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"Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico"
Con questo titolo è di prossima uscita un libro che sarà presentato dall'associazione evangelica EDIPI in occasione suo prossimo Raduno Nazionale a Milano del 2-3 giiugno 2017. La presentazione sarà fatta da Marcello Cicchese, che ne ha scritto la prefazione. Ne riportiamo qui alcuni estratti.
«Questo libro racconta la storia di un ebreo che si è convertito a Cristo. Formulata così, una frase simile provoca immediatamente due reazioni di tipo opposto: di accoglienza gioiosa fra i cristiani e di repulsione disgustata fra gli ebrei. Tenuto conto che per secoli cristianesimo ed ebraismo sono stati vissuti come due campi teologicamente e socialmente contrapposti, il passaggio di qualcuno da un campo all'altro, sempre nella stessa direzione, è stato considerato un tradimento dagli ebrei e una vittoria dai cristiani.
La storia di cui si parla in questo libro si svolge in modo diverso. Un ebreo russo, un vero ebreo di famiglia e tradizione, si converte a Cristo, come tanti altri prima di lui, ma il contesto dei due campi contrapposti in cui questo avviene è fortemente scosso in modo inusuale. E' bene dunque avvicinarsi a questo libro con curiosità e disponibilità a ripensare e mettere in discussione, se necessario, schemi mentali forse ben collaudati perché provenienti da una lunga tradizione, ma non adatti a capire l'imprevedibilità dell'agire di Dio.
Joseph Rabinowitz (1837-1899) è un nome pressoché sconosciuto in Italia. Nasce a Rezina, un piccolo paese della Bessarabia, attuale Moldavia, da genitori appartenenti entrambi a famiglie rabbiniche. Da ragazzo fu affidato per la sua formazione a uno zio materno, un pio e zelante ebreo appartenente ai chassidim, un devoto movimento ebraico molto diffuso a quel tempo nell'Europa dell'Est. Joseph imparò dallo zio a conoscere ed amare la Torà e il Talmud, ma durante l'adolescenza si familiarizzò anche con gli scritti di Moses Mendelssohn, famoso esponente dell'illuminismo ebraico e nonno del compositore Felix Mendelssohn Bartholdy. Le idee dell'ebraismo riformato fecero breccia nella mente vivace del giovane, e come lui stesso dichiarò in seguito, la chiarezza del pensare logico lo fece risvegliare dal sogno talmudico in cui era cresciuto. Pur essendo nato in una famiglia di rabbini e cresciuto in un ambiente chassidico, dall'età di 19 anni Rabinowitz diventò dunque un ebreo "illuminato", cioè aperto al mondo esterno, alla sua cultura e ai suoi costumi.
Il passaggio dallo chassidismo al libero pensiero potrebbe essere detta la prima conversione di Rabinowitz. Fu in questo periodo di travaglio che ricevette dalle mani di un altro ebreo, che in seguito diventerà suo parente, un Nuovo Testamento nell'edizione tradotta in ebraico dal noto teologo ed ebraista protestante Franz Delitzsch. Non si sa di preciso che cosa ne fece Rabinowitz negli anni seguenti, ma è quasi sicuro che nella sua nuova apertura mentale lo abbia letto, almeno in parte, se non altro per il desiderio di accrescere le sue conoscenze. E' certo comunque che non se ne distaccò mai, anche se per molti anni non diede alcun segno di essere stato convinto o influenzato dal suo contenuto.
Era un ebreo illuminato, ma ben presto arrivò a capire che le luci del progresso non avrebbero fugato le tenebre dell'odio contro gli ebrei: i pogrom che si susseguivano nell'Impero russo ne erano una continua e drammatica conferma. Rabinowitz allora non abbandonò il suo popolo, per cercare soluzioni personali ai suoi problemi. Al contrario, proprio la sua apertura mentale e la sua cultura lo spinsero a cercare per i suoi fratelli una via d'uscita dalla misera situazione in cui si trovavano, e si adoperò affinché questo avvenisse. Anche lui, come Herzl ma prima di lui, era "torturato" dal pensiero di trovare la soluzione della "questione ebraica".
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Torniamo allora al momento della sua suggestiva conversione a Gerusalemme. "Sul Monte degli Ulivi ho trovato Gesù" scrisse Rabinowitz a un suo amico qualche anno dopo. E tuttavia, quando Franz Delitzsch lesse la bozza della sua autobiografia gli fece notare che non aveva scritto nulla sul momento della sua conversione. Rabinowitz disse soltanto che la cosa era intenzionale. Perché questa reticenza? La storia di Gesù nei Vangeli dovrebbe far capire che in certi casi anche i silenzi parlano, ma chi non ha orecchie per udire non intende neanche quelli. Chi ascolta il racconto di una conversione spesso è desideroso di sentire quello che già si aspetta, che ha già sentito dire da altri, che forse lui stesso ha detto quando "ha dato la sua testimonianza". Probabilmente Rabinowitz aveva capito che se avesse detto in modo chiaro e preciso tutto quello che aveva sperimentato in quell'occasione, e soltanto quello, molti cristiani avrebbero detto che la sua non era una vera conversione.
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Un uditore di uno dei pochi racconti che Rabinowitz fece della sua esperienza riporta per iscritto alcune parole: "«Improvvisamente una frase del Nuovo Testamento, che avevo letto 15 anni prima senza prestarvi attenzione, trafisse il mio cuore come un raggio di luce: 'Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi' (Giovanni 8:36)». Da quel momento la verità che Gesù è il Re, il Messia, l'unico che salva Israele, prese forza sulla sua anima. Profondamente commosso, tornò immediatamente al suo alloggio, afferrò il Nuovo Testamento, e mentre leggeva il Vangelo di Giovanni fu colpito da queste parole: '... senza di me non potete fare nulla' (Giovanni 15:5). In questo modo, per la provvidenza di Dio Onnipotente, fu illuminato dalla luce del Vangelo. 'Yeshua Achinu' (Gesù nostro fratello) rimase da allora lo slogan, con cui ritornò in Russia."
La formula "Gesù nostro fratello" caratterizzò immediatamente la forma in cui la fede di Rabinowitz si manifestò in pubblico nei primi tempi. In ambito cristiano era indubbiamente nuova; qualcuno la trovò interessante, altri la criticarono, perché sembrava svalutare la grandezza del Signore Gesù. Quel "nostro" evidentemente si riferiva agli ebrei, e questo poteva apparire riduttivo ed esclusivo a chi non è ebreo. Qualcuno poi fece notare a Rabinowitz che non basta confessare Gesù come figlio di Davide, Messia e redentore d'Israele, bisogna riconoscere in Lui l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. A questo Rabinowitz arrivò molto presto; infatti le sue predicazioni in seguito conterranno sempre pressanti inviti al ravvedimento e alla fede in Gesù per il perdono dei peccati. Ma questo aspetto della salvezza per fede in Gesù, pur essendo fondamentale, non fu il primo a toccare Rabinowitz: come prima cosa per lui ci fu l'inaspettata scoperta dell'amore di Gesù per il suo popolo. Era venuto a Gerusalemme per trovare il modo in cui aiutare gli ebrei di Russia ad uscire dalla miseria senza vie d'uscita in cui si dibattevano, e non lo trovò. Ma trovò Gesù. Era venuto per alleviare le sofferenze dei suoi fratelli ebrei, e nel momento in cui disperava di poterlo fare trovò il "nostro fratello Gesù". Questo gli aprì la mente e il cuore, rendendolo attento a tutte le parole di Gesù, anche quelle che all'inizio non l'avevano colpito, cioè la sua morte, la sua risurrezione e il perdono dei peccati per tutti coloro che credono in Lui. Pochi anni dopo la sua conversione ebbe a dire: "Per prima cosa ho onorato Gesù come grande essere umano con cuore compassionevole, poi come colui che ha desiderato il bene del mio popolo, e alla fine come colui che ha portato i miei peccati".»
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Kai Kjaer Hansen, "Joseph Rabinowitz, il Theodor Herzl del movimento messianico", traduzione di Fiorella Ghirlanda, revisione di Nicla Costantino, ed. The New Thig - Padova, maggio 2017 - pp. 304, €25,00.
In offerta a 20 euro al Raduno di EDIPI a Milano.
(Notizie su Israele, 19 maggio 2017)
Oliverio scrive a Franceschini per riavere in Calabria il primo libro stampato in ebraico
di Giovanni Durante
Fu sicuramente il Sud Italia ad ospitare le prime comunità della diaspora ebraica conseguente alla distruzione del Tempio di Gerusalemme - 70 DC - sotto l'imperatore romano Tito. I primi ottomila ebrei difatti giunsero in Puglia già pochi anni dopo il triste evento e qui operarono alcune delle maggiori personalità del mondo rabbinico, come ad esempio Shabbetai Donnolo, medico, alchimista e astronomo medievale nato ad Oria, nel brindisino e morto a Rossano in Calabria.
Ma è a Reggio Calabria - quindi nella nostra regione - che spetta il primato di aver dato alle stampe il 18 febbraio del 1475 la prima opera in lingua ebraica - si tratta del saggio scritto dal rabbino francese Salomone Isaccide, il "Commento al Pentateuco" - stampata nella Giudecca della città dello stretto presso la bottega di Avrhaham ben Garton, tipografo reggino di origine tedesca, grazie ai finanziamenti dei commercianti di seta ebrei della città.
Una scoperta che si deve alla ricerca di Giovanni Bernardo De Rossi, presbitero, orientalista e bibliografo piemontese, docente alla Facoltà Teologica di Parma dal 1769 al 1821, descritta nel suo "Dizionario storico degli autori ebrei e delle loro opere", edito dalla Reale Stamperia di Parma nel 1802. L'opera venne poi citata anche nella "Storia di Reggio Calabria" di Domenico Spanò Bolani e nelle "Memorie delle Tipografie Calabresi " di Vito Capialbi
Dopo la scoperta del De Rossi, il volume, insieme ad altri importanti documenti della cultura ebraica in Italia, venne infatti acquistato nel 1816 da Maria Luigia d'Austria per donarla alla Regia Bibliotheca Parmense, città dove ancora oggi si trova esposto. Il suo valore ammonterebbe a circa un milione di euro, giacché ne esiste una sola copia.
Una scoperta eccezionale se si pensa che Gutenberg aveva stampato la prima Bibbia in latino, in Germania, nel 1450, cioè appena un quarto di secolo prima.
Un opera che però non si trova in Calabria, circostanza che ha spinto il presidente della Regione Calabria, Mario Oliviero a chiederne il ritorno al ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. Sarebbe intenzione del governatore Oliviero inserire questo ritorno nell'ambito di un progetto per il rilancio della presenza storica degli ebrei in Calabria, territorio che presenta numerose mete di interesse turistico e culturale, come i resti della grande sinagoga di Bova Marina, le numerose giudecche a Lamezia Terme, Nicotera e Vibo Valentia.
(MediterraneiNews, 19 maggio 2017)
Roma - Gerusalemme show e meeting per i 50 anni da città riunita
L'evento
"Rallegratevi con Gerusalemme e giubilate in essa, o voi tutti che l'amate", esortava il profeta Isaia. Si celebrano martedì 23 ai Mercati di Traiano i 50 anni della città riunificata con la serata "Yom Yerushalaim, suoni e luci di Gerusalemme sotto il cielo di Roma", che marca un simbolico incontro nel segno delle parole e della musica tra due città "al centro del mondo". Il programma coordinato da Eyal Lerner comincia alle 21 con la proiezione del cortometraggio "Jerusalem" di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini, seguita da uno spazio musicale con il Coro Nizzanim dei bambini degli Asili israelitici Rav Elio Toaff e il Coro Ha-Kol, e dalla danza col maestro Mario Piazza e lo spettacolo Yerushalaim Golden Roots degli studenti dell'Accademia Nazionale. In chiusura performance live di liana Yahav, l'artista della sabbia che crea scene spettacolari con le dita.
Programma
Per quanto nota al mondo, Gerusalemme, specialmente in Italia è poco conosciuta. Se ne parla per la cronaca, per il conflitto arabo israeliano sul riconoscimento dei luoghi sacri, quasi mai per raccontare la convivenza tra religioni ed etnie diverse. È per questo che l'unione delle Comunità ebraiche italiane e la Comunità di Roma insieme con l'Ambasciata d'Israele in Italia e con l'associazione Chevrat Yehudei Italia hanno messo in piedi un ricco programma nell'anniversario della liberazione di Gerusalemme, avvenuta con la Guerra dei sei giorni nel giugno '67.
Le celebrazioni continuano mercoledì 24 alle 21 e sabato 27 alle 22 al "Pitigliani" in via Arco de' Tolomei con Gerusalemme nel cinema.
Infine domenica 28 "Gerusalemme: dalla cima del Monte Scopus: da Einstein all'hi-tech", su scienza e cultura. L'incontro sulla Hebrew University con Hillel Bercovier, moderato da Viviana Kasam presidente di BrainCircle Italia: ci sarà l'ambasciatore di Israele Ofer Sachs. Nel pomeriggio "Gerusalemme nelle pagine del Talmud" con i rabbini Riccardo Di Segni e Gianfranco Di Segni, modera Clelia Piperno.
In serata proiezione del film inedito: "Ben Gurion, Epilogue" di Yariv Mozer, presentato da Ariela Piattelli, direttrice artistica del Pitigliani Kolnoa Festival.
(Il Messaggero, 19 maggio 2017)
La festa dei Giudei a San Fratello
di Mario Avagliano
L'antigiudaismo ha profonde radici nella cultura occidentale. Lo testimoniano, fra l'altro, feste popolari che si celebrano tuttora in Italia, come la "Festa dei Giudei", che ogni anno anima il bel borgo di San Fratello, in provincia di Messina.
In quel borgo, in occasione della Pasqua cristiana, si tiene un corteo nel quale i giovani del paese indossano sgargianti costumi, di colore giallo e rosso, ricamati di perline, impersonando "i giudei che percossero e condussero Gesù al Calvario". Così vestiti, con urla e suoni di tromba, essi cercano di irridere e disturbare il dolore dei cattolici per la passione di Cristo.
I figuranti "giudei" hanno un cappuccio in testa, come quello che la Santa Inquisizione obbligava ad indossare a gruppi di ebrei durante le rappresentazioni della settimana santa per ridicolizzarli e identificarli come simboli del male e del demonio.
Il rito nasce probabilmente nel Medioevo, nel Trecento, quando in varie città spagnole, soprattutto quelle dove erano presenti le più importanti comunità ebraiche, come Barcellona, Girona e Valencia, a seguito delle celebrazioni del venerdì santo si verificavano atti di violenza, ai limiti del linciaggio, nei confronti degli ebrei, considerati responsabili della morte di Gesù.
I cosiddetti "disordini pasquali" erano frequenti anche in città italiane, con saccheggi, danneggiamenti e sassaiole contro gli ebrei e i loro beni. Appena un secolo dopo, nel marzo del 1492, i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, emanarono due editti per l'espulsione degli ebrei rispettivamente dalla Spagna e dalla Sicilia. A San Fratello tra il 16 e il 18 aprile, si ripete quel corteo. A chi in passato ha protestato contro la festa, è stato risposto che si tratta soltanto di una tradizione popolare.
Sarà. Ma puzza di antiche persecuzioni. E non mi piace.
(Nuovo Monitore Napoletano, 18 maggio 2017)
Israele-Usa: funzionari d'intelligence a confronto
GERUSALEMME - Ron Dermer, ambasciatore d'Israele negli Stati Uniti, e funzionari di intelligence israeliani hanno condotto da martedì colloqui con la Casa Bianca e gli operatori d'intelligence statunitensi per determinare se e quali informazioni sensibili condividere, dopo le polemiche per la presunta condivisione di informazioni riservate da parte del presidente Usa, Donald Trump, con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. Un funzionario israeliano citato dal quotidiano "Haaretz" ha riferito che Israele intende concludere il confronto con gli statunitensi prima della visita ufficiale di Trump a Israele, la prossima settimana. Secondo l'alto funzionario, Gerusalemme auspica che il problema venga chiarito al livello di lavoro di intelligence tra i due paesi, senza sconfinare nell'ambito del confronto tra i vertici politici dei due paesi. Stando ad "Haaretz", Trump ha chiamato al telefono il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, martedì scorso, dopo la pubblicazione delle indiscrezioni sul colloquio Trump-Lavrov da parte della stampa Usa; la Casa Bianca non ha reso nota la chiamata. L'ufficio di Netanyahu ha chiarito ieri che al centro della conversazione vi è stata soltanto la visita dell'inquilino della Casa Bianca nello Stato ebraico, nei prossimi giorni.
(Agenzia Nova, 18 maggio 2017)
«A Gerusalemme tutto è pronto per l'ambasciata americana»
Il sindaco Barkat si aspetta l'annuncio del trasferimento da Tel Aviv il 22 maggio, in occasione della visita di Trump.
di Marco Venlura
GERUSALEMME - Sposterò l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme» aveva promesso Donald Trurnp prima di essere eletto. E il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, 57 anni, imprenditore high tech amante dell'Italia (sua moglie Beverly, pittrice, espone alla Biennale di Venezia), candidato alla leadership del Likud dopo Benjamin Netanyahu, prende The Donald in parola. «Credo e penso che Trump annuncerà il trasferimento dell'ambasciata nella prossima visita in Israele, il 22 maggio. Quale occasione migliore!».
- Nessun ripensamento da parte di Trump?
La decisione è stata presa decenni fa dal Congresso americano e mai messa in pratica. Credo e spero che questa volta il presidente non abbia esitazioni. Meglio tardi che mai. Trump è un negoziatore, probabile che voglia concedere qualcosa ai palestinesi per addolcire la decisione.
- Che cosa?
Se i palestinesi sono svegli si concentreranno sulla crescita economica, nell'interesse loro e di tutto il Medio Oriente. C'è un nesso evidente tra benessere economico e stabilità.
- Nessun problema a spostare la rappresentanza?
Il consolato americano si trova già nel cuore della città. Basta cambiare la targa, insediare l'ambasciatore e pian piano spostare i servizi da Tel Aviv a Gerusalemme. Sbaglia chi vuole rendere complicata una cosa semplice.
- Non ha paura che il trasferimento scateni nuove violenze?
L'ondata di violenze un anno e mezzo fa non aveva ragione. In Medio Oriente la violenza può avere tutte le ragioni o nessuna. Noi dobbiamo fare ciò che è giusto per assicurarci che la violenza non paghi. Questo gesto sarebbe un riconoscimento molto chiaro di Gerusalemme come capitale del popolo ebraico. È giusto così. A Gerusalemme basta infilare una sonda nel terreno e si trovano radici ebraiche fino a 3000 anni fa.
- In gennaio ha autorizzato nuovi insediamentì a Gerusalemme Est...
Quando il popolo di Israele arrivò dall'Egitto, dove era in schiavitù, le 12 tribù si distribuirono ovunque, ma a nessuna fu assegnata Gerusalemme. È scritto nella Bibbia che Gerusalemme rende tutti amici. Questa città deve restare aperta e inclusiva, con libertà di religione, movimento, pensiero, parola ... Siamo la sola democrazia in Medio Oriente, l'unico posto in cui i cristiani si sentano al sicuro. Non come in Siria, Egitto, nella stessa West Bank. Come città divisa, Gerusalemme non funzionerebbe.
- Allora perché dividere, autorizzando nuovi insediamenti?
Immagini di essere il sindaco di Roma. Non accetterebbe mai che nella sua città vi fossero alcune aree solo per ebrei o musulmani o neri o cinesi. Questo è illegale a Gerusalemme, come lo sarebbe a Roma o in qualsiasi altra città europea. Io non interferisco nelle compravendite, in Israele non c'è discriminazione.
- Ma per i palestinesi voi occupate la loro terra ...
Terre occupate ... Ma da chi? Dai giordani? Dagli inglesi? Dai turchi? Gerusalemme è ebraica più di qualsiasi altra città. Legalmente non è occupata. Infatti non li definisco coloni, ma residenti che hanno come chiunque il diritto di acquistare un terreno e una casa, secondo la legge.
- Sindaco, come si rende sicura una città come Gerusalemme?
Questa è la bellezza e l'unicità. Qui convivono musulmani ed ebrei, ebrei secolari e ultra ortodossi. Gerusalemme ha tutte le differenze che si possano immaginare. E se non ci fossero perderemmo qualcosa. Il mio compito è assicurare un compromesso sociale che permetta di vivere sotto il tetto di una stessa città.
- Come ci riesce?
Su 900 mila residenti, gli arabi sono più di un terzo. Per la maggioranza persone per bene che vogliono una vita pacifica, buona istruzione per i figli, buoni servizi sanitari. Ma c'è chi è violento. Gerusalemme ha la migliore polizia e la migliore intelligence del mondo. Lavoriamo con la maggioranza della popolazione contro i cattivi. La nostra filosofia è quella di essere buoni con i buoni e molto cattivi con i cattivi.
- Tutto qui?
Quando c'è un attacco terroristico, in tutto il mondo la gente scappa via, mentre noi corriamo verso il luogo dell'attacco. La responsabilità degli uni verso gli altri deriva dal servizio militare ed è fortissima a Gerusalemme. Superiamo subito l'emergenza. In Europa chiudete le strade per giorni, noi le riapriamo in un'ora. Perché i cattivi non I devono influenzare la nostra vita. Non vogliamo farci errorizzare né cambiare i nostri programmi. E chiunque li aiuti deve sapere che pagherà un prezzo altissimo.
- Fino a spianare le case dei familiari?
Liberi di pensare diversamente. La nostra filosofia è che chi li aiuta è cattivo quanto loro. Noi diciamo: non cercate di cambiare il modo in cui viviamo. E poi, suggerirei ai nostri amici europei di non usare mai contro il terrorismo l'esercito, ma come noi la polizia. Trattare un problema di ordine pubblico come emergenza militare è esattamente ciò che vogliono i terroristi.
- Usate anche molto la tecnologia ...
Io sono un imprenditore nel settore dell'high tech. Per difenderci da eserciti molto più numerosi del nostro dobbiamo essere più intelligenti, più coraggiosi, più uniti. La mia start-up nel 1988 aveva quattro soci. lo e mio fratello venivamo dall'esercito, i! terzo era uno dei migliori decrittatori dell'Intelligence, il quarto aveva scritto il programma per le riprese dagli aerei oltre le linee nemiche. L'eccellenza, stare sempre tre passi avanti, per noi è questione di vita o di morte.
(Panorama, 18 maggio 2017)
L'ambasciata americana in Israele resta a Tel Aviv
Il presidente Donald Trump escluderebbe per ora l'ipotesi di uno spostamento dell'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Lo afferma un funzionario della Casa Bianca, spiegando che si tratta di uno sforzo per non provocare i palestinesi. Trump sarà in Israele la settimana prossima e incontrerà il premier israeliano Benjamin Netanyahu e, a Betlemme, il presidente dell'autorità palestinese Abu Mazen.
(La Stampa, 18 maggio 2017)
Mossad furioso, Netanyahu no. Israele si divide
Gerusalemme si interroga sulle relazioni con gli Usa alla vigilia della visita. Il governo Netanyahu ribadisce il legame speciale con Washington
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - In Israele ci si preoccupa, qualcuno laggiù dalle parti di Raqqa forse a causa delle rivelazioni di Trump sta rischiando la vita o è già stato fatto fuori; forse mesi, anni di lavoro sono andati in fumo, forse il rapporto fra i servizi segreti israeliani e americani, essenziale per tutto il mondo, porterà i segni di una ferita. E questo avviene alla vigilia della visita di Trump in Medio Oriente che inizia il 22, la sua prima uscita, una visita caricata di aspettative sia dall'amministrazione americana sia da Israele. Israele adesso discute sulla credibilità, sulla prevedibilità dell'interlocutore tanto atteso, mentre l'opposizione che punta a un fallimento della visita, spara a zero. Ma da parte del governo si tace e si placano le acque: è impensabile, dice il commentatore militare Allon Ben David che i rapporti fra Israele e gli Usa si sciupino per questo.
La storia è nota: il New York Times ha riportato che all'origine dell'informazione ultrasegreta che Donald Trump ha rivelato al ministro degli esteri Sergej Lavrove all'ambasciatore russo Sergey Kyslyak la settimana scorsa c'è Israele. Ovvero: Trump avrebbe rivelato durante uno scambio di informazioni sulla guerra contro lo Stato Islamico, che una fonte israeliana riporta che l'Isis ha intenzione di fare esplodere arei americani introducendo esplosivo nel laptop. Perché l'ha detto? Tutti dicono la loro: per vantarsi, perché ancora gli sfuggono le regole della segretezza, perché i russi sono per Trump molto importanti. Come è uscita fuori la faccenda? Perché negli Stati Uniti, dopo la cacciata di James Comey certo è immaginabile una vendetta che viene da dentro l'Fbi e punta all'impeachment. Una vicenda più complicata nei rapporti Usa-Israele non avrebbe potuto essere escogitata neppure dallo sceneggiatore di House of cards. L'ambasciatore israeliano a Washington Ron Dermer ha riaffermato la totale fiducia nello scambio di informazioni con il partner americano, e la speranza di approfondirlo durante la visita; Netanyahu ieri ha parlato al telefono 20 minuti con il presidente americano e ha fatto sapere che non si è discusso affatto della vicenda, ma solo del programma della visita. Anche Putin ha cercato di calmare le acque negando la storia e dicendo di avere una registrazione dell'incontro.
Si dice che il Mossad fumighi di rabbia. Un ex capo di questa organizzazione, Shabtai Shavit, spiega che per costruire un polo di informazione in una situazione come quella di Raqqa ci vuole un lavoro di anni; che forse l'informazione non proviene da persone ma da un sistema elettronico che adesso potrebbe venire individuato. È logico, dice Shavit, che si informi l'interlocutore interessato, come gli Usa minacciati nei loro aerei. Oltretutto se io dico una cosa a te tu ne dici una a me: esiste, fra Stati amici, un indispensabile mercato. Ma se colui che ha ricevuto la notizia intende passarla a una terza parte, è legge indispensabile che si chieda il permesso a chi ha fornito l'informazione originale. Se non lo fa, la fiducia si incrina. Secondo Haaretz, catastrofista e anti Netanyahu, quindi anti successo della visita, il disastro potrebbe essere triplo: la messa a rischio della fonte; la messa in forse della possibilità di prevedere i prossimi attacchi terroristi; e il rischio che la Russia, ormai informata, usi quel che sa per passarlo al suo alleato iraniano. Pessimista? Gesti di boicottaggio ce ne sono stati già diversi, fra cui una dichiarazione di un funzionario del governo americano che ha detto che Trump non si decideva a spostare l'ambasciata a Gerusalemme perché Netanyahu gli aveva segretamente fatto sapere di non gradirla. Falso: Netanyahu ha ribadito con tutto il cuore di non desiderare altro.
Ma intanto l'altra ombra è legata al formato che avrà la visita di Trump al Muro del Pianto, in Città Vecchia: visita privata? Da solo? Con gli israeliani, a ribadire che Gerusalemme deve restare unita come capitale d'Israele? Non si sa ancora. Però si sa che Trump ha un atteggiamento di fondo positivo, amichevole, e che fa la sua prima visita proprio qui. Non è poco, dato i precedenti obamiani.
(il Giornale, 18 maggio 2017)
In Israele la prima smart road che ricarica i veicoli elettrici
Israele è uno stato in rapida espansione, soprattutto dal punto di vista tecnologico. Proprio lì sono nate alcune delle start-up che oggi sono tra i punti di riferimento per quanto riguarda la guida autonoma e la mobilità elettrica: un esempio su tutti è Mobileye. Il progresso, però, non si ferma alle auto e a Cesarea, a nord di Tel Aviv, hanno pensato di rivoluzionare anche le infrastrutture, creando una smart road capace di ricaricare i veicoli elettrici che la percorrono.
11 chilometri entro il 2018
Electroroad, questo il nome della società che creerà la prima strada intelligente nei dintorni di Tel Aviv, ha ideato un particolare sistema di ricarica induttiva da integrare nell'asfalto, così da permettere ai mezzi elettrici di ricaricarsi viaggiando. Niente di nuovo, visto che prototipi di strade con queste caratteristiche sono stati già realizzati. Qui, però, per la prima volta questa tecnologia avrà un impiego reale. Nei prossimi mesi verrà infatti realizzato un tratto, della lunghezza di 800 metri, sulla strada tra la città di Eilat e l'aeroporto internazionale di Ramon, posizionando degli elettromagneti nell'asfalto che interagiranno con delle placche di rame montate sotto a bus e altri mezzi di trasporto, alimentandoli induttivamente.
Finanziamenti governativi
Dietro al progetto di Electroroad c'è il governo israeliano che, tramite il ministro dei Trasporti, ha stanziato un fondo di 120 mila dollari (107.644 euro, al cambio attuale) per la realizzazione del primo chilometro di strada sul quale provare l'effettivo funzionamento del sistema. Se tutto andrà secondo i piani e l'impianto di ricarica si dimostrerà affidabile, Electroroad avrà i permessi necessari per la realizzazione della prima smart road, della lunghezza complessiva di 17 km.
Presto anche in Europa
Electroroad ha già nei propri piani un'espansione oltre i confini israeliani. La società ha già parlato con diversi enti governativi, anche in Europa. Tra questi vi sono la Francia, la Spagna, la Svezia e la Germania oltre agli Stati Uniti d'America.
(Quattro Ruote, 18 maggio 2017)
Addio a Goldenberg, l'ebreo narrante che fece di Bartali "Gino il Giusto"
Nel giorno in cui la carovana rosa omaggia Ginettaccio nella sua Ponte a Ema arriva la notizia della morte dell'ultimo testimone, il salvato che ha permesso allo Yad Vashem di "riconoscere" il campione.
di Adam Smulevich
Può confermare quanto mi ha appena detto con una testimonianza scritta?». «Certo, è davvero il minimo che possa fare». Dicembre 2010: la grande memoria corre sul filo della cornetta tra Firenze e Kfar Saba (Israele). All'altro capo del telefono c'è Giorgio Goldenberg, allora 78enne di origine fiumana che ha appena finito di raccontare una storia incredibile, mai svelata. La storia di come Gino Bartali nascose lui, la sorellina e i genitori in un suo appartamento in via del Bandino, nel quartiere Gavinana. La testimonianza decisiva, la prima giunta direttamente da un salvato, per fargli tributare il riconoscimento di Giusto tra le nazioni da parte dello Yad Vashem. L'intervista a Goldenberg viene pubblicata su "Pagine Ebraiche", il mensile dell'Ucei. Pochi giorni e Giorgio, aiutato dai suoi cari e da Nardo Bonomi, un esperto di genealogia che ci ha messi in contatto, si reca a Gerusalemme per dare ufficialità ai suoi propositi. Il fascicolo Bartali aperto in quella sede alcuni anni prima dall'insegnante Angelina Magnotta si arricchisce di un nuovo fondamentale capitolo nella strada verso il riconoscimento (che arriverà nel settembre del 2013). Giorgio purtroppo non c'è più. È accaduto poche settimane fa, all'improvviso. Era l'ultimo testimone oculare di quei giorni drammatici, l'ultimo a poter affermare «È stato Gino a salvarmi». Una perdita gravissima, in una primavera segnata da tanti impegni per ricordare quello che Bartali fece per i perseguitati (ebrei e non) dal regime nazifascista. Contributo quanto mai attuale come ricordano le numerose iniziative delle scorse ore, più o meno direttamente collegate alla tappa del Giro d'Italia che ieri ha reso omaggio a Ginettaccio partendo dalla sua Ponte a Ema (ad imporsi sul traguardo di Bagno di Romagna lo spagnolo Omar Fraile, che ha battuto in volata i compagni di fuga Rui Costa e Volland, la maglia rosa resta a Tom Dumoulin). Era un uomo straordinario, Giorgio Goldenberg. Veniva da Fiume, città in cui non è quasi più tornato: troppo forte il dolore, il ricordo dell'infanzia spezzata. A Firenze era arrivato grazie al padre Giacomo, che nel momento del bisogno non aveva esitato a mettersi in contatto con un vecchio amico su cui sapeva di poter contare: Gino, appunto. «Ci serve una mano, puoi aiutarci?» Bartali annuì, non ci pensò più di un attimo, pur consapevole del pericolo che già lo aveva sfiorato più volte nei suoi viaggi in bicicletta per portare documenti contraffatti tra Firenze e Assisi. Con la fine della guerra, per Giorgio ebbe inizio una nuova vita nel nascente Stato di Israele. Lo raggiunse in nave, partendo dal Sud Italia insieme a centinaia di altri giovanissimi. Tutto è in salita nella nuova patria, tutto va costruito da zero o quasi. Ma Giorgio è un inguaribile ottimista, ne ha già viste tante nella sua breve ma tormentata esistenza, sa che non bisogna mai arrendersi di fronte alle avversità. Al suo fianco, fino all'ultimo respiro, l'amata Mina. Ad accompagnarlo anche una radicata consapevolezza: «Tutto quello che ho, a partire da una famiglia meravigliosa, lo devo anche a Gino».
(Avvenire, 18 maggio 2017)
A Tel Aviv e Haifa il Leonardo di Finazzer Flory
TEL AVIV - Il genio di Leonardo, icona mondiale dell'Italia, è andato in scena ieri sera al Jaffa Theater di Tev Aviv grazie allo spettacolo diretto ed interpretato da Massimiliano Finazzer Flory. Sul palcoscenico hanno così preso forma il Leonardo della scienza e della tecnologia con le sue macchine, i suoi studi sull'acqua: un mix che ha sempre affascinato Israele, paese dall'hi-tech all'avanguardia e innamorato di un personaggio alla continua ricerca del nuovo. Ma anche - come ha mostrato lo spettacolo, con sovra titoli in inglese, realizzato grazie al sostegno dell'Ambasciata italiana e degli Istituti di cultura italiana di Tel Aviv e Haifa (dove è stato rappresentato il 16 maggio al Museo delle scienze) - la bellezza del Bel Paese raffigurata da Leonardo in opere inestimabili e senza tempo. Il tutto esaltato da una scenografia scenica digitale attraverso la proiezione delle principali, scoperte, invenzioni di Leonardo in rapporto alla natura, all'ambiente che ne hanno fatto il primo eco-designer della storia. Lo spettacolo racconta la biografia di Leonardo ripercorrendo in lingua rinascimentale, i principali avvenimenti e temi della sua vita, della sua arte e della sua poetica: dall'infanzia alle sue attività in campo civile e militare, su come si fa a diventare "bono pittore"" sul rapporto tra pittura e scienza, pittura e scultura, pittura e musica. Il Leonardo di Finazzer Flory - ha sottolineato l'Istituto di Tel Aviv - commenta "il Cenacolo e le figure degli apostoli, accenna al suo rapporto con la religione, parla della Milano dell'epoca e dell'Uomo di Vitruvio, affronta il tema dell'acqua in tutte le sue molteplici forme, risponde agli attacchi dei nemici passati e presenti, indica e spiega i moti dell'animo, offre profezie sul volo dell'uomo e infine dispensa sentenze e concede aforismi per vivere il nostro tempo".
(ANSAmed, 18 maggio 2017)
Alla scoperta del ghetto ebraico di Firenze
Visite guidate per un viaggio nella memoria
Un piccolo viaggio nella memoria, un'occasione per scoprire i luoghi e la storia della comunità ebraica a Firenze. Costruito per volere di Cosimo de' Medici nel 1571 e demolito fra il 1888 e il 1898,1'antico ghetto ebraico fiorentino sarà infatti al centro di due appuntamenti promossi dalla Sinagoga e dal Museo ebraico di Firenze per oggi (ore 17) e domenica 21 maggio (ore 11), in collaborazione con CoopCulture. il ghetto occupava un' area centrale della città, delimitata dall' attuale piazza della Repubblica (allora del Mercato Vecchio), via Roma, via del Campidoglio e via Brunelleschi. Una sorta di città murata alla quale si accedeva attraverso due porte, e che racchiudeva al suo interno anche due sinagoghe. Gli ebrei ci rimasero fino alla metà del Settecento, quando gli fu permesso di trasferirsi anche in altre zone della città. Con Firenze capitale ne fu poi deciso 1'abbattimento per fare spazio a piazza della Repubblica. Non tutto il patrimonio del ghetto però è andato perso. Parte del materiale lapideo è conservato nei cortili del Museo Archelogico, che è una delle tappe del tour dopo la partenza dal Tempio di via Farini Il percorso termina in piazza della Repubblica e in via delle Oche.
(la Repubblica - Firenze, 18 maggio 2017)
Sindacati antisemiti
La più grande confederazione della Norvegia boicotta Israele. E i poveri lavoratori qatarioti e sauditi?
di Giulio Meotti
ROMA - Non più un boicottaggio mirato dei prodotti che Israele fa uscire dai territori post 1967, La Confederazione norvegese dei sindacati, la più grande della Norvegia, al congresso ha approvato la messa al bando totale di tutto ciò che proviene dallo stato ebraico, E' un voto senza precedenti e di non poca rilevanza, considerato che questo sindacato rappresenta un milione di lavoratori, un quarto di tutta la forza lavoro della democrazia scandinava, 193 voti a favore del boicottaggio, 117 contrari. "E' una risoluzione immorale che affonda nel doppio standard verso lo stato ebraico", ha detto l'ambasciatore israeliano a Oslo, Raphael Schutz. Facendo notare che i sindacati hanno anche chiesto lo smantellamento della barriera antiterrorismo eretta da Israele, Schutz ha affermato che "adottando queste posizioni il sindacato si allea ai peggiori nemici di Israele", Pure il governo norvegese, non certo simpatetico verso Israele, è dovuto intervenire, affermando che Oslo non approva la risoluzione e di essere a favore della "cooperazione e del dialogo", Il paese dei fiordi e del Nobel per la Pace, oltre a lenire le ferite del Terzo mondo, è molto impegnato a delegittimare Israele, Mesi fa, la terza città della Norvegia, Trondheim, ha votato per il boicottaggio di beni e servizi israeliani. Una città "deisraelizzata", come ci sono i comuni denuclearizzati in Italia.
Ma sono i sindacati di tutta Europa ad avere non pochi problemi di antisemitismo e di pregiudizio nei confronti di Israele, L'Irish Congress of Trade Unions ha approvato il boicottaggio d'Israele, come il Trade Union Congress in Inghilterra e lo Unite, il più importante sindacato britannico con un milione e mezzo di iscritti. Negli anni, contro Israele, si sono schierate quasi tutte le grandi sigle del lavoro nel Regno Unito, dagli insegnanti agli architetti persino, fino alla Transport and General Workers Union (900 mila membri), Molto attiva in Francia la Confédération générale du travail, una delle più importanti sigle,
che si è persino schierata per il rilascio di Marwan Barghouti, il leader palestinese della Seconda Intifada, che sconta cinque ergastoli per la partecipazione a diversi attentati. In Germania, il boicottaggio è ufficialmente partito nella città di Oldenburg, quando il sindacato degli insegnanti ha votato contro i colleghi dello stato ebraico, Stessa modalità in Spagna, dove cinque sindacati in Galizia, a cominciare dalla Uniòn general de trabajadores, hanno votato per boicottare Israele, Il sindacato francese della Cgt scuola ha rotto le relazioni con l'Histadrut, il sindacato israeliano, Il Congresso dei sindacati scozzesi ha votato per il boicottaggio di Israele, così la Fédération Autonome Collégial, sindacato di insegnanti del Québec, In Italia, sigle sindacali come la Fiom e i Cobas hanno firmato l'appello di trecento organizzazioni per il boicottaggio di Israele in Europa.
Quanti diritti fra Marrakech e Islamabad?
E' naturale l'impegno internazionale dei sindacati. Ma anziché boicottare Israele, l'unica democrazia nella mezzaluna che va da Marrakech a Islamabad, dove i lavoratori israeliani e arabi stanno benissimo e i palestinesi godono di paga e diritti che si sognano sotto l'Autorità palestinese, i sindacalisti dal cuore tenero potrebbero iniziare con la lista messa a punto dalla International Trade Union Confederation. Ci sono i lavoratori bielorussi, maltrattati sotto il regime del satrapo Lukashenko; ci sono la Cina e la Colombia, dove sono stati uccisi ventidue sindacalisti; c'è l'Egitto, anche per rendere onore a Giulio Regeni, che lavorava con i sindacati; ci sono soprattutto il Qatar e l'Arabia Saudita, due paesi che non riconoscono Israele, un vero inferno per i lavoratori, regimi questi sì di apartheid e che edificano il loro lusso ipocrita sulla fatica degli operai non musulmani discriminati.
Oppure i sindacalisti europei possono volare a Ramallah e bruciare anche loro un po' di merce israeliana, Manca soltanto che appongano la stella gialla.
(Il Foglio, 18 maggio 2017)
Rivoluzione nei media dello stato ebraico
Cambio nel sistema pubblico radio-televisivo israeliano. Da pochi giorni è entrato in funzione Kan, il nuovo ente che rimpiazzerà la storica Iba (Israel Broadcasting Authority). Così, dopo 49 anni di trasmissione, Mabat, lo storico telegiornale del canale di stato israeliano, è stato cancellato. Anche i programmi di radio Gerusalemme sono stati sospesi in attesa che il nuovo ente pubblico diventi operativo.
La decisione di chiudere l'Iba è avvenuta una settimana fa con un voto del parlamento, la Knesset, anche se il progetto risale a circa tre anni fa. Il nuovo servizio, guidato dal giornalista Geoula Even, sarà composto da almeno 240 repoter, tecnici e funzionari amministrativi. Un taglio netto rispetto ai 1200 impiegati dell'Iba.
Il voto è arrivato al termine di una lunga battaglia politica. La creazione della Kan è stata promossa soprattutto dal primo ministro, Benjamin Netanyahu, che dal 2015 detiene anche la delega per le telecomunicazioni. Molte le critiche sul piano politico: gli avversari di Netanyahu affermano che il premier sta cercando di influenzare i media a suo vantaggio mettendo la parola fine a un ente che ha fatto la storia del paese e che rappresenta un patrimonio culturale e civile.
(L'Osservatore Romano, 18 maggio 2017)
La pedalata degli israeliani sulla strada del coraggio
Firenze-Assisi, l'omaggio a un giusto
di Adam Smulevich
L'ultimo a lasciarci, appena poche settimane fa, è stato Giorgio Goldenberg. Il giovane ebreo fiumano nascosto insieme alla sorella e ai genitori in un appartamento in via del Bandino, nel quartiere di Gavinana. L'uomo la cui testimonianza, l'unica diretta su questi fatti assieme a quella del cugino Aurelio Klein, si è rivelata decisiva per l'attribuzione del titolo di Giusto tra le Nazioni.
Hanno corso anche per lui, nel suo nome, gli atleti della «Israel Cycling Academy» (la prima squadra professionistica israeliana di ciclismo) che ieri hanno affrontato la «strada del coraggio». E cioè il movimentato tratto da Firenze ad Assisi che Gino Bartali affrontò più e più volte per portare assistenza agli ebrei perseguitati dal nazifascismo, offrendo loro la speranza di un possibile espatrio grazie ai documenti di identità falsi che nascondeva nella bicicletta e che venivano prontamente smistati tra Liguria, Toscana e Umbria.
Un omaggio a pedali, quello dei ciclisti israeliani, che non è una novità. Avevano già affrontato questa sfida lo scorso anno, ma non hanno resistito all'idea di tornare. Troppo stimolante la prospettiva di esserci alla vigilia della tappa del Giro d'Italia del Centenario che proprio oggi partirà da Ponte a Ema, il paese di Gino. «Oggi siamo qui per onorare un grande uomo. Un uomo il cui ricordo deve essere con noi in ogni pedalata, in ogni goccia del sudore che verseremo», dice Ran Margaliot, il team manager della squadra, chiamando a raccolta i propri atleti nell'ultimo briefing improvvisato in via delle Terme, nel retro dell'hotel dove hanno alloggiato a Firenze dopo la solenne accoglienza ricevuta lunedì pomeriggio a Palazzo Vecchio. Un ultimo incoraggiamento e via, si parte. Naturalmente, prima di affrontare la lunga tratta, ci si ferma al museo dedicato a Bartali nella sua Ponte a Ema.
In via Chiantigiana, la squadra è accolta dall'assessore comunale allo Sport Andrea Vannucci, dal direttore del museo Andrea Bresci e da Lisa Bartali, una delle nipoti di Gino. La squadra osserva ammirata le vestigia di Ginettaccio, le bici d'epoca, il certificato dello Yad Vashem con cui è stato riconosciuto Giusto.
Immancabile foto di rito e poi si parte verso Assisi. Stavolta per davvero. La meta è lontana e il vento contrario, molto intenso a momenti, rende pesante la pedalata. La comitiva è così costretta a una deviazione. Salta l'idea di sostare qualche minuto a Terontola, a metà percorso, dove Bartali spesso si fermava e dove a salutarli i ciclisti avrebbero trovato Ivo Faltoni, che di Gino non fu solo meccanico ma anche amico e geloso custode di tanti segreti.
Eccolo finalmente, dopo tante ore di fatica, il maestoso sfondo di Assisi. L'ultima salita, le ultime energie chiamate a raccolta. Sorride Ron Baron, il proprietario della squadra, che guida i suoi in bici. Sorridono gli atleti, tutti. Sorride Jonathan Freedman, che a New York ha fondato un «Team Gino Bartali» per la solidarietà: non è un professionista ma per molti chilometri è stato in coda al gruppetto. Sorride Aili McConnon, giornalista e autrice nel 2012 del libro «La strada del coraggio». Anche lei, per un tratto importante, ha pedalato e sudato per Bartali.
Caparbietà, passione, un messaggio profondo da testimoniare. «Per Gino - dice Ran - il nostro eroe».
(Corriere Fiorentino, 17 maggio 2017)
Il presidente Usa Trump si prepara ad attraversare un "campo minato diplomatico"
WASHINGTON - La Casa Bianca, già alle prese con una gravissima crisi interna - le accuse di collusione con la Russia, alimentate dal licenziamento del direttore dell'Fbi James Comey - si appresta ad imbarcarsi in una sfida ancor più ardua: proporsi come mediatore di un accordo in grado di superare l'annosa crisi mediorientale. La scorsa settimana, scrive il quotidiano "Washington Post", il presidente Usa Donald Trump ha ricevuto alla Casa Bianca l'ex segretario di Stato Usa, Henry Kissinger. La visita non è casuale: Trump sta infatti per intraprendere il suo primo viaggio ufficiale all'estero, "un tour de force" di nove giorni che lo porterà a visitare quattro paesi, inclusi Arabia Saudita e Israele. Per l'occasione, scrive il quotidiano, l'Ufficio ovale si è trasformato in una sala conferenze, con un flusso continuo di esperti di diplomazia e politica estera impegnati a preparare il presidente. O almeno - scrive la "Washington Post", "questo era il piano originario", perché "come spesso accade attorno a Trump, le distrazioni si sono moltiplicate". La visita di Kissinger, ad esempio, "si è presto trasformata in una seduta fotografica, con l'ex segretario zitto in disparte mentre Trump distribuiva i primi commenti pubblici sul licenziamento di Comey". Trump, comunque, avrebbe trovato il tempo di "prepararsi per un viaggio che potrebbe divenire un trionfo, oppure trasformarsi in un disastro al minimo errore".
Trump "dovrà destreggiarsi in un campo minato diplomatico", provando a negoziare il riavvio del processo di pace tra Israele e palestinesi, rassicurando gli alleati europei sul fronte del commercio e della difesa, e "provando a rispettare il protocollo dei saluti con papa Francesco". Trump sarà "sotto i riflettori, osservato al microscopio" per dieci giorni, e il mondo avrà la prima occasione di vederlo davvero all'opera, sottolinea Richard N. Haass, presidente del think tank Council on Foreign Relations. Lo staff di Trump afferma che il presidente sia perfettamente consapevole delle sfide che lo attendono, e che negli ultimi giorni abbia sfoltito la propria agenda pubblica proprio per prepararsi al meglio. A confermare l'insidiosità dell'imminente viaggio di Stato, però, è la prima, vera polemica intercorsa tra la sua amministrazione e il governo israeliano: quest'ultimo ha chiesto spiegazioni alla Casa bianca, dopo che un funzionario diplomatico, impegnato proprio in un briefing al presidente, ha definito il Muro del Pianto e Gerusalemme vecchia parti dei territori della Cisgiordania occupati da Israele
Una posizione che risponde alla visione della comunità internazionale, ma che Washington si guarda bene dal rimarcare, e che Tel Aviv respinge in toto, avanzando rivendicazioni sull'intera città di Gerusalemme come capitale indivisibile dello Stato ebraico. Trump potrebbe trovare una sponda negli Stati del Golfo; ieri questi ultimi hanno offerto di intraprendere passi concreti verso la normalizzazione delle relazioni con Israele, in cambio di sforzi significativi da parte di Tel Aviv per il rilancio dei negoziati di pace coi palestinesi. Stando al "Wall Street Journal", le monarchie del Golfo sono pronte a consentire il sorvolo dei loro spazi aerei all'aviazione civile israeliana, a creare connessioni dirette nel campo delle telecomunicazioni e a revocare sanzioni commerciali, in cambio di misure concrete come lo stop ai lavori di espansione degli insediamenti in alcune aree della Cisgiordania e la revoca di alcune limitazioni commerciali nei territori palestinesi occupati.
(Agenzia Nova, 17 maggio 2017)
Così l'America tradisce i suoi alleati
Le informazioni spifferate ai russi da Trump arrivano dagli israeliani (se lo sentivano che finiva così)
di Daniele Raineri
ROMA - A meno di una settimana dal primo viaggio in Israele del presidente americano Donald Trump, il New York Times aggiunge una rivelazione micidiale a uno scoop già micidiale del Washington Post uscito lunedì sera: la fonte delle informazioni segrete che il presidente ha rivelato ai russi è Israele. A gennaio, una settimana prima dell'inaugurazione a Washington, un analista militare israeliano dalla reputazione solida, Ronen Bergman, scrisse sul quotidiano Yedioth Ahronot che gli agenti dell'intelligence americana avevano avvertito i colleghi israeliani: attenti a condividere informazioni con noi quando Trump sarà presidente, perché potrebbero essere passate ai russi. Considerato il fatto che in questo momento la Russia è il partner strategico dell'Iran, a causa dell'intervento militare in Siria, il rischio - avvertivano le spie americane - era che gli israeliani avrebbero potuto passare le loro informazioni d'intelligence ai loro nemici in Iran. Quello scenario potenziale oggi suona plausibile. Israele non conferma la notizia e Ron Dermer, ambasciatore negli Stati Uniti, dice via mail al NewYorkTimes che i due paesi manterranno una stretta collaborazione nel campo dell'antiterrorismo. Ma è indubbio che il meccanismo di condivisione dell'intelligence fra paesi alleati esce scosso dalle ultime 24 ore di rivelazioni e il clima non sereno spinge un funzionario senza nome di un servizio segreto europeo a dichiarare all'Associated Press che il suo paese potrebbe smettere di scambiare informazioni con gli Stati Uniti. Burkhard Lischka, un parlamentare tedesco della commissione Intelligence, dice che se Trump rivela informazioni d'intelligence allora "è diventato un rischio per la sicurezza del mondo occidentale".
Il 16 febbraio il Wall Street Journal aveva scritto che alcuni funzionari dell'intelligence americana non davano tutte le informazioni in loro possesso al presidente nel timore che sarebbero state passate ad altri o svelate. L'Amministrazione Trump è nata sotto il segno di una grande sfiducia, ricambiata, per i servizi segreti americani e quell'articolo arrivò pochi giorni dopo le dimissioni dell'ex generale Mike Flynn dall'incarico di consigliere per la Sicurezza nazionale. In particolare, gli uomini delle agenzie di intelligence avevano deciso di non dire a Trump le fonti e i metodi usati per raccogliere le informazioni.
Non è chiaro (e non lo sarà mai?) come Israele si è procurato le informazioni sullo Stato islamico rivelate da Trump ai russi. L'America ha un vantaggio tecnologico enorme sugli altri paesi quando si tratta di intercettazioni e sorveglianza elettronica, quindi non è sicuro al cento per cento che stiamo parlando di spionaggio da lontano. C'è anche l'ipotesi che Israele abbia informatori infiltrati dentro lo Stato islamico - la cosiddetta Humint, le informazioni raccolte da persone sul campo, un settore nel quale gli israeliani sono specializzati da tempo. Nel marzo 2015 lo Stato islamico pubblicò il video dell'esecuzione di un arabo di Gerusalemme est che era partito per la Siria quattro mesi prima e che confessava di essere un informatore assoldato dai servizi di Israele (ma la confessione potrebbe essere il risultato delle torture). Lo Stato islamico è in generale molto meno schizzinoso di al Qaida quando si tratta di arruolare nuovi membri, anche perché negli ultimi cinque anni ha accettato in massa circa trentamila stranieri-quindi il procedimento di selezione all'ingresso e di controspionaggio, che si chiama tazkiya, non poteva essere troppo accurato.
A fine ottobre il generale Stephen Townsend, che comanda le operazioni americane contro l'Isis, disse che lo Stato islamico stava complottando un attentato in occidente da Raqqa, "non sappiamo dove vogliono colpire e quando, ma dobbiamo sbrigarci a prendere quella città" (l'offensiva di terra al momento è prevista per l'estate). Raqqa, assieme alla città siriana di al Bab (che però ormai è in mano ai curdi) e alla zona di Deir Ezzor (dove avvengono a ripetizione i raid delle forze speciali), è la culla di molti piani dello Stato islamico contro i paesi occidentali, incluso il massacro di Parigi nel novembre 2015. Potrebbe esserlo anche di questo piano, citato da Trump con i russi, che prevede l'uso di computer portatili riempiti con esplosivo.
Il 21 marzo scorso l'Amministrazione americana ha vietato a tutti i passeggeri che partono da alcuni aeroporti a rischio di portare i computer portatili in cabina. La settimana scorsa si è parlato dell'estensione del divieto anche ai passeggeri che arrivano dagli aeroporti europei. Le informazioni ricevute dall'intelligence americana sono quindi abbastanza specifiche ed è probabile che Trump intendesse questo quando si è vantato davanti ai russi di ricevere "great intelligence" tutte le mattine. Ha anche citato il luogo di provenienza delle informazioni (il Washington Post lo sa ma non lo ha scritto). Raqqa è la città indiziata numero uno. Vale la pena notare come tra agosto e dicembre in quell'area c'è stata una moria di capi dello Stato islamico, incluso il direttore dei media, un leader molto importante che si chiamava Abu Mohamed al Furqan, ma nella lista ci sono anche tunisini e francesi coinvolti nella pianificazione di attacchi all'estero. Le uccisioni mirate con i droni hanno registrato un'accelerazione improvvisa - come se le informazioni fossero divenute più precise.
(Il Foglio, 17 maggio 2017)
Sull'antiterrorismo decidete da che parte stare, intima Nuriel
Il generale israeliano guru della sicurezza dice che l'Italia è naif, la Germania è miope e la Turchia è un rischio per l'UE. Nella sua dottrina antiterrorismo, Nuriel non mette polizia e intelligence al primo posto, ma i sindaci, che conoscono il territorio e hanno interessi diretti affinché tutto funzioni bene in termini di sicurezza. "I terroristi non vinceranno mai: noi siamo attaccati alla vita, loro no".
di Daniel Mosseri
BERLINO - Il terrore cerca un nuovo 11 settembre, un colpo forte da assestare all'occidente. Eppure Nitzan Nuriel, research fellow all'Istituto internazionale per l'antiterrorismo di Herziliya, si dice ottimista. "I terroristi non vinceranno mai: noi siamo attaccati alla vita, loro no". Star della lotta all'insicurezza globale, il generale di brigata israeliano è impegnato in un tour europeo e al suo pubblico propone un mix di soluzioni pragmatiche "che in Israele ci ha permesso di azzerare il numero degli attentati suicidi". Oggi Nuriel teme un attentato su grande scala con armi chimiche contro il Vecchio continente: "E' questione di mesi". Il suo non è un racconto di fantascienza, mette in chiaro, ma storia: nel 1995 Aum Shinrikyo attaccò la metropolitana di Tokyo con il sarin, e anche oggi è più facile spostarsi con alcune fialette di agente paralizzante che con un bazooka. A spingere l'Isis verso una nuova azione spettacolare non c'è solo la progressiva perdita di posizione in Siria e Iraq. "Dalle Torri gemelle in poi i terroristi non sono più riusciti a mettere a segno un attacco di grandi dimensioni in occidente". Il generale vede l'Europa come il ventre molle della sicurezza globale per "i troppi errori dei politici, per la presenza di ampie comunità islamiche presso le quali i terroristi possono trovare sostegno, e non ultimo per il nostro rapporto con la Turchia", descritta da Nuriel come un hub del jihad globale.
Per il generale l'immigrazione islamica è un problema, ma è gestibile. Nel maggio del 2000, ricorda, Israele si ritirò dal Libano portandosi dietro "oltre seimila cittadini libanesi preoccupati del possibile ritorno al potere di Hezbollah". Parte di loro erano persone che Israele conosceva, con altre aveva combattuto. Nuriel ricorda che i libanesi furono sistemati e rifocillati, "ma nel giro di tre mesi li avevamo intervistati uno per uno con l'aiuto della nostra intelligence e alla luce delle informazioni ricavate da ciascuno degli ospiti". Gli intervistatori stabilirono chi poteva restare e chi doveva lasciare il paese: il contrario di quanto successo, per esempio, fra il 2015 e il 2016 in Germania. In quel periodo la Repubblica federale ha accolto un milione di rifugiati mediorientali senza filtri. "Eppure noi già nel 2010 avevamo sollecitato l'Europa a stabilire procedure e creare strutture per la selezione degli immigrati: l'ospite non ideale, abbiamo suggerito, doveva poter restare per cinque anni al massimo". Secondo Nuriel di recente l'approccio di Berlino è cambiato, ma ci vorrà tempo per riparare agli errori.
In Italia il generale vede invece una contraddizione: "Avete servizi di intelligence e di polizia preparati, ma siete un paese molto naif', dice al Foglio. Il generale critica la tendenza italiana a trattare "un criminale o un innocente allo stesso modo". Poi parla fuori da denti: "Dovete decidere da che parte stare". A cominciare dal rapporto con Erdogan, "che secondo me è parte del problema, mentre molti in Europa pensano sia parte della soluzione".
E' anche per sfiducia verso i politici confusi e relativisti che al primo posto nella sua dottrina antiterrorismo Nurie! non mette polizia e intelligence, ma i sindaci. Il primo cittadino, osserva, conosce il territorio e i cittadini, e vuole essere rieletto. E' con il sindaco di Cannes che l'ufficiale classe 1950 ha pianificato la sicurezza del Festival del cinema all'indomani della strage sul lungomare di Nizza. Perché è il sindaco e non l'intelligence "che sa se nei pressi del Festival ci sono appartamenti vuoti" che potrebbero risultare utile ai terroristi; ed è ancora il sindaco "che in poche ore mi può fornire dei camion per bloccare l'accesso ad alcune strade, facendo da barriera contro eventuali tir in corsa". Da cui il suo auspicio affinché i primi cittadini "siano sempre meno politici, e sempre più leader".
Il suo vademecum impone pragmatismo nella reazione a un attentato: "Non chiediamoci perché il terrorista l'ha compiuto, ma come ci sia riuscito; occupiamoci di logistica". Quanto al rischio dei cosiddetti lupi solitari attivi sui social media, Nuriel consiglia di andarli a trovare a casa, di farli sentire osservati. "Molto meglio che metterli in carcere dove fanno rete con altri come loro". Importante poi è il "desk concept", un tavolo al quale ogni agenzia si sieda con l'altra, guardando a ogni problema da un'angolatura diversa. Anche l'esistenza di una catena comando chiara e ininterrotta si rivela fondamentale: "In Francia ho fatto notare a un sindaco che nella stazione della sua città c'erano quattro ufficiali armati di quattro forze diverse, slegati gli uni dagli altri". Davanti al terrore ogni protagonismo è bandito:
"In Israele un militare non può chiederti i documenti, ma se ha un sospetto avvertirà un poliziotto che lo farà per lui". E la tecnologia di punta spesso non serve: "E' più importante sapere quali sono le nostre debolezze, e porvi rimedio, anziché affidarsi alle telecamere".
Attività sotto copertura e resilienza
Ecco perché Nuriel chiede più esercitazioni per incidenti su larga scala assieme all'impiego del "red team": una squadra che pensa e agisca da terrorista per mettere in luce i gap del piano di sicurezza preparato dall'altra. Il generale chiede anche più attenzione contro le minacce interne: "Occorrono piani per controllare chi dall'interno delle nostre agenzie decida di passare dall'altra parte". Last but not least, Nuriel menziona due misure "delicate" e difficili da implementare, "che spesso richiedono nuove procedure legali", ma che danno frutti importanti: il monitoraggio dei social media e le attività sotto copertura nel campo del nemico. Ogni attività, avverte, perde efficacia se non è supportato dalla volontà di vincere. E cita un termine spesso abusato ma molto calzante in questo caso: la resilienza. "Anni fa in Israele ci volevano otto ore per far sparire le tracce di un attentato per strada e tornare alla normalità". Quella normalità che i terroristi vorrebbero fare fuori. "Oggi invece ci bastano tre ore". E conclude: "La vittoria più grande dei terroristi in Belgio si è verificata dopo l'attentato all'aeroporto di Bruxelles, quando lo scalo restò chiuso per tre settimane".
(Il Foglio, 17 maggio 2017)
Finto moderato contro vero duro: povero Iran
Il duello Roubant-Raisi non inganni, il regime islamico non ammette candidati fuori linea. Unico motivo d'interesse: il vincitore sarà probabilmente il successore della Guida suprema Ali Khamenei, che ha già 77 anni.
di Fiamma Nirenstein
Le elezioni in Iran, che si terranno venerdì 19, sono uno spettacolo per il pubblico internazionale, un dibattito sui candidati che a Firenze si risolverebbe con la poco aristocratica formula «accidenti al meglio». Sono, insomma, uno di quei fraintendimenti per cui il mondo intero, invece di starsi a chiedere chi è il più «moderato» dei candidati è autorizzato a dubitare della democrazia nella sua massima espressione, «una testa, un voto». In ogni caso chi vincerà non dovrà contentarsi del potere legato al suo ruolo, ma sarà anche decisivo circa l'identità (e forse lui stesso il successore) del prossimo supremo leader, Ali Khamenei, che ha 77 anni.
Stavolta dopo una selezione preventiva che ha eliminato la clownesca ipotesi di rivedere al potere Ahmadinejad, due candidati occupano la scena sotto il manto nero di Khamenei. Lui, un maestro della politica dello Stato Islamico, capace di mandare avanti l'accordo con gli Usa e il resto del mondo mentre incita le folle in piazza a mantenere vivo Io slogan «morte all'America e a Israele» in vista di sfilate di missili balistici, sembra alla fine tenere per un candidato che la stampa internazionale individua come il peggiore: il durissimo ayatollah Ebrahim Raisi. Tenendosi sul vago, Khamenei ha anche detto che non gli piace chi lascia entrare la cultura occidentale in casa sciita, ovvero, così si è letto, Rouhani. Che in realtà usa con noi le buone maniere giocando come il gatto col topo. Una zampatina morbida e poi l'unghiata.
Raisi probabilmente non è più integralista dell'attuale presidente, ma almeno lui dichiara chiaramente le sue credenziali di duro e ne viene premiato. Fu membro del comitato che sorveglia l'esecuzione di migliaia di dissidenti nel 1988. È stato pupillo alla scuola teologica del supremo leader per 14 anni sin dall'inizio degli anni Novanta, l'indubbia fedeltà a Khamenei intanto gli ha fruttato la presidenza di una fondazione religiosa multimiliardaria, la Astan Qods Razavi. Ma la sua caratteristica fondamentale e politicamente, per lui, promettente è quella di essere il candidato preferito delle Guardie Rivoluzionarie e dei Basiji, la milizia che tiene l'Iran sotto il suo tallone, che ne controlla i cittadini uno a uno cosicché non deviino dalla santità loro richiesta, che schiaccia la piazza fino a uccidere (come fece con il famoso assassinio pubblico di Neda durante la rivolta contro Ahmadinejad), che organizza i migliori soldati per le campagne imperialiste di cui ormai l'Iran, a partire dalla Siria, è campione. L'Irgc è interessata alla presidenza, al suo potere, ai suoi interessi economici. Ma ancora di più secondo gli esperti al controllo del prossimo Supremo Leader eliminando tutti i personaggi, definiti «tecnocrati», che ne ostacolano il potere assoluto.
Hassan Rouhani, presidente da 4 anni, è l'altro grande polo del dibattito. I commentatori scrivono che con la Guardie Rivoluzionarie ha frequenti scontri a causa di interessi economici divergenti: e si tratta, per l'Irgc, di questioni miliardarie. Rouhani agli occhi dell'Occidente è un'icona moderata, proprio come lo fu Khatami che è stato presidente battendo il record dell'eliminazione fisica degli intellettuali, arresti di massa, supporto del terrorismo internazionale, espansione del progetto nucleare. Rouhani, con quel sorriso da volpe innamorata, andò al potere avendo sulla testa la mano di Obama: ma ha avuto, come scrive l'intellettuale dissidente Amir Taheri, il primato assoluto in esecuzioni e reclusioni, in sostegno del terrorismo internazionale, esportazione di uomini armati e armi per disegni imperialisti in Medio Oriente.
Non serve fantasticare sulla «moderazione» del prossimo presidente iraniano: l'unica speranza è che l'affluenza sia così bassa (e lo fu alle ultime elezioni) da certificare davanti al mondo il desiderio del popolo di voltar pagina, e indurre un cambiamento. Ma le Guardie Rivoluzionarie sono là per questo.
(il Giornale, 17 maggio 2017)
Migliaia di pellegrini ebrei a Djerba alla Sinagoga della Ghriba
Grande festa insieme a musulmani e cristiani
di Giovanni Bosi
DJERBA / TUNISIA - Sono arrivati a migliaia da vari luoghi del mondo: dall'Europa, da Israele, dagli Stati Uniti. Sono gli ebrei che in Tunisia hanno partecipato - tra eccezionali misure di sicurezza - al pellegrinaggio 2017 alla sinagoga di Ghriba, centro dinamico del giudaismo nell'odierno mondo musulmano, per celebrare la festa ebraica di Lag Ba'omer. E questo antichissimo luogo santo è anche una delle principali attrazioni dell'isola di Djerba, dove le 3 religioni monoteiste convivono in pace da sempre. Siamo venuti a vedere.
L'atmosfera è quella della festa condivisa. Della gioia di vivere e soprattutto della gioia di esserci, nonostante i tempi cupi in cui un evento come questo richiede il massimo sforzo per garantire la sicurezza a chi partecipa, con polizia ed esercito schierati in campo. Ben presenti, ma discreti nel loro lavoro. Per la Tunisia una prova di maturità importante dal punto di vista dell'azione anti-terrorismo: un modo per ribadire che questa è una terra sicura e che i turisti possono tornare per le loro vacanze come un tempo neppure troppo lontano.
Anche questo è il senso del pellegrinaggio annuale della Ghriba, il cui culmine in questo 2017 si è avuto domenica 14 maggio con la grande festa nel villaggio di Erriadh (Hara Sghira), una delle due città ebraiche sull'isola, e poi la chiassosa processione con la Torah di bronzo. Ma prima ancora, è stato il tempo della preghiera nella sinagoga, l'accensione delle candele e la simbolica deposizione di gusci d'uovo - su cui vengono scritte preghiere per invocare la guarigione di disturbi o invocare la fertilità - in una cavità nella parte più antica dell'edificio sacro, che secondo la leggenda è stato costruito intorno al 500 a.C. da ebrei fuggiti da Gerusalemme dopo la distruzione del Tempio di Salomone.
Migliaia i partecipanti, tra i quali anche musulmani e cristiani, perché qui a Djerba le tre grandi religioni monoteiste vivono e convivono insieme in uno spirito di reciproco rispetto e fraterna amicizia. "Siamo cugini" ha detto Rabbi Raphael Cohen Zfat, arrivato dal nord di Israele: nel suo abito nero e con una lunga barba bianca, ha lodato la Ghriba come un "simbolo di tolleranza e di coesistenza pacifica" tra musulmani ed ebrei e ha accolto con favore quella che ha definito "una presenza di sicurezza rassicurante". Tra i presenti, anche i ministri tunisini del turismo Salma Elloumi Rekik e della cultura Mohamed Zine el-Abidine, l'ambasciatore di Francia in Tunisia, Olivier Poivre d'Arvor e la delegazione diplomatica degli Stati Uniti.
Nell'edificio prospiciente la sinagoga, una sorta di caravanserraglio deputato ad accogliere i pellegrini visita, si svolge il momento più gioioso della festa, con canti e balli tradizionali a cui tutti partecipano. E come detto, non solo ebrei. Poi verso il tardo pomeriggio, ci si prepara alla processione, con la formazione di un lungo serpentone multicolore e rumoroso. Le donne, incluse le bambine, sono vestite con il loro abito migliore, il sorriso è sulla bocca di tutti.
(turismoitalianews, 16 maggio 2017)
Il nuovo ambasciatore Usa presenta le credenziali al presidente Rivlin
GERUSALEMME - Il nuovo ambasciatore Usa, David Friedman, ha presentato oggi le credenziali al presidente israeliano, Reuven Rivlin. Parlando ai giornalisti al termine della cerimonia, Friedman ha detto che farà di tutto per rafforzare il "legame indissolubile" esistente fra Stati Uniti ed Israele. "Ringrazio il presidente Trump per la nomina e per avermi dato un mandato chiaro nell'aiutare Israele in ogni modo possibile", ha detto Friedman. Il diplomatico ha definito il sostegno di Trump ad Israele come una "solida roccia". Parlando del suo mandato, il diplomatico Usa auspica di poter collaborare in diversi settori, dall'istruzione alla scienza, alla tecnologia informatica, senza tralasciare gli scambi commerciali e la strategica partnership in ambito militare. Da parte sua, Rivlin si è detto pronto a lavorare con la nuova amministrazione Usa per "trovare nuove soluzioni e nuove idee per costruire fiducia fra israeliani e palestinesi". Friedman è giunto ieri in Israele, dove si è subito recato al Muro del pianto. L'insediamento di Friedman a Tel Aviv giunge a pochi giorni dalla visita di Trump, prevista il 22 maggio.
(Agenzia Nova, 16 maggio 2017)
Un'agenda per il nuovo ambasciatore italiano in Israele
I rapporti tra Roma e Gerusalemme si sono ulteriormente rafforzati in epoca recente. Purtroppo le potenzialità non vengono messe a regime. C'è bisogno di un nuovo approccio
di Jonathan Pacifici*
Il voto negativo dell'Italia sull'ultima scandalosa risoluzione Unesco contro Israele è sicuramente indice dei solidi rapporti tra Roma e Gerusalemme che si sono ulteriormente rafforzati in epoca recente. È certamente doveroso ringraziare l'Ambasciatore uscente Francesco Maria Talò per l'ottimo lavoro svolto in questi anni. Il Consiglio dei Ministri ha recentemente designato il nuovo Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti al quale vanno i nostri più sinceri auguri. Si tratta di un ruolo estremamente importante che va ben oltre la diplomazia.
Nel quadro della crisi economica che attraversa l'Europa, Israele rappresenta un'isola felice di sviluppo, innovazione, crescita ed ottimismo. L'Italia si trova in posizione strategica sia culturalmente che geopoliticamente per essere il ponte naturale d'Israele verso l'Europa. Viceversa in Israele l'Italia può trovare una grande fonte d'ispirazione per il suo rilancio.
Il dramma, a mio modesto avviso, è che le potenzialità non vengono messe a regime. Si fanno delle belle visite, le delegazioni arrivano e ripartono, i trattati vengono firmati ma poco si muove. C'è necessità di mettere la palla a terra. Vorrei quindi provare a tracciare alcuni criteri che dovrebbero guidare questo nuovo approccio.
- Italia ed Israele sono complementari. È inutile come alcuni propongono cercare di duplicare il modello Israele in Italia, non funziona. Concentriamoci sul competitive advantage che abbiamo. Le aziende israeliane sono assetate di una sponda di mercato. In Israele c'è la tecnologia e l'innovazione, in Italia un'infrastruttura industriale di tutto rispetto. La formula dovrebbe essere: tecnologia israeliana + sistema industriale italiano. Da qui la possibilità di Joint Ventures e collaborazioni industriali e commerciali. È una formula che funziona e che nel medio e lungo termine permette di valorizzare le aziende italiane rendendole più competitive sui mercati globali.
- Questi vettori non si muovono nel vuoto. C'è bisogno di ecosistema. In Israele il Sistema Paese Italia è sottorappresentato. Ci sono le banche americane, francesi, inglesi e asiatiche, perché non le nostre? I fondi di Private Equity Italiani non ci sono così come non ci sono i centri di ricerca e sviluppo delle grandi aziende. L'universo degli R&D centers è uno dei volani dei rapporti bilaterali tra multinazionali ed Israele. Cisco, Intel, Microsoft e Google hanno importanti centri in Israele così come i colossi Cinesi e molte aziende Europee. Perché le aziende italiane non ci sono? Un importante dirigente mi disse una volta "è assurdo che Finmeccanica non abbia un centro in Israele". Finmeccanica (che pure già ha fatto buoni affari qui, non ultima la vendita degli aerei da addestramento all'aviazione militare per oltre un miliardo di Euro) non ha nemmeno scalfito la punta dell'iceberg rispetto al potenziale difesa/tecnologia/telecomunicazioni.
- Le persone. C'è bisogno di personaggi-ponte. La vivace comunità degli ebrei italiani in Israele è un asset da valorizzare. Le success stories hanno sempre dietro imprenditori o figure binazionali. Bisogna coinvolgere il crescente numero di italiani (soprattutto giovani) che vengono qui: sono una risorsa straordinaria per le aziende italiane che vogliano avere una persona in loco. L'immigrazione italiana in Israele dovrebbe essere vista non come una "fuga dei cervelli" quando come un'incredibile opportunità per costruire ponti.
- Energia. Dopo le recenti scoperte Israele sta diventando un importante snodo energetico. È considerata una delle partite energetiche più importanti a livello internazionale e l'Italia può e deve giocare un ruolo.
- Trasporti. Volare tra Italia ed Israele è ancora troppo caro. Firmati trattati a non finire ma 500 E per un volo di tre ore tra FCO e TLV, sono una mannaia sui rapporti bilaterali. Gli israeliani viaggiano molto ed alla fine vanno in Turchia e Grecia per via dei prezzi. Perché non facilitare dei voli verso lo splendido Sud? Tanti amici mi dicono - volevo andare in Italia ma i biglietti sono troppo cari. È un bottleneck da rompere.
- Food - l'industria alimentare italiana è molto apprezzata qui in Israele. La questione della certificazione kasher è però una 'giungla' che frena. C'è necessità di lavorare con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sulla certificazione nazionale che razionalizzi il tutto. È un mercato enorme se si pensa alla dimensione del kasher negli USA. Come per altri discorsi, Israele è il trigger per partite più ampie.
* Presidente del Jewish Economic Forum
(Il Foglio, 16 maggio 2017)
L'offerta dei Paesi del Golfo a Israele
Relazioni normali in cambio del congelamento degli insediamenti. Arabia Saudita ed Emirati pronti ad aprire lo spazio aereo, collegamenti telefonici e scambi commerciali
di Giordano Stabile
BEIRUT - A quattro giorni dal summit fra i Paesi arabi e il presidente americano Donald Trump, Arabia Saudita ed Emirati mettono sul piatto la loro proposta per far ripartire i colloqui di pace fra Israele e i palestinesi, e portare stabilità in tutta la Regione.
Passi senza precedenti
S econdo indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal, i Paesi del Golfo sono pronti a fare passi senza precedenti verso la normalizzazione dei rapporti con Israele, con cui non hanno ancora relazioni diplomatiche dirette.
Scambi diretti
Riad e Dubai, in particolare, stanno per offrire, con la mediazione americana, l'apertura del loro spazio aereo ai voli israeliani, linee telefoniche e di telecomunicazioni dirette, visti per gli atleti e gli uomini d'affari israeliani, fine delle limitazioni negli scambi commerciali diretti.
La visita di Trump
In cambio i Paesi arabi chiedono il congelamento dei nuovi insediamenti in parti della Cisgiordania, in particolare al di fuori dei blocchi già costruiti, e la fine delle restrizioni ai commerci fra la Striscia di Gaza e il resto del mondo. In questo modo sperano di rilanciare le trattative di pace fra il premier Benjamin Netanyahu e Abu Mazen, obiettivo principe della visita di Trump in Medio Oriente.
Il mega summit
Il presidente americano è l'ospite d'onore al grande summit, oltre 50 Paesi, organizzato a Riad per questo fine settimana. La questione palestinese, la Siria, e lo Yemen, saranno al centro dei colloqui. Riad punta anche a concludere mega accordi economici, compreso quello per l'acquisto di 300 miliardi di armi avanzatissime.
(La Stampa, 16 maggio 2017)
Insieme Vaticani e Museo ebraico per la Menorà: culto, storia e mito
Due sedi, una mostra: la storia di un simbolo inseguito da mille leggende. Centotrenta pezzi in arrivo da Louvre, National Gallery, lsrael Museum, Albertina
di Paolo Conti
Difficile che una mostra sia, nello stesso tempo, scientificamente ineccepibile e anche profondamente significativa di una svolta storico-culturale. Capita qui a Roma con «La Menorà/ Culto, storia e mito» che si apre oggi (per restare aperta fino al 23 luglio) in due sedi: il braccio di Carlo Magno in piazza San Pietro e il Museo Ebraico di Roma in via Catalana, nel cuore dell'antico Ghetto romano.
Si tratta di 130 straordinari pezzi (120 esposti in Vaticano, e dieci nel Museo ebraico) che vanno dall'antichità ai disegni preparatori per «Triumphs and Laments», i graffiti di William Kentridge lungo i muraglioni del Tevere. Mezzo mondo culturale si è mosso per prestare opere che grondano storia, bellezza, religione: dal Louvre di Parigi alla National Gallery di Londra passando per l'Israel Museum, l'Albertina di Vienna o il Museo Sefardì di Toledo (www .lamenora.it ).
Al centro la Menorà, «alla romana», senza l'«h», perché siamo nella città della comunità ebraica più antica della Diaspora, con presenze attestate dal II secolo avanti Cristo. Qui a Roma la Menorà apparve nell'anno 70 dell'era moderna dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme decisa dall'imperatore Tito, la traccia più celebre è nel suo arco trionfale al Foro. Era il simbolo del popolo ebraico, fatto forgiare in oro puro da Mosè «su ordine del Signore». Poi sparì, di nuovo qui a Roma, dopo il sacco dei Vandali di Genserico nel 455, inseguita da mille leggende: trasferita a Costantinopoli, o forse a Cartagine, oppure riportata segretamente a Gerusalemme, o magari finita nei fondali del Tevere o sepolta addirittura sotto san Giovanni in Laterano. Infatti al Museo Ebraico è esposta la Tabula Magna Lateranensis (1288-1292) in cui si elencano i tesori conservati a san Giovanni e si cita il «candelabro aureo». Dunque, una mostra «romana» che apre ( ecco la svolta) un capitolo completamente nuovo nei rapporti tra cattolicesimo ed ebraismo: due istituzioni come i Musei Vaticani e il Museo Ebraico ( diretti da due donne, Barbara Jatta e Alessandra di Castro, in magnifica sintonia tra loro) che aprono nelle due sedi un'unica mostra dedicata a un simbolo identitario ebraico e che poi ha avuto, nel cristianesimo e soprattutto nel cattolicesimo romano, mille declinazioni figlie del prototipo biblico. La mostra ( curata e diretta da Alessandra Di Castro, da Arnold Nesselrath, delegato per i dipartimenti scientifici e i laboratori di restauro dei Musei Vaticani, e da Francesco Leone, professore associato di Storia dell'Arte Contemporanea all'università di Chieti-Pescara) segue un suggestivo itinerario ispirato ai rotoli della Torà, ideato da Roberto Pulitani dei Servizi tecnici del Vaticano. Barbara Jatta e Alessandra di Castro, legate da un'evidente sintonia culturale e personale, hanno insistito molto sul significato non solo documentaristico e artistico della mostra.
Nei Musei Vaticani sono esposti le splendide Mappah ottocentesehe provenienti dal Museo Ebraico, il quale a sua volta espone non solo la Tabula Magna Lateranensis ma anche due epitaffi marmorei del IV secolo dopo Cristo dei Musei Vaticani.
Tra i capitoli imperdibili, oltre alla Tabula Magna, la Pietra di Magdala ritrovata durante una campagna di scavi del 2009 che ha permesso di ritrovare una delle più antiche Sinagoghe della Galilea, un magnifico busto di Tito dell'anno 75, l'incredibile Bibbia di san Paolo Fuori le Mura del IX secolo, straordinariamente moderna nel suo racconto iconografieo. E altri tesori da studiare e capire tra arte, letteratura, preghiera, alle radici della cultura giudaico-cristiana. Una mostra che ci riguarda e ci appartiene.
(Corriere della Sera, 16 maggio 2017)
Risplende la Menorah perduta
Da Israele è arrivata la Pietra di Magdala in marmo del 66 d.c. Il simbolo ha ispirato anche molte opere d'arte cristiane.
di Franca Giansoldati
La mostra
Il simbolo dei simboli che si fa metafora e poi rappresentazione. E' potente e suggestiva la mostra allestita per metà in Vaticano e per l'altra metà nel museo della Sinagoga di Roma. Dopo quasi due millenni fa risorgere la Menorah d'oro perduta, indicando la via. Illuminandola. Come se la Menorah della leggenda e del mito riprendesse vita in altra forma. Un segno di pace in un momento in cui attorno tutto sembra insinuare che le guerre di religione siano un destino ineluttabile.
A realizzare questa mostra straordinaria - che segna un passo in avanti nelle relazioni culturali tra Santa Sede e Israele - sono state due donne: Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani e Alessandra Di Castro, a capo del Museo Ebraico di Roma. La loro determinazione ha avuto la meglio su tutto, persino sui tanti problemi di carattere logistico o diplomatico. Come per esempio il complicatissimo trasporto a Roma, su un volo della El Al. di uno dei pezzi più suggestivi e unici, la Pietra di Magdala, un basamento di marmo scolpito del 66 dopo Cristo, praticamente quando la Menorah d'oro si trovava collocata nel Secondo Tempio di Gerusalemme. L'artista che la scolpì vide con i propri occhi la magnificenza di quel candelabro enorme e interamente d'oro che brillava da lontano. I pezzi che rimarranno esposti dal 15 maggio al 23 luglio sono 130. Incunaboli, manoscritti antichi, pergamene, marmi romani, iscrizioni, dipinti, reperti archeologici, oggetti di arte orafa. Ci sono voluti quattro anni a metterli assieme.
La storia
E' nel periodo della Roma imperiale che la Menorah divenne definitivamente il simbolo dell'ebraismo, e questo proprio mentre prendevano forma i simboli della cristianità. Era l'evocazione tangibile della luce divina, dell'ordine cosmico della creazione, dell'Antica Alleanza, del cespuglio rovente, dell'albero della vita. La si trova nelle catacombe ebraiche, nei sarcofaghi, sulle lapidi, incisa sui muri, nelle monete, nelle decorazioni dorate sui vetri, sui calici e sui gioielli, e - ovviamente - nelle sinagoghe. Nel Libro dell'Esodo è narrato che Dio ordinò a Mosè di costruire un candelabro capace di illuminare il cammino del popolo eletto. Doveva essere fatto in una colata unica. Un talento d'oro, l'equivalente di 34 chilogrammi. Nel Levitico è scritto anche che il Signore ordinò che le sette lampade ardessero perennemente di un olio puro di olive schiacciate e che a preparalo dovesse essere Aronne. Quell'incredibile candelabro era lavorato a sbalzo e martello, raffigurava un albero di mandorlo con i boccioli e le corolle. Quando veniva acceso quei grandi bracci rifulgevano, promanando luce attorno. Tutto era un bagliore. La Menorah di Gerusalemme (Menorà nella dizione romana) fu rubata dai romani e portata trionfalmente a Roma come bottino di guerra, nel 70 dopo Cristo, sotto Tito, l'imperatore che ordinò la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme. Le fonti dicono che venne collocata ed esposta, almeno fino ad un certo periodo nel tempio della Pace fatto erigere da Vespasiano. Lo storico ebreo Flavio Giuseppe (37-105), attendibile testimone oculare, ne riserva una descrizione accurata. Poi arrivarono i barbari, e dal sacco di Genserico in poi, nel 455, non se ne saprà più nulla. La leggenda prese così a circolare. Un po' come le fake news di oggi. Tra le voci anche quella che il candelabro sia ancora in Vaticano, custodito segretamente da qualche parte. Nel 2004 durante un incontro tra Giovanni Paolo II e i due Rabbini Capo di Israele, quello Ashkenazita e quello Sefardita, il tema della Menorah perduta fece capolino nei loro colloqui. Naturalmente il Papa rassicurò che si trattava di una leggenda.
Le ricerche
Esposto nel Braccio di Carlo Magno c'è il calco di una lunga iscrizione risalente a Niccolò V (XIII secolo) che riferisce che tra le reliquie custodite nella basilica Lateranense ci fosse ali' epoca anche la Menorah. «Gli archeologi recentemente hanno fatto scavi approfonditi ma naturalmente non trovarono nulla» spiega il professore Arnold Nesselrath che aggiunge: «Molto probabilmente il candelabro venne fuso, ecco perché se ne persero le tracce». Il simbolo dell'identità ebraica nel corso dei secoli è stato anche fonte d'ispirazione per molte opere d'arte cristiane, e usato liturgicamente in numerose chiese. Una Menorah immensa decora il duomo di Milano, altre sono presenti nel santuario di Mentorella, nel duomo di Prato, nel duomo di Pistoia, di Palma di Maiorca, di tante chiese tedesche. Simbolo, feticcio , leggenda, identità e luce per tutti.
(Il Messaggero, 16 maggio 2017)
Eppure avevamo detto: «Mai più». Il fumo di un camino rievoca il baratro
Ora l'Europa, terra della tragedia di Auschwitz, ha il dovere di mobilitarsi.
di Donatella DI Cesare
Non avremmo voluto più né pronunciare né scrivere queste due parole «forni crematori», se non per tenere a mente e ricordare alle nuove generazioni il crimine efferato compiuto dai nazisti nei lager dello sterminio. È accaduto solo qualche decennio fa in Europa. Giustamente abbiamo detto tante volte «mai
SEDNAYA
La prigione di Sednaya è un carcere militare a pochi chilometri da Damasco, noto per essere il luogo dove sono stati incarcerati dal regime di Assad migliaia di oppositori. Sednaya secondo Amnesty International, negli ultimi quattro anni è stata la tomba di 13 mila persone giustiziate. Secondo il Diparti- mento di Stato Usa tra le 65 mìla e le 117 mila persone sono state detenute in Siria tra il 2011 e il 2015 perché ritenute dissidenti. Oltre 400 mila i morti in guerra.
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più». Perché il forno crematorio è l'apice della disumanizzazione. Vuol dire togliere l'umanità all'altro, al punto da poterlo non solo uccidere con intenzionalità, in una catena di montaggio, ma anche bruciare e ridurre a cenere. In modo che non resti traccia, che chi ha commesso possa negare davanti al mondo, possa sostenere che il crimine non c'è stato. In modo che il boia possa, anzi, negare persino che la vittima sia mai esistita. E invece in questa età in cui i campi di internamento sono diventati quasi la norma, in cui si torturano e si seviziano i nemici, in cui si ripetono le esecuzioni di massa, in cui si ricorre ai gas tossici contro le popolazioni inermi, contro donne, anziani, bambini, giunge la notizia di «forni crematori».
Il responsabile del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente Stuart Jones accusa apertamente Bashar Assad. Le immagini satellitari diffuse per supportare questa terribile accusa mostrano la costruzione, vicino alla prigione di Sednaya, a nord di Damasco, adibita a cremare i corpi dei detenuti. Il nome di quella prigione è riemerso più volte, anche di recente, grazie alle denunce di Amnesty International. Soprusi, violenze, atrocità di ogni genere a cui sono stati sottoposti gli oppositori politici, i «ribelli», i «terroristi». Sappiamo - ma abbiamo spesso fatto finta di non sapere - che molti, soprattutto negli ultimi mesi, quando il conflitto ha preso una nuova piega, sono scomparsi nel nulla.
Una crudele guerra civile, durata sei anni, si è consumata non lontana dalla vecchia Europa che, per prima, avrebbe dovuto impedire quella serie infinita di efferatezze. Oggi apprendiamo che la «depravazione» - questa è la parola usata da Stuart Jones nella conferenza - ha raggiunto «nuovi livelli», ha toccato l'apice.
Il nulla in cui sono scomparsi i nemici di Assad è un forno crematorio. Cinquanta impiccagioni al giorno. Forse più. Che fare allora per evitare le fosse comuni, che potrebbero essere scoperte un domani? Che fare per sbarazzarsi di corpi ingombranti, che potrebbero essere una scomoda prova dell'eccidio? Inserirli in un forno, renderli cenere.
Non c'è insulto più grande alla dignità umana: offendere persino la morte. L'idea che il cadavere meriti rispetto, l'idea della sepoltura, fa parte del patrimonio etico dell'umanità. L'odore nauseabondo che usciva dai camini dei forni crematori è stato il segno dell'oltraggio supremo che Auschwitz ha inferto alla dignità dei mortali. Non avremmo mai immaginato che un camino funzionasse di nuovo nel mondo.
Auspichiamo che l'Europa, che nella sua storia recente porta la macchia indelebile dei forni crematori, non resti inerte. Le istituzioni e il popolo europeo hanno, più degli altri, il dovere di mobilitarsi.
(Corriere della Sera, 16 maggio 2017)
Siria - Il Governo smentisce esecuzioni di massa
Ministro israeliano: è ora di eliminare Assad
AGENPRESS - Il governo siriano nega "categoricamente" le accuse degli Usa sulle esecuzioni di massa nel carcere e sul crematorio per bruciare le vittime.
L'agenzia ufficiale governativa siriana Sana cita una non meglio precisata "fonte responsabile al ministero degli esteri", secondo cui "le asserzioni dell'amministrazione americana sul cosiddetto crematorio della prigione di Saydnaya fanno parte di una storiella ideologica staccata dalla realtà".
"E' giunto il tempo di eliminare Bashar Assad", a parlare è il ministro israeliano dell'edilizia Yoav Galant, ex generale dell'esercito, intervenendo ad una manifestazione.
Quello che accade in Siria, ovvero, "gente deliberatamente colpita da armi chimiche, i loro corpi bruciati, è qualcosa che non si è visto negli ultimi 70 anni. E' stata passata una linea rossa". "Ciò che avviene lì - ha spiegato poi alla Radio Militare - è un genocidio sotto tutti gli aspetti". Galant ha quindi paragonato l'eliminazione di Assad al "taglio della coda del serpente. Dopo questo ci possiamo concentrare sulla testa, che si trova a Teheran".
(AgenPress, 16 maggio 2017)
Ebrei perseguitati, le testimonianze «Giovani, siate sentinelle di libertà»
di Raffaele Puglia
BOLZANO - La persecuzione degli ebrei ha toccato anche la nostra terra. Una barbarie che sembrava ormai dimenticata, rimossa, ma che in seguito alle ricerche eseguite da Sabine Mayr e Joachim Innerhofer, autori del libro «Quando la patria uccide. Storie ritrovate di famiglie ebraiche dell'Alto Adige», è stata riportata l'attenzione su un evento tanto disumano, quanto importante da ricordare. La presentazione del libro - ieri sera al Centro Trevi - è stata l'occasione per ascoltare le storie dei testimoni e dei loro discendenti, nonché i pensieri dello scrittore viennese Doron Rabinovici e degli autori del libro.
«Da bambino sentivo parlare sempre con molto interesse i miei nonni di quella che era la loro vita a Merano - ha spiegato Daniele Gronich, testimone, nipote del chimico Emilio Gronich - mio bisnonno Wolfgang aprì uno studio di batteriologo a Merano. E qui visse anche mio padre. Nel 1938 mio padre venne buttato fuori dalla scuola , la pasticceria dove andava a mangiare le pastine non aveva più pastine per lui. Passarono per Trento, Verona. Mio nonno con i pochi soldi rimasti comprò una pistola con tre proiettili in caso i nazisti li avessero raggiunti. La prima per mio padre, l'altra per mia nonna e l'ultima per lui. Con l'aiuto della Resistenza andarono in Svizzera. Mia zia, bionda con occhi azzurri, non venne uccisa, solo sterilizzata».
L'incontro ha visto una nutrita partecipazione di autorità politiche e civili, tutte con la stessa idea: rendere consapevoli le nuove generazioni.
«L'atto del testimoniare, del raccontare, è un dovere morale, ce lo ha insegnato Primo Levi - esordisce il presidente Arno Kompatsche:r - in una democrazia non c'è il divieto di pensare, c'è il dovere di pensare per insegnare».
«Mai dare per scontato la libertà e la democrazia di cui godiamo oggi - afferma il presidente di Anpi Bolzano Orfeo Donatini - sono valori che dobbiamo difendere tutti. La nostra presenza al fianco della comunità ebraica sarà continuativa e permanente».
Secco il sindaco Renzo Caramaschi: «Non dobbiamo più aver paura di approfondire i nostri errori. Italiani e tedeschi hanno creato un modello virtuoso. Ma occorre studiare di più la nostra storia».
«La nostra prima preoccupazione è alle nuove generazioni, che devono essere sentinelle di democrazia - ha detto il vicepresidente provinciale Christian Tommasini - è importante trasmettere la conoscenza per quando i testimoni non ci saranno più».
(Corriere dell'Alto Adige, 16 maggio 2017)
Bambine rom e tombe ebraiche, "ma non è razzismo"
Lettera a Furio Colombo
Caro Furio Colombo,
nella nostra cronaca cittadina tutto è incerto, nella prima battuta di brutte notizie, la causa, le modalità, la responsabilità e se l'evento possa considerarsi dannoso o colposo. E tutto rimane in sospeso, penso anche per cautela legale, finché le autorità non danno il primo verdetto. Di solito promettono indagini più approfondite. Non in due casi romani appena accaduti: il rogo dei bambini rom e la distruzione delle tombe ebraiche al Verano. Sono stupito dalla curiosa sicurezza delle fonti e dei cronisti: né un caso né l'altro hanno motivazione razziale.
Adriano
Le ripetute narrazionI del terribile rogo che ha distrutto parte della famiglia Halilovic (in 13 dormivano in un camper, in zona Casilina a Roma, qualcuno ha incendiato il camper di notte, tre bambini sono morti bruciati) si sono aperte subito, alla seconda o terza riga di ciascun articolo di cronaca, con l'assicurazione perentoria che se qualcuno dà fuoco a un camper rom mentre tutti dormono, non può essere che un altro rom. E cominciata la caccia, esclusivamente fra i rom. Sfortunatamente il rom assassino, dato per "identificato" dalle telecamere fin dall'inizio della storia, non è stato trovato, e le possibilità che la storia si allontani dalla nostra attenzione prima di sapere che cosa è successo davvero, sono più alte ogni giorno.
Segue la notizia che, nella civile città di Roma, una signora ha parcheggiato la sua auto in modo da schiacciare fiori, pupazzi e lettere ai bambini bruciati (un piccolo memoriale spontaneo come spesso accade sul luogo di un delitto così grave e penoso) e ha dichiarato orgogliosa: "Io parcheggio dove voglio". Subito dopo il rogo dei piccoli rom, un'altra sconvolgente notizia nella cronaca di Roma: decine e decine di tombe nel cimitero del Verano sono state scoperchiate e profanate. Le tombe sono ebraiche (tutte) nella prima narrazione. Nelle successive, si aggiungono "croci" senza precisare dove e come tombe cristiane e tombe ebraiche possano mischiarsi in una stessa scorribanda di vandali. Ma i vandali, già dalla seconda narrazione dei fatti, diventano "ragazzini". Infatti uno risulta quattordicenne. Ma non ci viene detta mai l'età del più adulto. Segue la certezza che, pur sollevando e spaccando pietre tombali ebraiche, difficilmente confondibili, i "ragazzini" non hanno mai pensato di agire per ragioni razziali. Una tale ipotesi viene esclusa all'inizio e alla fine di ogni articolo. È una bambinata, ci dicono i colleghi cronisti (pensate al peso delle lastre, divelte e spaccate a decine nella notte) di cui adesso sia "i ragazzini" sia i genitori si vergognano, tanto che "i ragazzini" vengono tenuti in casa, e i loro nomi, come da prescrizione di legge, restano "di fantasia" in ciascun articolo.
Non sappiamo nulla e non sapremo nulla delle loro famiglie e delle loro scuole. Risulta ai cronisti che, forse, "un videogioco" può avere motivato questa idea (così tipicamente da "ragazzini") di farsi chiudere di notte in un grande cimitero e - per caso - fra le tombe ebraiche del Verano, proprio mentre avevano gli attrezzi per spaccare tutto.
(il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017)
La metamorfosi di Israele secondo Avital Kotzer Adari
Israele da record. Nel mese di aprile in Terra Santa non si erano mai visti così tanti turisti, 390mila, prima d'ora. Un ritmo di crescita che ha segnato +40%, a giovamento anche della ricaduta economica che ha visto i viaggiatori spendere sul territorio 1,5 miliardi di euro tra gennaio e aprile di quest'anno. Numeri estremamente positivi cui ha contribuito anche l'Italia anch'essa mai così presente nel Paese con un +34% di crescita nei flussi turistici.
«Già alla Bit avevamo avuto l'impressione che il trend fosse in salita - spiega Avital Kotzer Adari, direttore dell'ufficio del turismo israeliano in Italia - il nostro stand era sempre pienissimo e non solo durante gli eventi, ma soprattutto negli orari dedicati agli appuntamenti».
A qualche settimana di distanza possiamo affermare che Israele piace e convince tanto che gli operatori confermano a loro volta un 25-30% in più di prenotazioni. Non solo le compagnie aeree fanno sapere che i posti sui voli diretti verso la destinazione sono quasi tutti venduti. A cosa si deve questo momento di grande slancio lo abbiamo chiesto direttamente alla direttrice Adari (VIDEO).
(Lagenzia di viaggi, 16 maggio 2017)
Ministro cipriota Fokaides in visita in Israele
Focus sulla sicurezza nel Mediterraneo orientale
NICOSIA, 15 mag. - Le minacce legate alla cybersecurity dovrebbero essere una dei principali temi affrontati nel corso della visita di oggi in Israele da parte del ministro della Difesa di Cipro, Christoforos Fokaides, che oggi a Gerusalemme incontrerà l'omologo Avigdor Lieberman. Il terrorismo, la sicurezza energetica e marittima, saranno gli altri temi del colloquio insieme all'ulteriore rafforzamento delle relazioni bilaterali nel campo della difesa. Il ministero della Difesa di Nicosia indica inoltre che i ministri Fokaides e Lieberman rivedranno oggi l'attuazione del programma di cooperazione militare bilaterale e discuteranno sugli ultimi sviluppi legati alla sicurezza nel Mediterraneo orientale. Si tratta della seconda visita del ministro della Difesa di Cipro in Israele nel 2017, elemento che evidenzia l'intensità delle relazioni bilaterali.
(Agenzia Nova, 15 maggio 2017)
Tunisia: premier Chahed al pellegrinaggio ebraico della Ghirba
"Noi siamo aperti alla convivenza delle religioni"
TUNISI - La Tunisia è un paese aperto alla convivenza delle religioni come testimonia l'annuale pellegrinaggio alla sinagoga di Ghriba. Lo ha detto il capo del governo di unità nazionale tunisino, Youssef Chahed, il quale si è recato ieri sull'isola di Djerba insieme ai ministri dell'Interno e del Turismo, rispettivamente Hedi Majdoub e Selma Elloumi, per verificare il corretto svolgimento del pellegrinaggio ebraico. Da parte sua, la Elloumi ha detto che il numero di turisti è aumentato del 30 per cento da gennaio, grazie a un graduale ripristino dei mercati tradizionali e lo sviluppo del mercato cinese, a seguito della cancellazione dei visti d'ingresso. Sono oltre 2.500 i visitatori che hanno partecipato al pellegrinaggio ebraico, su un totale di 12.000 turisti presenti sull'isola di Djerba. Il ministro ha sottolineato che le condizioni di sicurezza di Ghriba hanno contribuito a promuovere l'immagine della Tunisia all'estero. L'ambasciatore degli Stati Uniti in Tunisia, Daniel Rubinstein, ha definito "eccellente" l'organizzazione del pellegrinaggio, dicendosi contenti di aver partecipato a questo "grande evento".
(Agenzia Nova, 15 maggio 2017)
Origami, scienza di carta. Dal Giappone a Israele
Con le pieghe la geometria è più facile
di Ada Treves
Il fruscio dei fogli di carta, e il silenzio. La concentrazione, negli sguardi, nei gesti, l'attenzione con cui piccole mani piegano e voltano, osservano e piegano ancora. Da un rettangolo nascono forme e risate. Le lezioni di Origametria sono un misto di gioco e concentrazione, un percorso di scoperta e di rispetto per i limiti imposti dal foglio. E una successione di sorprese: da un foglio escono strutture, giochi, sculture. La geometria si impara cosi, in Israele, grazie alla volontà caparbia di Miri Golan che, appassionata di origami sin da bambina, ha sviluppato un programma che unisce l'arte degli origami alla geometria, approvato dal ministero dell'Istruzione. Il nome, «origametria», è nato quando all'inizio degli Anni 90 l'Israeli Origami Center, da lei fondato, ha iniziato a portare nelle scuole un programma specifico centrato sul riconoscimento delle figure geometriche e delle loro caratteristiche.
La fondatrice
Miri Golan ha scoperto l'antica arte degli origami da bambina, grazie alla tv. «Mi divertivo, era rilassante, non sapevo neppure di cosa si trattasse, per me era piegare la carta». La passione non è diminuita con gli anni e nel 1989, è andata in Giappone. «Quando sono tornata ho iniziato a sviluppare un programma per le scuole, che allora non aveva nulla a che fare con la geometria. All'inizio è stata dura, ma il passaparola mi ha aiutata». Non soddisfatta, ci ha unito l'altra sua passione, la matematica: «La geometria non è facile da insegnare, e difficile da imparare. E spesso non è per nulla divertente, anzi! Quando una classe inizia a fare origametria e scopre di poter misurare un angolo senza goniometro, o che basta una striscia di carta per costruire un pentagono, allora tutto cambia». L'origametria è entrata nel curriculum ufficiale delle scuole israeliane, con la recente evoluzione che ha portato alla piattaforma di e-learning e in Italia, grazie alla collaborazione con la professoressa Emma Frigerio, è arrivata fino in Bocconi.
In Italia
In realtà il dibattito teorico sull'insegnamento della matematica era già molto sviluppato agli inizi del secolo scorso e in Italia, dove Emma Castelnuovo ha mostrato la strada, puntava su una didattica attiva secondo cui solo seguendo un indirizzo storico-costruttivo è possibile coinvolgere gli allievi in una riscoperta delle leggi e delle proprietà di numeri e figure. La capacità di astrazione e la libertà di giocare con i simboli non è connaturata e l'apprendimento della matematica attraverso attività manuali è più facile e più profondo.
Gli origami permettono di fare questo passaggio giocando: piegare un foglio porta al riconoscimento delle figure geometriche, e si scopre cosa sono lati, diagonali e simmetrie, ma anche che capire gli angoli è importante, e senza neppure rendersene conto vengono acquisiti i concetti principali. Le bisettrici non fanno più paura e presto si passa alla costruzione dei solidi geometrici. Le frazioni diventano facili: basta iniziare a dividere il foglio in parti uguali. E quando si arriva alle proporzioni è sufficiente mostrare come da un foglio più piccolo con le stesse pieghe si ottenga un risultato finale di una dimensione diversa.
L'origametria, raccontano con entusiasmo gli insegnanti e i direttori delle scuole già coinvolte nel programma, sviluppa anche altro: dalla motricità fine alla capacità di concentrazione, dal pensiero logico e sequenziale alla coordinazione. Nelle classi aumentano il rispetto per il lavoro degli altri e la capacità di attenzione, e - spiega Dina Vardi, esperta di psicologia dell'educazione - funziona anche come rinforzo all'autostima. «Aiuta a coinvolgere attivamente i bambini e permette loro di sviluppare rapporti più stretti con gli insegnanti, basati su una collaborazione e su una complicità che difficilmente sarebbero possibili altrimenti. Nelle scuole, inoltre, sono state fatte valutazioni comparate fra chi ha seguito origametria e chi no, e la differenza nella facilità di ragionamento logico spaziale, cosi come nella capacità di concentrazione, è evidente». D'altronde la magia matematica degli origami è il cuore delle lezioni di Erik Demaine, professore del prestigioso Mit, e dei Ted di Robert Lang, il fisico e teorico degli origami che in 18 minuti spiega il collegamento fra le cicogne di carta e i telescopi spaziali. Ironicamente, i suoi ragionamenti non fanno una piega.
(La Stampa, 15 maggio 2017)
Commento alle preghiere di Menahem Recanati
Elena Lattes
Nel sedicesimo secolo l'Inquisizione imperava e migliaia di libri vennero bruciati. Tra questi gran parte provenivano dall'ambiente ebraico e, insieme al Talmud e altri commenti biblici, c'erano anche le opere di Menahem Recanati. Testi che in altre parti d'Europa venivano studiati e ristampati.
Menahem Ben Benjamin nacque a Recanati (da cui prese il nome) nel 1250 e morì nel 1310 circa, fu filosofo e scrittore e uno dei più grandi cabalisti di tutti i tempi. Era particolarmente devoto e desideroso di conoscere il senso più profondo e misterioso della Bibbia, ma seppe ben conciliare la "fede" con la scienza, tanto che acquisì grande importanza anche nel mondo intellettuale della sua epoca e di quella successiva: basti pensare che egli influenzò significativamente il pensiero di Pico della Mirandola il quale tradusse in latino il suo Perush al ha Torah (Commento alla Torah), stampato a Venezia nel 1523.
Ora, grazie al lungo e preciso lavoro del professor Giovanni Carlo Sonnino e di Nahmiel Menachem Ahronee, docente di lingua ebraica presso la Libera Università degli Studi di Ancona, le Edizioni il Prato hanno pubblicato Perush ha-Tefiloth, il Commento alle preghiere, con testo italiano ed ebraico a fronte. Un testo che era già stato tradotto in diverse lingue e di cui una copia in latino è inclusa nel ms.Ebr.190 della Biblioteca Apostolica vaticana con il titolo "De secretis orationum benedictorum", ma di cui mancava la versione italiana. Un preziosissimo contributo, quindi, che non è rivolto unicamente agli "addetti ai lavori", ma a chiunque sia curioso di conoscere una parte essenziale del pensiero europeo, della teologia cristiana e della concezione neoplatonica.
Inoltre, sebbene non sia di agevole lettura per chi non vive (o non ha studiato a fondo) le tradizioni e la lingua ebraiche, può aiutare ad avere un'idea delle basi fondamentali di questa cultura plurimillenaria da cui provengono le altre religioni monoteiste e una parte consistente del patrimonio europeo. Scorrendo il testo italiano qualunque lettore non potrà non evincere quanto le preghiere ebraiche sianoparticolarmente incentrate sulle lodi al Signore, siano carenti di richieste personali e soprattutto non contengano alcun anatema o espressione di disprezzo nei confronti di altre popolazioni o culture.
L'analisi del testo, che lo affronta nei minimi dettagli, fa capire quanto non solo le parole, ma anche le lettere e perfino la punteggiatura assumono un'importanza fondamentale: niente è lasciato al caso, ma tutto si presta a molteplici interpretazioni, favorendo e stimolando il dibattito e il pensiero analitico. La preghiera è infatti considerata il mezzo di collegamento tra le "forze inferiori" (di questo mondo) e le sfere celesti, il mezzo che permette l'unione mistica di due mondi che non sono separati, né vuoti e costituisce un contributo al compimento della Creazione poiché diventa una delle modalità del perfezionamento e dell' attuazione di quest'ultima.
È perciò fondamentale comprenderne i significati più reconditi e non ridurla a puro gesto meccanico, affinché essa abbia la sua efficacia. L'uomo, non solo recitandola quotidianamente, ma anche studiandola e analizzandola, diventa un soggetto attivo e propositivo che partecipa consapevolmente alla Creazione stessa, divenendone il coprotagonista.
Altro punto focale, più volte ribadito, è l'unicità della Divinità che si basa sul dualismo di Misericordia e Giustizia. Elementi che non si contrappongono ma si completano, entrambi necessari, sebbene il primo spesso prevalga nettamente sul secondo.
In sintesi, questo piccolo volume è interessante quindi non soltanto dal punto di vista filosofico o biblico, ma anche da quello linguistico e sociologico.
(Agenzia Radicale, 15 maggio 2017)
KIDOZ: l'idea israeliana per proteggere i bambini dai pericoli di internet
KIDOZ: l'idea israeliana per proteggere i bambini dai pericoli di internet. I contenuti presenti sul web sono variegati e purtroppo alcuni bambini inciampano in materiali che non sono propriamente adatti alla visione, per età oppure per la presenza di contenuti espliciti.
KIDOZ, è una rete libera con sede in Israele dedicata alla scoperta di contenuti sicuri per i bambini. Lo scorso anno, KIDOZ è passata da un milione di utenti attivi al mese a 50 milioni. L'idea è nata da un progetto personale di Gai Havkin, co-fondatore e CEO di KIDOZ, il quale ha voluto trovare una soluzione efficace per fare in modo che la figlia giocasse online o vedesse i video in tutta sicurezza.
Un ambiente online sicuro per i bambini
KIDOZ è un ambiente online sicuro. Suggerisce quotidianamente nuovi contenuti sulla base degli interessi dei più piccoli ed ogni singolo materiale è controllato manualmente dagli editor.
Questo il commento di Eldad Ben Tora, co-fondatore di KIDOZ:
Prima che diventi visibile sulla nostra piattaforma, ogni clip, gioco e app che promuoviamo viene visionato e classificato per fasce d'età interessate.
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KIDOZ non è dedicata solo alla fruizione dei contenuti da parte dei bambini, essa tiene conto anche del lavoro degli sviluppatori.
Aiutiamo gli sviluppatori di app per bambini a fare crescere il loro business in un modo che rispetti il loro marchio e i loro valori. Abbiamo creato un pacchetto di sviluppo (SDK) che si trova all'interno delle applicazioni e suggerisce i contenuti che potrebbero essere rilevanti per i bambini. In questo modo gli sviluppatori di applicazioni possono presentare campagne provenienti da marchi come Hasbro, Mattel e Nickelodeon e guadagnare dal loro traffico (invece di mostrare banner per le automobili e l'assicurazione). Il secondo vantaggio che offriamo è la promozione di app. Gli sviluppatori che vogliono far crescere la loro base di utenti possono chiedere di essere presenti sulla nostra rete. Ad esempio, se hanno sviluppato un'app educativa per bambini in età prescolare, noi li promuoveremo all'interno della categoria mirata.
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L'importanza della privacy dei bambini
La società opera come una piattaforma chiusa, fornendo applicazioni in un ambiente protetto per i bambini e che rispettano la Child Online Privacy Protection Act (la legge approvata negli Stati Uniti nel 1998 per la protezione dell'infanzia in rete), che proteggere i bambini dal contatto con materiale di natura sessuale reperibile in Internet. Kidoz blocca uno smartphone in modo che un bambino possa giocare solo all'interno del browser KIDOZ.
(SiliconWadi, 15 maggio 2017)
Israele: calo di vendite
Il mercato automobilistico, in Israele, è sceso , in aprile, del 15% rispetto allo stesso mese dell'anno passato, sono state contate solo 19.515 immatricolazioni. Ma il saldo annuo rimane in territorio positivo, con 118.182 vendite, un più 4% rispetto al 2016.
Kia resta leader di mercato nonostante si sia registrata una flessione del 7% (2.744 le vetture consegnate) assieme alla sorella Hyundai, anch'essa in calo del 20%, con 2.499 unità. In questo quadro s'inserisce però la nuova Hyundai Ioniq, che é entrata immediatamente all'undicesimo posto delle auto più vendute grazie alla politica di incentivazioni che favorisce l'acquisto di auto verdi.
Tra le altre marche, da registrare le flessioni di Toyota (-6%) e Skoda (-14%), in controtendenza, invece, Audi (+ 55%), BMW (+64%), Dacia (+24%), Isuzu (+93%), Jeep (+37%), Alfa Romeo (+32%), Cadillac (+41%) e Suzuki (+6%).
(Crisalide Press, 15 maggio 2017)
La rivoluzione di Via, app nata in Israele e sempre più popolare negli Usa
«Cammina fino all'angolo e il minibus verrà a prenderti»
di Paolo Mastrolilli
La rivoluzione dei trasporti sta arrivando anche in Italia. Si chiama Via, è un servizio di minivan o bus che prenoti col cellulare, viene a prenderti all'angolo della strada, costa una frazione dei taxi, e potrebbe decongestionare il traffico nelle nostre città. Come ce lo spiega Daniel Ramot, israeliano di 41 anni, cofondatore della compagnia con Oren Shoval e ceo.
- Dove avete trovato l'idea?
«In Israele c'è un servizio privato di bus molto popolare, che si chiama sherut. Supplementa il sistema pubblico con mezzi più piccoli, seguendo gli stessi percorsi e facendo le stesse fermate. Abbiamo pensato di unire questo concetto alla tecnologia che consente di rendere più flessibile il servizio, collegando i passeggeri ai veicoli più vicini che vanno nella loro direzione, e condividendo la corsa con altre persone. Prenoti con l'application dal cellulare e mettiamo insieme i clienti che vanno nella stessa direzione, mandando il mezzo a prenderli lungo il percorso. Crediamo che questo sia il futuro dei trasporti di massa».
- Che differenza c'è tra Via, e servizi come Uber o Lift?
«È più dinamico e meno costoso. A New York, ad esempio, abbiamo una "flat rate" di 5 dollari per corsa. In cambio chiediamo ai passeggeri di contribuire all'efficienza del sistema, camminando fino all'angolo della strada per consentire al mezzo di seguire il percorso più rapido, e aspettarlo. Le nostre auto sono più grandi, ospitano tra 4 e 6 persone, e la maggioranza degli autisti riceve un compenso fisso, oltre alle commissioni».
- È vero che avete un codice di comportamento a bordo?
«Chi sceglie Via ha un atteggiamento diverso da chi usa i taxi. Non è obbligatorio parlare, ma cerchiamo di costruire un senso di comunità. La mattina le persone sono più taciturne e assorbite dal lavoro, ma la sera diventano più socievoli e chiacchierano, invece di concentrarsi sui cellulari. Ci sono coppie che mi hanno raccontato di essersi conosciute durante una corsa o passeggeri che hanno trovato lavoro».
- Perché questo è il futuro del trasporto di massa?
«Meno auto, traffico, inquinamento, costi, con un servizio più rapido, efficiente, e adattabile alle esigenze dei clienti. Quando i trasporti pubblici funzionano, come a New York, la maggioranza dei cittadini li usa, ma costruire simili sistemi in tutte le città è difficile e costoso. Noi possiamo offrirli attraverso la nostra tecnologia e a un prezzo più basso».
- Può darci qualche numero per spiegare la scala di Via?
«A New York abbiamo superato la soglia di un milione di corse al mese; oltre 13 milioni per la piattaforma. Abbiamo 170 dipendenti, la sede a New York, uffici a Chicago, Washington, Londra, Berlino, il servizio clienti a Salt Lake City. Sviluppiamo la tecnologia in Israele e abbiamo raccolto 137 milioni di dollari in investimenti per potenziare la compagnia».
- Dopo New York, Chicago e Washington, dove andrete?
«Possiamo fornire il servizio completo con partner oppure la tecnologia. In Gran Bretagna lavoriamo con Arriva a Kent, per bus da 12 passeggeri, e pensiamo di aprire a Londra; in Francia siamo a Parigi, con la sussidiaria di Sncf Keolis».
- E in Italia?
«Siamo interessati a fare qualcosa di simile nel vostro Paese. Non abbiamo ancora un piano concreto da annunciare, ma stiamo cercando di individuare il partner giusto con cui lavorare, e la città dove cominciare. Roma o Milano sono obiettivi ovvi, ma ci sono altre città possibili. Non ci vediamo come una compagnia che perturba il sistema, ma lo supplementa e aiuta gli operatori a diventare più efficienti».
- Pensate di usare bus più grandi?
«Dipende dalle situazioni. A New York la dimensione giusta è quella dei minivan, ma a Kent abbiamo mezzi più capienti».
- State considerando di usare veicoli senza guidatore?
«Sì. Riteniamo che sia in corso una trasformazione epocale dei trasporti pubblici, un settore dove vengono investiti trilioni di dollari, e la nostra visione è riorganizzarli. Il pubblico non vuole più avere auto private, ma servizi condivisi, agili e dinamici, che prenoti e usi in base alle tue esigenze. Alla fine di questa trasformazione ci saranno i veicoli autonomi, elettrici, che attraverso la nostra tecnologia andranno a prendere i passeggeri e li porteranno a destinazione. Il servizio sarà più efficiente, meno inquinante, meno costoso. Questo intendiamo fare con Via».
(La Stampa, 14 maggio 2017)
Europa dell'est, allerta antisemitismo: molti rifiutano gli ebrei
di Roberto Zadik
Paesi come la Polonia, l'Ungheria e l'Europa dell'Est in generale hanno avuto enormi responsabilità nella Shoah e poi nel comunismo, massacrando spesso e volentieri gli ebrei del luogo e causando enormi sofferenze. Per questo la diaspora in massa degli ebrei askenaziti, emigrati in Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Sud Africa o America Latina, dall'Argentina, al Messico al Brasile, a causa delle persecuzioni subite ha segnato profondamente la seconda metà del Novecento generando la formazione di nuove comunità nei punti più remoti del mondo.
A 72 anni di distanza da quelle atrocità, ancora in quei Paesi martoriati dall'occupazione tedesca e poi dal giogo delle dittature, gli ebrei sono ancora oggi molto mal visti e oggetto di antisemitismo. A questo proposito il sito Times of Israel ha recentemente pubblicato un sondaggio realizzato dal Pew Research Center secondo il quale un gran numero, oltre il 20 percento, degli europei dell'Est o si sono rifiutati di rispondere o hanno chiaramente espresso che non vorrebbero avere vicini ebrei e rapporti con persone di religione ebraica e solamente il 10 percento degli interpellati sarebbe disposta nemmeno a accettarli come concittadini e connazionali.
Indubbiamente si tratta di dati molto preoccupanti, che ben si inseriscono, purtroppo nel contesto di "antisemitismo di ritorno" a livello mondiale. L'indagine è stata condotta dal Pew Research Center sugli abitanti di 18 nazioni. Secondo i dati poca gente accetterebbe apertamente gli ebrei e meno della metà degli intervistati ha risposto in senso contrario. Lo studio è stato condotto dal giugno 2015 al luglio 2016 intervistando circa duemila persone per ogni Paese, e stando alle stime la minoranza ebraica risulterebbe maggiormente accettata rispetto ai musulmani e i Rom, tollerati solo 57 percento mentre il 19 percento li vorrebbe in famiglia. Solo due terzi della popolazione accetterebbe i musulmani come cittadini mentre solo il 27 percento li accoglierebbe in casa.
A questo quadro molto cupo si aggiungono Paesi molto xenofobi, che erano molto antisemiti anche prima della Shoah. Prima fra tutti la Lituania, e il numero di ebrei dispersi fra Stati Uniti e Sudafrica è molto grande, con il 23 percento degli abitanti antisemiti, seguiti dal 22 percento della Romania, dal 22 percento dellla Repubblica Ceca e il 18 percento della Polonia. Gli intervistati più colti sono andati un po' meno peggio di altri, dichiarando di tollerare in famiglia, come vicini e cittadini, gli ebrei del luogo.
(Mosaico, 14 maggio 2017)
Hebron, il sindaco con le mani insanguinate
Ci sono Paesi dove la legge scandisce i ritmi del vivere civile e ce ne sono altri, dove invece non solo questo non avviene ma vengono addirittura capovolti i valori. E cioè chi infrange e non rispetta i valori elementari e calpesta i diritti umani viene promosso, eletto, diventa un leader ed un esempio per le nuove generazioni Uno di questi paesi è la Palestina.
Tayseer Abu Sneineh, pluriassassino , componente e leader di una cellula terrorista negli anni ottanta è stato eletto sindaco della città di Hebron. Come capolista del partita Fatah....
(Italia Israele Today, 14 maggio 2017)
Israele - Amit Mor: rivoluzione 'verde' del Paese in 20 anni
di Cecilia Scaldaferri
ROMA - Israele deve puntare in 20 anni a passare piu' di meta' del suo parco macchine ai combustibili alternativi, in particolare veicoli elettrici, sfruttando il gas naturale, di cui e' ricco, e le energie rinnovabili.
E' la visione fortemente sostenuta da Amit Mor, amministratore delegato di Eco Energy, societa' di consulenza finanziaria e strategica, esperto israeliano in campo energetico, da quasi 30 anni consigliere di governi, imprese e istituzioni, pubbliche e private. Parlando con AGI, Mor ha spiegato punto per punto gli argomenti a favore.
"Siamo un Paese piccolo, un''isola' che non e' connessa ne' con i Paesi arabi ne' con l'Europa, a forte vocazione imprenditoriale, con 3 milioni di mezzi in circolazione e ingenti riserve di gas", grazie alla scoperta nel 2009-2010 dei giacimenti Tamar e Leviathan, quest'ultimo considerato tra i maggiori nel Mediterraneo. Ecco perche', di fronte al "problema del cambiamento climatico", il governo israeliano deve "indirizzare molti dei suoi sforzi" a promuovere la 'Clean Transportation Vision', "per dimostrare a se stesso e al mondo che in 15/20 anni e' possibile passare piu' della meta' del parco macchine a combustibili alternativi", puntando in primis sulle "auto elettriche".
"Al momento, produciamo il 60% della nostra energia elettrica dal gas naturale, in cinque anni arriveremo all'80%, in dieci anni il peso delle rinnovabili", a cominciare dal solare, "arrivera' al 15%", ha sottolineato. Certo, e' "una visione di lungo periodo" ma porterebbe "benefici" a tutto il Paese, "mettendo a frutto quello in cui siamo bravi, la tecnologia". "E' facile perche' ha senso da un punto di vista economico - ha insistito con forza - e' una situazione win-win: Si vende piu' gas, con conseguenze per le entrate statali, si tutela l'ambiente e si creano posti di lavoro in Israele" grazie all'indotto tecnologico. Lo sviluppo delle macchine elettriche e senza pilota, vero tema del futuro per Mor, richiede infatti investimenti e ricerca, un terreno sul quale gli israeliani possono competere, forti dell'eccellenza raggiunta nel campo dell'high-tech.
(AGI, 14 maggio 2017)
Dalla strage di Fiumicino al patto con l'Olp, nuove rivelazioni sul "Lodo Moro"
Era il 1973 quando cinque palestinesi furono arrestati ad Ostia: vennero trovati in possesso di missili Strela che intendevano usare per abbattere un aereo israeliano. Nell'ambito delle complesse trattative che portarono alla loro liberazione - e che coinvolsero anche la Libia - l'Olp (l'organizzazione per la liberazione della Palestina) si impegnò ufficialmente a non effettuare più azioni di guerra sul suolo italiano.
Tuttavia le frange più estremiste della galassia palestinese non accettarono quell'intesa e si resero responsabili della strage di Fiumicino del 17 dicembre del 1973.
"Fu solo dopo quella tragedia che il cosiddetto Lodo Moro cominciò a diventare qualcosa di davvero strutturato e funzionante, grazie soprattutto al fondamentale lavoro di mediazione svolto del colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, funzionario dei Servizi da sempre molto legato a Aldo Moro", il cui ritorno al ministero degli Esteri avrebbe consentito che il patto prendesse davvero forma.
A spiegare quel pezzo di storia italiana, apparentemente lontana nel tempo ma ancora oggi attuale, è lo storico Giacomo Pacini, dell'Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell'Età Contemporanea durante il suo intervento al convegno "Aldo Moro e l'intelligence. Il senso dello Stato e la responsabilità del potere", promosso a Rende dal Centro di Documentazione Scientifica sull'Intelligence dell'Università della Calabria.
Pacini ha presentato una documentazione inedita per tentare di fornire una ricostruzione del cosiddetto "Lodo Moro", ossia di quella sorta di patto di non belligeranza che prevedeva la salvaguardia dalla minaccia di attentati terroristici in cambio della liberazione dei militanti palestinesi arrestati sul suolo italiano, la tolleranza per i traffici di armi verso il Medio Oriente, nonché un impegno a arrivare a un riconoscimento ufficiale da parte delle diplomazie europea dell'Olp come legittimo rappresentante del popolo palestinese.
Sulla base del materiale che è stato possibile rinvenire, ha sostenuto lo storico, "si evince che i primi contatti tra funzionari dei Servizi segreti italiani e emissari palestinesi avvennero a fine 1972 nell'ambito di una trattativa che portò alla liberazione di due militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) arrestati nel precedente agosto per aver nascosto un ordigno in un mangianastri portato inconsapevolmente su un aereo israeliano da due turiste inglesi".
Il convegno nell'ateneo cosentino è stato introdotto dal Direttore del Master in Intelligence Mario Caligiuri e ha visto anche diverse relazioni, tra le quali quelle di Ciriaco De Mita e Luigi Zanda.
(CN24, 14 maggio 2017)
Il settimo giorno della guerra dei Sei Giorni
1967- 2017 I territori conquistati 50 anni fa sono W1 pesante fardello per Israele. E la dura disfatta dei regimi arabi laici ha alimentato il jihadismo.
di Lorenzo Cremonesi
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| Vignette apparse sulla stampa araba prima della guerra dei sei giorni |
Per Israele fu una vittoria straordinaria, quasi magica grazie ai successi militari fulminei su tutti i fronti. Per il mondo arabo si rivelò una sconfitta umiliante, tanto grave da condizionarlo per decenni. La chiamano guerra dei Sei Giorni, anche se in verità fu combattuta in poco meno di cinque. Viviamo tutti ancora sotto l'ombra lunga di quella guerra, affermano coloro che si occupano di Medio Oriente, compresi israeliani e palestinesi, per una volta concordi. Marcò tra l'altro l'inizio della decadenza del nasserismo e del nazionalismo arabo laico, mentre ha prodotto il rilancio dell'islam politico, dei Fratelli musulmani, e ha posto persino le fondamenta di al Qaeda e dell'Isis.
Le premesse più dirette risalgono al conflitto per Suez del 1956 ( estremo singulto coloniale nell'era della guerra fredda), al termine del quale Usa e Urss costrinsero Israele ad abbandonare il Sinai e la striscia di Gaza. In cambio la penisola venne demilitarizzata con la presenza di un contingente dell'Onu. Undici anni dopo i sovietici, convinti che Israele prima o poi avrebbe attaccato la Siria, spinsero i leader arabi al conflitto, fornendo anche dati d'intelligence falsi, secondo i quali lo stato maggiore a Tel Aviv sarebbe stato in procinto di invadere le alture siriane del Golan. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, leader popolare del panarabismo, si scagliò contro il «nemico sionista da ributtare a mare». Divenne come prigioniero della sua retorica, tanto che il 17 maggio 1967 chiese il ritiro parziale dei 3.400 caschi blu al segretario generale dell'Onu U Thant. Questi commise un grave errore, sperando di dissuadere l'Egitto: o tutti o nessuno. Nasser non poteva perdere la faccia, era andato troppo in là nell'invocare la «liberazione della Palestina», così cacciò l'Onu e superò la linea rossa posta da Israele, inviando 600 carri armati e centomila uomini nel Sinai. Voleva veramente la guerra? No, almeno non in quel momento, non era pronto, un terzo del suo esercito era impegnato nello Yemen. Ma il conto alla rovescia era innescato.
In Israele regnava l'indecisione. Il premier Levi Eshkol tentennava. Il suo ministro della Difesa, Moshe Dayan, propendeva per l'azione immediata. Il padre della patria David Ben Gurion paventava un «nuovo Olocausto». A spostare il pendolo a favore dell'attacco fu l'intelligence militare: avevano i numeri in mano, informazioni accurate, il piano comportava un attacco aereo iniziale a sorpresa. Conoscevano i nomi dei piloti egiziani, avevano le foto aeree dei loro jet disposti sulle piste, delle unità di terra nel Sinai. Così il 20 maggio scattò la mobilitazione, con 264 mila israeliani sotto le armi: una situazione che poteva durare solo pochi giorni per evitare la paralisi dell'economia. Alle 7.45 del 5 giugno la prima ondata aerea appare nei cieli egiziani. Hanno volato rasoterra per ingannare i radar. Sono quaranta caccia Mirage e altrettanti bombardieri Mystère. Prima di mezzogiorno la Pearl Harbour egiziana si è compiuta. La guerra è già decisa. Almeno 309 dei 340 aerei da combattimento di Nasser sono torce fumanti. Ma dal Cairo si parla di «strabilianti vittorie». Israele tace e colpisce. «Da Gerusalemme mi comunicavano discreti che, se non mi fossi mosso, loro non avrebbero attaccato la Giordania. Per contro Nasser mi fece avere le immagini dei suoi radar: mostravano decine di aerei in volo sul Sinai. Mi disse che erano i suoi che tornavano dai raid contro i sionisti e che dovevo mandare all'attacco il mio esercito, se volevo poi unirmi e beneficiare della vittoria. Fui imbrogliato, in realtà erano le ondate degli israeliani che avevano ridotto in cenere i suoi», confidò re Hussein di Giordania al «Corriere» nel 1991. Un'amarezza che ben riflette le ragioni della disfatta araba: mancanza di coordinamento, tradimenti, gelosie. La tanto celebrata «unità panaraba» si rivelò vuota retorica.
Quando arrivano al canale di Suez gli israeliani hanno perso circa 300 uomini, gli egiziani oltre 15 mila. Inoltre 800 tank di Nasser sono cenere o catturati, 10 mila suoi automezzi sono nelle mani degli israeliani. Il 7 giugno è presa anche Gerusalemme Est, 1'8 il Giordano diventa confine. Solo adesso Dayan ordina l'attacco sul Golan, che viene preso in 27 ore. Il 10 giugno a Damasco sventola bandiera bianca.
Eppure, per Israele quel successo fu anche una maledizione. Riassume lo storico Benny Morris: «Per gli arabi fu evidente che non potevano più sperare di annullarci militarmente. La guerra del Kippur nel 1973 vide Egitto e Siria decise a riprendersi almeno parte delle terre perdute, ma non mirava a ributtare tutti gli ebrei a mare come invece predicava Nasser. Però per Israele si spalancò allora un grave pericolo interno, destabilizzante, esistenziale. Il nuovo controllo sulle regioni dell'Israele biblica vide il connubio tra nazionalismo e religione, incarnata nei movimenti estremisti messianici di coloni che andavano a insediarsi nelle aree conquistate».
L'occupazione destabilizza e lacera le esistenze degli occupati, ma corrompe e vizia anche gli occupanti, sostiene da anni Amos Oz. Così gli israeliani persero la loro «verginità morale». Il Paese nato dai profughi in fuga dall'antisemitismo europeo, dai miti della resistenza al nazismo, dalla convinzione di aver guadagnato il diritto di esistere anche col sangue della Shoah, si ritrovò a mettere in atto un ampio meccanismo di controllo e repressione tra Cisgiordania e Gaza. A Hebron pochi mesi dopo la guerra arrivò un gruppo di estremisti religiosi che volle celebrare la Pasqua nell'antico edificio della «Tomba dei Patriarchi» per esaltare la cerimonia «del ritorno». Gli stessi dirigenti laburisti ne furono in gran parte contenti, videro in quei ragazzi infervorati dallo zelo religioso e nei loro rabbini esaltati una reincarnazione dei pionieri dei kibbutz. E nacquero ambiguità profonde: Israele offriva la pace in cambio del ritiro sui confini del 1948 (proposta allora rifiutata dai leader arabi), nel contempo si ponevano le basi della colonizzazione a tappeto che oggi ha de facto vanificato la formula «pace in cambio della terra» e aperto per lo Stato ebraico il dilemma del braccio di ferro demografico con i palestinesi.
Una data tragica e catartica segna questa parabola: 4 novembre 1995. Allora, nella piazza centrale di Tel Aviv, mentre la sinistra celebrava gli accordi di Oslo con i palestinesi, uno dei figli più fanatici dei gruppi ultranazionalisti fioriti dalla guerra dei Sei Giorni uccise uno dei padri di quell'evento: il primo ministro Yitzhak Rabin, che era stato il capo di stato maggiore dell'esercito nel 1967, l'uomo chiave della vittoria. Per tutta la vita aveva temuto di essere eliminato da un arabo. Mai da Ygal Amir, un ebreo nato vicino a Tel Aviv nel 1970, che lo accusava di «tradimento».
(La Stampa, 14 maggio 2017)
Articolo distorto dall'accettazione e dall'uso ignorante o fraudolento di termini come "occupazione" e "colonizzazione". Ma ormai l'ignoranza si è talmente estesa e radicata che non è più riconosciuta come tale. Né molti hanno voglia di riconoscerla, perché per loro sarebbe confermato ancora una volta l'antico stereotipo: gli ebrei rubano. Antisemitismo, null'altro che antisemitismo in veste morale antisionista. M.C
«Il Medio oriente cambia, Hamas si deve adattare»
Intervista a Ahmed Yousef. Il teorico del movimento parla del nuovo Statuto: «Lungo dibattito ma ora tutti d'accordo».
Ahmed Yousef non è più il consigliere dell'ex primo ministro e ora leader dell'ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeb. Resta però uno dei "teorici" del movimento islamico. È considerato uno degli artefici degli emendamenti allo Statuto di Hamas del 1988 annunciati nei giorni scorsi e con cui gli islamisti hanno accettato l'idea della creazione di uno Stato palestinese solo in Cisgiordania e Gaza senza riconoscere Israele e rinunciare alla lotta armata.
Modifiche che hanno fatto parlare di svolta «moderata» e di «segnali» inviati all'Occidente e al mondo arabo dall'organizzazione fondata trent'anni fa dallo sceicco Ahmed Yassin poco dopo l'inizio della prima Intifada.
Segnali che, ad oggi, non sono stati accolti mentre Israele, per bocca dello stesso primo ministro Netanyahu, smentisce l'esistenza di novità nello Statuto e afferma che Hamas resta impegnato nella distruzione dello Stato ebraico. Il partito laico Fatah da parte sua ha criticato duramente Hamas per averlo accusato di «tradimento» durante e dopo la firma degli Accordi di Oslo con Israele nel 1993 per poi giungere, 24 anni dopo, alla accettazione del compromesso territoriale con lo Stato ebraico.
«È presto per valutare le reazioni internazionali e delle altre forze politiche palestinesi, ci dice Yousef accogliendoci nel suo ufficio, House of Wisdom, in un edificio sul lungomare di Gaza city. La cosa più rilevante al momento - aggiunge - è aver fatto delle modifiche che non erano più rinviabili. Lo Statuto del 1988 fu scritto con il linguaggio di quel periodo e non era più rappresentativo di Hamas come lo conosciamo oggi. L'autore di quel testo e chi lo ha assistito non avevano tenuto conto del diritto e della diplomazia che oggi non si possono ignorare» Cambiamenti che non tutti in Hamas hanno accettato di buon grado. Qualche giorno fa, uno dei fondatori del movimento ed ex ministro degli esteri Mahmoud Zahar, ha negato che lo Statuto emendato rappresenti una «strada nuova», in modo da sconfessare la svolta che non ha gradito.
Con Zahar sarebbe schierato il leader di Hamas a Gaza ed esponente di punta dell'ala armata Yahya Sinwar, contrario alle aperture fatte all'Olp controllata da Fatah e presieduta da Abu Mazen.
Yousef ammette l'esistenza di differenze, anche ampie, di opinione: «Hamas è una organizzazione complessa ed è normale che al suo interno vi siano visioni diverse. Il nuovo Statuto è frutto di un dibattito che è andato avanti per lungo tempo e di decisioni prese sulla base di un consenso adeguato. Comunque occorreva cambiare e su questo sono stati tutti d'accordo.
In Medio oriente, aggiunge, «sono intervenute trasformazioni importanti di cui il nostro movimento non può non tenere conto e mano a mano che il ruolo di Hamas ha assunto dimensioni sempre più rilevanti non si poteva restare immobili».
Yousef non nasconde che il rapporto con lsraele resta il nodo centrale agli occhi della comunità internazionale. Sa che il mancato riconoscimento dell'esistenza di Israele ostacolerà il cammino di Hamas verso la sua legittimazione agli occhi dei paesi occidentali alleati dello Stato ebraico.
L'Occidente guarda a questo tema da un unico punto di vista, Hamas fa un discorso diverso - spiega - Non disconosce che la Terra Santa abbia un valore enorme per le tre religioni monoteistiche e che in essa vi siano alcuni dei luoghi più santi per queste fedi. Una soluzione perciò è possibile tra i popoli di Islam, Cristianesimo e Ebraismo. Hamas non è schierato contro gli ebrei ma condanna il sionismo e le sue politiche contro i diritti del popolo palestinese. Il nostro scontro è con il nazionalismo sionista, non con l'ebraismo».
Yousef infine riconosce che gli emendamenti allo Statuto e la presa di distanza dai Fratelli musulmani sono anche la conseguenza delle pressioni su Hamas giunte da alcuni paesi islamici e che sono volti a migliorare le relazioni con varie capitali arabe, a cominciare dal Cairo.
«Hamas deve guardare al presente e più di tutto al futuro, facendo delle scelte razionali, quindi aderenti alla realtà senza per questo rinunciare ai suoi principi fondamentali».
(il manifesto, 14 maggio 2017)
I principi fondamentali di Hamas su cui ora sono tutti daccordo sono questi: Gli ebrei possono vivere, lo Stato ebraico no. Nulla di strano, in fondo. Non è forse quello che pensano tanti altri, che proprio per questo rifiutano di essere accusati di antisemitismo? Hamas non è un problema internazionale perché rappresenta lantisemitismo internazionale di ultima generazione: lantisionismo. M.C.
Se Trump gela i falchi israeliani
Alla vigilia del suo primo viaggio da presidente, The Donald riequilibra la sua posizione sulla questione israelo-palestinese.
The Donald gela l'entusiasmo e le aspettative dei falchi d'Israele. In procinto di intraprendere la sua prima missione all'estero da presidente, Donald Trump corregge il tiro e riequilibra la sua posizione sul conflitto israelo-palestinese, La priorità sul complesso e accidentato scenario mediorientale dell'inquilino della Casa Bianca è ricucire i rapporti con i Paesi sunniti, a cominciare dall'Arabia Saudita. A questo servirà la prima tappa del lungo tour diplomatico del presidente Usa, che porterà Trump a Riad dove ad attenderlo non sarà solo re Salman d'Arabia ma anche altri leader e capi di Stato sunniti, convocati dal re saudita per sancire un riavvicinamento del fronte sunnita dopo l'irrigidimento della nuova amministrazione statunitense rispetto all'apertura all'Iran sciita che ha caratterizzato la politica estera del predecessore di Trump, Barack Obama.
Mostrarsi troppo "arrendevole" alle pretese israeliane, da parte di Trump, non agevolerebbe questo riavvicinamento ed ecco dunque i più stretti collaboratori del tycoon americano far filtrare alcune anticipazioni, politicamente alquanto succose, su cosa dirà e farà Trump nella sua tappa israeliana.
La prima anticipazione è che l'inquilino della Casa Bianca, pur ribadendo con forza il "patto di ferro" con l'alleato israeliano, non annuncerà Io spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, come pure aveva promesso nella sua campagna elettorale. A prevalere è un principio di realismo, fortemente sostenuto dal segretario di Stato, Rex Tillerson, che pone l'accento sulla necessità da parte americana di non lasciare alla Russia di Vladimir Putin il monopolio delle relazioni con il mondo arabo. Di qui il rinnovato impegno del Pentagono nelle operazioni militari in Siria, con la decisione di sostenere sul campo le milizie curde dell'Ypg, in prima linea nell'assedio a Raqqa la "capitale" siriana dello Stato islamico. Nasce da qui, il riequilibrio trumpiano in Terrasanta.
Un'avvisaglia c'era già stata quando alla Casa Bianca Trump aveva ricevuto il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas, il 3 maggio scorso. Al leader dell'Anp, Trump ha fatto una promessa pubblica: «Sarò mediatore, arbitro e facìlìratore» per la pace. Un impegno che avrà una sua prima verifica durante la visita Usa a Gerusalemme. Qui, anticipano fonti della Casa Bianca, Trump non espliciterà direttamente il suo sostegno alla soluzione «a due Stati» ma affermerà che la sua amministrazione riconosce il diritto palestinese all'autodeterminazione e che non c'è alternativa alla ripresa di un negoziato diretto tra le due parti.
Parole, certo. Ma che pesano e molto sul futuro del processo di pace. Netanyahu ne è consapevole e per questo, nonostante le pressioni dell'ala più oltranzista del suo governo, non insisterà sul diritto d'Israele a colonizzare Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania) né accennerà alla promessa di Trump sullo spostamento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme. Il premier israeliano dovrà "accontentarsi" delle chiusure di Trump all'Iran e concedere aperture ai palestinesi. Non è quello che i falchi dello Stato ebraico volevano, ma The Donald ha capito che in Medio Oriente, «America first» significa non rompere con le petromonarchie del Golfo e ridare una chance al dialogo israelo-palestinese,
Non sarà una "colomba" ma già un Trump pragmatico è un passo in avanti di non poco conto.
(lUnità, 14 maggio 2017)
Honey & Co. Un ristorante israeliano a Londra e due libri da non perdere
Q.B. QUANTO BASTA - È considerato uno dei gioiellini gastronomici della capitale britannica e il merito è dei due chef israeliani, Sarit Packer e Itamar Srulovich. Il bergamotto, agrume superstar. Hybrid Seletti, piatti e tazze per stupire. Una tisana detox per la coccola serale
Medio Oriente londinese
È un piccolo ristorante di Fitzrovia, a Londra. Eppure, al momento Honey & Co. è considerato uno dei gioiellini gastronomici della capitale britannica. Il merito è dei due chef israeliani, Sarit Packer e Itamar Srulovich, che nella vita sono anche (innamoratissimi) marito e moglie. Dopo un periodo alla "corte" di Yotam Ottolenghi, i due hanno deciso di lanciarsi in proprio. Fanno una cucina mediorientale unica nel suo genere: tradizionale ma anche ricca di spunti originali. Il risultato? File interminabili davanti al locale, articoli su riviste e importanti quotidiani come il Guardian. E, da poco, un secondo locale dove si tengono anche momenti di riflessione e showcooking. Ma per conoscerli davvero, sfogliate i loro due libri Honey & Co.: The Baking Book e Food From the Middle East (Saltyard). Per il Sunday Times, libri dell'anno.
Il décor si fa in due La linea Hybrid di Seletti, con i suoi piatti e le sue tazze bicolori, ci riporta indietro nel tempo. Un tempo fatto di decorazioni antiche fuse con linee e forme moderne. Ideate dal collettivo multidisciplinare CtrlZak, riflettono sulla produzione storica cinese ed europea del Bone China e su secoli di unione tra estetica orientale e occidentale. Prodotte in Tangshan, sono divise a metà, proprio a simboleggiare l'incontro tra queste due culture.
Agrume superstar
Tutti pazzi per il bergamotto. È possibile ottenere una spremuta di questo agrume unico e raro. Si può tagliare a spicchi per le insalate o metterlo nel tè. La buccia infatti è aromatica come quella del limone. Ma io amo usarlo nell'acqua tiepida del mattino, con un'aggiunta di foglia di alloro. Fatelo anche voi!
Detox quotidiano
Chiudere con una tisana la propria giornata è un momento che tutti dovrebbero dedicarsi. Il guru del detox, Henri Chenot, ha lanciato una linea che viene dall'esperienza decennale maturata nelle sue spa. Mix di erbe, frutta e fiori appena raccolti, ne esistono sette miscele: dalla General wellbeing (con rosa canina e ibisco) alla Daily detox (finocchio e melissa), alla Calm & Relax (scorza di arancia amara e fiori di arancio dolce). Da provare, una alla volta.
(Io Donna, 14 maggio 2017)
Israele alla Cina: «Migliaia di jihadisti tornano dalla Siria»
Secondo le informazioni dei servizi segreti
di Paolo Castellano
Un documento d'inchiesta del ministero degli Esteri israeliano ha scoperto che migliaia di musulmani cinesi stanno combattendo in Siria tra le fila delle organizzazioni jihadiste che si oppongono al regime di Assad. La Cina è molto preoccupata per il loro possibile ritorno in patria e i timori si allargano anche sulla sicurezza dei suoi cittadini e sui propri interessi internazionali (per questo recentemente ha incrementato il suo coinvolgimento in Siria stabilendo dei contatti con il regime di Assad). Secondo Ynetnews tradizionalmente la Cina ha sempre attribuito una piccola importanza alla Siria, ma le recenti circostanze hanno cambiato il suo paradigma geopolitico. L'indagine ha segnalato che «l'imminente rientro di decine di migliaia di cittadini cinesi che combattono e vivono in Siria fa emergere il bisogno di monitorarli. La Cina è estremamente interessata ai dati e alle informazioni su di loro. Il nostro convincimento è che sia meglio respingerli sul suolo siriano con l'obiettivo di prevenire il loro ritorno nella regione d'origine».
I cinesi che combattono in Siria sono membri del gruppo musulmano Uyghur, una minoranza sunnita che parla in un dialetto turco e principalmente risiede nel nord-ovest di Xinjiang. Secondo il documento israeliano, la Cina ha fatto grandissimi sforzi per porre fine alle partenze illegali degli uighuri dal paese, ma nonostante il blocco della strada più breve che attraversa il Pakistan, decine di migliaia di uighuri sono fuoriusciti dal confine meridionale e hanno attraversato una via tortuosa per raggiungere la Turchia.
(Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, maggio 2017)
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