Osserverete dunque tutte le mie leggi e le mie prescrizioni, e le metterete in pratica, affinché il paese dove io vi conduco per abitarvi non vi vomiti fuori. E non adotterete i costumi delle nazioni che io sto per cacciare d'innanzi a voi; esse hanno fatto tutte quelle cose, e perciò le ho avute in abominio.
Levitico 20:22-23

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Giudeofobia, islamofobia, omofobia

di Marcello Cicchese

Da un po' di tempo è invalsa l'abitudine giornalistica di usare il suffisso "fobia" fuori dal contesto puramente medico, soprattutto in riferimento a due chiassose presenze sociali che oggi reclamano pubblica attenzione: islam e omosessualità. Islamofobia, omofobia, da dove viene il successo giornalistico di queste due parole? Entrambe sono usate soprattutto da islamici e omosessuali in un atteggiamento di difesa-attacco: "Non osate parlare male di noi, altrimenti vi indichiamo come soggetti psicologicamente tarati, bisognosi di cure mediche e pericolosi per la salute pubblica", sembrano dire i sostenitori dei due movimenti. Un risultato indubbiamente lo ottengono: quello di intimidire chi "osa" mettere in discussione l'ideologia che li sostiene. Davanti a discorsi su islam e omosessualità si hanno infatti reazioni dello stesso tipo: da noi in Italia la grande maggioranza dei cittadini è quasi sicuramente contraria all'estensione sia dell'islamismo sia dell'omosessualità dichiarata, e soprattutto alla loro presa di possesso di strumenti legislativi, ma molti esitano a pronunciarsi in modo chiaro e pubblico per timore di essere irrisi oggi come islamofobi o omofobi, e domani forse denunciati. Si dice a qualcuno che è islamofobo non tanto per indicare che ha paura dell'islam, quanto per provocare in lui la paura di dire qualcosa contro l'islam. Insomma, se la paura prima non ce l'aveva, adesso gli deve venire. La stessa cosa avviene con l'omosessualità, ma con la differenza che mentre con l'islam qualche paura prima ci poteva effettivamente essere, per quel che riguarda l'omosessualità più che di paura sarebbe più appropriato parlare di disgusto.

 Giudeofobia
  C'è però anche un altro motivo a cui attribuire forse il successo di questo suffisso: l'affinità con un termine di suono simile, ma di storia più antica e di maggiore aderenza ai fatti, oltre che di un uso più onesto da parte di chi l'ha introdotto: "giudeofobia".
Sembra che il primo ad usare questo termine in senso traslato sia stato il medico ebreo di Odessa Leon Pinsker nel suo pamphlet "Autoemancipazione". In questo libro Pinsker caldeggia la riconquista di un'esistenza nazionale indipendente per gli ebrei, dando per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che era arrivato il momento di riaverla. La malattia della nazione ebraica - dice Pinsker - sta nel fatto che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, mentre non ha perso la sua parte "spirituale", cioè l'elemento vitale unitario che l'ha tenuta in vita per tanti secoli. Senza terra e senza sovranità la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell'impossibilità di disgregarsi e disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo ha continuato a mantenere nei secoli la sua unità "spirituale", nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
    «Questa apparizione spettrale, questa figura d'un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
    La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
    Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di 'demonopatia': ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
    La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile». (Leon Pinsker, Autoemancipazione).
Pinsker dunque usa il termine "giudeofobia" non come un'accusa da scagliare contro i non ebrei, ma piuttosto come una spiegazione parzialmente giustificativa di un loro comprensibile timore davanti all'apparizione di uno spettro appartenente a una nazione che non ha più corpo. Per togliere questa paura, la cosa migliore sarebbe stata dare a questo spettro un corpo, cioè una terra e una sovranità per la nazione ebraica.
La terra è stata ottenuta, e la sovranità anche, sia pure tra infinite difficoltà, ma la pace per gli ebrei non è arrivata. L'evanescente paura degli spettri si è trasformata molto presto in un concretissimo odio per gli uomini in carne e ossa.
Dunque il termine "giudeofobia", almeno nel senso usato da Pinsker, oggi non è più appropriato ad esprimere l'odio antiebraico che ha preso la "forma nobile" di un antisionismo di facciata.

 Islamofobia
  Quanto all'islamofobia, ebbene sì: la paura potrebbe essere più che giustificata, perché l'islam non è uno spettro che turba i sonni nella notte, ma un'ideologia molto concreta che ha come programma di sottomettere tutti i cittadini del mondo, con le buone o con le cattive. E i fatti che continuano ad avvenire nel mondo fanno vedere che ci sono islamici davvero desiderosi di essere fedeli all'islam; fedeli al punto da sentire l'obbligo di sgozzare, se necessario, chi non vuole sottomettersi. Perché non dovrebbe esserci negli altri una comprensibile paura? Non spetta dunque agli islamici gridare all'islamofobo, perché l'esistenza dell'islamofobia dovrebbe essere un problema loro, non degli altri. Se fanno bene i non islamici a dirsi: "Non facciamoci dominare dalla paura", sono però gli islamici che dovrebbero chiedersi: "Ma perché noi facciamo paura?" Pinsker esortava i suoi fratelli ebrei a lavorare per la formazione di una nazione ebraica al fine di guarire gli altri dalla loro "giudeofobia", sperando così di avere pace con loro e anche per loro. Non sembra essere questa la preoccupazione principale degli islamici.

 Omofobia
  Quanto all'omofobia, è un neologismo introdotto in modo puramente strumentale per ingiuriare e intimorire chi non manifesta consenso all'ideologia omofiliaca nelle sue varie forme: omosessualità, bisessualità, transgender e altro. La paura qui non c'entra niente. Il rifiuto di questo modo di pensare, vivere e fare pressioni sulla società ha diversi motivi che possono essere non condivisi, ma che sono comunque tutti validi. Il motivo può essere:
  • Emotivo - Senso di repulsione davanti a sfacciate e "fiere" esposizioni in pubblico di effusioni omosessuali.
  • Politico - Convinzione che l'accettazione legalmente riconosciuta dell'omosessualità sia un elemento di grave disgregazione della società, il che implica che tutti devono avere il diritto di esprimere la propria netta opposizione senza ricevere epiteti ingiuriosi e intimidatori.
  • Religioso - Fede in un Dio che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza ("li creò maschio e femmina", Genesi 1:27), e conseguente convinzione che rapporti come quelli propugnati dal movimento omofilo sono in aperta ribellione a Dio, e che ad essi dunque è doveroso opporre decisa resistenza, non con la lapidazione o il pugnale come fanno gli islamici, ma con una parola ferma e chiara, oltre che con l'esempio.
Quest'ultimo punto pone un collegamento con il sostegno ad Israele che si vuol dare in questo sito. Purtroppo lo Stato ebraico si è spinto così avanti nell'approvazione e nella pratica di depravati costumi sessuali occidentali da arrivare al punto di vantarsi del primato raggiunto nella loro omologazione giuridica. E' un fatto grave, un'emblematica scelta di indipendenza da quel Dio da cui in ultima analisi proviene il suo fondamentale diritto a vivere e governare su quella terra. Questo diritto non gli sarà tolto, ma è certo che di questo e di altro ancora dovrà un giorno rendere conto al Signore.
E dovranno renderne conto anche tutti coloro che proprio su questo punto lodano e appoggiano Israele.

(Notizie su Israele, 24 luglio 2016)



Un capolavoro del diavolo
Essere riuscito a fare in modo
che il mondo considerasse Tel Aviv
come capitale degli omosessuali
e nello stesso tempo scegliesse Tel Aviv
come capitale d'Israele al posto di Gerusalemme
è un capolavoro del diavolo.

 


Il presidente cipriota Anastasiades domani in Israele

Focus su sfruttamento di risorse in zona economica esclusiva

NICOSIA, 23 lug - Gli ultimi sviluppi nel settore energetico, in particolare per quanto riguarda il terzo round di concessioni per lo sfruttamento delle risorse nella Zona economica esclusiva (Zee) di Cipro. E' questo il tema principale al centro della visita del presidente cipriota Nicos Anastasiades in Israele, in programma domani. Ad accompagnare il presidente anche il ministro dell'Energia Yiorgos Lakkotrypis, che ha confermato davanti ai giornalisti a Larnaca che lo scopo della visita è quello di discutere degli ultimi sviluppi nel settore energetico alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte per i nuovi blocchi nelle acque cipriote. Dall'altra parte il ministro dell'Energia cipriota ha evidenziato che un gasdotto per le acque territoriali di Cipro non è un progetto realizzabile senza arrivare prima ad una risoluzione della questione della divisione di Cipro.

(Agenzia Nova, 23 luglio 2016)


Israele, un generale saudita in visita per rilanciare il processo di pace

Un altro segno della collaborazione fra i due Paesi, ufficialmente ancora senza relazioni diplomatiche.

di Giordano Stabile

Il generale saudita Anwar Eshki
BEIRUT - Un generale saudita in pensione, ma ancora molto influente, ha visitato Israele, nonostante fra i due Paesi non ci siano ancora relazioni diplomatiche, in una missione volta a rilanciare il piano di pace di Riad del 2002 per un accordo fra lo Stato ebraico e i palestinesi.

 L'incontro con Dore Gold
  La visita del generale Anwar Eshki si è svolta la scorsa settimana, con incontri con il direttore generale del ministero degli Esteri Dore Gold e il coordinatore delle attività nei Territori palestinesi, generale Yoav Mordechai. Eshki, che ora dirige un think tank a Riad, guidava una delegazione di accademici e imprenditori sauditi. Ha incontrato anche parlamentari della Knesset per incoraggiare il dialogo in Israele sulla Iniziativa araba di pace, come è stato ribattezzato il piano saudita.
Eshki ha avuto incarichi di massimo livello nello Stato maggiore saudita e al ministero degli Esteri. Anche se la sua posizione ufficiale nel governo di Riad non è chiara, i suoi rapporti con la casa regnante sono molto stretti. La visita non era ufficiale ma è stata di sicuro autorizzata dal governo di Riad.

 Incontri accademici
  Eshki e Gold si erano già incontrati pubblicamente nel giugno 2015 in un centro di ricerche di Washington e svariate altre volte in occasioni di convegni accademici sulle guerre arabo-israeliane. In seguito Gold aveva assunto l'incarico di direttore generale del ministero degli Esteri.
Il generale Eshki e la sua delegazione hanno anche incontrato il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen e altri ministri del governo di Ramallah. Gli incontri con i rappresentanti israeliani non si sono tenuti in uffici governativi ma all'hotel King David di Gerusalemme.

 Mediazione assieme all'Egitto
  Il generale ha anche incontrato delegati dell'opposizione alla Knesset, come Michal Rozin del partito Meretz e Ksenia Svetlova e Omer Bar-Lev dell'Unione sionista. Un altro incontro è stato con il presidente di Yesh Atid Yair Lapid. Tutti gli incontri, come hanno rivelato alcuni parlamentari al quotidiano "Haaretz", avevano come obiettivo il rilancio dei colloqui di pace, fermi da due anni. L'Arabia saudita ha assunto un ruolo di mediatore negli ultimi mesi in tandem con l'Egitto e ha anche cercato di organizzare un incontro fra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e Abu Mazen al Cairo.

 Regno dell'odio
  Il generale Eshki, nell'incontro con i parlamentari, ha anche raccontato dei suoi rapporti con Gold, che dieci anni fa aveva scritto un libro anti-sauditi, intitolato "Il regno dell'odio". Gold si è scusato per le sua accuse contro i sauditi e ha ammesso di aver scritto cose sbagliate. Il suo obiettivo ora è "rafforzare le relazioni fra i due Paesi".

(La Stampa, 23 luglio 2016)


Hijab e sneakers: il girl power delle A-Wa

di Giorgia Furlan

 
Si scrive A-Wa, si pronuncia Ay-Wa e in slang arabo significa "sì". Ma soprattutto A-Wa è il nome del trio composto da tre sorelle ebree yemenite, Tair, Liron e Tagel Haim (rispettivamente 32, 30 e 26 anni), che con i loro ritmi arab folk e hip hop riempiono i club di Tel Aviv e fanno ballare migliaia di ragazzi nei vari festival del globo. Hijab e djellaba ricamati da vere regine del deserto, tute hip-hop con motivi optical e sneakers, si presentano così le A-Wa ai loro concerti. E ad ascoltarle ci sono folle altrettanto composite per stili, gusti estetici e provenienze. Hipster, famiglie con bambini, giovani, vecchi, polacchi, francesi, israeliani, marocchini, non ha molto importanza chi tu sia e da dove tu venga. L'unica cosa che conta è che ti piaccia la musica.
  E il métissage che carattarizza le A-Wa ha conquistato anche i media internazionali. Magazine e quotidiani francesi come Le Monde hanno già pubblicato recensioni entusiastiche del primo singolo "Habib Galbi" (quasi 4milioni di visualizzazioni su YouTube), mentre, dall'altra parte dell'Oceano, Rolling Stones Usa le ha indicate fra i dieci artisti da conoscere e tenere d'occhio. Un ottimo risultato per essere solo il primo album. 12 tracce - oltre ad "Habib Galbi" che dà il nome all'intero disco e a due remix di P.A.F.F e Kore - che Tair, Liron e Tagel hanno recuperato dai canti della tradizione yemenita e contaminato con sonorità elettroniche, dance e ritmi hip hop. Un viaggio sonoro e culturale che presto farà tappa anche in Italia, all'Ariano Folkfestival, dove le A-Wa si esibiranno il 19 agosto nell'unica data italiana del loro tour europeo estivo realizzata in collaborazione con FramEvolution - World Music Management.
  Che Tair, Liron e Tagel siano israeliane di origini yemenite e cantino in un dialetto arabo, è molto più di una scelta artistica. La loro identità è il frutto 50 anni di cambiamenti storici. Tra il 1949 e il 1950, infatti, dopo la nascita di Israele, ci fu una massiccia immigrazione di ebrei dai Paesi arabi. Più di 200mila persone provenienti dal Marocco, dall'Algeria, dalla Tunisia, dalla Libia, dall'Egitto, dal Libano, dall'Iraq, dalla Siria e dallo Yemen lasciarono le loro case per trasferirsi nel nuovo Stato. Di queste circa 50mila erano ebrei yemeniti arrivati in Palestina per via aerea grazie a un'operazione denominata Tappeto Volante. I loro antenati avevano vissuto nelle lande meridionali della penisola arabica per circa duemila anni, e molti di loro, provenendo da comunità poverissime, prima di quel momento non avevano mai visto un aeroplano.
- Dallo Yemen a Tel Aviv. Ci raccontate qualcosa di voi e della vostra famiglia?
  Tutto inizia nel 1949 quando i nostri nonni emigrarono dallo Yemen e si trasferirono in Israele. Per la precisione a Gedera, una città nella zona centrale del nuovo Stato. Ebbero dieci figli, uno dei quali era nostro padre. Noi invece siamo cresciute in un piccolo villaggio della Valle di Arava chiamato Shaharut, nel sud di Israele, non troppo lontano dal confine egiziano. Shaharut è un posto bellissimo, magico, vivevamo circondate da animali, cavalli, cammelli, polli, anatre. La nostra infanzia nel deserto è stata meravigliosa…

(Left.it, 23 luglio 2016)


Sulle purghe islamiste, i nostri baroni restano silenti
     Articolo OTTIMO!


Ipocriti professori occidentali: boicottano Israele e tacciono sulla purga accademica in Turchia.

di Giulio Meotti

ROMA - 59.628 professori cui è stata ritirata la licenza di insegnamento. 1.577 rettori universitari costretti alle dimissioni. Un clima di persecuzione, delazione e sospetto nelle aule universitarie, nelle scuole, al ministero dell'Istruzione. E' la grande purga accademica che il presidente turco Recep Erdogan ha lanciato dopo il fallito golpe. Numeri, scrive Newsweek, che ricordano le purghe accademiche in Urss. Alla luce di questa aggressione alla libertà intellettuale in Turchia, uno si aspetterebbe che le legioni accademiche occidentali siano in fermento per dimostrare solidarietà ai colleghi turchi assediati. Eppure, campioni della libertà che hanno abbracciato il "Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni" contro Israele, come l'American Anthropological Association o l'American Studies Association, non trovano il tempo di lanciare campagne contro la purga turca, indegna anche di un sopracciglio di sussiego. In Inghilterra, la National Association of Teachers in Further and Higher Education e la Association of University Teachers, che hanno adottato il boicottaggio di Israele, non hanno parlato di Turchia. Stesso silenzio dalla US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel, cui hanno aderito cinquecento professori americani. Silenti i trecento accademici italiani che hanno promosso il boicottaggio israeliano.
  Tutta l'ira va riservata all'unica democrazia del medio oriente, quell'Israele dove la libertà accademica vale anche per i più acerrimi critici dello stato ebraico. "Ehi, professori amanti del Bds, perché siete così quieti sull'assalto accademico in Turchia?", si domandava ieri la rivista americana Tablet. Una doppia morale emersa già dalle parole di Curtis Marez, il presidente della American Studies Association. Quando gli è stato chiesto il motivo per cui la sua organizzazione stesse attaccando soltanto Israele e non, per esempio, la Cina o l'Arabia Saudita o la Turchia, Marez aveva risposto: "Uno deve cominciare da qualche parte". Il docente ha iniziato sì da qualche parte (Israele), ma si è fermato lì. Il presidente della American Studies Association aveva detto anche che il boicottaggio di Israele "è il modo migliore per proteggere ed espandere la libertà accademica e l'accesso all'istruzione". Questo non vale per i 59.628 insegnanti turchi.
  Gli amici del boicottaggio avrebbero la possibilità di dimostrare che non sono gli utili idioti del rifiuto arabo-islamico. Avrebbero l'occasione per dire no all'occupazione turca di Cipro e alla discriminazione turca contro i curdi che, a differenza dei palestinesi, non hanno autonomia, governo, parlamento, tribunali, polizia, scuole. Avrebbero l'occasione di rifiutare di consumare le delizie della cucina turca: la causa lo richiede. La loro campagna potrebbe penalizzare i poveri turchi, come ha fatto il Bdscon i palestinesi. Ma questo è un piccolo prezzo da pagare.
  Oltre all'odio unidirezionale nei confronti di Israele, un'altra possibile spiegazione sulla mancata solidarietà accademica ai colleghi turchi può essere il coinvolgimento della Turchia nel boicottaggio di Gerusalemme. Sono ben 111 le università in Turchia che si sono allineate con il boicottaggio di Israele su ordine stesso di Erdogan e 87 rettori turchi hanno interrotto le relazioni con i colleghi israeliani. Un barone accademico di Londra o New York potrebbe mai andare contro il proprio protettore? Sarebbe chiedere troppo per la loro ipocrisia. Come quella sfoggiata dall'Unione europea che, stando a un rapporto rivelato dalla Stampa, in un documento secretato addossa a Israele la colpa della Terza Intifada. D'altronde, uno deve iniziare "da qualche parte". E da dove se non dagli ebrei?

(Il Foglio, 23 luglio 2016)


«I grillini deformano la realtà di quel che avviene a Gaza per pregiudizio e ignoranza»

L'ambasciatore israeliano Gilon: rigurgiti antisemiti. "D'Alema ossessionato da noi, Renzi è un grande amico"

di Francesca Schianchi

Il MSS al governo riconoscerebbe subito la Palestina? Siamo in disac- cordo: prima servono negoziati È già capitato che chi era molto critico con noi all'opposizione, al governo abbia cambiato idea

 
ROMA - «Italia e Israele condividono il Mediterraneo, che non è solo un mare ma anche una cultura. Ho lavorato qui con tre governi, con tutti abbiamo avuto ottimi rapporti». Arrivato a fine mandato, alla vigilia della sua partenza da Roma, l'ambasciatore israeliano Naor Gilon fa un bilancio dei suoi quattro anni nel nostro Paese.

- Qua e là in Europa si assiste ancora oggi a rigurgiti di antisemitismo. In Italia che situazione ha trovato?
  
«Nonostante tutti i governi si siano sempre espressi in modo forte e chiaro contro l'antisemitismo, qualche elemento ancora c'è anche in Italia: come ha detto l'ex presidente Napolitano, si tratta di un tipo nuovo, che si definisce anti-sionismo, contrario alla politica di Israele, ma in realtà è spesso basato sull'antisemitismo».

- A cosa pensa?
  
«Ad esempio c'è un giornale italiano, Il Fatto quotidiano, che propone spesso teorie della cospirazione e usa i rapporti con Israele come elemento per attaccare i politici, come se Israele fosse il male assoluto e il Mossad ancora di più. Ci sono anche politici italiani che parlano la stessa lingua».

- Chi?
  
«E' chiaro a tutti chi considera l'unica democrazia del Medio Oriente come il male assoluto, usandola a fini di politica interna».

- Lei ha avuto polemiche con Massimo D'Alema.
  
«Per me chi rappresenta il Pd è il suo segretario, Matteo Renzi, che è un grande amico di Israele».

- Ma qual è il problema con D'Alema? E' troppo critico con Israele?
  
«Deve chiedere a D'Alema della sua ossessione per Israele».

- Che rapporti ha avuto in questi anni con le forze politiche italiane?
  
«Ottimi, con tutti i partiti. Abbiamo appena inaugurato l'Associazione di amicizia interparlamentare Italia-Israele, a cui hanno già aderito circa 150 onorevoli. Di tutti i partiti tranne uno».

- Quale?
  
«Il Movimento Cinque Stelle».

- Ha conosciuto qualcuno dei suoi esponenti?
  
«Il mio staff ha incontrato Di Maio, e io alcuni parlamentari della Commissione Esteri come Di Stefano e Di Battista».

- Come li ha trovati rispetto a Israele?
  
«Ho avuto l'impressione che in parte siano animati da pregiudizi, e in parte ci sia un'ignoranza della realtà. Da lì è nata l'idea di una visita a Israele».

- Una delegazione M5S ha fatto questa visita la settimana scorsa: ma si sono lamentati perché non li avete lasciati entrare a Gaza.
  
«Non dovevano sorprendersi: già qualche giorno prima li avevamo avvertiti via mail. Hanno avuto molti incontri, seri e importanti: mi dispiace che abbiano scelto di fare uscire sulla stampa italiana la parte negativa più di quella del dialogo».

- Non avete dato il permesso perché, avete spiegato, Gaza è controllata da Hamas, «organizzazione terroristica ostile a Israele». Di Stefano sottolinea però che Hamas ha vinto libere elezioni.
  «Sì, ma meno di due anni dopo ha preso il controllo della zona con la violenza contro il governo legittimo di Abu Mazen. Mi ha sorpreso per esempio anche che chiedano di ritirarci dal Golan».

- Perché? Anche la Ue non riconosce le alture del Golan come israeliane ...
  
«Nella parte siriana del Golan c'è Isis che ammazza i dissidenti e quelli che si oppongono. Vogliamo rischiare che i terroristi controllino anche la parte del Golan israeliano?».

- Di Maio ha annunciato che, se vincerà il M5S, riconosceranno la Palestina. Sarebbe un problema per voi?
  
«Tutti i governi israeliani dagli accordi di Oslo in poi hanno accettato il principio di due popoli e due Stati. Ma ci si può arrivare solo attraverso negoziati diretti tra Israele e l'Autorità palestinese: se creiamo un Paese debole, rischia di diventare un covo di Daesh. Creare un altro Paese instabile sarebbe un problema per il mondo intero, e per Israele un vero suicidio».

- L'M5S dice riconoscimento senza condizioni. Siete in pieno disaccordo?
  
«Sicuramente sì. Il riconoscimento deve avvenire dopo un processo e dopo che i palestinesi hanno mostrato la loro capacità di controllare il Paese».

- La preoccupa che l'M5S possa andare al governo?
  
«No, noi lavoriamo con tutti tranne con gli antisemiti. E abbiamo esempi in altri Paesi di persone molto critiche con Israele all'opposizione, che al governo hanno cambiato idea, come Syriza in Grecia. Come recita un detto israeliano, le cose che si vedono da una posizione, si vedono diversamente da un'altra».

(La Stampa, 23 luglio 2016)


Hamas apre i suoi tunnel al turismo in Palestina

Quelli del gruppo palestinese sono tra i più avanzati. E ora sono visitabili dal pubblico.

Tunnel e gallerie sotterranee sono sempre state una costante di ogni conflitto. Come abbiamo ricordato in un nostro servizio, la loro importanza in alcuni dei più caldi teatri della regione del Mediterraneo non è da sottovalutare, ma è da inquadrare in un più ampio mutamento del fenomeno bellico che assegna ormai un ampio peso al campo di battaglia urbano. L''impiego dei tunnel nei teatri bellici può avere uno scopo dichiaratamente offensivo, ma i tunnel possono avere anche una grande funzione difensiva e logistica.
Uno dei gruppi che più si è distinto nell'uso di queste cavità è sicuramente Hamas, i cui tunnel sono strutturalmente molto più avanzati e constano di ampi spazi, lavori di muratura e simili che richiedono soldi, lavoro e conoscenze specifiche. E oggi in Palestina è anche possibile visitarli. Infatti il ramo militare di Hamas, Iz ad-Din al-Qassam, ha aperto una mostra nel quartiere Shuja'iyya di Gaza per celebrare l'anniversario dei due anni dall'ultimo conflitto armato con Israele. Come parte della mostra, Hamas ha aperto una delle sue gallerie per il turismo. Un qualcosa di inusuale ma che ha attirato centinaia di palestinesi e non solo.

(L’Indro, 22 luglio 2016)


Le frange del talled e il concerto dei Klezroym: Sorgente di Vita, 24 luglio Rai2

"Una piccola azienda veneta, una delle tante eccellenze del made in Italy, ricava dai bozzoli di seta, le frange del 'talled', il manto rituale ebraico. Si apre così la puntata di 'Sorgente di Vita', in onda domenica 24 luglio su Rai2", diffonde in una nota la tv di Stato.

"Una piccola azienda veneta, una delle tante eccellenze del Made in Italy, ricava dai bozzoli di seta, le frange del 'talled', il manto rituale ebraico. La filanda collabora con il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, e rinnova l'antica tradizione italiana della filatura della seta, per uso religioso ebraico" viene scritto in un comunicato dalla tv di Stato.
"Si apre così la puntata di 'Sorgente di Vita', in onda domenica 24 luglio alle 24.50 su Rai2. Si cercherà poi di scoprire cosa si nasconde dietro la storia del dirottamento del volo Tel Aviv- Parigi verso l'aeroporto di Entebbe in Uganda: nel 1976 un gruppo di terroristi del Fronte Popolare della Liberazione della Palestina, prese in ostaggio i passeggeri del volo" si prosegue.
"Doron Almog, paracadutista del reparto speciale dell'aviazione israeliana, racconta come riuscì a liberare gli ostaggi grazie a una straordinaria operazione di salvataggio. Infine il gruppo dei Klezroym, storica band romana, in concerto a Firenze nei giardini della sinagoga, che eseguono delle canzoni in ladino, tramandate dagli ebrei provenienti dalla Spagna, fino alla musica klezmer, tipica dei villaggi dell'Europa dell'est" specifica infine la Rai.

(Mainfatti, 22 luglio 2016)


«Come ebrei difendiamo la libertà di culto, ma per gli ignoranti non c'è spazio»

Dopo le parole dell'esponente del Caim

 
                                               Milo Hasbani                                                                                          Hamza Roberto Piccardo
MILANO - "Quelle parole denotano l'ignoranza di chi le ha scritte". Così Milo Hasbani, presidente assieme a Raffaele Besso della Comunità ebraica di Milano, sulle dichiarazioni dell'esponente del Caim Hamza Roberto Piccardo. Quest'ultimo nelle scorse ore ha pubblicato sui social network un post in cui inneggiava alle recenti azioni del presidente turco Recep Erdogan, protagonista di una feroce campagna di epurazioni interna (oltre 60mila persone incarcerate o allontanate - dai giudici agli insegnanti) dopo il fallito golpe della scorsa settimana. Per Piccardo "il partito AKP [il partito di Erdogan, ndr] che ha tra il 48 e il 52% dei consensi (insieme agli altri partiti) ha sconfitto un tumore interno al Paese e allo Stato. Un tumore originato da una sudditanza imperialista e sionista che aveva prodotto le sue metastasi nei corpi separati dello Stato".
  "Non mi pronuncio nello specifico sulla situazione turca ma queste esternazioni dimostrano già di per sé l'ignoranza di chi le ha scritte", afferma Hasbani, la cui moglie ha una parte della famiglia in Turchia. "Sono molto preoccupati di quanto sta accadendo. La Comunità ebraica lì è molto integrata e la virata verso il radicalismo islamico dei vertici li spaventa". "La loro vita in ogni caso è lì. Per loro andare via dalla Turchia è impensabile", continua il presidente che poi torna sulla questione Piccardo. Il figlio (che ha esternato posizioni simili al padre, in favore della repressione di Erdogan) infatti è alla guida del Caim, a cui l'amministrazione di Milano in passato - prima che l'iter fosse bloccato - aveva pensato di affidare la costruzione della moschea cittadina. "Come abbiamo già ribadito sia io sia Besso - sottolinea Hasbani - noi siamo non solo favorevoli ma difendiamo la libertà di culto. Non siamo contrari a una moschea ma deve essere chiaro che gli interlocutori dell'amministrazione non possono essere persone che incitano all'odio".
  Un'eventuale riassegnazione della costruzione della moschea da parte della nuova giunta milanese guidata da Giuseppe Sala al Caim, viste le posizioni dei suoi esponenti più di spicco, sarebbe un segnale preoccupante per la Comunità ebraica. Il presidente della Keillah milanese sottolinea poi la mancanza di ogni fondamento rispetto alle deliranti affermazioni complottiste di Piccardo che parla di "sudditanza sionista" da parte di corpi dello Stato turco (quelli che hanno compiuto il golpe). "Israele recentemente, con molta fatica e prima di quanto accaduto la scorsa settimana, ha lavorato per cercare di ristabilire dei rapporti diplomatici con Ankara". Gerusalemme ha infatti siglato a metà giugno con i turchi un accordo che pone fine un lungo periodo di crisi diplomatica tra i due paesi, iniziata con la vicenda della Mavi Marmara. L'auspicio di molti era che questa intesa potesse essere il segno di un'apertura del governo Erdogan, ma i fatti della scorsa settimana dimostrano il contrario. ""Per me questo spregio della libertà di pensiero e di vita per migliaia di turchi è inaccettabile e lo condanno senza sconti. Non approvo un golpe, ma chi approva quello che succede in Turchia sta dalla parte della violenza e della dittatura", ha sottolineato Emanuele Fiano, deputato Pd e già presidente della Comunità ebraica di Milano. d.r.

(moked, 22 luglio 2016)


Sicurezza negli aeroporti: perché adottare il sistema israeliano?

di Gabriele Mirabella

La drammatica strage avvenuta a Nizza nel giorno della festa nazionale francese ancora una volta ha fatto piombare l'Europa nell'incubo del terrorismo di matrice jihadista. L'umanità ha assistito in modo inerme e silenzioso alle angoscianti immagini di sangue e di dolore provenienti dalla Costa Azzurra, teatro dell'ennesimo attentato alla libertà, agli usi e ai costumi tipicamente occidentali compiuto dal Daesh, il quale si è servito delle cosiddette cellule "dormienti" per paralizzare nuovamente il Vecchio Continente. Quanto è accaduto fa tornare inevitabilmente d'attualità il tema della sicurezza in rapporto a luoghi particolarmente affollati ed esposti a potenziali attacchi terroristici.
   Tenere sotto controllo le stazioni aeroportuali in maniera quanto più scrupolosa è il miglior biglietto da visita che uno Stato possa offrire agli occhi del mondo intero. Lo sanno bene in Israele dove, nel corso degli anni, è stato messo a punto un efficiente sistema di sicurezza, già tenuto d'occhio dall'Europa all'indomani della strage di Zaventem del 22 marzo scorso. Tuttavia, il modello israeliano deve essere inquadrato necessariamente in relazione alla particolare posizione dello Stato di Israele dal punto di vista geopolitico, da sempre stretto nella morsa dei Paesi arabi confinanti.
   L'efficacia di questo sistema risiede principalmente nell'abilità di un personale di sicurezza altamente qualificato più che nell'utilizzo accentuato dei body scanner o di qualche altro macchinario all'avanguardia. Poco importa se i passeggeri sono costretti ad attendere tre ore prima di imbarcarsi, passando attraverso ben cinque livelli di sicurezza, se ciò significa assicurare l'incolumità fisica di fronte alla minaccia globale del terrorismo. In attesa di passare dalle parole ai fatti, in questo momento le forze di sicurezza stanno riflettendo soprattutto sull'effettiva applicabilità del sistema adottato a Ben Gurion rispetto al contesto sociale in cui viviamo.

(Voci di Città, 22 luglio 2016)


Marzio Deho e Pietro Sarai parteciperanno alla Epic Israel

Epic Israel 2015
Il Team Olympia-Polimedical conferma la presenza alla quarta edizione della gara Uci: 'Epic Israel'. A scendere in campo il giovanissimo Pietro Sarai e l'irriducibile icona dell'MTB Marzio Deho, due atleti che porteranno alti i colori del Team.
La manifestazione si svolgerà a coppie dal 29 settembre al 1 ottobre 2016 a nord di Israele, nella zona dell'Alta Galiliea. Sarà una sfida caratterizzata da un percorso suddiviso in 3 tappe per un totale di circa 300km e 6000mt di dislivello, contraddistinto da un susseguirsi di laghi, colline, aspre montagne e single track.
La 'Epic Israel' è una gara nata in memoria di Giora Tsachor, la prima di questo tipo nata in Israele. Per il Team Olympia-Polimedical sarà una sfida importante nella quale i due campioni nero - verde fluo scenderanno in campo con tutta la grinta e l'energia necessaria per portare a casa il miglior risultato dando il meglio di sÈ.
?E' la prima esperienza di Sarai in una gara a tappe di livello come la Israel Epic, Pietro sarà a fianco di una colonna portante come Marzio Deho che sicuramente saprà guidarlo e dargli consigli corretti. Pietro e Marzio sono grandi atleti e sono certa che ci daranno delle grandi soddisfazioni anche in questa occasione assieme alle super Olympia IRON? ? ha dichiarato Loredana Manzoni, Presidente del Team Olympia-Polimedical.

(Solobike.it, 22 luglio 2016)


Il rabbino messianico moldavo Shimon Pozdirca di Chisinau in visita ad EDIPI

Padova 26 luglio 2016, ore 20:30

Il rabbino ebreo-messianico Shimon Pozdirca della congregazione moldava di Chisinau farà visita a EDIPI nella sede di Padova. Il presidente di Evangelici d'Italia per Israele, Past. Ivan Basana, ha previsto un incontro speciale per martedì 26 luglio nella sede della congregazione "The new Thing" di Nuova Pentecoste a Padova alle 20:30. Sarà un'occasione preziosa per aver notizie di prima mano sulla situazione degli ebrei messianici e non in Moldova, considerando che la congregazione di Chisinau è la più antica ed inoltre quella fondata ancora alla fine dell'800 da Joseph Rabinowitz, a buon diritto definito il Theodor Herzl del movimento messianico.
Oltre alle notizie e alle testimonianze, all'ordine del giorno ci sarà anche la discussione sul progetto editoriale della straordinaria biografia di Rabinowitz che EDIPI ha l'intenzione di pubblicare per il prossimo anno.

(Comunicazione EDIPI, 22 luglio 2016)


I devastanti effetti globali della rinuncia a denunciare il male

Il trattamento riservato a Israele dimostra da anni una discesa nel relativismo amorale

Una generazione fa la parola "male" aveva un significato. Non c'erano cuori teneri - certamente non ce n'erano fra gli ebrei - che minimizzavano il più possibile la malvagità dei nazisti. Il male era il male.
Oggi, con il relativismo morale imperante, il mondo ha di fatto abbandonato il concetto di male, sostituendolo con una "sofisticata" correttezza politica nella quale gli aggressori e le vittime sono spesso considerati eticamente equivalenti. Così, ad esempio, chi denuncia il terrorismo islamico viene accusato di islamofobia.
Naturalmente c'è uno "shock" di fronte alle stragi e alle decapitazioni ad opera di fondamentalisti islamisti, ma ci viene detto che è fuorviante descrivere questi comportamenti come "malvagi" perché questo distoglie l'attenzione dalla vera causa, che naturalmente sta nello sfruttamento coloniale, nell'imperialismo occidentale eccetera. E più e più volte sentiamo ripetere il mantra che è la sofferenza economica e sociale quella che causa la disperazione e fornisce l'incentivo per il reclutamento jihadista. E poco importa se in realtà la maggior parte dei terroristi dell'ISIS che colpiscono nelle città occidentali, come già quelli di al-Qaeda di dieci-quindici anni fa, sono persone provenienti da famiglie della classe media e che hanno potuto studiare....

(israele.net, 22 luglio 2016)


Meno liberté. Parigi copia Israele

Prorogato di sei mesi lo stato di emergenza. Anche la Ue chiede aiuto ai tecnici dello Stato ebraico.

di Fausto Carioti

 
I fatti hanno la testa dura e alla lunga prevalgono sulle opinioni che negano l'evidenza. Così, dopo qualche centinaio di morti, l'idea che il terrorismo abbia reso le nostre vite a rischio come quelle degli israeliani, e che dunque dovremmo modellare il nostro stile di vita sul loro, comincia a farsi strada tra le ingenuità e l'arteriosclerosi del vecchio continente. Meno privacy e meno attenzione alle libertà civili in cambio di maggiori possibilità di sopravvivenza non è più considerato un baratto scandaloso.
   L'Italia si concede ancora il lusso di guardare cosa fanno gli altri, ma la Francia non può permetterselo. Tra le proteste delle associazioni per i diritti civili, a Parigi ieri il parlamento ha approvato l'estensione dello stato d'emergenza sino al 2017: altri sei mesi, poi si vedrà. Doveva essere un provvedimento estremo ed eccezionale adottato per soli tre mesi dopo gli attentati di novembre. A febbraio era stato rinnovato per novanta giorni e al termine di questi per altri due mesi, con l'ottimo pretesto dei campionati europei di calcio. La fine era prevista tra pochi giorni, il 26 luglio, stavolta sul serio. Il presidente
   Francois Hollande ne aveva fatto una questione di orgoglio nazionale: «Non possiamo estendere indefinitamente lo stato di emergenza. Vorrebbe dire che non siamo più una Repubblica che applica lo stato di diritto» aveva detto durante il suo intervento nell'anniversario della presa della Bastiglia. Poche ore dopo, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, islamico tunisino con passaporto francese, irrompeva col suo camion sul lungomare di Nizza uccidendo 84 persone e spiegando a una Francia e a un'Europa riluttanti a capirlo che il nostro mondo è cambiato e che i barbari non sono alle porte, ma li abbiamo già dentro casa. Come a Gerusalemme e a Tel Aviv.
   Così liberté, égalité e fraternité sono state messe ufficialmente da parte. I valori fondanti della République sono diventati un optional, in questa fase conta solo l'essenziale e l'essenziale per i francesi è sopravvivere e per Hollande e il premier, Manuel Valls, è arrivare alle elezioni presidenziali del 2017 con qualche possibilità di vittoria. Lo stato di emergenza autorizza il governo francese a sospendere l'applicazione di una parte della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Le forze dell'ordine potranno adottare misure restrittive nei confronti di persone ritenute «pericolose», anche se non hanno commesso un reato, e potranno eseguire perquisizioni nelle case di chiunque in qualunque ora. I prefetti avranno la facoltà di dichiarare il coprifuoco, fermare la libera circolazione, chiudere locali e vietare ogni manifestazione pubblica. A un passo dallo stato di guerra: la Francia cambia, per non morire.
   Si guarda a Israele anche per le tecnologie con cui contrastare il terrorismo. L'attentatore di Nizza, l'aspirante macellaio che era salito sul treno tedesco armato di accetta e coltello e i loro correligionari che hanno insanguinato l'Europa e gli Stati Uniti negli ultimi mesi appartengono alla categoria dei lupi più o meno solitari, privi di legami con cellule strutturate del terrorismo. Individui semi-emarginati che non appaiono radicalizzati al punto da destare sospetti nelle forze dell'ordine e che trovano nella umma, la comunità musulmana, la risposta a un bisogno d'appartenenza, e nell'Isis l'ispirazione che li spinge a volerci morti. Potenzialmente sono moltissimi e le loro tracce sono più difficili da seguire rispetto a quelle di chi ha compiuto tutte le tappe del percorso jihadista. Controllare ognuno di loro è impossibile.
   Per il nostro continente rappresentano un pericolo nuovo, ma per Israele no. Per questo le agenzie di intelligence europee stanno studiando con interesse le soluzioni - poco rispettose della privacy, ma molto efficaci - adottate nell'unica democrazia del Medio Oriente. Se seguire uno per uno i milioni di potenziali lupi solitari non è fattibile, ci si può facilitare il lavoro con gli algoritmi, ed è qui che i software e gli hardware israeliani si rivelano utili.
   Si tratta di controllare l'attività dei social network alla ricerca dei segnali che possono fare scattare un primo allarme. Spionaggio automatizzato su vastissima scala, in altre parole. Gli ufficiali israeliani, racconta il quotidiano Jerusalem Post, non rivelano fino a che punto è arrivata questa tecnologia, ma gli esperti privati assicurano che essa è già in grado di fornire una indicazione dei potenziali aggressori, alla quale devono seguire indagini specifiche.
   Il coordinatore anti terrorismo della Ue, Gilles de Kerchove, nei giorni scorsi è andato a Tel Aviv proprio per capire cosa l'Europa può copiare da Israele. Il problema, ha ammesso lo 007 di Bruxelles durante una conferenza, è che le norme europee sulla privacy e gli altri diritti civili rendono difficile l'uso di simili tecnologie intrusive. Ostacolo che non esiste in Israele, dove il principio secondo il quale bisogna rinunciare a una quota di certe libertà per aumentare la propria sicurezza è condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione. Ma altre strade per una lotta efficace al terrorismo non se ne vedono. Con molta fatica, lo si sta cominciando a capire anche in Europa. La speranza è che non servano altri morti per convincere chi si ostina a non vedere.

(Libero, 22 luglio 2016)


Dalla Russia all'Egitto e Israele. Tutti i nemici giurati del Sultano

A chi pensa il leader turco quando accusa gli stranieri

di Fiamma Nirenstein

 
E' quasi rassicurante che il presidente turco Tayyip Erdogan abbia dichiarato in un'intervista che ritiene che «potenze straniere possono essere comvolte nel fallito colpo di Stato» nel suo Paese: Erdogan ha sempre trovato molti capri espiatori per i suoi guai, per la mancanza di quel consenso totalitario che desidera, per un'economia che si inceppa, per i rapporti internazionali stupefatti dalla sua smania di essere il nuovo sultano. Ai tempi della rivolta di Gezy Park, a turno sono stati accusati la Cia, l'Europa gelosa dei suoi successi, la Lufthansa preoccupata per il suo progetto di un immenso aeroporto, la «congiura telecinetica» (sic) e, molto, la lobby ebraica, la sua preferita. Sull'America, il più classico fra i fantasmi cospirativi, Erdogan è stato frenato dalla determinazione di Obama a considerare la Turchia un partner fondamentale sin dall'inizio, il primo fra i Paesi islamici visitati nel 2009, ed Erdogan un interlocutore cui mostrare segni di pubblico rispetto. Adesso la richiesta insistente di estradare Gulen disegnato come il primo responsabile del colpo e il ritegno giuridico e politico dell'amministrazione americana a farlo svelano che da tempo cova il fuoco del dissidio sotto le ceneri, ma è improbabile che Erdogan si riferisse agli Usa o solo agli Usa dicendo «potenze straniere».
  I nemici preferiti di Erdogan sono naturalmente (oltre ai curdi che certo avrebbero molto amato una discesa agli inferi di Erdogan ma non sembrano in grado di occuparsene a fondo): Israele, la Russia, la Siria di Assad. La Turchia abbattè un aereo Sukhoi il 24 novembre scorso, e uno dei due piloti fu ucciso dai ribelli siriani: fu il punto più basso di rapporti con Putin già devastati dalla guerra in Siria. Volarono gli stracci del sostegno turco ai salafiti di Ahrar al Sham e Jaysh al Islam alleati di Al Nusra. L'intervento dell'aviazione russa aveva lasciato che Assad conquistasse Homs e Hama e Palmira fosse strappata all'Isis, Fu messo sotto accusa il rapporto Erdogan-Isis, che ha fatto della Turchia una pista di arrivo e partenze di foreign fighters. La Russia si risentì duramente, Erdogan non voleva porgere la sue scuse. Ultimamente invece, il 26 di giugno, le ha porte, e questo nel quadro generale di una ricomposizione altrettanto clamorosa, quella del rapporto avvelenato dall'antisemitismo conclamato di Erdogan, con Israele, col ritorno dei rapporti diplomatici e la promessa di una ricompensa di 200 milioni di dollari ad Ankara per gli incidenti della Mavi Marmara del 2010. Un buon accordo? Certo strategico e stabilizzante in un'ottica di lunga durata, così come le scuse a Putin: difficile una diabolica lungimiranza degli uni e degli altri nell'agire proprio ora contro Erdogan. Anche perché Israele tende in questo periodo di terremoto mediorientale alla salvaguardia della neutralità, non intende affrontare se non è obbligata il conflitto sciita-sunnita o quello intrasunnita. Semmai, spera che possa servire a contenere Hamas, la passione ricambiata di Erdogan per il gruppo terrorista padrone di Gaza: una passione che ha indotto Ismail Haniyeh addirittura a presentarsi dopo il fallito golpe inneggiando alla democrazia (lui, un autocrate islamista genocida!) con una gran torta su cui erano istoriati sorridenti fra lui e il raìs turco. Netanyahu ha preso, come del resto Putin, la strada delle congratulazioni per la ristabilita normalità democratica. Ma per fare un po' di maretta un deputato arabo israeliano della lista araba Tareb Abu Ararar ha accusato il governo di sostenere «ideologicamente» il fallito colpo e i media arabi hanno citato come fautore del golpe Akin Ozturk, un generale in pensione che è stato attaché militare negli anni 1996-98 con base in Israele.
  Molta acqua da allora è passata sotto i ponti: la Turchia è stata una grande alleata dell'Occidente, poi via via si è spostata sulla scia islamista di Erdogan. Nel 2003 rifiutò alle truppe Usa il passaggio in Irak, nel 2010 ha votato contro le sanzioni all'Iran dell'Onu, ha spostato i cannoni (ideali) con la guerra in Siria che l'ha messa all'angolo e l'ha contrapposta di nuovo agli Usa. Perché Obama non ha intenzione di soppiantare Assad, come invece Erdogan vuole. Il suo rapporto con la Nato è inattendibile, la sua forza in quell'ambito si chiama memoria di un sogno e suggerisce il rischio delle testate nucleari nelle sue mani; il suo disegno di entrare in Europa al giorno d'oggi suona grottesco: Mogherini ripete che le cose saranno messe in discussione se rientra in vigore la pena di morte. La pena di morte c'è di già! Applicata in questi giorni a centinaia, forse a migliaia di persone insieme con la violazione di tutti i possibili diritti umani. E insieme, Erdogan tiene in mano il cappio dell'ingresso dei profughi e il guinzaglio sul collo di parte del terrorismo. L'Iran è suo amico, ma alleato del nemico Assad. L'Egitto è sunnita, ma Sisi è il maggior nemico della Fratellanza musulmana di Erdogan. E dunque, chi sono quelli che avrebbero potuto non volere più Erdogan fra i piedi? Tutti, nonostante i voli americani che di nuovo decollano dalla base di Inçirlik contro l'Isis.

(il Giornale, 22 luglio 2016)


Turchia - Questa repressione piace troppo agli islamici "moderati"

"Dopo tante primavere bidone, ora una vera rivoluzione. Non m'interessa neppure chi l'abbia innescata, quel che conta è che a quasi 100 anni da Atatürk la Turchia torna a essere una grande nazione musulmana di fatto e di diritto. Allah protegga nostro fratello Recep Tayyip Erdogan, e tutto il popolo turco".
Hamza Roberto Piccardo
Già membro fondatore dell'Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d'Italia)

(Il Foglio, 22 luglio 2016)


Bruxelles: "L'Intifada dei coltelli colpa dell'occupazione d'Israele"

Polemiche per il report segreto dei diplomatici Ue

di Marco Bresolin

I recenti attentati terroristici palestinesi «sono dovuti in gran parte all'occupazione israeliana». A sostenerlo non è una Ong umanitaria, ma un report della Ue. L'accusa è contenuta in un documento interno, steso e firmato da tutti i diplomatici dei Paesi europei che hanno una rappresentanza a Gerusalemme o Ramallah. Non è stato ancora reso pubblico e probabilmente non lo sarà nemmeno in futuro. Ma il dossier di 39 pagine, steso nel dicembre del 2015, servirà come «riferimento per gli incontri ministeriali» e per «indirizzare le politiche europee».
   A pochi mesi dalle tensioni legate alla volontà espressa da Bruxelles di adottare etichette per contrassegnare i prodotti provenienti dai territori occupati, il report potrebbe portare a nuove frizioni tra l'Unione e Israele. Sulle radici del terrorismo palestinese, infatti, c'è una totale differenza di vedute. Secondo Israele non c'è distinzione tra il terrorismo contro Israele e quello che colpisce il resto del mondo, perché entrambi «hanno radici nell'estremismo islamico», Secondo l'Ue, invece, gli attacchi con coltelli e auto-ariete sono una risposta all'occupazione dei territori. Il report parla di «radici psicologiche» del terrorismo, dovute alla perdita di speranza di vedere realizzato il progetto dei due Stati, alimentata dalle «condizioni di vita in povertà». Tanto che «i giovani palestinesi», autori degli attentati, «sono apparentemente slegati da fazioni politiche o gruppi militanti». Per i diplomatici europei la risposta del governo israeliano «non fa altro che peggiorare le cose».
   Il report citato da «EuObserver», che ne ha visionato il contenuto, dice che «entrambe le parti» sono colpevoli di una «retorica incendiaria». E aggiunge altre accuse, sostenendo che l'occupazione israeliana «ha spinto ad alti livelli di abuso di droghe, sradicamento delle famiglie, violenze domestiche, perdita di identità, alti livelli di stress e depressione».
Torna poi sul capitolo dell'etichettatura dei prodotti provenienti dai territori occupati, chiedendo all'Ue di implementare un nuovo codice per differenziare i prodotti israeliani da quelli delle zone contestate. I diplomatici scrivono che l'Europa è «contro il boicottaggio», ma gli Stati membri dovrebbero «avvertire» le loro imprese dei «rischi» che comporta il fatto di operare in quelle aree.
   Il governo israeliano, interpellato dal «Jerusalem Post», ha fatto sapere che risponderà a queste accuse solo se e quando saranno rese pubbliche. E il portavoce del ministro degli Esteri, Emmanuel Nahshon, ha colto l'occasione per augurare «buone ferie ai diplomatici Ue, nella speranza che durante le loro vacanze in Europa non incappino in atti di violenza compiuti da estremisti islamici».
   
(La Stampa, 22 luglio 2016)


Nasce l'«Israeli Innovation Centre» presso il Centro Peres per la Pace

In collaborazione con gli Stati Uniti, Israele promuove una "start-up Nazione" per la leadership mondiale della tecnologia.

di Miriam Martinez

"The Jerusalem Post" dà la notizia in prima pagina: nasce l'Israeli Innovation Centre (Centro dell'Innovazione di Israele), su quattro piani, presso il Centro Peres per la Pace, che si prevede "attirerà centinaia di migliaia di studenti, soldati, capi di Stato, turisti e delegazioni commerciali, per assistere alla straordinaria storia di come Israele sia diventata leader di avanguardia dell'innovazione nel mondo".
Il progetto, in collaborazione con gli Stati Uniti d'America, presenta Israele come una "start-up Nazione" - scrive il quotidiano israeliano -, cioè, come una realtà in crescita, nella storia, anche come "brand" di innovazione tecnologica, cui si devono importanti conquiste e scoperte, molte delle quali hanno cambiato il sistema di vita umana sul pianeta. Tra queste, i sistemi di irrogazione dei campi a pioggia o i pannelli solari. Ma, anche, gli israeliani detengono il primato nelle tecnologie militari e per la sicurezza.
Così, scrive "The Jerusalem Post", uno Stato "nato sulle paludi e il deserto è diventato leader globale, grazie all'innovazione di Israele che ha cambiato ".
Oggi, all'inaugurazione, sono intervenuti Shimon Peres, Presidente fino al 2014, insieme all'attuale Rivlin, il Primo ministro Netanyahu e il sindaco di Tel Aviv - Jaffa Ron Huldai. La presenza delle massime autorità dello Stato testimonia l'importanza strategica, e non soltanto culturale, del nuovo Centro, che aprirà le porte nel 2018.

(In Terris, 21 luglio 2016)


Startup israeliana PamBio lotta contro gli effetti dell'ictus

 
PamBio, una startup biotecnologica di Nazareth, Israele, ha annunciato di aver ricevuto 7 milioni di dollari da un investitore privato, che si vanno a sommare ad altri 3 milioni recentemente ottenuti dal governo israeliano e dall'incubatore NGT3.
La società sta lavorando su un trattamento per l'ictus emorragico, un tipo di ictus che si verifica quando vi è la rottura di un vaso sanguigno cerebrale. Il trattamento previene il sanguinamento e protegge contro i danni al cervello, i quali rappresentano l'effetto collaterale finale che affligge la maggior parte delle vittime di ictus.
L'obiettivo è quello di fermare l'emorragia in corso durante l'episodio di ictus.
La redazione di siliconwadi.it ha contattato il CEO di PamBio, Dott. Amos Ofer, il quale ha spiegato l'importanza di questa soluzione, perché si tratta dell'unico trattamento farmacologico noto per l'ictus emorragico.
La biomolecola terapeutica contenuta nel farmaco sviluppato da PamBio ha un doppio effetto, antifibrinolitico e neuroprotettivo.
Numerosi sono gli effetti benefici in caso di ictus emorragico:
  • L'unico farmaco che consente un trattamento in un lasso di tempo di 3 ore;
  • Minima tossicità;
  • Alto grado di somiglianza con una proteina umana (tPA) che riduce al minimo il potenziale di tossicità dei tessuti;
  • Effetti collaterali ridotti.
Gli studi hanno dimostrato che la biomolecola riduce il sanguinamento nel cervello dei topi e che il farmaco risulta essere efficace per prevenire il sanguinamento generale. Nei test tale diminuzione si riscontra sia nel sanguinamento della coda del topo sia a livello epatico.
Queste le parole del Dott. Amos Ofer, CEO di PamBio:
La soluzione che abbiamo sviluppato per prevenire e arrestare l'emorragia, si basa su una comprensione innovativa della fibrinolisi, responsabile della coagulazione del sangue. In futuro, questo farmaco consentirà il trattamento di disturbi della coagulazione, che oggi non hanno un trattamento sicuro ed efficace, come ad esempio le lesioni alla testa, le emorragie del sistema digestivo, le emorragie post-partum e altri disturbi della coagulazione, rendendolo di fatto l'unico agente anti-sanguinamento disponibile.
PamBio è stata fondata dal Prof. Abd Al-Roof Higazi, che dirige la Divisione dei laboratori e il Dipartimento di Biochimica Clinica presso l'Hadassah di Gerusalemme e dalla moglie Dott.ssa Nuha Higazi, dottoressa in neurologia con il supporto di Hadasit, la società di trasferimento tecnologico dell'Hadassah University Hospitals.
Il denaro sarà investito nella ricerca scientifica, in attesa del 2019, anno in cui si darà avvio alla Fase I di sperimentazione umana.

(SiliconWadi, 22 luglio 2016)


Nasce l'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele

ROMA, 21 lug - "Italia e Israele sono da sempre Paesi amici. E' nel rispettivo dna dei due popoli condividere valori e una comune prospettiva sul presente e sul futuro, alla luce soprattutto delle importanti sfide che abbiamo di fronte.
Per questo, siamo molto soddisfatti della nascita dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, a cui hanno gia' aderito circa 150 parlamentari di tutto l'arco costituzionale".
Ad affermarlo, e' l'on. Maurizio Bernardo, presidente dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele e della Commissione Finanze della Camera, che oggi ha ricevuto alla Camera la delegazione diplomatica dello Stato d'Israele in Italia, guidata dall'ambasciatore Naor Gilon, in occasione della nascita dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele.
"Un'iniziativa significativa - ha aggiunto - che vuole andare al di la' dell'ambito istituzionale per rinsaldare un rapporto e una cooperazione che ci vede proficuamente impegnati in piu' settori, dalla cultura al commercio, dalla sicurezza al turismo.
Su questa strada crediamo ci si debba muovere e, in tal senso, confidiamo nel lavoro dell'associazione e del contributo di tutti gli aderenti".
"Vedo nell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele non solo un ponte per rafforzare la cooperazione tra i due Parlamenti, ma anche un veicolo per implementare ulteriormente le già ottime relazioni esistenti in tutti i campi tra i nostri due Paesi e popoli - ha dichiarato Gilon - Italia ed Israele, quali Paesi democratici liberali, fanno parte di una minoranza che oggi è sotto attacco e come tali si devono unire e l'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele opera proprio in questa direzione".

(ANSAmed, 21 luglio 2016)


Tel Aviv: arte, mare, innovazione. Ecco perché andarci

di Eugenio Spagnuolo

"Tel Aviv: mare. Luce. Celeste, sabbia, impalcature... chioschi lungo i viali, una città ebraica bianca, lineare, che cresce fra agrumeti e dune. Non soltanto un luogo per il quale compri un biglietto dell'autobus della Egghed, no, un altro continente". Sono passati 13 anni da quando Amos Oz è riuscito a racchiudere in 3 righe l'anima di Tel Aviv. E la città non le ha mai tradite: la luce, il mare, i chioschi, sono sempre lì. Semmai nuove impalcature hanno preso il posto di quelle vecchie, perché la Tel Aviv nel frattempo è cresciuta. Oggi è una metropoli "che non si ferma mai", come vuole il claim delle brochure turistiche.
  "Tel Aviv non dorme perché a ogni ora del giorno e della notte è possibile mangiare, ballare, ascoltare, vedere, girare. La vita notturna è qui motivo di vanto e, ancora una volta, di distacco da Gerusalemme, dove con a calar del buio scende anche il silenzio", ha scritto Elena Lowenthal in La Nuvola Nera, libro fondamentale per capire la città. È vero: chi va a Tel Aviv spesso lo fa per le sue notti selvagge. Che però non sono l'unico motivo per andarci. Eccone altri 5.
  Il mare, naturalmente. Ammettiamolo: le metropoli bagnate dal mare hanno un fascino irresistibile. Secondo il National Geographic, Tel Aviv ha lidi tra i migliori al mondo. Ci sono otto grandi spiagge, ognuna con il proprio pubblico e carattere, frequentate più o meno da aprile a ottobre: dall'affollata e modaiola Mezizim a Hof Hadatiyim, la "spiaggia separata", dove uomini e donne possono accedere a giorni alterni (per motivi religiosi), dalla celebre Hilton Beach, su cui sventolano i vessilli arcobaleno della comunità Lgbt, a Gordon beach, popolare tra i turisti e a pochi passi dall'Hotel Carlton, dalla cui terrazza è possibile cogliere con un solo sguardo tutta la città.
  Tanta arte (e design). Fondato nel 1932, ancora prima dello stato d'Israele, il Museo d'arte di Tel Aviv custodisce opere di Klimt, Picasso, Monet, Renoir, Degas, Pissarro, Cézanne, Van Gogh, Matisse, Gauguin, Kandinsky, Klimt, Mondrian, Modigliani, Braque, Miró, Léger. Un catalogo da far impallidire molti musei europei, che negli anni 50 si è arricchito di un trentina di "masterpiece" provenienti dalla collezione di Peggy Guggenheim. E nel 1989 di un murale di Roy Lichtenstein, che accoglie i visitatori all'ingresso: arte pop come biglietto da visita.
  Ma di musei ce ne sono per tutti i gusti. Non ultimo il Design Museum Holon, spuntato nel 2010 a sud di Tel Aviv in un vorticoso edificio rosso, prima opera pubblica importante dell'architetto anglo-israeliano Ron Arad.
  Il Bauhaus. Se Tel Aviv è (anche) "la città bianca" lo deve alla imponente presenza dell'architettura Bauhaus: più o meno 4.000 edifici riconosciuti dall'Unesco come Patrimonio dell'Umanità. Un patrimonio estetico davvero unico da esplorare attraverso i tour a piedi del Bauhaus Center Tel Aviv, che non vi prenderanno più di due ore (ben spese).
  Perché è la nuova Silicon Valley. A Tel Aviv, Google ha aperto un Campus per cogliere lo zeitgeist della città, dove è tutto un pullulare di start up tecnologiche, responsabili secondo il Wall Street Journal di un nuovo boom. "I ricchi israeliani - scrive il quotidiano finanziario - hanno a lungo gravitato nell'atmosfera cosmopolita di Tel Aviv, ma questa vecchia ricchezza è stata recentemente raggiunta da giovani imprenditori che hanno fatto le loro fortune nelle start-up tech, un importante motore di crescita in Israele, che ha portato all'arrivo di molti investitori stranieri". L'ecosistema hi-tech di Tel Aviv secondo gli analisti è secondo solo a quello della Silicon Valley, il che si traduce in spazi di co-working, creatività diffusa, eventi e un intensa vitalità culturale che anche da semplici turisti non è difficile cogliere.
  Il momento politico. Ci sono politici che segnano la storia di un posto. Pensate a Rudy Giuliani a New York negli anni 90 o a Bertrand Delanoe a Parigi, nel decennio successivo. A Tel Aviv è sotto il municipio del sindaco laburista Ron Huldai, al governo dal 1998, che sono avvenuti i grandi cambiamenti. Paladino dei diritti civili e della laicità dello Stato, sostenitore dell'economia delle start-up, spesso critico verso la politica israeliana nei territori palestinesi, Huldai è l'uomo che ha spinto per aprire Tel Aviv al mondo e modernizzarla, col sostegno dei suoi abitanti. E la storia ci insegna che le città quando c'è un governo apprezzato e popolare, sono più belle. O no?

(L'Huffington Post, 21 luglio 2016)


La targa del Chiassetto degli Ebrei torna a casa

Era il luglio del 2008 quando Cristina Moro e Donald Levine decisero di acquistare casa all'Aquila, prima che il terremoto la distruggesse. E' stato amore a prima vista per il piccolo locale sulla via del Chiassetto degli Ebrei. Lei aquilana, originaria di Filetto, lui newyorkese di origini ebraiche decisero di comprare casa a poca distanza dalla loro abitazione principale che è a Roma. Per il signor Donald è stato come ritrovare le sue origini. Ebreo nel chiassetto degli ebrei. Tra il labirinto vicoli, subito dopo la Chiesa di San Flaviano, c'è questo pezzo di città, sconosciuto a molti, dal punto di vista storico: "Qui vivevano gli ebrei, vi si insediarono alla fine del 300. Poi l'antica denominazione venne sostituita con Chiassetto della prima Pinciara" - spiega Cesare Ianni del Gruppo di Azione Civica Jemo 'nnanzi che esattamente un anno fa, con una lettera aperta al Sindaco Massimo Cialente, chiede di poter restituire la denominazione originaria. "Detto e fatto", in pieno stile Jemo 'nnanzi che, dopo un lungo iter burocratico, ottiene l'autorizzazione. Ieri, 20 luglio 2016, esattamente 551 anni dopo che Ferdinando d'Aragona concesse agli Ebrei Aquilani uguali privilegi, la targa con l'antica denominazione torna e restituisce un pezzo di storia. "Se i nostri padri hanno ritenuto importante questa presenza è giusto ricordarlo"- sottolinea Ianni.

(Il Capoluogo, 21 luglio 2016)


Confindustria Venezia: le aziende veneziane guardano alle startup israeliane

Il Presidente Matteo Zoppas: "Confindustria Venezia promuove l'internazionalizzazione e lo sviluppo innovativo quali driver per una nuova imprenditorialità per far conoscere l'eccellenza del nostro comparto manifatturiero alla controparte israeliana
   Si é svolto ieri pomeriggio, mercoledì 20 luglio 2016, presso la sede di Confindustria Venezia, un meeting tra i vertici dell'associazione e l'ambasciata Israeliana per ufficializzare un calendario di incontri finalizzati a creare sinergia fra le start up israeliane e le imprese associate, con particolare attenzione nei settori dell'arredo casa ed interior design, vetro/illuminazione, agroalimentare, terziario avanzato/innovazione e turismo. Sono intervenuti per Confindustria Venezia, il Presidente Matteo Zoppas, il Direttore Generale Carlo Stilli, Agnese Lunardelli, Presidente PMI Confindustria Venezia e past president sezione legno arredo, Raffaele Dammicco, Presidente Consorzio Invexport, Stefano Ariel Zanon, Consigliere Generale di Confindustria Venezia e facilitatore culturale per le attività per i 500 anni del Ghetto di Venezia, mentre per l'Ambasciata Israeliana, Olga Dolburt Ministro Consigliere per gli Affari Economici e Scientifici, Ambasciata d'Israele, Renzo Gattegna Past President Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e Avital Kotzer Adari direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia.
   Bisogna puntare sull'innovazione per cogliere le opportunità di crescita. Auspico dunque, - sottolinea Matteo Zoppas-,che questo sia soltanto il primo passo per concretizzare iniziative congiunte nel segno del business fra le nostre aziende e quelle di un Paese considerato la patria delle start up e che, Cina e Stati Uniti a parte, ha il maggior numero di imprese quotate al Nasdaq. Un sistema nazione che crede molto nei giovani sostenendoli con finanziamenti e fondi appositi. Confindustria Venezia promuove l'internazionalizzazione e lo sviluppo innovativo quali driver per una nuova imprenditorialità per far conoscere l'eccellenza del nostro comparto manifatturiero alla controparte israeliana".
   Il progetto di collaborazione nasce anche sull'onda di un evento storico, i cinquecento anni del Ghetto di Venezia, il più antico d'Europa. L'incontro é stato preceduto da un momento culturale. I vertici di Confindustria hanno infatti accompagnato in mattinata la delegazione israeliana a visitare la mostra al Palazzo Ducale di Venezia, "Venezia, gli Ebrei e l'Europa 1516 - 2016?.
   Tra le sessioni della giornata una é stata dedicata al turismo dove Avital Kotzer Adari ha incontrato una quindicina di imprenditori del settore coordinati da Francois Droulers, Presidente della Sezione per Confindustria Venezia. Un incontro proficuo che ha suscitato estremo interesse nelle aziende locali alla luce degli importanti investimenti che Israele sta destinando al comparto promuovendo le sue bellezze paesaggistiche e storico-artistiche presso i player italiani.
   Secondo gli ultimi dati IVC (Israeli Venture Capital) research Centre e KPMG sul quarto trimestre 2015, Israele con i suoi 8 milioni di abitanti è stato definito startup nation: conta fino ad oltre 4000 startup tecnologiche, è il Paese a più alta concentrazione di startups e venture capital, spesso nati intorno aTel Aviv nella Silicon Wadi. Nell'anno 2015, si è verificato un aumento del 30% della raccolta del capitale high-tech, raggiungendo il valore record di $ 4,43 miliardi (valore più alto nei round annuali di finanziamento mai registrato).
   Gli investimenti di venture capital quest'anno a livello globale si sono rafforzati, grazie a fattori divers quali +48% dei "mega-deal" (olre $100milioni) degli USA e +62% di "large deals"(sopra o uguali $20 milioni) in Israele.

(Impresa Mia, 21 luglio 2016)


«Dovete tutti sentirvi parte di un esercito in guerra»

L'ambasciatore israeliano: «Israele, come noto, non è immune dal terrorismo. Ma lo Stato agisce sempre in maniera lucida: identifica la minaccia, la chiama per nome e la elimina. Siamo sempre in allerta contro chi vuole distruggerci. C'è una questione sicurezza: noi investiamo il 6% del Pil, l'Europa 1'1,5%. Basta?»

di Fausto Carioti

 
Naor Gilon
Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, pesa le parole con attenzione. Premette: «Non sta a me giudicare o dare consigli all'Europa su come affrontare il terrorismo sul suo territorio».

- Fatto sta, signor ambasciatore, che adesso che l'Europa ha scoperto di avere in casa migliaia di potenziali terroristi, la parola d'ordine è diventata «dobbiamo fare come Israele».
  «È chiaro che si tratta di una grande sfida che richiede unione di forze, cooperazione, leggi appropriate e consenso civile sull'applicazione di modus operandi in passato non accettati. In Israele, purtroppo, noi viviamo con il terrorismo sin dalla fondazione dello Stato. Il nostro modello non consiste in un set di strumenti, ma nella presa di coscienza collettiva di quello che occorre fare per non con - sentire al terrorismo di impadronirsi delle nostre vite».

- In concreto cosa significa?
  «Ad esempio significa partecipazione civile nell'allertare gli organi di sicurezza su un oggetto o una persona sospetti. Accettare i controlli di borse e zaini all'ingresso di centri commerciali e ristoranti, anche se questo tocca la nostra privacy. Approvare leggi che blocchino l'attività di istigazione alla violenza sui social network. Stabilire pene che siano deterrenti efficaci per chi è coinvolto nella realizzazione di azioni terroristiche, sin dalla fase dell'istigazione al terrorismo, passando per il reclutamento, il finanziamento, la collaborazione diretta o indiretta. E così via».

- Israele investe in sicurezza una quota importante del proprio reddito.
  «Israele investe oggi circa il 6 per cento del Pil in sicurezza. Appena un decennio fa spendevamo circa il 10 per cento: in termini di denaro ora investiamo di più, ma rispetto al totale delle spese investiamo di meno, perché nel frattempo l'economia israeliana è cresciuta. E buona parte della nostra spesa per la sicurezza torna sul mercato, perché va alle industrie israeliane che operano in questo settore e finanzia così start-up e compagnie capaci di sviluppare tecnologie innovative».

- Dopo decenni di tagli alla spesa militare e per la sicurezza, lei crede che sia davvero possibile "riconvertire" la società europea al modello di autodifesa israeliano?
  «L'Europa, in media, investe circa l'1,5% del suo Pil in sicurezza. Oggi pare che il vecchio continente si trovi di fronte a una minaccia più seria che in passato e pertanto la risposta finanziaria richiede un cambiamento anche nello stanziamento delle risorse nel vecchio continente. Ma spetta alla classe dirigente e ai cittadini europei decidere quale investimento sia sufficiente. Io, ripeto, non sono interessato a dispensare consigli all'Europa».

- Quanto è importante per la capacità di autodifesa dei cittadini israeliani avere svolto il servizio militare?
  «Il servizio militare obbligatorio è una pietra fondante della società israeliana. Il fatto che l'esercito sia un esercito di popolo, nel senso più semplice e immediato del termine, rende tutti i cittadini partecipi in maniera attiva della propria difesa. Si tratta di una necessità per il mio Paese sin dal giorno della sua fondazione, ma il fatto che la maggior parte dei cittadini presti servizio nelle forze di sicurezza per due o tre anni ha una ricaduta sulla disposizione d'animo e sulla capacità di comprendere quali siano le minacce e cosa occorra fare per eliminarle».

- L'intelligence israeliana ha fama di essere la più efficiente del mondo. Che politiche adotta lo Shin Bet, il vostro servizio di sicurezza interno?
  «I servizi di sicurezza israeliani svolgono il loro compito nell'ambito della legge e sono sotto il controllo continuo del sistema giudiziario. Siamo uno Stato di diritto, combattere il terrorismo non vuol dire che tutto è consentito. Tuttavia la legislazione in Israele consente di adottare misure soddisfacenti a tutela della vita dei cittadini. È possibile che a volte, per questo, venga toccata sotto qualche minimo aspetto la qualità della vita. Ma il diritto di vivere deve avere la precedenza».

- Non crede che ci sia anche un'enorme differenza culturale tra Europa e Israele? In tutti questi anni i governi europei hanno adottato un approccio idealistico e politicamente corretto nei confronti del terrorismo islamico, mentre Israele ha sempre affrontato il problema in modo estremamente realistico.
  « Anche Israele, come noto, non è immune dal terrorismo. Ma lo Stato di Israele, da parte sua, agisce sempre in maniera molto razionale e lucida: si deve identificare la minaccia, chiamarla per nome ed agire per eliminarla. Eliminarla significa agire anche nell'ambito dell'istruzione e della prevenzione, con gli strumenti della legge e del diritto».

- Vi accusano di essere il Paese dei muri.
  «Chi ha visitato Israele sa che non è un Paese di muri e steccati. Circa il 20 per cento della sua popolazione è composto da arabi, in gran parte musulmani, e il loro coinvolgimento nel terrorismo è minimo. Per la maggior parte sono integrati nella società, ben rappresentati in parlamento, partecipi dell'economia del Paese e presenti in posti importanti degli organi statali. Tutto questo, però, non ci impedisce di definire il problema per quello che è: davanti a una minaccia da parte del terrorismo islamico radicale, la si deve combattere distinguendo il più possibile fra terrorismo e suoi sostenitori e chi, invece, non è coinvolto».

(Libero, 21 luglio 2016)


Ecco i tre segreti della sicurezza israeliana

Perquisizioni e interrogatori nei luoghi pubblici, denuncia dei comportamenti ritenuti sospetti o degli individui «devianti», sorveglianza dei luoghi sensibili agli ex militari. Meno comfort e privacy valgono il prezzo della libertà.

di Carlo Panella

«Dobbiamo imparare a vivere come in Israele»: finalmente, con anni di ritardo, molti comprendono in Italia e in Europa che l'unico modo per ridurre - non per annullare - la minaccia terroristica è imparare dagli israeliani, che convivono da sempre con un terrorismo islamico feroce, ma sanno contrastarlo e contenerlo come nessuno al mondo.
Inconvenienti accettati
I cittadini israeliani sanno bene che durante un'uscita al cinema o un viaggio in bus, potranno incappare in perquisizioni da parte della polizia o dei militari. Ma nessuno si sogna di denunciare l'intrusione nella vita privata come un attentato alla privacy.

*
Buon senso
Mentre nei luoghi sensibili dello Stato ebraico la sicurezza è affidata ad ex uomini dei servizi segreti o delle forze armate, in Italia i vertici militari esperti di terrorismo sono mandati in pensione a 63 anni.

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La naja per davvero
Il servizio militare, obbligatorio per uomini e donne, dura tre anni per i primi e due per le seconde. Terminata la naia, però, si è inseriti nella Riserva con la quasi matematica certezza di essere richiamati in servizio negli anni successivi. In questo modo, la mobilitazione è permanente.
Purtroppo, per seguire questa giustissima consegna, bisogna innanzitutto che in Europa ci si renda conto che abbiamo lo stesso nemico di Israele. Pochi lo capiscono, ma il terrorismo arabo-palestinese che colpisce da sempre Israele ha le stesse, identiche radici, gli stessi "cattivi maestri" che fanno ora strage in Europa e nel resto del mondo. Non perché non esista una specifica "questione palestinese", più che reale, ma semplicemente e drammaticamente perché questa questione non può essere risolta con una trattativa (come sono state risolte tutte le più brucianti questioni nazionali, persino quella basca dell'Eta e irlandese dell'Ira) proprio e solo a causa del terrorismo jihadista (incluso quello promosso da Arafat, che laico non era per nulla).
In Occidente, invece, si continua a rifiutare la presa d'atto che siamo vittime del jihadismo prodotto da uno scisma dell'Islam e continuiamo - continuano - col trastullo, con la falsa coscienza di analisi farlocche su terroristi motivati da turbe psichiche, omosessualità repressa e amenità simili (come se le Ss naziste non fossero afflitte da turbe psichiche e omosessualità repressa, vedi la fine delle Sa). Dobbiamo ancora prendere coscienza che i terroristi sono mossi da una ideologia chiara e netta, di marca islamica. Da una nuova religione di morte. Diffusa.
Bisogna poi comprendere che, in Israele, tutti i cittadini hanno ben chiaro da sempre che sono in guerra, che sono minacciati individualmente, non solo come Stato. In Europa, in Italia, invece, si mette la testa sotto la sabbia e ci si rifiuta di capire che "loro" ci fanno una guerra di civiltà e che non conta nulla che noi non abbiamo nessuna voglia di fare questa guena. Una volta introiettata questa realtà di una guena diffusa, incombente, feroce, bisogna capire che però potremo vivere solo parzialmente come in Israele, perché là ogni cittadino e cittadina fa un lungo servizio militare per tre anni (gli uomini) o per due anni (le donne). Poi entra nella Riserva e può essere richiamato - ed è richiamato - sino a tarda età. Nessuna delega ad altri della difesa. In Occidente, invece, deleghiamo la nostra difesa a professionisti, a corpi separati dal nostro contesto sociale: polizia, Forze Armate, Servizi Segreti ecc ...
Fatta questa differenza, arriviamo al punto: il segreto di Israele si basa su alcuni pilastri. Il primo è il patto che ogni israeliano stipula con lo Stato: accetta che le ragioni della sicurezza prevalgano su quelle della sua privacy. Sino a poco tempo fa lo Stato poteva ad esempio sequestrare per ragioni di sicurezza le automobili private. Ogni cittadino israeliano accetta con serenità di subire interrogatori di ore agli aeroporti. Non batte ciglio se viene perquisito pesantemente persino all'ingresso di una pizzeria o di un hotel.
È un patto su cui però vigila una magistratura rispettata e autorevole ( un ex presidente della Repubblica è stato condannato al carcere da un giudice monocratico arabo-israeliano, e questo non ha provocato alcuna polemica). Differenza non piccola con l'Italia.
Il secondo pilastro è una capillare - ma calma - sorveglianza sociale dei comportamenti deviati, che possono indicare iniziative di terrore e morte. In Israele il Tir di Nizza, per due giorni in divieto di sosta, sarebbe stato perquisito subito e mai un poliziotto lo avrebbe lasciato entrare sulla Promenade des anglais sulla base della motivazione verbale di una consegna di gelati.
Ma l'elemento di forza di Israele è anche un altro: ogni situazione di emergenza è prevista da protocolli minuziosi (al Bataclan le teste di cuoio della Gnr, pronte subito, non poterono intervenire a causa della esclusiva competenza della polizia di Parigi, che arrivò tre ore dopo ...)
e i principali snodi della security civile - come gli aeroporti - sono affidati a ex militari, che importano la loro grande professionalità nel contesto civile.
In Italia, invece, mandiamo in pensione a 63 anni (!!!) ufficiali e generali che hanno contrastato per decenni il terrorismo interno, quello algerino degli anni '90 e quello islamico recente. Professionalità straordinarie sprecate in omaggio a norme sindacai-amministrative. Dobbiamo, insomma, percorrere ancora un lungo cammino ...

(Libero, 21 luglio 2016)



Parashà della settimana: Pinehas (Fineas)

Numeri 25:10-30:1

 - La parashà di Pinehas, nipote del sacerdote Aronne, è il seguito della precedente parashà, in cui si racconta come il consiglio di Bilaam sia stato realizzato mediante la depravazione sessuale con le donne medianite.
Il popolo ebraico sta vivendo una corruzione morale senza precedenti. Moshè stesso è incapace di contrastare un simile flagello e invece di combattere, incrocia le braccia. In un momento così critico e disperato un uomo come Pinehas riuscirà a dare al popolo, con la sua azione, certezza e speranza per un mondo diverso.
"Pinehas, figlio di Eleazar, figlio del sacerdote Aronne, fece retrocedere la Mia ira dai figli di Israele perché animato dallo zelo verso di Me" (Numeri 25.10).
Cosa era accaduto? Zimrì, figlio di Salù della tribù di Simeone, era stato trafitto insieme alla medianita Cozbi dalla lancia di Pinehas mentre erano nella loro tenda a consumare l'adulterio.
Pinehas aveva visto il pericolo che minacciava il popolo d'Israele causato dalla promiscuità con le figlie di Midian. Per questo si levò ed uccise Zimrì l'uomo che aveva peccato pubblicamente insieme alla donna medianita, che era a giacere con lui.
Per la prima volta nella storia d'Israele, in occasione di un grave contrasto tra la condotta di un individuo e l'etica della Torah, interviene un ebreo di sua iniziativa al posto di lasciare a D-o questa responsabilità.
Pinehas appare in questo frangente come il difensore della pace tra D-o e gli uomini, perché la vera pace non è fatta di rinunce pur di arrivare ad una pace a qualsiaisi prezzo. Difatti tutte le esitazioni, tutte le tendenze a tergiversare oppure a fuggire difronte ai pericoli portano alla catastrofe.
Il termine "shalom" ha un significato soprattutto "morale". Pertanto se non viene rispettata questa dimensione etica , la pace è qualcosa di artificiale che non può durare.
Dal comportamento di Pinehas si apprende che ogni uomo, anche se piccolo, può prepare la Redenzione senza abbandonare il suo impegno, quando la morale è in pericolo. Per questa ragione il midrash (tradizione orale) identifica Pinehas con il profeta Elia che annuncerà la Redenzione.
La ricompensa all'azione di Pinehas è la pace come scritto nella Torah: "I-o gli accordo il Mio patto: la pace" (Numeri 25.12).

Spartizione della Terra d'Israele.
"Il Signore parlò a Moshè dicendo: Tra le tribù deve essere ripartito il Paese secondo il numero dei casati…" (Numeri 26.52).
Un tema fondamentale che la nostra parashà tratta è la divisione della Terra d'Israele tra le dodici tribù dei figli di Giacobbe. Israele sta per diventare un popolo sedentario e deve risolvere la spartizione del territorio in modo equo.
Secondo la tradizione orale la divisione della Terra viene fatta e attribuita ad ogni famiglia che, come tale, era uscita dall'Egitto. Essendo i padri periti nei quaranta anni di peregrinazioni nel deserto, furono i figli maschi ad ereditare la loro parte di terra. Si pose allora il problema per le figlie di Tselofoad perché costui non aveva avuto figli maschi.
In questo caso alle figlie di Tselofohad vennero assegnate le proprieta materiali della terra, secondo equità come per gli eredi maschi. La legge ebraica riconosce alle donne identiche qualità fisiche e morali degli uomini. Ma c'è qualcosa di più.
Rashì spiega in questo modo: "Le donne non furono colpite per il peccato commesso dagli esploratori (maldicenza) perché esse amavano questa terra. Ed aggiunge: "Le figlie di Tselofohad erano discendenti di Giuseppe che chiese ai suoi fratelli di essere sepolto in Israele (Shekem): "Voi, dall'Egitto, porterete le mie ossa nella terra dei padri".
Ancora oggi la tomba di Giuseppe si trova a Shekem nella Samarìa ed è stata più volte profanata (incendiata) da arabi-palestinesi.
Cedere la Terra d'Israele a popolazioni straniere, è contravvenire alla Parola di D-o, che viene pagata sempre cara (vedi Oslo-Intifada).

L'investitura di Giosuè
Moshè, l'uomo dei miracoli, giunto al termine della sua straordinaria missione, consegna le future responsabilità del popolo a Giosuè figlio di Nun per continuare il cammino verso la Terra promessa.
La nuova guida, alla testa del popolo ebraico, non sarà un capo autocrate, ma si conformerà alle direttive della Legge, dimostrando fede e osservanza alla Parola di D-o. Moshè trasmette il potere a Giosuè in presenza di tutto il popolo e del gran sacerdote Eleazar, con l'imposizione delle mani, sul suo fedele discepolo. Questo gesto rituale entrerà a far parte della Tradizione biblica e continuerà con i saggi del Talmud affinchè la Torah di Moshè venga ripresa dai suoi discepoli nella Torah di Israele.
La parashà di Pinehas viene letta nelle sinagoghe nel sabato precedente il digiuno del 17 del mese di Tammuz, digiuno per ricordare la breccia aperta nelle mura di Gerusalemme da parte dei Romani con la sua conquista e distruzione nel 70 e.v.
Inizia la tragedia dell'esilio, di cui Israele subisce ancora le conseguenze. Secondo il profeta Geremia (2.3) questa catastrofe nazionale è stata il risultato della decadenza morale del popolo ebraico dell'epoca, su cui bisogna riflettere ancora oggi e trarne la lezione dalla Storia.
La tradizione orale ebraica ritiene che la causa della distruzione del Tempio di Gerusalemme sia stato il "sinat hinam" cioè l'odio gratuito verso il prossimo. F.C.

*

 - In un commento breve a un testo abbastanza lungo della Bibbia bisogna necessariamente scegliere su quale punto dirigere l'attenzione. Possiamo fermarci allora a considerare le feste bibliche, di cui si parla in due interi capitoli. Il fatto interessante è che tutte queste feste sono celebrate ancora oggi dal popolo ebraico, anche se in forma diversa da come sono ordinate nella Bibbia. Ciò che oggi manca, in modo vistoso, sono i sacrifici. Facciamo un elenco veloce degli animali che in queste occasioni dovevano essere immolati.
Ogni giorno: 2 agnelli dell'anno, mattina e sera, come olocausto perpetuo.
Ogni sabato: 2 agnelli dell'anno, in aggiunta all'olocausto perpetuo.
Ogni novilunio: 2 giovenchi, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocausto perpetuo.
Pasqua, ogni giorno per sette giorni: 2 giovenchi, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocausto perpetuo.
Pentecoste: 1 giovenco, 2 montoni, 7 agnelli dell'anno, oltre all'olocausto perpetuo.
Festa delle trombe: 1 giovenco, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocausto perpetuo.
Giorno dell'espiazione: 1 giovenco, 1 montone, 7 agnelli dell'anno, 1 capro, oltre all'olocauso perpetuo.
Festa delle capanne, ogni giorno per sette giorni: 2 montoni, 14 agnelli, 1 capro; quanto ai giovenchi si cominciava con 13 il primo giorno e si andava avanti scalando di 1 ogni giorno fino ad arrivare a 7. Dopo sette giorni il totale complessivo degli animali immolati era: 70 giovenchi, 14 montoni, 98 agnelli, 7 capri, oltre all'olocausto perpetuo.
  In conclusione, nei giorni di festa il sangue di animali scorreva a fiumi. Detta così, la frase sembra dispregiativa, invece vuole soltanto sottolineare il fatto che lo spargimento di sangue non è un accessorio nel rapporto tra Dio e l'uomo, ma ne è parte essenziale, come mette in evidenza tutta la storia del popolo ebraico.
  La prima volta che compare il termine "sangue" nella Bibbia si trova nelle parole del Signore a Caino: "La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra" (Genesi 4:9). Dopo il peccato di Adamo ed Eva, Dio aveva maledetto la terra, non l'uomo; ma dopo che il sangue dell'ucciso ha bagnato la terra, la maledizione si è estesa anche all'uccisore.
  "La vita di ogni carne è il sangue; nel suo sangue sta la vita" (Levitico 17:14), dice la Scrittura, dunque il sangue sparso è segno di una vita che si perde, cioè di morte, e quindi anche segno di ciò che l'ha fatta entrare nel mondo: il peccato, come distacco dell'uomo dal Datore della vita.
  Il sangue sparso di animali in sostituzione di quello dell'uomo ricorda che il rapporto di Dio con l'uomo è una questione di vita o di morte, e non solo di pedagogica istruzione. Il peccato che fa passare dalla vita alla morte ha bisogno di un'espiazione che faccia passare dalla morte alla vita. Nei sacrifici di animali questo avveniva simbolicamente attraverso l'uccisione della vittima, il che consentiva a chi si immedesimava in lei di morire in un certo senso con lei e tuttavia di essere recuperato alla vita dopo il sacrificio compiuto.
  "La vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho ordinato di porlo sull'altare per fare l'espiazione per le vostre persone; perché il sangue è quello che fa l'espiazione, per mezzo della vita" (Levitico 17:11).
  Sacrifici espiatori si compivano anche in altre religioni, ma perché nel caso di Israele non erano mai stati ordinati né permessi sacrifici umani? Per un rifiuto assoluto della "pena di morte", come richiedono oggi le nazioni più "civili"? No di certo, perché la legge di Dio non solo permetteva, ma in molti casi esigeva che il trasgressore fosse messo a morte. Dunque perché? Perché per poter fare l'espiazione a beneficio di altri la vittima doveva essere innocente rispetto alla colpa per cui veniva messa a morte. Giovenchi, agnelli, montoni e capri erano certamente innocenti rispetto a quello che avveniva, e questo era simbolicamente rappresentato dal fatto che dovevano essere scelti tra i capi privi di ogni difetto, mentre nessun uomo poteva dirsi innocente di fronte a Dio, e quindi la sua morte non avrebbe mai potuto essere espiatoria perché sarebbe avvenuta come pena per i suoi stessi peccati e non per quelli di altri.
  E adesso che i sacrifici di animali non si fanno più, come si risolve il problema del peccato dei singoli e del popolo? Non c'è più possibilità di perdono? Se fosse così, come mai il popolo d'Israele esiste ancora e non è sparito sotto l'ira di un Dio che non può più essere placato? Qualcuno dirà che i sacrifici non erano essenziali e che possono essere sostituiti da volontari atti di devozione come preghiere ed elemosine. Altri invece sono convinti che i sacrifici erano effettivamente importanti, perché da una parte indicavano la gravità del peccato umano che merita la morte, e dall'altra manifestavano la misericordiosa grandezza del Dio d'Israele che con quegli atti annunciava e preparava la soluzione definitiva del problema del peccato del suo popolo e di tutti coloro che avrebbero creduto in Lui. In che modo questo è avvenuto? Tutto il Nuovo Testamento è lì per rispondere a questa domanda. In questa sede ci limiteremo a citare un autore ebreo del primo secolo d.C.
  «Secondo la legge, quasi ogni cosa è purificata con sangue; e senza spargimento di sangue non c'è perdono. Era dunque necessario che i simboli delle realtà celesti fossero purificati con questi mezzi. Ma le cose celesti stesse dovevano essere purificate con sacrifici più eccellenti di questi. Infatti Cristo non è entrato in un luogo santissimo fatto da mano d'uomo, figura del vero; ma nel cielo stesso, per comparire ora alla presenza di Dio per noi; non per offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote, che entra ogni anno nel luogo santissimo con sangue non suo. In questo caso, egli avrebbe dovuto soffrire più volte dalla creazione del mondo; ma ora, una volta sola, alla fine dei secoli, è stato manifestato per annullare il peccato con il suo sacrificio» (Ebrei 9:22-26). M.C.

  (Notizie su Israele, 21 luglio 2016)


Per le società israeliane conta solo la dimensione globale

Il segreto del successo? Parlare in inglese

di Jonathan Pacifici

Nella scuola in cui vanno le mie bambine a Gerusalemme si parlano almeno dieci lingue. Le mie sono trilingue: io parlo loro in italiano, mia moglie in francese e gli altri in ebraico. Sin dalla prima elementare, hanno iniziato a studiare l'inglese che sarà la loro quarta lingua, privando me e mia moglie dell'ultimo rifugio di privacy. Non sono diverse dagli altri. Hanno un'amichetta che parla ebraico, italiano e svedese, un altro che parla portoghese e inglese. In Israele si parla un numero impressionante di lingue e questo è più che un fenomeno antropologico: è uno strumento fondamentale nell'internazionalizzazione delle aziende israeliane. Come viene spesso ricordato, mentre altrove le società crescono e diventano da locali a multinazionali, in Israele o nasci multinazionale o non vai da nessuna parte. Il mercato interno è infatti ininfluente. Amdocs, il gigante del customer care e billing di Raanana, nel centro d'Israele, serve buona parte degli operatori telefonici internazionali. Oltre 2 miliardi di clienti finali. Ma anche le piccole start up ragionano in termini globali. Questo spiega in primo luogo un'enorme discriminante che c'è tra le start up israeliane e quelle che si vedono altrove.
 
  Quasi il 100 per cento delle start up israeliane si occupa di enabling technologies. Di tecnologie o servizi cioè che permetteranno di dare un servizio o un prodotto. Per capirci: ordinare pizze online in provincia di Caserta non è un'enabling technology. Creare la piattaforma per costruire siti (anche per ordinare le stesse pizze in provincia di Caserta), come hanno fatto i ragazzi di Wix.com, è un'enabling technology. Quando crei un'enabling technology, la crei per il mondo intero e spesso hai bisogno di persone che con questo mondo intero ci sappiano parlare.
  Israele è anche la patria dei più grandi siti online nel campo del gioco online e del forex, l'investimento sulle valute, e delle relative società tecnologiche. Molte di esse sono quotate in Borsa, come 888 o Playtech, presenti sul mercato di Londra.
  In un mondo sempre più interconnesso e globalizzato, la capacità di poter dialogare in tutte le lingue è una necessità, non un bonus. E' allora anche grazie alle lingue che Israele è diventato un vero hub globale. Ancora una volta, mi sembra che le radici di ciò siano molto antiche. Nel Medioevo, gli ebrei parlavano le lingue europee dei paesi nei quali vivevano, ma le scrivevano in caratteri ebraici. Erano un'isola di alfabetizzazione in un mondo largamente analfabeta. Ma era aleph-beth. Abbiamo, ad esempio, numerosi manoscritti in caratteri ebraici nei diversi dialetti dell'Italia medioevale. E' l'intersezione tra la lingua e il carattere ad aprire un mondo. Infatti è stato possibile per gli studiosi ricostruire la pronuncia di alcuni di questi dialetti proprio sulla base della trascrizione in caratteri ebraici, quasi fosse una sorta di Stele di Rosetta. L'altro pezzo della storia è il vero miracolo della resurrezione dell'ebraico come lingua corrente. Questo miracolo, operato da Eliezer Ben Yeuda, è ancora più evidente nella cacofonia delle lingue parlate per le strade di Tel Aviv e Gerusalemme.
  Oggi l'ebraico è un collante straordinario per il popolo ebraico in tutto il mondo. Ed è proprio in Israele che sorgono società come Babylon, il precursore dei dizionari online, Onehourtransaltions, uno dei leader mondiali nelle traduzioni umane online e Bablic.com (full disclosure, una delle nostre società di portafoglio) che consente di riprodurre qualsiasi sito in qualsiasi lingua in poche ore. L'apertura alle lingue è lo specchio di un'apertura mentale verso il diverso, verso l'altro. La Eyron di Ramat Gan è una delle società leader al mondo nell'adattare sistemi chiusi - come i software dei cellulari - in lingue non europee. Tradurre è un conto, cimentarsi con il senso di marcia inverso dell'ebraico e dell'arabo, da destra a sinistra, è un altro. Per non parlare delle lingue asiatiche. Più recentemente, Lexifone ha messo a punto un servizio di traduzione simultanea per telefonate internazionali. Io ho una marea di amici che non parlano altro che il loro dialetto, nemmeno l'italiano. L'Italia è piena di dirigenti che si sentono male quando parli di organizzare una conference call in inglese. Siamo nell'autarchia dell'ignoranza. L'italiano medio ha internet ma non ha modo di interagire con la quasi totalità del sapere, che è in altre lingue. Ha i film in lingua originale a disposizione ma da noi, si sa, il film si doppia. Non si capisce quanto questa ignoranza linguistica pesi sul sistema-paese Italia. E' un vero macigno sulla mancata internazionalizzazione delle nostre imprese e sulla crescita economica e culturale del Belpaese.
  C'è una foto a casa di mia nonna alla quale penso sempre quando si parla di lingue. Siamo poco dopo la guerra dei Sei Giorni e la Comunità ebraica riceve un giovane Shimon Peres nella bellissima casa dei miei avi. Nonno Fernando e nonna Mirella sono in conversazione con l'illustre ospite ma c'è un velo di insoddisfazione nell'espressione di nonno. Era nonna con il suo francese a intrattenere Shimon Peres. L'ignoranza linguistica è rimasta per lui una delle maggiori frustrazioni di una vita, altrimenti di gran successo. Dopo le leggi razziali nonno decise di provare a imparare l'inglese in vista di una possibile emigrazione. Fu rifiutato come studente proprio perché ebreo e quell'umiliazione rimase per lui, che pure nella guerra perse il fratello ad Auschwitz, come una delle maggiori ferite. Fu l'ultima cosa di cui parlammo, pochi giorni prima della sua morte, ma la sua voce è ancora con me: "Mi raccomando, le lingue! Impara le lingue!".

(Il Foglio, 21 luglio 2016)


Israele e Cisco firmano straordinario accordo strategico digitale

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e John Chambers, il Presidente di Cisco Systems Inc., leader nella fornitura di apparati di networking, hanno firmato un Memorandum per la cooperazione strategica che mira ad accelerare la digitalizzazione di Israele nel corso dei prossimi tre anni.
L'accordo è stato firmato alla presenza del Ministro per l'Uguaglianza Sociale Gila Gamliel e il Direttore Generale di Cisco Israel, Oren Sagi. La cooperazione si concentrerà sull'applicazione delle tecnologie digitali in tutto il settore pubblico, compresi sistema di istruzione, salute e lo sviluppo di città intelligenti. Oltre alla cooperazione, Cisco ha anche annunciato l'acquisto della startup israeliana CloudLock che sviluppa tecnologie di sicurezza per le applicazioni cloud aziendali, fornendo potenti soluzioni di sicurezza facili da implementare e semplici da gestire.
Nella prima fase della nuova partnership, Cisco ha comunicato un progetto in collaborazione con il Ministero per l'uguaglianza sociale e la Regione Eshkol del Negev. Il Negev orientale diventerà la prima regione completamente digitalizzata di Israele.
Come parte del progetto, Cisco creerà un centro digitale che offrirà numerosi servizi per migliorare la qualità della vita dei residenti della regione e porterà nuovi posti di lavoro per promuovere l'iniziativa.
Chambers ha sottolineato:
È un grande onore essere partner di questo paese, dei suoi cittadini e dei capi di governo di Israele, per questo cambiamento.
Sagi:
Cisco vede Israele come un mercato molto importante e uno dei leader mondiali in materia di innovazione e imprenditorialità, e quindi noi siamo uno dei centri più importanti per Cisco in tutto il mondo. Il progetto sul Negev, renderà l'area di Israele la prima regione digitale.
Fino ad oggi, Cisco ha investito 7 miliardi di dollari in investimenti diretti e indiretti in Israele. Cisco ha anche acquisito 11 aziende israeliane, investito in più di 30 startup made in Israel e in quattro fondi di venture capital.
(SiliconWadi, 20 luglio 2016)


Monte San Savino celebra 'Un matrimonio ebraico'

Un progetto del comitato per la Rete di Cultura Ebraica in Toscana, è questo il tema dell'evento in programma domenica 24 luglio a Monte San Savino

 
Sinagoga di Monte San Savino
MONTE SAN SAVINO — La Sinagoga e il teatro all'aperto faranno da sfondo ad evento programmato nell'ambito della rassegna del 'Festival delle musiche'. Un "inno alla vita" per celebrare l'antica presenza ebraica a Monte San Savino il cui programma si aprirà alle ore 19:00 presso l'antica Sinagoga di via Salomon Fiorentino con 'Il baldacchino nuziale' e le musiche tradizionali degli ebrei di Toscana.
«Si partirà dai locali della antica sinagoga dove celebreremo il rito della "chuppà", il baldacchino nuziale, con i canti della tradizione ebraica toscana - spiega Enrico Fink, direttore artistico della Rete di Cultura Ebraica in Toscana - poi un corteo di musicisti attraverserà il centro storico cittadino e accompagnerà "chattàn e kallà", sposo e sposa, fino allo splendido giardino del Palazzo Comunale e all'Anfiteatro dove tutti i partecipanti potranno partecipare al buffet preparato secondo le regole della cucina ebraica».
L'Orchestra Multietnica di Arezzo nasce nel 2007 da un percorso formativo, aperto alla partecipazione di musicisti italiani e stranieri e finalizzato alla conoscenza e all'approfondimento delle strutture di base delle musiche tradizionali delle aree del mediterraneo, per incrociarle con la tradizione italiana ed europea e predisporre un repertorio basato sulla contaminazione. Enrico Fink, musicista, attore, autore teatrale, è considerato uno dei principali interpreti della tradizione ebraica in Italia, mentre per quanto riguarda la presenza ebraica a Monte San Savino i primi documenti risalgono al 1626 attestando la concessione da parte del marchese Bertoldo Orsini agli ebrei Elia Passigli e Angelo Pesaro di aprire un banco di prestito e gestire altre attività mercantili. Esiste ancora oggi nel centro cittadino la via del piccolo quartiere ebraico, con la casa del rabbino e la sinagoga.
Infine i possessori del biglietto della mostra 'Andrea Sansovino profeta in patria' hanno il diritto all'accesso degli spettacoli a pagamento del Festiva del Festival Musicale Savinese a prezzo ridotto. Viceversa anche per i possessori del biglietto del Festival Musicale Savinese per la mostra 'Andrea Sansovino profeta in patria'.

(Qui News Valdichiana, 20 luglio 2016)


I tic e i cliché di un'opinione pubblica che non vuole guardare in faccia la realtà

Dove sono le manifestazioni di milioni di musulmani sconvolti e indignati per l'abuso della fede fatto dai loro correligionari?

Le azioni omicide in diversi paesi del mondo ad opera di individui islamici possono anche nascere da una combinazione di certe dinamiche familiari, disfunzioni personali e rivendicazioni politiche locali, ma ciò che prevale in queste azioni individuali è la convinzione condivisa dagli autori che esse, per quanto assassine, siano giustificate in nome dell'islam.
Noi in Israele siamo inorriditi, ma non sorpresi, di fronte al crescente numero, all'estero, di attacchi omicidi contro innocenti come quelli che noi subbiamo da fin troppo tempo. E mentre assistiamo alla duplicazione esatta di quelle atrocità al di fuori di Israele, constatiamo in modo sempre più acuto l'ipocrisia, l'ambiguità, soprattutto il pericolo che risulta dall'esplosione del terrorismo islamista, per quella che è, nel migliore dei casi, una lettura grossolanamente sbagliata di questo flagello del nostro tempo; e nel peggiore, una forma di condiscendenza, un chiudere gli occhi, quasi una condivisione che non può che perpetuare una realtà che nel futuro sarà sempre peggio....

(israele.net, 20 luglio 2016)


Più di 200 ebrei francesi migrano in Israele, ma il numero è in calo

Nel 2016 attesi in 5.000, problemi a trovare lavoro e alloggio.

ROMA - Andare in Israele per non rimanere vittima degli attacchi dell'Isis? E' sicuramente uno dei motivi che ha spinto alcuni dei 200 immigrati ebrei della Francia ad andare in Israele. Sono arrivati sventolando le bandiere dello Stato d'Israele.
"Quando hanno attaccato la sinagoga Rue de la Roquette per noi è stato qualcosa di mai visto. E poi abbiamo una bimba di 6 anni e così siamo qui", racconta questo immigrato.
La ministra dell'Integrazione israeliana Sofa Landver aggiunge: "Chiederò agli immigrati di fare uno sforzo comune: qui non vengono solo accolti, devono anche fare uno sforzo per facilitare la loro integrazione".
Circa 5.000 ebrei di Francia hanno in programma di andare in Israele nel 2016, una diminuzione di circa il 30% in confronto al 2015, secondo Daniel Benhaim, direttore dell'agenzia ebraica per Israele in Francia e presente all'aeroporto di Lod, nel centro di Israele, dove ha accompagnato il gruppo di 210 francesi.
La barriera linguistica, i problemi nel far riconoscere i diplomi, la difficoltà di trovare un lavoro e un alloggio sono i principali ostacoli dei francesi che decidono di emigrare in Israele. Dopo l'attacco al supermercato Kosher a Parigi il 9 gennaio 2015, il governo israeliano ha approvato un piano da 42 milioni di euro per favorire l'immigrazione degli ebrei di Francia, ma anche di Belgio e Ucraina, nel paese.

(askanews, 20 luglio 2016)


Droni, il Giappone tentato dall'offerta israeliana

TOKYO - Il Giappone intende acquistare una nuova generazione di droni per la sorveglianza aerea, ma si trova nella difficilissima posizione di dover scegliere tra una allettante offerta israeliana, e quella dello storico Alleato statunitense. Il ministero della Difesa giapponese, scrive il quotidiano "Asahi", guarda con estremo interesse alla tecnologia israeliana, ma la scelta naturale, per Tokyo, sarebbe quella di optare per la piena integrazione con i sistemi e le tecnologie impiegati dagli Stati Uniti, cui il paese è legato da una alleanza strategica. Il Global Hawk proposto dal Pentagono a Tokyo, però, è caratterizzato da costi di manutenzione e operativi elevatissimi. Di contro, Israele potrebbe fornire al Giappone apparecchi assai meno dispendiosi - gli Heron Tp di Iai - nell'ambito di un progetto di sviluppo congiunto, e porre a garanzia dell'affare l sua lunga esperienza nel campo dei velivoli a pilotaggio remoto (Uav). Tokyo è perciò molto tentata dalla "opzione" israeliana, ma come spesso accade teme le conseguenze diplomatiche di un rifiuto dell'offerta statunitense. Stando a fonti citate dal quotidiano giapponese, l'interesse di Tokyo per i droni israeliani è andato consolidandosi nell'arco degli ultimi tre anni, ed è culminato in un colloquio a porte chiuse tra un funzionario dell'Agenzia per le acquisizioni della Difesa giapponese, Toru Hocchi, e funzionari del ministero della Difesa israeliano, nel corso della rassegna Eurosatory 2016, tenutasi Parigi il mese scorso.

(Agenzia Nova, 20 luglio 2016)


Il video del 17enne afghano. "Colpirò la Germania"

Dopo l'assalto sul treno in Baviera lo Stato islamico festeggia: "Uno dei nostri". Era un profugo arrivato nel 2015. A Parigi arrestato tassista con degli esplosivi.

di Alessandro Alviani

 
Le sue parole: "Ora sono in mezzo a voi,
o infedeli, e con questo coltello io vi taglierò la
testa. E voi, fratelli miei, voi che siete impediti
di fare la Jihad nel nostro stato islamico, anche
voi, ognuno di voi, deve uccidere qui gli infedeli"
BERLINO - Il giorno dopo l'assalto di Muhammad Riyad, il 17enne afghano che con ascia e coltello ha seminato il panico su un treno nei pressi di Wurzburg, in Baviera, è arrivata la rivendicazione dell'Isis. «È un combattente dello Stato islamico», ha fatto sapere l'agenzia Amaq, vicina agli islamisti. Poco dopo la stessa Amaq ha diffuso un video che il giovane le avrebbe spedito prima dell'aggressione. «Sono un soldato del Califfato, compirò un attacco da martire in Germania», spiega in lingua pashtu il ragazzo, armato di coltello. Il filmato è con ogni probabilità autentico, ha detto alla tv Zdf il capo della cancelleria federale, Peter Altmaien.
   Gli inquirenti tedeschi sono convinti che il giovane fosse un lupo solitario. Si sarebbe radicalizzato da solo. La famiglia alla quale era stato affidato da luglio non si era accorta di nulla. «Era gentile e premuroso», ha detto la madre affidataria, che ha aggiunto di non aver visto la bandiera dell'Isis nella stanza del ragazzo. «Non c'erano stati segnali di radicalizzazione», ha aggiunto il procuratore capo Erik Ohlenschlager. Il ragazzo sarebbe rimasto scosso dalla notizia della morte di un amico in Afghanistan, che ha ricevuto sabato. In seguito ha fatto molte telefonate.
   Il 17enne era un sunnita credente, ma non andava regolarmente in moschea. Era arrivato in Germania nel giugno 2015 e aveva ottenuto a marzo il permesso di soggiorno. Non ci sono indizi di legami con l'Isis prima dell'ingresso in Europa. Nulla che potesse far pensare a un fanatico radicale. E invece, secondo gli inquirenti, avrebbe agito per vendicarsi di quello che gli «infedeli» hanno fatto ai suoi fratelli musulmani. «E ora prega per me, affinché possa vendicarmi su questi infedeli e possa andare in paradiso», ha lasciato scritto in una lettera indirizzata al padre. Durante l'aggressione indossava due magliette: su una ci sarebbero simboli che rimandano all'Isis.
   Il 17enne, che faceva un tirocinio presso una panetteria, è uscito lunedì alle 20 dalla casa di Ochsenfurt, vicino Wurzburg, in cui era ospitato presso la famiglia affidataria, spiegando che sarebbe andato a fare un giro in bici. È salito su un treno regionale per Wurzburg, si è chiuso in un bagno, ha tirato fuori l'accetta e il coltello che aveva nello zaino e si è scagliato contro i passeggeri, urlando «Allah Akbar» e ferendo alla testa e al corpo una famiglia di Hong Kong. Alle 21,13 una donna, che lavora nello stesso centro per rifugiati in cui il ragazzo viveva fino a due settimane fa e che si trovava per caso sullo stesso treno, ha chiamato la polizia. Dopo che un passeggero ha tirato il freno d'emergenza, il 17enne è balzato fuori dal treno. Durante la fuga ha attaccato una passante e l'ha ferita al volto. Poi si è nascosto in una sterpaglia e si è scagliato con l'accetta contro due agenti. I poliziotti hanno esploso 4 colpi, uno dei quali alla fronte, e l'hanno ucciso.
   Le autorità tedesche sono convinte che il 17enne abbia agito da solo. Un timore, quello del lupo solitario, che ieri è tornato a materializzarsi anche in Francia, dove gli agenti hanno trovato 4 candelotti di dinamite a casa di un tassista di 23 anni e sequestrato documenti che lasciano pensare a una radicalizzazione. Sempre in Francia, a Laragne, un 37 enne ha accoltellato una donna e le tre figlie in un villaggio vacanze.
   Nel frattempo Gilles de Kerchove, coordinatore Ue nella lotta al terrorismo, ha lanciato l'allarme sugli oltre 5.000 europei che sono andati in Siria e Iraq per combattere con l'Isis e che potrebbero rientrare ora in Europa per compiere attentati.

(La Stampa, 20 luglio 2016)


Nizza e Israele
   Articolo OTTIMO!


di Eva Ruth Palmieri

Quando Israele gridava aiuto e lanciava l'allarme per gli attentati suicidi tra i civili, compiuti da fanatici terroristi, gli fu risposto che gli attentatori non erano terroristi ma "resistenti all'occupazione", che se la sbrigasse da sola. Quando Israele metteva l'Europa in guardia dai pericoli dell'"ideologia malata del fanatismo terrorista", la risposta fu che andavano boicottati i prodotti frutto dell'"occupazione", che se la sbrigasse da sola.
Quando ci furono attentati tra i civili nei ristoranti, nei centri commerciali, e tra i civili inermi in Israele, il mondo girò la testa dall'altra parte, perché sarebbe stato sufficiente "mettere fine all'occupazione", che se la sbrigasse da sola. Quando Israele mostrò al mondo la ferocia di Hamas che festeggiava ogni morto ebreo, il mondo pensò che non li riguardava. Quando le stragi di civili avvennero con le stesse modalità della strage di Nizza, Israele fu lasciata sola. In risposta al silenzio del mondo sui suoi morti Israele ha aperto le sue porte a migliaia di ebrei francesi ed europei, lasciati soli dai propri governi. Ha continuato a credere e a promuovere la democrazia, a mantenere fermo il suo intento di restare un Paese inclusivo, democratico e multietnico, ha continuato da sola a credere nei valori universali della convivenza e a credere nella pace. Israele è stata abbandonata.
Davanti alla strage di Nizza, Israele ha dichiarato la propria vicinanza e solidarietà con il popolo francese, ha riaffermato la sua volontà di combattere insieme contro chi vuole annientare la Libertà, la Fratellanza, e l'Uguaglianza. E che il Male si sconfigge solo restando uniti. Trovate le differenze.

(L'Opinione, 20 luglio 2016)


14 ottobre 2015, in Israele infuria l’«intifada dei coltelli» e il mondo, tranquillo, osserva. Riflessioni.


"L'Europa è sotto attacco e non lo sa. Rinunci a Schengen o unisca i servizi"

L'analista israeliano Boaz Ganor, direttore dell'Istituto internazionale per l'Anti terrorismo: contro i lupi solitari collaborino i cittadini, serve un equilibrio tra democrazia e sicurezza, i terroristi vogliono cambiare la nostra società

di Francesco Olivo

Boaz Ganor
- Professor Ganor, come fa l'Europa a difendersi da questi lupi solitari?
  «Intanto serve prendere consapevolezza del fatto che l'Europa, specie quella centrale, è al centro di un'ondata di terrorismo e questo, peraltro, non è il picco. Bisogna che gli europei se ne rendano conto».

- Non ce ne rendiamo conto?
  «Non completamente».

- L'ondata di cui parla è caratterizzata dalle azioni dei cosiddetti lupi solitari, come a Nizza e suI treno tedesco?
  «Le tipologie di attacco sono fondamentalmente due: gli attacchi pianificati nei dettagli da gruppi organizzati e quelli di matrice indipendente, i lupi solitari. È evidente che l'intelligence, che lavora soprattutto intercettando le comunicazioni, è fondamentale nel primo caso e molto meno nel secondo».

- Come ci si difende dai lupi solitari?
  «Bisogna formare i corpi di polizia e convincere le società europee che facendo attenzione a quello che ci circonda ogni giorno si possono sventare molti attentati».

- Non si rischia di creare psicosi? Gli europei dovranno rinunciare ai diritti civili?
  «I rischi esistono. La grande sfida del nostro tempo è trovare un equilibrio tra democrazia e sicurezza. L'obiettivo del terrorismo è proprio cambiare il nostro modello politico e sociale».

- Se è vero quello che dice, che senso ha fare la guerra all'lsis in Siria e in Iraq?
  «Resta fondamentale. Perché anche i lupi solitari si ispirano alle azioni dell'Isis. Quindi colpire lo Stato islamico significa contrastare l'arma della propaganda».

- Il lavoro dell'intelligence è meno utile di un tempo?
  «No, perché gli attentati pianificati continuano a essere molti, pensiamo al Bataclan, a Bruxelles o all'aeroporto di Istanbul».

- C'è un modello che l'Europa può seguire?
  «Israele: una democrazia liberale che ha sviluppato sistemi efficaci per difendersi».

- Dove sbaglia l'Europa?
  «II vostro continente ha un grande problema: Schengen ha abolito le frontiere. Così, se c'è uno Stato debole, come nel caso del Belgio, i problemi ricadono su tutti gli altri».

- Quindi l'unica strada è abolire un trattato che è stato simbolo dell'Unione?
  «Un'alternativa esiste. Se l'Europa, legittimamente, non vuol rinunciare a Schengen, allora l'unica strada è uniformare le intelligence, così da compensare le debolezze di alcuni degli Stati membri».

- L'attentato di Nizza sarebbe potuto accadere in Israele?
  «No. L'attentatore sarebbe stato fermato molto prima. Nel giorno in cui si celebra l'indipendenza un camion che prima sosta in una zona chiusa, poi supera i varchi dicendo alla polizia di portare dei gelati avrebbe destato sospetti non solo negli agenti, ma anche nelle persone comuni».

(La Stampa, 20 luglio 2016)


Il grande assalto islamista all'Europa assuefatta. Forum

Intellettuali americani su un continente che chiede solo di "morire in pace". Parlano Thornton, Weigel, Berman e Novak.

di Giulio Meotti

ROMA - "Non riesco a cancellare dalla mia memoria le esplosioni dei due aerei che si schiantano contro le Torri gemelle di New York e la perdita di vite americane a Washington, tra cui quella di una mia cara amica, la giornalista Barbara Olson". Si apre così, legando gli 84 morti di Nizza ai tremila americani, la conversazione con il Foglio di Michael Novak, filosofo, politologo ed ex ambasciatore americano al Consiglio dei diritti umani di Ginevra. "Mai quanto oggi, dalla Seconda guerra mondiale, l'occidente è stato senza guida. Ma in occidente, il fuoco della libertà arde nel cuore. E quando gli occidentali ne hanno avuto abbastanza, alcuni hanno cominciato a soffiare sulla brace facendo ardere di nuovo la brace. Non è l'ora di questo 'abbastanza'? Sta agli occidentali decidere se vivere liberi o cadere prostrati. E' sempre possibile che gli occidentali spengano la propria luce interiore. Ma soltanto loro possono farlo". Già, che destino ha di fronte l'Europa e come ci siamo arrivati? Ne parliamo con quattro fra i massimi intellettuali americani.

Bruce Thornton
"Oggi non c'è alcuna volontà politica di fare la guerra all'Isis", dice al Foglio Bruce Thornton, docente di Studi classici alla California State University, affiliato al pensatoio di Stanford, la Hoover Institution, liberale straussiano autore di "Greek Ways: How the Greeks Created Western Civilization" e di "Bonfire of Humanities". "Richiederebbe centomila soldati, il massiccio bombardamento per eliminare i jihadisti, l'abbandono di regole di ingaggio che privilegiano le vite del nemico alle nostre, essere in grado di rispondere alla critica globale sulle vittime civili, aumentare la sorveglianza e le deportazioni e chiedere pubblicamente che le comunità musulmane in occidente sconfessino il jihadismo e la sharia". Ma secondo Thornton, al di là dei mezzi da dispiegare, è culturale l'afasia. "Il prestigio dell'occidente è a brandelli, perché i nostri alti ideali sono visti come debolezza dai jihadisti e come segni di corruzione religiosa e mancanza di qualsiasi altro bene superiore che non sia il nostro piacere. Non scompariremo in guerra, ma noi e i nostri figli, supponendo che ne avremo ancora, passeremo attraverso una lenta erosione della nostra libertà e cederemo sempre più della nostra civiltà al Califfato".
Bruce Thornton ritiene che la democrazia possa non farcela, come ha appena detto Michel Houellebecq dal palco di Collisioni a Barolo. "Il jihadismo in Francia sta prendendo piede", sostiene l'autore di "Sottomissione". "I jihadisti, come ci dicono da secoli, vogliono tornare alla gloria dell'islam, quando l'Europa tremava di fronte agli eserciti di Allah", prosegue Thornton. "Il loro obiettivo è il discorso d'addio di Maometto: combattere gli uomini fino a che non diranno che 'non c'è altro dio che Allah'. Naturalmente capiscono che non possono raggiungerlo militarmente. Ma possono realizzarlo con un'erosione della nostra volontà in modo che cediamo sempre di più della nostra civiltà al controllo musulmano. E' questo il 'Grande Jihad', come i Fratelli musulmani lo chiamano, e questo è a buon punto, specie in Europa". Possono vincere? "Non se provocano una reazione di tutti quei milioni di europei derisi dalle élite europee, gli 'xenofobi', i 'fascisti'. Non se questi sapranno eleggere leader che ridaranno vigore alla politica estera, investiranno nella difesa, celebreranno i successi della civiltà occidentale e smetteranno di compiacere i musulmani. La domanda è: questa reazione eroderà le fondamenta liberali dell'occidente, una volta che il genio sarà uscito dalla bottiglia? Noi occidentali dobbiamo fare come Churchill dopo la Conferenza di Monaco, quando disse di 'sollevarsi e riprenderci la libertà come ai tempi antichi'".
Potrebbe l'Europa sopravvivere a un disimpegno americano, avviato da Obama e minacciato anche da Trump? "Solo se ricordasse la propria gloriosa storia e cultura, smettendo di fare i 'pigmei militari', come ha detto il capo della Nato Lord Robertson", continua al Foglio Bruce Thornton, classicista della California State University. "Sotto Obama, gli Stati Uniti hanno tagliato la spesa militare, revocato la leadership da tutto il mondo, e perseguito una politica estera basata sulla debolezza, il tutto incipriato con il pensiero magico dell''impegno diplomatico', gesti futili che il nemico giudica a ragione come un segno di debolezza e paura. Lo scopriremo nei prossimi anni se la maggioranza dei cittadini statunitensi vuole essere come l'Europa. In tal caso, chi andrà a sostituire gli Stati Uniti come il custode dell'ordine globale? La Russia? La Cina? In questo momento l'occidente piagnucola, tiene veglie per i morti e piange invece di mostrare la rabbia giusta. Chi si ricorda di Charlie Hebdo? Abbiamo appena cambiato canale".

 
Paul Berman
Non è d'accordo Paul Berman, intellettuale della New Left, autore di "Terrore e liberalismo" (Einaudi). Berman parla di Obama. "Ci sono due presidenti", dice Berman al Foglio. "Quello di giorno che scrive discorsi e si presenta in termini pensati per non suscitare emozioni o aumentare le aspettative di nessuno. Quando invia messaggi in Europa, Obama lo fa come se fosse il presidente del Paraguay. Egli vuole bene all'Europa. Ma Obama capisce che l'America è abbastanza forte per assorbire i colpi, e il resto del mondo dovrà cavarsela. Ecco perché, quando la Francia subisce una atrocità terroristica, il giorno dopo Obama manda le condoglianze a Hollande, invece di inviare rassicurazioni pubbliche al popolo francese. Buona fortuna, amici!".
Vi è poi un Obama notturno: "Non ha alcuna relazione con la personalità umile e schiva del giorno. La notte Obama è il capo della Cia dagli occhi freddi. Egli ordina attacchi militari in molti più paesi rispetto a George W. Bush. I suoi droni assassinano capi terroristi dal nord Africa al Pakistan. Sarebbe facile immaginare un altro presidente americano che faccia di più, e a mio avviso sarebbe bene. E tuttavia la campagna militare contro lo Stato islamico sembra aver compiuto progressi significativi, visibili in Iraq e Siria, e forse anche in Libia. Perché Obama non rende la sua personalità timida di giorno conforme a quella aggressiva di notte? Non riesco a spiegarlo, se non supponendo che, nel profondo del suo cuore, Obama sia in conflitto e che abbia risolto il conflitto interiore vivendo una doppia vita. La sua doppia vita ha creato una percezione sbagliata per cui l'America sembra intenzionata a ritirarsi dall'Europa e dal mondo. Il ritiro non sta avvenendo. Quindici anni dopo l'11 settembre, siamo ancora nel bel mezzo della lotta. Obama ha commesso l'errore di permettere che le proprie confusioni diventassero visibili. Ma l'alleanza occidentale ha sconfitto il fascismo, ha sconfitto il comunismo, e alla fine sconfiggerà gli islamisti".

George Weigel
Anche secondo George Weigel il problema dell'occidente è nel comprendere chi ha di fronte. "La mancanza di volontà di nominare questa minaccia per quello che è va considerata parte del problema della incapacità dell'occidente di affrontare la minaccia con successo, sconfiggendola", dice al Foglio Weigel, acclamato biografo di Karol Wojtyla e considerato uno dei più influenti e ascoltati intellettuali cattolici degli Stati Uniti. "Se l'occidente non è disposto ad affrontare il fatto che è stato il ritiro della propria potenza militare da Iraq e Afghanistan ad aver creato il vuoto da cui è emerso il veleno dell'Isis, non ci sarà risposta soddisfacente alla minaccia islamista o alla crisi dei rifugiati che paralizza l'Europa. Il presidente Obama, naturalmente, ha la responsabilità maggiore per questo ritiro e per il conseguente vuoto riempito dall'Isis, e ciò che è ancora peggio è stata la sua mancanza di volontà di imparare dagli errori". Dieci anni fa, Weigel fu uno dei primi a inquadrare il conflitto interno all'Europa nel best-seller "La cattedrale e il cubo". Dove il Cubo è La Grande Arche de la Défense, l'edificio voluto a Parigi da Mitterrand come monumento alla laicità, mentre la Cattedrale è quella cattolica di Notre-Dame.
"Quando ho provato a discutere di questi problemi morali e culturali con gli europarlamentari a Bruxelles, mi è stato detto, in poche parole: 'Non venire qui a provocare, sappiamo che siamo finiti, ma preferiamo morire in pace'", continua Weigel al Foglio. "Questo messaggio mi ossessiona fin da allora. Se l'Europa e l'occidente in generale ridurranno la libertà a mero arbitrio personale - la 'Repubblica del Me' - allora non c'è motivo di pensare che andremo a resistere con successo alla sfida esistenziale posta dai jihadisti dell'islam. O a risolvere i nostri molteplici problemi. O a invertire un inverno demografico auto-indotto. Sarebbe utile che i leader della chiesa cattolica in tutta l'Europa occidentale si concentrassero su tali questioni piuttosto che perdere tempo a stabilire la morale sessuale cattolica e l'etica del matrimonio. La crisi morale della civiltà in Europa è, in fondo, una crisi di un secolarismo inacidito in un nichilismo e in uno scetticismo che alla fine producono ciò che il cardinal Joseph Ratzinger ha chiamato nel 2005 la 'dittatura del relativismo'. La decadenza spirituale e intellettuale, a quanto pare, è invalidante per la civiltà come la decadenza materiale".
Secondo Weigel, il problema è anche ormai una incapacità europea nel giustificare una eventuale guerra al terrore islamista. "L'occidente ha bisogno di giustificare i propri impegni verso la democrazia liberale. Questo è il presupposto assoluto per la difesa della democrazia liberale. E sembra ormai chiaro che la licenziosità nelle sue varie forme non fornisce tale giustificazione. La visione biblica della persona umana e quella della società umana sono tra i fondamenti culturali dell'occidente e, a meno che non venga recuperata, l'occidente è nei guai. Stiamo andando verso un periodo molto difficile. La mancanza di leadership politica in tutto l'occidente - e certamente includo gli Stati Uniti in questa accusa - è assolutamente spaventosa. Abbiamo bisogno di una figura come quella di Giovanni Paolo II per recuperare le parti più nobili del nostro patrimonio culturale, compreso l'impegno per la tolleranza e il pluralismo, e quindi ricostruire le democrazie su basi forti. Democrazie che sanno che possono e devono sconfiggere l'islamismo terrorista".

 
Michael Novak
Più ottimista l'altro intellettuale cattolico di fama, Michael Novak: "Ricordiamo come questi eventi sono iniziati", dice al Foglio. "Nel 631, gli eserciti di Maometto con la loro nuova religione guerriera stavano convertendo il mondo intero con la forza. Damasco, Beirut, Gerusalemme, Alessandria, Il Cairo, Tunisi, Casablanca, Toledo, Navarra… In meno di cento anni, le truppe di Maometto avevano conquistato l'intera sponda meridionale d'Europa, attestandosi a Poitiers, in Francia. L'Europa ha avuto il coraggio di combattere sotto la guida di Carlo Martello. Da allora in poi, per centinaia di anni, le navi musulmane sono scese nell'Europa meridionale e lungo tutta la costa d'Italia. L'Europa è stata lenta a reagire anche allora. La volontà, la morale e la tecnologia superiore hanno dato all'occidente le brillanti vittorie difensive a Malta (1565), Lepanto (1571), e poi a Vienna (1683). Solo allora una lunga pace è scesa sul Mediterraneo. No, noi occidentali non siamo 'condannati'. Abbiamo i mezzi e le conoscenze per difendere ciò che amiamo. Abbiamo la libertà. Quello che ci manca è un leader. E' un grande vuoto. Quando gli Stati Uniti depongono le armi, l'occidente è senza leader. Solo gli Stati Uniti hanno il potere di correre il rischio. Quale altra nazione ha il potere di farlo?".
Novak incolpa il welfare state europeo per la demoralizzazione diffusa. "Senza la libertà, l'esistenza umana è inutile, vuota, il nulla. Come Franklin Roosevelt ha previsto nel 1935, uno stato sociale eccessivo snerva milioni di cittadini. Diventano assuefatti a prendere, mai a dare; a ricevere passivamente, senza creare. Diventano sempre più dipendenti dagli altri, meno responsabili, incoraggiati a vivere una mezza vita". Ma Novak non crede affatto che in occidente siamo più "decadenti" rispetto ai musulmani. "Vedo molte prove del contrario. Una civiltà superiore non ispira terrore, non usa la conversione forzata, non mette il coltello alla gola di persone di altre religioni dicendo loro: 'Convertitevi o morirete'. Queste possono essere perversioni dell'islam; ma non sono certamente ragioni per rivendicare una virtù morale superiore". Secondo Michael Novak, il nerbo che l'occidente ha perso è culturale: "Gli eserciti romani dell'antichità non erano cristiani, ma erano coraggiosi, audaci, avevano fiducia nel significato della loro civiltà, nella ragione e nella legge. Al contrario il nostro 'illuminismo' non può sopportare la realtà di essere giudicati se non per se stessi. L'unico modo per sbarazzarsi del giudice è quello di sbarazzarsi del giudizio, cioè, di trasformarlo nella perdita di significato: il nichilismo. Sulla base del nichilismo, come Albert Camus ha sottolineato, il nazismo era giustificato e quindi i crimini del comunismo. Il nichilismo, il relativismo, questi sono la resa dell'occidente. Questi sono l'ammissione di inutilità dell'occidente".
Molte volte, il cristianesimo è venuto in soccorso dell'Europa in crisi. Saprà farlo di nuovo? "In Italia lo fece nel prevenire la vittoria del comunismo nelle elezioni degli anni Quaranta; in Russia lo fece quando Stalin riaprì le chiese e aperto la strada al potere interiore delle vecchie donne con i loro libri di preghiere; nei monasteri benedettini che sorsero in Italia e hanno salvato i grandi classici di Atene e di Roma riproducendo centinaia di manoscritti che altrimenti sarebbero andati perduti. E senza Giovanni Paolo II, il Grande, come avrebbe potuto il comunismo essere pacificamente cacciato via dalla Polonia? Non è necessario diventare cristiani al fine di riconoscere i nostri debiti verso la fede cristiana. Tutto ciò che serve è l'onestà. Come quando la cristianità è andata in soccorso dell'Italia sopraffatta dalla flotta turca, con la vittoria a Lepanto, che ha evitato che la lingua italiana venisse sostituita da quella turca".

(Il Foglio, 20 luglio 2016)


A Brescia un concerto per gli ottant'anni dell'orchestra Filarmonica di Israele

L'orchestra fu tenuta a battesimo da Arturo Toscanini nel 1936.

ROMA - Brescia celebra l'ottantesimo anniversario della Fondazione della Filarmonica di Palestina, ora filarmonica di Israele, che nel 1936 venne tenuta a battesimo nel concerto inaugurale diretto da Arturo Toscanini, con un concerto dell'orchestra Filarmonica della Franciacorta, diretta dal maestro statunitense - per la prima volta in Italia - James Feddeck, al Teatro Grande il 9 settembre prossimo, alle ore 20.
L'iniziativa è patrocinata dall'ambasciata israeliana in Italia, dalla Regione Lombardia, Provincia di Brescia, Città di Brescia, e sostenuto dal ministero del Turismo dello Stato ebraico.
I legami tra Toscanini e il popolo ebraico sono profondi. Nel 1933 il grande direttore d'orchestra fu infatti il primo firmatario di un telegramma indirizzato a Hitler per protestare contro il bando ai musicisti ebrei che erano stati esclusi dalle orchestre tedesche. Pochi giorni dopo aver ricevuto quel telegramma, Hitler invitò personalmente il Maestro affinché tornasse a dirigere al Festival di Bayreuth, ma Toscanini rifiutò. Nel 1936, invece, accolse molto volentieri l'invito a dirigere i primi concerti della neonata Orchestra di Palestina (oggi Filarmonica di Israele), formata interamente da musicisti ebrei che erano stati costretti a lasciare l'Europa. Toscanini pose una sola condizione: sarebbe andato, ma a proprie spese e senza alcun compenso. La presenza di Toscanini fu un eccezionale lancio per la nuova orchestra. Nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia, il Maestro volle dare un nuovo segno di vicinanza al popolo ebraico. Tornò a dirigere l'orchestra che aveva fatto nascere. In questa occasione, per la prima (e ultima) volta l'orchestra eseguì musiche di Wagner.
L'evento "Toscanini e gli ottant'anni della Filarmonica di Israele (1936-2016)" sarà presentato domani, nel corso di una conferenza stampa ospitata a Palazzo Broletto, a Brescia, cui prenderanno parte, fra gli altri, Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo di Milano e Emiliano Facchinetti, presidente dell'Orchestra Filarmonica della Franciacorta.

(ANSAmed, 20 luglio 2016)


L'università israeliana interessata a Prato, si parte con una summer school

Prato, contatti tra il sindaco Matteo Biffoni e il rettore della Shenkar University Yuli Tamir per unire formazione teorica ed esperienze di lavoro nelle aziende tessili

Il sindaco Biffoni durante l'incontro con la Shenkar University
Il sindaco Biffoni con la rappresentante della Shenkar University
PRATO - La buona esperienza di altre università straniere come la Monash University, la posizione strategica nel cuore della Toscana, la possibilità di unire formazione ed esperienza nelle aziende studiando da vicino le imprese del distretto pratese. Sono questi i principali motivi di attrazione che Prato può offrire agli studenti che decidono di trascorrere un periodo della loro carriera accademica in Italia e questi sono anche i punti di forza che hanno convinto l'israeliana Shenkar University a guardare con interesse a Prato.
Martedì 19 luglio il sindaco Matteo Biffoni , in missione in Israele e Palestina con Anci Toscana, ha incontrato Yuli Tamir, rettore della Shenkar, Leah Peretz, direttore del dipartimento di fashion design, Katya Oicherman, direttore del dipartimento di design tessile e Esther Wynhorst, direttore dell'ufficio internazionale. L'università, con sede a Ramat-Gan (Tel Aviv), è punto di riferimento per le sue facoltà di ingegneria e design, specializzata in particolare nel tessile.
   Questo incontro segue quello avuto dal sindaco Biffoni e dall'assessore all'Università Daniela Toccafondi un mese fa con l'ambasciatore israeliano in Italia che ci aveva anticipato l'interesse della Shenkar a inviare i propri studenti a Prato: "Un interesse confermato oggi qui in Israele, soprattutto per la possibilità di unire un percorso di formazione con l'esperienza diretta nelle nostre imprese, eccellenza del settore tessile - sottolinea Biffoni a margine dell'incontro -. Per questo l'università israeliana sta valutando di iniziare con una summer school già nel 2017, per poi sviluppare ulteriormente la propria presenza a Prato se l'esperienza sarà positiva. Prossimamente ci confronteremo quindi con le categorie economiche del settore per poter dare gambe a questa possibilità di collaborazione".
   Con il sindaco Biffoni era presente anche il direttore del Pin Enrico Banchelli: il Polo ha infatti il compito, per conto del Comune di Prato, di attrarre università straniere sul territorio. "L'attenzione di una nuova università per Prato è sicuramente un fattore di grande interesse - ha concluso il sindaco - sia per le partnership che possiamo creare con altri Paesi, sia perché la presenza di studenti stranieri contribuisce a rendere Prato una città giovane, dinamica e più conosciuta all'estero per le bellezze che può offrire".
Durante la missione in Palestina e in Israele il sindaco Matteo Biffoni e il direttore di Anci Toscana Simone Gheri ha incontrato i sindaci palestinesi e quelli israeliani. Le iniziative sono sostenute dal Protocollo Anci-Regione, per integrare e dare continuità al lavoro svolto dagli altri attori toscani, in particolare il progetto Paden (Peace And Developing Networking), che sostiene lo sviluppo locale in Palestina e Israele, favorendo il rafforzamento del ruolo di governo del territorio e delle capacità di programmazione delle amministrazioni municipali mediorientali, con la collaborazione della società civile locale.

(Il Tirreno, 20 luglio 2016)


Quei soldati messi alla gogna. Quando il potere umilia gli sconfitti

di Pierluigi Battista

Umiliazione
Il rito dell'umiliazione dei vinti non è un residuo arcaico liquidato dalla modernità
Esibizione
La gogna oggi si fissa in un'immagine, una foto, un video, un selfie, di sopraffazione esibita

Quei corpi ammassati e denudati di ufficiali puniti da Erdogan perché considerati golpisti. Che poi forse non è neanche vero che lo siano stati. Chissà. Un autocrate non ha bisogno di prove, come in uno Stato dove prevale il diritto, per schiacciare il suo popolo con il pugno di ferro e per inventarsi colpe mai commesse eppure da espiare come segno di feroce vendetta, di spietata rappresaglia.
   Però, se si pensava che il rito dell'umiliazione sul vinto fosse oramai un residuo arcaico liquidato dalla modernità, il ricordo di un passato buio, tramontato come quello strumento di materiale sevizia, quella composizione oscena di ceppi di legno con tre buchi e chiusi come una cerniera attorno al collo del reprobo chiamata «gogna», dobbiamo purtroppo ricrederci. Perché la gogna oggi si fissa in un'immagine, una foto, un video, un selfie, di sopraffazione esibita. Nel calpestare la dignità dello sconfitto. E troppo di frequente: nella Bosnia martoriata dalle milizie dei carnefici serbi con quelle colonne di esseri umani oramai diventati scheletri semoventi. Nell'Iraq in cui i «liberatori» hanno sottoposto il dittatore Saddam Hussein all'umiliazione di un prigioniero ispezionato, violato, deriso. A Donetsk dove i separatisti filorussi hanno fatto sfilare in catene i soldati ucraini lealisti, laceri, sporchi, sbeffeggiati e riempiti di sputi dalla popolazione aizzata dall'odio. Troppo, troppe volte. In Turchia adesso: un potere violento che fa dei corpi degli sconfitti tanti patetici manichini da dileggiare, impaurire, ostentare come monito e minaccia.
   Non è lo scempio dei cadaveri degli sconfitti raffigurato una volta per sempre dal corpo straziato di Ettore trascinato nella polvere da un furibondo Achille. Non è quella escrescenza terrificante delle guerre in cui a piazzale Loreto hanno prima i potenti fascisti di allora esibito i partigiani impiccati, e poi come crudele legge del contrappasso, sono stati scempiati i corpi a testa in giù di Mussolini e di Claretta. E non è nemmeno una di quelle fotografie disgustose dell'Alabama dei primi decenni del Novecento in cui i bianchi orribili del Ku Klux Klan si felicitavano spudoratamente sotto i corpi dei due neri che penzolavano senza vita dal ramo di un albero. No, qui sono corpi vivi e però umiliati, messi in mostra, esibiti, portati sul palcoscenico per essere esposti al pubblico ludibrio. Il rito dell'umiliazione di un pugno di soldati americani senza onore che nel carcere di Abu Ghraib, in Iraq, si divertivano a mostrare i prigionieri terrorizzati, nudi, ammucchiati in pose degradanti, con un cane lupo che abbaiava per vedere i prigionieri paralizzati dal panico. Il rito della degradazione pubblica che in quello stesso Iraq, ma stavolta sotto il tallone d'acciaio di un dittatore sanguinario come Saddam Hussein, fu messo televisivamente in scena durante una riunione del gruppo dirigente del partito Baath quando i «traditori» presunti venivano chiamati uno ad uno ad alzarsi sotto lo sguardo severo del despota e farsi trascinare nella più vicina prigione per essere giustiziati senza processo.
   Il potere che umilia, calpesta, priva di dignità chi deve subire in silenzio la gogna e l'umiliazione. Come quelle migliaia e migliaia di «borghesi», professori, intellettuali, maestri, musicisti, costretti a sfilare durante la Rivoluzione culturale in Cina con cartelli appesi al collo e in testa un cappello con le lunghe orecchie da somaro, mentre nugoli di Guardie Rosse fanatizzate e sotto il comando degli alti papaveri del partito maoista insultavano le loro vittime. Come i controllori del campo di internamento di Coltano a pochi chilometri da Pisa che dopo il 25 aprile tennero segregato in una «gabbia del gorilla», esposto come un «animale nello zoo» scrisse una volta Truman Capote, il poeta Ezra Pound, reo di aver tradito la patria americana sostenendo alla radio l'azione del nemico Mussolini. Come gli ufficiali giapponesi, proprio loro che avevano trattato con una brutalità inimmaginabile i loro prigionieri, che venivano fotografati e immortalati mentre l'imperatore, spogliato dei suoi attributi divini, annunciava la resa disonorevole per il suo popolo. Come i processi farsa dell'epoca di Stalin in cui gli imputati torturati confessavano i delitti più inverosimili.
   Residui arcaici, tracce di un passato che nell'antichità contemplava la gogna dei prigionieri costretti a sfilare sotto il giogo, faceva pronunciare lo spietato «Guai ai vinti», costringeva gli sconfitti a trascinarsi nell'orrore delle forche caudine. La lettera scarlatta del disonore, la colonna infame del linciaggio. Purtroppo ancora attuale. A Istanbul, adesso. In Italia quando le Brigate Rosse esibivano le immagini dei prigionieri umiliati, Taliercio, Moro, Roberto Peci ammazzato per punire attraverso di lui il fratello «pentito». Il rito dell'umiliazione, della degradazione, l'ultimo sigillo di un potere spietato e senza controlli.

(Corriere della Sera, 20 luglio 2016)


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