I giorni dell'uomo sono come l'erba; egli fiorisce come il fiore del campo; se un vento gli passa sopra ei non è più, e il luogo dov'era non lo riconosce più. Ma la benignità dell'Eterno dura ab eterno e in eterno, sopra quelli che lo temono.
Salmo 103:15-17

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Idan Raichel

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«Ora dunque, o Eterno, Dio d'Israele, si avveri la parola che hai detto al tuo servo Davide! Ma è proprio vero che Dio abita con gli uomini sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questo tempio che io ho costruito! Tuttavia, o Eterno, Dio mio, presta attenzione alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica; ascolta il grido e la preghiera che il tuo servo innalza davanti a te. I tuoi occhi siano rivolti giorno e notte verso questo tempio, verso il luogo di cui hai detto: "Lì sarà il mio nome!" Ascolta la preghiera che il tuo servo farà rivolto a questo luogo. Ascolta le suppliche del tuo servo e del tuo popolo Israele quando pregheranno rivolti a questo luogo. Ascolta dal luogo della tua dimora, dai cieli; ascolta e perdona.»
2 Cronache 6:17-21



























La crociata degli evangelici in favore di Israele

di Cyrille Louis

The International Christian Embassy Jerusalem
GERUSALEMME - L'Ambasciata degli Stati Uniti a Israele, il cui trasferimento a Gerusalemme è stato deciso il 6 dicembre da Donald Trump, non sarà la prima istituzione a rivendicare questo statuto. Dal 1980, una "Ambasciata Cristiana Internazionale" testimonia l'incrollabile sostegno che le comunità evangeliche stabilite negli Stati Uniti, in Sud America, in Asia e altrove hanno scelto di portare allo Stato ebraico. Ospitata in un'elegante villa nell'ex colonia tedesca, questa organizzazione spende ogni anno oltre venti milioni di dollari per finanziare l'immigrazione ebraica, fornire aiuti ai sopravvissuti all'Olocausto e sostenere gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. "A differenza delle chiese stabilite, che si sono spesso mostrate ostili agli ebrei, siamo qui per riparare tutto il male che è stato fatto loro in passato", ha detto David Parsons, il suo vicepresidente.
   Convinti che il ritorno del popolo ebraico nella antica terra di Israele, tra cui la Cisgiordania, è un prerequisito per il compimento delle profezie bibliche, i cristiani evangelici non hanno nascosto la loro soddisfazione quando il presidente degli Stati Uniti ha riconosciuto Gerusalemme come la capitale dello Stato ebraico. Nei giorni scorsi, la Friends of Zion Christian Foundation ha finanziato l'installazione di dozzine di insegne nel centro della città, in cui si augura il benvenuto a Mike Pence. Profondamente religioso, il vicepresidente condivide la loro fede nella dimensione messianica del sionismo e sembra aver personalmente influenzato la decisione di Donald Trump. "Questa visita è una consacrazione che incorona un antico e incrollabile impegno per Israele", ha detto David Parsons, il cui unico rimpianto è che Mr. Pence in questa occasione non ha trovato il tempo di incontrare i rappresentanti del movimento evangelico.
   Organizzazione atipica, l'"Ambasciata cristiana" è stata creata in risposta alla crisi diplomatica che alla Knesset ha provocato il voto di una legge che proclama la sovranità israeliana su tutta Gerusalemme. Su invito dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, le tredici ambasciate allora stabilite nella città sono state trasferite a Tel Aviv per protestare contro questa decisione unilaterale. "Mentre i nostri paesi hanno voltato le spalle a Israele, abbiamo ritenuto importante mostrare la nostra solidarietà con Israele", ha dichiarato David Parsons. In collaborazione con l'Agenzia ebraica e insieme ad altre organizzazioni evangeliche, l'ambasciata ha sborsato 55 milioni di dollari per facilitare l'aliya, la partenza verso Israele, di 140.000 ebrei dall'ex-URSS, dall'India e dall'Etiopia - ma anche dalla Francia, dove 4.000 candidati hanno beneficiato del suo aiuto dopo il 2010. Nel cuore della Cisgiordania, finanzia la costruzione e la manutenzione di infrastrutture a vantaggio dei coloni israeliani. "Non demonizziamo nessuno", afferma Parsons, sottolineando il lavoro svolto in una sinagoga a Kiryat Arba, uno degli insediamenti più radicali della Cisgiordania.
   Questa posizione, minoritaria ma influente, è ovviamente respinta dalla maggior parte delle Chiese della Terra Santa. In una dichiarazione congiunta rilasciata nel mese di agosto 2006, il Patriarca latino (cattolico) e i suoi omologhi siriaci, anglicani e luterani, hanno accusato i sionisti cristiani di diffondere "falsi insegnamenti che corrompono il messaggio biblico di amore, giustizia e riconciliazione" per "abbracciare le posizioni ideologiche più estreme dei sionisti, con il rischio di ostacolare una pace giusta tra la Palestina e Israele". Questo divorzio trova un esempio lampante nel fatto che Mike Pence non aveva intenzione di incontrare alcun dignitario cristiano durante la sua visita di due giorni a Gerusalemme. Alla vigilia del suo arrivo, Hanap Ashrawi, che siede nel comitato esecutivo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha dichiarato: "Appartengo alla più antica tradizione cristiana del mondo e non credo che Dio abbia ordinato che i palestinesi siano trattati con tale ingiustizia."
   
Trascurando queste critiche, David Parsons dice di rispettare i cristiani della Palestina ma fa capire che quelli che criticano Israele sono sotto il peso della coercizione. "I miei fratelli a Betlemme, come la maggior parte delle minoranze cristiane in Medio Oriente, sono sotto il dominio islamico e si sentono in dovere di fare causa comune con altri palestinesi", assicura. In modo piuttosto curioso, afferma anche di sapere da fonte sicura che "il patriarca di una delle grandi Chiese stabilite a Gerusalemme ha stappato lo champagne quando Trump ha fatto il suo annuncio".
   Il messaggio dei cristiani evangelici oggi è ben visto in Israele, ma a volte è stato accolto con diffidenza. Gli ebrei religiosi sono ben consapevoli che i cristiani evangelici vedono essenzialmente il loro ritorno a Sion come preludio alla loro conversione prima del ritorno di Cristo sulla terra, ma sembrano essersi rassegnati a smorzare le loro riserve in nome di un "impegno comune contro lo spettro dell'islamismo radicale". Parlando lo scorso agosto, in videoconferenza, ad un pubblico di cristiani evangelici americani, Benjamin Netanyahu ha cercato di far dimenticare le rivendicazioni nazionali palestinesi dicendo in sintesi: "Siamo impegnati in una lotta di civiltà - una lotta tra società libere e le forze dell'Islam militante."

(Le Figaro, 23 gennaio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Articolo scritto con qualche approssimazione, ma sostanzialmente corretto. E’ consolante sentir dire che le “Chiese della Terra Santa”, cioè quelle “chiese stabilite, che si sono spesso mostrate ostili agli ebrei, dicano che i sionisti cristiani diffondono “falsi insegnamenti che corrompono il messaggio biblico”, perché proprio questo è ciò che pensano di loro molti cristiani evangelici: istituzioni religiose ecclesiastiche che diffondono falsi insegnamenti che corrompono il messaggio evangelico”. E il loro astio verso Israele lo conferma. M.C.
 The International Christian Embassy Jerusalem


Giro d'Italia 101. Gerusalemme-Roma: l'anima è rosa

di Ciro Scognamiglio

 
Gerusalemme - Bridge of Strings in rosa
Quando la bellezza si illumina di rosa. Succede oggi: al via del Giro d'Italia numero 101 - venerdì 4 maggio da Gerusalemme - mancano 101 giorni e così è il conto alla rovescia a fornire lo spunto per far brillare non solo metaforicamente il filo rosa che dal 1909 unisce il Bel Paese. E non solo, a volte, come in questa occasione, perché la storica Grande Partenza da Israele - tre tappe - è la prima fuori dai confini europei e anche il Paese che nel 2018 festeggia i 70 anni ha illuminato alcuni simboli con il colore Gazzetta: il Bridge of Strings ed il Municipio di Gerusalemme; il Municipio di Tel Aviv; il Municipio, la Fontana all'ingresso della città e l'Anfiteatro di Beer Sheva, la zona degli hotel e l'illuminazione della via principale di Eilat. La prima tappa italiana sarà la Catania-Caltagirone di martedì 8 maggio: oggi si illumina di rosa la Scala di Santa Maria del Monte a Caltagirone; l'ultima quella di Roma domenica 27, ed è la Fontana dei 4 Leoni in Piazza del Popolo a cambiare «tinta». In mezzo, ecco una lista (parziale) dei tanti altri simboli: dalla Fontana del Tritone a Caltanissetta all'Abbazia Benedettina di Loreto a Montevergine di Mercogliano; dalla Rocca Maggiore Albornoziana di Assisi alla Piazza di Imola; dalla Torre della Picotta di Tolmezzo al Castello Visconteo di Abbiategrasso; dalla Torre dell'Orologio della Reggia di Venaria Reale al Campanile della Cattedrale di Susa. Senza dimenticare una speciale fiaccolata rosa sul Monte Zoncolan, la salita friulana considerata come la più dura d'Europa e totem dell'edizione 101. Chiamatele pure, se volete, prove tecniche di Giro d'Italia. Il colore-predominante è sempre quello: il rosa. E oggi brilla.

(La Gazzetta dello Sport, 23 gennaio 2018)


Verso il muro sotterraneo fra Israele e Gaza

Contro gli attacchi dai tunnel segreti

di Giovanni Galli

Nella Striscia di Gaza, Israele sta costruendo un muro sotterraneo di cemento per prevenire gli attacchi di sorpresa dai tunnel segreti perpetrati dai gruppi armati palestinesi.
Il cantiere si estende a perdita d'occhio lungo la frontiera con la Striscia di Gaza. Sono già stati edificati quattro dei 65 chilometri del muro sotterraneo che proteggerà la popolazione civile dagli attacchi di Hamas. Centinaia di operai lavorano 6 giorni su 7, ventiquattr'ore su ventiquattro.
Il costo stimato dell'opera è di 3 miliardi di shekel (all'incirca 750 milioni di euro), secondo quanto ha riportato Le Figaro. La decisione, senza precedenti, di costruire un tale muro è stata presa nel 2014, dopo la guerra che ci fu nell'estate, e che durò 52 giorni: fece 2.100 vittime fra i palestinesi e 73 fra gli israeliani.
Hamas è sotto pressione e da qui a qualche mese questi tunnel offensivi non serviranno più a niente, secondo quanto ha dichiarato un alto responsabile militare israeliano. La domenica scorsa l'esercito ha bombardato un tunnel dove transitano le merci destinate a Gaza.
Questo muro largo un metro sarà in grado di offrire una protezione assoluta contro i tentativi di intrusione sotterranea.

(ItaliaOggi, 23 gennaio 2018)


Università di Perugia: avviata collaborazione con la Hebrew University

L'ateneo perugino e quello israeliano realizzeranno insieme il curriculum internazionale in Chimica sostenibile e dell'ambiente. Riconoscimento del doppio titolo per gli studenti

di Laura Proietti

Rafael Erdreich presenta il Corso di Laurea Magistrale in Scienze Chimiche in collaborazione con la Hebrew University
Rafael Erdreich
L'Università di Perugia e la Hebrew University di Gerusalemme unite per il curriculum internazionale in Environmental and Sustainable Chemistry del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Chimiche, che è stato presentato lunedì 22 gennaio. Grazie ad esso i laureati potranno ottenere il doppio titolo.
Rafael Erdreich, consigliere ministeriale dell'Ambasciata d'Israele in Italia, nel corso della presentazione ha evidenziato come il curriculum internazionale con doppio titolo rappresenti un'importante opportunità per le due università coinvolte, con lo Stato d'Israele fortemente impegnato sui fronti della ricerca e dell'innovazione.
"Una collaborazione internazionale di grande significato visto l'ambito di ricerca in cui opera, quello della chimica sostenibile e dell'ambiente" è stata definita dal rettore dell'ateneo perugino, Franco Moriconi.
Il corso sarà realizzato in lingua inglese e prevede che gli studenti effettuino uno scambio in Italia e in Israele per la durata di un semestre.
Tra gli ospiti israeliani erano presenti degli scienziati della Hebrew University (Meital Reches, Igor Schapiro, Lioz Etgar, Daniel Strasser, Gil Shoham), i quali hanno illustrato le loro ricerche e i temi del curriculum magistrale. Per l'Università di Perugia erano invece presenti Elena Stanghellini (delegato del rettore per le Relazioni internazionali), Francesco Tarantelli (direttore del Dipartimento di Chimica, Biologia e Biotecnologie; è uno dei quattro dipartimenti dell'ateneo perugino che hanno ottenuto il riconoscimento di eccellenza), Nadia Balucani (presidente del corsi di laurea in Scienze Chimiche) e Luigi Vaccaro (responsabile del nuovo curriculum con doppio titolo).
Nuove possibilità di collaborazione sono state inoltre valutate nel pomeriggio in un incontro tra la delegazione israeliana per valutare nuove opportunità di collaborazione.

(CE Corriere dell’Economia, 22 gennaio 2018)


La nuova religione laica: il palestinismo

La gigantesca opera di falsificazione del conflitto arabo-israeliano ha fondato una nuova religione laica, il palestinismo. Religione che alla pari di tutte le altre ha i suoi precetti, i suoi dogmi, il suo credo, i suoi rituali e riti e, ovviamente, i suoi sacerdoti e adepti. Religione costruita in Medio Oriente (culla emblematica, si può dire) e trapiantata in Occidente dove, come i due grandi monoteismi, ha trovato terreno fertile e dove non sarebbe riuscita ad attecchire se, a parte il sostegno politico, non avesse potuto contare anche sul corposo supporto accademico-intellettuale. Richard L. Cravatts lo sottolinea lucidamente:
    «L'ampia accoglienza occidentale del palestinismo è stata in gran parte promossa dalle élite intellettuali, i cui pregiudizi contro Israele e gli Stati Uniti servono per animare e promuovere largamente la campagna per la sua denigrazione, diffamazione e delegittimazione. Mentre le buffonate ideologiche dei gruppi studenteschi contro Israele costituiscono gli aspetti più visibili dell'agenda d'odio nei suoi riguardi, la messa in opera di questa sguaiata retorica da parte studentesca sarebbe irrilevante se non fosse per il pieno sostegno intellettuale e morale di cui questo movimento gode in virtù dei membri delle facoltà, i quali sono provvisti del prestigio e della muscolatura accademica per poter fornire credibilità e influenza alla guerra di idee contro lo stato ebraico.»
Guerra di idee. Indubbiamente. Si tratta esattamente di questo. Mentre in Medio Oriente quella contro Israele è sempre stata guerra vera, combattuta sul terreno, condotta attraverso le aggressioni armate, in Occidente si è provveduto e si provvede ad armare ideologicamente gli aggressori sostenendo le ragioni fittizie che essi stessi hanno confezionato ad usum Delphini. L'abilità dell'OLP e successivamente dell'Autorità Palestinese è stata proprio questa. Non potendo proporre all'Occidente il jihad come causa da sposare e insieme a esso il suprematismo islamico, oppure il fermo rifiuto razzistico di Israele in quanto stato ebraico, si è giocata la carta vincente del popolo palestinese oppresso facendo leva su quella che sarebbe poi diventata sempre di più la voluttà rneaculpista occidentale. Quella prassi così apprezzata dalla Spinelli e da tanti altri intellettuali perché vista come virtù palingenetica, propedeutica al dispiegamento del progresso. Scrollarsi di dosso il white's man burden inchinandosi ai piedi delle vittime».

(da "Il sabba intorno a Israele - Fenomenologia di una demonizzazione")


In Israele aumentano le donne ultraortodosse che intraprendono carriere tecnologiche

Nel settore ultraortodosso sta crescendo l'interesse delle donne per le professioni tecniche. Questo si vede dagli ultimi numeri raccolti: sono in aumento le studentesse che si specializzano in materie tecniche.

 
Ebrei ultraortodossi a Gerusalemme
GERUSALEMME - Sempre più studentesse ultraortodosse scoprono il loro interesse per la tecnologia a scuola. Mentre nel 2013 erano 11.900 le studentesse ultraortodosse che avevano un ruolo importante nella tecnologia, negli ultimi cinque anni il loro numero è cresciuto del 45 percento. Oggi, nel 2018, sono 17.300 le studentesse ultraortodosse che frequentano un corso di tipo tecnologico. Questo risulta dalle cifre pubblicate dal quotidiano "Ha'aretz".
Secondo le statistiche del Ministero della Pubblica Istruzione, le ragazze preferiscono materie come economia aziendale con una specializzazione in contabilità, programmazione, moda e design, architettura, informatica, ed elettronica negli ultimi tre anni.
Cinque anni fa, solo 82 giovani donne ultraortodosse hanno completato i programmi post-ginnasiali e sono diventate tecnici certificati o ingegneri orientati alla pratica. Nel 2017 le diplomate erano già 460.

 I valori restano gli stessi
  Il desiderio di trovare un posto al di fuori della società Haredim è dimostrato da un'altra statistica. Nel 2008 solo il 31% delle ragazze ultraortodosse ha superato l'esame di maturità professionale. Sette anni dopo erano già il 51 percento.
Secondo Ha'aretz, molte donne ultra-ortodosse non vedono alcuna contraddizione tra un lavoro redditizio e il mantenimento di uno stile di vita tradizionale di Haredim. Credono che una cosa potrebbe persino alleggerire l'altra.
Una donna (non indicata per nome) che ha studiato architettura ha dichiarato: "Proprio perché voglio che il mio futuro marito possa trascorrere la maggior parte della sua giornata a studiare la Torah, ho bisogno di trovare un lavoro ben pagato."
Nel settore ultra-ortodosso i valori restano gli stessi, solo "i modi per raggiungerli sono cambiati".

(Israelnetz, 22 gennaio 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Israele attacca: ebrei perseguitati in tutta Europa

Cresce l'antisemitismo in Europa, con un aumento degli episodi di intolleranza e violenza nei confronti degli ebrei.
   La fotografia dell'allarmante situazione, a poca distanza dal Giorno della Memoria, arriva del ministero della Diaspora israeliano. Il record di incidenti antisemiti è della Gran Bretagna, che dal 1984 in poi segna un aumento del 78% in quelli di «violenza fisica» e un 30% in più nel numero complessivo di episodi. Negli Usa, a un anno dall'elezione del presidente Donald Trump, crescono sentimenti antiebraici e anti-israeliani nei movimenti di sinistra radicale, specie nei campus universitari. Preoccupanti i dati riguardanti la Francia: un episodio razzista su tre è diretto contro gli ebrei che nel paese transalpino rappresentano meno dell'1% della popolazione residente. Secondo i dati del ministero della Diaspora, retto da Naftali Bennett, in Ucraina il numero degli incidenti antisemiti è raddoppiato e più del cinquanta per cento dei profughi in Europa ha «opinioni antisemite».
   Un fenomeno che fa discutere anche nel nostro Paese. A Milano, dopo la manifestazione islamica in città del 9 dicembre scorso con minacce e insulti alla comunità ebraica, la giunta ha approvato la proposta del consigliere di centrodestra Matteo Forte (Milano Popolare) di «avviare un tavolo con la prefettura e di istituire un osservatorio contro l'antisemitismo».

(Libero, 22 gennaio 2018)


A Enzo Cavaglion il riconoscimento del Benè Berith

Viene conferito agli ebrei che a rischio della vita hanno salvato correligionari durante la persecuzione nazi-fascista. È stato assegnato - alla memoria - anche al fratello Riccardo.

di Vanna Pescatori

Alberto Cavaglion mostra la targa ritirata a nome del padre Enzo e dello zio Riccardo
CUNEO - Enzo Cavaglion ha ricevuto oggi (domenica 21 gennaio) il riconoscimento che il Benè Berith di Milano conferisce agli ebrei che, a rischio della propria vita, hanno salvato correligionari durante la persecuzione nazi-fascista. L'onorificenza riconosciuta a livello internazionale dal "The Committee to Recognize the Heroism of Jews who Rescued Fellow Jews During the Holocaust" e dal B'nai B'rith World Center di Gerusalemme'', hanno spiegato il direttore Alan Schneider e il presidente dell'associazione milanese Paolo Eliezer Foà, completa quella che lo Yad Vashem assegna ai non ebrei che hanno salvato il popolo ebraico, conferendo il titolo di ''Giusto tra le Nazioni''. Finora è stata assegnata a 200 persone in tutta Europa.
   Enzo Cavaglion è stato insignito con il fratello Riccardo (morto cinque anni fa in Israele) perché dopo essere entrati a far parte della formazione partigiana di Duccio Galimberti, si erano prodigati per aiutare gli ebrei giunti in valle Gesso da Saint Martin Vésubiè, cercando per loro rifugio, informandoli sui rastrellamenti e fornendo loro abiti e documenti falsi. Il Benè Berith ha raccolto la documentazione e le testimonianze, alcune delle quale riportate dai sopravvissuti nello loro autobiografie.
   Enzo Cavaglion, 99 anni, ha ricevuto con grande emozione il riconoscimento nella sua abitazione, a Cuneo. Poi è seguito un incontro nella biblioteca «Davide Cavaglion», attigua alla sinagoga, alla presenza del sindaco Federico Borgna, nel corso della quale il presidente della Comunità ebraica di Torino, Dario Disegni, ha ricordato l'opera dei fratelli Cavaglion e ha sottolineato il valore del loro impegno anche come modello da additare agli studenti, primi destinatari delle iniziative dedicate al Giorno della Memoria, che ricorda la Shoah ogni 27 gennaio. Il figlio di Enzo, Alberto, ha ritirato l'onorificenza a nome del padre e dello zio.

(La Stampa, 22 gennaio 2018)


Roma cancella le vie di chi aderì al "Manifesto della razza''

di Ariela Piattelli

ROMA - Via i nomi di chi aderì al Manifesto della razza dalle strade di Roma. Lo ha promesso la sindaca Virginia Raggi in un'intervista per il documentario "1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani" di Pietro Suber. Il Campidoglio ha avviato l'iter che in tempi brevi porterà alla cancellazione dei nomi degli scienziati che, aderendo al documento dove si elencano i principi razzisti del regime fascista e alla base delle leggi razziali, contribuirono alla totale emarginazione degli ebrei dalla vita pubblica, creando anche le condizioni che portarono alle deportazioni nazifasciste. «Abbiamo avviato procedure e verifiche per rinominare strade e piazze intitolate a coloro che sottoscrissero il Manifesto della razza - annuncia Raggi nel documentario -. Dobbiamo cancellare queste cicatrici indelebili che rappresentano una vergogna per l'Italia. Questo può essere anche un esempio per tanti altri Comuni che hanno strade intitolate e questi personaggi». Sono almeno quattro le vie e i larghi nel comune di Roma titolati agli scienziati di cui i nomi compaiono sotto il famigerato manifesto: largo Nicola Pende (a cui a Noicottaro, nel Barese, è dedicata anche una scuola), via e largo Arturo Donaggio e via Edoardo Zavattari. Un cambiamento che a Raggi serve, in un'epoca di recrudescenze, per sottolineare come l'antifascismo sia un valore per la Capitale: «Roma condanna le leggi razziali, la nostra città è orgogliosamente antifascista. Utilizzeremo ogni strumento disponibile per combattere quei rigurgiti di violenza e discriminazione che non vogliamo tollerare».
   Il documentario, che uscirà in occasione dell'anniversario degli ottant'anni dalla promulgazione delle leggi razziali, si concentra sulle testimonianze degli ebrei perseguitati, dei presunti delatori e degli ex fascisti: «Uno degli aspetti più interessanti è quello della memoria, - spiega il regista - ci siamo interrogati anche su cosa è rimasto del fascismo, visti i rigurgiti a cui assistiamo. Siamo andati nei luoghi di pellegrinaggio dei nostalgici. Negli ultimi anni c'è stato un boom di visite alla tomba di Mussolini a Predappio e ci ha colpito il gran numero di ragazzi che scrivono sul libro delle visite messaggi nostalgici. E' un dato di ignoranza storica molto allarmante. Così ci è venuta l'idea di chiedere alla sindaca Raggi se in occasione di un anniversario così importante non fosse il caso di intervenire anche sulla memoria di chi ha aderito al manifesto e a cui sono titolate le strade». La produzione del film ha lavorato settimane prima di ottenere l'intervista. Il documentario, oltre a raccogliere testimonianze e documenti, interviene sulla realtà: «Per un mese abbiamo dialogato con il Campidoglio - spiega Dario Coen, che produce il documentario assieme a Blue Film - Hanno accettato la proposta perché una via intitolata a questi personaggi è un omaggio che loro non meritano».

(La Stampa, 22 gennaio 2018)


Da Israele all'Emilia la sicurezza 4.0 passa dai droni

 
Sono i droni lo strumento di sicurezza e di innovazione tecnologica del futuro». La pensa così Ugo Vittori, amministratore unico e responsabile di Eagle Sky Light, divisione di Eagle Keeper, la società emiliana di investigazioni specializzata nell'antifrode assicurativa, con un fatturato da oltre 5 milioni di euro, che ha debuttato nel mercato dei droni professionali nel 2017.
   Lo ha fatto portando in Italia un sistema aeromobile a pilotaggio remoto unico nel suo genere, chiamato Aquila 100 e prodotto dagli israeliani di Skysapience, che vanta una serie infinita di applicazioni civili, militari e industriali nell'ambito della sicurezza e non solo. «Abbiamo aperto tavoli di lavoro tecnici di sperimentazione con l'Enac, che ci ha permesso di essere qualificati per le operazioni specializzate critiche, ma anche con Ifsc (Italian Flight Safety Committee) e con il Rina (Registro italiano navale)», spiega Vittori. A partire dalla tecnologia sofisticata ad ancoraggio, che permette al drone Aquila 100 di volare più a lungo rispetto ai canonici 30 minuti e con una capacità di visibilità che sfiora i 15 chilometri. Ma anche, per esempio, di ritrovare i dispersi in casi di disastri ambientali con le termo-camere oppure di ricercare i fuggitivi grazie alla prospettiva aerea. «Al momento - prosegue Vittori - siamo gli unici autorizzati a volare di notte e in alcuni settori dello spazio aereo riservato. Abbiamo dimostrato che i costi si abbassano di circa 20 mila euro utilizzando i droni invece che elicotteri». Eagle Sky Light ha siglato un accordo strategico con DJI Enterprise, produttore cinese di droni, per attività in vari settori, tra cui la sicurezza. «Un passo importante potrebbe essere la costruzione di un drone-porto a Grottaglie - spiega l'imprenditore -. Oggi ne esiste solo uno in Ruanda, mentre un secondo è in costruzione in Texas». Ca.Cl.

(Corriere della Sera, 22 gennaio 2018)


Trump: 'USA non prenderanno posizione sulla sovranità e sui confini di Gerusalemme'

Secondo quanto riportato il 20 gennaio dell'agenzia d'informazione ufficiale del Marocco, in una lettera di risposta scritta da Donald Trump al re di Marocco Mohammed VI, il presidente Usa ha affermato che la sovranità di Gerusalemme dipenderà dai risultati delle trattative e che gli Stati Uniti non prenderanno posizione sulla sovranità e sui confini di Gerusalemme.
Donald Trump ha aggiunto che farà di tutto per promuovere il raggiungimento di un accordo di pace durevole tra Israele e Palestina, e che se le due parti raggiungeranno un accordo, lui appoggerà il "piano di due Stati". Il presidente Usa ha infine riconosciuto l'importanza di Gerusalemme per i fedeli ebrei, cristiani e musulmani.

(CRI, 21 gennaio 2018)


Questo conferma che la solenne di dichiarazione di Trump su Gerusalemme capitale all’atto pratico non significa niente. M.C.


Il vicepresidente Usa Pence è giunto in Israele

GERUSALEMME - Il vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, è giunto in Israele, dove sarà in visita fino al 23 gennaio prossimo. Lo riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Durante la sua permanenza, il vicepresidente degli Usa incontrerà il presidente israeliano Reuven Rivlin ed il premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu. Inoltre, a Gerusalemme, Pence terrà un discorso alla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, e visiterà sia Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto, sia il Muro del Pianto.
   La visita di Pence in Israele è la prima di un alto esponente dell'amministrazione Usa dopo il riconoscimento ufficiale di Gerusalemme da parte degli Stati Uniti. L'iniziativa, annunciata dal presidente Trump il 6 dicembre 2017, è, con la lotta al terrorismo, al centro del viaggio di Pence in Medio Oriente. Le due questioni sono state discusse dal vicepresidente degli Usa nelle precedenti tappe del suo tour: al Cairo con il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi ieri, 20 gennaio, e ad Amman durante l'incontro odierno con il re di Giordania, Abdullah II.
   Durante la sua permanenza in Israele, Pence non dovrebbe incontrare esponenti palestinesi. Questi hanno, infatti, deciso di boicottare la visita del vicepresidente degli Usa per protestare contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Washington. Nel pomeriggio di oggi, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha definito Pence un "grande e sincero amico di Israele".
   Inoltre, il premier dello Stato ebraico ha dichiarato che non vi sono alternative alla mediazione degli Stati Uniti nel processo di pace tra Israele e i palestinesi. Netanyahu è sembrato fare riferimento alla decisione unilaterale dell'Autorità nazionale palestinese di non considerare più gli Usa come mediatori per la soluzione del conflitto israelo-palestinese dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Washington.

(Agenzia Nova, 21 gennaio 2018)


La grande menzogna palestinese

di Daniel Greenfield per Frontpage

Il boss palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato recentemente che Israele è "una impresa colonialista che non ha nulla a che fare con l'ebraismo". Mosè, il re Davide e millenni di storia ebraica sarebbero in disaccordo. Israele e gli ebrei sono parte della storia della civiltà umana. Oltre il 50% della razza umana ha un libro sacro che racconta la storia del viaggio ebraico verso Israele. Ciò include anche Maometto e la sua copia personale del Corano. Israele non è una "impresa colonialista". La Palestina lo è.
   Chiunque desideri scoprire da dove venga il nome Israele può aprire il Libro della Genesi, 32:29. La storia appare anche negli hadit islamici. Ma da dove viene realmente "Palestina"?. Palestina non è una parola ebraica o araba. Lo usavano i greci per descrivere la regione e quando i romani e i loro mercenari arabi repressero la popolazione indigena ebraica, la rinominarono Palestina.
   Palestina, a seguito dei filistei: ma perché i greci e i romani chiamarono la regione a seguito dei filistei?
   I filistei erano un popolo marittimo di origine greca i quali avevano originariamente invaso e colonizzato la regione. La resistenza ebraica al colonialismo filisteo è riportata nelle storie di Sansone, del re Saul e del re Davide. Era naturale per le colonie greche e romane con le quali si scontrarono gli ebrei del Secondo Tempio, utilizzare il nome "Palestina", il nome associato con colonie precedenti, per riferirsi alle loro nuove colonie. La seconda fase del colonialismo greco portò a un esteso conflitto tra l'impero persiano e la civiltà greco-romana. I romani fecero un uso esteso dei mercenari e dei governanti arabi per assicurarsi il proprio dominio e reprimere gli ebrei. Uno di loro era Erode, figlio di un padre idumeo e di una madre araba nabatea (secondo lo storico greco Strabone erano entrambi gente araba).
   Il declino e la caduta degli imperi romano e persiano preparò la strada per le conquiste arabe della regione, ma le orde banditesche islamiche non avevano idee originali. La loro religione era un potpourri di giudaismo, cristianesimo, credenze pagane assortite e di fantasie violente di Maometto. Il resto della loro cultura lo presero all'ingrosso dai greci. Questo gioco di idiocrazia storica è giunto con un insieme di colonialisti arabi che si autodefiniscono "palestinesi" e affermano di discendere da…qualcuno.
   In Germania, Abbas ha dichiarato che "la nazione della Palestina, nel corso della sua lunga storia è stata un faro di generosità e il nostro popolo è una estensione della civiltà cananea che dura da 3,500 anni". L'Autorità Palestinese guidata dal non eletto dittatore venne creata nel 1993. Non ci fu mai un paese indipendente prima di allora, e le menti portate alla ricerca amerebbero sapere cosa abbia in comune un gruppo terrorista islamico e i clan arabi che sovraintende con la civiltà cananea. Il fuoco, la ruota? Ma poi Abbas ha anche sottolineato che "Maometto il profeta era palestinese". Secondo la tradizione islamica, Maometto era un arabo del settentrione che veniva dall'Arabia. Gli arabi affermano di discendere da Ismaele e Abramo. Ciò significa che non sono cananei. Un certo numero dei clan arabi che compongono i "palestinesi" hanno la loro origine in Arabia. Per un breve, luminoso momento, Abbas stava dicendo la verità.
   Precedentemente Abbas aveva affermato che anche Gesù era un palestinese. Se state seguendo il filo, ciò significa che i palestinesi sono cananei, arabi e ebrei. Si tratta sicuramente di una affermazione che compendia molte basi storiche. Ma siamo solo all'inizio.
   "La Bibbia afferma, con queste parole, che i palestinesi esistevano prima di Abramo" ha inoltre insistito Abbas. La Bibbia non afferma nulla "con queste parole", ma la gente ha ritenuto che volesse intendere che i palestinesi sono di fatto i filistei. E quindi si è assunto il credito dell'invenzione dell'"alfabeto cananeo-palestinese più di 6,000 anni fa".
   Non esiste un simile alfabeto. L'Autorità Palestinese e i musulmani di Israele usano l'alfabeto arabo il quale ha le proprie origini assai remote nell'alfabeto fenicio proto cananeo. Ma lo stesso vale per il greco, il latino e le lettere che state leggendo in questo momento. Come la maggior parte delle affermazioni del leader "palestinese", si tratta di una affermazione senza senso.
   Nell'arco di pochi anni, Abbas ha affermato che i "palestinesi" discendono dai cananei, i filistei, gli ebrei e gli arabi. Solo l'ultima è vera. I "palestinesi" erano parte dell'ondata degli invasori arabi e islamici le cui incursioni sono continuate anche nell'era moderna.
   Ci sono circa 10,000 "afro-palestinesi" a Gaza. Alcuni sono coloni africani che vennero nel diciannovesimo secolo. La sinistra anti-israeliana vorrebbe fare credere che un musulmano sudanese che si è installato in Israele nel 1800 sia un "palestinese" indigeno, ma un rifugiato ebreo dall'Egitto sia invece un "colono" straniero. Gli arabi musulmani che vivono nell'Israele del '48 e del '67 sono un insieme composto dai vari clan regionali.
   Abbas si è riferito alla Giordania e alla Palestina come a "un popolo che vive in due stati". Il Ministro degli Interni, FathiHammad, una volta ha asserito, "La metà della mia famiglia è egiziana. Siamo tutti così. Più di trenta famiglie nella Striscia di Gaza si chiamano Al Masri (nome egiziano). Metà dei palestinesi sono egiziani e l'altra metà sono sauditi"
   Il più famoso degli Al Masri è un miliardario che vive in una riproduzione di una villa italiana chiamata "La casa della Palestina", il quale recentemente è stato arrestato dai sauditi. Munib Masri è stato un ministro dell'Autorità Palestinese, occupa una posizione nella legislatura e con la sua attività rappresenta da solo un quarto dell'economia "palestinese". La serra che si trova nella sua villa è un regalo di Napoleone III alla sua amante.
   Masri, il cui nome di famiglia ha origine in Egitto, e afferma di essere un palestinese è di fatto un Cittadino saudita il quale vive in una villa italiana importata. Ha fatto la sua fortuna con l'apparato militare americano durante l'operazione Desert Storm. E' quello che si dice un "palestinese". I "palestinesi" sono egiziani, sauditi, giordani, senegalesi, sudanesi e un altro numero di coloni musulmani. Non sono filistei, cananei o ebrei. Sono indigeni quanto lo è "La Casa della Palestina" di Al Masri fatta di marmo italiano importato e riempita di arte europea. I "palestinesi" sono quello che sono sempre stati: una colonia straniera araba dentro Israele. La Grande Bugia della Palestina è che i colonialisti islamici siano la popolazione indigena di Israele e che gli ebrei stiano colonizzando la Palestina. Ma una popolazione indigena non può mai colonizzare il proprio paese.
    "La Palestina" è una fiction colonialista distorta. Il nome riflette la colonizzazione greca della regione e il suo uso da parte dei moderni arabi colonialisti mostra la loro mancanza di un legame storico con Israele.
   Dopo tutto l'agonizzante lamento in merito a un legame "palestinese" profondamente significativo con la "Palestina", non sono ancora riusciti a produrre un loro nome per la regione. Un nome che possano pronunciare correttamente (nell'alfabeto arabo non c'è la "p" in senso proprio). Ma Abbas continua a fabbricare nuove menzogne a proposito dei popoli antichi dai quali i "palestinesi" discenderebbero. Non vedo l'ora in cui affermerà di essere un Cherokee.
   La rivendicazione dei colonialisti "palestinesi" su Israele è una bugia dell'imperialismo islamico. I potentati musulmani della regione hanno sponsorizzato gli attacchi razzisti dell'OLP, Hamas e altri gruppi terroristici islamici contro gli ebrei. I palestinesi non sono le vittime del colonialismo. Sono i suoi perpetratori. La lotta tra Israele e i terroristi islamici è una lotta contro l'imperialismo e il colonialismo. Gli imperialisti non sono l'oppressa minoranza ebraica che è stata cacciata praticamente da ogni altro posto nella regione. E' la maggioranza islamica che reprime le minoranze nella regione.
   "La Palestina" è un patetico tentativo di ripulire un'identità imperiale con un'altra seguito dallo sforzo privo di vergogna di appropriarsi dell'identità di quasi ogni antico popolo nella regione. Ebrei compresi. L'unico modo di porre fine al conflitto è di finirla con le menzogne.

(L'informale, 21 gennaio 2018 - trad. Niram Ferretti)


Le autorità di Singapore vietano un documentario su due giovani attiviste palestinesi

Per la sua 'trama sbilanciata'

Foto pubblicata sulla pagina Facebook del documentario.
Il documentario ''Radiance of Resistance' (La radiosità della resistenza) è stato prodotto nel 2016. Un documentario [en, come i link seguenti], incentrato sulla vita di due attiviste palestinesi adolescenti, è stato vietato dal governo di Singapore perché esplorerebbe il conflitto israelo-palestinese "in modo sbilanciato".
Pubblicato nel 2016, "Radiance of Resistance" (La radiosità della resistenza) è stato diretto dal regista americano Jesse Roberts e avrebbe dovuto essere proiettato in occasione del Festival del Cinema Palestinese di Singapore, durante la prima settimana del gennaio 2018, ma è stato rimosso dal programma dopo che l'IMDA (L'autorità per lo sviluppo di informazione, comunicazione e media) lo ha giudicato "inadatto a tutte le categorie di pubblico".
In base alla sintesi dell'opera, nel documentario si racconta la storia di Ahed al-Tamimi, allora quattordicenne, e della sua amica di nove anni Janna Ayyad:
L'intenzione di questo film era quella di gettare un sguardo intimo sulla vita quotidiana di queste due adolescenti e sulla loro importanza, in quanto nuova generazione di giovani palestinesi che si oppongono alla violenza.
Tamimi fece notizia nel dicembre 2017, quando fu accusata di aver schiaffeggiato un soldato israeliano. Il gesto fu filmato e il video trasmesso in rete diventò subito virale.
Non è chiaro se la decisione dell'IMDA sia stata in parte condizionata dal fatto che si trattasse di un caso di alto profilo, ma nella dichiarazione in cui spiegava la sua decisione di vietare la visione del documentario, l'ente sottolinea che ritiene "provocatoria la trama" del film:
La trama distorta del documentario è provocatoria e potrebbe causare disaccordi tra i rappresentanti delle diverse razze e religioni che vivono a Singapore […]
Presentando le due ragazze come modelli da emulare in un conflitto in corso, il film incita gli attivisti a continuare ad opporsi ai presunti oppressori.
Singapore e Israele hanno buone relazioni bilaterali, anche se Singapore mantiene rapporti amichevoli anche con l'Autorità Nazionale Palestinese. Nel 2017, il Primo Ministro di Singapore, Lee Hsien Loong, ha affermato che il conflitto israelo-palestinese è un "problema emotivo" soprattutto per i musulmani, facendo presente che i vicini di Singapore nel sud-est asiatico hanno popolazioni a maggioranza musulmana e che anche a Singapore vivono molti musulmani. Uno dei principi su cui si fonda Singapore è quello di mirare a creare una società multi-razziale armoniosa.

(Global Voices in italiano, 21 gennaio 2018)


La dura accusa di Revlin: "Hamas usa ospedali e scuole come basi terroristiche"

Il presidente Reuven Rivlin ha visitato oggi il quartier generale della Divisione regionale di Gaza dell'IDF, il nuovo quartiere in costruzione al Kibbutz Nirim e poi ha incontrato circa 250 studenti della Nofei Habesor School.

Il presidente ha detto che Israele rimane in guerra con l'organizzazione terrorista di Hamas che governa la Striscia di Gaza. "La "guerra" non è finita. La missione dello Stato di Israele non è stata completata, stiamo combattendo un'organizzazione terroristica crudele, estremista e omicida, che non riconosce la nostra esistenza e il cui obiettivo è distruggere lo stato di Israele. Un'organizzazione che non tiene conto minimamente del futuro e del benessere del popolo di Gaza. Per Hamas la "riconciliazione" di un tipo o dell'altro è solo un passo verso l'avanzamento della guerra"...

(Italia Israele Today, 21 gennaio 2018)


Di Segni: «Migrazione fuori controllo. Vittorio Emanuele III? Era meglio dove stava prima»

Il rabbino capo di Roma: «Temo nuove ondate d'intolleranza. Mi chiedo: tutti i musulmani che arrivano qui intendono rispettare i nostri diritti e valori? E lo Stato italiano ha la forza di farli rispettare? Devo rispondere due no».

di Aldo Cazzullo

 
- Rabbino Di Segni, lei da 17 anni è il capo religioso della più antica comunità ebraica della diaspora, quella di Roma. Com'era il ghetto quando lei era piccolo, subito dopo la guerra?
  «Pieno di bambini. Papà era pediatra. Volevamo ricominciare, ma la ferita della Shoah era terribile. La razzia del 16 ottobre 1943 fu opera dei tedeschi. Ma poi furono gli italiani a far deportare altri mille ebrei».

- I suoi come si salvarono?
  «Molti si sentivano al sicuro dopo aver versato l'oro ai nazisti. Mio padre Mosè ebbe una perquisizione in casa. Chiamò da un telefono pubblico un amico giornalista che lo mise in allerta. Non tornò nel ghetto, scappò con mia madre Pina a Serripola, una frazione di Sanseverino Marche».

- Anche sua madre era figlia di un rabbino.
  «Nonno era il rabbino di Ruse, la città di Elias Canetti, sul Danubio. Fu salvato da re Boris, che disse a Hitler: gli ebrei bulgari non si toccano. Morì avvelenato, forse per mano nazista. Resistere, però, era possibile».

- Cosa pensa del ritorno delle spoglie di Vittorio Emanuele III?
  «Era meglio se rimaneva dove stava».

- E della beatificazione di Pio XII?
  «Ho studiato la sua storia, e devo ribadire un giudizio severo. Non fece nulla per impedire la deportazione. È vero che poi offrì rifugio a molti perseguitati».

- Suo padre fu partigiano.
  «Medaglia d'argento. Combatté la battaglia più dura il 24 marzo 1944, mentre suo cugino Armando veniva ucciso alle Fosse Ardeatine. Gli altri cugini sono morti ad Auschwitz. Mamma era nascosta in un granaio con mio fratello Elio e mia sorella Frida. Venne il rastrellamento fascista, il prete andò ad avvisare la banda di mio padre, che arrivò appena in tempo. I fascisti scapparono».

- Perché gli ebrei sono il popolo più antico al mondo? Perché sono stati perseguitati ovunque e da tutti?
  «È una scelta del Padreterno: ci ha esposti a ogni rischio, e continua a farlo; e nello stesso tempo ha un impegno con noi per la nostra sopravvivenza. Non lo dico io, lo dicono i profeti».

- Siete il popolo eletto?
  «Non nel senso di una presunta superiorità. L'elezione è una sfida. È una continua messa alla prova. Non ti è consentito quel che è permesso a una persona normale. Sei chiamato a rispettare una disciplina particolare, con tutti i rischi che questo comporta».

- Marx, Freud, Einstein: qual è il segreto dell'intelligenza degli ebrei?
  «Se ti considerano diverso, finirai per comportarti in modo diverso, anche se non sei religioso; e l'evoluzione nasce dalla differenza. Siamo un popolo ricco di eccessi, in positivo e in negativo: ci sono ebrei molto intelligenti, e altri che non lo sono».

- È vero che san Francesco aveva origini ebraiche?
  «Un libro lo afferma, ma non ne sono affatto sicuro. Senza fare paragoni, era ebreo don Lorenzo Milani».

- Lei ha detto: «Abbiamo sempre inventato cose che ci hanno portato via». Cosa intende?
  «Le rivoluzioni del primo '900 sono state fatte da ebrei, poi eliminati scientificamente uno per uno, da Trotzky in giù. In Italia abbiamo avuto Modigliani e Treves, che fece il duello col Duce. Lo diceva già Malaparte: un ebreo può fare la rivoluzione, non comandare».

- Lei ha biasimato l'Italia per aver votato contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. Perché?
  «Perché è il riflesso della tipica posizione cristiana e più ancora musulmana per cui gli ebrei possono essere sottomessi o tollerati, mai sovrani, neppure a casa propria».

- Gerusalemme è anche la casa dei palestinesi.
  «Me ne rendo conto. Ma Gerusalemme capitale non è un'invenzione di Trump. È una questione politica che risale al 1948. È una questione religiosa millenaria. Non dimentichi che i cristiani hanno fatto le crociate, e non per riportare gli ebrei a Gerusalemme: dove arrivavano i crociati, distruggevano le comunità ebraiche».

- Cosa pensa della politica di Netanyahu?
  «Non parlo di politica. Né israeliana, né italiana».

- Esiste ancora l'antisemitismo in Italia?
  «C'è sempre stato, c'è, e ogni tanto riemerge in forme diverse. C'è l'idea religiosa che il popolo ebraico abbia esaurito la sua funzione, e debba vagare ramingo e disperso tra i popoli come punizione per non aver accolto la verità. E ci sono le curve degli stadi che deformano simboli per trasformarli in offese, senza rendersene conto; oppure rendendosene conto benissimo. Colpisce che non ci sia più inibizione a dichiarare simpatie fasciste».

- C'è anche un antisemitismo di sinistra?
  «Certo che c'è».

- Cosa pensa di Lotito?
  «Scusi, ma lei e io ci siamo incontrati qui nella sinagoga di Roma, in una splendida mattina di sole, per parlare di Lotito?».

- E di Papa Francesco?
  «È un Papa che sa ascoltare. Gli ho chiesto di non citare più i farisei come paradigma negativo, visto che l'ebraismo rabbinico deriva da loro; e l'ha fatto. Gli ho chiesto di non cadere nel marcionismo, e mi pare ci stia attento».

- Cos'è il marcionismo?
  «L'idea — cara all'eretico Marcione e tuttora diffusa tra i laici che di religione sanno poco, come Eugenio Scalfari — che esista un Dio dell'Antico Testamento, severo e vendicativo, e un Dio del Nuovo, buono e amorevole. Ma Dio è uno solo. Ed è insieme il Dio dell'amore e il Dio della giustizia. Il Dio che perdona, e il Dio degli eserciti».

- Primo Levi criticò Israele dopo Sabra e Shatila.
  «È vero, anche se la colpa fu di mancata vigilanza, non furono israeliani a massacrare i palestinesi. E comunque Se non ora quando è un libro molto sionista. Persino troppo, là dove si compiace per gli ebrei in armi».

- Lei non ha punti di disaccordo con Papa Francesco?
  «Ne ho molti. Ad esempio il Papa fa passare la domenica come un'invenzione cristiana; ma se voi avete la domenica, è perché noi abbiamo il sabato. Quando Francesco è venuto qui in sinagoga voleva discutere di teologia. Gli ho risposto di no: di teologia ognuno ha la sua, e non la cambia; discutiamo di altro».

- Di migranti?
  «Sui migranti noi ebrei siamo lacerati. La fuga, l'esilio, l'accoglienza fanno parte della nostra storia e della nostra natura. Ma mi chiedo: tutti i musulmani che arrivano qui intendono rispettare i nostri diritti e valori? E lo Stato italiano ha la forza di farli rispettare?».

- Si risponda.
  «Purtroppo devo rispondere due no. Per questo sono preoccupato. L'Europa è nata dopo Auschwitz; non vorrei che finisse con un'altra Auschwitz. Non so chi sarebbero stavolta le vittime. So che la migrazione incontrollata può provocare una reazione di intolleranza; ci andremmo di mezzo anche noi, e forse per primi».

- L'arrivo di migliaia di migranti musulmani è un problema per gli ebrei?
  «Non solo per gli ebrei; per tutti».

- Lei è andato alla moschea di Roma, ma l'imam non è venuto in sinagoga. Come mai?
  «Il rapporto con l'Islam è molto complesso. Ci stiamo lavorando. Al corteo del mese scorso a Milano si sono sentiti slogan in arabo che inneggiavano a Khaybar, la strage di ebrei fatta da Maometto. Ho ricevuto lettere private di scuse da parte di organizzazioni islamiche; non ho sentito parole pubbliche».

- Cos'è per lei il Giorno della Memoria?
  «Una data necessaria. Con rischi da evitare: l'assuefazione, la noia, e alla lunga il rigetto di chi dice: "Non ne posso più di questi che stanno sempre a piangere"».

- Chi è per lei Gesù?
  «Innanzitutto, un ebreo. Conosceva la tradizione ebraica, ha predicato insegnamenti morali in gran parte condivisi dalla tradizione, in parte "eterodossi". Ma per voi è il Messia, il figlio di Dio; per noi non lo è».

- Un falso Messia?
  «Non voglio usare questa espressione. Per noi non è il Messia».

- Cosa pensa delle leggi sulle unioni civili e sul fine vita?
  «Lo Stato fa le leggi che ritiene; i credenti fanno quel che ritengono, spesso dopo averci chiesto consiglio. La sedazione profonda non è un problema; ma l'idratazione e la nutrizione non vanno interrotte. Mai».

- Voi rabbini potete sposarvi.
  «Non possiamo; dobbiamo. Nella nostra visione, un uomo che non si sposa non è pienamente realizzato».

- Come immagina l'aldilà?
  «Non è al centro delle mie preoccupazioni. Noi crediamo che la vita non si fermi qui, in questo mondo, in questa dimensione. Per il resto abbiamo poche informazioni, ma confuse».

- Noi cristiani crediamo alla resurrezione della carne.
  «È un concetto ebraico, l'avete preso da noi. Ma non abbiamo un sistema ultraterreno definito come il vostro, con il Paradiso, il Purgatorio, l'Inferno. C'è l'idea della punizione e del premio; del resto discutiamo da millenni. Voi pensate gli ebrei come un monolito; ma da sempre non facciamo altro che litigare».

- Dunque la lobby ebraica non esiste?
  «In Italia "lobby" ha una connotazione negativa, in America no: è un gruppo di espressione che difende valori e interessi. E noi abbiamo valori e interessi da difendere».

(Corriere della Sera, 21 gennaio 2018)


Italia-Israele, rientra la delegazione. Sotto la lente i modelli di convivenza

Individuate potenziali collaborazioni economiche e accademiche

 
La delegazione ha incontrato i rappresentanti dell'economia e della società
BOLZANO - Bolzano-Nazareth e ritorno. È rientrata nei giorni scorsi la delegazione altoatesina partita alla volta di Israele per incontrare i rappresentanti del mondo politico, economico e della società civile appartenenti sia alla maggioranza ebraica, che alla minoranza araba, oltre il 20% della popolazione totale.
   A prendere parte alla spedizione il senatore e costituzionalista Francesco Palermo, il presidente di Assoimprendìtori Federico Giudiceandrea, il presidente Associazione Palisco Heiner Nìcolussì-Leck, il presidente dell'associazione Antenna Cipmo Alberto Stenico, il ricercatore Eurac Sergiu Constantin e il presidente del Centro italiano per la pace in Medio oriente Janiki Cingoli.
   Dato il forte gap esistente tra le due componenti della popolazione è stato richiesto di conoscere meglio l'esperienza dell'autonomia altoatesina, in particolare per quel che riguarda gli aspetti giuridici, economici e culturali. Di recente le tensioni fra i due gruppi si sono acuite, ripercuotendosi inevitabilmente sulla convivenza.
   Durante la visita la delegazione ha preso parte a una fitta serie di incontri con parlamentari nella Knesset, ebrei ed arabi, sia di maggioranza sia di opposizione, sindaci delle maggiori città arabe come Nazareth, Tayibe e Sakhnìn, rappresentanti realtà economiche quali il Parco tecnologico di Nazareth ed esponenti della società civile impegnati a promuovere la convivenza tra i diversi gruppi. Di particolare rilevanza l'incontro tra l'Ambasciatore Italiano a Tel Aviv, Gianluigi Benedetti e quello dell'Unione europea in Israele Emanuele Giaufret. Tutte esperienze che hanno offerto l'occasione di individuare varie possibilità di cooperazione fra Israele e Bolzano, sia in campo economico che accademico. Ha suscitato interesse la forte spinta della popolazione araba verso il miglioramento delle proprie condizioni di vita, affermandosi in particolare nel campo della medicina e dell'high tech, anche grazie ai finanziamenti stanziati dal Governo per colmare il divario tra i due gruppi.

(Corriere del Trentino, 21 gennaio 2018)


Il bambino ebreo inghiottito dalla ferocia nazista

di Giovanni Telò

Era nato a Genova il 4 febbraio 1937. Si chiamava Claudio De Benedetti, figlio di ebrei, Michele e Sandra Pugliese. La mamma era stata deportata in un campo di sterminio nazista, in Germania. Nel novembre 1943, il piccolo Claudio - 6 anni, in quel periodo - si trovava a Settignano (Firenze) con la zia, quando viene catturato dai tedeschi e trasportato nel carcere del Coroneo, a Trieste. Di Claudio non si è più saputo nulla. E' una vicenda inedita quella che vi sto raccontando, molto particolare, perché riguarda la mia famiglia. A distanza di anni ho pensato di renderla pubblica: la Storia non si può nascondere, né la verità si può tacere.
   In seconde nozze, Michele, che svolgeva l'attività di agente di commercio, sposa una signora di Castel Goffredo, Evelina Ferrari. Nei tragici momenti della Seconda guerra mondiale, entrambi si trasferiscono nel paese mantovano, ritenendolo un luogo più sicuro, rispetto a Genova. Michele si nasconde in diverse abitazioni: ha paura di venire catturato dai tedeschi, come il figlio.
   Questi particolari li ho sempre sentiti raccontare in casa mia, sia perché io sono originario di Castel Goffredo, ma soprattutto perché mia mamma Guglielmina, in quelle drammatiche circostanze, portava da mangiare di nascosto a Michele. Rischiava grosso e, se fosse stata scoperta, sarebbe andata incontro a delle gravi conseguenze. Com'è facile immaginare, la mia famiglia è sempre stata molto amica di Michele ed Evelina, i quali hanno concluso la loro vita con il tormento di non aver più avuto notizie riguardanti il piccolo Claudio. Durante e dopo la guerra, il parroco di Castel Goffredo, monsignor Carlo Calciolari, aveva avviato delle ricerche, ma inutilmente.
   Di recente, per motivi di studio, ho letto i diari di monsignor Calciolari, conservati all'Archivio storico diocesano di Mantova. Tra quelle pagine ho trovato la foto di Claudio. Quando l'ho presa in mano, mi sono sentito avvolto dai brividi, pensando alla sua tragica fine, con tutta probabilità in un Lager, e in pochi istanti ho riannodato i fili della storia che vi ho presentato. Povero Claudio, bambino ebreo, inghiottito nelle tenebre della ferocia nazista.

(Cittadella di Mantova, 21 gennaio 2018)



«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

E giunti a un luogo detto Golgota, che vuol dire «luogo del teschio», gli diedero da bere del vino mescolato con fiele; ma Gesù, assaggiatolo, non volle berne. Poi, dopo averlo crocifisso, spartirono i suoi vestiti, tirando a sorte; e, postisi a sedere, gli facevano la guardia. Al di sopra del capo gli posero scritto il motivo della condanna: Questo è Gesù, il re dei Giudei. Allora furono crocifissi con lui due ladroni, uno a destra e l'altro a sinistra. E quelli che passavano di là, lo ingiuriavano, scotendo il capo e dicendo: «Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi giù dalla croce!» Così pure, i capi dei sacerdoti con gli scribi e gli anziani, beffandosi, dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare sé stesso! Se lui è il re d'Israele, scenda ora giù dalla croce, e noi crederemo in lui. Si è confidato in Dio: lo liberi ora, se lo gradisce, poiché ha detto: "Sono Figlio di Dio"». E nello stesso modo lo insultavano anche i ladroni crocifissi con lui. Dall'ora sesta si fecero tenebre su tutto il paese, fino all'ora nona. E, verso l'ora nona, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lamà sabactàni?» cioè: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Alcuni dei presenti, udito ciò, dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, inzuppatala di aceto, la pose in cima a una canna e gli diede da bere. Ma gli altri dicevano: «Lascia, vediamo se Elia viene a salvarlo». E Gesù, avendo di nuovo gridato con gran voce, rese lo spirito.
Dal Vangelo di Matteo, cap. 27

 


Laura Fontana racconta il suo incontro con la neo senatrice a vita Liliana Segrè

Laura Fontana, responsabile dei progetti alla memoria per il comune di Rimini racconta il suo incontro con #Liliana #Segre: una donna straordinaria che testimoniando l'orrore patito ad Auschwitz è riuscita a cambiare la vita di tante persone.

"Il caso ha voluto che giovedì scorso (18 gennaio), nel momento in cui Liliana Segre, sopravvissuta italiana di Auschwitz, riceveva la telefonata del Presidente Mattarella con la quale le annunciava la nomina a senatrice a vita, io stessi proprio parlando pubblicamente di lei in occasione della mia conferenza per la città di Rimini sul tema delle donne nella Shoah. Nell'ambito del lavoro che molto tempo ho scelto di svolgere per trasmettere la memoria della Shoah sono tante le occasioni in cui cito Liliana. Mi piace ricordarla e ispirarmi, in un certo senso, a lei, non solamente perché la sua, tra altre testimonianze dell'inferno di Auschwitz, racchiude per me tutto il senso dell'attaccamento alla vita anche in condizioni estreme, ma anche per quello che ho imparato nelle diverse conversazioni private che ho avuto il privilegio di condividere con lei nella sua casa di Milano e di Pesaro.
  Conosco Liliana da più di vent'anni e l'incontro con lei è stato uno di quelli che più mi hanno segnato, insieme all'incontro con Shlomo Venezia, perché attraverso il dono della sua testimonianza mi ha insegnato il senso del coraggio, della vita, della determinazione, del dialogo per la costruzione di una cultura fondata sulla pace e sulla solidarietà. Non si sa perché nella vita qualcuno ci scelga tra tante altre persone che incontra. Mi sono chiesta spesso perché Liliana e Shlomo mi abbiano accolto tra le loro persone più care, manifestandomi grande stima e affetto e permettendomi di avvicinarli al di fuori delle occasioni ufficiali, nel privato e nella quotidianità, in modo da ampliare la reciproca conoscenza e il dialogo non solo sul tema della Shoah ma più in generale sul senso della vita.
  La nomina del Presidente della Repubblica di senatrice a vita per Liliana Segre è il giusto riconoscimento per l'impegno che una donna ha svolto, e tuttora svolge, per tenere viva la memoria della Shoah ma anche per parlare, in particolare alle giovani generazioni, del valore della solidarietà e della pace, con parole sempre ferme, misurate, sobrie nel cercare di contenere i confini di un orrore impossibile da raccontare, se non al prezzo di una selezione dei ricordi e per frammenti, ma parole sempre chiare e potenti che non consentono alcun fraintendimento, né lasciano lo spazio per scorciatoie consolanti su quanto è avvenuto.
  Liliana ha sempre tenuto a ricordare che gli ebrei italiani, come gli ebrei europei che hanno subito la Shoah, sono stati condannati a morte per la colpa di essere nati ebrei, sottolineando che il crimine più grande di tutti è stato l'indifferenza. Quell'indifferenza che relegò i cittadini italiani ebrei in un angolo buio, in una trappola da cui molti non uscirono vivi, che vide la famiglia Segre respinta dalla società, cacciata dal proprio posto, denunciata alla frontiera mentre tentava di mettersi in salvo. Indifferenza è il termine che Liliana ha voluto far scolpire a caratteri cubitali sul muro di ingresso del Memoriale della Shoah di Milano , creato nel 2013 sul posto esatto dell'area sottostante il piano dei binari della stazione ferroviaria centrale da dove partirono - esattamente dal binario 21 - da dicembre 1943 a gennaio 1945, una ventina di convogli stipati di ebrei e oppositori politici verso Auschwitz e verso i campi di concentramento in Germania.
  Per Liliana le parole non sono mai stata retorica, d'altronde è una delle poche testimoni che si è sempre tenuta attaccata al suo racconto personale, evitando di sovrapporlo a conoscenze e letture posteriori sui lager e sulla Shoah. Il suo racconto di Auschwitz è una narrazione lucida che assume il valore di impegno politico per una donna che, pur non dimenticando mai la bambina che è stata negli anni dell'umiliazione, dell'esclusione e della prigionia ad Auschwitz e negli altri lager, ha saputo guardare con pietà e umana commozione anche al dramma di altri bambini e adulti perseguitati o cacciati di casa in epoca contemporanea.
  Nel 2015 proprio Liliana ha preso la decisione, accogliendo la sollecitazione della Comunità di Sant'Egidio, di aprire le porte del Memoriale ai rifugiati siriani ed eritrei, offrendo ospitalità e conforto per le ore più fredde della notte, un'attività che prosegue anche oggi, parallelamente alle tante attività di formazione storica e pedagogica che il Memoriale svolge per le scuole e per la collettività. Un gesto concreto che per Liliana ha significato mostrare l'esigenza di rompere l'indifferenza rispetto alla sofferenza degli altri.
  Nata a Milano il 10 settembre 1930 da una famiglia ebrea laica, Liliana Segre cresce con l'amatissimo padre, Alberto e coi nonni paterni, poiché la mamma muore prima del compimento del suo primo anno di età. Con la promulgazione delle leggi razziali dal settembre 1938, l'Italia discrimina i cittadini italiani di origine ebraica, privandoli dei loro diritti e decretando come prima misura l'espulsione da tutte le scuole e università pubbliche degli alunni, studenti e insegnanti ebrei.
  La notizia dell'esclusione dalla scuola segna un trauma indelebile per Liliana e uno spartiacque tra la vita serena di prima e quella densa di preoccupazioni del padre e dei nonni che si avvia da quell'anno; ma soprattutto, nella sua coscienza di bambina rappresenta anche il primo momento in cui capisce di essere ebrea e quali conseguenze questo avrebbe avuto su di sé e sulla sua famiglia: "Non avevo mai sentito parlare di ebraismo quando, una sera di fine estate, mi sentii dire dai miei familiari che non avrei più potuto andare a scuola. - Perché? Cos'ho fatto di male?, chiesi, e intanto mi sentivo colpevole, colpevole di una colpa che mi restava sconosciuta. Solo negli anni capii che la colpa era la colpa di essere nata ebrea: colpa inesistente, paradosso artificiale ma allora spaventosamente reale."
  Liliana ricorda la profonda solitudine e il senso di ingiustizia che la fecero molto soffrire per sentirsi rifiutata dalla scuola pubblica, ma anche segnata a dito dalle altre compagne come "l'ebrea", dimenticata a tutte le feste o esclusa dalle occasioni di svago tipiche dei bambini della sua età.
  L'applicazione delle leggi contro gli ebrei alimenta in Italia un clima generale di indifferenza per le sorti di quella piccola minoranza che da secoli era profondamente integrata nel tessuto sociale, culturale e politico della nazione. Un numero sempre crescente di divieti e di misure persecutorie rende gradualmente molto difficile la vita delle famiglie ebree, principalmente per la perdita del lavoro e l'esclusione sociale, oltre che per sentirsi oggetto di disprezzo e di scherno nella propaganda di Stato che bolla gli ebrei italiani come nemici estranei alla nazione.
  L'8 dicembre 1943, Liliana e suo padre, mentre tentano di sconfinare in Svizzera, vengono respinti dalle guardie di frontiera e consegnati alla polizia italiana che li arresta. Dopo l'esperienza del carcere di San Vittore, dove Liliana viene rinchiusa per 40 giorni in una cella insieme ad una ventina di altre donne ebree di ogni età, il 30 gennaio 1944 è trasferita col padre e seicento altre persone alla stazione centrale di Milano. Da qui viene deportata su un treno merci con destinazione Auschwitz-Birkenau. Pochi mesi dopo, nel giugno 1944, anche i nonni paterni vengono arrestati a Inverigo (Como) dove erano sfollati e deportati ad Auschwitz dove sono uccisi nelle camere a gas.
  All'arrivo al campo, Liliana viene brutalmente separata dal papà che da quel momento non rivedrà mai più e si ritrova sola a superare la selezione per diventare una lavoratrice schiava per il Reich. Non ha nemmeno 14 anni. La sua altezza che la fa sembrare più adulta le consente probabilmente di far credere al medico delle SS che quel giorno ispeziona i deportati appena arrivati per dividerli tra abili al lavoro e inabili da inviare alle camere a gas, che quella ragazzina sia abbastanza grande e forte per poter essere utilizzata come lavoratrice.
  Da quel momento Liliana, tatuata col numero di matricola 75190 viene assegnata al lavoro di operaia nella fabbrica di munizioni della Union (che apparteneva alla Siemens e si trovava nel complesso di oltre 40 campi che componevano la galassia concentrazionaria di Auschwitz); sopporterà da sola mesi di umiliazione, fame, freddo, botte e fatica, vedendo intorno a sé scene di un orrore indicibile. Probabilmente fu proprio la possibilità di lavorare al coperto, evitando di esporsi direttamente al gelo dell'inverno polacco, che le permetterà di resistere un anno intero in quell'inferno. Durante quei lunghissimi dodici mesi nel lager, Liliana supera altre selezioni, ma vede continuamente morire intorno a sé migliaia di persone di ogni età, tra cui bambini e ragazzi giovanissimi.
  Nella giovinezza della sua età e priva di adulti di riferimento che possano aiutarla a capire le regole di quell'inferno che è il campo, Liliana si inventa una sua personale strategia di sopravvivenza: "Io avevo paura di ciò che i miei occhi potevano vedere. Allora avevo scelto un dualismo dentro di me, una sovrapposizione di realtà diverse: ero lì con il mio corpo, che pativa il freddo, la fame e le botte, ma non lo spirito abitavo altrove."
  Mentre il suo quotidiano è scandito dagli ordini, dalla brutalità e dalla disumanizzazione imposta dalle SS, Liliana immagina di essere fuori dal recinto di filo spinato, in un altrove fatto di prati per correre e mari per nuotare, ma soprattutto, in una notte tersa sceglie una stellina nel cielo in cui si identifica: "Io sono quella stellina. Finché la stellina brillerà nel cielo io non morirò, e finché resterò viva io, lei continuerà a brillare."
  Proprio l'episodio della stellina e della sua strategia di resistenza che le permise di attaccarsi alla vita sono stati per me un esempio concreto quando, in un momento di sofferenza della mia vita, ho capito come potevo tentare di superare la prova del dolore e della malattia, cercando di fare astrazione dal corpo e dalla sofferenza fisica e psichica come aveva fatto la giovanissima Liliana. L'ho sentita molto vicina a me, pur consapevole dell'enormità del paragone, ma gliel'ho detto più volte a Liliana che il ricordo della stellina mi aveva molto aiutato e ho voluto ringraziarla anche pubblicamente per avermi donato questo ricordo, in occasione di una delle sue quattro testimonianze tenute a Rimini per gli studenti e gli insegnanti.
  Evacuata con altre migliaia di prigionieri, uomini e donne, dal complesso di Auschwitz verso la metà di gennaio 1945, Liliana Segre viene liberata dall'Armata Rossa, dopo un periplo faticosissimo di spostamenti da un lager all'altro, nel campo di Malchow, sottocampo di Ravensbrück (Germania settentrionale) il 1 maggio. Non ha ancora 15 anni, è una ragazzina scheletrica e sfinita che sembra aver vissuto mille anni tanto si sente vecchia, ma scopre di sentirsi libera dall'odio nel momento in cui rinuncia a prendere una pistola che trova a terra e all'istinto di sparare ad una delle sue guardie.
  Il suo rientro a casa e il lento ritorno alla normalità sono stati segnati, come per tanti altri sopravvissuti, da un clima di generale indifferenza per i racconti della deportazione, dalla vergogna dell'umiliazione patita, dal peso del silenzio per tenersi dentro un dolore troppo grande per poter essere espresso a parole sia coi famigliari che a scuola. Impossibile condividere questi ricordi con le altre adolescenti che Liliana incontra in quel difficile periodo di ritorno alla normalità.
  Pochi anni dopo, Liliana ha la fortuna di incontrare a Pesaro l'amore della sua vita, Alfredo, con cui si sposa ed avrà tre amatissimi figli.
  La città di Pesaro, insieme a quella di Milano, sarà sempre la sua città del cuore, il luogo dove Liliana tuttora trascorre l'estate e parte delle festività dell'anno, anche perché è a Pesaro che è sepolto l'amato Alfredo scomparso qualche anno fa.
  Per quarant'anni, Liliana Segre non ha mai voluto parlare di Auschwitz, ma una volta diventata nonna, dopo un lungo percorso interiore, con la maturità di un'età più avanzata e nella consapevolezza dell'importanza della testimonianza della Shoah, dal 1990 ha rotto il silenzio che si era imposta per proteggersi e ha incominciato a raccontare.
  Da allora Liliana Segre ha incontrato migliaia di studenti in Italia e all'estero, è venuta quattro volte a Rimini a parlare agli studenti e agli insegnanti della nostra città, e a loro ha raccontato la sue sensazioni di bambina in un mondo di adulti in guerra, esortandoli a impegnarsi a fondo per costruirsi una vita fondata sul bene e sulla verità.
  Liliana ama moltissimo la musica classica, è abbonata da più di dieci anni alla Sagra Musicale Malatestiana promossa dal Comune di Rimini e ogni anno a settembre ho la gioia di rivederla ai concerti sinfonici della mia città, sempre bellissima e fiera in un'eleganza innata, eppur sempre sobria, che la fa incedere con l'autorevolezza e il carisma di una regina in mezzo al pubblico.
  Ma io ricordo anche la mia Liliana più privata, la mia Lilli, di inviti a pranzo a casa sua, di messaggini, di libri che mi regala, di lei che mi telefona o mi scrive per chiedermi senza giri di parole cosa ne penso di quel libro o di quell'autore, facendomi sentire sempre importante e intelligente per i consigli che mi chiede. Una volta, in particolare, mi chiamò col suo tono diretto, sempre privo di fronzoli, eppure mai freddo, per dirmi che mi voleva parlare e mi invitava a raggiungerla a Pesaro. Era estate e dopo una mattinata di lavoro, presi un treno e la raggiunsi. Dopo pranzo, tutte e due stese sul divano a riposare e a chiacchierare, mi chiese consiglio per un invito importante che aveva ricevuto all'estero, in cui aveva solo venti minuti a disposizione per poter raccontare qualcosa della sua esperienza, nell'ambito di una tavola rotonda con altre persone in qualche modo salvatesi da tragedie.
  Liliana ha sempre detestato avere vincoli di tempo per parlare, perché sa lei che cosa dire e il tempo necessario per dirlo, non le servono presentatori o commentatori, il suo racconto procede sempre fluido, con inizio e una fine che consentono a tutti di entrare diritti nella sua testimonianza. Quella volta espresse la sua difficoltà e perplessità ad accettare. "Cosa posso dire io in mezzo ad altre persone che hanno vissuto storie completamente diverse e in soli 20 minuti?". Le suggerii, d'istinto, di rovesciare il suo racconto partendo dalla fine, cioè da come si era salvata, lei che si è sempre definita una persona normale, qualsiasi, senza particolari doti o talenti, e di risalire a ritroso per provare a spiegare che cosa le aveva permesso di tenersi attaccata alla vita in un inferno dalle regole incomprensibili. Le consigliai anche di dichiararsi, in quel contesto così particolare, cioè non centrato sull'esperienza della deportazione né della Shoah, una sopravvissuta di Auschwitz ma poi di costruire una testimonianza in cui far emergere che lei, Liliana, era stata capace nella sua vita di essere molto altro, una madre, una moglie, una nonna affettuosa e presente, una donna impegnata, una testimone di pace.
  Ci scambiammo qualche idea per impostare la sua testimonianza, ma sapevo perfettamente che poi Liliana avrebbe fatto di testa sua, come era giusto che fosse. Ma mi fece un immenso piacere quando, settimane dopo, mi fece sapere che quella modalità "aveva funzionato" ed era riuscita anche in un tempo così compresso a dire l'essenziale del suo racconto. Perché come mi ha insegnato un'altra straordinaria donna sopravvissuta ad Auschwitz che ho incontrato, Goti Bauer, una delle sofferenze più intense che vive colui o colei che decide di testimoniare sull'esperienza della Shoah vissuta, è il timore di ridurre il proprio discorso ad uno schema narrativo ripetitivo, ma anche di dimenticare o non poter dire pezzi di verità che per varie ragioni non possono rientrare nella testimonianza pubblica.
  Liliana mi chiama spesso tesorino, si schermisce quando le dico che le voglio bene ma so che me ne vuole tanto anche lei. Quando le invio il programma di Attività di Educazione alla Memoria che curo per Rimini, è lei la prima persona che, dopo pochissimi minuti, risponde via mail con un messaggio di apprezzamento, di lode per il lavoro svolto e soprattutto di incoraggiamento. Liliana mi fa sentire migliore anche quando sento la fatica di lavorare su un tema così importante e complesso, mi sprona a non commiserarmi nelle difficoltà quando nei suoi discorsi pubblici ricorda il valore della vita e termina la sua testimonianza dicendo sempre ai ragazzi "Non dite mai non ce la faccio più, perché il corpo umano e la mente sono talmente forti e straordinari da riuscire a compiere autentici miracoli".
  Mi piace di lei anche la sua ostinata volontà a non lasciarsi usare come testimone, ma a decidere lei come e quando essere anche una testimone. Liliana non si fa fotografare col tatuaggio sul braccio, non mostra nessuna immagine d'epoca, non vuole compiacere un certo voyeurismo che scruta il sopravvissuto cercando prove tangibili di ciò che racconta, è tra i pochi reduci ebrei italiani che non ha mai voluto tornare ad Auschwitz, perché dice che non ha bisogno e non vuole rivedere quel luogo, Auschwitz ce l'ha scolpito nei suoi ricordi più dolorosi.
  Alla stampa che in queste ore le ha chiesto quale fosse la sua reazione nell'apprendere la notizia della nomina di senatrice a vita, Liliana ha risposto: "Non posso darmi altra importanza che quella di essere un araldo, una persona che racconta ciò di cui è stata testimone. Sono una donna di pace, una donna libera: la prima libertà è quella dall'odio." Pur rivendicando sempre la sua normalità di essere e sentirsi "una qualunque", respingendo quindi ogni tentativo di fare di lei un'eroina su un piedistallo, Liliana costituisce un esempio di altissimo livello morale e di coerenza, una donna straordinariamente combattiva che a 87 anni avrà ancora tanto da insegnare a me e a tutti coloro che avranno l'immenso privilegio di ascoltare le sue parole.

(ChiamamiCittà, 21 gennaio 2018)


Il Giro d'Italia allarga i confini: al via una squadra israeliana

Assegnate le wild card, ci sarà anche la Israe] Cycling Academy guidata dallo scalatore Gebremedhin.

di Marco Bonarrigo

Tre team azzurri sorridono, uno piange. Ma la vera novità (e la grande festa) legata alla distribuzione delle wild card del Giro d'Italia 2018 è il debutto nel ciclismo mondiale dello stato di Israele. Rcs Sport, organizzatrice della corsa rosa, ieri sera ha assegnato i quattro pass ai team di seconda fascia (Professional Continental) che vanno ad aggiungersi a quelli dei 18 sodalizi World Tour iscritti di diritto, in base al regolamento Uci per le corse di tre settimane. Al Giro numero 101 che partirà il prossimo 4 maggio da Gerusalemme ci saranno anche otto atleti di Israel Cycling Academy, squadra fondata nel 2014 per concretizzare la grande passione ciclistica nello stato medio-orientale e diventata oggi una piccola multinazionale delle due ruote con i suoi 24 atleti di 16 diverse nazioni e 4 differenti religioni.
   Nata fondamentalmente come squadra locale, Israel Cycling Academy ha via via acquisito alcuni corridori di spessore come il norvegese Boasson Hagen, il belga Pauwels e l'italiano Sbaragli, che dovrebbero essere nella selezione per la corsa rosa. Tra gli obbiettivi e la filosofia del team (che tre anni fa selezionò i corridori con una bando di reclutamento su Facebook e tre giorni di test sulle colline del Lago di Garda) c'è quello di dare la possibilità di intraprendere la carriera di professionista anche a chi vive e si allena in territori lontanissimi dal cuore politico e culturale del ciclismo e a poche occasioni di mettersi in mostra. La settimana scorsa la squadra ha ingaggiato, tra gli altri, il 26enne eritreo, rifugiato politico, Awet Gebremedhin, uno scalatore di ottimo livello che molto probabilmente farà parte della team per il Giro. Awet aveva ormai perso ogni speranza di trovare lavoro nel mondo delle due ruote. Quello degli israeliani non è un invito isolato: la squadra potrà partecipare anche alla Tirreno-Adriatico e alla Milano-Sanremo assieme ai russi della Gazprom. Sul sito del team ieri sera campeggiava la scritta: «Siamo nella storia dello sport».
   Nel distribuire gli altri tre pass, gli organizzatori del Giro hanno privilegiato, come del resto fa da sempre anche il Tour de France, il ciclismo nostrano confermando due delle tre scelte del 2017 (Bardiani Csf e Wilier Triestina) e riammettendo dopo due anni di sosta l'Androni Giocattoli diretta da Gianni Savio. L'emiliana Bardiani, come sempre, schiererà in gara solo atleti azzurri. Unico team azzurro fuori dai giochi l'abruzzese Nippo Fantini, già esclusa nel 2017, che però potrà consolarsi disputando tutte le corse World Tour italiane: Strade Bianche, Tirreno-Adriatico e Milano-Sanremo. Gli inviti al Giro di Lombardia, l'altro «monumento» del ciclismo sulle strade italiane, verranno assegnati dopo aver valutato il rendimento delle squadre nella prima parte della stagione.

(Corriere della Sera, 21 gennaio 2018)


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Giro d’Italia. «Un momento storico per Israele»

Grande gioia in casa della Israel Cycling Academy

«Un momento storico per lo sport israeliano e un grande onore»: così, la prima squadra israeliana di formazione professionale, Israel Cycling Academy, ha accolto l'invito a partecipare al Giro d'Italia che partirà da Gerusalemme il 4 maggio.
«Israel Cycling Academy ha meritato questa selezione allestendo eccellente team, rafforzato dall'arrivo di corridori che hanno già vinto tappe in due dei tre Grand Tour - ha dichiarato il co-proprietario della squadra Sylvan Adams, che è anche il Presidente onorario della "Grande partenza" del Giro -. Ora puntiamo ad una vittoria di tappa al Giro e a conquistare almeno per un giorno la maglia rosa. E desideriamo ringraziare RCS per questa opportunità».
Il fondatore della squadra e co-proprietario Ron Baron ha sottolineato l'importanza della wildcard per il Giro, sia per Israele che per il ciclismo israeliano. «Il nostro sogno, quasi impensabile solo tre anni fa quando abbiamo fondato la squadra, si sta avverando. Una squadra di professionisti con corridori israeliani al fianco di grandi campioni internazionali. Invito tutti i nostri fan in Israele e in tutto il mondo a sostenere la squadra in questo momento storico».
Il campione israeliano su strada Roy Goldstein ha dichiarato: «Nessun corridore israeliano ha mai gareggiato in un Grand Tour, quindi per noi è davvero un sogno incredibile. È la nostra occasione per salire sul più grande palcoscenico del mondo del ciclismo e urlare: "Ci siamo!"

(tuttobiciweb.it, 20 gennaio 2018)


Alta velocità, al via la tratta Gerusalemme -Tel Aviv

di Andrew Sharp

Il ministro dei trasporti Yisrael Katz in uno dei cinque tunnel scavati per ospitare il primo treno elettrico ad alta velocità da Gerusalemme a Tel Aviv
La linea ferroviaria ad alta velocità Gerusalemme-Tel Aviv aprirà il 30 marzo 2018. Il collegamento dovrebbe ridurre di oltre la metà il tempo di percorrenza tra le città, diminuendo il viaggio di 56 km dagli attuali 70 minuti di autobus a 28 minuti con un treno che viaggia fino a 160 km / h.
Inizialmente, il treno passerà ogni trenta minuti tra la stazione di Binyenei Ha'uma di fronte alla stazione centrale degli autobus di Gerusalemme e la stazione ferroviaria Hagana di Tel Aviv, con una fermata all'aeroporto di Ben-Gurion.
Dopo alcuni mesi, la frequenza verrà aumentata a tre treni ogni ora, con la possibilità di aggiungere capacità durante l'ora di punta a sei treni ogni ora.
La nuova stazione di Binyenei Ha'uma - che prenderà il nome dell'ex presidente Yitzhak Navon - è stata costruita ad una profondità di oltre 80 metri sottoterra, quindi potrebbe richiedere fino a 15 minuti per entrare nell'edificio, passare attraverso la sicurezza e scendere più ascensori o scale mobili prima di salire sul treno.
Il treno deve utilizzare una stazione molto al di sotto del livello del suolo a Gerusalemme per compensare la differenza di altitudine tra questa e Tel Aviv, sulla costa.
La nuova stazione da 70.000 m2 fungerà anche da rifugio antiaereo. Può ospitare comodamente circa 4.000 passeggeri alla volta.
Il ministero dei trasporti prevede che la ferrovia ad alta velocità vedrà circa quattro milioni di viaggi passeggeri nel primo anno. I costi di costruzione hanno totalizzato un NIS 7b stimato, ovvero circa $ 2b.
Come la maggior parte dei trasporti pubblici in Israele, il treno non opererà durante lo Shabbat e le festività ebraiche.

(Travel for business, 19 gennaio 2018)


Trump: "Trasferiremo l'ambasciata a Gerusalemme entro il 2019"

La decisione statunitense sembra ormai già avviata: il Tycoon si propone ora di rispettare il termine del 2019 per il trasferimento dell'ambasciata statunitense alla riconosciuta capitale d'Israele, anche per la motivazione (di facciata) di utilizzare le strutture consolari già esistenti a Arnona.
Al contrario dei tempi stimati dal segretario Tillerson, che aveva ponderato tre o quattro anni, anche per diluire nel tempo una decisione così spinosa, Trump, forse convinto da Jared Kushner e dall'ambasciatore Friedman, e - soprattutto- dallo stesso premier israeliano Netanyahu, annuncia invece che entro il prossimo anno la famosa ambasciata sarà spostata da Tel Aviv a Gerusalemme.
Sarebbe stato infatti il premier israeliano Netanyahu a indurre Trump a un'accelerazione per la decisione, mentre il premier palestinese Abu Mazen incontrerà lunedì prossimo a Bruxelles, il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, e i ministri degli Esteri dell'UE. Il premier premerà affinché lo stato palestinese venga riconosciuto.
Washington starebbe per presentare il piano di pace, elaborato dal genero del presidente Jared Kushner, da pubblicarsi tra qualche settimana. Probabilmente si coinvolgerà l'Arabia Saudita, che dovrebbe indurre i palestinesi ad accettare il trasferimento. Impresa senz'altro ardua e rischiosa.
Il leader palestinese Abu Mazen ha però reagito che non negozierà più con gli USA, ostinato, a quanto pare, a non accettare la decisione di Trump; il Tycoon ha allora annunciato che dimezzerà i finanziamenti dell'ONU ai profughi palestinesi.
Tagliente la risposta di Netanyahu: "se Abu Mazen non vuole che gli USA facciano da intermediari, allora non vuole la pace."

(Ticinolive, 20 gennaio 2018)


Ebrei tedeschi spiati dagli iraniani. Berlino sottomessa agli ayatollah

Torna l'antisemitismo islamico in Germania. Sinagoghe sotto la sorveglianza degli 007 sciiti. Ma la Merkel non osa rompere con Teheran per timore di subire ripercussioni commerciali

di Daniel Mosseri

 
A Berlino i musulmani sfilano con i ritratti di Khomein! per chiedere la distruzione di Israele
Antisemitismo e odio per Israele, sicurezza delle comunità ebraiche e relazioni con l'Iran. Nel giro di poche ore Berlino è diventata una fonte senza fine di notizie legate a questi temi.
   La prima, la più clamorosa: agenti iraniani hanno attivamente spiato le organizzazioni ebraiche a Berlino. Lo ha rivelato Focus, dopo che sotto indicazioni dell'intelligence tedesca, la procura federale ha disposto la perquisizione di una serie di appartamenti legati a dieci agenti della Repubblica islamica attivi in Germania.
   Fra gli obiettivi delle spie iraniane ci sarebbero anche la filiale di Alexanderplatz (a Berlino est) di una comunità ebraica ortodossa, il giovane rabbino che la anima, ma anche alcuni circoli sportivi ebraici fra i quali il Makkabi Berlin. Secondo quanto riferito da Spiegel, una settimana fa il ministero degli Esteri tedesco ha protestato con il governo di Teheran, accusandolo di spionaggio. Sorvegliato speciale anche Reinhold Robbe, ex deputato socialdemocratico, incaricato dal partito di seguire le questioni militari, finito nel mirino degli iraniani per i suoi stretti rapporti con Israele.
   Non è un mistero che lo scorso ottobre Berlino abbia firmato un accordo milionario con Gerusalemme per la fornitura di tre sommergibili Dolphin prodotti dalla ThyssenKrupp. L'Iran, che da anni inneggia alla distruzione dello Stato ebraico, sostiene attivamente con finanziamenti e armi tutti i peggiori nemici di Israele: dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah, ai terroristi sunniti di Hamas. Perciò, nel gioco delle relazioni internazionali, gli agenti iraniani in Germania cercano di saperne di più sugli scambi di materiale militare fra Berlino e Gerusalemme. È invece del tutto contrario a ogni logica di buon senso, e pericoloso, che le spie degli ayatollah si insinuino all'interno della comunità ebraica tedesca.
   Le pessime frequentazioni degli ayatollah hanno messo in allarme il Consiglio centrale degli ebrei, il cui presidente Josef Schuster, ha dichiarato che «ancora una volta» la Repubblica islamica ha dimostrato di voler mettere in pratica i suoi atteggiamenti antiisraeliani e antisemiti anche al di fuori dei suoi confini nazionali. Denunciando «la chiara motivazione antiebraica» delle spiate iraniane, Schuster ha chiesto che le azioni di Teheran «non restino impunite». Al governo tedesco, il presidente delle comunità ebraiche ha chiesto di «riconsiderare le sue relazioni con l'Iran, il maggiore finanziatore del terrorismo al mondo e uno Stato che nega l'Olocausto».
   Difficile che Merkel e suoi alleati socialdemocratici diano ascolto a Schuster: negli scorsi anni, la Germania è stata fra le più solerti sostenitrici dell'accordo sul nucleare iraniano. Accordo che, voluto da Barack Obama e criticato ma non denunciato da Donald Trump, ha permesso lo sdoganamento del regime degli ayatollah e il ritorno degli investitori occidentali, tedeschi e italiani in primis, in Persia.
   È una Germania un po' strabica, che stringe la mano agli ayatollah da un lato e si batte il petto per lo sterminio degli ebrei dall'altro. Risale appena a giovedì un lungo dibattito al Bundestag su antisemitismo e odio per Israele.
   A Berlino come a Milano le dichiarazioni di Trump secondo cui è giusto riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele sono state accolte da manifestazioni di giovani islamici. In un tripudio di bandiere turche e di Hezbollah, anziché inneggiare alla pace in Medio Oriente, decine di giovani barbuti hanno cantato inni di guerra, ricordato l'invasione da parte di Maometto dell'oasi ebraica di Khaybar nel 628 d.C. e minacciato gli ebrei. Gesti che, uniti a una generale recrudescenza dei fenomeni di antisemitismo e antisionismo in tutta la Germania, con pestaggi di ebrei nella metropolitana e minacce davanti ai ristoranti israeliani, hanno spinto i partiti politici a una riflessione.
   È stato il capogruppo Cdu Volker Kauder a ricordare che «noi tedeschi abbiamo una responsabilità speciale e dobbiamo assicurarci che l'antisemitismo non aumenti». Kauder ha anche ricordato che l'odio per gli ebrei (antisemitismo) e per il loro Stato (antisionismo) non è più monopolio dell'estrema destra «ma cresce fra gli immigrati del Medio Oriente, una regione in cui l'odio per Israele è all'ordine del giorno». E, con riferimento alle recenti scene di violenza sotto la Porta di Brandeburgo, ha concluso: «Da noi in Germania la bandiera israeliana ha un significato importante, e non possiamo permettere che venga bruciata».
   La mozione trasversale che chiede l'istituzione di un Commissario speciale contro l'odio antiebraico è stata approvata a grande maggioranza dai deputati, compresi quelli dell'AID. L'unico partito astenuto è stata la Linke (social-comunisti), i cui dirigenti hanno protestato per non essere stati invitati a firmare la mozione dagli altri proponenti.

(Libero, 20 gennaio 2018)


Incompatibilità con gli antisemiti

La Germania pensa a una legge per espellere "chi non accetta gli ebrei"

In Germania l'alleanza conservatrice guidata da Angela Merkel annuncia di voler rafforzare le leggi contro l'antisemitismo che alligna tra gli immigrati. Tra le misure a cui si pensa, c'è anche la deportazione fuori dal paese. La bozza di legge vista dal giornale Die Welt dice che "l'accettazione assoluta della vita degli ebrei" è un requisito minimo per l'integrazione e che coloro che "rifiutano la vita degli ebrei in Germania e che mettono in dubbio il diritto a esistere di Israele non hanno posto nel nostro paese".
   La proposta di legge è stata pensata dopo le manifestazioni di piazza contro la decisione dell'Amministrazione Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme - un annuncio che non fa che ratificare una linea politica accettata dagli ultimi quattro presidenti americani, tutti d'accordo nel sostenere che la capitale di Israele è Gerusalemme. Durante le proteste in Germania si sono sentiti cori antisemiti e sono state bruciate bandiere dello stato di Israele, come del resto è accaduto anche a Milano, in Italia. Forse perché i tedeschi hanno un ricordo più vivo dell'antisemitismo, avanzano ora una proposta che è esplicitamente diretta, come dice il vice presidente del gruppo Csu- Cdu Stephan Harbarth, "agli immigrati dai paesi africani con un background arabo" - che sono cresciuti in un clima di antisemitismo storico. La Germania, che pure ha accettato di accogliere un milione di rifugiati siriani, riconosce per prima che c'è un problema di incompatibilità: se pensi che gli ebrei non possano vivere nella tua società, allora non puoi vivere in questa società.

(Il Foglio, 20 gennaio 2018)


Liliana Segre nominata senatrice a vita

La decisione di Mattarella. Sopravvissuta alla Shoah, ha 87 anni. La comunità ebraica: commossi.

di Marzio Breda e Paola D'Amico

Liliana Segre
«Aspetti un attimo, dottor Zampetti. Mi dia il tempo di chiedere una sedia alle commesse del negozio dove sono appena entrata e di tirare il fiato. Ripeta tutto, per favore, perché queste sono notizie che a una certa età creano un'emozione così forte da far quasi male».
   Così si è sentito dire il segretario generale del Quirinale, l'altro ieri, quando ha raggiunto al cellulare Liliana Segre, a Milano. Doveva sondare la sua disponibilità alla nomina a senatrice a vita decisa dal presidente della Repubblica, e all'altro capo del filo percepiva una persona confusa e stupita. Gli stessi sentimenti, non ancora metabolizzati, che ha avvertito Sergio Mattarella ventiquattr'ore più tardi, al telefono con lei. Poche parole, e stavolta a ringraziare è stato soprattutto lui: «Sono felice che abbia accettato, signora. L'ingresso in Senato di una persona con la sua storia e la sua forza morale avrà un significato importante per l'Italia».
   Si riparleranno giovedì prossimo sul Colle, dove si svolgeranno le celebrazioni solenni del «Giorno della Memoria» e dove Liliana Segre sarà interrogata da un gruppo di ragazzi. Racconterà la propria esperienza di ebrea italiana perseguitata in patria, internata in un lager nazista e sopravvissuta. Una parabola drammatica, con un esito miracoloso che toccò a pochi. A ottant'anni dalle leggi razziali imposte dal fascismo, il capo dello Stato voleva che a qualcuno tra gli ultimi testimoni di una così grande tragedia andasse il massimo tributo delle istituzioni. Dimostrando che la Repubblica è anche «fonte di onori». In questo caso, il più grande degli onori.
   Il principale criterio di selezione è stato dunque questo. E, dopo il referendum costituzionale di un anno fa - che ha evitato una mezza eclissi su Palazzo Madama che avrebbe stravolto anche l'articolo 59 della Costituzione, quello appunto sui senatori a vita-, al Quirinale hanno cominciato a pensarci. Mattarella, del resto, è sensibilissimo sulla questione ebraica e sull'Olocausto. Da sempre. Basta ricordare che nelle ore immediatamente successive alla sua elezione, il 31 gennaio 2015, prima ancora di giurare in Parlamento, volle visitare in solitudine le Fosse Ardeatine.
   Per lui, poi, il laticlavio senatoriale doveva andare a una figura in grado di rappresentare un unicum, rispetto ai campi delle virtù civili più spesso scremati dallo staff del Quirinale. Una personalità la cui testimonianza riverberasse magari il significato di due idee guida del suo ultimo discorso di Capodanno agli italiani: memoria e futuro.
   In Liliana Segre tutto si tiene, di questo profilo. Ecco perché il presidente l'ha scelta, pur senza averla mai incontrata. Gli è stato sufficiente soppesare il suo continuo, enorme impegno a raccontare e spiegare «dal vivo», e specialmente ai giovani, ciò che è stata la Shoah. Insomma: in una fase storica come la nostra, di disinvolte smemoratezze e amnesie sovrapposte a un'ignoranza diffusa, ha voluto rendere onore alla pedagogia civile di questa ultima testimone. Ieri la presidente delle comunità ebraiche Noemi Di Segni lo ha ringraziato: «Siamo commossi».

(Corriere della Sera, 20 gennaio 2018)


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Una senatrice e i sommersi dal negazionismo

La magnifica nomina di Liliana Segre, volto dell'Olocausto italiano

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ieri ha nominato senatrice a vita Liliana Segre, per "aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale". Dei 776 bambini italiani che vennero deportati ad Auschwitz, Liliana Segre fu tra i soli venticinque che tornarono indietro. Il padre e i nonni vennero uccisi all'arrivo nel campo di sterminio. Per quarant'anni si è rifiutata, come tanti altri che si sono salvati, di parlare di quello che le era successo. Poi l'urgenza di non smettere più. Da molti anni, assieme a Shlomo Venezia, la signora Segre è diventata il volto dei sopravvissuti italiani all'Olocausto. Mattarella sa bene che stiamo attraversando un periodo, ormai piuttosto e purtroppo lungo, di acceso e aperto negazionismo dell'Olocausto, di banalizzazione della sua memoria e di feroce antisemitismo di ritorno. Aveva tredici anni Liliana Segre quando fu deportata e non sapeva ancora che essere ebrea, anche se italiana, fosse una colpa. Oggi è di nuovo una colpa essere ebrei in Europa. Per questo la nomina di Liliana Segre ha un grande valore, oltre che politico, anche morale. Fra una settimana si celebrerà la Giornata internazionale di ricordo della strage dei sei milioni di ebrei europei. Una ricorrenza che rischia da tempo di incartarsi in un rito della memoria, stanco e senza più richiami nella società né significato politico. Il Senato italiano che accoglie Liliana Segre gliene restituisce un po'. Il viaggio di Liliana Segre non è ancora finito.

(Il Foglio, 20 gennaio 2018)


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Liliana Segre senatrice a vita, la sua nomina è una buona notizia. Ma non illudiamoci

di Barbara Pontecorvo

Si può discutere sulla previsione costituzionale delle nomine di senatori a vita per capire se essa sia o meno un esempio di democrazia e se la proposta di riforma avanzata da Matteo Renzi di restringerla abbia senso. Tuttavia, questa disciplina oggi riceve una luce insperata, comunque meritata, da questa nomina, anche se con qualche condizione.
   I lapsus istituzionali sono frequenti quasi quanto quelli domestici e, probabilmente, i danni che provocano sono suppergiù i medesimi. Sia a livello istituzionale che a livello domestico si apprende puntualmente di 'celebrazioni' collegate alla Shoà, ma qualsiasi persona intelligente capisce, o dovrebbe capire, che non c'è proprio nulla da celebrare, e sarebbe bene che le istituzioni espungessero questo inquietante lapsus.
   Liliana Segre doveva riparare in Svizzera col padre (era orfana di madre) ma fu respinta. Gli ebrei italiani erano pochissimi, e la patria, come diceva Orson Welles, dell'orologio a cucù non ne avrebbe ricavato danno alcuno da questa immigrazione. Ciò che c'è stato prima del respingimento e ciò che vi fu dopo fanno parte del caveat che dovrebbe circondare come un alone protettivo questa nomina presidenziale.
   Prima dell'arresto, Liliana Segre, che aveva otto anni al momento delle leggi razziali, fu cacciata dalla scuola perché ebrea, ma non avrebbe potuto comunque entrare in una biblioteca, andare in spiaggia, avere un apparecchio radiofonico. Nei negozi si leggeva: "Vietato l'ingresso agli ebrei", "Negozio ariano" e "Vietato l'ingresso ai giudei e ai cani". Un tipografo ebreo annotava: "Niente carte annonarie per prelevare latte e cibi d'ogni sorta, niente sigarette, niente buoni per prelevare (a pagamento) indumenti o vestiario di qualsiasi tipo. Insomma si doveva crepare di inedia!".
   Il dopo arresto comporta il viaggio per Auschwitz, e qui bisogna dire che Liliana Segre è una miracolata, perché la sopravvivenza era una rara eccezione. Chi stava là dentro sapeva che ogni giorno c'era un maledetto congegno che lo avrebbe potuto mandare al gas e al crematorio, e che era solo questione di tempo. Il caveat dovrebbe essere quello di non continuare la persecuzione contro gli ebrei nel 2018 giocando con i concetti di apartheid e di nazismo, perché fare lo sciocco e troppo facile, ma la qualifica di sciocco, per quanto antipatica, non esenta da responsabilità in alcun ambito. Se non si sarà capaci di farlo, vorrà dire che questa nomina sarà stata vana e che la nostra società avrà smarrito, assieme alla consuetudine al ragionamento, ogni reattività, e questo sarebbe un danno non soltanto per gli ebrei. Non ci illudiamo, non illudetevi.

(il Fatto Quotidiano - blog, 20 gennaio 2018)


Ristabilite le relazioni tra Israele e Giordania

Israele e Giordania hanno raggiunto ieri un accordo che mette fine alle tensioni diplomatiche nate l'estate scorsa in seguito a un incidente avvenuto all'interno dell'ambasciata israeliana ad Amman, nel quale furono uccisi due cittadini giordani. Lo ha fatto sapere il ministero degli esteri israeliano secondo cui l'ambasciata ad Amman «tornerà immediatamente alla sua piena attività». Israele - si legge in un comunicato - «conferisce grande importanza alle sue relazioni strategiche con la Giordania e i due paesi agiranno per far avanzare la loro cooperazione, in modo da rafforzare il trattato di pace». Israele ha presentato ufficialmente le sue scuse ad Amman per l'uccisione dei due giordani, offrendo indennizzi alle famiglie.
   Sull'incidente, che ha provocato una crisi nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi alleati, ancora non è stata fatta piena chiarezza. Secondo le ultime ricostruzioni dei media, il 23 luglio 2017 una guardia di sicurezza uccise un cittadino giordano che si era recato all'interno dell'ambasciata israeliana ad Amman per montare un mobile. Stando alla versione della guardia, l'uomo l'aveva colpito con un cacciavite. Anche un secondo giordano era stato ucciso, in apparenza per un errore .. Le indagini, tuttavia, sono ancora in corso.
   Secondo quanto riferito dal portavoce del governo giordano, Mohammed Momani, è arrivata una nota ufficiale dal ministero degli esteri israeliano «in cui si esprime il forte dispiacere del governo e il rammarico per l'incidente all'ambasciata israeliana». Inoltre, si promette di fare la massima chiarezza su quanto accaduto.

(Avvenire, 19 gennaio 2018)


Amazon in Israele

 
Amazon continua a fare progressi nei suoi piani di inserimento nel mercato israeliano. Oltre alla creazione di un centro logistico in Israele, fonti interne al quotidiano economico "Globes" riportano che i rappresentanti di Amazon hanno visitato il Paese negli ultimi mesi, e contattato anche i principali fornitori di prodotti, comprese le maggiori compagnie alimentari anche se questo settore inizialmente non rientrera' fra le priorita' strategiche. Per quanto noto, in questa fase, Amazon sta prendendo in considerazione i settori della moda e del tessile, libri, articoli multimediali e prodotti elettronici fabbricati in Israele poiche' si tratta di prodotti con una lunga durata e senza date di scadenza.
   D'altra parte, sebbene Amazon abbia una forte presenza mondiale nel settore alimentare, soprattutto dopo aver acquisito la catena di supermercati Whole Foods, Israele non e' ancora nei piani, almeno del prossimo futuro, in ragione delle caratteristiche speciali dell'economia israeliana nel settore agroalimentare. Uno degli ostacoli in questo specifico mercato locale, infatti, è rappresentato dalla necessità di creare una catena di approvvigionamento con sistemi di refrigerazione complessa, di lunga durata e costosa. A cio' si aggiungono tutti i requisiti richiesti dalla kashrut. Il nome di Amazon, comunque, e' già stato associato al centro logistico gigante di Teva Pharmaceutical Industries Ltd. di Shoham, nel momento in cui la piu' importante azienda farmaceutica attraversa una fase congiunturale negativa e potrebbe essere interessata alla vendita.
   Commentando i piani di Amazon, un fornitore israeliano ha detto a "Globes", "Non ci hanno ancora contattato, ma se Amazon ci chiama, risponderemo sì", aggiungendo, "oltre alle fusioni e acquisizioni nel retail locale, la forza che i dettaglianti israeliani esercitano sui fornitori sta generando una forte pressione". Recentemente è stato riferito che Amazon stava valutando e studiando le abitudini di acquisto dei consumatori israeliani e le pratiche prevalenti di logistica e distribuzione in Israele.
   Parallelamente le azioni delle società proprietarie di centri commerciali segnalano perdite. Il mercato dell'e-commerce in Israele è cresciuto del 25% l'anno negli ultimi tre anni, e ora è stimato in 7 miliardi di NIS (poco meno di 2 miliardi di Euro), pari al 6% del totale del mercato al dettaglio israeliano, secondo le stime della Israelian Insurance Company. Le vendite online di Shufersal Ltd. , la più grande catena di supermercati al dettaglio, sono già aumentate oltre l'11% delle vendite totali dell'azienda. Una caratteristica importante del mercato online israeliano è il volume considerevole di acquisti dall'estero, che è cresciuto a causa dell'offerta inadeguata nel mercato locale. Al momento, gli acquisti dall'estero costituiscono il 40% del mercato al dettaglio online e vi è una grande variazione nella proporzione tra le varie categorie.
   L'interesse di Amazon per l'apertura di un centro logistico in Israele, che è stato segnalato due mesi fa, ha avuto un impatto negativo sui prezzi delle azioni delle principali società di centri commerciali. Ad esempio, il prezzo delle azioni di Melisron Ltd. è sceso del 13%, quello di Azrieli Group Ltd. del 6,5% e quello di Big Shopping Centers Ltd. del 10,5 %, in un momento in cui l'indice Tel Aviv 35 era in piena espansione, con un aumento del 6,5% negli ultimi due mesi e l'indice immobiliare in crescita dell'1% durante questo periodo. Un simile passo compiuto da uno dei giganti online internazionali costituisce un potenziale terremoto nel mercato al dettaglio locale in Israele. Il potere di Amazon, che ha un giro di affari da $ 624 miliardi a Wall Street, è ben oltre qualsiasi cosa conosciuta nel mercato locale e sta minacciando l'ordine stabilito, portando tutti i giocatori nel mercato al dettaglio non alimentare a guardare al futuro con preoccupazione.
   Oltre ai piani di sviluppo di vendita on line in Israele, Amazon impiega attualmente centinaia di lavoratori in Israele in diversi settori: sviluppo di chip per i suoi server cloud, assistenza virtuale, sviluppo della tecnologia per il negozio Amazon Go, che opera senza contatori di cassa e computer vision. Come se non bastasse, si mormora che Amazon offra stipendi agli sviluppatori di software superiori a quelli prevalenti nel settore, anche rispetto a Microsoft, Google e Apple.

(Agenzia ICE, 19 gennaio 2018)


Israele: barriera sotterranea al confine con Gaza

L'esercito israeliano ha rivelato alcuni dettagli in merito a una barriera sotterranea, situata al confine con la Striscia di Gaza, che il Paese starebbe costruendo per impedire ai gruppi palestinesi di costruire tunnel utilizzati per colpire il territorio israeliano.
   Secondo quanto rivelato giovedì 18 gennaio dall'esercito israeliano, si tratterebbe di un muro vero e proprio, che si estenderebbe per 65 km, ovvero per tutta la lunghezza del confine con la Striscia di Gaza, e sarebbe dotato di sensori di movimento, progettati per rilevare lo scavo di gallerie. In superficie, in corrispondenza del muro sotterraneo, verrà costruita una recinzione, per impedire le infiltrazioni degli abitanti di Gaza nel territorio israeliano. La barriera dovrebbe essere completata entro i primi sei mesi del 2019.
   Il muro è costruito nel territorio israeliano, nell'area a nord del villaggio di Sderot e in quella di di Nahal Oz, nei pressi della Città di Gaza. In merito alla questione, si è espresso anche il portavoce dell'esercito israeliano, il tenente colonnello Jonathan Conricus, il quale ha dichiarato si tratterà della prima "barriera sotterranea completa".
   Tale progetto, del valore di 530 milioni di dollari, era stato approvato nel luglio 2016 dal Ministero della Difesa israeliano. Nonostante i lavori per la costruzione della barriera siano iniziati nel settembre 2016, i dettagli sono stati rivelati soltanto giovedì 18 gennaio, in seguito alla distruzione di un tunnel tra i due territori. Il 14 gennaio, l'esercito israeliano aveva reso noto di aver distrutto un tunnel che collegava la Striscia di Gaza a Israele e al confine con l'Egitto. Secondo quanto riferito dall'esercito israeliano, il tunnel sarebbe stato scavato dai gruppi palestinesi per colpire Israele.
   Precedentemente, il 30 ottobre 2017, l'esercito israeliano aveva fatto esplodere un tunnel che collegava la Striscia di Gaza a Israele, causando la morte di 7 palestinesi e il ferimento di altri 12. Israele temeva che il tunnel costituisse un passaggio per i militanti di Hamas intenzionati a colpire il Paese. In tale occasione, un portavoce dell'unità delle Forze di difesa israeliane, che si è occupata della distruzione del tunnel, aveva giustificato l'azione di Israele, affermando che il passaggio sotterraneo avrebbe costituito "una violazione grave della sovranità di Israele". In merito alla distruzione del tunnel, il portavoce aveva dichiarato che "l'organizzazione terroristica Hamas è responsabile per tutto ciò che succede nella Striscia di Gaza" e aveva aggiunto: "Le Forze di difesa israeliane continueranno ad adottare tutte le misure necessarie sopra e sotto il terreno per sventare i tentativi di colpire i cittadini di Israele e per mantenere l'area tranquilla".
   La localizzazione dei "tunnel terroristici" farebbe parte di una più ampia strategia di difesa, portata avanti dai militari israeliani dopo la fine dell'Operazione Colonna di Nuvola, la campagna militare israeliana iniziata il 14 novembre 2012 contro i militari di Hamas, in risposta al lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso il territorio israeliano. Si trattava della seconda imponente operazione militare lanciata da Israele contro Gaza dalla fine dell'operazione Piombo Fuso, iniziata 27 dicembre 2008 e conclusasi il 18 gennaio 2009, con l'intento dichiarato di colpire l'amministrazione di Hamas.

(Sicurezza Internazionale, 19 gennaio 2018)


«Una novità in Medio Oriente che si collega con la nuova relazione India-Israele»

NUOVA DELHI - Intervistato dal quotidiano indiano "Times Now", il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha ribadito alcuni concetti già espressi nel corso del suo viaggio in India sul rafforzamento della relazione bilaterale e ha parlato anche di temi mediorientali. Ha ripetuto che il recente voto di Nuova Delhi all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, in appoggio alla risoluzione di condanna del riconoscimento statunitense di Gerusalemme come capitale di Israele, non sminuisce la forza della partnership indo-israeliana: "C'è stato un cambiamento nei forum internazionali, ma ci vuole tempo. Sono sicuro che vedremo votazioni diverse su singole questioni, ma penso che sia più importante ciò che davvero è stato ottenuto nella storica visita in Israele del primo ministro Modi e nella mia qui".

(Agenzia Nova, 19 gennaio 2018)


«Gerusalemme di tutti». Il Pontefice scrive al Grande Imam

Lettera ad Al Azhar

Francesco interviene sul problema di Gerusalemme riconosciuta dagli Usa come capitale d'Israele in una lettera al Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al Tayyib. «Solo uno speciale statuto internazionalmente garantito - scrive il Papa - potrà preservare l'identità, la vocazione unica di luogo di pace alla quale richiamano i Luoghi sacri, e il suo valore universale, permettendo un futuro di riconciliazione e di speranza per l'intera regione. È questa la sola aspirazione di chi si professa autenticamente credente e non si stanca di implorare con la preghiera un avvenire di fraternità per tutti». Da parte sua, la Santa Sede «non cesserà di richiamare con urgenza la necessità di una ripresa del dialogo tra israeliani e palestinesi per una soluzione negoziata, finalizzata alla pacifica coesistenza di due Stati all'interno dei confini tra loro concordati e internazionalmente riconosciuti, nel pieno rispetto della natura peculiare di Gerusalemme, il cui significato va oltre ogni considerazione circa le questioni territoriali».

(Corriere della Sera, 19 gennaio 2018)


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A proposito di pontefici

Dall’Enciclopedia Treccani
    «Presso gli antichi Romani il termine individuava ciascuno dei membri del collegio a carattere giuridico-sacerdotale presieduto da un p. massimo. Il termine pontifex (da pons «ponte» e tema di facere «fare») inizialmente forse designava colui che curava la costruzione del ponte sul Tevere. Il numero dei p. variò nel corso del tempo, ma il mutamento più significativo si verificò nel 300 a.C., allorché la lex Ogulnia lo portò da 5 a 9, aprendolo alla partecipazione dei plebei. In precedenza, la condizione patrizia era requisito indispensabile per accedere al pontificato, in base a un procedimento di cooptazione. I p., sommi garanti dell'ortodossia del rito nazionale, custodi e interpreti delle tradizioni giuridiche romane, consuetudinarie e legali, non assolvevano, al contrario di altri sacerdoti, a precise funzioni di culto: stabilivano in base a quali regole un qualsiasi rito - sacrale, processuale o negoziale che fosse - doveva essere compiuto, perché potesse considerarsi valido, e tali regole erano di volta in volta comunicate, a chi lo richiedesse, tramite responsa, che assumevano la veste di decreto collegiale, se l'interlocutore era un magistrato cittadino, di semplice consulto individuale, se invece si trattava di un privato. Per lungo tempo i pontifices, primi giuristi della storia romana (e perciò occidentale), esercitarono la loro attività giurisprudenziale in segreto, conservando così il monopolio della scienza giuridica, la cui metodologia rimaneva oscura ai più. A partire dalla fine del 4o sec. (e dopo la citata lex Ogulnia) esercitarono le loro funzioni in maniera più trasparente e aperta, tanto che intorno al 250 T. Coruncanio, primo pontefice massimo plebeo, dette responsi in pubblico. Ciò favorì la formazione di una giurisprudenza laica, in quanto lo studio del diritto divenne, logicamente, possibile anche a chi p. non era, sebbene solo nel campo del diritto civile, giacché in quello sacrale il collegio continuò ad agire in condizioni di monopolio. Augusto fece propria, nel 12 a.C., la carica di pontefice massimo, che sarebbe rimasta prerogativa di tutti i successivi imperatori, fino all'era cristiana inoltrata.»
Tutto questo è storicamente ben noto, ma è bene ricordarlo per sottolineare la natura pagana di questa figura che rappresenta nel modo più chiaro la storica corruzione del messaggio di Gesù, già prevista nel Nuovo Testamento. L’invito alla costituzione di una religione universale unitaria e politestica, con l’esortazione ad opporsi allo Stato ebraico nella sua volontà di dichiarare Gerusalemme sua capitale unica e indivisibile, affinché possa diventare sede della religiosa pace universale, conferma le profezie bibliche e il carattere diabolico dello statuto e dell’opera di questa figura. M.C.

(Notizie su Israele, 19 gennaio 2018)


Weisz. L'allenatore nella Shoah

Ripubblicato "II giuoco del calcio" il manuale del mister ungherese: fece le fortune di Inter e Bologna e poi morì ad Auschwitz.

di Massimiliano Castellani

La Storia spesso, anche involontariamente, fa passaggi imprecisi, finte di corpo, mettendo in fuorigioco le storie dei grandi uomini: ma la memoria di cuoio no, e così, con il tempo, è andata a strappare dall'oblio la vicenda umana e sportiva di Arpàd Weisz.
   Un antesignano di tutti i presunti "special one" della panchina, l'ungherese di Solt, classe 1896, ex calciatore (ala sinistra) con il bernoccolo del condottiero da bordo campo, la cui cifra peculiare era la «modestia». Materia di studio nel suo manuale ll giuoco del calcio. Un testo epocale, scritto da un autentico stratega e fine ricercatore della tattica calcistica. Un prezioso vademecum adottato, ai tempi, da tutti i tecnici in carriera e dagli aspiranti allenatori. Fu pubblicato nel 1930 (dall'editore Corticelli), stagione in cui allenava l'Inter e con la fascistizzazione, anche del calcio, il suo nome divenne Veisz e quello del club Ambrosiana. Il manuale lo scrisse a quattro mani con Aldo Molinari, il "papà" dei direttori sportivi, figura professionale creata ad hoc dal presidente dell'Ambrosiana-Inter Oreste Simonotti.
   Weisz invece vanta un record ancora insuperato: è stato il tecnico più giovane a vincere lo scudetto in Serie A. Il primo titolo lo conquistò nella stagione nerazzurra 1929-'30, quando aveva appena 34 anni. Aveva invece vent'anni il suo "Peppino", Giuseppe Meazza quando lo fece debuttare 17enne pronosticandogli un futuro da «fuoriclasse». Meazza era «il "folbèr" allo stato puro» secondo lo scriba massimo di calcio Gianni Brera che aveva conosciuto e apprezzato Weisz dai racconti del suo allievo prediletto. «Ricordo ancora la sua pazienza durante i lunghi allenamenti - raccontava Meazza - . Orologio alla mano, Weisz alla fine di ogni corsa mi sorrideva: "Bravo il mio Peppino, però puoi andare più veloce. Puoi fare meglio. Puoi riprovare un'altra volta?"». In Il giuoco del calcio - ora ripubblicato (Minerva Editore. Pagine 222. Euro 18,00), si trovano i capitoli fondamentali in cui sembra di riascoltare la voce del mago ungherese che didattico invita alla «Velocità» e agli «Esercizi che servono a migliorare il fiato». Applicazione, unita a una tecnica fuori dal comune fecero del giovane Meazza un bomber da 31 gol in 33 partite in quella prima cavalcata tricolore di Weisz che poi sarebbe andato a fare le fortune del Bologna Con lui i rossoblù divennero la squadra irresistibile che «tremare il mondo fa». Due titoli di fila, dal 1935 al '37, prima della "tragica sconfitta" che però avvenne fuori dal campo di gioco. Le oltraggiose leggi razziali del 1938 costrinsero Arpàd e la sua famiglia, di religione ebraica, alla fuga. L'ebreo errante e non più il grande stratega del football riparò a Parigi e da lì nell'Olanda di Anna Frank con sua moglie Elena e i figli Roberto e Clara. Nei Paesi Bassi sembrava aver trovato il giusto riparo dalla follia nazista. Weisz con l'assist di una serenità apparente, trovò il tempo di dedicarsi ancora al calcio allenando la squadra di Dordrecht, il paese che ospitava la sua famiglia. Salvò il piccolo club dalla retrocessione, dando spettacolo e lezioni di calcio persino al blasonato Ajax. Ma lui e i suoi cari non riuscirono a salvarsi dalla deportazione. L'uomo che predicava in anticipo sui tempi la necessità del lavoro del «centromediano metodista» e della fuga sulle fasce da parte dei terzini, un giorno dell'ottobre del '42 si sentì braccato. «Pazienza e rispetto», i dogmi di una vita faticarono a restare in piedi dopo che venne diviso dalla sua famiglia. Elena e i piccoli Roberto (12 anni) e Clara (8) vennero subito annientali nella camera a gas del campo di concentramento di Auschwitz. Weisz venne spedito in un campo di lavoro nell'Alta Slesia. In quell'ottobre del '42, un altro suo discepolo, il terzino del Bologna Mario "Rino" Pagotto, venne arruolato come alpino e l'8 settembre del '43 fatto prigioniero dalle SS. Il buon Rino cuore rossoblù venne rinchiuso nel campo di Hohenstein (Prussia dell'Est). «Lì passarono 650mila prigionieri (soldati francesi, belgi, serbi, sovietici e italiani), e 55 mila di questi vennero bruciati in delle pire all'interno del cimitero di Sudwa, non lontano dal campo», ricordava il prigioniero "DA8659" («nemmeno cento numeri più dello scrittore Rigoni Stern, prigioniero anche lui»), che da Hohenstein fu trasferito al campo di lavoro di Bialystok, in Polonia. Pagotto, la cui storia si può leggere nel libro di Giuliano Musi Un calcio anche alla morte (Minerva) amava ricordare il primo monito del suo mister Weisz quando dal Pordenone arrivò nel grande Bologna: «Osare in campo è sempre meglio che trattenersi». Rino il terzino metodista dello scudetto del '36 (poi ne avrebbe vinti altri due nella stagione 1938-'39 e 1940-'41) osò anche sul campo di Cemauti. L'ultima prigione in cui come "un Weisz" si improvvisò calciatore-allenatore di "Quelli di Cemauti", la squadra con la quale a Sluzk (nei pressi di Minsk) «osò» sfidare gli undici messi in campo dell'Armata Rossa, ridicolizzandoli con un quasi cappotto, 6-2. Scene da fuga per la vittoria. «Noi nel lager ad ogni partita ci giocavamo davvero la vita», disse Pagotto che poté festeggiare la sua liberazione «il 18 ottobre del 1945». Tornò ad abbracciare la Giuseppina e i compagni del suo Bologna con i quali giocò ancora appendendo gli scarpini al chiodo nel 1948. Ma fino all'ultimo (è morto nell'agosto del '92) di tutte le sfide, Rino ricordava quelle di cui fu testimone anche Primo Levi (ne I sommersi e i salvati) disputate nei campi dei lager nei «giorni in cui l'uomo era divenuto cosa agli occhi degli uomini». A Weisz, il vero manuale vivente del calcio, l'esistenza venne invece spezzata ad Auschwitz, il 31 gennaio 1944, nelle stesse camere a gas dove erano spirati i suoi tre amori. C'è voluto del tempo, e tutta la passione di Matteo Marani (autore di Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo, per riportare alla luce la straordinaria figura del tecnico ungherese vittima della Shoah. L'uomo verticale Arpàd , il Maestro che il suo pupillo Peppino Meazza non aveva mai dimenticato: «Gli volevo davvero bene e il giorno che mi comunicarono la sua morte, provai lo stesso dolore di chi perde un padre».

(Avvenire, 19 gennaio 2018)


La grande menzogna di un popolo palestinese

Dal Presidente di “Evangelici d’Italia per Israele” riceviamo una lettera che volentieri pubblichiamo.

Nell'articolo di Giordano Stabile sulla "Stampa" di Torino: «L'ira di Abu Mazen "Noi a Gerusalemme prima degli Ebrei", compare il sottotitolo,"il leader dell'ANP: i palestinesi discendono dai cananei".
Tutto questo dipende oltre che dalle recenti decisioni dell'UNESCO, tendenti a cancellare qualsiasi riferimento alle radici ebraiche dell'area medio-orientale, anche per l'incoraggiamento dal successo del loro revisionismo storico e dal lavaggio di cervello del mondo con la GRANDE MENZOGNA di un popolo palestinese.
Basandosi su quel mito, ora, e proprio in concomitanza con il Giorno della Memoria, possono affermare di essere stati duplici vittime degli Ebrei: nella conquista di Canaan da parte degli Israeliti e di nuovo dagli Israeliani in tempi moderni. La conseguenza è la creazione del criminale ossimoro omologando gli ebrei di oggi ai nazisti di qualche decennio fa.
C'è però un fatto che vorrei denunciare.
Da troppo tempo circolano ancora Bibbie, anche di recentissima pubblicazione che riportano all'interno le cartine geografiche con la dicitura "La Palestina al tempo di Gesù", per non parlare... "ai tempi di Abramo".
Tralascio di dilungarmi sul fatto che il termine Palestina è un nome coniato dai Romani nel 135 d.C. per cancellare il nome di Israele, ma è grave che questo termine venga usato anche oggi con dei riferimenti decisamente sbagliati.
Già qualche anno fa protestai con il Culto Evangelico delle domenica mattina alle 7:30 sul 1o programma della RAI nazionale che faceva riferimento al seminatore della famosa parabola evangelica, come fosse un contadino palestinese e in un'altra trasmissione definiva Maria, la madre di Gesù, una giovane palestinese.
Se queste affermazioni circolano in ambienti cristiani, non dobbiamo stupirci se anche Arafat, in una vigilia di Natale, dichiarò che Gesù era un Palestinese.
Mi piace concludere con quanto scrive Eli Hertz su "Questa terra è la mia terra".
"Le contraddizioni abbondano; i leader palestinesi affermano di discendere dai Cananei, dai Filistei, dai Gebusei e dai primi Cristiani. Si sono appropriati di Gesù, ignorando la sua ebraicità, proclamando al tempo stesso che gli Ebrei non sono mai stati un popolo e non hanno mai costruito templi santi a Gerusalemme".
Ivan Basana

(Notizie su Israele, 19 gennaio 2018)


Che i palestinesi discendano dai cananei è una di quelle sparate filopalestiniste talmente grosse che si ha quasi vergogna a prenderle in considerazione, sia pure per contrastarle. Sgradevole invece è la leggerezza con cui anche gli evangelici trattano la terminologia che fa riferimento a fatti biblici. M.C.


''Purgheremo i classici per renderli inoffensivi"

E' satira nel romanzo di Patrice Jean. Ma sta accadendo

di Giulio Meotti

Nelle scorse settimane la Francia si è divisa sull'opportunità di ripubblicare i pamphlet antisemiti di Louis Ferdinand Céline, dalle "Bagatelle per un massacro" alla "Scuola dei cadaveri" (Guanda li pubblicò e ritirò negli anni Ottanta). La casa editrice Gallimard aveva deciso di porre fine al divieto, in vigore in Francia da ottant'anni, sui libri maledetti dello scrittore francese. Ma se le cose continuano così, anche il romanzo più celebre di Céline, il "Viaggio al termine della notte", potrebbe essere sforbiciato in nome del giusto sentire.
   E' quello che immagina lo scrittore Patrice Jean nel suo nuovo romanzo, "L'homme surnuméraire". Una satira sociale dove il protagonista, Clément Artois, è un editor disoccupato che trova lavoro presso la casa editrice Gilbert. Stanno mettendo su una nuova collana che sarà chiamata "Letteratura umanistica". Clément ha il compito di "espungere da un'opera le parti che feriscono la dignità dell'uomo, il senso del progresso e la causa delle donne". Un comitato di "alte figure morali" compone il comitato di lettura, dove Clément è responsabile dei passaggi mancanti. "Il grosso corpo della facoltà parlava più dei diritti umani che della letteratura".
   Così, il "Viaggio" di Céline viene ridotto a una quarantina di paginette innocue (da qui il termine "céliner" adottato da Artois per definire il ruolo del nuovo correttore di bozze). Si fanno due collane dai titoli edificanti: "Le Belle Lettere Egualitarie" e i "Romanzi senza Razzismo". Clément viene assunto per rivedere i classici della letteratura allo scopo di liberarli da qualsiasi scoria. Fumo, sessismo, razzismo, questo è il nemico.
   Lo ha detto l'autore stesso al Figaro:
   "Che uno scrittore possa essere in pace con il suo tempo mi sembra davvero curioso. Avrebbe fatto meglio a diventare un parrucchiere". E poi, non sta forse già succedendo? "Quando leggo Nietzsche, Schopenhauer, Baudelaire, Pessoa o anche Molière, dico spesso che una simile frase, un tale paragrafo, oggi, subirebbe il fulmine della censura. Ci piace vedere tutto bello nello specchio dei libri". Soltanto nell'ultimo mese, una petizione ha cercato di eliminare un quadro di Balthasar "Balthus" Klossowski dal Met di New York, un regista si è preso la libertà di cambiare il finale della Carmen di Bizet, i nudi striminziti e avvinghiati di Schiele sono stati oscurati nella metropolitana di Londra, mentre "Via col vento" e i romanzi di Mark Twain sono stati sloggiati da alcune scuole americane. Un giorno, è una madre inglese che sostiene che la favola della bella addormentata va eliminata perché il giovane principe bacerebbe la principessa senza il suo "consenso", alimentando così nell'immaginario collettivo la "cultura dello stupro". Un altro è l'accademica Laure Murat che su Libération esprime la propria costernazione sul film "Blow-up" di Antoniani, il cui protagonista è un giovane fotografo che non esita a molestare i suoi modelli femminili. Murat gli imputa "una misoginia e un sessismo insopportabili".
   "Oggi il razzismo sociale di Molière è arcaico, non possiamo più mettere in scena i contadini per prenderli in giro, è davvero abietto", dice l'editore responsabile del progetto nel romanzo di Jean. "Non possiamo più permetterci di pubblicare pagine che sfidano l'umanità". Se questi sono gli esiti del massacro della "sensibilità", meglio tutto il pacchetto. Bagatelle comprese.

(Il Foglio, 19 gennaio 2018)


Michele Sarfatti: "Mussolini era razzista fin dall'inizio"

Lo storico ha presentato al Meis il suo libro sul Duce e gli ebrei

di Mattia Vallieri

 
 
Nelle leggi razziali di 80 anni fa Benito Mussolini ci credeva davvero o le promulgò per convenienza politica e vicinanza a Hitler? Era razzista o un opportunista? "Mussolini è un uomo estremamente pragmatico, fa quello che conviene a lui e all'idea di Italia che ha. In questo senso non ha quella folle ideologia e pregiudizio di Adolf Hitler ma utilizza tutto quello che gli serve in quel dato momento. E' razzista sin dall'inizio ma non lo dice, non lo fa trapelare, non fa come Attilio Fontana".
   È questa la convinzione, coadiuvata da diversi episodi e documenti, dello storico Michele Sarfatti arrivato al Meis (di cui è membro del comitato scientifico) per presentare il suo libro 'Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell'elaborazione delle legge razziali', uscito nel 1994 ma oggi arricchito da nuove testimonianze raccolte dall'autore.
   Dopo i saluti della direttrice del Meis Simonetta Della Seta (che ha moderato l'incontro) e del presidente Dario Disegna ("libro importante in questo ottantesimo anniversario delle leggi razziali perché il paese faccia i conti con il proprio passato"), la parola passa all'autore che sottolinea come, storicamente, "Hitler fa una politica di conquista e ripopolamento dell'Europa ad oriente della Germania", mentre "Mussolini vuole un mare nostrum da controllare ben cosciente che ci sono gli albanesi, i libici, i tunisini e gli egiziani e deve riuscire a farli stare insieme tutti. Quando esce il manifesto della razza nel luglio del 1938, che è di Mussolini non degli scienziati, il ministro degli Esteri Ciano 10 giorni dopo, ed è evidente che si sono sentiti, manda un telex ad ambasciatori e consoli italiani chiarendo che le politiche razziste italiane riguardano solo gli ebrei". Secondo Sarfatti "il razzismo Mussolini l'ha preso con il latte dalla madre cattolica e maestra elementare e dal padre anarchico. Nel Psi è stato un altissimo dirigente e si scontra costantemente con Claudio Treves, c'è un qualcosa nel feeling tra quei due che non funziona. Parte ad esplicitare il suo razzismo con gli etiopi nel 1936".
   Non mancano i racconti storici all'interno della presentazione, partendo proprio dalla questione Etiopia: "A Longobucco, vicino a Cosenza, venne deportata ed internata l'elite intellettuale etiope. Il 24 giugno del 1938 arriva sul tavolo di Mussolini una lettera del prefetto di Cosenza che diceva che nei locali dove sono non hanno modo di cucinare e se possono andare a mangiare fuori. Sulla questione c'è una annotazione di un ministro dell'Africa italiana con scritto 'il duce ha detto sì purché non siano serviti da bianchi'. Questo è razzismo che hai dentro, è il prototipo del razzismo".
   "Io non credo alla svolta del '38, lui vuole rivoluzionare un paese che già esiste" prosegue lo storico, affrontando la questione della nascita dell'Accademia d'Italia (in cui "non vengono mai insigniti ebrei"), ribadendo che leggi razziali furono "una azione di governo" e ricordando come "nel '33 ci sono dei strampalati ma seri e reali incontri tra Mussolini e Renzetti (il rappresentante del duce a Berlino). Mussolini tramite Renzetti chiede ad Hitler di non esporsi così contro gli ebrei perché le cose si possono fare anche senza clamore e senza richiamare l'attenzione della comunità internazionale. A queste parole Hitler, che era appena arrivato al potere, rispose picche".
   "Le sanzioni della Società delle Nazioni ed il fatto di non riuscire a fascistizzare il mondo ebraico italiano sono due cose che Mussolini non riesce a tollerare" chiosa ancora Sarfatti, dichiarando che "tra i suoi c'era chi premeva per andare più avanti, tra cui Renacci e Interlandi, e chi lo prendeva per l'ultimo lembo della giacca, per stare a Ferrara Balbo, ma il gruppo dirigente era una consorteria dove tutti si mettevano assieme. Non abbiamo nessuna traccia di dirigente del partito fascista che si sia allontanato, non c'è qualcuno che in modo tenue si è fatto progressivamente da parte a seguito delle leggi razziali. C'è un consenso generale verso Mussolini".
   Sempre per rimanere su Ferrara, rispondendo ad una osservazione su Balbo, Sarfatti si domanda a gran voce "cosa diavolo è successo in questa città al momento del assassinio di don Minzoni? Lì si crea qualcosa che è talmente forte da durare alcuni lustri. Perché una persona non iscritta al Pnf diventa immediatamente segretario federale per qualche mese? Quale è il fatto e cosa è accaduto in questa città? Manca la storia di Ferrara del primo periodo fascista ma studiare queste cose in un paese che le nega è difficile". E ancora: "Come è stato coperto l'affaire don Minzoni? - chiede lo scrittore -. Nella frase di Balbo 'Tripoli non è Tel Aviv' lui ha in mente un concetto e delle cose molto forti. Avrà avuto metodi gentili ma la storia è altro".
   "Nella misura in cui ci definiamo italiani ci prendiamo sulle spalle tutto quello che è accaduto in nome di altri italiani e dobbiamo conoscerlo perché fa parte di noi" spiega l'autore, concludendo che "siamo quello che è successo e saremo quello che riusciremo a fare. Se dici di essere italiano sappi che l'Italia è Galileo, Leonardo, sant'Ambrogio a Milano (che era per la distruzione delle sinagoghe) e ivi compreso le leggi anti ebraiche".

(estense.com, 19 gennaio 2018)


Michel Dreyfus, L'antisemitismo a sinistra in Francia. Storia di un paradosso (1830-2016)

Da Fourier a George Sand ecco gli antisemiti di sinistra. Un saggio di Michel Dreyfus racconta con coraggio le tendenze anti ebraiche del socialismo francese.

di Matteo Sacchi

Quando si pensa all'antisemitismo è quasi automatico pensare al nazismo o a un certo tipo di destra. Ma è davvero così? No, esiste un antisemitismo di sinistra che però è stato spesso ficcato sotto il tappeto della Storia. E non si tratta solo delle persecuzioni contro le religioni, compresa quella ebraica, nella Russia dei soviet o sotto Stalin. Esiste un antisemitismo di sinistra ben più antico e pernicioso che la maggior parte degli studiosi si è guardata bene dall'evidenziare. Ha fatto una scelta diversa lo storico francese Michel Dreyfus, grande esperto di movimenti operai, che ha pubblicato un saggio coraggioso: L'antisemitismo a sinistra in Francia. Storia di un paradosso (1830-2016). II volume (e-book 6,99 euro, print on demand 13,51 euro), pubblicato in Italia dall'associazione Free Ebrei e tradotto da Vincenzo Pinto, prende in esame il caso francese, che è emblematico. Soprattutto tenendo conto che Oltralpe hanno vissuto molti dei più noti socialisti utopisti. Ecco, è proprio tra le loro fila che si scoprono un gran numero di antisemiti a sorpresa.
Dopo la caduta di Napoleone, la Francia iniziò ad avere un nuovo periodo di vivacità economica e nel sistema bancario e imprenditoriale non mancavano nomi ebraici. Questo poco aveva a che fare con le condizioni economiche della maggior parte degli ebrei francesi. Ma tanto bastò a molti socialisti per tirar fuori, rinfrescandoli, i peggiori stereotipi medievali sull'usuraio ebreo. Attaccare il capitalismo e attaccare gli ebrei divenne un tutt'uno. Pierre Leroux (1797-1871), forse addirittura il coniatore del termine «socialismo», in De la Ploutocratie del 1843 si esprimeva così: «I più grandi capitalisti di Francia… Ebrei che non sono cittadini francesi, semmai aggiotatori cosmopoliti». Il suo bersaglio principale era il banchiere James de Rothschild (1792-1868), ma rapidamente il focus dell'odio si allargò a tutti i suoi correligionari. E la sua excusatio di non attaccare gli ebrei in quanto individui, bensì lo «spirito ebraico, cioè lo spirito di guadagno, di lucro, di utile» lascia, ovviamente, il tempo che trova. La famosa scrittrice George Sand, a lui vicina, sposò e propalò le stesse tesi persino in una pièce teatrale del 1840, Les Mississipiens. L'autrice mette in scena un finanziere ebreo, Samuel Bourset, che ritrae come un essere repellente. Non erano casi isolati. Sono fortissimi gli stereotipi anti ebraici anche negli scritti di Charles Fourier (1772-1837). Nel Nouveau Monde industriel se la prende con la Rivoluzione francese per aver emancipato gli ebrei. Situazione che lui avrebbe voluto risolvere a colpi di esproprio proletario e lavoro coatto: «Ogni governo attento ai buoni costumi dovrà obbligare gli ebrei al lavoro produttivo, non ammetterli che nella proporzione di un centesimo nel vizio: una famiglia mercantile ogni cento famiglie agricole e manifatturiere».
   Anche Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), uno dei padri dell'anarchismo, dimostra di essere accecato dal preconcetto anti ebraico: «Ebrei, fare un articolo (di legge, ndr) contro questa razza che infetta qualsiasi cosa, che si infila dovunque senza mai fondersi con un altro popolo. Richiedere la loro espulsione dalla Francia, eccetto gli individui sposati con francesi; abolire le sinagoghe, non assumerli in alcun posto lavorativo, perseguire infine l'abolizione di questo culto». Come si vede un programma che non avrebbe sfigurato in un discorso hitleriano.
   Certo, nella sinistra francese il clamoroso caso delle accuse false contro il capitano di Stato maggiore, di religione ebraica, Alfred Dreyfus (1859-1935) finì per portare a posizioni decisamente diverse verso l'ebraismo. Ma il saggio dimostra come i preconcetti anti ebraici rimasero ampiamente sotto traccia. Se tutti ricordano il famoso J'accuse di Emile Zola, va detto che molti socialisti restarono tiepidi verso la vicenda. Il Partito Operaio Francese, a esempio, e i suoi organi di stampa oscillarono a lungo tra l'indifferenza e l'ostilità verso Dreyfus. Tanto che nel 1898 intervenne il socialista libertario Adolphe Tabarant (1863-1950) ad esortare i suoi compagni a non cadere nell'«antisemitismo imbecille».
   Né la situazione era completamente risolta alle soglie della Seconda guerra mondiale. Le componenti della Sezione Francese dell'Internazionale Operaia più fortemente pacifista accusava i governi francesi di contrapporsi a Hitler in quanto al soldo dell'«internazionale ebraica». Così Ludovic Zoretti (1880-1948): «II popolo francese non ha alcuna voglia di vedere una civiltà annientata e milioni di esseri umani sacrificati per rendere la vita più confortevole a centomila ebrei della regione dei Sudeti».
   E anche dopo la guerra non mancarono confusioni tra posizioni politiche ostili a Israele e posizioni anti ebraiche. Insomma, leggendo il saggio di Michel Dreyfus viene da chiedersi se le attuali polemiche sulla ripubblicazione di Céline abbiano senso. Semmai avrebbe senso ristudiare tutto l'antisemitismo, anche quello su cui la sinistra preferisce far finta di nulla.

(Osservatorio Antisemitismo, 19 gennaio 2018)


L'ira di Abu Mazen: “Noi a Gerusalemme prima degli ebrei'”

Il leader dell'Anp: i palestinesi discendono dai cananei

di Giordano Stabile

La doppia mossa di Donald Trump ha messo nell'angolo il vecchio raiss. Abu Mazen ha reagito con rabbia. A ogni discorso i toni, da increduli, sono diventati sempre più duri. Un salto indietro di trent'anni, fino alla ricusazione degli accordi di Oslo, del riconoscimento dello Stato ebraico.
  Ieri al Cairo, il presidente palestinese è tornato su una vecchia tesi, quella della discendenza dei palestinesi dai cananei, che vivevano a Gerusalemme «anche prima degli ebrei». Un muro posto davanti a qualsiasi compromesso sulla Città Santa, riconosciuta dalla Casa Bianca come capitale di Israele.
  Abu Mazen, 83 anni il prossimo 26 marzo, è in un angolo. I maggiori alleati arabi, e Egitto e Arabia Saudita, agiscono in accordo con gli Stati Uniti, anche se non lo dicono.

 Fra Hamas e Israele
  Il nuovo piano di pace prevede la rinuncia a Gerusalemme, e come capitale palestinese il sobborgo di Abu Dis. I regimi filo-occidentali lavorano per convincere l'opinione pubblica, e per il raiss sarebbe un suicidio buttarsi nelle braccia di Iran o Turchia, sponsor dei suoi mortali rivali, prima di tutto Hamas. I finanziamenti americani, come si è visto con il dimezzamento dei fondi all'Unrwa, restano decisivi per la sopravvivenza dei palestinesi: un terzo arrivano dagli Usa, un sesto da Riad.
  Domenica a Ramallah Abu Mazen ha denunciato il piano saudita e le decisioni di Trump come «uno schiaffo in faccia». Ma l'alternativa è ormai cedere a Israele o cedere ad Hamas, avallare la «Terza Intifada». Ieri al Cairo il raiss ha cercato di uscire dall'angolo, ha denunciato «l'ipocrisia» dei presidenti americani che fingono di «maledire i loro predecessori, promettono, ma non danno nulla» e non sono più «mediatori credibili». L'alternativa non si vede, una «conferenza di pace internazionale» che sostituisca i negoziati bilaterali resta un miraggio.
  Abu Mazen ha bollato come un «peccato» il trasferimento dell'ambasciata americana. Il richiamo alla sacralità di Gerusalemme non riesce però a mobilitare le masse palestinesi, figuriamoci arabe. Un altro «schiaffo» Abu Mazen lo ha ricevuto alla riunione della Lega araba ad Amman, quando il ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed al-Nahyan lo ha accusato di non essere in grado di «difendere» la Città Santa. Pesa il consenso, ormai bassissimo, per l'Autorità nazionale, accusata dai giovani sempre più disillusi di corruzione e nepotismo, e di collaborare con lo Shin Bet israeliano.

 L'intesa sulla sicurezza
  Il punto è: finché regge l'intesa israelo-palestinese sulla sicurezza, la Casa Bianca può osare. La rinuncia all'accordo sul controllo del territorio metterebbe a rischio la stessa Autorità nazionale palestinese, minacciata dagli islamisti. Nonostante i toni da guerra Abu Mazen alla fine ha ribadito che la violenza non è un'opzione per far valere i diritti dei palestinesi e che la «nostra posizione resta la richiesta di uno Stato nei confini del 1967».
  La narrativa può tornare pure agli Anni Ottanta, ma secondo la Casa Bianca, rivela l'analista del Washington Institute David Makovsky, «è soltanto un raid preventivo», volto ad arginare le mosse di Washington e sperare di un cambio della guardia in Israele nelle elezioni del 2019.

(La Stampa, 18 gennaio 2018)


Eyal Lerner, la storia degli ebrei in musica

Al Teatro sociale di Camogli il concerto spettacolo sulla shoah

di Claudio Cabona

 
Eyal Lerner

GENOVA - La memoria ebraica fra musica e narrazione. Sabato alle 20.30 sul palco del Teatro Sociale di Camogli è in programma "Che non abbiano fine mai", spettacolo di e con Eyal Lerner, flautista che, con canzoni e racconti, porterà sotto i riflettori un pezzo della storia del suo popolo. La serata è curata dal Gruppo Promozione Musicale Golfo Paradiso. «Lo spettacolo si compone di due parti: la prima narra la storia del popolo ebraico attraverso la musica e i racconti legati alle tradizioni precedenti la seconda guerra mondiale» anticipa il protagonista «nella seconda si assiste a un drastico cambio di atmosfera: le vicende italiane, dall'avvento del fascismo alla Resistenza, si intrecciano con la questione ebraica. È uno spettacolo a due facce, intenso e ricco di riferimenti storici». Nato e formatosi in Israele, Lerner porta in scena, in vista della Giornata della Memoria il 27 gennaio, un racconto con musica nato da una serie di laboratori che hanno coinvolto più di20mila studenti in Italia, Germania e Polonia. «Quando ho iniziato a lavorare sullo spettacolo mi sono chiesto: è possibile oggi rendere i giovani testimoni di un passato oscuro, dando vita a sentimenti di un'umanità dinamica e coraggiosa?» spiega l'artista «e ancora: si può, con le arti sceniche, aprirsi a sentimenti di solidarietà e compassione e creare relazioni profonde, capaci di rafforzare la propria individualità? Crediamo che, dopo essersi immersi da protagonisti in una delle pagine più buie della storia, si possa riemergerne più consapevoli».L'artista,in Italia dal 1995, negli ultimi anni ha realizzato spettacoli per i bambini come "Scintille di gloria" e "Flautino". Ha sempre cercato anche un dialogo con il mondo arabo, ed è direttore del coro Shlomot di Genova.

(Il Secolo XIX, 18 gennaio 2018)


L'oasi nel deserto

''La Turchia nel club delle dittature". Israele unica democrazia fino all'India. Il rapporto di Freedom House.

di Giulio Meotti

ROMA - I diritti civili e politici in Turchia si sono talmente degradati sotto il presidente Recep Tayyip Erdogan che il suo paese è entrato ufficialmente nel club delle dittature, secondo un nuovo rapporto sulle libertà della ong Freedom House, considerata un punto di riferimento per gli standard di libertà democratica nel mondo. Per la prima volta dal 1999, cioè da quando la ong stila la propria classifica, la Turchia diventa "non libera" perdendo il suo status di "parzialmente libera". "Attacchi alla stampa, agli utenti dei social media, ai manifestanti, ai partiti politici, al sistema giudiziario e al sistema elettorale", elenca la ong americana, accusando il presidente Erdogan di "imporre un controllo personalizzato sullo stato e la società". "La sua risposta al colpo di stato del luglio 2016 è diventata una tentacolare caccia alle streghe, con l'arresto di 60 mila persone, la chiusura di oltre 160 media e l'imprigionamento di 150 giornalisti. I leader del terzo partito in Parlamento sono in carcere e quasi 100 sindaci in tutto il paese sono stati sostituiti".
   Proprio ieri è arrivata la notizia che Ankara ha deciso di estendere lo stato di emergenza per altri tre mesi, spingendo l'opposizione a parlare di "colpo di stato civile" in corso da parte di Erdogan. Il rapporto di Freedom House ha dipinto un quadro cupo dello stato della libertà in tutto il mondo, constatando che per il dodicesimo anno consecutivo si è verificato un "declino della libertà globale". Insieme alla Turchia, altri 70 paesi hanno subìto riduzioni importanti dei loro diritti politici e civili, mentre solo 35 li hanno migliorati. Il rapporto stima che circa il 39 per cento dei 7,6 miliardi di persone nel mondo vive in paesi liberi, rispetto al 24 per cento in paesi parzialmente liberi e al 37 per cento in paesi non liberi.
   Freedom House accusa l'Amministrazione Trump di ritirarsi dal suo ruolo di garante della libertà democratica nel mondo. Israele si conferma il solo paese libero della regione, anche se ha visto un leggero calo nel suo rating del 2017 "a causa della nuova legislazione volta a imprimere restrizioni alle organizzazioni non governative e negando loro l'accesso al supporto internazionale". Nel 2016, Israele ha trasformato in legge la norma sulle ong, che aumenta i requisiti di trasparenza delle organizzazioni che ottengono la maggior parte dei loro finanziamenti da governi stranieri (in gran parte europei). E la scorsa settimana, il governo israeliano ha pubblicato un elenco di organizzazioni (c'è anche Bds Italia) che promuovono il boicottaggio e ai cui membri Gerusalemme impedirà l'ingresso nel paese. Israele si difende dicendo che anche altre democrazie hanno norme che impediscono l'ingresso a determinati individui e organizzazioni (l'Inghilterra l'ha applicata a blogger come Pamela Geller, a politici come Geert Wilders e a islamisti di diverso tipo). Nel complesso, tuttavia, Israele ha mantenuto il suo rating di "paese libero", registrando un punteggio complessivo di 79 su 100, in calo di un solo punto rispetto agli 80 dell'anno scorso. Al contrario, la Cisgiordania - controllata da Israele e amministrata dall'Autorità palestinese - ha ottenuto sette punti (la peggiore cifra possibile) per i diritti politici e cinque per le libertà civili. Questo ne fa un paese "non libero", dittatoriale. Stessa valutazione per la Striscia di Gaza controllata da Hamas, anch'essa "non libera".
   Freedom House registra anche il "forte calo democratico" in Tunisia nel 2017, che minaccia di declassare l'unico paese nel mondo arabo vagamente libero. Malissimo va anche l'Arabia Saudita, nonostante la promessa di riforme del principe Bin Salman. Lo scorso 9 gennaio era il terzo anniversario dell'incarcerazione del blogger RaifBadawi. I sauditi marciavano a Parigi dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo, ma in patria preparavano la frusta per i propri dissidenti. Dal rapporto di Freedom House, Israele si conferma l'unico paese libero e democratico in un oceano che arriva fino all'India, dove in questi giorni è in corso la storica visita del premier Benjamin Netanyahu, la prima di un premier dello stato ebraico. Israele e India, due democrazie che fronteggiano il radicalismo islamico.

(Il Foglio, 18 gennaio 2018)


Resta in carcere Ahed Tamimi, la 'pasionaria palestinese'

E' accusata di aver aggredito alcuni soldati israeliani

Rimane in carcere sino alla celebrazione del processo a suo carico, Ahed Tamimi, accusata dalle autorità israeliane di aver provocato e attaccato due soldati dello Stato ebraico il 15 dicembre scorso.
La ragazza, definita da alcuni media 'la pasionaria palestinese', era stata arrestata a seguito della diffusione di un video dove viene immortalata mentre colpisce i soldati israeliani che non reagiscono alle provocazioni.
I precedenti
Sulla sorte giudiziaria della Tamimi verranno a pesare i precedenti, quello del 2012 nel quale la ragazza si scagliava contro i militari israeliani in Cisgiordania e soprattutto nel 2015, quando fu vista mordere ripetutamente la mano di un soldato che stava tentando di fermare un ragazzino palestinese con il braccio ingessato accusato di tirare sassi, video la cui originalità è sempre stata al centro delle discussioni sul caso.
La missione dell'Unione Europea a Gerusalemme e Ramallah ha espresso preoccupazione per la sorte della minorenne palestinese per la quale la liberazione è stata chiesta anche da Amnesty International.
La Corte militare israeliana, oltre a sentenziare la permanenza in carcere della Ahed Tamimi, si è espressa nei medesimi termini anche per la madre della ragazza, Nariman Tamimi, anch'essa arrestata nello stesso contesto con le accuse di "aver attaccato un ufficiale e un soldato israeliano il 15 dicembre passato" nel villaggio di Nabi Saleh, aver attaccato "in cinque altre occasioni" i militari Israeliani e aver "tirato sassi, partecipato a incidenti violenti, minacciato e incitato altri".
Bassem Tamimi, padre della ragazza, ha denunciato sul profilo Facebook l'operato dei soldati israeliani accusandoli di violenza e ha difeso a spada tratta il comportamento della figlia.
Di parere opposto il ministro della difesa dello Stato di Israele, Avigdor Lieberman, che ha rivendicato "la moralità" dell'esercito israeliano e lodato pubblicamente il comportamento dei militari provocati dalla ragazza.

(ofcsreport, 17 gennaio 2018)


Lo status speciale dei profughi palestinesi, uno scandalo che dura dal 1949

Sono quelli che ricevono più soldi e che possono tramandare lo stato giuridico agli eredi. E ben il 65% del budget del Unrwa finisce nelle tasche dei suoi 24-25.000 dipendenti.

di Carlo Panella

Oggi i "profughi" palestinesi sono 5 milioni, tra i quali quelli veri, reali, fuggiti dalla Palestina nel 1948 sono ormai meno del 5%, gli altri sono "eredi"
La decisione di Donald Trump di defalcare 65 milioni di dollari sui 300 che gli Usa versano annualmente alla Unrw, l'organizzazione dell'Onu che assiste i profughi palestinesi, chiude formalmente ogni ipotesi di un ruolo di mediazione degli Stati Uniti nelle crisi israelo-palestinese. Paradossalmente, conforta in pieno la decisione di Abu Mazen che in un infuocato discorso alla Muqata, il quartier generale palestinese di Ramallah, ha proclamato giorni fa la fine del capitale ruolo di mediazione di Washington che data da ben 70 anni. È ben difficile comprendere dove Trump intenda andare a parare con questa seconda mossa, dopo la decisione di spostare l'ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme. Probabilmente non ne ha la minima idea. Per di più questa decisione, esattamente come quella sull'ambasciata Usa di Gerusalemme, indebolisce il potere contrattuale di un'Arabia Saudita che da sempre ha fatto da madrina proprio ai profughi palestinesi e che recentemente sembrava intenzionata a proporre ad Abu Mazen una mediazione forte.
   Questa ennesima, imperscrutabile, sbandata di Trump, al di là dell'inequivocabile e sconcertante significato politico, è comunque occasione per andare a fondo sulla natura della organizzazione di assistenza ai profughi palestinesi, sulla sua scandalosa "unicità", i suoi scandalosi criteri di spesa e l'incredibile ereditarietà dello status di profugo di cui beneficano solo e unicamente i palestinesi. Fondata dall'Onu nel dicembre del 1949, la Unrwa aveva il fine di provvedere a 500 mila profughi palestinesi, fuggiti a seguito della prima guerra arabo-israeliana del 1948. Pochi mesi dopo, nell'inverno del 1950, le Nazioni Unite fondarono la Unhcr, allo scopo di provvedere a tutti gli altri profughi del pianeta che ammontavano a ben 17 milioni. Scandalosa, ma indicativa, la decisione dell'Onu di riservare ai profughi palestinesi, e solo ai profughi palestinesi, uno status speciale e una organizzazione di assistenza specifica, come a sottolineare una loro "unicità" dovuta allo "scandalo" della nascita dello Stato di Israele.
   Scandalo raddoppiato da uno statuto dell'Unrwa che rendeva e rende incredibilmente ereditario lo status di "profugo palestinese", là dove - come è ovvio, la Unhcr considerava e considera profughi solo coloro che fuggono dalla propria patria, non i loro eredi. Risultato di questa perversione giuridica: oggi i "profughi" palestinesi sono 5 milioni, tra i quali quelli veri, reali, fuggiti dalla Palestina nel 1948 sono ormai meno del 5%, gli altri sono "eredi". Una follia giuridica che ha un risvolto drammatico. Uno dei punti caldi sui quali naufraga ogni accordo di pace tra Israele e palestinesi è infatti proprio il "rientro dei profughi". Ora, se ci si attenesse alla definizione giuridica che vale per tutti i profughi del mondo, il problema non sarebbe affatto grave: Israele potrebbe senza problemi assorbire dentro i suoi confini le poche centinaia di migliaia di profughi effettivi del 1948. Ma è impensabile, e assurdo che possa, come pretendono invece a gran voce i palestinesi, forti della distorta "fiolsofia Unrwa", assorbire quei 5 milioni di falsi profughi palestinesi, di eredi della patente di profugo, che metterebbero per di più gli ebrei in minoranza demografica nello Stato ebraico.
   Ma non basta, oggi la Unhcr che assiste l'enorme cifra di 65,3 milioni di profughi nel pianeta, si vede riconoscere dall'Onu un budget di 3 miliardi e 355 milioni di dollari, 51,37 dollari pro capite a profugo. La Unrwa, invece, che ne assiste come detto 5 milioni, si vede riconoscere dall'Onu ben un miliardo e 300 milioni di dollari, 260 dollari pro capite a profugo. Dunque, per l'Onu, un profugo palestinese "merita" 5 volte tanto assistenza economica di un altro qualsiasi profugo del pianeta. Di nuovo, una discriminazione a favore dei profughi palestinesi che non ha ragione di essere se non la si riconduce all'inaccettabile "scandalo" dell'esistenza dello Stato di Israele. Infine, ma non per ultimo, il vero e proprio scandalo della gestione della Unrwa: ben il 65% del suo budget finisce nelle tasche dei suoi 24-25.000 dipendenti (quasi tutti palestinesi) e solo il 35% è destinato ai profughi palestinesi veri e propri. Il che dimostra che l'Unrwa serve solo a garantire reddito a 24-25.000 famiglie palestinesi mentre tutti gli altri, anche i profughi veri del 1948, si devono accontentare di inutili briciole.

(Lettera43, 18 gennaio 2018)


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