dei Cristalli" o Reichspogromnacht.
Frizioni nella maggioranza
I disordini di Chemnitz hanno innescato un dibattito nazionale sull'estremismo da parte di militanti della destra radicale e sulla xenofobia che ha fatto presa su alcuni strati della società tedesca e hanno fatto emergere una spaccatura tra la cancelliera Angela Merkel e i servizi per la sicurezza, osserva la Deutsche Welle (8 settembre).
Il capo dei servizi interni, Hans-Georg Maaßen (o Maassen), è finito nella bufera dopo un suo tentativo di sminuire i fatti di Chemnitz. Maaßen aveva espresso dubbi sull'autenticità di un video il quale mostrava ciò che la stessa Merkel ha definito una "caccia all'uomo" nei confronti di un profugo, dicendo che poteva essere anche fake, cioè fasullo.
A peggiorare la posizione di Maaßen è il fatto che ha incontrato tre volte il leader del partito xenofobo AfD (Alternative für Deutschland), Alexander Gauland, e inoltre l'ex leader Frauke Petry. Maaßen, che del resto è anche presidente del Bundesamt für Verfassungsschutz (Ufficio federale della Protezione della Costituzione) avrebbe anche anticipato dati sulla sicurezza non ancora resi pubblici ad un altro politico dell'AfD, Stephan Brandner.
"Sono le mezzanotte e cinque"
"Le notizie dell'attacco da parte di neonazi contro il ristorante kosher Schalom a Chemnitz mi hanno sconvolto", così ha detto il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, citato dalla Deutsche Welle (9 settembre).
Secondo Schuster, il quale ha ammesso di non capire "i tentativi da parte di alcuni politici e rappresentanti delle autorità per la sicurezza di minimizzare la situazione a Chemnitz", la cosa è seria. "E' mezzanotte e cinque", così ha detto, per indicare che non c'è più tempo da perdere.
Anche l'ex presidente del Consiglio, Charlotte Knobloch, si è espressa. "Un attacco contro ebrei non è mai solo un attacco contro ebrei", ma una "sfida ad una società aperta e una democrazia liberale", così ha dichiarato l'85enne.
Per il portavoce del Jüdisches Forum für Demokratie und gegen Antisemitismus (JFDA), Levi Salomon, è invece "scandaloso che una folla mascherata a Chemnitz attacchi l'unico ristorante ebraico della città, urlando slogan antisemiti, e ne sentiamo parlare solo dopo alcuni giorni".
Attacco nel quartiere di Prenzlauer Berg
Già nell'aprile scorso un altro attacco a sfondo antisemita aveva sollevato un acceso dibattito in Germania. A colpire in particolare l'opinione pubblica era anche il fatto che l'aggressione si era verificata in uno dei quartieri più alla moda della capitale Berlino, quello di Prenzlauer Berg.
Due giovani che camminavano per strada e indossavano entrambi la kippah, cioè il tradizionale copricapo ebraico, sono stati aggrediti verbalmente martedì 17 aprile da tre uomini. Uno di questi ha poi preso una cintura e ha cominciato a colpire uno dei due giovani, gridando in arabo jahudi (ebreo). Il giovane aggredito, che è riuscito a filmare l'attacco con il suo telefonino, non è ebreo, ma israeliano, cresciuto in una famiglia araba, così aveva raccontato lui stesso in un'intervista con la Deutsche Welle (18 aprile).
"Dobbiamo ammettere che l'antisemitismo sta diventando di nuovo socialmente accettabile", aveva commentato l'accaduto la ministra federale della Giustizia, Katarina Barley, citata dalla stessa emittente (21 aprile). "È nostro compito di contrastare questo sviluppo".
1.453 reati di matrice antisemita
Infatti, il numero di reati di matrice antisemita non diminuisce in Germania, così ha rivelato a febbraio il quotidiano Der Tagesspiegel, basandosi su dati federali. Dalla risposta ad un'interrogazione parlamentare di Petra Pau, deputata per il partito Die Linke (La sinistra) nel Bundestag e vicepresidente della Camera Bassa, emerge che nel 2017 ci sono stati 1.453 reati di matrice antisemita nel Paese, ossia circa quattro ogni giorno. Mentre nel 2016 erano stati 1.468, ovvero pressoché la stessa cifra, nel 2015 invece 1.381.
Mentre in 32 casi si è trattato di atti di violenza così spiega il Tagesspiegel -, i casi di danni materiali sono stati invece 160 e quelli di incitamento 898. Nel 95% dei casi, ossia 1.377, la polizia ha attribuito i reati a militanti della destra. 25 casi invece sono stati "religiosamente motivati", inclusi quei reati attribuibili a "fanatici musulmani", sia di origine straniera che tedesca.
Secondo la direttrice dell'American Jewish Committee (AJC), Deidre Berger, citata dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, va riveduto verso l'alto però il numero di reati di matrice antisemita da parte di persone appartenenti alla comunità musulmana o araba. Della stessa opinione è il commissario speciale Felix Klein. "L'antisemitismo musulmano è più forte di quanto non emerga dalle statistiche", così ha detto in un'intervista con la Welt.
Secondo lo psicologo Ahmad Mansour, l'antisemitismo musulmano e specialmente anti-israeliano viene discusso "in modo incongruente e minimizzante" in Germania. In un commento pubblicato nell'aprile del 2017 sul Tagesspiegel, Mansour, che è cittadino israeliano di origini palestinesi, ricorda che "per i giovani musulmani, il conflitto mediorientale gioca un ruolo fondamentale" e "il loro antisemitismo antisionista quasi non fa distinzione tra israeliani ed ebrei".
La situazione in Francia e negli USA
Neppure in Francia la comunità ebraica è al sicuro da atti o violenze di stampo antisemita. Anche se secondo i dati del ministero dell'Interno, con sede a Place Beauvau a Parigi, i reati di matrice antisemita hanno fatto registrare nel 2017 un calo del 7,2% rispetto all'anno precedente, c'è stato un aumento "preoccupante" di quelli definiti "violenti", ossia quegli atti antisemiti che hanno richiesto l'intervento da parte della polizia e della gendarmeria. Nel 2017 sono stati 97, esattamente 20 in più rispetto al 2016 (77).
Un buon "barometro" che indica l'atmosfera all'interno della comunità ebraica di Francia, sono le cifre sulla cosiddetta aliyah o aliyà (significa "salita", cioè verso Gerusalemme), vale a dire l'emigrazione verso lo Stato d'Israele. Secondo i dati dell'Agenzia Ebraica per Israele, cioè l'organismo che se ne occupa, nel corso del 2015 quasi 8.000 ebrei francesi hanno compiuto l'aliyah, cioè la cifra più alta dalla creazione dello Stato ebraico. Nel 2016 il numero è sceso a 5.000 e l'anno scorso a 3.500 circa. Un calo quindi, ma comunque superiore agli anni 2013 e 2012, con rispettivamente 3.400 e 1.920 partenze.
Oltreoceano invece il numero degli "incidenti" di carattere antisemita ha conosciuto nel 2017 un aumento del 57% rispetto al 2016, da 1.267 a 1.986. Il dato emerge dal rapporto annuale dell'Anti-Defamation League (ADL), Audit of Anti-Semitic Incidents. Year in Review 2017. Si tratta dell'aumento più forte su base annuale dal 1979, cioè l'anno in cui l'organismo ha iniziato a raccogliere questo tipo di dati (1979).
Il 2017 è stato anche il primo anno dal 2010 in cui c'è stato almeno un incidente del genere in ogni singolo Stato. A guidare la classifica sono New York (380), California (268), New Jersey (208), Massachusetts (177), Florida (98) e Pennsylvania (96), che insieme hanno costituito il 62%, quindi più della metà, di tutti gli incidenti.
(Aleteia, 17 settembre 2018)
Ucciso un israeliano in un attentato a Betlemme
TEL AVIV, 17 - Dopo sei mesi è tornata ieri in Cisgiordania la minaccia dei cosiddetti lupi solitari: ragazzi palestinesi armati di coltelli che attaccano cittadini israeliani o forze dell'ordine.
Ieri uno di loro - Yussef Halil Ali Jabarin, 17 anni - ha accoltellato a morte un israeliano di 45 anni, Ari Fuld, padre di quattro figli, in un affollato centro commerciale di Gush Etzion, un insediamento ebraico a pochi chilometri da Betlemme. Il suo attacco è stato subito elogiato da Hamas, dalla Jihad islamica e dalle Brigate dei martiri di Al Aqsa (considerate il braccio armato di Al Fatah).
In mattinata - raccontano i media israeliani - i familiari di Jabarin avevano avuto la sensazione che il ragazzo stesse progettando qualcosa quando hanno saputo che non si era presentato a scuola.
La madre aveva quindi allertato i servizi di sicurezza palestinesi. Tuttavia, pochi minuti dopo nel parcheggio del centro commerciale di Gush Etzion, Jabarin ha sfoderato un coltello pugnalando alla schiena Fuld. Il ragazzo si è dato alla fuga ma è stato colpito da due agenti. Fuld è morto mentre veniva trasportato in ospedale.
In alcuni siti palestinesi l'attentato è stato ricondotto alle tensioni maturate negli ultimi giorni a Gerusalemme.
In effetti in occasione del capodanno ebraico, negli ultimi giorni un numero cospicuo di israeliani sono entrati nell'area circostante la moschea di Al Aqsa, destando così l'allarme sia del presidente palestinese Abu Mazen sia di Hamas, secondo i quali esiste il timore che Israele potrebbe autorizzarvi preghiere da parte di gruppi di ebrei.
(L'Osservatore Romano, 18 settembre 2018)
Si noti lo stile distaccato con cui l'Osservatore Romano, giornale della Chiesa Cattolica Romana, espone i fatti: diciassettenne palestinese accoltella a morte un quarantacinquenne israeliano. Normale amministrazione, sembra dire l'articolista. L'unico accenno a una possibile motivazione è tratta da "alcuni siti palestinesi", secondo cui le cause potrebbero essere ricercate nelle "tensioni maturate negli ultimi giorni a Gerusalemme". Chi ha provocato queste tensioni? Risposta: "un numero cospicuo di israeliani" che negli ultimi giorni "sono entrati nell'area circostante la moschea di Al Aqsa". Conclusione: se quellebreo è stato accoltellato, la colpa è degli ebrei. Naturalmente questo non è scritto a chiare lettere: è soltanto lasciato allimmaginazione del lettore. Come richiede il paludato stile curiale. M.C.
La taglia sui cittadini israeliani che i media vogliono far passare per "resistenza"
I media occidentali fanno a gara per sminuire l'ennesimo omicidio di un cittadino israeliano avvenuto per mano di un terrorista palestinese. C'è una taglia su ogni cittadino israeliano e non solo non se ne parla ma a pagarla siamo proprio noi.
Ormai lamentarsi dei media occidentali per il loro astio contro Israele sembra più una operazione di routine piuttosto che una battaglia di verità. Beh, vi garantisco che non è così. Non ci si vuole lamentare dei media per partito preso ma solo perché si pretenderebbe da chi fa informazione un minimo di onesta intellettuale e morale.
Ieri un terrorista palestinese ha ucciso a coltellate un cittadino israeliano padre di quattro figli e i media italiani e occidentali nel riportare la notizia fanno a gara a chi riesce meglio nello sminuire l'attentato arrivando persino a sfiorare la giustificazione di tale aberrante atto con il termine "colono", come se uccidere un colono (termine del tutto inventato per tali occasioni) fosse quasi un atto di difesa piuttosto che un attentato terroristico....
(Rights Reporters, 17 settembre 2018)
Padre di quattro figli ucciso a coltellate da un terrorista palestinese
di Giordano Stabile
Ari Fuld aveva già programmato il suo prossimo tour di conferenze negli Stati Uniti, a novembre. Tema: Israele e la sua lotta per sopravvivere nel turbolento Medio Oriente. Ieri mattina è stato avvicinato sul retro di un centro commerciale, dove aveva parcheggiato l'auto, da un palestinese, poco più che un ragazzo. E' stato colpito con un coltello all'addome ed è morto poche ore dopo in ospedale.
Fuld, 45 anni, era noto in Israele e in America perché uno degli attivisti più combattivi di Standing Together, una ong che appoggia le forze armate israeliane, soprattutto in Cisgiordania, e si oppone a chi nega l'esistenza dello Stato ebraico. La sua uccisione ha suscitato un'ondata di indignazione in tutta Israele. Fiumi di messaggi sono arrivati su Twitter e Facebook, dove Fuld conduceva le sue battaglie con post molto impegnati.
L'Intifada continua
L'attacco è avvenuto nell'intersezione di Gush Etzion, già teatro di più gravi attentati con auto lanciate sui passanti, ed è l'ultimo della cosiddetta "Intifada dei coltelli", che dall'ottobre del 2015 ha fatto oltre 40 vittime israeliane. Attorno a Gush Etzion ci sono alcuni degli insediamenti più antichi di Israele, costruiti a partire dagli anni Venti, poi distrutti dalla Legione araba nel 1948, e ricostruiti dopo l'occupazione della Cisgiordania da parte di Israele nel 1967. Oggi ospitano oltre 70 mila persone. Sono stati alcuni abitanti degli insediamenti, armati, a catturare il terrorista, il diciasettenne Khalil Yousef Ali Jabarin, di un villaggio vicino. I genitori del killer avevano avvertito l'Autorità palestinese che stava per compiere un attentato, perché era sparito di casa all'improvviso e aveva dato segnali in tal senso, ma le forze di sicurezza palestinesi non sono riuscite a intervenire in tempo.
Hamas, con il portavoce Fawzi Barhoum, ha invece plaudito all'attacco, definendolo una «risposta naturale ai crimini commessi da Israele». Israele è stata subito attraversata da rabbia e dolore. Fuld, padre di 4 figli, ha cercato di fermare il killer, che voleva attaccare altre persone, prima di essere accoltellato a morte. Il presidente Reuven Rivlin si è unito alle condoglianze alla famiglia: «Nessuno ha lottato con così tanta forza contro il terrorismo come Ari, ha combattuto fino al suo ultimo istante, faremo tu tto quello che è in nostro potere per punire i colpevoli». L'ambasciatore americano David Friedman ha espresso il dolore «dell'America per uno dei suoi cittadini brutalmente ucciso da un terrorista palestinese».
(La Stampa, 17 settembre 2018)
Manduria fra le 87 città italiane alla Giornata europea della cultura ebraica
E' ormai ufficiale. Manduria (TA) figura tra le 87 città italiane che parteciperanno alla Giornata europea della cultura ebraica, che vede impegnati oltre l'Italia altri 27 Paesi europei nella realizzazione di un vasto ed importante palinsesto culturale, volto ad approfondire la storia e la cultura ebraica in ogni territorio in cui gli Ebrei abbiano lasciato traccia di sé.
Manduria può vantare nella sua storia la presenza di una fiorente comunità ebraica, di cui rimangono tracce nel quartiere ebraico, dove secondo la vulgata popolare vi sarebbe l'antica sinagoga, e nelle fonti indirette che riportano di nomi e famiglie ebree vissute nella città. Non lontana da Oria, che nel corso dell'Alto Medioevo rappresentò un punto di riferimento per gli Ebrei d'Italia e di Europa, Manduria si inseriva a pieno titolo in un'area segnatamente caratterizzata dalla presenza ebraica (si pensi a Taranto, Brindisi, Lecce).
Alla luce di ciò, l'Associazione Città Più, di concerto con il Lions Club di Manduria e l'Associazione Popularia Onlus, ha fortemente voluto che Manduria potesse porsi su un piano nazionale, mostrando con orgoglio la consapevolezza di una storia millenaria, ancora per certi aspetti poco nota ed apprezzata. Nel corso dell'inverno, l'associazione Città Più ha dunque intessuto una proficua collaborazione con l'Associazione Italia-Israele di Bari, guidata dal prof. Guido Regina, il Jewish Medieval Museum di Lecce, il cui direttore è lo stimato studioso di cose ebraiche, il prof. Fabrizio Lelli, e il Comitato Qualità per la vita di Taranto, che nella persona del Prof. Carmine Carlucci da anni valorizza la storia della provincia. In un'operazione sinergica, gli enti culturali di cui sopra hanno presentato all'UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane), il proprio programma di eventi che si terranno nel mese di ottobre all'interno di una vasta cornice che vede impegnate altre città italiane, con esperienze storico-culturali diverse ma egualmente significative.
Invero, al di là delle singole specificità, la storia degli Ebrei in Italia costituisce una pagina unitaria, singolare e fondamentale, che si intreccia profondamente con quella di un territorio, da secoli a vocazione multiculturale e multietnica. Capire quella storia consente di arricchire la comprensione generale della storia nazionale, mettendone a nudo gli intrecci, le interrelazioni culturali, le dinamiche sociali ed economiche. La data di apertura della grande kermesse è il 14 ottobre. Nella presentazione al programma si legge che "il tema che unisce idealmente tutte le iniziative è quest'anno Storytelling. Le storie siamo noi: un richiamo alle radici stesse dell'ebraismo, che affondano nelle 'storie' narrate nella Torah, la Bibbia, patrimonio di tutta l'umanità".
(NoiNotizie, 17 settembre 2018)
"Amico di Israele", video online contro Klaus Davi
"Sionista amico degli assassini di Israele. Ebreo massone sionista". Diversi insulti antisemiti sono contenuti in un video postato su You Tube e disponibile in diverse versioni, che prende di mira Klaus Davi, giornalista e titolare di una agenzia di comunicazione e attualmente collaboratore delle reti Mediaset, definito 'ebreo sionista'. Nel video dalla durata di 5'13 (ma ne esiste una versione di 7 minuti) si fa riferimento alla candidatura del giornalista per la carica di sindaco al comune di San Luca in Aspromonte dove non si vota da 4 anni a causa delle infiltrazioni mafiose.
Una voce fuori campo parla di "oscena buffonata del potere: mandare Klaus Davi, ebreo sionista di cittadinanza Svizzera, in Calabria, esattamente a San Luca. Per portare avanti una operazione di colonialismo ideologico e politico, dando per scontato che i sanluchesi, in quanto meridionali, e per di più calabresi e notoriamente 'ndranghetari' secondo l'assunto classicamente lombrosiano siano una razza inferiore africanoide, un popolo maledetto è 'atipicamente criminale'".
E ancora: "Ma di quale democrazia ci vuole parlare? - di quella che i suoi compatrioti ebrei israeliani sionisti e terroristi applicano in Palestina giocando al tiro a segno e così assassinando a sangue freddo poveri giovani ragazzi, fanciulle, bambini addirittura che manifestano inermi per la nakba, e saltando e ballando scompostamente quando ne ammazzano uno. La Calabria è stata per millenni maestra di civiltà. Magna Grecia docet. La Calabria, al centro del Mediterraneo, non ha bisogno di un Klaus Davi che scende dalle montagne svizzere per portarci la sua democrazia usuraia".
Nel video Klaus Davi viene indicato come "'amico' degli assassini israeliani di bambini che ballano quando vengono uccisi" frasi a cui vengono accompagnate scene di guerra e violenza nel conflitto mediorientale. Il video chiude con la frase "quale democrazia vuole portare in Calabria? Quella israeliana usuraia?" Il massmediologo - si apprende - ha presentato denuncia per diffamazione aggravata presso la caserma dei Carabinieri di via Fosse Ardeatine a Milano.
(Adnkronos, 17 settembre 2018)
Il passato e il futuro, questione di nascite
Un pediatra celebra la demografìa israeliana e piange la vecchia Europa.
Scrive il Wall Street Journal (12/9)
Mi stavo dirigendo verso il mio volo per Tel Aviv, quando è accaduto qualcosa di curioso" scrive il pediatra americano Robert Hamilton. "Mentre attraversavo l'aeroporto di Bruxelles, sono stato raggiunto da altri viaggiatori. Uomini con la kippah dalle valigette pesanti, giovani coppie con zaini ricamati con la Stella di David, anziani rabbini chassidici che assomigliavano a Mosè, famiglie con i passeggini e molti bambini sulle spalle - eravamo tutti diretti nello stesso posto. Mi sentivo come a una festa in famiglia.
All'inizio, l'aeroporto era silenzioso e grigio, uno spazio progettato per l'efficienza, utilitaristico, se non nichilista. Al gate di partenza, ho trovato una scena vibrante e caotica, piena di colori, rumori e bambini. Mi sono rilassato. Da pediatra, ho riconosciuto il disordine; lavoro in quell'universo ogni giorno. La mia esperienza ha mostrato chiaramente come due paesi, Belgio e Israele, vedono l'infanzia. Israele la accudisce e l'alimenta.
Secondo un rapporto del 2018 dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il tasso di fertilità per le donne israeliane si attesta su un robusto 3,1, il doppio della maggior parte delle nazioni europee. Il tasso di fertilità belga è 1,7, ben al di sotto del tasso di sostituzione di 2,1. L'alta fertilità di Israele è un fenomeno complesso e la fecondità delle donne ebree ultra-ortodosse non può spiegare l'intera storia. In effetti, l'aumento del tasso di natalità israeliano dalla fine degli anni Novanta è stato guidato dalla popolazione non ortodossa.
Le convinzioni collettive sulla vita, la libertà e la ricerca della felicità animano le scelte personali di ogni cittadino, e inevitabilmente influenzano la demografia della nazione. Le nazioni che non riconoscono i bambini come centrali per una buona vita dovranno affrontare gravi conseguenze economiche. Questi problemi attendono non solo il Belgio, ma anche il Giappone, la Cina, la maggior parte dell'Europa e persino gli Stati Uniti.
La mia esperienza a Bruxelles è stata un'anteprima del domani. Non ostante le sfide politiche che Israele affronta, sono ottimista sul suo futuro. Vi si celebra la vita. Il Belgio, d'altra parte, sembra vecchio e sbiadito. Come disse un saggio ebreo: 'Un bambino senza genitori è un orfano, ma una nazione senza figli è un popolo orfano'".
(Il Foglio, 17 settembre 2018)
"Sono stato una settimana senza kippah e da ebreo ne sono uscito disgustato"
Reportage dell'americano Micah. Thau: "Ho visto un cimitero della storia e gente che paragonava Israele al nazismo".
Scrive il Jerusalem Post (8/9)
Per 168 ore mi sono rifiutato di indossare una kippah", scrive Micah Thau. "Per sette giorni non ero Micha il nuovo immigrato, ma piuttosto Michea, il turista americano di Los Angeles. Per una settimana ero, agli occhi del mondo che mi circondava, non un ebreo, ma un americano. Per essere chiari, questo non era un esperimento fatto per scherzo né un esercizio educativo. E' stato fatto semplicemente per la mia sicurezza mentre un amico e io abbiamo viaggiato in Europa ad agosto. Ho apprezzato alcuni memoriali sugli ebrei d'Europa. Ho notato delle piccole targhe di bronzo costruite sui marciapiedi davanti alle case che appartenevano alle vittime dell'Olocausto. Ho visto che alcune strade, come la Ben-Gurion, prendevano il nome da eminenti leader ebraici.
Tuttavia, con il progredire della settimana, mi sono sentito sempre più a disagio - e alla fine irritato - come ebreo in Europa, e mi sono ritirato ulteriormente nella persona esclusivamente americana che avevo creato. Il primo pungiglione di rabbia che ho sentito è stato nel quartiere ebraico di Praga, una popolare meta turistica per viaggiatori ebrei e no. Non vedevo l'ora di andare a Praga, sede di numerosi musei, sinagoghe e il presunto luogo di nascita del Golem. Mentre visitavamo la sinagoga, il museo e il cimitero, il mio cuore ribolliva di sdegno. La consapevolezza che un centro un tempo vibrante di cultura ebraica fosse ora una trappola per turisti mi ha colpito come un treno. I libri di preghiere, gli abiti da sposa e le coppette di kiddush che un tempo venivano usate da persone reali sono ora condannati a raccogliere polvere nelle teche dei musei di vetro. Mi sentivo come se il cadavere degli ebrei europei fosse esposto al pubblico, un'attrazione turistica di un popolo morto da fotografare, studiato come un animale da zoo e sfruttato da uno stato che rimase in silenzio mentre Hitler annientava gli abitanti di questo museo della città fantasma.
La seconda puntura è arrivata dopo una visita al memoriale dell'Olocausto nel centro di Berlino. Il sito è ben fatto. Per chi non lo sapesse, il monumento si trova a due passi dalla Porta di Brandeburgo e dalle zone dello shopping. Sarebbe come mettere un memoriale al genocidio dei nativi americani o degli schiavi afroamericani nel mezzo di Times Square. Era chiaro che gli architetti intendevano ammettere apertamente che il moderno stato tedesco era letteralmente costruito sulle ceneri degli ebrei tedeschi che sistematicamente venivano sterminati. Riconoscere pubblicamente il buco lasciato dall'Olocausto nel centro della moderna Berlino è un gesto che ho apprezzato con tutto il cuore. Il memoriale stesso sembra un mare di pietre tagliate di varie forme e dimensioni costruite in una sorta di labirinto con piccoli segnali.Non ero arrabbiato per l'aspetto o la posizione del memoriale. Ma per le azioni delle persone. I bambini stavano saltando, gareggiando per vedere chi potesse raggiungere le pietre più alte.Uomini e donne sorridevano alla macchina fotografica, usando lo sfondo come un modo per raccogliere 'Mi piace' su Facebook o Instagram. L'ambivalenza era sbalorditiva e inquietante. Mentre sembrava che dovessi dire qualcosa, ho preferito rimanere in silenzio e lasciare che l'ebreo invisibile se ne andasse via silenziosamente.
Lo sdegno finale provenne dall'uomo alla Porta di Brandeburgo che aveva un cartello che paragonava gli israeliani ai nazisti e accusava una cospirazione sionista mondiale. L'antisemitismo era in mostra nel cuore di Berlino, a pochi passi dal memoriale dell'Olocausto. Ovviamente questo era inquietante, ma il silenzio e il travestimento erano il segno distintivo della mia avventura europea di sette giorni.
Per essere chiari, l'Europa è stata divertente. Praga è piena di storia ebraica. Berlino ha un'architettura magnifica, il Tiergarten che fa vergognare Central Park e una vita notturna irreale. In Polonia, ho imparato come i nazisti hanno compiuto il loro genocidio. Ma solo nell'Europa moderna ho visto il suo impatto a lungo termine. Ero solito considerare l'Olocausto semplicemente il culmine di duemila anni di persecuzione ebraica e, cosa più importante, come un altro tentativo fallito di distruggere il popolo ebraico. Eppure, dopo una profonda riflessione, ho riconosciuto una brutta verità: Hitler avrebbe potuto perdere la guerra ma riuscì ad eliminare il 'problema ebraico'. L'Europa era una volta il principale centro della diaspora ebraica. Ora, gli Stati Uniti e Israele sono le capitali della vita ebraica, mentre l'Europa è la patria di una piccola infarinatura di ebrei.
In breve, questo viaggio mi ha dato un apprezzamento ancora maggiore per l'autodeterminazione ebraica di cui sono grato di essere parte. Alla fine della mia vacanza, mi sono sentito ancora più sicuro della mia decisione di non indossare una kippah in Europa. Mi sono sentito come una reliquia del passato, una specie estinta che camminava in un vecchio habitat, dove la gente si accontentava di lasciarci nei musei e nei negozi di biscotti golem".
(Il Foglio, 17 settembre 2018)
Anche Bari ha avuto il suo Mosè e la Sinagoga
di Vittorio Polito
Mosè, un rabbino nato a Bari e morto a Cordova intorno al 1065, è considerato un «grandissimo "barese" che ha del fantastico», come scrive Sorrenti nel suo libro "I Baresi" Tipografia Mare, 1980). Egli con altri rabbini partì da Bari intorno al 1027, per recarsi in Palestina (Cognetti cita il 956 ma è improbabile, poiché se così fosse, alla sua morte avrebbe avuto oltre 100 anni, cosa improbabile), ma durante il viaggio furono abbordati dai pirati del Califfo di Cordova Abd-el-Râmani III e così la nave barese fu preda di queste fameliche orde.
Il nostro Mosè fu venduto ed acquistato dalla comunità ebraica. Un giorno mentre rabbi Nathan, uno dei grandi sapienti di Cordova, spiegava il Talmud (una codificazione di leggi riguardante le decisioni degli studiosi sulle controversie legali con leggende, aneddoti e detti che illustrano la legge tradizionale), fu interrotto da un cencioso Mosè, il quale mise in dubbio quanto diceva Nathan e dette esaurienti spiegazioni del passo che si stava leggendo. Da quel momento Mosè divenne lui il capo della Sinagoga ed ebbe tanta fama e fortuna che non vi fu quesito che egli non risolvesse e per questo motivo Cordova divenne il massimo Centro della scienza ebraica d'Occidente.
Alla sua morte, il figlio Enoch prese il posto del padre, con il quale collaborò nell'attuazione del grande disegno, che si compì, di trasferire in Andalusia il metodo di studio in vigore sino ad allora in Mesopotamia. Spetta loro il merito di aver istituito in Spagna, forse uno dei più grand centri dell'ebraismo del mondo.
La storia dell'ebraismo barese (o pugliese) è ancora da scrivere, sottolinea Sorrenti, ma il nostro Mosè fu certamente uomo di primissima grandezza e la sua sapienza proverbiale è paragonabile a quella di Schiavo da Bari (1180-1266), un poeta che fu giudice. Considerata persona dotta e di buon senso, ricordato con una iscrizione sulla Trulla della Cattedrale di Bari, riuscì a far giungere il suo nome in ogni parte d'Italia, diventando così un simbolo della saggezza.
La foto mostra l'ingresso del palazzo Effrem De Angelis di Bari (oggi sede dell'Istituto di Scienze Religiose) con accanto alcuni ebrei in preghiera. Nel secolo scorso il palazzo era considerato uno dei simboli dell'antico ghetto ebraico che sorgeva nel centro storico di Bari.
Onofrio Gonnella, con la sua poesia "La Senagoghe", ricorda e conferma nella nostra città la presenza del tempio ebraico.
LA SENAGOGHEda "Bari nostra", di O. Gonnella, Scuola Tip. Villaggio del Fanciullo, Bari 1951, pag. 18.
Ce te ne va a la scole Corridone
do larghe Maurjielle a Santarese,
addò se note u core du barese
la viste s'addolcisce e l'imbressione.
Vite la Chiessia Maddre e u chernescione,
la cubbua, la terrazza tesa tese,
ormà da tanda tjiembe semme appese,
ca parle de la vecchia costruzzione.
U Trulle, u Cambanale e uarchetrave
l'andica Senagoghe, cu rosone,
la Currie, u Semmenarie e San Savine.
Ce vene nu pettore ca jè brave
so certe ca me pote da rascione
pu spunde ca v'avè da stì ruine.
(Giornale di Puglia, 17 settembre 2018)
L'empatia con i malvagi
George L. Mosse, 1918-2018. Resta attuale la lezione dello storico che ha visto nel razzismo, nel nazionalismo, nell'antisemitismo movimenti di attrazione per le masse nei periodi di crisi.
di Emilio Gentile
A Berlino, nel 1932. Un ragazzo di quattordici anni uscì da casa all'insaputa dei genitori per andare vedere un'adunata del partito nazionalsocialista. Si trovò subito immerso nello spettacolo multicolore di bandiere agitate da una folla di giovani militi in camicia bruna, che cantavano inni esaltanti la grande Germania. Poi apparve Hitler. Sessanta anni dopo, diventato storico famoso, il ragazzo di allora ricordava in una intervista: «Ancora oggi devo ammetterlo: fu un'esperienza trascinante. C'era la massa che ti coinvolgeva. Ma c'era Hitler. Il suo carisma esercitava un effetto straordinario sulla gente, che lo volesse o no. Hitler era una vera attrazione».
Nella Germania del 1932, non era evento eccezionale un ragazzo affascinato da Hitler in una adunata nazista. Ma lo rendeva eccezionale il fatto che il ragazzo, Gerhard Lachmann Mosse, nato a Berlino il 20 settembre 1918, era il rampollo più giovane di una ricchissima e molto influente famiglia di ebrei tedeschi. Il nonno materno Rudolf Mosse era fondatore e proprietario di un'agenzia pubblicitaria internazionale e di un impero editoriale, che pubblicava i più importanti giornali liberali tedeschi. Dopo la Grande Guerra, la gestione dell'impero Mosse passò al padre di Gerhard, Hans Lachmann, marito della figlia di Rudolf. I Lachmann-Mosse erano ebrei integrati nella nazione tedesca. Come molte famiglie dell'alta borghesia ebrea, i Lachmann-Mosse erano illuministi e liberali. I giornali dell'impero editoriale Mosse osteggiarono il nazismo, pur sottovalutandolo. Nel marzo 1933, la famiglia Mosse fuggì dalla Germania, dopo essere stata costretta a cedere tutti i suoi immensi beni, riuscendo a salvare soltanto le sedi estere dell'agenzia pubblicitaria.
Diventato apolide e profugo, Gerhard continuò gli studi in Inghilterra; poi, dal 1939, li proseguì negli Stati Uniti, dove si laureò e cambiò il nome in George L. Mosse. Sul suo passaporto tedesco, era impressa la "J" e il nome Gerhard era seguito dal nome Israel, come imponeva la legge nazista, ma lui viaggiava con un passaporto del Lussemburgo. Negli Stati Uniti, George scoprì quasi per caso l'amore per la storia, specializzandosi sul periodo medioevale e moderno. Dal 1944 al 1955, fu docente di storia moderna nell'Università di Iowa, e nel frattempo divenne cittadino americano. Dal 1956, insegnò storia della cultura europea nell'Università del Wisconsin; dall'inizio degli anni 60, svolse anche corsi regolari nell'Università di Gerusalemme.
Quando morì, il 22 gennaio 1999, Mosse era diventato da qualche decennio uno storico di fama internazionale per la rivoluzione storiografica compiuta con i suoi studi sulla cultura e la politica di massa del nazismo, sulla interpretazione del fascismo come fenomeno rivoluzionario, sulla storia del nazionalismo, dell'antisemitismo e del razzismo, da lui considerati potenti movimenti di attrazione per le masse nei periodi di grave crisi. L'originalità del suo metodo e delle sue ricerche consisteva principalmente nella capacità di indagare storicamente «il fascino del persecutore», come lo abbiamo definito, cioè le passioni, le idee e i miti del nazismo e del nazionalismo rivoluzionario razzista e antisemita, che produssero il genocidio degli ebrei. Da storico, Mosse asseriva «la necessità dell'empatia anche con coloro che giudichiamo malvagi e pericolosi», perché solo così è possibile comprendere, con l'esercizio della mente critica, l'origine e i motivi della loro malvagità. In epoca di sconvolgimenti, è concetto fondamentale della sua analisi, la maggior parte delle persone cerca «riparo in un saldo sistema di credenze o in una concreta identità, malgrado tutta la violenza e lo spargimento di sangue che rischiano di seguirne». Fino all'Olocausto.
Nell'autobiografia Di fronte alla storia (Laterza 2004), Mosse ha scritto di aver sempre avuto la «vivida sensazione di essere un sopravvissuto»; per questo motivo ha «costantemente cercato di capire un evento troppo mostruoso da contemplare», di «trovare la risposta al problema di come sia potuto avvenire». La catastrofe dell'Olocausto è una presenza latente in tutti gli studi di Mosse sulla cultura occidentale, campo principale delle sue ricerche, perché «in una catastrofe del genere si riflettono le tendenze principali della cultura contemporanea; essa è come un prisma, o meglio, come uno specchio deformante che restituisce, malvagiamente manipolate, molte delle molle che animano gli esseri umani»; alla fine, «ho avuto la sensazione di essermi avvicinato a una comprensione dell'Olocausto come fenomeno storico». A tale comprensione Mosse era giunto studiando anche fenomeni non collegati direttamente all'Olocausto, come le relazioni fra sessualità e nazionalismo, gli stereotipi della mascolinità, gli stereotipi contro gli outsiders, i diversi e gli estranei, capri espiatori di masse in cerca di sicurezza in una comunità chiusa nella presunta identità immutabile della nazione e della razza. Mosse aveva vissuto personalmente l'esperienza dell'outsider, costretto per anni a mascherare o a celare la condizione di ebreo e di omosessuale. La conoscenza della storia e l'esperienza personale lo resero particolarmente acuto nell'osservazione dei movimenti nazionalisti che conquistano le masse alimentando pregiudizi contro i diversi, gli estranei, gli stranieri.
Nell'esordio del suo libro più noto e influente, La nazionalizzazione delle masse (il Mulino 1975), Mosse ha definito la sua opera «il frutto di lunghe meditazioni sulla dignità dell'individuo e su coloro che hanno attentato contro di essa riportando per lunghi periodi del nostro secolo un grande successo nel privare l'uomo di ogni controllo sul proprio destino». Se fosse vivo, a cento anni, constaterebbe che siamo già entrati in un nuovo periodo, non sappiamo se lungo o breve, di movimenti che attentano alla dignità dell'individuo, sottraendogli il controllo sul proprio destino. L'attuale tendenza era stata prevista da Mosse già negli anni So (Emilio Gentile, Fanatismi incombenti, «Domenica. Il Sole 24 ore»,18 febbraio 2018). La sua preveggenza non era dono profetico, ma capacità di analizzare con realismo la fragilità della democrazia liberale in epoche di sconvolgimenti, che provocano insicurezza e paura nelle masse.
La fragilità della democrazia liberale è stato l'altro tema della meditazione di Mosse, latente nella storiografia ma spesso presente nella sua attività di conferenziere, come mostrano le migliaia di pagine inedite di lezioni e conferenze, che comporrebbero una decina di volumi. Negli anni 50, i temi delle sue conferenze erano: «Libertà individuale e sicurezza nazionale», «Persecuzione e libertà», «Libertà di coscienza». Nel 1954 l'agnostico Mosse dichiarò a un a uditorio protestante: «Tutte le nostre libertà sono legate insieme. Spesso noi siamo stati sul punto di sacrificare alcune libertà politiche così faticosamente conquistate alle fluttuazioni di un'opinione pubblica eccitata o agli allettamenti dell'opportunità politica. Stiamo in guardia contro un conformismo imposto; è la strada che conduce alla perdita della nostra libertà di fronte a Dio. Per essere un uomo libero bisogna accettare le differenze: la coscienza di ogni uomo è uguale all'occhio del Signore».
(Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2018)
Missili israeliani contro l'aeroporto di Damasco
La tv di Stato siriana ha accusato Israele di aver lanciato ieri notte un attacco missilistico vicino all'aeroporto internazionale di Damasco, aggiungendo che alcuni missili sono stati distrutti dalla difesa aerea. E possibile che l'obiettivo fosse un deposito di armi. Una portavoce israeliana ha dichiarato: «Non commentiamo i rapporti stranieri».
Durante sette anni di conflitto, è cresciuto l'allarme di Israele per l'influenza crescente dell'Iran, un alleato chiave del presidente siriano Bashar Al Assad. All'inizio di settembre i media siriani hanno dato notizia di un attacco aereo israeliano contro postazioni iraniane a Hama. Ad agosto un esperto di armi chimiche siriano è stato assassinato nella città di Masyaf. In alcuni casi Israele ha confermato di aver preso di mira in Siria schieramenti di Teheran o trasferimenti di armi per l'Hezbollah libanese: a maggio, per esempio, ha dichiarato di aver colpito l'infrastruttura militare iraniana in risposta al lancio di missili sul proprio territorio.
(Corriere della Sera, 16 settembre 2018)
Il "fattore Giordania" manda all'aria i piani dell'Egitto
La questione palestinese si sta ancor più complicando per i conflitti interni tra Fatah e Hamas e si profila una possibile drammatica ripresa della guerra con Israele.
di Caleb J. Wulff
L'ipotesi di una soluzione della questione palestinese attraverso la federazione del futuro Stato palestinese con la Giordania è diventata ufficiale negli scorsi giorni, anche se con paternità incerta. Il presidente dell'Autorità Palestinese (Ap), Mahmoud Abbas, ne ha parlato all'inizio di settembre con un'organizzazione israeliana, Peace Now, attribuendone la paternità all'amministrazione Trump. Precisando che si parla non di una federazione con la Giordania, ma di una confederazione tra Stati indipendenti, Abbas ha detto di non essere contrario, purché della confederazione faccia parte anche Israele.
Dalla Giordania si è subito precisato che l'ipotesi non è attualmente in discussione e dagli Stati Uniti si è riaffermato che la questione palestinese farà parte del piano di pace per il Medio oriente che l'amministrazione Trump sta preparando. Un piano di cui si continua a parlare, ma che non si sa quando verrà reso pubblico. Anche Israele ha dichiarato di non essere all'origine della proposta e ribadito la posizione espressa da Netanyahu di un'entità statale palestinese autonoma e smilitarizzata, garantita internazionalmente ma riservando a Israele le misure di sicurezza.
Molti palestinesi hanno criticato le dichiarazioni di Abbas, definendo l'ipotesi un artificio di Israele e degli Stati Uniti per cancellare definitivamente l'idea dei due Stati. Le riserve giordane sono motivate dal timore che la presenza palestinese divenga dominante nel Regno hascemita, anche se la prima proposta di confederazione fu lanciata, paradossalmente, nel 1972 da re Hussein, padre dell'attuale sovrano giordano.
Dati interessanti emergono da una ricerca condotta nel 2016 dall'università palestinese An-Najah di Nablus: il 46% degli intervistati si dichiarò allora in favore della confederazione con la Giordania, percentuale che saliva al 52% in Cisgiordania. L'indagine ha messo anche in risalto i sentimenti di frustrazione dei palestinesi, il crescente scetticismo per una soluzione della questione e la richiesta di risolvere in modo pacifico e definitivo il conflitto tra Fatah e Hamas, le organizzazioni che governano rispettivamente la West Bank e la Striscia di Gaza.
Nei due anni passati dall'inchiesta i problemi si sono apparentemente aggravati. Innanzitutto, contro le speranze degli intervistati del 2016, i rapporti tra le due organizzazioni palestinesi sono peggiorati. Nell'ottobre del 2017, con la mediazione dell'Egitto, fu firmato un accordo di riconciliazione in cui si prevedeva che l'Ap riprendesse il controllo di Gaza nel successivo dicembre. In mezzo a reciproche accuse, non se ne è fatto nulla e uno dei maggiori punti di disaccordo rimane il disarmo delle milizie di Hamas richiesto dalla Ap. L'Egitto ha continuato i suoi tentativi di mediazione e lo scorso agosto una delegazione di Hamas si è recata al Cairo per colloqui sulla possibilità di una tregua con Israele e di una riconciliazione con Fatah. La situazione della popolazione nella Striscia è sempre più grave, aggravata dalla decisione di Trump di tagliare i finanziamenti all'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi.
Un accordo con la Ap e Israele sarebbe la premessa per un allentamento del blocco israeliano e l'eliminazione delle sanzioni dell'Ap contro Gaza. La ripresa delle trattative ha però scatenato la dura reazione di Abbas, per il quale nessun accordo potrà essere raggiunto senza la partecipazione diretta della Ap. Immediata la risposta dei vertici di Hamas, che hanno accusato Abbas e Fatah di voler sabotare ogni accordo diretto a una soluzione pacifica e all'eliminazione del blocco, operando così contro gli interessi dei palestinesi. Nel contempo, se non si raggiungerà a breve una tregua, Hamas ha confermato la sua intenzione di riprendere le ostilità, nonostante la sua volontà di raggiungere un accordo.
Israele ha posto a sua volta una pregiudiziale all'accordo, cioè la restituzione di soldati israeliani prigionieri di Hamas; quest'ultima si dice disposta a discutere uno scambio di prigionieri, ma separatamente dalle trattative sulla tregua. In questa situazione, nei giorni scorsi il Cairo ha dichiarate sospese le trattative. Si sta così prospettando la dolorosa prospettiva che i sanguinosi incidenti della scorsa primavera sui confini della Striscia siano stati solo un prologo ad avvenimenti ancor più drammatici.
(ilsussidiario.net, 16 settembre 2018)
Dio ha parlato per mezzo del Figlio
Dio, dopo aver in molte volte e in molte maniere parlato anticamente ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi mediante il suo Figlio, che Egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha anche creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, quand'ebbe fatta la purificazione dei peccati, si pose a sedere alla destra della Maestà nei luoghi altissimi, diventato così di tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato è più eccellente del loro.
Dalla lettera agli Ebrei, cap. 1
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Leader di Hamas annuncia l'inizio della terza intifada
La terza intifada palestinese è già iniziata e il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, meglio noto come Abu Mazen, non sarà in grado di fermarla. Lo ha annunciato ieri il 73enne esponente della dirigenza di Hamas a Gaza, Mahmoud Al Zahar.
"La rivolta popolare contro l'occupazione israeliana e i suoi coloni è iniziata nella Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in quella occupata - ha detto - e andrà a proteggere i beni dei palestinesi e i loro luoghi santi".
Al Zahar, è stato uno dei fondatori di Hamas, il movimento di resistenza islamico palestinese, ed è attualmente uno dei maggiori leader della fazione terroristica e membro del Consiglio legislativo palestinese.
In una recente intervista rilasciata ai website legati alla "resistenza palestinese", ha sottolineato che gli ultimi eventi nella Striscia di Gaza dimostrano chiaramente che lo "spirito di ribellione contro l'esercito di occupazione israeliano è ancora vivo e forte, nonostante i continui tentativi di repressione" e che le "operazioni di resistenza qualitativa portate avanti dai palestinesi dimostrano il fallimento della politica di sicurezza israeliana".
Sempre secondo Al Zahar, Abu Mazen non sarebbe in grado di sedare questa intifada che è fiorita dal basso, dal popolo palestinese e dalla determinazione dimostrata negli ultimi mesi con le ininterrotte manifestazioni al confine con lo Stato ebraico.
Nel frattempo, il ministero della Salute di Gaza ha comunicato che, durante gli scontri di ieri, un bambino di soli 12 anni e due giovani 21enni hanno perso la vita negli scontri con i soldati israeliani schierati a difesa della frontiera, mentre altre 50 persone risultano ferite. È lecito chiedersi se queste continue arringhe di sostegno rivolte a fomentare una inutile e sterile rivolta e alle loro funeste conseguenze, non vengano utilizzate a scopo propagandistico proprio dai vertici delle fazioni terroristiche alla disperata ricerca di un sostegno internazionale.
La situazione in Medio Oriente sembra essere completamente sfuggita di mano al leader dell'Anp, al centro di un fuoco incrociato da parte dei fondamentalisti islamici e dei gruppi di resistenza armata di stampo laico che propendono sempre più per una ripresa di un confronto armato che sembra essere sempre più vicino.
Segnali di guerra, quindi, che confermano la totale mancanza del controllo dell'Anp sulle frange più estremiste egemoni nella Striscia di Gaza e che, già da mesi, stanno animando le continue violente mobilitazioni contro le truppe israeliane poste a guardia dei confini.
Ma l'attuale situazione della maggioranza dei palestinesi che vivono al di fuori della Striscia, impiegati in Israele o nelle colonie, quindi assai tiepidi nel considerare i progetti di "terza intifada", non sembra favorevole ad una chiamata alle armi generalizzata.
Al di fuori della Striscia di Gaza, Hamas e Jihad islamica appaiono isolati e gli appelli alla ribellione sembrano destinati a cadere nel vuoto a meno di adesioni individuali che, comunque, non farebbero pendere l'ago della bilancia in favore della ripresa della lotta armata.
(ofcs.report, 15 settembre 2018)
Storica sentenza in Israele: Autorità Palestinese responsabile attentati
GERUSALEMME - E' una decisione senza precedenti quella assunta ieri dal Tribunale Distrettuale di Gerusalemme che con una sentenza storica ha ritenuto l'Autorità Palestinese (AP) direttamente responsabile della morte di Gadi e Tzipi Shemesh, uccisi in un attacco suicida avvenuto nel marzo del 2002 a Gerusalemme.
La causa contro l'Autorità Palestinese era stata intentata dai due figli rimasti orfani della coppia rimasta uccisa in un attentato suicida avvenuto in King George Street a Gerusalemme nel 2002. In quell'attentato oltre a Gadi e Tzipi Shemesh (lui sergente maggiore del IDF lei incinta di due gemelli) morì anche Yitzhak Cohen, padre di sei figli, e vi furono circa 80 feriti....
(Rights Reporters, 15 settembre 2018)
Ecco il messaggio di Israele-Cipro-Grecia a Erdogan. Gas e non solo
di Francesco De Palo
Compatti sul gas: stop al protagonismo di Ankara e al gasdotto turco. Su Cipro unita Tel Aviv sta con Nicosia. Ma il presidente turco ha in mente una nuova base navale
I tre messaggi che il trilaterale di Gerusalemme di ieri tra Israele, Cipro e Grecia lancia a Erdogan: ampliare la cooperazione regionale sulla base del gasdotto del Mediterraneo orientale allargandola all'Egitto (dove si svolge il Cda di Eni in queste ore); blocco di tutte le ipotesi di un oleodotto verso la Turchia per cassare le aspirazioni di Ankara di controllare le fonti energetiche della regione e il transito di gas naturale; monito di Netanyahu a tutti i paesi per rispettare le acque territoriali riconosciute a livello internazionale (quindi assist a Nicosia contro Ankara nella controversa partita per la riunificazione di Cipro).
Gerusalemme
E' stato un trilaterale articolato e strategico quello andato in scena ieri a Gerusalemme tra il premier Benjamin Netanyahu e i ministri degli esteri di Grecia e Cipro, Nikos Kotzias e Nikos Christodoulides (reduce da una visita ufficiale a Berlino). Il tema in agenda era il gas, lo sviluppo macroregionale dei nuovi gasdotti e l'implementazione delle nuove perforazioni, come quelle previste nella Zona economica esclusiva di Cipro e agganciate ai giacimenti Leviathan e Afrodite.
I tre players, di fatto, hanno ufficialmente aperto al quarto attore protagonista di questa nuova strategia euromediterranea sul gas, con l'ingresso del Cairo, dove si svolgerà il prossimo vertice.
Destinatario dell'incontro è la Turchia di Erdogan, che si è messa di traverso su numerosi fronti.
Cooperazione
Il tema della cooperazione secondo Netanyahu è propedeutico a tutti gli altri. Tel Aviv sa benissimo che Erdogan continua a intrattenere rapporti diretti con Teheran, senza aver fatto chiarezza sul dossier Isis, come quando insiste nell'attaccare quegli stessi curdi che si sono distinti per una battaglia precisa contro gli adepti dello Stato Islamico.
Per cui intende rafforzare la cooperazione regionale sull'asse Atene-Nicosia-Tel Aviv sulla base del gasdotto Eastmed. L'allargamento mette definitivamente in gioco l'Egitto, già new player alla voce dossier idrocarburi grazie alle nuove scoperte di Eni (Noor dopo Zohr) e bersaglio degli investimenti degli americani di Apache che hanno recentemente annunciato un aumento dei denari destinati a nuovi progetti energetici.
E'la ragione per cui, da Gerusalemme, i ministri degli Esteri di Cipro e Grecia proseguono per Il Cairo per colloqui con la controparte egiziana. Il fatto che l'annuncio del viaggio fosse stato fatto mentre Christodoulides e Kotzias erano ancora a Gerusalemme significa verosimilmente che in precedenza avevano voluto discutere alcuni aspetti solo con il Primo Ministro israeliano.
Ankara
In secondo luogo hanno voluto chiarire quale sarà lo scenario futuro su cui srotolare il "papiro" di accordi e progetti sui nuovi vettori del gas. Obiettivo è l'intemperanza turca bersagliata dai tre con un no secco all'idea di un oleodotto verso la Turchia. Uno stop che implica, di conseguenza, il non gradimento sulle aspirazioni di Ankara di controllare le fonti energetiche della regione e il relativo transito di gas naturale.
Erdogan ha in programma a breve l'inizio delle perforazioni nella parte nord di Cipro che i suoi militari hanno abusivamente occupato dal 1974 e che è gli è valso il mancato riconoscimento dell'Onu della fantomatica Repubblica turca di Cipro Nord.
Ma non è tutto, perché dopo le perforazioni nella parte occupata, vicinissimo alla Zee cipriota, il governo turco ha da sempre rivendicato la possibilità di accedere direttamente alla Zee, che è invece è stata già divisa in blocchi con procedure internazionali e assegnata a soggetti come Total, Exxon ed Eni.
Netanyahu inoltre non ha dimenticato le parole che gli ha rivolto lo scorso aprile Erdogan ("Israele è uno stato del terrore e Netanyahu è un terrorista") circa la situazione a Gaza, che poi riverbera tutte le frizioni con Teheran e Washington.
Nicosia
E'la ragione per cui anche Tel Aviv si schiera dalla parte di Cipro stato membro dell'Ue nella delicata controversa relativa al processo di riunificazione dell'isola, non fosse altro perché Ankara prosegue nell'avanzare richieste territoriali e marine senza alcun appiglio legislativo. Da qui il monito di Netanyahu a tutti i paesi perché rispettino "le acque territoriali riconosciute a livello internazionale".
Sul punto si registra la volontà dell'Onu di promuovere un'altra conferenza internazionale, dopo lo stallo di quella andata in scena la scorsa primavera in Svizzera, a Cras Montana.
Lo ha annunciato a margine di un evento di OGEE (la Confindustria femminile cipriota) l'ambasciatore Andreas Mavroyiannis, il negoziatore della parte greco-cipriota. Per cui il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres indicherà a breve data e luogo per il nuovo incontro, anche se le premesse non sono incoraggianti dopo l'ennesimo annuncio-provocazione di Ankara.
Erdogan infatti è intenzionato a costruire una nuova base navale turca a Cipro nord che è un oggettivo ostacolo alle possibilità di un accordo di riunificazione.
La mossa si colloca nella stessa direzione intrapresa da Ankara nel luglio 2017, quando i negoziati si erano interrotti perché Turchia aveva rifiutato di rinunciare ai suoi diritti di intervento a Cipro e alla presenza di truppe sull'isola, dove ha 30mila soldati.
(formiche.net, 16 settembre 2018)
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