Se l'Eterno non edifica la casa,
invano si affaticano gli edificatori;
se l'Eterno non guarda la città,
invano vegliano le guardie.
Salmo 127:1  

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Ebrei e arabi adorano insieme a Nazaret
























La storia di due gemelle friulane: lasciano l'Italia e si arruolano al fronte nell'esercito israeliano

Noah e Coral Da Ros sono nate a Sacile. La mamma è portavoce dell'associazione Italia-Israele

di Rosario Padovano

Noah e Coral Da Ros
Due ragazze nate in Italia serviranno l'Esercito di Israele: hanno giurato pochi giorni fa.
Sono cresciute nella provincia di Pordenone, sono entrambe di Sacile. Si tratta di Noah e Coral Da Ros, gemelle, 20 anni, diplomate nel 2016 al Liceo Pujati nella città del Livenza e figlie di Anati Hila Levi, portavoce dell'associazione Italia - Israele, molto attiva in Friuli Venezia Giulia.
Il loro giuramento è coinciso con la festività del Capodanno ebraico. Ma c'è di più. Nell'oceano di emozioni che queste due giovani originarie di Sacile stanno provando in questi giorni c'è stato un incontro molto emozionante, con la nonna materna che ha assistito al loro giuramento.
La donna, infatti, aveva servito il neonato esercito israeliano quasi 70 anni fa, in occasione della prima guerra arabo israeliana, coincisa con la data di nascita dello Stato d'Israele, risalente al 1948.
La donna ora ha 90 anni. Quelle vissute insieme a lei sono state emozioni indescrivibili per queste due giovani, molto conosciute a Sacile e in provincia di Pordenone. Hanno entrambe doppia nazionalità, italiana e israeliana e ora Noah e Coral hanno deciso di servire Israele, come fece a suo tempo proprio la madre.
Noah poi è riuscita a entrare nell'aviazione dello Stato ebraico, non è da tutti. Gli addestramenti, come si sa, sono durissimi e l'esercito di Israele è uno dei meglio equipaggiati al mondo, proprio perché fin dagli "esordi" è aggrappato alla sopravvivenza sua e dello stato.
La tensione, all'interno di Israele, è un po' scemata rispetto ai tempi della prima e della seconda Intifada e anche, più recentemente, rispetto al periodo dell'Intifada dei coltelli. Ma gli agguati restano all'ordine del giorno e i soldati rischiano quotidianamente la vita.
Proprio qualche giorno fa l'Iran ha annunciato di aver provato con successo un missile balistico in grado di percorrere 2 mila chilometri e quindi potenzialmente in grado di colpire Israele. La Repubblica islamica, che soffoca il dissenso da quasi 40 anni secondo molti nell'indifferenza internazionale, potrebbe diventare una potenza atomica se il presidente degli Usa Donald Trump revocasse, come sembra, l'accordo sul nucleare raggiunto a suo tempo dal predecessore Barack Obama.
La posizione di Israele, in merito, è di attesa: ma il silenzio a volte fa più rumore di tante parole. Questo il contesto internazionale del Medio Oriente, senza dimenticare la sanguinosa guerra civile in Siria.
Tornando alle gemelle Da Ros e al loro legame col Friuli occidentale, il 28 gennaio 2014 si esibirono a Pordenone durante "La Giornata della memoria" al violino e alla pianola, sulle note della colonna sonora del film premio Oscar "Schindler's List". I legami fra Israele e il nostro Paese sono moltissimi. Il prossimo anno il Giro d'Italia partirà da Israele per omaggiare i 70 anni di vita dello Stato ebraico e allo steso tempo anche Gino Bartali, il campione che salvò la vita a molti ebrei durante la Seconda guerra mondiale e il cui nome, da qualche anno, è inserito nella speciale lista dei Giusti tra le nazioni. La famiglia di Anati Hila Levi ebbe rapporti di amicizia con l'allora primo ministro Menachem Begin, uno dei padri della patria.
Molti studiosi del Nord Est lavorano nelle università di Tel Aviv.
Ora la scelta di Noah e Coral. Il giuramento che ha cambiato la loro vita. Gli studi al Pujati e la scuola di musica Ruffo rimarranno, però, per sempre, nel loro libro dei ricordi.

(Messaggero Veneto, 25 settembre 2017)


L'alpinista che non può camminare e il miracoloso esoscheletro robot

L'idea è di un ricercatore israeliano, che ha creato ReWalk ("cammina di nuovo"), uno strumento che offre la possibilità di rimettere in piedi persone paraplegiche supportandone i movimenti.

di Giambattista Gherardi

 
Nei momenti più duri, cinque anni fa, non ci avrebbe mai creduto: trovarsi in prima fila in una corsa podistica, sulle proprie gambe. È invece un sogno che si è avverato, quello di Franco Tonoli, 58 anni di Gazzaniga, che vive immobilizzato (o forse è meglio dire viveva) su una carrozzina. Lui e la moglie Ileana Locatelli (un passato da atleta della nazionale azzurra di sci al fianco di Claudia Gordani) sono sposati dal 1989 e hanno una figlia, Valeria, di ventisette. La passione per la montagna è un denominatore comune, dato che Franco negli anni ha concluso tre Trofei Mezzalama di scialpinismo, compiuto spedizioni in Nepal con Mario Merelli, scalato il Bianco e l'Ortles, completato raid a Capo Nord ed in Islanda. Insieme, nel 2011, Franco e Ileana hanno raggiunto la vetta del Cervino.

 La sfida più dura
  La sfida più dura, e per questo forse ancora più appassionante, si presenta però il 21 settembre 2012, quando Franco Tonoli è vittima di un gravissimo incidente mentre scala una parete in Grecia, sull'isola di Kalymos. Una diagnosi tremenda: frattura di dodici costole, lesione alla milza con emorragia interna ed esplosione della dodicesima vertebra lombare con fuoriuscita del midollo. È' salvo per miracolo, ma con una sentenza difficile da digerire: paraplegia, paralizzato dalla vita in giù. Dopo mesi di crisi e di buio («Non nego di aver pensato al peggio»), Franco scarica la voglia di riscatto di cui è capace nella caccia a strumenti sempre più adeguati per garantirsi una mobilità efficace e quotidiana. Una vera e propria ricerca di libertà. «Dapprima ho affrontato carrozzina e automobile, poi l'handbike, la bicicletta a braccia che è valsa l'oro olimpico ad Alex Zanardi. Su internet, insieme a Ileana, abbiamo scoperto anche il Triride, un monociclo a motore ideato a Civitanova Marche. È l'uovo di Colombo: aggiunge una ruota frontale a una normale carrozzina e la fa diventare un triciclo motorizzato».

 Un esoscheletro robot
  Da internet arriva anche un altro input, decisivo: l'idea di un ricercatore israeliano, Amit Goffer, che ha creato l'esoscheletro ReWalk ("cammina di nuovo") che offre la possibilità di rimettere in piedi persone paraplegiche supportandone i movimenti. «È un robot indossabile - spiega Franco - con piccoli motori posti all'altezza di anche e ginocchia, comandati da un computer portato in uno zaino sulle spalle». A prima vista sembra fantascienza, ma il passaparola, la rete e, soprattutto, la solidarietà di tanti amici in Valle Seriana fanno di Franco un testimonial cocciuto e contagioso, grazie a questo ritrovato della tecnica.

 La gara e un traguardo
  Da qui alla Rewalk race disputata per la prima volta domenica 17 settembre a Brescia il passo (è il caso di dirlo) è davvero breve. Franco è stato uno dei nove partecipanti, che come lui hanno deciso di mettersi in gioco per testare e sviluppare l'esoscheletro realizzato dalla ReWalk Robotics, La gara è stata disputata su un percorso di circa 1,1 chilometri (e per chi si era visto impossibile anche un passo di pochi centimetri è più di una maratona) attorno alla Casa di Cura Domus Salutis, clinica di riabilitazione della Fondazione Teresa Camplani. «Lo scopo - aggiunge Tonoli - è innanzitutto dare visibilità alle reali potenzialità derivanti dall'utilizzo dell'esoscheletro Rewalk, diffonderne la cultura e stimolare il supporto di enti e istituzioni esterne al mondo della riabilitazione. È un'opportunità concreta che la tecnologia mette a nostra disposizione, che può contribuire in modo decisivo alla partecipazione sociale attiva di chi subisce una lesione midollare. La diffusione dell'esoscheletro è la condizione necessaria per abbattere i costi di ricerca e sviluppo». Il traguardo appare possibile e Franco, con Ileana e gli altri runners del ReWalk, non mancherà di tagliarlo.

(Bergamo Post, 25 settembre 2017)


L'Islam retrogrado intralcia la scienza

di Antonio Carioti

L e cifre sono eloquenti. I 21 Paesi islamici dell'Africa e del Medio Oriente contano tutti insieme 14.260 ricercatori scientifici, contro i 45.273 della sola Italia (gli Stati Uniti arrivano a 272.879). Negli Stati a maggioranza musulmana troviamo 230 scienziati per ogni milione di abitanti, negli Usa 4 mila e in Giappone 5 mila. Un divario abissale. Eppure, nota Elio Cadelo nel libro Allah e la scienza, un dialogo impossibile? (Palombi, pp. 239, € 14), non è sempre stato così. Fin verso l'XI secolo erano gli islamici a primeggiare sui cristiani in fatto di conoscenza della natura. Poi però, mentre in Occidente si andava affermando il rispetto per i diritti della persona, tra i musulmani prevalse la chiusura comunitaria. Illuminante una considerazione dello scrittore Tahar Ben Jelloun, riportata da Cadelo: «La modernità è il riconoscimento dell'individuo, mentre nella società arabo-musulmana sono il clan, la famiglia, la tribù che hanno la priorità». Un ambiente poco propizio, dunque, allo sviluppo dello spirito critico che è il motore del sapere. E per giunta oggi condizionato da gruppi fondamentalisti «che hanno stretto la ricerca scientifica nella morsa del fanatismo religioso».

(Corriere della Sera, 25 settembre 2017)


L'integrazione non funziona con l'islam

L'occidente ha saputo assimilare tante culture diverse

Da il Figaro (30/8)

Da un punto di vista occidentale, il mese di agosto 2017 sarà ricordato per una nuova ondata di attacchi terroristici in Europa (in Spagna e in Finlandia) e per il ritorno della questione razziale negli Stati Uniti". Così ha scritto Renaud Girard sul Figaro. "I sanguinari eventi di Barcellona, Turku e Charlottesville sono un brutale monito del fatto che, da oltre una generazione, l'occidente sta affrontando una doppia sfida. I principali paesi occidentali mancano di una coesione interna e soffrono per un accumulo di inconsistenze in politica estera. Il modello d'integrazione attuato nei paesi europei ha funzionato con successo per gran parte della seconda metà del Ventesimo secolo, con le popolazioni di migranti di diverse origini che sono state efficacemente integrate nella società. E' emersa, tuttavia un'importante eccezione: questo modello non sembra avere i mezzi per integrare davvero le popolazioni musulmane. Spesso ci dimentichiamo di riflettere su come i paesi di destinazione appaiono a chi arriva. Effettivamente, c'è ben poco delle nostre società europee contemporanee che possa vincere i cuori dei giovani musulmani. Se siete un giovane musulmano e vi sentite a disagio nel mondo dei centri commerciali, di Disney World, dei reality televisivi e delle catene di fast food e state cercando un ideale cui ispirarvi, che opzioni avete? Il comunismo? Ha fallito. Il cristianesimo? La maggior parte degli europei lo ha abbandonato. Quel che rimane per chi, bisogna dirlo, ha scarsa cultura, è una fantasiosa versione dell'islam dei primi califfi. Il giovane immigrato musulmano è portato a pensare, come proclamano i Fratelli musulmani, che 'l'islam è la soluzione'. La soluzione a tutti i problemi, i suoi e quelli della società che lo circonda. La legge della Sharia è l'unico modo possibile di governare l'uomo".
   Anche la società americana, conclude Girard, "manca di coesione. Non è mai stata tanto divisa. I giovani bianchi sono in guerra aperta con il culto delle minoranze e con l'economia globalizzata che gli establishment accademici e mediatici stanno provando a imporre loro. Formano una base elettorale tanto solida, per Donald Trump, che nessuno può seriamente dire che non possa essere rieletto nel 2020. Il grave errore dell'occidente, in questo nuovo millennio, è stato quello di credere che l'accoglienza di così tante culture diverse e l'adozione da parte del mondo intero dei valori politici occidentali - quelli che sostiene essere 'universali' - non avrebbero generato alcuna violenza".

(Il Foglio, 25 settembre 2017)



*

Guerra di civiltà

Quando l’Islam ha cominciato a invadere l’Occidente, i democratici multiculturalisti hanno detto: “Non deve essere una guerra di civiltà: tutti siano liberi di osservare i dettami della propria religione”. Ma in giorno in cui questo dovesse avvenire, l’Islam avrebbe perso la sua guerra, la sua “jihad”, perché il multiculturalismo democratico è la fine dell’Islam. Riconoscendo questa realtà, e non inseguendo i propri sogni, l’Occidente avrebbe dovuto dire: “Sì, è una guerra di civiltà, e vogliamo vincerla. Con le armi della nostra civiltà, le armi legislative delle costituzioni democratiche, cioè concedendo libertà nei limiti della legge e reprimendo, anche con la legittima forza, ogni tentativo di scavalcarle in nome della propria religione”. Non volendo fare subito questo, e non potendolo più fare da un certo momento in poi, l’Occidente si avvia a perdere la sua “guerra di civiltà”. Perché nei momenti decisivi le armi della civiltà islamica sono quelle della “sacra” violenza. Per l’Islam la guerra di civiltà non è una deviazione, ma un sacro dovere. E ha il dovere di vincerla. Si direbbe invece che la democrazia laica, che si vanta del suo governo dal basso (il popolo), nella sua forma più matura fa emergere la sua tendenza più intima: la vocazione al suicidio. "Cupio dissolvi". M.C.

(Notizie su Israele, 25 settembre 2017)


Turismo, la sfida della Giordania, sicurezza ed ospitalità

Le presenze risalgono, Amman vuole offrire piu' della sola Petra. Arrivano anche gli israeliani.

di Patrizio Nissirio

 
Resti dell'antica Gerasa - La Piazza Ovale
AMMAN - Alle 10:30 in punto, la luce e' al suo meglio sulla facciata del Tesoro di Petra, una delle bellezze archeologiche piu' straordinarie al mondo, resa ancor piu' celebre dalla sua apparizione in Indiana Jones e l'ultima crociata. In quella manciata di minuti, lo spiazzo davanti al tempio scavato nella roccia arenaria dagli antichi nabatei, e' pieno di turisti, intenti a farsi selfie o a farsi riprendere sulla groppa di un dromedario. Ma poco dopo, lo spazio si svuota. La Giordania, dopo anni di crisi del turismo causata da crisi e tensioni che la circondano - prima fra tutte la guerra in Siria e l'enorme massa di profughi che ha varcato il suo confine -, sta risollevando il capo, ma il piazzale del Tesoro ben racconta lo stato dell'arte: i visitatori iniziano a tornare, ma affollano brevemente i suoi siti piu' celebri, come il biblico monte Nebo, perdendosi le infinite altre bellezze di questo paese mediorientale. Che ora pero' vuole puntare proprio sulle sue meraviglie meno note e sulla sua capacita' di accogliere - in tutta sicurezza e con impeccabile ospitalita' - il visitatore.
   Le cifre del 2017 sono incoraggianti: le presenze sono aumentate del 14,5% nella prima meta' dell'anno, e il resto della stagione sembra consolidare la tendenza, grazie a un incremento di visitatori da Europa e Nord America. Forte anche la presenza di turisti asiatici. E proprio per rafforzare l'immagine di Paese sicuro ed accogliente, a Jerash - citta' romano-elenistica magnificamente conservata, con centinaia di colonne che hanno resistito ai secoli - c'e' stato qualche giorno fa un grande concerto di Andrea Bocelli, il primo in Giordania del tenore.
   Ma accanto a Jerash - l'antica Gerasa: in Giordania dicono che l'imperatore Adriano vide qui per la prima volta i ciliegi, da cui verrebbe il nome 'cerase' al posto di ciliegie usato in molti dialetti italiani - il Paese racchiude altri siti che non vengono visitati abbastanza. Per esempio Beida, la 'piccola Petra'. Se la piu' celebre Petra (che sorge a 14 km da qui) era una citta' a tutto tondo, questo sito, che le somiglia a causa di uno stretto canyon (siq) tra le rocce e strutture scavate sugli alti muraglioni, era un punto di sosta di alto livello per le carovane che percorrevano la via dell'incenso. Qui ci sono addirittura affreschi ben conservati sui soffitti degli ambienti dove dormivano i commercianti piu' facoltosi.
   Oppure, vicino al monte Nebo, il sito Unesco di Umm ar-Rasas: qui, dove non viene praticamente nessuno, si vedono i resti di un'antica città carovaniera romano-bizantina dove sorgevano ben 56 chiese, che dal 665 a.D.fino all'anno 900 fiori come punto di fermata per merci e persone anche sotto al dominio islamico della zona. Un terremoto la cancellò (dal 2004 è sito Unesco, ma solo una piccola parte è stata riportata alla luce dagli scavi).
   La Giordania ha formidabili bellezze naturali e numerose riserve che le tutelano. La piu' famosa di tutte, il deserto di Wadi Rum, e' talmente scenografica che qui sono stati girati ben 12 film, tra cui Lawrence d'Arabia, Transformers 2 e The Martian con Matt Damon. Il colore rosso di rocce e sabbia sembra davvero marziano. Qui il visitatore puo' alloggiare in campi tendati perfettamente attrezzati, nel silenzio irreale del deserto, come a Hasan Zawaideh. Spiega Ziad Al-Kurdi, veterano delle guide giordane: ''Al parcheggio all'ingresso del parco naturale un tempo c'era la folla di pullman, oggi neanche uno, nonostante settembre sia il mese ideale per Wadi Rum. Serve davvero l'aiuto di tutti per rilanciare il turismo''. I visitatori, per lo piu' locali, con qualche saudita o israeliano, vengono per lo piu' per un solo giorno ed una sola gita.
   Ma se il visitatore preferisce il turismo puro, la Giordania ha anche la sua attrezzatissima costa del Mar Morto, o gli alberghi di Aqaba, sul mar Rosso. Cosi' sicuri che - anche qui - vengono in massa gli israeliani a passare i weekend. Lo conferma anche Mariangela, che fa la chef nel ristorante di un grande albergo sul grande lago salato che divide Israele e Giordania.
   ''Qui mi sento piu' al sicuro che in Europa, di questi tempi. In piu' non c'e' neanche microcriminalita'''.

(ANSAmed, 25 settembre 2017)


Israele - Aumento delle bollette a causa dei danni al giacimento Tamar

GERUSALEMME - Un problema tecnico alla piattaforma del principale giacimento di gas in Israele ha temporaneamente paralizzato la fornitura di gas naturale nelle case degli israeliani con conseguente aumento delle bollette a causa del ripiego delle centrali elettriche su combustili più costosi. Lo ha riferito ieri la stampa israeliana che riporta le dichiarazioni del ministro dell'Energia: "A causa di un malfunzionamento riscontrato durante i lavori di manutenzione previsti per il giacimento Tamar, la fornitura di gas naturale è stata completamente sospesa almeno per una settimana". L'incidente fornisce materiale ai critici del sistema di approvvigionamento di gas naturale che evidenziano la pericolosità di dipendete da una sola fonte energetica.

(Agenzia Nova, 25 settembre 2017)


Il retaggio ebraico dell'Oktoberfest

di Angelita La Spada

L'Oktoberfest, l'annuale festa della birra di Monaco di Baviera in programma quest'anno dal 16 settembre al 3 ottobre, ha radici ebraiche. Questa kermesse, divenuta oggi simbolo della echt-cultura eno-gastronomica tedesca, da secoli è frutto del grande impegno profuso da un gruppo di ebrei tedeschi nella costruzione dell'impero della birra in Germania, prima della Seconda guerra mondiale.
   Il coinvolgimento degli ebrei nella produzione della millenaria bevanda iniziò durante il Rinascimento. Prima che venisse promulgata nel 1516 la legge sulla purezza della birra, i mastri birrai potevano utilizzare e miscelare qualsiasi ingrediente volessero. Ma in seguito all'introduzione del Reinheitsgebot (l'editto della purezza) che imponeva solo l'impiego di luppolo, orzo, lievito e acqua, la domanda di luppolo aumentò. Questo avvenne in un momento critico per gli ebrei tedeschi, che espulsi dalle maggiori città si trasferirono nei villaggi delle zone rurali e dovettero cercare nuove occupazioni. Fu così che essi avviarono una nuova attività, perché se era loro vietato birrificare potevano tranquillamente dedicarsi al commercio del luppolo. A Norimberga, ad esempio, nel 1890, circa il 70 per cento delle aziende agricole coltivatrici di luppolo erano di proprietà ebraica. In tal modo, dal XV secolo fino all'ascesa al potere di Hitler, la filiera tedesca del luppolo rimase per la maggior parte nelle mani degli ebrei per poi essere "arianizzata".
   Nel 1869, quando la Confederazione della Germania del nord introdusse la libertà di commercio, i giovani ebrei inventarono una nuova arte: affinare la creazione dei boccali da birra. In una stanza, i boccali in porcellana venivano decorati, in un'altra, i coperchi erano ricoperti da uno strato di stagno, e in una terza stanza le due parti venivano compattate. Fu anche concessa agli ebrei pari dignità, e così non essendo più esclusi dall'industria della birra essi si dedicarono con successo alla produzione della bevanda.
   Ad esempio, Jakob von Hirsch, un banchiere della famiglia reale di Baviera, nel 1824 acquistò una tenuta in cui sorgeva un castello a Planegg, appena fuori Monaco, dove impiantare un birrificio, il Planegg Castle Brewery, che dopo essere stato contrastato per anni iniziò la produzione nel 1836 e divenne il primo
stabilimento industriale, riuscendo a rivoluzionare il comparto della birra del paese. In seguito, il Planegg fu confiscato dai nazisti che lo utilizzarono come deposito di medicinali e come rifugio antiaereo durante la Seconda guerra mondiale. Si pensi anche al Löwenbräu che ancor oggi è uno dei birrifici più grandi e di successo della Germania oltre ad essere uno dei sei marchi autorizzati a servire la birra all'Oktoberfest. A metà del XIX secolo, quando la Germania ampliò la sua rete ferroviaria, Moritz Guggenheimer allora a capo dell'azienda birraia colse l'opportunità di questa rivoluzione nel mondo dei trasporti per trasformare la birra Löwenbräu in un prestigioso prodotto d'esportazione. Nel 1895, Josef Schülein rilevò l'Unionbrauerei in fallimento. Intorno al 1903, il birrificio divenne una società per azioni e poi nel 1905 l'azienda acquisì un altro birrificio di Monaco, il Münchner Kindl. Questo assorbimento permise all'Unionsbrauerei di espandere la sua capacità produttiva e aumentare le vendite di birra. Ma lo scoppio della Prima guerra mondiale ebbe gravi conseguenze su tutti i birrifici tedeschi dal momento che le esportazioni diminuirono e le vendite locali subirono un crollo. Schülein però non si fece scoraggiare dalla crisi e nel 1916 acquisì la Kaltenberg una fabbrica di birra a ovest di Monaco che modernizzò rapidamente introducendo un impianto di produzione del malto e apportando altre innovazioni. Dopo la fine della guerra la Löwenbräu navigava in pessime acque e nel 1921 si procedette a una fusione con la Unionsbrauerie, mantenendo il prestigioso nome. Josef Schülein cedette il timone al figlio Hermann, che divenne il presidente della società e azionista di maggioranza riuscendo nell'impresa di incoronare la Löwenbräu come fabbrica di birra più grande della Germania. Con l'avvento al potere dei nazisti, nel 1933, tutti i membri ebrei del consiglio di amministrazione del birrificio, furono costretti a dimettersi, la società fu "arianizzata" e venduta a tedeschi non ebrei. Josef Schülein si ritirò nel castello di Kaltenberg, dove morì nel 1938. I nazisti confiscarono le proprietà della famiglia Schülein e deportarono a Dachau un altro figlio di Josef, Fritz. Quanto a Hermann, nel 1935, riuscì a fuggire a New York con la sua famiglia e divenne direttore del famoso birrificio Rheingold di Brooklyn, fondato da un'altra famiglia ebrea che aveva lasciato la Germania alla fine del 1800.
   Il castello di Kaltenberg ritornò nelle mani degli Schülein nel 1948 e Fritz, reduce dalla prigionia a Dachau, si occupò della gestione del birrificio che non riuscì però a bissare il successo antecedente alla guerra. Nel 1954, l'epilogo: il marchio fu venduto ai discendenti della casa reale bavarese dei Wittelsbach e ora il principe Luitpol Rupprecht Heinrich, Prinz Von Bayern, pronipote dell'ultimo re di Baviera, Ludwig III, è l'amministratore delegato del König Ludwig Schlossbrauerei Kaltenberg. Anche il Löwenbräu ritornò agli Schülein dopo la guerra, ma pure questo fu venduto. Quanto al castello di Planegg, nel 1950 fu restituito alla famiglia Von Hirsch, ma dal 1964 funge da deposito per la Biblioteca statale bavarese.
   La cultura tedesca della birra affonda le radici nella saga delle famiglie ebree tedesche produttrici di questa bevanda plurisecolare che è frutto di passione e simbolo di orgoglio nazionale. Famiglie che hanno lasciato la loro impronta in questo bene culturale plurisecolare da riconoscere come patrimonio culturale immateriale dell'umanità.

(L'informale, 24 settembre 2017)


Ministro della Difesa russo atteso in Israele

Nell'incontro Shoigu-Lieberman sarà discusso il ruolo dell'Iran.

Il ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, è atteso il mese prossimo in Israele per una visita di lavoro durante la quale affronterà fra l'altro la questione del coordinamento di sicurezza in Siria tra Russia ed Israele. Lo ha reso noto l'ufficio del ministro della Difesa Avigdor Lieberman, citato dalla radio israeliana. Si tratta della prima visita di Shoigu in Israele e la prima di un ministro russo della Difesa in diversi anni. I responsabili israeliani alla Difesa annettono grande importanza a questo viaggio, ha aggiunto l’emittente secondo cui è anche prevedibile che Israele ribadirà la propria preoccupazione per la crescente presenza in Siria delle forze iraniane e delle milizie sciite a loro alleate.

(ANSA, 24 settembre 2017)


L'Iran spara un missile. L'obiettivo è Israele

Testato il Khorramshar, che può raggiungere Gerusalemme. Vacilla l'accordo con gli Stati Uniti sul nucleare

di Carlo Panella

L'intesa del 2015
Nel luglio del 2015, l'Iran e il gruppo dei 5+1 raggiungono un accordo sul programma atomico iraniano, che esclude- rebbe l'utilizzo delle tecnologie nucleari per scopi bellici.

Carta straccia
Voluto fortemente dall'allora presidente Usa, Barack Obama, l'accordo tuttavia non è mai stato ratificato dal Congresso americano e l'attuale amministrazlone degll Stati Uniti, attraverso il segretario di Stato Rex Tillerson ha espresso forti riserve al proposito, in quanto Teheran è uno sponsor del terrorismo sciita.

Sanzioni in vista
Entro il 15 ottobre, Trump è chiamato a certificare ai parlamentari se Teheran sta rispettando il piano d'azione o no. Se affermerà che lo sta violando, il Congresso avrà 60 giorni di tempo per tornare ad imporre le sanzioni eliminate. Tra i parlamentari c'è una maggioranza repubblicana già decisa a ristabilire le misure.

Con non casuale coincidenza, l'Iran ieri si è affiancato alla Corea del Nord nella sfida provocatoria a Donald Trump e alle democrazie, in particolare a Israele. La televisione di Stato Dim Teheran Ibis ha infatti annunciato il lancio di un nuovo missile, il Korramshar che ha la portata di 2.000 chilometri. Un missile che ha senso solo se dotato di testata nucleare. Questo, dopo che dal palco dell'Onu, Trump ha giudicato «imbarazzante» l'accordo sul nucleare siglato con l'Iran da Barack Obama, aggiungendo che ha preso una decisione a proposito, senza però specificare quale. Gli Usa infatti ritengono che l'accordo sul nucleare con l'Iran implichi il divieto di nuovi test missilistici. Interpretazione nettamente rigettata dagli ayatollah, tanto che il presidente Rohani ha sfidato e irriso Trump con un discorso irriverente: «Sarebbe un peccato se l'accordo fosse distrutto da canaglie principianti della politica». Due giorni dopo queste parole, l'esperimento missilistico. Una minaccia cogente e terribile per Israele che è in pieno alla portata di questo missile, che si somma alle manovre aggressive che l'Iran sviluppa in Siria, con l'incremento parossistico delle forniture di missili a corto e medio raggio alle milizie di Hezbollah che presidiano ormai anche i confini tra lo Stato ebraico e la Siria, tanto che l'aviazione israeliana compie settimanalmente raid contro i depositi di nuove armi iraniane in Siria.
   La contemporaneità della provocazione iraniana con quelle della Corea del Nord non è affatto casuale: da più di dieci anni infatti i due Paesi hanno concretizzato un'intensa collaborazione tecnico-scientifica in campo militare. Il missile Khorramshar infatti è assolutamente simile al Musadan prodotto e lanciato provocatoriamente da Pyongyang sui cieli del Giappone- così come i missili iraniani Shahb3 sono identici ai nordcoreani Nodong e gli Shahab2 iraniani sono uguali ai nordcoreani Hwasoong.
   Trump e tutti i Paesi democratici si trovano dunque ora a fronteggiare in contemporanea due «Stati canaglia», come giustamente li definiva George W. Bush, che hanno due sistemi politici ben diversi, ma che non a caso hanno intessuto una collaborazione militare intensissima per sviluppare strategie oltranziste e provocatorie assolutamente simili. Si pensi che l'impianto nucleare che gli iraniani avevano costruito in Siria a Deir Ezzor e che l'aviazione israeliana rase al suolo nel 2007 era la copia degli impianti nucleari nordcoreani, a testimonianza di una collaborazione iniziata da lungo tempo. Non basta: mesi fa è stata intercettata una nave nord coreana che trasportava materiale militare verso la Siria a conferma di una ipotesi più che allarmante: l'Iran sta usando del territorio di quello che è ormai diventato un suo Stato vassallo, per sviluppare quei programmi militari e nucleari che sono proibiti dal trattato siglato con Obama. Una sorta di outsourcing aggressivo.
   Non è chiaro quale sia la strategia che Donald Trump intenderà ora sviluppare nei confronti dell'Iran, se sia di rottura completa dell'accordo sul nucleare o di sua usura. Ma è chiaro invece che Israele è assolutamente determinato a contrastare con la sua abituale durezza i progetti iraniani, a partire da quello ormai evidente di trasformare la Siria in un formidabile avamposto iraniano per distruggere Israele, impegno che da sempre gli ayatollah, incluso il «riformista» Rohani, proclamano a gran voce.

(Libero, 24 settembre 2017)


Monopoli - Palazzo Palmieri, la prima volta di un matrimonio in rito ebraico

Nell'edificio settecentesco celebrate le nozze tra Michali e Roy, ventottenni di Tel Aviv

di Eustachio Cazzorla

 
Il fatidico «sì». La coppia di Tel Aviv affacciata da Palazzo Palmieri
MONOPOLI - La prima volta di Palazzo Palmieri. Un matrimonio ebraico è stato celebrato con lo sfondo dell'atrio interno del palazzo che negli ultimi anni è stato il set prediletto dei migliori film e fiction girate in zona.
   Ieri anche il battesimo di Cupido e l'immancabile rottura del bicchiere come già fatto dai Sutton-Cohen nemmeno un mese fa nel Castello di Santo Stefano. Questa volta non ci sono i miliardari e le dirette tivù. Nemmeno la ressa di fotografi e giornalisti. Il matrimonio sarebbe passato in sordina se non fosse che è la prima volta per l'edificio settecentesco, ora trasformato anche in location per matrimoni.
   Gli sposi sono Michali e Roy, entrambi di 28 anni. Lei ha una casa di moda, lui è interior designer, vivono a Tel Aviv, la metropoli israeliana che si affaccia sul Mediterraneo. Da almeno 4 anni vengono in vacanza a Monopoli e hanno trovato la città così romantica da decidere di pronunciare qui il fatidico «sì».
   L'altra sera l'addio al celibato, insieme, alla Grotta Palazzese di Polignano a Mare. Ieri, dopo la promessa di matrimonio, il rinfresco al Carlo V, in pratica sul lungomare che nel 2014 accolse il red carpet con Pippa Middleton e il principe Harryfra gli ospiti eccellenti di un altro matrimonio vip, ma nel Castello. Giacomo Rizzo, dell'agenzia matrimoniale «Sublimae», ha curato ogni dettaglio della cerimonia e ha anche spiegato che al Castello cittadino l'evento non poteva tenersi in quanto l'autorizzazione è limitata al rito civile. Da Israele non è arrivato nemmeno il nulla osta a sposarsi in un luogo che non sia una sinagoga e allora il bicchiere è stato rotto lo stesso, come usano gli ebrei, il «sì» è stato pronunciato alla presenza dei testimoni.
   Per confermare che tutto il mondo è paese, Michali ha lanciato il suo bouquet fra la gioia dei presenti, una schiera di una cinquantina di amici, giunti direttamente da Israele. Tutti in abito elegante come si conviene al momento del «sì». Le foto dopo il lancio del bouquet dalla balconata del primo piano del palazzo in stile barocco napoletano che si ispira a Palazzo Sanfelice nella città partenopea. La cerimonia è simbolica ma rilancia Palazzo Palmieri a luogo prediletto per i matrimoni. «Quanto donato dagli sposi al Palazzo - spiega il commissario straordinario dell' Asp Romanelli-Palmieri Marilù Napoletano - confluisce nel fondo a favore del restauro del portale».

(La Gazzetta di Bari, 24 settembre 2017)



Il libro della vita e lo stagno di fuoco

Poi vidi un grande trono bianco e colui che vi sedeva sopra. La terra e il cielo fuggirono dalla sua presenza e non ci fu più posto per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. I libri furono aperti, e fu aperto anche un altro libro che è il libro della vita; e i morti furono giudicati dalle cose scritte nei libri, secondo le loro opere. Il mare restituì i morti che erano in esso; la morte e il soggiorno dei morti restituirono i loro morti; ed essi furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere. Poi la morte e il soggiorno dei morti furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, cioè lo stagno di fuoco. E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco.
Dal libro dell'Apocalisse, cap. 20

 


Reggio Calabria - "Viaggio nella cultura e nelle tradizioni dei popoli mediterranei"

di Danilo Loria

Rinviato a data da destinarsi l'incontro su Carosello nel 60o anniversario, l'Associazione Culturale Anassilaos avvia il prossimo 26 settembre presso la Sala di San Giorgio al Corso, alle ore 17,30 un ciclo di incontri dal tema "Viaggio nella cultura e nella tradizioni dei popoli mediterranei" nella circostanza dedicato al cibo "kashèr" con l'intervento della Dr.ssa Daniela Scuncia . Non vi può, infatti, essere incontro tra i popoli che abitano le rive di questo antico mare ricco di storia, di cui noi reggini siamo una parte significativa, senza conoscere abitudini e tradizioni di questi stessi popoli a cominciare proprio dal cibo.
   "Esattamente come il linguaggio - scrive il Prof. Massimo Montanari in un saggio dedicato al cibo come cultura - la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria delle tradizioni e dell'identità di gruppo. Costituisce pertanto uno straordinario veicolo di auto rappresentazione e di comunicazione: non solo è strumento di identità culturale, ma il primo modo, forse, per entrare in contatto con culture diverse, giacché mangiare il cibo altrui sembra più facile - anche se solo all'apparenza - che decodificarne la lingua". La condivisione dello stesso cibo, in famiglia, in occasione di determinati avvenimenti sociali, nella quotidianità, introduce le persone nella stessa comunità, le rende membri della stessa cultura, le mette in comunicazione. Il dono del cibo ad esempio, getta un ponte tra noi e l'altro, e in tutte le società ha sempre avuto un peso rilevante nelle dinamiche sociali. Il termine "convivio" rimanda etimologicamente a "cum vivere", vivere insieme. Mangiare insieme (un altro carattere tipico, se non esclusivo, della specie umana) è un altro modo ancora per trasformare il gesto nutrizionale dell'alimentazione in un fatto eminentemente culturale. In quanto dimensione umana basilare e universale, il cibo "è centrale alla religione - come simbolo, soggetto di preghiere, come segnale di condivisione e non condivisione, come elemento di comunione". Il valore simbolico degli alimenti nelle grandi religioni può difficilmente essere sopravvalutato.
   Nell'Ebraismo un numero notevole delle 613 mitzvot (precetti) che guidano la vita di un ebreo osservante riguarda la sfera alimentare e trae origine da importanti passaggi dell'Antico Testamento. Seguire le norme della Kasherut al riguardo dei cibi permessi o vietati, leciti e illeciti è un vero labirinto che i rabbini sono chiamati spesso in prima persona a chiarire nell'evolversi dei sistemi di produzione e la diffusione di prodotti provenienti da ogni parte del mondo. Anche la letteratura di autori di origine ebraica ci parla di cucina: di cibo o della sua mancanza. È un proposta di approccio trasversale alla cultura ebraica che ha attraversato anche la nostra terra, lasciandoci non pochi segni del suo passaggio.

(strettoweb.com, 23 settembre 2017)


Haifa International Film Festival 33

Tanto cinema italiano in Israele

di Simone Pinchiorri

C'è tanto cinema italiano alla trentatreesima edizione dell'Haifa International Film Festival, in programma nella città israeliana dal 5 al 14 ottobre 2017.
Due i film in concorso per il Golden Anchor: "A Ciambra" di Jonas Carpignano e "Una Questione Privata" di Paolo e Vittorio Taviani
Nella sezione Panorama saranno proiettati "Amori che Non Sanno Stare al Mondo" di Francesca Comencini, "Il Colore Nascosto delle Cose" di Silvio Soldini, "L'Intrusa" di Leonardo Di Costanzo e "Sette Giorni" di Rolando Colla.
L'animazione "Gatta Cenerentola" di Ivan Cappiello, Alessandro Rak, Dario Sansone e Marino Guarnieri sarà presentata in Midnight Madness, mentre in Masters, sezione dedicata ai maestri del cinema, è in programma "La Tenerezza" di Gianni Amelio.
Infine, in Haifa Classics sarà preiettato "La Strada" (1954) di Federico Fellini.

(cinemaitaliano.info, 24 settembre 2017)


Il missile dell'Iran: fra Trump e Rohani non metterci le "Guardie della Rivoluzione"

di Roberto Santoro

Anche per l'Iran come per la Corea del Nord rullano i tamburi di guerra. O almeno così sembra. Nel suo discorso pronunciato alle Nazioni Unite nei giorni scorsi, il presidente americano Donald Trump è andato all'attacco di Teheran e dell'accordo stretto a suo tempo dal presidente Obama con i turbanti atomici proprio sul nucleare, meglio conosciuto come "Iran deal". Trump ha definito l'accordo di Obama "imbarazzante" e l'espressione sconsolata dell'ambasciatore iraniano al Palazzo di Vetro mentre il Don parlava diceva tutto della distanza siderale che c'è tra Washington e Teheran. Tanto più che appena cinque giorni dopo gli iraniani lanciano un nuovo tipo di missile a lunga gittata, "Khorramshahr", dopo averlo fatto sfilare in pompa magna nella capitale in occasione di una parata. A dare la notizia del lancio, le Guardie della Rivoluzione, la potente elite militare del Paese, che hanno in dotazione la testata e definiscono il test "un successo". Il Khorramshahr può essere armato con testate multiple ed ha un raggio di azione di 2.000 chilometri (come i precedenti Qadr-F e Sejjil). Insieme ai missili è scattata anche una grande mobilitazione di terra con esercito, artiglieria pesante e mezzi aerei.
  Scontata la reazione di Israele, unica democrazia dell'area minacciata da decenni dal regime iraniano (Ahmadinejad, il predecessore dell'attuale presidente Rohani, voleva cancellare Israele dalle carte geografiche). Dopo il lancio del missile, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha tuonato accusando Teheran di avere mire espansionistiche: "Il missile balistico che l'Iran ha lanciato è una provocazione per gli Stati Uniti e i suoi alleati, a partire da Israele", ha detto Lieberman. "Questo significa anche testare le nostre reazioni, oltre che essere una nuova prova dell'ambizione dell'Iran di diventare una potenza mondiale per minacciare i paesi del Medio Oriente e gli stati democratici nel mondo". Gerusalemme dunque tira in ballo Washington ma che farà Trump dopo il discorso infuocato alle Nazioni Unite? Cosa c'è dietro il sibillino "ho deciso" pronunciato dal presidente Usa a proposito dell'accordo nucleare voluto da Obama con gli iraniani? E siamo sicuri che l'Iran è così folle da stracciare gli accordi e minacciare Israele e gli Usa proprio adesso che a Washington c'è un uomo che dietro i toni incendiari non sembra esattamente il ritratto del pistolero con le dita pronte a tirare il grilletto?
  Certo, l'Iran resta una minaccia alla stabilità internazionale, è un Paese che finanzia i terroristi di Hamas a Gaza e l'Hezbollah libanese, ed ha allargato la sua sfera di influenza a paesi chiave del medio oriente come il Libano, la Siria e l'Iraq, ma il lancio del missile che rischia di archiviare gli accordi sul nucleare forse non è solo una reazione al discorso di Trump all'Onu. C'è anche la politica iraniana. Per quanto l'Iran sia un regime 'bulgaro', in cui il potere si concentra nelle mani dei chierici falchi o 'moderati' che siano, dopo la vittoria di Rohani alle ultime elezioni (è il secondo mandato) le crepe tra l'entourage del neo presidente e le Guardie della Rivoluzione pare si siano allargate, e molto, anche per ragioni economiche. Chissà insomma che dietro il lancio del missile non si nasconda una qualche prova di forza interna. La propaganda all'esterno in ogni caso resta identica al passato, "l'Iran non cercherà il permesso di nessun Paese per produrre missili di vario tipo e armi di difesa terrestre, navale e aerea", dice minaccioso il ministro della difesa Hatami, "finché la retorica di alcuni costituirà una minaccia, il rafforzamento del potere di difesa dell'Iran continuerà". Messaggio inequivocabile a Trump, ma ricordiamo che prima del discorso di Donald all'Onu c'erano state le condoglianze espresse dalla Casa Bianca all'Iran dopo l'attentato di Isis dentro il parlamento di Teheran. Condoglianze che scatenarono un mare di polemiche ma che a leggerle bene avevano un che di "simpatetico" verso Teheran, come ha scritto The Atlantic.
  Per adesso non sembra che gli USA abbiamo messo in campo azioni precise per rompere gli accordi con l'Iran del 2015, anzi c'è chi dice che gli accordi potrebbero essere anche allargati, ad esempio proprio ai missili balistici. Scopriremo presto o tardi qual è il piano che ha in testa Trump: se prendere le distanze dalla Unione Europea e dagli altri sostenitori dell'Iran Deal (anche troppo sostenitori, se si pensa all'atteggiamento dell'Alto Rappresentante Mogherini verso l'Iran), schierandosi apertamente con Israele, oppure mediare tra le diverse parti in campo, magari con l'aiuto di Putin e scegliendo come scacchiere la martoriata Siria, alleato storico dell'Iran.

(l'Occidentale, 23 settembre 2017)


Conferenze a Torino



Locandina

(Chiamata di Mezzanotte, settembre 2017)


Aslanov: «una rivoluzione culturale e linguistica chiamata Israele»

Da quando esiste la diaspora, gli ebrei hanno dovuto reinventarsi sempre, grazie a legami transnazionali. Ma con Israele tutto cambia: uno Stato e un'unica lingua moderna, intorno a cui gravita l'identità ebraica.

di Ilaria Myr

Sono due, secondo il filosofo Gershom Scholem, le grandi innovazioni che il sionismo ha portato nella storia e nell'identità ebraica: la prima è che essa ha permesso al popolo ebraico di tornare, dopo molti secoli, a essere soggetto della propria storia, invece che oggetto in balia del buono o cattivo volere delle nazioni. La seconda riguarda la scelta dell'ebraico come lingua moderna ufficiale di questo nuovo Stato-nazione, che da idioma liturgico e dotto è diventato moderno, quotidiano e vivo». La nascita di Israele costituisce una linea spartiacque nella vita ebraica secondo lo studioso Cyril Aslanov, studi di filologia greca e di linguistica alla Sorbona e alla Ecole Normale Superiore di Parigi (rue d'Ulm), ex docente alla Hebrew University di Gerusalemme, professore oggi a Aix-Marseille Université nonché membro dell'Accademia della Lingua ebraica e docente di Letteratura del Corso di Laurea triennale in Studi ebraici dell'UCEI, che parteciperà il 10 settembre a Milano alla Giornata europea della cultura ebraica con un intervento intitolato "Diaspore in cammino: lingue e identità alla deriva".
   «Prima di questa trasformazione fondamentale sono sempre esistite metropoli ebraiche importanti - continua Aslanov -: Alessandria d'Egitto, Babilonia, e più tardi Al-Andalus, cioè la Spagna arabo-musulmana, e, ancora, la Grande Polonia del XVI-XVII secolo: ognuna di queste aree è stata, a suo tempo, il centro a cui molti ebrei volgevano gli occhi. Quello che però avviene di rivoluzionario con Israele è che dal 1948 gli ebrei hanno un unico luogo dove vivere e riunirsi».
   Attenzione, però, a non cadere nella trappola diffusa di considerare la diaspora come prerogativa del popolo ebraico, avverte Aslanov: armeni nel Medioriente, cinesi nell'Asia sudorientale e altre popolazioni minoritarie hanno da sempre avuto un destino simile a quello degli ebrei, molto spesso per motivi commerciali. Come spiega lo studioso: «sono molte le realtà - fra cui anche quella ebraica -, che, sotto la spinta degli eventi, hanno dovuto fare di necessità virtù, reinventando la propria vita, e trasformando così la sciagura dello sradicamento nel vantaggio della mobilità nell'ambito di una rete transnazionale ben organizzata». Quello che certamente ha da sempre caratterizzato la diaspora ebraica è infatti il fatto di essere "transnazionale", cioè basata su forti scambi e legami indipendenti dalla vicinanza geografica. Che fosse per sposarsi con persone della propria origine, per gestire affari commerciali o per scegliere la yeshivà migliore dove studiare, gli ebrei hanno sempre agito basandosi su reti di conoscenze - dirette o indirette, ma comunque ritenute affidabili - che davano sicurezza anche se portavano a viaggiare o trasferirsi altrove. «Basti pensare agli ebrei portoghesi - continua Aslanov -, che ad Amsterdam tendevano ad avere contatti solo con connazionali, preferendo addirittura trattare con conoscenze ancora residenti in Portogallo - alcune volte recandosi fisicamente in quella "terra di idolatria" e fingendo provvisoriamente di essere cattolici per nascondere la propria identità ebraica - piuttosto che avere a che fare con i propri correligionari askenaziti della città olandese».
   E la lingua? Fino alla creazione della grande "casa nazionale" gli ebrei nel mondo avevano in comune solo l'uso dell'ebraico nella liturgia e nella cultura religiosa, ma ogni centro diasporico aveva la sua lingua quotidiana, basata su quella del luogo di origine. Si creava quindi una "diglossia", un bilinguismo fra sfera culturale e religiosa e vita quotidiana con, in quest'ultima, alcuni casi di "ebraicizzazione" (si pensi al giudaico-romanesco o al ladino).
   Dal 1948, però, Israele è diventato, insieme agli Stati Uniti, il polo intorno al quale gravita l'identità ebraica mondiale, con conseguenze anche sulla sfera linguistica. «A seconda del Paese, si è più vicini a Israele o agli Usa - spiega-: l'Italia, ad esempio, è più attratta dallo Stato ebraico, mentre il Venezuela è più orientato verso gli Stati Uniti. In ogni caso, un fatto è certo: l'ebraismo di oggi non può prescindere da uno di questi due poli».

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, 23 settembre 2017)


Siria: Israele contro Hezbollah

Israele ha bombardato un deposito di armi appartenente a Hezbollah situato nei pressi dell'aeroporto internazionale di Damasco.

Il direttore dell'Osservatorio siriano per i diritti umani, Rami Abdel Rahman, ha riferito che, nella notte tra giovedì 21 e venerdì 22 settembre 2017, "gli aerei da guerra israeliani hanno lanciato alcuni missili contro un deposito di armi, che apparteneva a Hezbollah, nei pressi dell'aeroporto".
   Non è la prima volta che Israele compie raid aerei in Siria. L'ultimo attacco israeliano risale al 7 settembre 2017, quando un aereo da guerra israeliano aveva bombardato una postazione militare siriana nei pressi della città di Musyaf, nel governatorato di Hama, causando la morte di due soldati. In tale occasione, i media israeliani avevano riferito che l'obiettivo sarebbe stato un sito iraniano per la produzione di missili in favore di Hezbollah.
   Israele, infatti, accusa l'Iran di aver costruito fabbriche per la produzione di missili sia in Siria sia in Libano. Il 25 giugno 2017, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva avvertito l'Iran sulle conseguenze cui sarebbe andato incontro nel caso in cui avesse proseguito nello stabilire in Libano industrie per la produzione di armi, a vantaggio di Hezbollah, sottolineando che Israele avrebbe risposto con la forza ad ogni attacco contro il proprio territorio e contro i suoi cittadini.
   Gli attacchi israeliani nel territorio siriano si sono intensificati nell'ultimo periodo, dal momento che Israele teme l'estensione dell'influenza iraniana in Siria. Il 28 agosto 2017, in occasione di un incontro con il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a Tel Aviv, Netanyahu aveva affermato che Teheran starebbe trasformando la Siria in una fortezza miliare e che ciò farebbe parte di un più ampio piano iraniano mirato a cancellare Israele. Gli ufficiali della sicurezza israeliana, inoltre, temono che Teheran possa utilizzare la zona occidentale dell'Iraq e quella orientale della Siria come un "ponte" per unire l'Iran al Libano, permettendo il transito di combattenti e di armi tra i due Paesi.
   Dal canto suo, l'Iran appoggia le milizie sciite in Siria, Yemen e Libano. Sostenendo le milizie di Hezbollah, che combattono in Siria a fianco di Al-Assad, l'Iran contribuisce a potenziarne le capacità militari, estendendo in tal modo il suo fronte con Israele dal sud del Libano alle alture del Golan.
   Negli ultimi mesi, il timore di Israele è aumentato, a causa dell'intensificarsi degli scontri delle milizie sciite siriane e libanesi vicino ai propri confini. Per questo motivo, Tel Aviv starebbe rafforzando la propria opposizione nei confronti dell'Iran. Proprio in quest'ottica, il 5 settembre 2017, le forze di difesa israeliane avevano intrapreso le proprie manovre militari nelle aree situate al confine con Siria e Libano, al fine di rendere Israele militarmente pronto ad affrontare una guerra su ampia scala.
   Da parte sua, anche l'Iran si è espresso contro le manovre israeliane. Secondo quanto riferito dall'agenzia di stampa iraniana Fars News Agency, il 18 settembre 2017, il capo dell'esercito iraniano, il maggiore generale Abdolrahim Mousavi, aveva affermato che "se il regime sionista compirà un passo falso, Haifa e Tel Aviv verranno rase al suolo".
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 23 settembre 2017)


La vittoria globale dei format made in Israel

Trame universali, creatività, tecnologie avanzatissime. Le spy story e i quiz show della Startup Nation hanno ormai soppiantato la produzione Usa.

di Massimiliano Panarari

 
Massimiliano Panarari, saggista e rnassmediologo, insegna Informazione e Potere all'Università Bocconi di Milano e Marketing politico alla School of Government dell'Università Luiss di Roma.
Non solo in treatment (ovvero Be Tipul). La serie (andata in onda anche in Italia su Sky, con Sergio Castellitto, lo psicanalista protagonista) rappresenta il prodotto da esportazione più fortunato - con Hatufim-Prisoners of War, su cui è basata le celebre Homeland - dell'industria televisiva israeliana. Che è diventata nel frattempo un autentico caso di studio, come nel convegno, tenutosi l'anno scorso all'Università Luiss, con la presenza di parecchi operatori del settore (dalla Rai a Endemol e Magnolia) e studiosi come: Massimo Scaglioni.
  Israele si è trasformata nella superpotenza esportatrice di format più rilevante di questi anni, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, come certificato dal quadruplicarsi del fatturato delle vendite di produzioni nel corso dell'ultimo decennio, di cui 35 piazzate all'estero solamente nel 2016 (fonte: rivista Link). Spy story, ma anche quiz show (come il format di Still Standing) e, in generale, programmi che sono tutti riconducibili a quel modello di complex tv e di storie a elevato tasso di densità psicologica che hanno dato valore aggiunto e qualità al piccolo schermo. Insieme con la Scandinavia, creatrice della fiction nordica (specie noir), Israele è oggi uno degli esempi più eclatanti di distretti produttivi importanti per la tv in Paesi non anglofoni. La forza dello Stato ebraico nella geopolitica dell'industria televisiva mondiale è così diventata un oggetto di indagine (e "del desiderio"] per tanti. Anche in Italia, notoriamente colma di creatività. ma sempre in difficoltà nel mettere a sistema e a profitto le facoltà immateriali e le capacità artistiche dei propri abitanti.
  Il segreto del successo di questo paradigma produttivo mostra, seppure in un contesto peculiare, le virtù della società aperta e del proiettarsi su uno scenario globale. E. per contrasto. i vizi di un localismo che, nel contesto della mondializzazione, espone ai rischi della colonizzazione produttiva da parte dell'industria dei media e dell'intrattenimento stranieri. Una situazione che sembra dare ragione alle tesi di Mainstream (Feltrinelli). il libro di Frédéric Martel secondo cui attualmente non si dovrebbe più parlare di un'americanizzazione dell'immaginario e del villaggio (audiovisivo) globale, un processo giunto (vittoriosamente) al termine, quanto, piuttosto. di consumi culturali massificati. nei quali si sono ritagliati un proprio spazio singole nazioni o aree geografiche, coi loro distretti di produzione comunicativa e di serialità industriale. In questa rinnovata mappa della cultura di massa gioca un ruolo significativo Israele, ove la necessità (la ristrettezza dei numeri del mercato domestico) ha aguzzato l'ingegno, e una società giovane e cosmopolita, priva di un passato stratificato come quella europea, ha liberato la creatività spingendo verso un'incessante ricerca della novità. Israele è una sorta di mondo in piccolo, e di microcosmo global - basti pensare a Tel Aviv, autentica New York del Mediterraneo - dove i network televisivi e le società di broadcasting puntano molto sulle risorse umane e si avvalgono della diffusione delle tecnologie presentissime in un Paese altamente high-tech, etichettato anche come la Startup Nation, tra Silicon Wadi e industria della difesa. I format made in lsrael vengono pensati sin dall'inizio come "globali" e per l'export internazionale, con concept e trame universali che facciano da spinta propulsiva, anche per rimediare ai limitati budget a disposizione. E. ciliegina sulla torta. c'è una legislazione che prevede di investire nelle produzioni locali e riserva loro appositi tempi di trasmissione sulle reti tv. Si prega, dunque, di prendere appunti.

(la Repubblica, 23 settembre 2017)


Relazioni missilistiche

C'è una ragione perché la tecnologia militare e atomica di Iran e Kim vi sembrano così uguali

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri le Guardie rivoluzionarie iraniane hanno fatto sfilare per la prima volta alcuni sistemi d'arma durante una parata a Teheran e gli esperti - per esempio Sim Tack dell'agenzia di consulenze Force Analysis - hanno notato subito la somiglianza dei nuovi missili iraniani Khorramshahr con i missili balistici Musudan prodotti in Corea del nord. E' lo stesso tipo di missile che a febbraio - quando l'Iran lo ha testato - ha fatto reagire con furia (su Twitter) il presidente americano Donald Trump. La somiglianza tra la versione coreana e quella vista adesso in Iran è spiegata dal fatto che si tratta di un'arma sviluppata dalla stessa squadra di esperti. Il missile iraniano Shahab 2 è un calco di quello nordcoreano Hwasoong 6, e il modello iraniano Shahab 3 è una replica del nordcoreano Nodong. Se abbiamo l'impressione che le crisi in medio oriente e la crisi nell'est asiatico siano due dossier differenti, ci sbagliamo. O meglio, lo sono dal punto di vista politico, ma dal punto di vista tecnico è la stessa faccenda: tecnici e materiali vanno avanti e indietro da una parte all'altra con molta discrezione per produrre la stessa tecnologia, trasferire lo stesso know how proibito e arrivare alle stesse armi pericolose.
  A fine agosto Reuters ha rivelato l'esistenza di un rapporto confidenziale delle Nazioni Unite che riguarda l'intercettazione di due navi che trasportavano un carico partito dalla Corea del nord e diretto verso il Centro siriano per la ricerca e gli studi scientifici (abbreviato in Sssrc e colpito da sanzioni americane), che dietro il nome molto neutro è l'agenzia della Siria che per quasi tre decenni si è occupata del programma di sviluppo e produzione delle armi chimiche. Un articolo del sito americano National Review nota che il rapporto Onu è molto vago sulla data della cattura, dice " ... negli ultimi sei mesi", che corrisponde più o meno alla data della conquista da parte del governo della città di Aleppo. Il dato è interessante perché nei primi anni Novanta la Corea del nord aveva aiutato lo Sssrc a costruire missili balistici in un centro vicino ad Aleppo. La domanda è: il carico delle navi serviva a fare ripartire le attività? Il 7 settembre quattro jet israeliani hanno fatto saltare in aria un sito dello Sssrc che serviva anche per la produzione di missili, ma era in un'altra zona della Siria.
  La collaborazione tra Corea del nord, Iran e Siria non è una storia nuova, fa parte della dottrina militare dei tre paesi, che hanno deciso di cooperare per battere l'isolamento internazionale. Il reattore nucleare siriano in costruzione vicino a Deir Ezzor, distrutto nel settembre 2007 da un raid aereo israeliano, secondo l'ex direttore della Cia Michael Hayden era la copia esatta di un reattore nucleare nordcoreano (un po' come succede con i missili), e lo sappiamo perché il modello nordcoreano era a sua volta la replica di un reattore britannico di cui i nordocoreani erano riusciti a trafugare il progetto. Il reattore siriano era stato finanziato con un miliardo di dollari dall'Iran, che in questo modo voleva duplicare il proprio progetto di ricerca atomica per avere più garanzie in caso di problemi internazionali. Secondo gli articoli di quel mese, nel raid israeliano morirono anche dieci tecnici nordcoreani, a riprova del legame sotterraneo. Insomma, la collaborazione tecnologica tra Corea del nord, Iran e Siria, spesso con successivo raid israeliano a spazzare via lo spazzabile, è uno dei topos politici e militari del medio oriente. Come questa collaborazione raggiunga livelli così avanzati prima di essere scoperta è ancora un mistero.

(Il Foglio, 23 settembre 2017)


Sono un preside o un imam?

"Rappresento a scuola la repubblica francese oppure una religione che spesso vi si oppone?" Il fondamentalismo islamico ha conquistato le aule transalpine

di Giuseppe Corsentino

PARIGI - «Principal du collège ou Imam de la Republique?», sono un preside o un Imam di una nuova repubblica franco-islamica (come quella immaginata dallo scrittore Michel Houllebecq nel suo ultimo, profetico, romanzo Submission, verrebbe da aggiungere)? La domanda se l'è fatta un distinto professore di matematica, ora in pensione, Bernard Ravet (guardatelo, cliccate sulla foto qui accanto: con i suoi baffoni bianchi sembra un signore d'altri tempi), che per quindici anni ha guidato tre licei di Marsiglia (il Versailles, l'Edouard Manet e il Jean-Claude Izzo: quest'ultimo, detto per inciso, è uno scrittore marsigliese che ha inventato un genere, il noir mediterraneo), quando ha inviato ai suoi superiori, agli ispettori del Ministero dell'Educazione nazionale, un'informativa riservata per denunciare che un suo bidello marocchino era un «fiche S», un fiancheggiatore dell'Isis che distribuiva certi opuscoli religiosi agli alunni, e si è sentito rispondere che non potevano farci niente, che il signor Abdel aveva un regolare contratto di lavoro e non poteva né essere licenziato né trasferito.
   In altre parole, che si arrangiasse, per dirla all'italiana, anzi che tenesse l'informazione riservata per evitare grane con la comunità islamica, con l'Uoif, Union des organisations islamiques en France, con il sindacato della scuola, con il consiglio comunale di Marsiglia e i politici locali. Ora quella domanda, Principal du collège ou Imam de la République?, è diventato un libro (edizioni Kero, un piccolo e coraggioso editore parigino, 240 pagine, 16,90 euro) che sta scalando le classifiche e che, soprattutto, ha riaperto un dibattito sulla ormai defunta laicità della scuola francese, sulla deriva islamista, sul fondamentalismo che sta conquistando migliaia e migliaia di studenti sotto gli occhi impotenti delle gerarchie scolastiche che, denuncia Ravet, preferiscono non vedere per quieto vivere, per viltà.
   «Ho deciso di scrivere questo libro perché sono molto arrabbiato, molto solo e molto triste. Arrabbiato perché ho visto la mia impotenza e quella delle istituzioni. Solo perché mi sono accorto di non avere alleati nella mia battaglia in difesa della scuola repubblicana. Triste perché vedo la situazione peggiorare di anno in anno», così scrive Ravet nel primo capitolo che sembra quasi un appello a resistere alla «vague islamique» (e qui sembra di rileggere certi passaggi de «La rabbia e l'orgoglio» della nostra Oriana Fallaci). «Il y a urgence. Pour ne pas laisser les prophètes de l'Apocalypse nous convaincre que l'obscurantisme l'a emporté», non c'è tempo da perdere se non vogliamo far vincere i profeti dell'oscurantismo.
   Per la verità, che ci fosse poco tempo per impedire «la progression du fanatism religeux dans les établissements scolaires» lo aveva denunciato e scritto nel suo rapporto al governo il capo degli ispettori ministeriali, Jean-Pierre Obin (ora in pensione anche lui) nel 2002, quindici anni fa, ma il governo, allora guidato dal cattolicissimo François Fillon, il candidato della destra repubblicana trombato dopo la scoperta dell'impiego parlamentare fittizio alla moglie, il Penelopegate, aveva preferito il «troncare, sopire» della migliore tradizione gesuitica.
   L'unica conseguenza del Rapporto Obin ( da cui abbiamo tratto la citazione) è stato un certo proliferare editoriale di saggi e di pamphlet - il più famoso è L'Ecole face à l'obscurantisme religieux di Alain Seksig, altro ispettore generale della Pubblica Istruzione - poi il silenzio. Rotto, di tanto in tanto, da qualche intervento (contro il velo nelle scuole, contro la separazione maschi e femmine nelle sessioni sportive, contro il doppio menu nelle mense) del Comité Laicité Republique presieduto proprio dall'ex ispettore scolastico Seksig. Ora il libro del preside di Marsiglia riapre questa che è, davvero, una questione di fondo per il futuro (non lontano)
   della Francia.
   Che cosa c'è da aspettarsi, infatti, da un sistema scolastico che accetta che le ragazze entrino velate a scuola («Io li fermavo sull'androne» racconta Ravet nel suo libro «e mi accorgevo che lo facevano apposta a togliersi il velo appena un attimo prima di entrare in classe. Una provocazione»)? Che non interviene quando gli alunni di religione islamica aggrediscono le loro compagne non islamiche con le gonne corte gridando «salope, putaine», stronza puttana?
   Che rimane impotente se gli stessi allievi argomentano tranquillamente con i loro insegnanti che è giusto lapidare un'adultera e tagliare la mano a un ladro perché così è scritto in un libretto che gli ha dato Abdel, il bidello di cui abbiamo parlato prima? Quest'ultimo episodio, che Ravet racconta in dettaglio, è istruttivo sia perché dimostra le strategie entriste, chiamiamole così, delle moschee nella scuola, sia l'inerzia colpevole di molti insegnanti e delle autorità. Accade durante l'ora di storia quando l'insegnante spiega la Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e finisce per parlare dell'uguaglianza uomo-donna. Gli alunni mussulmani lo contestano, dicono che non è vero perché gliel'ha detto l'imam della moschea, frequentata dal bidello, e inaugurata qualche anno fa, ricorda Ravet con rabbia, alla presenza della senatrice socialista Samia Ghali, di origine algerina (la stessa ora inquisita per corruzione e arricchimento illecito, ma questa è un'altra storia), del sindaco di Marsiglia e dei due ambasciatori del Qatar e del Kuwait, grandi finanziatori di moschee e centri culturali islamici in Francia.
   Ma la scoperta più agghiacciante il professor Ravet la fa quando, indagando da solo su un giro di hashish attorno all'istituto, scopre che i pusher sono alcuni suoi allievi, musulmani e frequentatori della stessa moschea (di rito Tabligh Eddawa, una setta radicale nata in Pakistan negli anni Trenta, i Testimoni di Geova dell'Islam come sono stati definiti). E sapete che cosa si sente rispondere quando li trascina in presidenza? Spacciare droga «ce n'est pas contraire à notre religion» perché così muoiono più miscredenti. O droga o bombe o raffiche di kalashnikov. Siamo ormai oltre i limiti, commenta Ravet. La scuola francese è diventata un «Territoire perdu de la Republique».

(ItaliaOggi, 23 settembre 2017)


Tra i curdi che sognano l'indipendenza: "Basta trattare, è un nostro diritto"

Migliaia in piazza a Erbil, Barzani: «Ce la siamo meritata». Lunedì lo storico voto

di Giordano Stabile

 
Attivisti curdi in piazza a Erbil per ascoltare il discorso del presidente Massoud Barzani
Lo stadio di Erbil è così pieno che la gente si è assiepata fin sulla terrazza del grande magazzino Carrefour alla sue spalle. Settanta, ottantamila persone sugli spalti e nel prato, che premono come forsennati sulle transenne. È come una finale di calcio e gli slogan sono quelli degli ultrà. «Gubukhé, Abadì», Al-Abadi vai a cagare. Il premier iracheno è il primo bersaglio, ma ce n'è anche per Trump che ora non vuole riconoscere il Kurdistan indipendente, anche se l'America, comunque, resta la grande amica. «Amrika, Amrika». E poi «Israil, Israil». Sventola una bandiera con la Stella di David: Israele è l'unico Stato ad aver riconosciuto l'indipendenza, prima ancora che venga proclamata.
   Un boato sottolinea l'ingresso di Massoud Barzani. Il presidente. Ora più che mai. Sulla tribuna d'onore ci sono tutti i pezzi grossi del suo Kurdish democratic party. E poi leader religiosi, sceicchi delle tribù arabe, il vescovo caldeo Bashar Warda. Lo abbracciano. Il Kurdistan sarà multietnico e plurireligioso, è il messaggio. In maniche di camicia, il governatore di Erbil, «città capitale del Kurdistan», introduce il discorso più atteso, quello del «dado è tratto».
   Barzani è nel tradizionale abito curdo con in testa il turbante a strisce bianche e rosse. L'inizio è esitante, il clamore della folla si calma, c'è tensione perché le voci si stanno accavallando e il timore è che il raiss curdo abbia ceduto alle pressioni internazionali, l'ultima quella del Consiglio di sicurezza dell'Onu che nella notte gli ha chiesto di posticipare il referendum sull'indipendenza. Mancano ancora tre giorni a lunedì, tutto può succedere. Ma poi il vecchio condottiero comincia a scaldarsi, la voce si fa più sicura, potente: «Che cosa possiamo ancora trattare? Baghdad ci ha sempre promesso tutto e non ci ha mai dato nulla. Ora non è più tempo di discussioni. L'indipendenza è un nostro diritto. Andiamo avanti».
   Avanti, quello che la folla vuole sentirsi dire, avvolta nelle bandiere, con il Sole giallo del Kurdistan ancora più caldo alla luce del tramonto. La marcia per l'indipendenza è un fiume in piena. Non saranno gli ultimatum della Corte Suprema irachena a fermarla. E non saranno neanche le armi. «Abbiamo dato il sangue, nessuno può spezzare la nostra dignità e la nostra volontà. Abbiamo sconfitto lo Stato islamico, ci siamo sacrificati per il mondo». E poi l'affondo definitivo contro Baghdad: «Governi precedenti ci hanno gasato, i curdi sono passati attraverso il genocidio. E ora dicono "siamo fratelli". Come possiamo essere ancora fratelli?».
   Il riferimento è alla strage con il gas Sarin di Halabaja, 16 marzo 1988, cinquemila morti, e alla campagna Al-Anfal lanciata da Saddam Hussein, centomila vittime curde. Su quei morti si basa la legittimità, il diritto all'autodeterminazione. Dalle persecuzioni di Saddam è nato anche il sostegno internazionale che dalla Prima guerra del Golfo in poi, 1991, ha fatto del Kurdistan uno Stato indipendente di fatto ma non di nome. La costituzione del dopo Saddam ha puntato a un federalismo spinto. Ma ora non basta più, anche perché Baghdad non ha mai versato a Erbil il 17 per cento degli introiti petroliferi, come stabilito.
   La Russia di Putin sembra essersi adeguata. Lo Zar ha detto di non voler «interferire» e avrebbe già strappato un contratto da 4 miliardi per la costruzione di un gasdotto. Washington, Bruxelles invece premono, ogni giorno, perché Barzani rinunci al passo formale verso l'indipendenza e accetti un federalismo ancora più spinto. Il leader curdo non può fermarsi, vede una finestra d'opportunità che può chiudersi in pochi anni, se non mesi. Gliela ha data il califfato. Il regno di Abu Bakr al-Baghdadi è quasi finito ma ha squassato le fondamenta dell'Iraq. L'esercito iracheno è ancora debole, esausto dopo la battaglia di Mosul. I Peshmerga curdi sono più forti che mai, con le armi ricevute per combattere la minaccia jihadista.
   L'avventura del califfo ha consegnato al Kurdistan anche nuovi pezzi di territori e soprattutto Kirkuk che nel 2014 l'esercito iracheno ha abbandonato e i Peshmerga hanno salvato. Kirkuk è una città dalle mille etnie e religioni, curdi, turkmeni, arabi sunniti e sciiti, cristiani siriaci. I curdi non sono più maggioranza da decenni ma se la vogliono tenere con tutti i pozzi di petrolio. Potrebbe essere la scintilla per una nuova guerra civile. Ma non è il momento di pensarci. Finito il discorso la gente, ubriaca di entusiasmo, balla e canta sulle note della star nazionale Zakaria. Kurdistan, Kurdistan.

(La Stampa, 23 settembre 2017)


La Germania dopo Dio

"Cattolici con Merkel dopo la crisi dei rifugiati, ma la scristianizzazione aiuta l'AtD", il partito della destra populista. Parla Püttmann.

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche settimana fa, il superomista Peter Sloterdijk, uno dei più rinomati filosofi tedeschi, ha tirato fuori per le edizioni Suhrkamp il libro "Nach Gott". Dopo Dio. Un inno alla secolarizzazione per il 500esimo anniversario di Lutero. Una conferma è arrivata dal dibattito in tv dello scorso 3 settembre, quando il moderatore ha chiesto ai candidati alla Cancelleria, Angela Merkel e Martin Schulz, se fossero di recente andati in chiesa. I candidati, sorpresi, hanno risposto di no. Domani, nell'urna, questa indifferenza alla religione, nel paese che ha dato i natali a Benedetto XVI, dove l'ex presidente Joachim Gauck era un pastore protestante e dove le chiese, ricchissime, sono il secondo datore di lavoro, potrebbe avvantaggiare il terzo incomodo. Se il moderatore avesse fatto la stessa domanda a uno dell'AfD, il partito della destra populista, avrebbe avuto una risposta diversa. Il fondatore dell'AfD, Bernd Lucke, ha cinque figli e frequenta ogni giorno la chiesa evangelica riformata. Beatrix von Storch, la dirigente del partito erede del Casato degli Oldenburg, è una devota protestante. E quando non va alle riunioni di partito è facile trovare Frauke Petry, coi suoi quattro figli e l'ex marito ministro protestante, a cantare nel coro della chiesa di Lipsia. L'ultimo numero di Foreign Policy ha definito le elezioni tedesche "una guerra civile cristiana". Ne parliamo con Andreas Püttmann, il ricercatore della Fondazione Adenauer che ha scritto "Gesellschaft ohne Gott" (La società senza Dio), un libro che ha avuto un grande successo di pubblico e critica. "La religione è agitata come un simbolo culturale, è una questione identitaria", ci dice Püttmann, "A questa visione attinge l'AfD. C'è poi la visione liberalcentrista del cristianesimo basata sulla dignità della persona, quella della Cdu di Merkel. Le 'chiese libere' e i protestanti votano AfD più dei cattolici. L'AfD è forte non a caso nella ex Ddr. Dirò di più, la scristianizzazione è uno dei motivi del successo dell'AfD. E' uno choc culturale di cui ha beneficiato il nazionalismo".
   Se l'AfD rivendica una piattaforma cristiana identitaria, la Cdu a malapena ne parla. "Angela Merkel è stata molto criticata dalla chiesa cattolica tedesca quando nel 2009 attaccò Papa Benedetto", continua al Foglio Andreas Püttmann. "Ma da allora, lei che pure è luterana, si è riavvicinata alla chiesa con la crisi dei rifugiati. Martin Schulz e la Spd hanno una vaga concezione benigna del cristianesimo, come il presidente tedesco, il protestante Steinmeier. Liberali, Verdi e Linke sono molto critici. La scristianizzazione della Germania ha creato un vacuum, un vuoto. Solo il 10 per cento dei giovani dell'est sono oggi cristiani. Nella terra di Lutero, il cristianesimo è in gravissima crisi". Il Guardian ha definito l'ex Ddr "il luogo più ateo al mondo".
   La Frankfurter Allgemeine Zeitung, giocando col nome del partito, ha dedicato un dossier alla "Alternative fùr Christus". Si racconta che "nelle elezioni al Bundestag nel 2013, l'AfD non aveva gli elettori religiosi, altrimenti avrebbe superato con successo l'ostacolo del cinque per cento". A Erfurt, la Turingia patria di Lutero, i due capi dell' AfD, Stephan Brandner e Wiebke Muhsal, sono due avvocati cattolici. Ulrich Neymeyr, il vescovo di Erfurt, ha spento le luci della cattedrale quando l'AfD ha tenuto un comizio di fronte alla chiesa. L'AfD ricambia il favore, attaccando soprattutto il presidente della Conferenza episcopale tedesca, il cardinale Reinhard Marx. A Wuppertal c'è un presbitero per l'AfD, una "sorpresa colossale" per Manfred Rekowski, presidente della chiesa evangelica della Renania. Nella parte orientale della Germania, dove l'opera di ateizzazione sotto la Ddr è stata mostruosa, è in corso la demolizione di tante chiese. "Il dibattito oggi in Germania sul cristianesimo è dominato dalla destra sulla questione islamica" conclude Püttmann al Foglio. "C'è stata senza dubbio una perdita del dibattito sul cristianesimo nella società tedesca. Ma la Germania resta in maggioranza legata a una visione centrista del cristianesimo, lontana dai toni dell'AfD".

(Il Foglio, 23 settembre 2017)


Se il cristianesimo è un "simbolo culturale" e una "questione identitaria", ben venga la scristianizzazione. M.C.


67% dei palestinesi per le dimissioni di Abu Mazen

Aumenta la sfiducia dopo le leggi su cyber crime e arresti di giornalisti

La grande maggioranza dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza ritiene che il presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas) debba dimettersi. Lo indica un sondaggio - condotto dal Centro palestinese per la politica e la ricerca (Psr) e riferito oggi dall'agenzia Maan - secondo cui il 67% del campione - era al 62% tre mesi fa - si schiera per le dimissioni di Abu Mazen mentre il 27% vuole che resti in carica. Il Centro sottolinea che in Cisgiordania questa percentuale è al 60% e all'80% nella Striscia di Gaza controllata da Hamas.
Ad aumentare la sfiducia nei confronti del presidente dell'Anp è la preoccupazione della popolazione palestinese per il futuro delle libertà civili nei Territori" dopo le recenti legge di Abu Mazen sul cyber crimine e gli interventi su giornalisti e attivisti critici dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Il sondaggio assegna, in caso di elezioni, il primato al leader di Hamas, Ismail Haniyeh, che batterebbe Abu Mazen. Ma Fatah resterebbe il partito più popolare in Cisgiordania.

(ANSAmed, 22 settembre 2017)


Sulle rive del Bosforo, tra dolce vita e nuove inquietudini

Come vivono oggi gli ebrei in Turchia? Di fatto, nell'ultimo anno, sono circa 6200 gli ebrei ad aver chiesto (e ottenuto) passaporti da Spagna, Portogallo e Israele. Eppure, le partenze effettive sono ancora poche. Nonostante i timori e il rischio attentati, per i 17 mila ebrei turchi la vita prosegue nell'assoluta e pacata normalità.

di Mara Vigevani

 
La Grande Sinagoga di Edirne, restaurata nel 2015
Chiedere a un ebreo turco oggi perché non ha ancora deciso di lasciare il suo Paese, suona offensivo: le radici dell'ebraismo sefardita turco risalgono a più di 500 anni fa, alla cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Da allora ci sono stati periodi di tensione, ma anche molti altri di prosperità. La comunità turca è oggi l'ultimo avamposto dell'ebraismo Sfaradi, sefardita, e della quasi estinta lingua degli ebrei di origine spagnola: il Ladino o spagnolito. Dopo l'espulsione gli ebrei sefarditi si sono insediati in Turchia, Yugoslavia, Bulgaria e Grecia. La Germania nazista ha annientato quasi tutte le comunità balcaniche e solo quella turca è rimasta intatta. Negli anni
  Venti del Novecento, la comunità turca contava circa 80.000 ebrei. Oggi, ce ne sono circa 17.000, di cui circa 2000 a Izmir (Smirne), qualche decina sparsi tra Bursa, Ankara e il resto del Paese e la stragrande maggioranza a Istanbul. Una comunità, quest'ultima, oggi abbastanza grande per sostenere e organizzare una ricca vita comunitaria, ma anche piccola se pensiamo in termini assoluti, e difficile da mantenere. Istanbul è una città dinamica, in continua evoluzione; molti ebrei vivono in case sulle rive del Bosforo e hanno abbandonato il vecchio quartiere genovese di Galata dove tuttavia c'è la Grande Sinagoga di Nevè Shalom, oggi aperta solo per i matrimoni. Negli ultimi vent'anni, il numero di matrimoni misti tra ebrei e musulmani è aumentato, soprattutto a causa del fatto che la Comunità è piccola e non offre quindi un'ampia scelta di partner. La maggior parte degli ebrei vive nei "quartieri bene" della città, ad esempio a Nisantas, Sisli, Etiler, abitati da musulmani laici e professionisti, dove non si respira in nessun modo un'atmosfera antisemita.
  La dicotomia tra discorso pubblico e società civile è oggi il nodo principale per il mondo ebraico che vive sul Bosforo. E il doppio registro del discorso politico, non solo limitato al sentimento anti-israeliano, è forse il più grande problema che gli ebrei turchi si trovano a dover affrontare. Siamo quindi di fronte al prologo di un altro periodo buio, come ce ne sono stati molti nella storia - e che verrà superato da una comunità radicata da più di 500 anni -, o stiamo per assistere alla scomparsa della presenza ebraica in Turchia? Cosa sta accadendo di diverso agli ebrei rispetto agli altri cittadini turchi? «Gli ebrei oggi vivono le stesse difficoltà dei loro connazionali di altre etnie o fedi religiose, la loro realtà riflette quella del Paese. Molti provano le stesse inquietudini e timori, al di là della loro origine e appartenenza», spiega A. C., 55 anni, di Smirne.
  Di fatto, il presidente Recep Tayyip Erdogan proclama insistentemente di non essere affatto un antisemita. Nell'augurio per la festività di Pesach alla Comunità ebraica, nello scorso aprile, ha sottolineato nuovamente che gli ebrei della Turchia sono da secoli parte integrante del Paese e della sua società. «Essi hanno contribuito notevolmente alla crescita del nostro Paese nell'economia, nel commercio e nella società», ha ripetuto. ll leader turco ha anche descritto gli ebrei turchi come «cittadini uguali a tutti nel nostro Stato, persone con cui viviamo in pace e fiducia». Ma i sondaggi documentano un aumento dell'antisemitismo nell'ultimo decennio, senza capire se sia legato al clima generale o al vento più nazionalista e islamico che sta soffiando ovunque. Di fatto, le istituzioni ebraiche sono fortemente protette, con un maggiore apparato di sicurezza interna dopo gli attacchi alle due sinagoghe di Istanbul nel 2003, che hanno provocato venti morti. Il cittadino turco "medio" non sempre distingue tra Israele e gli ebrei, e in un paese di 80 milioni di cittadini la maggior parte delle persone non ha mai incontrato un ebreo, lasciando la comunità vulnerabile e vittima di stereotipi, pregiudizi e caratterizzazioni negative. Proprio per questo il mondo ebraico aspetta ancora di capire quale influenza avranno sulla sua vita i cambiamenti politici degli ultimi anni.
  «Ho deciso di lasciare Istanbul già qualche anno fa, quando mio figlio doveva iniziare la prima elementare - dice A. Y., un giovane ebreo di Istanbul, che ha fatto l'aliyà tre anni fa -. In Turchia avevo una fabbrica tessile con mio fratello; tutto andava bene, ma nell'ultimo periodo abbiamo notato che gli ispettori per il controllo anti inquinamento arrivavano solo nella nostra fabbrica, quasi una volta al mese. Nelle altre, invece, i controlli avvenivano una volta all'anno e non era difficile convincerli a chiudere un occhio. Con noi erano diventati molto severi. Ogni volta ero molto teso, avevo paura che il loro obiettivo fosse accusarmi di qualcosa e trovare un pretesto per danneggiare la nostra attività. Così, con mio fratello, abbiamo deciso di fare l'aliyà».
  Per la Turchia, quest'ultimo è stato un tempestoso periodo politico, culminato nel voto controverso al referendum del 16 aprile 2017, che ha esteso il potere esecutivo, già considerevole, del Presidente Erdogan, Non a caso, negli ultimi 15 mesi quasi 4.700 ebrei turchi hanno chiesto o ricevuto passaporti da Spagna, Portogallo e Israele. Contando anche i bambini, il numero sale a oltre 6.200. Cifre non trascurabili.
  Nel 2015 le richieste di passaporti stranieri da parte degli ebrei sono aumentate, specie dopo l'approvazione di una legge in Portogallo che rende più facile richiedere un passaporto, per chi dimostra origini sefardite. Certo più facile rispetto alle procedure della Spagna. Tra il marzo e il dicembre 2016, circa il 13 per cento della Comunità ebraica ha chiesto passaporti stranieri. Nello stesso periodo, la Spagna ha approvato le richieste di 2.400 ebrei turchi la cui domanda era in sospeso.
  Senza contare poi che i dati dell'Agenzia Ebraica dimostrano che il numero di ebrei che decidono di trasferirsi in Israele è in netta crescita: più di 220 nel 2016 e 7 4 tra gennaio e marzo 2017, quasi il triplo rispetto al trimestre dello scorso anno. Nonostante tutto, però, la vita della comunità continua nella sua pacata normalità: le numerose sinagoghe di Istanbul sono attive, così come l'unica scuola ebraica della città, mentre a Smirne le sinagoghe sono 16, di cui nove antichissime ( e restaurate con soldi pubblici), ma non tutte aperte ogni shabbat.
  Anche Virna Gumusgerdan, managing editor presso Salom, il giornale della comunità ebraica, ha richiesto il passaporto spagnolo: «La possibilità di presentare la domanda per ottenere il passaporto spagnolo si è aperta quasi dieci anni fa. Ho fatto domanda otto anni fa e l'ho ricevuto l'anno scorso. Il motivo della richiesta è stato semplicemente quello di avere un passaporto europeo con cui fosse più facile viaggiare, invece di dover sempre chiedere il visto: ma per ora non sto pensando affatto di andare a vivere in Spagna. Credo che la maggior parte dei candidati al passaporto non abbia davvero voglia di trasferirsi, ma desideri solo un passaporto più agile. Rispetto a solo qualche anno fa, oggi è diventato meno facile ricevere il documento spagnolo, bisogna fare un esame di cultura e storia spagnola e anche di lingua. Per questo, adesso molti ebrei optano per il passaporto portoghese. Ad esempio, mia nipote ha fatto domanda per ottenere il passaporto spagnolo con me, e all'epoca aveva 12 anni. Quando la sua richiesta è stata accettata ne aveva già compiuti 18 e avrebbe dovuto rifare la procedura come maggiorenne. Stufa di aspettare, ora ha chiesto il passaporto portoghese». Di fatto, un esodo vero e proprio dalla Turchia sembra ancora un'ipotesi remota. «Penso che siano pochi, tra i 100 e i 150, gli ebrei che lasciano la Turchia ogni anno. C'è un aumento del 25-30 per cento rispetto all'anno scorso ... Ma devo dire che i numeri non sono precisi e non sono ufficiali. La politica non influisce sulla nostra vita quotidiana o comunque la influenza quanto qualsiasi altro cittadino. Di solito l'antisemitismo non ci tocca mai personalmente, ne veniamo a conoscenza attraverso i media, con casi specifici». «Qui si vive bene, non c'è motivo di preoccupazione seria, le nostre paure sono quelle condivise con qualsiasi cittadino europeo oggi», sottolinea C.V. imprenditore. Serpeggia tuttavia, più che in passato, la paura di attacchi ai centri ebraici. «L'anno scorso è stato arrestato un terrorista che stava progettando un attentato alle istituzioni ebraiche. La cosa ha causato un'enorme ansia. Penso che alcuni genitori abbiano deciso di non mandare più i loro figli alla scuola ebraica per questo motivo». M. H. e E. G., genitori di due ragazzi in età da Bar e Bat Mitzvà, non avevano mai preso in considerazione l'idea di lasciare Istanbul: «Qui abitano i nostri genitori, qui siamo cresciuti, abbiamo un buon lavoro e fino alla scorsa estate, dopo il tentato colpo di Stato, non abbiamo mai pensato di andarcene. - racconta M. H. - Solo negli ultimi mesi abbiamo capito che la crisi economica c'è. Ora abbiamo un passaporto portoghese e abbiamo fatto richiesta per ottenere un permesso di lavoro in Canada». Anche l'incerta situazione economica porta molti ebrei a decidere di lasciare il Paese. Alcuni settori come il turismo, l'agricoltura e le esportazioni sono in crisi; altri invece, come le costruzioni, l'immobiliare e l'edilizia in genere, stanno rifiorendo.
  Attaccatissimi alla Turchia e innamorati della bellezza del loro Paese, gli ebrei preferirebbero non dover mai partire né dover mettere in valigia antiche tradizioni o delizie del palato (fasulia, tomat con aroz, kofte, umam bayildi). La maggior parte di loro oggi, per scaramanzia, pensa a preparare una eventuale via di fuga. Ma di certo aspetterà fino all'ultimo secondo pur di non intraprenderla.

(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, settembre 2017)


Apple e Israele: le collaborazioni e novità più interessanti

Apple e Israele: le collaborazioni e novità più interessanti. Apple Israel già dallo scorso mese di febbraio aveva attivato una campagna volta a reclutare ingegneri israeliani specializzati in sensori, elaborazione delle immagini, imaging del computer e ottica, per produrre il nuovo iPhone.
Infatti, una gran parte della nuova tecnologia della fotocamera inclusa nei prossimi modelli di iPhone, secondo indiscrezioni, sarebbe stata prodotta proprio dagli ingegneri israeliani di Herzliya.
Una fonte anonima ha rivelato:
Il prossimo iPhone includerà molte tecnologie sviluppate in Israele.
Sotto la direzione del nuovo amministratore delegato di Apple Israele, Rony Friedman, Apple ha reclutato decine di ingegneri tra cui un direttore tecnico in grafica informatica, che sarà responsabile della modellazione tridimensionale.
Ciò che emerge dalla campagna di reclutamento è che probabilmente nell'iPhone 8 ci sia una impronta israeliana. Mentre ulteriori informazioni non sono ancora state rese note, indiscrezioni rivelano che forse la nuova fotocamera 3D, che consentirà all'iPhone di identificare le profondità nelle immagini e nei video, sia made in Israel. Ciò consente, ad esempio, la creazione di modelli tridimensionali di oggetti applicazioni avanzate o giochi.
Inoltre, occorre ricordare la recente acquisizione da parte di Apple dell'israeliana RealFace la cui tecnologia probabilmente contribuisce alla possibilità di una fotocamera 3D di identificare con precisione la faccia dell'utente, simile all'identificazione delle impronte digitali.

(SiliconWadi, 22 settembre 2017)


Hezbollah è un vero esercito

Hezbollah dispone di più di 10.000 combattenti, nella Siria meridionale, pronti ad affrontare Israele. Lo ha dichiarato questa settimana un alto comandante del gruppo terroristico sciita libanese sostenuto dall'Iran. "Hezbollah ha oltre 10.000 combattenti dispiegati nel sud della Siria - ha detto il comandante, citato da Middle East Eye - Hezbollah è un vero esercito con fanteria, razzi, carri armati e forze d'élite". Il comandante ha spiegato che i combattenti sono schierati nelle zone attorno alle alture del Golan, dove vengono costruite postazioni e gallerie in vista di uno scontro con Israele. "Operiamo come nel Libano meridionale - ha spiegato - ma ovviamente in modo più nascosto". A proposito della tregua nella Siria meridionale sotto gli auspici di Russia e Nazioni Unite, il comandante ha affermato che il "piano di de-escalation a noi sta bene: operiamo con maggiore libertà, non ci sono più bombardamenti". Il comandante ha poi detto che la prossima guerra con Israele potrebbe partire dalla Siria "ma ciò che conta davvero è dove finirà: magari a Netanya, Haifa o Kiryat Shmona" (tutte località israeliane). Gli osservatori stimano che Hezbollah disponga di un arsenale tra i 100 e i 150.000 missili a breve, medio e lungo raggio, e di una forza combattente di circa 50.000 miliziani, compresi i riservisti.

(israele.net, 22 settembre 2017)


Interprete iraniano "edulcora" il discorso di Trump

Traducendolo per la TV di Stato ha alleggerito le condanne: «Parlava male del mio Paese, chiunque l'avrebbe fatto».

Donald Trump. Nel tondo il traduttore Nima Chitsaz
NEW YORK / TEHERAN - Donald Trump può denunciare e minacciare l'Iran quanto vuole se, quando viene tradotto dalla televisione di Stato degli Ayatollah, i suoi strali vengono "edulcorati" dagli interpreti. È successo, emerge ora, durante il primo discorso tenuto dal presidente americano all'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Come riporta la BBC, uno zelante interprete ha infatti modificato a suo piacimento le frasi di condanna più dure espresse da Trump alla volta di Teheran. Così, quando in inglese il presidente USA diceva:
«Il regime di Teheran ha trasformato un Paese benestante e con una ricca storia e cultura in uno Stato canaglia economicamente impoverito le cui esportazioni principali sono la violenza, lo spargimento di sangue e il caos»
L'interprete del canale statale IRINN traduceva in persiano:
«Secondo noi, gli iraniani potrebbero stare meglio».
E ancora:
«È questo che porta il regime a limitare l'accesso a internet, rimuovere le parabole satellitari, sparare a studenti che manifestano disarmati e imprigionare i riformisti»
diventata:
«Ci sono molte cose in Iran che consideriamo inaccettabili».
L'interprete responsabile di questa traduzione non proprio ortodossa ha difeso il proprio operato in un video postato su Twitter. «Nel suo discorso alle Nazioni Unite Trump ha fatto delle considerazioni contro l'Iran che io non ho tradotto», ha spiegato Nima Chitsaz come riporta la BBC. «Perché ho scelto di non tradurle? Punto primo, perché non corrispondevano al vero. Punto secondo, perché erano contro il mio Paese, contro l'Iran», ha argomentato l'interprete. E ha aggiunto: «Non penso che sarebbe stato giusto parlare male del mio proprio Paese sulla televisione nazionale». Chitsaz è convinto che molti, o meglio, «tutti» gli darebbero ragione: «Penso che chiunque altro avrebbe fatto lo stesso», ha concluso.
Ad accorgersi della discrepanza fra il discorso in inglese (trasmesso live dal canale anglofono di IRINN) e quello in persiano sono stati alcuni telespettatori che l'hanno segnalato sui social media.
Su Twitter, molti utenti hanno criticato Chitsaz. «Non stavi parlando male del tuo Paese. Stavi solo traducendo. Almeno trova una scusa migliore», scrive uno. «Stai dicendo che chi ascolta non è abbastanza intelligente da capire quali considerazioni (di Trump, ndr) sono sbagliate e quali giuste?», gli fa eco un altro. «No comment», chiude il discorso un terzo.

(tio.ch, 22 settembre 2017)


La Corte suprema: In Israele servizio militare per tutti!

Finora la comunità ultraortodossa era esentata dalla naia, obbligatoria per gli altri i cittadini israeliani. Il 12 settembre la Corte suprema ha annullato il privilegio. Il governo ha un anno di tempo per adeguarsi.

di Christophe Lafontaine

 
Militari di Tzahal, l'esercito israeliano
Nei giorni scorsi la Corte suprema israeliana è tornata ad occuparsi dell'esenzione dal servizio di leva per gli ultraortodossi. Obbligatorio dall'età di 18 anni, salvo eccezioni, in Israele il servizio militare è di due anni e otto mesi per gli uomini, e di due anni per le donne. Le norme sul servizio militare sono formalizzate in una legge del 2014, denominata «condivisione del fardello», varata grazie alle pressioni esercitate dal partito Yesh Atid, allora al governo. All'esame dei giudici vi era un emendamento a questa legge, introdotto nel 2015, che prevedeva un sensibile innalzamento dei coscritti tra i maschi ultraortodossi. Questi ultimi (gli haredim) erano tuttavia riusciti a far fare dietro-front al governo, ottenendo nel 2015 l'emendamento favorevole che avrebbe dovuto garantir loro una vita religiosa lontano dagli obblighi militari fino al 2023. I giudici della Corte suprema, otto contro uno, hanno invece deciso che quel testo favorisce gli studenti di religione rispetto agli altri. Giudicando che l'emendamento «viola il principio dell'uguaglianza», la più alta istanza giudiziaria del Paese lo scorso 12 settembre ne ha invalidato il testo.
   Dalla creazione dello Stato di Israele (1948), e su decisione del suo padre fondatore David Ben Gurion, gli ultraortodossi beneficiano di esenzioni generalizzate per via del loro statuto di studiosi delle yeshiva, le scuole religiose. Sono interamente consacrati allo studio della legge e della religione ebraica, osservano scrupolosamente tutte le regole del giudaismo in ogni aspetto della vita quotidiana e spirituale. Considerano perciò la coscrizione come una sorta di tentazione per i giovani, esposti fuori dal mondo chiuso della preghiera e dello studio religioso. Non di rado, in passato, si sono visti haredim arruolati a forza, cosa che ha generato tensioni, come nel marzo di quest'anno vicino a Tel Aviv, quando l'arresto di alcuni haredim che si rifiutavano di entrare nelle forze armate provocò manifestazioni della comunità ultraortodossa.
   In un Paese in cui l'esercito occupa uno spazio centrale, l'esenzione degli ultra-ortodossi dal servizio militare è diventata motivo di risentimento sempre più forte da parte degli altri cittadini israeliani. Tanto più che la comunità degli haredim, nota per avere famiglie numerose, rappresenta circa il 10 per cento della popolazione e, secondo le proiezioni demografiche, da qui al 2050 potrebbe costituire un quarto degli israeliani.
   Il capofila di Yesh Atid, il centrista laico Yair Lapid, membro del precedente governo Netanyahu, ha applaudito sulla sua pagina Facebook la decisione della Corte suprema. La coscrizione è fatta «per tutti, non solo per gli imbecilli che non hanno un partito nella coalizione» ha scritto. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman il 13 settembre ha annunciato che sosterrà il giudizio della Corte suprema. «Non ci sono cittadini di prima e di seconda classe - ha detto -. Ciascun giovane di 18 anni si deve presentare per un servizio nazionale o militare». E davanti alla Knesset ha precisato: «Parlo degli ebrei, ma anche dei musulmani e dei cristiani. Mi aspetto da tutti i cittadini di Israele che si identifichino nello Stato».
   Citato dal Times of Israel, Yisrael Litzman, del partito Yahadout HaTorah, ha invece affermato che la decisione rientra in una «guerra totale contro il giudaismo». Il ministro della Sanità Yaacov Litzman, alla testa del partito religioso Afoudat Israel, alla radio pubblica ha accusato la Corte suprema di tentare di rovesciare il governo, e uno dei suoi giudici «d'essere da sempre» contro gli ultraortodossi. Il ministro dell'Interno Aryé Dery, del partito religioso Shas, su Twitter ha scritto che per lui la Corte suprema è «completamente scollegata dalle nostre tradizioni» e ha promesso che «gli studenti delle yeshiva continueranno a impegnarsi negli studi e a proteggere, per il loro merito spirituale, gli altri abitanti del Paese». Ha aggiunto che Shas «lavorerà con tutte le sue forze per (…) mantenere la situazione attuale».
   È da notare che «la maggioranza dei giudici ha stabilito che l'annullamento [dell'emendamento] avrà effetto solo un anno dopo la data del giudizio». Questo ritardo è pensato per consentire alla coalizione di Netanyahu di trovare una formula alternativa, che possa essere accettabile per la Corte, l'esercito e i partiti ultraortodossi, il sostegno dei quali è decisivo per il governo in carica.
   Va ricordato che, dopo le elezioni del marzo 2015, in seno alla coalizione al potere vennero conclusi degli accordi: le due formazioni ultraortodosse Shas e Giudaismo unito della Torah presentarono una propria lista di condizioni per confluire nell'attuale governo Netanyahu con il Likud e HaBayit HaYehudi. La questione del servizio militare figurava in primo piano. Secondo gli osservatori, una crisi di governo resta comunque poco probabile. Il quotidiano The Jerusalem Post sottolinea che Netanyahu ha già avuto molte occasioni per rompere gli accordi durante crisi simili, che hanno toccato questioni come il riconoscimento delle conversioni al giudaismo, la preghiera mista al Muro occidentale o il lavoro nel giorno di shabbat. Ogni volta ha scelto la parte degli ultraortodossi. Un editorialista del giornale Maariv ha scritto: «Sono persuaso che la ministra della Giustizia Ayelet Shaked (…) abbia già un progetto di legge che passerà l'esame della Corte suprema».
   Per confermare l'ipotesi degli osservatori, Eliezer Moses, del partito Giudaismo unito della Torah, ha dichiarato al canale pubblico One TV che la decisione della Corte è «un giudizio deplorevole», ma ha promesso di «non smantellare il governo» ritirando il suo sostegno a Netanyahu prima delle elezioni legislative previste fra due anni.

(Terrasanta.net, 22 settembre 2017)


Alleanza islam e nazifascismo: l'analisi storica di Rosselli con Souad Sbai

di Fabrizio Graffione

GENOVA, 21 set. - In copertina c'è la storica fotografia del Gran Muftì di Gerusalemme che fa il saluto nazista alle truppe islamiche schierate con Adolf Hitler.
Domani il giornalista e storico Alberto Rosselli presenta a Roma il libro "Islam e nazifascismo" Mattioli 1885 editore. L'appuntamento è alle 17,30 nella sala del Centro culturale Averroè. Interviene l'onorevole Soaud Sbai, giornalista e scrittrice di origine marocchina, responsabile Immigrazione, Integrazione e Sicurezza della Lega Nord-Noi con Salvini.
Il merito dell'autore genovese è l'esatta ricostruzione delle idee che mossero i nazisti e gli islamici del Medio Oriente ad un'alleanza finalizzata alla rivolta contro gli anglo-francesi e contro gli immigrati ebrei.
L'analisi storica del libro, ricavata dalle risultanze di fatti e circostanze contenuti in vari archivi nazionali ed internazionali, informa i lettori sull'alleanza, semisconosciuta ed indigesta agli accademici di sinistra.
La puntuale ricostruzione delle ragioni dell'alleanza che si stabilì tra la politica nazista e fascista e l'insorgenza islamica, è il risultato della faticosa consultazione dei documenti emersi dagli archivi tedeschi, italiani, americani, inglesi, francesi, israeliani, serbi, croati ed ex-sovietici e dalla lettura critica della conflittuale biblioteca sull'argomento, ora più che mai attuale.

(Liguria Notizie, 21 settembre 2017)


"Haaretz": Israele si prepara a una offensiva di Hezbollah, ma la vera minaccia viene dall'Iran

Gerusalemme - La massiccia esercitazione delle Forze di difesa israeliane conclusasi la scorsa settimana riflette davvero le nuove sfide che potrebbe trovarsi di fronte l'Esercito in caso di un eventuale conflitto con Libano e Siria? Questo il quesito proposto ieri dal quotidiano israeliano "Haaretz" in seguito all'analisi della strategia proposta dalle forze di difesa israeliane (Idf) in caso di attacco. L'Idf infatti ha prospettato una veloce manovra terrestre per entrare nel sud del Libano come risposta e possibili bombardamenti da parte di Hezbollah. Ciò che è cambiato rispetto al passato, sottolinea l'analisi, è che oggi l'Iran può minacciare i confini di Israele, grazie al posizionamento di milizie sciite nel versante siriano delle Alture del Golan e nel sud del Libano, mentre Israele non ha un confine diretto con l'Iran.

(Agenzia Nova, 21 settembre 2017)


Io, scrittore musulmano e marxista, costretto a vivere sotto scorta

Il politologo egiziano Hamed Abdel-Samad ha scritto Fascismo Islamico, un saggio crudo e interessantissimo per cui ha dovuto lasciare il suo Paese. Siamo riusciti a incontrarlo

di Rock Reynolds

 
Lo scrittore egiziano Hamed Abdel-Samad
"Una miscela fatale di vittimismo e vendetta è diventata il motore principale dell'islamismo." "In tutto il mondo, i musulmani radicali mostrano la stessa mentalità e il medesimo potenziale di violenza… poiché il virus della jihad trae la sua potenza distruttiva dagli insegnamenti dell'Islam e dalla sua storia, l'islamismo è un fenomeno inscindibile dall'Islam stesso." "Per gli islamisti, la modernità è semplicemente un segno di quanto la gente possa allontanarsi dalla vera fede."
  Di frasi come queste, che fuori contesto potrebbero suonare provocatorie, ne troverete tante nel saggio Fascismo Islamico (Garzanti, pagg 221, euro 16) del politologo egiziano Hamed Abdel-Samad, che risiede e lavora sotto scorta in Germania, dopo essere stato fatto oggetto di svariate minacce di morte. Attenzione, però: in questo libro non ci sono frasi a effetto e posizioni preconfezionate. Persino chi si trovi solidale con i palestinesi e non condanni tout court certe rivendicazioni della galassia islamica riconsidererà inevitabilmente le sue posizioni o, quanto meno, le sottoporrà a una radicale revisione critica. Fascismo Islamico è un libro di grande profondità, non un manifesto ideologico. Naturalmente, l'accostamento tra Islam e Fascismo, soprattutto in merito alla nascita dei totalitarismi di destra più tristemente noti, a qualcuno potrebbe risultare indigesta, ma lo storico egiziano è convinto che la visione di onnipotenza insegnata ai bambini musulmani non sia tanto diversa dalla disumanizzazione del nemico predicata soprattutto dai nazisti. D'altro canto, è difficile confutare la sua tesi secondo cui l'obbedienza cieca e la propensione al sacrificio siano tratti comuni a tutti i musulmani, nel solco tracciato da Abramo. La sua vita oggi è difficile e, per venire a Roma, dove lo abbiamo raggiunto, si è dovuto muovere con una scorta armata di cinque uomini giunti con lui dalla Germania.
  "Mi sento un illuminista" dice "e, come tale, andrei contro i miei principi se non esprimessi liberamente le mie idee. Ho sacrificato tanto, ma lo rifarei."

- Ci racconta come è finito tra le fila dei Fratelli Musulmani?
  Sono cresciuto in una famiglia osservante e sarei dovuto diventare io stesso un imam, ma, all'età di 14 anni, hanno iniziato a interessarmi le lingue straniere e le ragazze, il che non si sposa per nulla con quel mondo, e così mi sono trasferito al Cairo, dove ho vissuto un vero e proprio shock culturale. I Fratelli Musulmani cercano giovani alienati dalla società, alla ricerca di un'utopia, e gliela vendono insieme all'illusione di poter cambiare il mondo cambiando te stesso. Ero musulmano ma pure marxista e non c'è nulla di peggio dell'utopia per radicalizzare una persona.

- Perché la separazione tra stato e religione, un cardine di ogni democrazia, è così estraneo al mondo musulmano?
  Perché l'Islam interpreta la storia nel modo sbagliato, sostenendo che tale separazione sia stata necessaria in Europa, dove la chiesa si opponeva alla scienza e alla modernità, e implicando che, al contrario, sia stato il mondo musulmano a promuovere il progresso attraverso figure come Averroè e Avicenna. L'Islam non ha alcun merito: quel progresso è frutto dell'incontro tra diverse culture del mondo arabo, quella persiana, ebraica, siriana, egiziana e altre ancora. Per questo, l'Islam si considera un movimento religioso e un ordinamento politico, senza rendersi conto di aver in realtà frenato il progresso iniziato nel Medio Evo. Il mondo islamico ha imboccato una china pericolosa non a causa delle Crociate e delle invasioni mongoliche, bensì per aver voltato le spalle alla modernità e al pensiero libero, facendo della religione l'unica fonte della propria identità.

- Non pensa che in ogni religione vi sia una propensione all'assolutismo?
  Per legittimarsi, ogni religione ha bisogno di verità assolute. La differenza sta nel fatto che il testo sacro dell'Islam, il Corano, è considerato l'ultima rivelazione di dio all'uomo. Ed è un bel problema, perché il Corano si occupa di ogni singolo aspetto della vita degli uomini, comprese cose di cui non si sarebbe dovuto occupare affatto, per esempio del diritto di punire una moglie disobbediente. Perché mai dio dovrebbe preoccuparsene? Dunque, dio avrebbe atteso miliardi di anni prima di fare queste rivelazioni. Perché non ha atteso l'invenzione della stampa? Oggi, almeno, ci sarebbe la versione originale delle sue parole. Per uscire da questo vicolo cieco, bisogna delegittimare il Corano come autentica parola di dio.

- La soluzione della questione palestinese può riequilibrare il Medio Oriente?
  Nel mondo musulmano se ne parla fin troppo, ma la realtà è che si tratta di una scusa bella e buona. Ai musulmani non interessa quasi nulla della tragedia palestinese. Nessuno si preoccupa delle violenze insensate in Siria e Yemen. Nessuno si lamenta se a infliggere indicibili patimenti alle popolazioni musulmane sono altri musulmani, però se a farlo è Israele c'è una levata di scudi generale. La questione va affrontata diversamente, di certo non con un odio verso gli israeliani che non ha aiutato minimamente la causa palestinese. Abbandoniamo una volta per tutto l'odio sacro covato dall'Islam nei confronti degli infedeli. Capisco la rabbia dei palestinesi e dei libanesi, ma certo non quella di marocchini o pakistani che non sanno neppure dove sia esattamente la Palestina. Tutto dipende dal concetto di umma, la comunità di tutti i musulmani, descritta da Maometto nel Corano. C'è troppa emotività e scarso ragionamento. Pensiamo a Sadat. Nel 1977 tenne un discorso alla Knesset di Gerusalemme, chiedendo la restituzione di tutti i territori strappati all'Egitto con la Guerra dei Sei Giorni e promettendo in cambio la sicurezza dei confini tra Israele ed Egitto. Gli israeliani gli credettero e Sadat passò alla storia. I palestinesi non hanno mai avuto un leader di tal spessore. Il punto centrale è il seguente: combattere perché lo chiede il Corano oppure cercare una vera soluzione negoziale del problema? Hamas propugna la prima via, che è senza futuro.

- La rapida diffusione dell'Islam e la sua immediata conquista del potere sono davvero il peccato originale del fondamentalismo?
  Sì. È quello che definisco il difetto atavico dell'Islam. Maometto era un profeta, un condottiero e un legislatore. L'Islam si è imposto subito, tracciando un solco da cui non si è più staccato. La sharia è un sistema di leggi che governa ogni aspetto della vita e la jihad è un concetto sacro. Si tratta di ostacoli alla modernità.

- Qual è il ruolo dell'Occidente nel Medio Oriente?
  L'Occidente ha commesso tutti gli errori che avrebbe potuto commettere, non optando mai per un piano strategico di lungo termine, non cercando di aiutare i paesi in cui si percepiva uno slancio libertario, facendo affari con governi dispotici e spesso armandoli, com'è successo con i talebani e con Saddam Hussein e come sta succedendo con l'Arabia Saudita. L'Occidente non si è mai preoccupato di quei giovani musulmani che vorrebbero un cambiamento e ha continuato a sostenere dittatori secolari, come Assad, oppure fondamentalisti, come la famiglia reale saudita.

- Secondo alcuni, il mondo musulmano andrebbe abbandonato a se stesso…
  Se capitasse, il sistema globale crollerebbe. In qualche modo, sta già succedendo. Qualcuno mi ha addirittura definito un profeta per aver previsto le "primavere arabe" e il flusso migratorio epocale che ne è conseguito. La distruzione dell'equilibrio mediorientale porterebbe al tracollo assoluto della stessa Europa.

- Cosa pensa dell' incontro tra Papa Francesco e l'Imam el-Tayeb?
  Un'occasione persa. L'università di al-Azhar offre insegnamenti solo apparentemente aperti, ma in realtà si ispira apertamente all'assolutismo del Corano. Io stesso ho ricevuto una fatwa da un Imam che insegna in quell'ateneo e oggi molti giornalisti sono in carcere in Egitto per una fatwa emessa da al-Azhar, così come parecchi pensatori nel mondo musulmano sono stati messi a morte perché è dovere di ogni musulmano osservante uccidere chi parla male di Maometto. Il Papa avrebbe dovuto spingere el-Tayeb a gettare la maschera e a fare proposte concrete.

(globalist, 21 settembre 2017)


Israele - Concerto il 3 ottobre nella Chiesa di San Pietro a Jaffa

Gli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa tra i sostenitori del Festival

La Chiesa di San Pietro a Jaffa
TEL AVIV - Adriano Falcioni al Terra Sancta Organ Festival-Musica dalle Chiese del Medio Oriente. Il maestro organista terrà un concerto martedì 3 ottobre, ore 18:00, nella Chiesa di San Pietro a Jaffa, nelle vicinanze di Tel Aviv. Ingresso libero.
Adriano Falcioni è un organista italiano, riconosciuto a livello mondiale per la sua capacità tecnica e musicalità. Finalista e vincitore di numerosi concorsi internazionali in Europa e negli Stati Uniti, ogni anno tiene concerti a festival e in cattedrali in tutta Europa. È primo organista della cattedrale di San Lorenzo a Perugia.
Il Festival di musica d'organo Terra Sancta è un evento musicale e culturale internazionale. I concerti, tutti ad ingresso gratuito, si tengono nelle chiese e sono aperti a tutti, indipendentemente dalla religione di appartenenza. Per il quarto anno consecutivo, la stagione autunnale del Festival si svolge anche in Israele, con 12 concerti, dal 2 al 26 ottobre.
In Israele il Terra Sancta Organ Festival è sostenuto dagli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa, dal Monastero Francescano di Terra Santa in America, dall'Ambasciata di Ungheria in Israele, dall'Istituto Rumeno di Cultura, da ATS Pro Terra Sancta.
Il concerto di Adriano Falcioni è segnalato dai Comites Israele.

(Inform, 21 settembre 2017)


È arrivato il 5778

Sino a domani tutte le comunità ebraiche celebrano la festività di Rosh Ha-shanà: il capodanno ebraico.

«Nel nostro calendario il conteggio degli anni parte dalla creazione del mondo - ricorda su Pagine ebraiche Noemi Di Segni, la presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) - quindi dall'esistenza fisica del creato, culminata con la creazione dell'uomo. Anni riferiti all'avvio della vita e i cicli della natura nella quale si inseriscono i nostri ritmi. Anni, decenni, secoli sui quali in questo giorno riflettiamo per capire dove ci collochiamo rispetto alla Storia».
La Festa di Rosh Hashanah è sempre vissuta con grande attesa dalle comunità ebraiche, sia per il suo significato ideale-religioso, sia per le modalità che ne caratterizzano la celebrazione. Ricette, cibi con simbologia speciale, grano che decorano le tavole, abiti bianchi: «il suo carico maggiore in questi giorni, che ci porteranno fino a kippur (Yom Kippur che cade il 30 settembre, con vigilia il 29, è la festa dell'espiazione e della penitenza ed è considerato il giorno dell'anno più santo e solenne, ndr), è il bilancio di quello che abbiamo realizzato o mancato, di quello che abbiamo imparato o perso - prosegue Di Segni -. Il primo pensiero in queste prime ore e primo giorno di solenne celebrazione va alle persone che non sono più tra noi […]».
È dunque arrivato l'anno 5778: «il conteggio dei mesi, l'ordine numerario biblico, è riferito all'uscita dall'Egitto, con la liberazione dalla schiavitù, quindi - ricorda Di Segni - riferiti alla nostra creazione ed esistenza come popolo - momento dell'affermazione della libertà fisica e libertà di culto […]».
Quest'anno la festa, tra le più sentite per le comunità ebraiche nel mondo, è iniziata con il tramonto di ieri e terminerà al tramonto di domani, venerdì 22.
I festeggiamenti vissuti in modo comunitario avvengono nelle sinagoghe o in altri luoghi scelti per l'occasione con la lettura della Torah (l'Antico Testamento) e si ascolta il suono dello Shofar, strumento di origine biblica e ricavato dal corno di un ariete maschio che ricorda al popolo ebraico alcune tra le vicende più importanti della Torah e l'invito a compiere le Mizvot (i precetti) e a portare avanti le buone azioni attraverso la Teshuvà, il pentimento.
Il capodanno che si festeggia in famiglia attraverso la preparazione del Seder, la cena rituale in cui si mangiano cibi dal valore altamente simbolico come ad esempio le mele accompagnate al miele, zucche, pesce, fichi, melograno.

(Riforma, 21 settembre 2017)


Putin incontra il capo rabbino della Russia Berel Lazar

 
MOSCA, 21 set 2017 - Vladimir Putin ha incontrato il capo rabbino della Russia Berel Lazar e il presidente della Federazione delle comunità ebraiche Alexander Boroda. Il presidente ha esteso i saluti a tutti gli ebrei della Russia su Rosh Hashanah, il nuovo anno ebraico.

Presidente della Russia Vladimir Putin: Abbiamo un paese così grande.
Capo rabbino della Russia Berel Lazar: Un grande paese.
Vladimir Putin: Grande e molto grande, multietnico e multi-religioso. Abbiamo sempre cosa festeggiare. Oggi celebriamo Rosh Hashanah, il nuovo anno ebraico. Vi auguro a voi e tutti gli ebrei della Russia un felice anno nuovo. Domani sera, il 21o, i musulmani inizieranno celebrare il loro nuovo anno, anche se il profeta ha detto loro di riservare più grandi celebrazioni per altre feste. Poi noi cristiani celebreremo il nostro nuovo anno e in Russia questo è fatto due volte - secondo il nuovo e vecchio calendario. Il 16 febbraio i buddisti avranno il loro nuovo anno. Quindi abbiamo vacanze per festeggiare tutto l'anno.
  Ma oggi stiamo celebrando il nuovo anno ebraico. Vorrei esporre nuovamente i miei migliori auguri. Auguro a tutti gli ebrei della Russia prosperità, felicità e fortuna. Spero che tutto sia nella vostra comunità. So che la vita religiosa sta sviluppando attivamente e che hai delle cose da discutere con persone e nuovi siti - sia secolari che religiosi - per mostrarli. Questo è qualcosa che tu e noi abbiamo sempre prestato attenzione. So che si presta sempre molta attenzione a questo. Sono lieto di vedere che sei in dialogo regolare con le autorità secolari e, soprattutto, a tutti i livelli.
Berel Lazar: Grazie mille! A differenza di altri nuovi anni, celebriamo esattamente il giorno in cui Dio ha creato il primo uomo nella nostra tradizione. Questa non è una vacanza meravigliosa come in altre religioni. Il nostro è più solenne. La gente prega e riflette su ciò che è stato fatto e come vivere meglio.
  Una delle principali lezioni è che Dio ha creato un singolo uomo. Il Talmud spiega che l'idea era quella di insegnarci a tutti che la vita di una persona contiene tutto il mondo. Chi salva la vita di una persona, salva l'intero mondo, come era. Così, durante Rosh Hashanah, in questi giorni ricorderemo gli exploit di coloro che hanno salvato il nostro popolo - soldati e ufficiali che hanno dato la loro vita per salvare gli altri. Su una nota correlata, vorrei ringraziare la Russia per aver fatto di tutto per preservare la verità storica.
  E speciale ringraziamento per la decorazione postuma di un uomo nel Cremlino quando eravamo lì recentemente, un uomo di estrazione ebraica chiamato Alexander Pechersky. La sua guida della rivolta a Sobibor è sempre stata molto importante per noi. Penso che ora, grazie a te, tutti i cittadini russi sanno di questo e sono molto grato a te per questo. Apprezziamo che la memoria della guerra è sacra per tutti i cittadini in Russia oggi.
  Ho pensato a questo oggi perché volevo fare una domanda a nome dell'intera comunità ebraica circa la partecipazione della Russia al rinnovamento del museo sul sito del campo di concentramento di Sobibor. I soldati russi hanno svolto il ruolo principale nella liberazione dell'Europa dai nazisti e hanno sostenuto le maggiori perdite durante la guerra. Pensiamo che i tentativi di escludere la Russia da questo progetto siano immorali e incomprensibili.
  Quando si parla della guerra, la cosa principale è dimenticare tutti questi problemi politici. Non so nemmeno cosa sia questo, ma certamente non la giustizia. Ciò che stiamo assistendo oggi è una sorta di gioco che si gioca con una materia sacra come la guerra. Solleveremo questo problema con i nostri colleghi, dirigenti di organizzazioni internazionali e altre ebraiche. Faremo tutto il possibile per portare questa materia a una soluzione adatta.
  La Russia dovrebbe partecipare in ogni modo a questo progetto e in altri progetti legati alla guerra. L'abilità dei soldati rimane sacra per noi, e sfruttarlo o giocare con esso è inaccettabile. Quindi, grazie ancora una volta. Appoggiamo pienamente la posizione della Russia su questo tema.
Vladimir Putin: Grazie per aver definito il problema in questo modo e anche per la tua posizione. Non è nuovo per me, il tuo atteggiamento a questo problema. Ma è importante per le persone del nostro paese sapere che i leader della comunità ebraica condividono la nostra visione ufficiale sulla verità e la giustizia per tutti gli eventi della seconda guerra mondiale.
  È molto importante che siamo insieme su questi temi estremamente importanti e dobbiamo guardare al futuro. Ma i nostri punti di vista devono basarsi sul solido fondamento della comprensione in cui idee odiose di sterminio di nazioni intere, milioni di persone, possono condurre.
  E dobbiamo fare tutto per evitare che questo accada in futuro. Questo è il motivo per cui faremo tutto il possibile per evitare qualsiasi politicizzazione di tali questioni e cercheremo certamente di adottare un approccio e una verità imparziali, che è l'unica base per una società giusta e le giuste relazioni nel mondo.
  Spero che le tue parole saranno ascoltate dai nostri partner, dai nostri colleghi in tutto il mondo. Mi riferisco anche a questo caso. E l'uomo che hai citato era certamente un eroe, un uomo molto coraggioso. È dovuto a coloro che hanno mostrato tali qualità, persone di ogni genere di origine etnica, che siamo riusciti a vincere questa terribile guerra.
  Ma ancora oggi è il nuovo anno. E io conosco le tradizioni del popolo ebraico e li capisco. Questa è ancora una tappa nuova. Il nuovo anno è il nuovo anno, e ancora una volta vi auguro una felice vacanza.
Berel Lazar: Grazie, signor Presidente!

(Agenparl, 21 settembre 2017)


Hezbollah più forte che mai

Sembrava che la guerra civile in Siria avesse indebolito il gruppo libanese, invece l'ha trasformato in un esercito puntato contro Israele. Avviso per i fan della stabilità assadista.

Hezbollah ha in serbo per Israele una strategia della saturazione: così tanti missili da sopraffare "l'ombrello di difesa" israeliano Israele ha chiesto ai russi una fascia di sessanta chilometri dal confine senza Hezbollah, ne ha ottenuti cinque
Luttwak diceva: lasciamo che in Siria si scannino tra loro. Non è andata benissimo e oggi il paese è una piattaforma militare iraniana Trump dice che ha già deciso cosa fare con il deal nucleare iraniano ma non lo annuncia, l'Iran parla di risposte dure

di Daniele Raineri

 
La recente operazione di Hezbollah contro lo Stato Islamico sulle montagne del Qalamoun, in Siria, è stata una dlmostrazione dell'efficienza militare raggiunta dal gruppo libanese
 
Hezbollah ha perso più di 1.100 combattenti in Siria negli ultimi cinque anni, qui le immagini di un funerale, ma il conflitto è stato anche un laboratorio militare. Israele osserva con preoccupazione
È l'agosto 2013, subito dopo una strage di civili con armi chimiche alla periferia di Damasco, e lo stratega Edward Luttwak scrive un editoriale sul New York Times in cui sostiene che la scelta migliore per l'America è restare fuori dalla guerra civile siriana: la situazione è perfetta per noi (americani), argomenta Luttwak, perché al Qaida e Hezbollah sono entrambi nostri nemici e si stanno scannando tra loro, quindi lasciamoli fare e più a lungo vanno avanti meglio sarà. Luttwak - che in Italia gode dello status di oracolo della realpolitik - omette di dire una cosa in quell'editoriale del New York Times, ed è questa: il ragionamento è passabilmente sensato per chi vive in America, quindi al riparo dalle conseguenze immediate della guerra civile siriana, ma non per chi vive in Europa a soltanto due ore di volo dal centro arroventato della violenza. E infatti negli anni successivi vedremo le conseguenze del conflitto ("che più va avanti e meglio è") farsi sempre più vicine a noi: è difficile fare un elenco degli effetti orrendi che poi ci hanno toccato, ma ricordiamo tutti le immagini delle centinaia di migliaia di profughi siriani attraversare in colonna mezza Europa e le altre immagini delle stragi di Parigi e Bruxelles (compiute da attentatori dello Stato islamico addestrati in Siria). Ora che la guerra civile ha imboccato una fase terminale, che cosa è successo alle parti in lotta: si sono distrutte a vicenda? Anche in questo caso il risultato è diverso dalla previsioni, ci sono molti vincenti e ci sono molti perdenti. In cima al gruppo di chi vince c'è Hezbollah, che "è più forte di prima" - dice Qassim Qassir, un esperto libanese interpellato ieri da Associated Press. Gli analisti dicono che è come se in Siria il gruppo avesse fatto una cura rinvigorente, i suoi combattenti adesso sono veterani con alle spalle anni di esperienza in combattimenti diretti, sono equipaggiati come i soldati di un esercito moderno e sono utilizzati come "shock troop" durante le offensive, vale a dire che aprono la strada a tutti gli altri soldati - assai meno efficienti.
  Prendiamo per esempio cosa è successo soltanto nell'ultimo mese. Nell'est della Siria un contingente hezbollah di due brigate (circa duemila uomini, non è dato sapere il numero esatto) ha fatto da avanguardia al corpo di spedizione assadista che ha rotto l'assedio della città di Deir Ezzor - era circondata dallo Stato islamico - mettendo fine al pericolo di vita immediato per novantamila assediati. E' stata un'operazione gestita assieme ai russi, che hanno fornito i pontoni mobili usati per attraversare con i mezzi il fiume Eufrate e anche la copertura aerea con i bombardieri. Nel frattempo a ovest un altro contingente hezbollah ha disinfestato il massiccio montuoso del Qalamoun dalla presenza dello Stato islamico, che era arroccato lì da tre anni, e per evitare una resistenza fino all'ultimo uomo da parte dei quattrocento guerriglieri di al Baghdadi ha stretto un patto di evacuazione con loro: vi diamo alcuni bus, voi ci salite con le vostre famiglie, attraversate la Siria e raggiungete l'Iraq. La campagna sul Qalamoun è stata fatta insieme con l'esercito libanese, che è armato e addestrato dall'Amministrazione americana. Così, nelle stesse settimane di guerra, Hezbollah ha combattuto con i siriani appoggiati dai russi e con i libanesi appoggiati dagli americani. Poi il Pentagono in questa storia del Qalamoun ha avuto un ripensamento, ha provato a bloccare il convoglio dei guerriglieri diretto verso l'Iraq (il principio è corretto: quelli dello Stato islamico sono come scorie radioattive, continuano a fare danni per anni, dove li metti causano devastazione) e ha bombardato alcuni ponti davanti ai bus. Infine anche l'America ha convenuto che ormai non c'era altra soluzione che lasciare passare il convoglio (altrimenti avrebbe dovuto uccidere tutti: famiglie e guidatori dei bus). Il punto è che Hezbollah fa da attore protagonista in queste battaglie ed è al centro della scena: siriani, russi, iraniani, americani, tutti devono parlare con loro.
  C'è da notare come per raccontare il ruolo di Hezbollah in questa guerra ormai si utilizzano parole che sono adatte a descrivere una forza regolare impegnata contro guerriglieri jihadisti. Ma Hezbollah fino a pochi anni fa era proprio questo: un gruppo di guerriglieri jihadisti. Il fondatore di al Qaida, Osama bin Laden, si è ispirato alla tattica del camion bomba guidato da un attentatore suicida inventata da Hezbollah, che nell'ottobre 1983 l'aveva usata per uccidere 241 marines e 58 paracadutisti francesi di stanza a Beirut come peacekeepers, Dopo la strage, i peacekeepers si ritirarono dal Libano e tutti i gruppi jihadisti presero nota dell'impatto enorme che si può ottenere con il sacrificio di un paio di guidatori suicidi. Trent'anni fa la reputazione del Partito di Dio non era molto dissimile da quella dello Stato islamico oggi - anche se c'è l'ovvia differenza che Hezbollah è sciita e lo Stato islamico sunnita. Poi ad alterare questa reputazione sono intervenuti altri passaggi.
  C'è stata una fase recente in effetti in cui il Partito di Dio si è pentito con amarezza del suo ingresso al fianco del presidente Bashar el Assad nel tritacarne siriano, avvenuto nella seconda metà del 2012. C'è una regola non scritta che dice che la guerra in Siria punisce chi si avvicina troppo e il gruppo libanese non ha fatto eccezione. L'ultimo bilancio dice che ha perso più di millecento combattenti e l'emorragia non accenna a diminuire, ad agosto ci sono stati 28 morti (fonte Ali Alfone del think tank Atlantic Council, che conta con pazienza da cinque anni). Oltre al logoramento materiale c'era quello di immagine. Il gruppo che sparava nelle strade di Aleppo e vicino Damasco, contro altri arabi, era diventato materia di dileggio. "Non eravate quelli della Resistenza contro Israele? E allora che ci fate in Siria? Qui non ci sono sionisti. Non dovevate liberare al Quds, Gerusalemme? E' più a sud, vi siete persi". La sua natura di vassallo delle politiche iraniane non aveva più la protezione del confronto con Israele. Inoltre, a dispetto della preparazione militare, non riusciva a salvare Assad. E nemmeno ci stavano riuscendo gli stessi militari iraniani, arrivati in Siria un anno dopo, nel 2013. L'avventura a Damasco era una perdita secca e ci sono resoconti molto poco ufficiali di litigate furiose con i gerarchi di Assad, che da Hezbollah volevano ancora più sacrifici e ancora meno visibilità. Poi nel settembre 2014 sono arrivati i russi ed è cambiato tutto. L'intervento di Putin ha cambiato di segno a gran parte di quello che stava succedendo in Siria, dove c'era un segno meno è arrivato un segno più e viceversa. Il Partito di Dio che era impantanato in una guerra di contro insurrezione bestiale e che rischiava di uscirne a pezzi è finito dalla parte dei vincenti. Durante la battaglia per prendere Aleppo est gli ufficiali russi hanno cominciato a incontrare in pubblico i comandanti di Hezbollah (che è pur sempre un gruppo sulla lista americana del terrorismo. Controargomento pronto: anche gli americani collaborano con lo Ypg curdo, che è legato al Pkk, anche quello un gruppo sulla lista del terrorismo).
  Due giorni fa Hezbollah ha fatto alzare in volo un drone di fabbricazione iraniana da Damasco e l'ha fatto entrare in territorio israeliano. Metafora perfetta dello scenario mediorientale prossimo venturo - anzi già presentissimo. Hezbollah è il braccio armato dell'Iran e ora agisce dalla Siria, che è una piattaforma militare molto comoda e ampia in caso di guerra contro Israele. Gli israeliani al confine hanno abbattuto il drone con un missile Patriot di cinque metri di lunghezza, valore tre milioni di dollari, e anche questa risposta spiega molto bene lo scenario di guerra (è un episodio simile a quello raccontato a marzo da un generale americano, David Perkins, durante un simposio dell'esercito, senza citare Israele: "Un nostro alleato ha sparato un missile da tre milioni di dollari per abbattere un drone da 200 dollari"). Secondo gli analisti israeliani, Hezbollah e gli sponsor iraniani vogliono combattere la prossima guerra con attacchi a saturazione, una moltitudine di missili lanciati assieme dalla Siria e dal Libano verso bersagli dentro Israele in quantità così elevata da sopraffare le contromisure missilistiche. Israele è protetto da un ombrello di difesa che in teoria distrugge ogni missile nemico con un contro-missile in tempi così rapidi da azzerare il pericolo. Ma cosa succede se il nemico usa la forza bruta della quantità e lancia troppi missili, troppi per essere fermati tutti? Questo timore degli sciami di missili è la spiegazione di molti dei cento raid aerei israeliani che a partire da gennaio 2013 hanno colpito installazioni e convogli di Hezbollah dentro la Siria. L'obiettivo è impoverire le scorte di missili, intralciare il trasferimento, ritardare l'accumulo e il raggiungimento di quella soglia di pericolo oltre la quale l'ombrello israeliano non riuscirà più a bloccare tutto. Inoltre, secondo gli esperti, gli ordigni di Hezbollah non sono più roba artigianale, sono armi precise, più pesanti e con gittata più lunga per incrementare la capacità di fare danni, in modo che quelli che sfuggono alla rete di intercettazione non finiscano a spegnersi fra le colline, ma colpiscano bersagli paganti come le città. Mentre il resto del mondo osserva la guerra contro lo Stato islamico, Israele svuota le scorte di missili di Hezbollah in Siria e Hezbollah le riempie di nuovo. E' lecito supporre che l'intelligence israeliana non riesca a vedere proprio tutto e che la joint venture Iran-Damasco-Hezbollah sia in vantaggio, altrimenti i raid aerei non continuerebbero a questo ritmo. Il complesso militare industriale in Siria cresce ed è più esteso delle operazioni per contrastarlo. Quando c'è maltempo i camion possono spostarsi sulle strade, gli aerei non possono levarsi in volo. Una settimana fa i jet israeliani hanno bombardato uno stabilimento per la produzione di armi nel nord della Siria dove lavorava anche personale iraniano, ed era un sito che faceva parte anche del programma chimico. Del resto stiamo parlando della Siria, il paese che nel settembre 2013 aveva detto alla comunità internazionale di avere consegnato tutto l'arsenale chimico e che poi il 4 aprile ha lanciato una bomba al sarin contro un villaggio ribelle. Secondo una notizia apparsa sul sito francese Intelligence Online a luglio, Hezbollah ha anche due fabbriche militari in Libano, una nella Beqaa libanese per produrre il razzo al Fatah 110 e l'altra per produrre munizioni tra Tiro e Sidone.
  Il problema è che prima Hezbollah aveva a disposizione soltanto il sud del Libano per fare la guerra, ora ha quasi tutta la Siria. Prima il terreno di gioco era quel pezzo di Libano a sud che s'incunea verso Israele, ora è tutta la linea di confine del Golan. Questo vale per le squadre di fuoco che prima sparano i missili contro Israele e poi si nascondono prima di essere visti dai jet, e vale anche per la logistica. Oggi i rifornimenti non devono essere più contrabbandati in Libano di soppiatto, atterrano alla luce del giorno sulle piste dell'aeroporto internazionale di Damasco - nelle stive di voli passeggeri, che non possono essere abbattuti. Oppure attraccano ai moli militari dei porti di Tartous e Latakia, al riparo da sguardi curiosi. Se prima la guerra era difficile, ora la difficoltà è aumentata di qualche ordine di grandezza. Israele ha chiesto per favore ai russi di garantire una fascia di rispetto di circa sessanta chilometri a partire dal confine, niente Hezbollah oppure iraniani, ma i russi hanno ridotto questa fascia a cinque chilometri - che contano zero in una guerra moderna. Da poco hanno trasportato alcuni uomini di Hezbollah a Quneitra, città siriana a ridosso delle alture del Golan. Chi scrive l'ha osservata l'anno scorso dall'altro lato del confine: da una postazione dell'esercito israeliano la si vede a portata di mano, adagiata nella pianura che comincia subito dopo una ripida discesa erbosa oltre i reticolati, così vicina che si vedono le macchine andare e venire tra gli edifici. Un po' oltre la portata di un fucile.
  Tre giorni fa la rivista americana Atlantic ha pubblicato un pezzo in cui racconta "la hybris di Hezbollah", è firmato da Andew Exum, ex consigliere militare americano che ha studiato a Beirut. La tesi è che a volte anche soltanto il gesto di accumulare e ammodernare un arsenale equivale a una dichiarazione di guerra contro i vicini e che il fatto che Hezbollah stia acquisendo le capacità per cominciare e continuare un conflitto contro Israele verrà letto inevitabilmente da Israele come un casus belli. E' una linea rossa perché oltre una certa soglia di armamento l'inazione diventerà più pericolosa e costosa dell'azione e quindi è soltanto questione di tempo prima che cominci il secondo tempo della guerra tra Hezbollah e Israele sospesa nell'estate 2006. Approfittare della guerra civile siriana per diventare un'arma puntata contro Gerusalemme è una strategia quasi suicida e per questo il titolo parla di hybris, l'arroganza che nelle tragedie greche porta alla rovina. Mentre il mondo parla del deal atomico dell'Iran e alle Nazioni Unite il presidente iraniano Hassan Rohani dice che il suo paese "risponderà in modo determinato e decisivo a qualsiasi violazione dell'accordo" e mentre il presidente americano Donald Trump sostiene di avere preso già una decisione su quel dossier, senza però dire quale, si alza il rischio di una guerra convenzionale e che potrebbe essere catastrofica. Exum nota che questa volta il gruppo libanese ha sparpagliato le sue postazioni in tutto il paese e che quindi c'è il rischio, anzi la certezza, di danni molto più gravi e profondi di quelli di undici anni fa, senza contare le basi in Siria. Exum non fa che un accenno, ma si riferisce alla cosiddetta dottrina Dahiye, che è quella correntemente adottata dall'esercito israeliano come risposta di default in caso di guerra contro Hezbollah e che prevede la distruzione deliberata e punitiva di tutte le infrastrutture che sostengono il nemico, anche in zone civili, per dare un colpo di grazia e assicurarsi che non ci siano nuove riprese e ulteriori capitoli di un conflitto infinito. Il nome viene dal quartiere di Dahiye, nella parte meridionale di Beirut, che fa da base per Hezbollah e che nel 2006 fu quasi raso al suolo.
  Questo scenario, tuttavia, è come se fosse ancora ignorato dall'opinione pubblica, anche perché i contendenti sono stati bravi a tenerlo sottotraccia. Non per questo è meno probabile. Nel prossimo futuro il presidente siriano Bashar el Assad, che oggi da alcuni è considerato un bastone di solidità, potrebbe tornare a essere il centro del problema, perché è l'incubatore consenziente di un conflitto esplosivo. Allora forse si assisterà a un cambio repentino di posizione da parte di chi - per esempio una delegazione di politici italiani appena stata in visita a Damasco e Aleppo - sta ancora celebrando i fasti della finta "stabilità" assadista. Per tornare all'assunto di Edward Luttwak: no, non siamo più al sicuro, non ci si salva se si lascia che i nemici si scannino tra di loro.

(Il Foglio, 21 settembre 2017)


Mossad: «l'lsis cerca la ribalta. Rischio attacco in Vaticano»

Allerta del servizio segreto israeliano che ha simulato un attentato a San Pietro

007 nei panni dei terroristi
Giochi di ruolo per evitare attentati anche nelle stazioni della metro
Lo scenario
I terroristi sconfitti in Siria e Iraq cercano l'azione eclatante
700 dollari
Il costo di un drone su Amazon a portata di ogni tasca

di Francesca Musacchio

Dabiq, la copertina con le bandiere nere dell'lsis sul periodico di propaganda jihadista
L'Isis è a caccia di visibilità per dimostrare che la sua potenza non è in crisi. Le pesanti sconfitte subite tra Siria e Iraq hanno offuscato l'immagine del gruppo terroristico e quindi serve una risposta adeguata, un attacco spettacolare. Quale migliore obiettivo se non il Vaticano? E' questo il presupposto dal quale è partita la simulazione dell'Itc, Herzliya International lnstitute for Counter-Terrorism Conference, a cui hanno partecipato anche alcuni ex ufficiali del Mossad e dell' esercito israeliano. Uno scenario spaventoso, messo in campo per immaginare come potrebbe svolgersi un attacco terroristico a San Pietro, da sempre considerato l'obiettivo numero uno dello Stato islamico.
   La simulazione, fatta anche attraverso un inquietante gioco di ruoli dove i leader lsis erano interpretati da alcuni 007, è stata attuata per ricreare possibili scenari, motivazioni e organizzazione degli jihadisti. È stata persino inscenata una riunione tra i vertici del Califfato per pianificare il mega-attacco che avrebbe l'ambizione di dimostrare che l'Isis è ancora esistente, nonostante le sconfitte subite in Siria. Il tutto è avvenuto, per tragica coincidenza, il giorno prima dell'esplosione nella metropolitana di Londra. La Gran Bretagna, però, non è un obiettivo facile, vista la difficoltà di entrare liberamente, e neanche uno dei più importanti dal punto di vista mediatico.
   Nonostante l'attacco a Person Green non abbia sorpreso gli esperti israeliani, la loro analisi li ha portati a considerare uno scenario ben più appetibile per gli jihadisti: l'Italia e in particolare il Vaticano.
   Boaz Ganor, fondatore del think tank, ha interpretato il ruolo del leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. L'ex capo di Mossad, Naftali Granot, ha invece svolto la parte del capo del consiglio militare dell'Isis, Nello scambio di battute previste dalla simulazione, il concetto dei terroristi suona come una profezia: «Negli ultimi anni abbiamo subito delle sconfitte militari. Ma questa non è sicuramente la fine. Ora ci concentreremo principalmente su ciò di cui siamo più capaci: colpire gli infedeli in vari Paesi usando gli attacchi suicidi e altre operazioni terroristiche. Per noi sarà molto più semplice che combattere una vera e propria campagna militare. Questa nuova fase sarà una lunga campagna terroristica».
   L'attacco a San Pietro, dunque, avrebbe «un grande valore simbolico in quanto è il simbolo del cristianesimo».
   Nella simulazione sono stati persino utilizzati dettagli operativi come il numero di kamikaze che potrebbero essere messi in campo, l'uso di droni e di componenti esplosivi che si possono facilmente acquistare per costruire bombe artigianali. Proprio in merito ai droni, inoltre, gli specialisti hanno spiegato come sia facile reperirne di ottima qualità su Amazon al costo di 700 dollari. Insomma, la simulazione di uno scenario devastante, ma allo stesso tempo realizzabile, che allerta anche su un possibile attacco in contemporanea nelle stazioni metro nei pressi di San Pietro. Secondo l'analisi utilizzata per progettare la simulazione, I'Isis avrebbe inviato in Europa la maggior parte dei combattenti stranieri. Tutti mujaheddin pronti a compiere attacchi nei Paesi d'origine e già in possesso di armi, esplosivi e munizioni per «avviare una vera e propria campagna di terrore».
   Non è la prima volta che da Israele arrivano avvertimenti sul rischio di attentati in Italia. I servizi segreti israeliani hanno segnalato tra gli obiettivi il Vaticano e il Papa, oggetto anche della propaganda jihadista nel web. Mai come questa volta, però, è inevitabile pensare alla ormai famosa copertina di Dabiq, il magazine online dello Stato islamico, dove si vede issata la bandiera nera dell'Isis sull'obelisco di piazza San Pietro. Un'immagine che negli anni ha simboleggiato più di ogni altra le intenzioni dell'Isis: arrivare a Roma, conquistarla, sottometterla e sostituire tutti i simboli del cristianesimo con quelli dell'Islam. Le informazioni delle varie intelligence e la continua propaganda sul web, inoltre, hanno contribuito ad innalzare l'allerta per possibili attentati nel nostro Paese, come durante il Giubileo quando Roma si è blindata.
   Tra le immagini agghiaccianti che continuano ad affollare gli incubi di quanti devono occuparsi della sicurezza in Italia, ci sono le foto postate nel corso degli ultimi tre anni da alcuni account Twitter in cui si vedono Roma e piazza San Pietro a ferro e fuoco, mentre la terribile bandiera nera dello Stato islamico sventola sulla città eterna. In un'altra immagine, invece, la mappa della Libia sovrasta Roma e sotto la frase: «Le armi degli ottomani sono state lanciate e hanno accerchiato Roma dopo avere conquistato la Libia a sud dell'Italia. Chi vuole prendere Roma e l'Andalusia deve cominciare dalla Libia».
   La simulazione israeliana dei giorni scorsi, quindi, evoca gli scenari più volte temuti dagli esperti e da non sottovalutare.

(Il Tempo, 21 settembre 2017)


Netanyahu: coloro che minacciano di annientarci si espongono ad un pericolo mortale

NEW YORK - Coloro che minacciano Israele di annientamento si espongono "ad un pericolo mortale". Lo ha dichiarato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, nel suo discorso pronunciato ieri nel quadro della 72ma Assemblea generale delle Nazioni Unite, in corso a New York. "Israele si difenderà con la forza delle sue braccia e con il potere delle sue convinzioni", ha sottolineato il premier israeliano. Nel suo discorso Netanyahu ha elencato i progressi diplomatici israeliani in seguito ai lunghi viaggi effettuati dal premier in Australia e America Latina, precisando che il suo paese ha molto da offrire in termini di tecnologia ed esperti anti-terrorismo. Tuttavia Netanyahu ha dedicato un'ampia parte del suo discorso al tema dell'Iran e alla minaccia che la Repubblica islamica rappresenta per lo Stato di Israele. Il premier ha ricordato come il paese si sia sempre opposto all'accordo sul nucleare iraniano divenuto realtà nel luglio 2015, avvisando i paesi della Comunità internazionali. "Ho avvisato che quando le sanzioni sarebbero state rimosse, l'Iran si sarebbe comportato come una tigre affamata e scatenata", ha dichiarato Netanyahu.
   Per il premier israeliano l'Iran non è entrato nel novero della comunità delle nazioni, ma sta divorando gli Stati uno dopo l'altro. Netanyahu ha avvertito, facendo un parallelismo con la cosiddetta "cortina di ferro" del periodo della Guerra fredda, che "una tenda iraniana sta calando sul Medio Oriente, estendendosi su Iraq, Siria, Libano e altre zone, intenzionata a spegnere la luce di Israele". "Io - ha aggiunto - ho un semplice messaggio per Khamenei (la guida suprema dell'Iran ayatollah Ali Khamenei): la luce di Israele non potrà mai estinguersi".
   Durante il suo intervento, Netanyahu si è rivolto direttamente al popolo iraniano, inviando un messaggio di ringraziamento in lingua farsi, sottolineando che Israele non è "loro nemico e che una volta che il regime sarà cambiato, i popoli potranno riprendere quella che in passato è un'amicizia storica". Il premier ha inoltre elogiato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sia per il contenuto del suo discorso, sia per il suo forte sostegno allo Stato di Israele presso le Nazioni Unite. Netanyahu ha detto che nei suoi 30 anni di esperienza con l'Onu, non ha sentito un discorso più coraggioso di quello pronunciato da Trump.

(Agenzia Nova, 20 settembre 2017)


Israele, inaugurata la prima base militare Usa

Decine di cadetti frequenteranno la School of Air Defence

di Maria Grazia Labellarte

Il generale israliano Zvika Haimovich e il generale statunitense John L. Gronski firmano un accordo durante una cerimonia alla base aerea di Bislach, vicino a Mitzpe Ramon, lunedì 18 settembre 2017
La prima base militare americana è stata inaugurata sul suolo israeliano lo scorso 18 settembre all'interno della già esistente Bislach Air Base. Situata nel cuore del Negev, sarà frequentata da decine di cadetti americani che frequenteranno la School of Air Defense.
Già due anni fa fu siglato da entrambe le parti un accordo per l'avvio dei lavori per un'installazione militare americana, consolidando così le volontà reciproche di una strategia di cooperazione militare. La base vuole essere un nuovo simbolo della presenza a stelle e strisce nel Medio Oriente e, per Israele, ribadire il permanente stato di allerta della difesa israeliana verso il nemico di sempre, l'Iran. Proprio con gli Stati Uniti, infatti, Israele ha sviluppato un sistema multistrato di difesa contro gli attacchi di missili a lungo raggio lanciati dall'Iran sulla Striscia di Gaza.
   Tuttavia, in Israele, matura sempre più la preoccupazione per il chiaro coinvolgimento dell'Iran nella guerra civile nella confinante Siria ed il timore che lo stato persiano insieme al partito politico libanese Hezbollah possa stabilire una presenza a lungo termine sul confine con lo stesso Israele.
   Hezbollah ha sofferto nello stesso conflitto pesanti perdite, la stima si avvicina a più di 1300 morti e più di 5000 feriti, la sua partecipazione, inoltre, ha richiesto ingenti finanziamenti relativi ad armamenti, manutenzione e personale militare. In aggiunta a questo, Hezbollah è stato costretto a schierarsi contro i gruppi sunniti radicali cercando di estendere il campo di battaglia oltre confine, in territorio libanese. Nel Paese dei cedri sono affluiti, dall'inizio della guerra, oltre 1 milione di profughi e l'intera popolazione libanese, che oscilla intorno ai 4,5 milioni di abitanti tra cui 400 mila profughi palestinesi, sta subendo da mesi una forte pressione politica, sociale ed economica.
   Lo stesso partito politico da piccola organizzazione terroristica munita di una sua milizia armata è divenuta, ultimamente, un esercito nazionale, a tutti gli effetti. Con il tempo si è dotato di missili a lungo raggio ad alta precisione con testate più grandi di quanto non fossero nel 2006 ed oggi può contare su 100.000 vettori armati, rispetto ai circa 12.000 nel 2006. Il gruppo ha anche ampliato e migliorato la sua dotazione di droni, le difese antiaeree, missili terra-mare, armi anticarro, la capacità di acquisizione di informazioni, così come ha ammodernato i sistemi di comando e controllo. Oltre a tutto ciò, ha acquisito una enorme esperienza sul campo di battaglia, comprensiva sia delle capacità logistiche sia, soprattutto tattiche, schierando i suoi battaglioni in teatri operativi complessi, come la Siria per l'appunto.
   L'arrivo di decine di soldati americani presso la Bislach Air Base, unitamente alla sua attività operativa, acquista un grande valore simbolico nell'area, soprattutto nella sua funzione di deterrenza e contrasto contro eventuali incursioni in territorio israeliano.

(ofcsreport, 20 settembre 2017)


Israele, incubo lupi nel deserto: "Attaccano i bambini per mangiarseli"

Almeno dieci attacchi quest'anno. Gli zoologi: non temono più l'uomo, lo considerano un preda

di Giordano Stabile

 
C'è un nuovo nemico alle frontiere di Israele ma non è un gruppo terroristico o uno Stato arabo in cerca di rivincite. Sono i lupi. Si sono adattati alla presenza umana nel deserto, ai margini delle città, e ora cominciano ad attaccare gli uomini. Sono stati registrati già una decina di episodi, nel Negev. L'ultimo in un piccolo accampamento di famiglie in gita vicino a Masada.

 Assalto al campeggio
  «C'erano almeno dieci tende - ha raccontato Ramat Hasharon al quotidiano Haaretz -. All'improvviso, nella notte, un animale che sembrava un cane è entrato nell'accampamento. Ho urlato ma non se ne andava». Il predatore è stato cacciato dagli altri campeggianti ma è tornato due ore dopo e ha assalito la figlia di Ramat: «L'ho visto sopra di lei, con lei a terra, muoveva il suo naso sopra di lei». La piccola ha riportato una ferita per un morso. «Non sembrava che volesse ucciderla ma piuttosto che volesse trascinarla via, portarsela via».

 Bambini come prede
  L'attacco risale a quattro mesi fa. Da allora ne sono stati registrati almeno altri nove, tutti nella zona del deserto. Quasi tutte le vittime erano bambini piccoli. Per esempio due bambini sono stati attaccati alla scuola all'aperto Ein Gedi. Anche una donna è stata assalita, mentre dormiva in una tenda con il marito. Lo zoologo Haim Berger ha analizzato i casi e ha concluso che i lupi non attaccano per mordere o spaventare gli uomini ma proprio per predare i bambini, per nutrirsi. Questo li rende un pericolo molto preoccupante.

 "Se non ti teme, devi temerlo"
  Lo stesso Berger lo ha sperimentato, durante un campeggio nel deserto. «I bambini grandi non volevano dormire nelle tende ma fuori. A un certo punto mia figlia mi ha detto di aver visto un lupo. La cosa anomala è che non sembrava aver paura degli uomini. Non è normale che un predatore stia vicino a te e non abbia paura. Vuol dire che sei tu a dover avere paura. Un lupo che non è spaventato dall'uomo è un lupo che attacca».

 Adattamento all'uomo
  Berger è convinto che i lupi nel deserto israeliano sono passati attraverso una lunga fase di adattamento alla società umana. Hanno imparato che non è necessario temere gli uomini, e che la gente può essere una fonte di cibo, come le gazzelle. Se un lupo non riesce a trovare cibo per giorni e si imbatte in un gruppo di uomini, sente l'odore del cibo cucinato, si avvicina. Cento anni fa nessun lupo avrebbe osato avvicinarsi a un accampamento di beduini. «Ma oggi la situazione è differente».
Già nel 2008 c'era stato un incidente del genere, sempre vicino a Masada, con tre ragazzine assalite a pochi metri dai loro genitori. Il lupo era riuscito a trascinarne una per alcuni metri prima che i genitori riuscissero a scacciarlo. La ragazza era rimasta ferita al collo e alla gola. Allora, l'Autorità per i parchi e la natura aveva promesso di recintare le aree di campeggio ma non l'ha mai fatto.

 Fucili ai ranger
  Quest'anno però gli attacchi sono moltiplicati. Al Kibbutz Ein Gedi una piccola di due anni e mezzo che stava giocando in un campo è stata assalita e ferita alla schiena. Un ranger ha confermato che l'animale ha attaccato per predarla. Gild Gabau, il direttore del distretto meridionale dell'Autorità per i parchi e la natura, ha confermato che ci sono stati almeno dieci gli attacchi nel corso del 2017. Ha aggiunto che la minaccia è presa «sul serio»: è stato proibito dare cibo agli animali selvatici e i ranger sono stati muniti che fucili che sparano pallottole di vernice per spaventare e cacciare i lupi che si avvicinano alle zone abitate e ai campeggi.

(La Stampa, 20 settembre 2017)


I consigli dello 007 israeliano: "Così si combatte il terrorismo"

Nadav Argaman, capo dell'Agenzia di sicurezza israeliana
Dieci giorni fa, il capo dell'Agenzia di sicurezza israeliana (Shin Bet), Nadav Argaman, ha rivelato, durante la riunione del governo israeliano presieduto da Benjamin Netanyahu, che dall'inizio di quest'anno, in Israele, sono stati sventati circa 200 attacchi terroristici, 70 dei quali nei soli mesi di agosto e settembre. Va detto che Argaman ha incluso in questa lista non soltanto gli attentati terroristici come li percepiamo noi in Europa, ma anche rapimenti e scontri a fuoco. Quindi una vasta gamma di episodi terroristici di cui, alcuni, non ancora parte dell'immaginario collettivo europeo sul terrorismo di matrice islamica, come appunto possono essere i rapimenti. In particolare, a destare preoccupazione nell'intelligence israeliana è la situazione in Cisgiordania, che per lo Shin Bet è "fragile" e caratterizzata da una forte presenza simultanea di organizzazioni terroristiche e attori individuali privi di legami con le forze principali del terrorismo, ma pieni di sentimenti di odio verso Israele.
  Con l'avvento del fenomeno terroristico in Europa, in molti considerano il sistema israeliano come un modello da prendere ad esempio per combattere il radicalismo islamico e reprimere le organizzazioni terroristiche. Gli attentati di Barcellona, Manchester, Londra, Parigi, Bruxelles, così come i vari attacchi all'arma bianca o con pulmini tra Regno Unito, Germania e Svezia, hanno posto l'accento su quello che da molti è teorizzato come l'israelizzazione dell'Europa. Ogni capitale europea si sta, infatti, lentamente trasformando, a detta di molti osservatori, come una Tel Aviv del Vecchio Continente. Non c'è più una città tranquilla e non si rischia più soltanto un attentato di vaste proporzioni come potevano essere quelli orribili e devastanti degli anni precedenti, Oggi la tensione è continua e la minaccia costantemente presente in ogni area del continente. Per controllare questa nuova minaccia, il sistema israeliano sembra essere l'unico modello in grado di poter far fronte al problema, comprimendo il rischio nei limiti del possibile. Gianluca Perino, per il Messaggero, ha riportato le parole di un ex 007 dello Shin Bet, Adi Carmi, che ha spiegato come l'Europa dovrebbe comportarsi di fronte al pericolo jihadista.
  "Ci sono soltanto due possibili scenari - spiega Carmi al quotidiano romano - e in entrambi i casi il nostro obiettivo è arrivare prima dell'attacco. Di fronte a gruppi terroristici tradizionali, se hai una buona intelligence, la possibilità di far saltare i piani dei terroristi è sicuramente alta. Di solito gli jihadisti commettono degli errori o, comunque, utilizzano smartphone, computer, tablet e altri sistemi che possiamo intercettare. Lo stesso discorso vale in presenza di una rete che si muove sul territorio, che importa armi ed esplosivo o che è comunque costretta a spostamenti nelle città: anche in questo caso possiamo riuscire a fermarli in tempo. E lo abbiamo già fatto, noi come le polizie di altri paesi europei. Ma questo scenario potrebbe non essere più prevalente, perché in realtà il mondo del terrore è cambiato". Secondo l'ex agente dell'intelligence israeliana, il problema nasce dal fatto che ai miglioramenti del terrorismo islamico nell'uso delle tecnologie, deve esserci un contemporaneo miglioramento delle forze di sicurezza per prevenire queste nuove forme di sviluppo ed espansione dello jihadismo. Nell'ambito dei social network, ad esempio, alcuni sistemi europei si sono ritrovati nettamente impreparati. Le parole di Carmi sono essenziali per comprendere cosa deve cambiare: "La nostra salvezza è rappresentata dalla capacità di cambiare mentalità e strutture, magari anche qualche legge: dobbiamo pensare come loro, vivere come loro, infiltrare i loro ambienti. Servono agenti che parlino arabo perfettamente, che studino il Corano in modo maniacale, che riescano a capire cosa accade realmente nelle moschee dove si predica quell'odio che poi arma i terroristi improvvisati".
  Secondo Adi Carmi, va cambiata anche la percezione delle leggi in materia di antiterrorismo. Nel 2002, Israele modificò le leggi in materia di antiterrorismo unificando i vertici dell'intelligence, che adesso rispondono solo al primo ministro e soprattutto concessero ampi poteri discrezionali alle agenzie di sicurezza del Paese e alla polizia. Il tempo è essenziale, non si può perdere in rimpalli di responsabilità e in cavilli burocratici. E devono essere riformate anche le leggi per prevenire il terrorismo. L'ex agente israeliano pone in particolari due temi fondamentali: migranti e moschee. Per Carmi il problema delle migrazioni è una tema semplicemente di sicurezza interna., E le sue parole sono chiarissime nel delineare quali sono le politiche che l'Italia dovrebbe intraprendere: "Se devo occuparmi della sicurezza del mio Paese, devo sapere tutto: chi sono, da dove vengono, quali contatti hanno, dove stanno andando, dove vanno a dormire. Arrivano a milioni, e tra questi volete che non ci sia qualche potenziale pericolo?". E le moschee e i centri culturali islamici sono un altro grave problema che la politica italiana dovrebbe regolare il prima possibile con leggi più dure. "Perché l'estremismo islamico passa proprio da quei posti, proprio come a Bruxelles o a Malmö", e, aggiunge Carmi, "il problema è che le nostre democrazie devono essere nette quando si parla di integrazione: diritti sì, ma rispetto totale delle nostre regole". Parole che dovrebbe essere stampate a caratteri cubitali nelle aule del nostro Parlamento.

(Gli occhi della guerra, 20 settembre 2017)


Torino, le istituzioni in visita alla sinagoga di San Salvario

La Circoscrizione 8 accolta dal presidente della comunità ebraica torinese e dal Rabbino capo. "Ampliare la collaborazione".

 
La sinagoga di Torino
La sinagoga, le scuole, la casa di riposo e gli spazi di socialità. Il grande patrimonio architettonico e culturale contenuto negli spazi di una delle comunità ebraiche più grandi d'Italia. Si, perché dopo Roma e Milano, è proprio a Torino e Firenze che queste realtà sono maggiormente radicate e ampie. Il tutto aperto alle porte dei consiglieri della Circoscrizione 8 di Torino, per una visita in cui sono state raccontate la storia e le attività della comunità.
   A guidare questa visita il presidente Dario Disegni, che ha mostrato ai consiglieri anzitutto la sinagoga, raccontandone la storia: un edificio arrivato tardi in San Salvario, ricostruito nei suoi interni dopo lo scoppio di una bomba nella seconda guerra mondiale. Ma non solo quella perché, come racconta Disegni, la comunità ebraica è ben più ampia, fatta di scuola elementare e media e casa di riposo, tutte e tre aperte anche ai non ebrei.
   Malgrado sia tra le prime quattro del nostro Paese, ormai la comunità non conta più di 900 membri, "per tutte le variabili comuni nella società italiana: i giovani vanno via per cercare lavoro e l'età della popolazione è sempre più avanzata". Ma nonostante questo lo spazio è fiorente "di attività culturali aperte anche all'esterno. Ormai siamo una comunità allargata in tutti i sensi".
   "Siamo profondamente impegnati nel dialogo religioso - dice il rabbino capo - cosa ancora più importante in un quartiere come San Salvario, che è un laboratorio vero e proprio per la città, dove svolgiamo tantissime iniziative. La nostra comunità non è importante solo per la sua storia, ma anche per la presenza sul territorio".
   Molto soddisfatta la coordinatrice di commissione Noemi Petracin: "E' una realtà importante che dev'essere conosciuta ancora di più, anche per evitare di fare di nuovo degli errori terribili, soprattutto visto il momento storico che vediamo. In questa prospettiva sarebbe bello ampliare la collaborazione, soprattutto per quanto riguarda le scuole e il sociale. Potrebbe dare un senso forte di comunità per il territorio e le sue associazioni".

(TorinOggi, 20 settembre 2017)


Prima base militare statunitense in Israele

Per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti hanno stabilito una base militare permanente di difesa aerea in Israele, nel cuore del deserto del Negev, nel sud del paese. Lo ha annunciato ieri, citato dal quotidiano «The Times of Israel», il capo del comando della difesa aerea israeliana, il generale di brigata Tzvika Haimovitch.
Al giornale il generale ha detto che la base statunitense è collocata all'interno di quella israeliana di Mashabim, a occidente delle città di Dimona e Yerucham. «La base - ha aggiunto Haimovitch - dimostra la lunga alleanza tra Stati Uniti e Israele e ci consente di aumentare le nostre difese, nella ricognizione, nell'intercettazione e nella capacità di reagire».
Nonostante abbia sottolineato che l'apertura della nuova installazione non sia legata a nessun evento specifico - e che è stata allestita e preparata in due anni - Haimovitch ha spiegato che la presenza permanente di una base statunitense su suolo israeliano «fa comprendere ai nostri vicini quanto la nostra amicizia con gli Stati Uniti sia importante».
Il generale ha confermato che nella nuova base prenderanno servizio decine di militari israeliani e statunitensi.

(L'Osservatore Romano, 20 settembre 2017)


Ebreo chi?

"Ebreo chi? Sociologia degli ebrei italiani oggi", Jaca Book, 330 pp., 35 euro

di Alessandro Litta Modignani

Ma tu sei ebreo? non è una domanda come tutte le altre. E' un interrogativo che genera "imbarazzo", avverte Furio Colombo nella prefazione, e sulla natura profonda, intima, di questo imbarazzo è necessario scavare e riflettere. Va a Ugo Pacifici Noja e Giorgio Pacifici, i due curatori, il merito di avere assemblato in questo volume collettaneo e multidisciplinare un forte mix di contributi scientifici e di testimonianze di alto valore morale. I coautori sono 16, il focus è sugli ebrei italiani, ma molte considerazioni sull'identità ebraica e l'antisemitismo hanno carattere generale. Analizzando i dati statistici, si scopre per esempio che circa il 50 per cento degli ebrei italiani dichiara di avere un livello di osservanza religiosa medio-bassa, bassa o nulla. Oppure che il 73 per cento degli ebrei americani indica il primo significato dell'identità ebraica nel "Remembering Holocaust", risposta che scende sotto il 20 per cento per gli ebrei italiani. Sergio Della Pergola riprende i complessi e sofisticati sondaggi internazionali dell'Anti Defamation League, Nel 2013-14 poteva essere classificato come "antisemita" il 26 per cento della popolazione mondiale, percentuale che sale al 74 per cento in medio oriente e nord Africa e che si attesta al 24 per cento in Europa occidentale. In Italia la media era al 20 per cento - è salita però al 29 solo un anno dopo. Lo storico Claudio Vercelli, fra i massimi esperti di genocidi e negazionismo, affronta i temi di più bruciante attualità, dai processi migratori ai fenomeni populistici. "L'insediamento di comunità provenienti dal Mediterraneo meridionale e dall'ampia regione mediorientale (. . .) influisce (. . .) anche sulle dinamiche di formazione, rinegoziazione e diffusione di pregiudizi antichi". Per fornire una definizione, Vercelli scrive che "si ha antisemitismo quando vi è la diffusa convinzione che la storia umana sia attraversata e condizionata in maniera permanente, da una cospirazione tramata nell'ombra dall'ebraismo ai danni dei non ebrei", cospirazione che "avrebbe come obiettivo il conseguimento di un potere di controllo, se non di dominio, pressoché assoluto sull'intera comunità umana.(…) La nascita di Israele viene letta come una peculiare manifestazione di questo processo di 'rivelazione' della intrinseca malignità degli ebrei". Alcune suggestioni di questo tipo, aggiunge Vercelli, si possono riscontrare nei richiami anti politici dei movimenti populisti europei e italiani. "E' infatti tipico della stereotipia antisemitica l'identificare la politica democratica come prodotto della corruzione e dell'affarismo", una concezione "storicamente propria di quei ceti che hanno faticato a definire un ruolo economico e un profilo culturale certi". Nelle conclusioni, Giorgio Pacifici sottolinea la pericolosa interazione fra due stereotipi profondi: "Avarizia, ricchezza e potere" costituiscono un insieme strettamente interconnesso con la presunta "estraneità della comunità ebraica italiana, il suo essere 'altro' rispetto alla collettività nazionale. (. . .) Un'immagine indubbiamente banale, ma pericolosa soprattutto in un momento storico come quello presente".

(Il Foglio, 20 settembre 2017)


Marocco - Rabbini riuniti a Essaouira per la celebrazione dell'Hiloula

RABAT - Si è svolto ieri a Essaouira, nella parte centrale del Marocco, l'annuale raduno dei rabbini e della comunità ebraica marocchina per la celebrazione dell'Hiloula. Questa riunione religiosa annuale è rivolta agli ebrei marocchini del Nord America, dell'America Latina e di tutta l'Europa, ed è un momento di riunione per il Marocco. Per celebrare l'ultimo giorno di Hiloula, è stata organizzata una grande serata musicale a Essaouira in onore di re Mohammed VI. Le celebrazioni commemorano la figura di uno dei rabbini più importanti della storia dell'ebraismo marocchino, Rabbi Haim Pinto. Durante la serata di chiusura l'orchestra ha eseguito l'inno nazionale della "marcia verde" come tributo al re.

(Agenzia Nova, 20 settembre 2017)


Il Giro che fa la storia. «Il primo capitolo di una nuova era. Così uniremo Israele e Italia»

Il direttore Vegni: «Sulla sicurezza non dobbiamo insegnare niente. I team arabi? Nessuna obiezione»

«Useremo tre aerei e due navi. squadre con due strutture» «Israele fornirà 120 tra auto e furgoni e tutte le moto» «Esiste anche un piano B tutto italiano, ma non voglio pensarci»

di Luca Gialanella

GERUSALEMME - Il giorno dopo la nascita di Gerusalemme rosa, la soddisfazione è ancora più forte. Mauro Vegni, direttore del Giro d'Italia, giustamente parla di «un evento che non è stato formale, ma ha toccato tutti perché la partenza da Israele nel 2018 rappresenta un punto di non ritorno, una svolta epocale che resterà per sempre nella storia del ciclismo mondiale». Tre tappe, dal 4 al 6 maggio: la cronometro inaugurale a Gerusalemme, 10,1 chilometri sotto le Mura della città cuore di ebraismo, cristianesimo e islamismo; l'arrivo sul lungomare di Tel Aviv e quello di Eilat, dopo aver attraversato il deserto del Negev, tappe per velocisti, con le insidie di vento, caldo, soprattutto di un mondo da esplorare anche in bicicletta. Sul tavolo, questioni complesse di logistica e sicurezza. Una carovana di 2000 persone a notte da porta-
re nel Medio Oriente a 4 ore di volo dall'Italia, la polizia, i mezzi. Vegni spiega tutto.

- Partiamo dalla logistica. Come si porta il Giro in Israele e poi lo si riporta in Itala?

  «Il progetto della Grande Partenza a Gerusalemme nasce ambizioso e mi ha affascinato subito proprio per questo motivo. È il primo capitolo della nuova storia del Giro, ma non ci spaventa perché ho la fortuna di avere una grande squadra alle spalle. Anche le partenze dall'Irlanda del Nord nel 2014 o dall'Olanda (2010 e 2016) erano complesse. Intanto ci sarà un contributo importante da parte di Israele: le transenne, i podi, le tribune, i villaggi di partenza e arrivo saranno realizzati in loco su nostre indicazioni. E Israele fornirà anche tutti i mezzi dell'organizzazione: parliamo di 120 auto e furgoni, da quelli della Giuria ai mezzi della pubblicità, per esempio. E anche tutte le moto di supporto, come quelle dei motociclisti e della scorta tecnica. Auto e moto che saranno ufficiali, della stessa marca con la quale abbiamo firmato il contratto di fornitura».

- Per quanto riguarda i team?

  «Porteranno le loro ammiraglie e i pullman, con i rispettivi sponsor. Non ci sembrava bello partire con auto noleggiate sul posto. Abbiamo invece lasciato discrezionalità per i mezzi di supporto, come il camion officina: in questo caso, lo possiamo fornire in Israele».

- Martedì primo maggio i corridori saranno a Gerusalemme.

  «Partiranno direttamente dalle loro sedi in aereo per Tel Aviv, perché è più comodo per tutti. Chiaramente questo aspetto sarà compensato nei costi riconosciuti alle squadre. Mentre per il ritorno, da Israele all'Italia, ci saranno due voli charter che lunedì 7 maggio porteranno i corridori, più un aereo cargo per le biciclette e il materiale tecnico».

- E i mezzi delle squadre?

  «Organizzeremo due navi-charter che partiranno da un porto ancora da stabilire, uno tra Venezia, Ancona o Ravenna. Sono quattro giorni di navigazione. Il personale delle squadre arriverà con i voli dei corridori in anticipo per organizzare tutto per tempo. Lo stesso per il ritorno. Ma in questo caso i team si organizzeranno con una seconda struttura logistica, ammiraglie e pullman, per accogliere i corridori: le due navi-charter arriveranno in Italia dopo che la corsa sarà già ripartita».

- Passiamo alla polizia.
  «In Israele, la responsabilità della scorta del Giro sarà della polizia israeliana. La nostra Stradale non ha facoltà per intervenire in uno stato estero. Gli israeliani sono già venuti al Giro e torneranno al Lombardia per definire gli ultimi dettagli. Problemi non ce ne saranno».

- La sicurezza. .
  «La Grande Partenza ha il sostegno totale del governo israeliano. L'avete visto alla presentazione: due ministri, turismo e sport, il sindaco di Gerusalemme, che è una figura di primissimo piano, e lo stesso premier Netanyahu che segue questo evento sin dal primo momento. Con la corsa rosa, Israele ha investito tantissimo sulla propria immagine e la sicurezza non è un problema che dobbiamo insegnar loro come si risolve. Lo conoscono molto bene: sulla sicurezza si giocano l'investimento di questa operazione. C'è sempre, all'esterno, questa idea di Israele come nazione pericolosa, ed è proprio questo il motivo per cui vogliono investire sul Giro. Per loro, il discorso sicurezza è implicito nell'organizzazione del Giro. E io aggiungo che in questo momento può essere molto più pericoloso partire da Bruxelles, per esempio».

- Le squadre arabe come Bahrain-Merida o Uae-Emirates?
  «Già da marzo avevo informato il Ccp (il Consiglio del professionismo dell'Uci, ndr) che si sarebbe potuti partire da Gerusalemme. Ci siamo risentiti il 7 settembre. Nessuno ha avuto da ridire, e da parte sua Israele è una nazione molto aperta. "Siamo aperti a tutti", hanno sempre detto».

- Nel 2018 i corridori nei grandi giri scenderanno da 9 a 8. Questo vuol dlre che verrà invitata una squadra in più?
  «Assolutamente no, anche perché attualmente il regolamento non lo prevede. Restiamo a 22 squadre con tetto massimo di 176 corridori: 18 WorldTour, se non ci saranno cambiamenti, e quattro wild-car»,

- Nel caso di eventi catastrofici che impedissero il via da Israele, come si regolerà il Giro?
  «Ho già un piano-B, tutto italiano, ma è davvero una soluzione da prendere in considerazione come ultimissima possibilità. E in ogni caso tenete presente che il nostro ministero degli Esteri segue passo passo la Grande Partenza. Ho la possibilità di inserire nel tracciato del Giro, diciamo tra il sud e il centro, risalendo l’Italia, un pacchetto di tre tappe per sostituire eventualmente le tre di Israele. Il programma originale prevede l'arrivo della carovana da Eilat alla Sicilia, e quindi il nuovo via verrebbe dato qui. Ma, ripeto, sono soluzioni davvero estreme alle quali non voglio proprio pensare».

(La Gazzetta dello Sport, 20 settembre 2017)


Vladimir Putin si congratula con gli ebrei russi per il Rosh Hashanah

 
MOSCA, 20 set 2017 - Vladimir Putin si è congratulato gli ebrei russi per il Rosh Hashanah.
"La celebrazione del nuovo anno ebraico è un evento importante nella vita della comunità ebraica, tributo al patrimonio storico e spirituale degli ebrei e alla loro cultura e costumi distintivi. Sono contento che incoraggiate i giovani a seguire queste tradizioni secolari. In questa festa i sostenitori dell'ebraismo analizzano i loro risultati, elaborano piani per il futuro e si rendono conto della loro speciale responsabilità per il benessere di coloro che hanno bisogno della loro assistenza e supporto.
Sono fiducioso che le organizzazioni ebraiche della Russia contribuiranno attivamente all'attuazione di iniziative educative e di sensibilizzazione tanto necessarie, sia agli atti di compassione e di carità, nonché promuoveranno la tolleranza religiosa e le buone relazioni tra persone di diverse fedi."

(Agenparl, 20 settembre 2017)


Hannah e Leni divise dalla Shoah

La corrispondenza fra la filosofa Arendt e la storica Yahil si interrompe bruscamente nel 1963, dopo gli articoli pubblicati dalla prima sul processo Eichmann e riuniti nel volume "La banalità del male". La simpatia che le unisce viene scalfita dalle dissonanze su totalitarismi e responsabilità individuali. Ora in italiano le lettere delle due intellettuali.

di Massimo Giuliani

Una piccola corrispondenza, solo quindici lettere, tra due grandi donne, da cui trapelano le drammatiche domande del XX secolo. Le amiche sono la filosofa Hannah Arendt e la storica Leni Yahil, due intellettuali ebree che si incontrano a Gerusalemme nella primavera del 1961, in occasione dell'inizio del processo Eichmann, il criminale nazista responsabile della deportazione e della morte di molte migliaia di ebrei. "Rapito" dai servizi segreti israeliani in Argentina, Eichmann viene trasferito in Israele e portato in tribunale alla presenza di molti testimoni sopravvissuti alla Shoah, in un processo voluto dal!' allora primo ministro David Ben Gurion anche a scopi "pedagogici": elaborare in ambito ebraico il trauma dell'esperienza nazista e forgiare un ethos diverso da quello esilico nelle nuove generazioni di ebrei israeliani. Tutto il mondo ne parlò. La posta in gioco era grande: chiudere o meglio affrontare un passato recente enormemente doloroso, e complesso dal punto di vista storico, e far comprendere come l'obbedienza cieca e irresponsabile non fosse più una virtù per nessuno.
  Tornata in America (la sentenza non è ancora stata emessa), Arendt riceve un piccolo regalo dalla sua nuova amica israeliana, una "mano della fortuna" con una lettera d'amicizia. È l'inizio di un dialogo epistolare dove però già emergono le spinose questioni sulle quali le idee delle due amiche divergono: la laicità di Israele e il rapporto con la tradizione, la separazione tra religione e stato, il senso del sionismo e del nazionalismo ebraico ... Grande simpatia sul piano umano ma progressive dissonanze sul piano ideologico, politico e persino culturale. La rottura tra le due si consuma tra il marzo e l'aprile del 1963, a processo concluso e sentenza (di morte) eseguita, quando i reportage della Arendt sul processo di Gerusalemme escono sul "NewYorker" e il mondo ebraico insorge contro i commenti e le obiezioni che la filosofa ebrea-tedesca-statunitense muove al processo stesso. Queste lettere, scritte originariamente in tedesco e inglese, e rimaste a lungo private, sono ora disponibili in italiano (Hannah Arendt, L'amicizia e la Shoah. Corrispondenza con Leni Yahil, introduzione di Ilaria Possenti, traduzione di Fabrizio lodice, Edb, pagine 112, euro 9,80) e fanno riflettere, perché anticipano i temi di un'altra dolorosa rottura amicale, quella tra la stessa Arendt e Gershom Scholem, in due lettere rese subito pubbliche, dove lo studioso di qabbalà accusa l'autrice di La banalità del male (che raccoglie quei reportage sul processo Eichmann) di aver espresso giudizi falsi e avventati (falsi appunto perché avventati), di non essersi messa a sufficienza nei panni degli ebrei perseguitati dal regime nazista e di mancare di quella solidarietà e sensibilità umana, «il tatto del cuore» dice Scholem, senza il quale i giudizi storici rischiano di mancare l'obiettivo.
  È interessante vedere in parallelo le reazioni di Yahil e di Scholem all'approccio della Arendt: la storica della Shoah le chiede brutalmente a chi pensa di servire con i suoi duri giudizi: alla verità storica? Oppure alla giustizia? Al popolo ebraico o al popolo tedesco? O vuole negare a Israele il diritto a una giustizia che non può conseguire altrove se non in un proprio stato? E Scholem, poche settimane dopo, le rinfaccia di mancare di amore per il popolo ebraico e di cadere in contraddizione con le riflessioni sul totalitarismo dei suoi libri precedenti. Già nelle risposte all'amica israeliana Arendt è chiara: si processano le persone, non le ideologie o gli stati; quello che le sta a cuore è capire e valutare le responsabilità dell'individuo e non i sistemi in quanto tali; e ciò anche a costo di smettere di parlare di «male radicale» e fermarsi invece a pensare il «male estremo», appunto più esteso che profondo. Da qui la tesi della «banalità del male», che per oltre cinquant'anni ha fatto discutere filosofi e sociologi, storici e scienziati politici. Questo carteggio illumina quella riflessione al suo stato nascente, e se poco aggiunge ai contenuti, molto aiuta a capire che il rigore intellettuale della Arendt, che non teme di andare controcorrente e ben coglie, e se non denuncia tuttavia evidenzia i punti più critici della nuova esperienza politica dello stato di Israele: il rapporto tra la laicità delle istituzioni e il retaggio religioso del popolo ebraico ovvero il conflitto tra modernità e tradizione, la separazione tra stato e sinagoga, il rischio che un legittimo patriottismo sconfini nell'estremismo tipico di ogni nazionalismo.
  Avevano ragione Scholem e Yahil a rimproverare alla loro amica di non capire il momento storico, unico e irripetibile, che stava vivendo la giovane nazione ebraica nata (anche) dalle ceneri della Shoah? O aveva ragione la Arendt nell'insistere che, nei sistemi totalitari, la linea tra vittime e persecutori resta confusa ... e che già quella generazione era in grado di esprimere giudizi storici ben precisi sugli eventi contemporanei? Forse, in questo avvio di dibattito mancò una categoria che sarebbe emersa lentamente tra gli studiosi, che anzi fu formulata in modo chiaro solo da un testimone-pensatore come Primo Levi, la categoria della «zona grigia». E anch'essa, all'inizio, fu fraintesa e avversata, come se volesse offuscare la linea di demarcazione tra vittime e carnefici, tra chi il male lo subisce e chi lo compie, e sollevare i nazisti dalle loro responsabilità. Ma in Levi era chiaro che l'esistenza innegabile della zona grigia nei sistemi totalitari non fa venir meno la «colpa dei carnefici», che in ultima istanza sono responsabili anche della corruzione morale delle loro vittime. La distinzione resta netta, anche nel grigiore delle condizioni storiche dei regimi di terrore. Su un punto, credo, Levi e Arendt avrebbero concordato: che le responsabilità penali restano comunque individuali, in tribunale si portano e si valutano le azioni degli individui e non i sistemi e le ideologie, dato che questi ultimi sono meglio vagliati, e se necessario condannati, dai tribunali della ricerca dei fatti, della valutazione etica e non ultimo del giudizio critico degli storici. Ecco perché, pur nelle divergenze e nelle obiezioni alle procedure del processo Eichmann, Hannah Arendt non dubitò mai che la sentenza fosse giusta, soprattutto se venne dettata non dal «cuore», dalle molte emozioni che il processo aveva suscitato, ma dai fatti, ossia dalle azioni (malvagie) compiute dal gerarca nazista. Del resto, anche Scholem approvò la sentenza anche se si era attivato, senza successo, per una sua sospensione. Così la Storia, termine che alla Arendt non piaceva perché ciò che conta sono solo le storie, si è frapposta tra amici, pur tutti ebrei e in un certo senso sopravvissuti alla Shoah. Si è frapposta e ha rotto quel sentimento, quell'empatia che, da Aristotele in poi, chiamiamo amicizia. È una dinamica che la storia del pensiero occidentale ben conosce: «amicus Plato, sed magis amica veritas» ossia Platone è un amico, ma ancor di più lo è la verità. Peccato (o fortuna) che, nei giudizi storici, spesso tale verità assume volti nuovi in epoche diverse.

(Avvenire, 20 settembre 2017)


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