Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio; li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono il l'Eterno, il loro Dio.
Il Foglio pubblica oggi ampi stralci del capitolo riservato a prevenzione e intelligence contro il terrorismo che fa parte del libro "A shared enemy: a shared defence. Lessons from Israel's respanse to terror", che sarà presentato domani alla Camera. L'autore di questo capitolo è il generale israeliano Yossi Kupewasser, direttore del Project an Regional Middle East Developments al Jerusalem Center, ex direttore generale del ministero per gli Affari strategici e capo della divisione ricerche dell'Intelligence militare dell'esercito israeliano.
Da un punto di vista di sicurezza naziona- le, la battaglia contro il terrore è innanzi- tutto una battaglia d'apprendimento
La condivisione dell'intelligence è cruciale per un'azione preventiva. Vale anche senza contatti a livello diplomatico
La lotta al terrore prevede anche una formazione culturale dei cittadini e di chi si occupa di dare i primi soccorsi
Il successo di una strategia antiter- rorismo si misura analizzando cinque elementi fondamentali
La lunga esperienza di Israele nella lotta al terrore lo ha portato a comprendere che il terrore è una strategia che costituisce una significativa minaccia alla sua sicurezza nazionale, anche se la maggior parte del tempo si presenta come un'azione a bassa intensità, con un impatto e un danno limitato. Questa comprensione è stata assimilata in modo graduale, dopo un lungo periodo di tempo, nel corso del quale Israele ha agito contro la minaccia come se fosse strategica, cercando al contempo di convincersi che non lo fosse. Per molti anni, soprattutto mentre la convenzionale minaccia militare da parte delle milizie arabe metteva a repentaglio la sua sopravvivenza, Israele si è riferito al terrore come a un pericolo secondario, usando l'eufemismo "minaccia alla sicurezza corrente" per concettualizzarlo.
Dal punto di vista della sicurezza nazionale, la battaglia contro il terrore è innanzitutto una battaglia di apprendimento. I risultati di questa battaglia dipendono dalla qualità dell'apprendimento da entrambe le parti. Prima riusciremo a comprendere il modo di pensare dell'altro campo - e con esso gli aspetti consequenziali della logistica e della tattica dei cambiamenti che potrebbero essere adottati, come risultato di un mutamento della cornice entro la quale la battaglia ha luogo, e della sua comprensione dei mutamenti nella nostra strategia - meglio sarà. Basandoci su questa comprensione, è chiaro che la risposta strategica alla minaccia del terrore era ed è tuttora l'abilità di convincere il terrorista che il loro è un modo di agire futile. Gli israeliani devono dimostrare ai loro avversari di essere determinati a continuare a costruire e a proteggere il loro progetto - lo stato-nazione democratico del popolo ebraico; che sono profondamente convinti che il sionismo sia giusto e giustificato; che i valori in cui credono sono nobili e valgono lo sforzo e la lotta necessari a difenderli; e che la loro causa gode di un sostegno internazionale. Allo stesso tempo, gli israeliani devono mostrare di poter trovare un modo per minimizzare il danno che viene inflitto loro tramite il terrore e, in questo contesto, indebolire le capacità dei terroristi.
Una giustificazione più profonda e malvagia per il terrore
I palestinesi non si limitano a usare il terrore come arma principale, in questa battaglia: il suo uso è di per sé una deliberata manifestazione della differenza culturale che vogliono enfatizzare. Attraverso l'uso del terrore, i suoi proponenti e attuatori cercano di recapitare il messaggio che non desisteranno da questo metodo finché non raggiungeranno il loro obiettivo, perché nella loro cultura, a differenza di quella israeliana e occidentale, la vita non è un valore sacro. Piuttosto lo sono l'onore e il sacrificio e, dunque, il diritto internazionale - fondato sui valori occidentali - a loro non si applica. Questa logica si traduce poi in slogan come "Aspiriamo a una morte onorevole più di quanto voi aspiriate alla vita", e riferendosi a Israele unicamente come ad una "tela di ragno" facilmente distruggibile. Nei fatti, però, anche se questa retorica dovrebbe rappresentare i valori di una cultura che promuove il terrore come sublime sacrificio per una nobile causa, giustificando l'uccisione indiscriminata di civili innocenti, la realtà è che la società che si presume sostenga questa politica è assai meno determinata nell'attuarla. Quando il pubblico si rende conto che le conseguenze di questa politica impediscono il raggiungimento di altri obiettivi, come può esserlo uno standard di vita migliore, inizia a farsi delle domande. Queste tensioni implicite causano continue frustrazioni, che possono talvolta tradursi in un cambio di politica, almeno temporaneo. L'effettivo apprendimento da parte del movimento sionista, e più tardi da parte di Israele, e lo spirito di determinazione dei sionisti ha reso possibile per Israele il superamento delle continue ondate di terrore, spesso negando ai palestinesi una vittoria strategica. Occasionalmente i palestinesi sono riusciti a raggiungere certi obiettivi provvisori, soprattutto quando si sono trovati di fronte una leadership israeliana debole, una comunità internazionale ingenua e disinformata e un pessimo abbinamento tra l'obiettivo palestinese di estirpare il sionismo e l'impulsivo desiderio israeliano di concludere un accordo di pace prematuro con gli arabi, palestinesi inclusi.
Ne è risultato che i palestinesi considerano ancora il terrore come uno strumento vitale ed efficace per perseguire i propri obiettivi di medio e lungo termine. Ciononostante, sebbene fino al 1974 abbiano presentato il terrore come l'unico modo per "liberare la Palestina", da allora alcuni palestinesi si sono preparati a impiegare altre forme di azione, tra cui le negoziazioni diplomatiche, e hanno adottato un gergo di pace, solitamente a uso esterno, nel contesto del loro "Paradigma delle due fasi". Lo sbilanciamento tra i gruppi terroristici e Israele (o qualsiasi altro stato occidentale nel mirino del terrore) si riflette, tra le altre cose, nei diversi modi in cui essi interpretano un successo o un fallimento operativo e strategico. I terroristi potrebbero interpretare come un successo il mero verificarsi dell'atto terroristico che ha un impatto, a prescindere dal successo degli attacchi nell'infliggere perdite al loro nemico. Ovviamente sanno che danni maggiori equivalgono a un impatto maggiore e che se riuscissero a battere in astuzia il loro nemico, conquisterebbero ulteriori punti strategici. Israele (o ogni altro stato occidentale), d'altra parte, deve stabilire come scopo operativo la prevenzione di tutti gli attacchi terroristici. Questo fatto potrebbe distorcere il significato di vittoria nelle attuali guerre terroristiche o anti terroristiche che Israele sta combattendo. Il mero successo dei terroristi nel ferire Israele o sopravvivere alle sue controreazioni viene presentato dagli stessi come una vittoria divina, nonostante Israele consideri il perpetrarsi di qualunque attacco come un fallimento, tattico o operativo che sia.
Israele giudica i risultati a un livello strategico: Israele ha raggiunto i suoi obiettivi in confronti specifici? Il successo si misura sul alcuni interrogativi: se Israele ha restaurato la propria deterrenza, se ha rassicurato i propri cittadini riguardo alla sicurezza di lungo periodo, se ha ottenuto una calma duratura tra gli attacchi terroristici, e se in qualche caso i terroristi sono stati costretti a cambiare la loro strategia nel complesso. In molti casi, Israele ha raggiunto gli obiettivi che si era prefissato e può dire di aver avuto successo, anche se ha subito numerosi attacchi terroristici.
La "competizione sull'apprendimento" è molto importante in ogni tattica operativa che le organizzazioni terroristiche palestinesi e libanesi utilizzano contro Israele. Ogni volta che una certa tattica viene adottata da un gruppo terroristico, Israele studia un modo per difendersi contro la sfida specifica e costringe i suoi nemici ad arrendersi. Come regola, i terroristi hanno bisogno di tempo per sviluppare una nuova tattica, e Israele ha bisogno di altro tempo per sviluppare una contromossa.
Con l'apprendimento, Israele ha sviluppato le sue pratiche di lotta al terrore in una varietà di aspetti che nel suo complesso comprende una strategia onnicomprensiva per combattere il terrore: prevenire e sventare attentati, deterrenza, reazione e resilienza.
La prevenzione si fonda su cinque aspetti concreti.
Uno: l'intelligence
Israele ha studiato meticolosamente il comportamento e la logica coltivati dal pensiero terroristico e il loro conseguente modus operandi. Così Israele ha sviluppato varie competenze su tutti gli aspetti dell'intelligence in modo da seguire le attività dei terroristi e arrivare a sventare e prevenire molti attentati con anticipo. Israele ha anche compreso, relativamente di recente, che dal momento che il terrore non bada ai confini, allo stesso modo è necessario sviluppare collaborazioni tra diversi sistemi di intelligence (quelli che riguardano la realtà locale, quelli internazionali, e la polizia d'intelligence) per fondere tutte le informazioni utili a prevenire attacchi terroristici. Ha anche realizzato che la collaborazione deve andare oltre Israele stesso e deve comprendere anche le intelligence straniere, incluse quelle che appartengono a paesi con cui Israele non ha relazioni diplomatiche. La collezione di informazioni di intelligence è fatta nel rispetto delle leggi, ma dando la priorità alla prevenzione di attacchi più che alla privacy, laddove compaiano contraddizioni tra questi due principi.
Due: protezione
Israele ha sviluppato una serie di protocolli robusti, che in molti casi sono il frutto di un processo di apprendimento in seguito ad alcune operazioni fallite. Per esempio, dopo i tentati dirottamenti di aerei israeliani, Israele ha adottato un piano di protezione sofisticata dei propri aeroporti e degli aerei civili. La stessa cosa vale per la protezione dei centri commerciali, della costa, delle sedi israeliane o ebraiche in giro per il mondo e altri obiettivi strategici. In caso di necessità, Israele ha utilizzato anche metodi di "profiling" in questo contesto.
Tre: operazioni militari
Le operazioni militari giocano un ruolo importante nella protezione dei checkpoint, dei confini, delle barriere di difese, in modo da evitare l'ingresso di terroristi. Quando ci si trova di fronte a una minaccia che non può essere controllata in altro modo, Israele usa operazioni militari per sventare attentati, sulla base delle informazioni di intelligence acquisite. Ci possono quindi essere arresti quando è possibile, e blitz preventivi quando gli arresti non sono possibili. Per mettere a punto queste operazioni militari, Israele ha sviluppato varie competenze, come munizioni, unità di soldati vestiti da palestinesi in modo da poter arrivare agli arresti senza essere scoperti o individuati prima. Una delle lezioni più importanti che abbiamo compreso riguarda il fatto che la presenza militare è necessaria nelle aree in cui i terroristi preparano i loro attacchi: senza, la prevenzione diventerebbe invero difficile.
Quattro: condizionare i tentativi di costruzione degli attentati.
Gli sforzi dei terroristi non possono essere sempre sventati, ma Israele ha adottato una politica per rallentare il più possibile questi tentativi, con interventi proattivi che impediscono ai terroristi di armarsi. Questo ha portato a una serie di operazione nei territori e oltre, e anche al blocco navale di Gaza che ha negato ai terroristi la possibilità di ottenere e utilizzare armi avanzate.
Cinque: consapevolezza pubblica
Ogni israeliano è sempre in allerta per individuare minacce potenziali e sa che cosa deve fare ogni volta che riconosce l'esistenza di tale minaccia. Per esempio, un bagaglio abbandonato cattura immediatamente l'attenzione di qualcuno.
La reazione è basata su questi elementi:
Uno: operazioni militari
Israele è sempre in stato di alta allerta per reagire militarmente o con la polizia a qualsiasi tipo di attacco terroristico. Le forze di sicurezza israeliane intervengono quasi immediatamente e sono in molti casi capaci di salvare vite. Israele ha sviluppato unità speciali, capacità e tecniche per assicurarsi un intervento efficiente. Ma Israele usa anche la sua capacità d'intelligence e militare per reagire in una maniera precisa contro i suoi nemici; Israele ha messo perfettamente in chiaro che nessuna forma di terrorismo è immune dalla punizione, che sia compiuto materialmente o semplicemente incitato. Allo stesso tempo, Israele si impegna molto più di ogni altro paese per cercare di minimizzare i danni non intenzionali che le azioni militari potrebbero provocare alle persone non coinvolte.
Due: reazione difensiva.
Israele ha sviluppato una quantità di strumenti che consentono di reagire difensivamente quando è attaccato da una organizzazione terroristica. L'esempio più famoso è Iron Dome (il sistema antimissile) che consente di intercettare missili e razzi.
Tre: attività legale.
La legge e il sistema legale israeliani sono adeguati alla necessità di combattere i terrorismo e punire quanti incitano il terrore o lo compiono. fornisce inoltre la base legale per le operazioni militari contro il terrorismo. Tra le altre cose, la legge, che è basata in gran parte sulla legge prevalente durante il Mandato britannico, consente al governo di mettere fuori legge le organizzazioni coinvolte nel terrorismo. Le agenzie di sicurezza israeliane potrebbero in via temporanea detenere i sospetti con detenzione amministrativa se c'è la possibilità che mostrare prove in tribunale riguardanti il loro coinvolgimento con il terrorismo potrebbe danneggiare le nostre capacità d'intelligence. Israele, ovviamente, aderisce alla legge internazionale e alla legge sui conflitti armati e alla legge umanitaria.
Quattro: resilienza.
L'abilità di sopportare un attacco terroristico o una campagna di terrore e di recuperare in fretta è una capacità nota della società israeliana. Con una lunga storia di attacchi terroristici, gli israeliani purtroppo hanno ormai capito che il terrore è parte delle loro vite e che a volte la prevenzione e la reazione al terrore non riescono a garantire sicurezza assoluta. Ma quando capita una situazione di questo genere, il governo e la popolazione sono ben addestrati e capaci di mantenere l'ordine e una routine giornaliera normale. Il sistema educativo, la polizia, gli agenti di primo soccorso, e il Comando del fronte domestico dell'esercito (quando necessario) hanno sviluppato una capacità speciale nel preparare la popolazione, aumentare i suoi livelli di resilienza e operare sistemi che provvedano alle necessità del pubblico. Questo erode considerevolmente l'impatto strategico del terrorismo.
Cinque: deterrenza.
Modellare il pensiero del nemico riguardo alla risposta attesa al prossimo tentativo di attacco terroristico in modo da convincere il terrorista ad astenersi dal compierlo è sempre un obiettivo critico dell'attività israeliana di antiterrorismo. Ovviamente, tutto ciò che è stato menzionato sopra riguardo la prevenzione, la reazione e la resilienza sono elementi che contribuiscono alla creazione della deterrenza, ma al di sopra di questo il sistema di punizione ha un ruolo significativo nella deterrenza del prossimo terrorista. Di recente, Israele ha ripreso in questo contesto la pratica di demolire le case dei terroristi. Anche la politica gioca un ruolo importante nel costruire la deterrenza. L'impegno a non consentire al terrorismo di ottenere un vantaggio strategico è un elemento chiave in questo ambito, e con pochissime eccezioni (soprattutto negli accordi per il rilascio di israeliani rapiti) è stato tenuto dai governi israeliani.
Un altro elemento importante nella strategia generale è gestire la radicalizzazione - sia la sua prevenzione sua la deradicalizzazione di quanti sono già indottrinati. Israele tenta di mobilitare la comunità internazionale per mettere pressione ai palestinesi affinché pongano fine al loro indottrinamento all'odio e alla programmazione della mente dei palestinesi a sostenere e compiere atti di terrorismo fin da giovani. Oltre a questo, Israele cerca anche di fare in modo che i palestinesi abbiano migliori standard di vita in base all'idea discutibile che se i palestinesi hanno una vita migliore, saranno meno inclini ad adottare posizioni radicali e a sostenere il terrore. In realtà, non c'è prova che esista una tale connessione. L'indottrinamento all'odio è troppo profondo e ha poco a che fare con quello che fa Israele, ma con la sua vera esistenza e con ciò che rappresenta. Per concludere, a strategia complessiva di antiterrorismo di Israele è un approccio a tutto tondo che è stato sviluppato per tentativi. Capire gli obiettivi e la strategia del nemico e il contesto in cui opera ed essere abbastanza agili da adottare risposte adeguate ha consentito a Israele di diventare il leader mondiale nella lotta contro il terrorismo.
(Il Foglio, 14 marzo 2017)
"Boycott Israele", il germe antisemita degli intellos
A ispirare l'appello di 60 docenti dell'Università di Torino contro l'accordo con il Technion di Haifa è l'atavico pregiudizio di certa sinistra verso il diritto all'autodeterminazione degli ebrei. L'analisi del semiologo Ugo Volli.
di Stefano Rizzi
"Sono antisemiti. Loro magari pensano di non esserlo, ma lo sono"
"Sono antisemiti. Loro magari pensano di non esserlo, anche se qualcuno in passato ha fatto battute su Israele che mettono in dubbio questa inconsapevolezza. Ma lo sono". Ugo Volli, ordinario di semiotica del testo all'Università di Torino, appartiene dalla nascita alla comunità ebraica di Trieste (dove è nato nel 1948), si occupa da sempre di ebraismo ed ha assunto, in passato, anche posizioni critiche come quella verso l'atteggiamento "conservatore" del rabbino Riccardo Di Segni su omosessualità e unioni civili. Alcuni anni fa si presentò in aula insieme a un'altra docente avvolto nella bandiera israeliana per denunciare l'intolleranza di cui erano oggetto per il loro sostegno a Israele. Nel pieno della polemica suscitata dalla presa di posizione di una sessantina di docenti dell'ateneo torinese (e della maggioranza del consiglio degli studenti) chiede al rettore Gianmaria Ajani di annullare gli accordi con il Technion di Haifa la scuola tecnologica israeliana contro cui da oltre un anno è partita una campagna di boicottaggio con l'accusa di sviluppare tecnologie che avrebbero conseguenze negative sui palestinesi, Volli smaschera i colleghi anti-Israele, ma ne ridimensiona pure parecchio il peso. "Dei sessanta che hanno firmato l'appello, tolti precari e pensionati, di professori veri ne resta meno della metà e una ventina su 1.800 docenti sono una percentuale irrisoria. Ma non per questo trascurabile visto il messaggio che lanciano" premette nel colloquio con lo Spiffero dove ritorneranno spesso termini come "antisemiti, "estremisti" e "noecomunisti". L'altra premessa che Volli formula riguarda proprio il rapporto tra atenei e questioni politiche internazionali: "Non mi risultano boicottaggi verso università russe, così come nei confronti di istituti statunitensi come l'Mit, che pure ha legami con il Pentagono. Per contro si chiede di recedere dall'accordo con una delle università tra le prime cinquanta al mondo, quando per trovare la prima italiana bisogna arrivare a quota duecento o giù di lì, che non riguarda assolutamente materie strategiche o legate agli armamenti". Il riferimento è palese e riguarda le ricerche che l'ateneo torinese condivide con il Technion sulle coltivazioni agricole, la ricerca sul cancro e le analisi in medicina. "Insomma non è una fabbrica di guerra. Ma questo appare ininfluente a chi assume una posizione ideologica che ricorda quel che accadde 80 anni fa in Germania. Con una differenza: non ci troviamo di fronte a neonazisti o neofascisti, ma a neocomunisti per i quali resiste la dottrina di Stalin e la difesa, a prescindere, di qualunque cosa rappresenti la sinistra. E se serve a questo scopo, si attacca lo Stato di Israele, gli ebrei, si diventa antisemiti". Spesso pensando di non esserlo, come osserva Volli, sia pure aprendo a qualche possibile consapevolezza. "Ad ispirare questo appello, questo movimento nell'università sono sostanzialmente due intellettuali: uno è lo storico Angelo D'Orsi, l'altro è Gianni Vattimo di cui si ricorda una frase pronunciata anni fa". Volli si riferisce a quando il filofoso del pensiero debole e dalla fortissima passione per la Cuba castrista disse, scatenando una ridda di critiche: "Non ho mai creduto al Protocollo dei Savi di Sion, ma ci sto ripensando". Vattimo anche per fronteggiare le accuse di aver ammantato (sia pure in chiave provocatoria) di possibile verità uno dei più clamorosi falsi della storia, usato a piena mani dall'antisemitismo, in seguito precisò di non essere antisemita, ma antisionista. Non è tuttavia quell'uscita improvvida a far muovere accuse di antisemitismo da parte dei Volli: "È, piuttosto un neocomunismo militante che li spinge ad esserlo, credendo o comunque sostenendo di non esserlo". Un atteggiamento che il professore di semiotica pare rilevare e trovarlo in una "incapacità da parte di settori della sinistra torinese di evitare una degenerazione di una solida e meritoria tradizione antifascista. Nella città dove si sono formati intellettuali e personalità di spicco della sinistra e dell'azionismo, si è tuttavia incancrenita, sia pure e per fortuna in parte assai residuale, una cultura che non ha capito che il mondo cambiava. Lo si è visto - ricorda Volli - anche negli anni bui del terrorismo, quando a Torino al contrario di città come Milano o Genova non è stata altrettanto forte la reazione verso fenomeni come quello dell'autonomia". Oggi, alla vigilia di una decisione che appare probabile verso il diniego da parte del rettore alla richiesta avanzata dai sessanta docenti, Volli riconosce all'università torinese "e in primis allo stesso rettore, di aver tenuto la barra salda e un atteggiamento corretto, difendendo la legalità e tenendo ben separati il piano scientifico da quello politico". Ricorda come "sia Piero Fassino, sia Sergio Chiamparino e molti altri esponenti della sinistra abbiano assunto da subito, da quando un anno fa si incominciò con questo attacco al Technion, posizioni chiare e di estrema intelligenza e correttezza. Detto questo, va ammesso che esiste una parte residuale di una certa sinistra che continua a pensare che non bisogna avere nemici a sinistra, anche se le idee e le proposte non sono giuste. Lo si vede anche rispetto al movimento No Tav, che pure spesso assume atteggiamenti violenti. E la vittoria del M5s a Torino può essere letta, in parte, come conferma di questa tesi". Nell'attesa della decisione, prevista per domani, da parte del rettore sull'appello dei sessanta, Volli li descrive come "relitti abbandonati al loro destino su una spiaggia di una storia che non c'è più".
(Lo Spiffero, 13 marzo 2017)
Intel acquista l'israeliana Mobileye, leader della guida autonoma per l'auto
Si parla di 14-15 miliardi di dollari
Intel scommette sulle auto senza guidatore. Il colosso Usa comunica il raggiungimento dell'accordo per acquistare l'israeliana Mobileye per 15,3 miliardi di dollari. Intel paga quindi 63,54 dollari per ogni azione Mobileye, con un premio del 34% rispetto alla chiusura di venerdì. Mobileye produce chip per auto autonome già in uso e sta lavorando per mettere la tecnologia al centro dell'auto senza guidatore del futuro.
Mobileye - valore di mercato sui 10.5 miliardi di dollari - è stata fondata nel 1999 a Gerusalemme ed è specializzata in tecnologia per auto autonome
In un post su Facebook, il premier Benyamin Netanyahu ha definito l'acquisto da parte di Intel dell'azienda israeliana Mobileye per le auto autonome "fonte di orgoglio nazionale". "Congratulazioni", ha aggiunto poi Netanyahu.
(ANSA, 13 marzo 2017)
Omicidio Moro: il ruolo dei palestinesi e del Libano
di Monica Mistretta
Never Hammad, rappresentante dell'Olp in Italia negli anni '70
"Anche se sono in corso ulteriori ricerche emerge chiaramente la centralità del ruolo dei movimenti palestinesi nella vicenda Moro".
Si esprime così la seconda relazione della Commissione d'inchiesta sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, presentata il 21 dicembre 2016 dal presidente Giuseppe Fioroni. Tante le ragioni di questa centralità, prima, durante e dopo il sequestro.
Prima del sequestro, perché il 17 febbraio 1978, un mese prima dei fatti di via Fani, il colonnello Stefano Giovannone, capo centro del Sismi a Beirut, comunicava di aver ricevuto informazioni dal leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), George Habbash, in merito a un'operazione programmata da terroristi europei in Italia. "Da non diramare servizi collegati Olp Roma" scriveva chiudendo l'informativa Giovannone.
Durante il sequestro, perché la relazione parla di una vera e propria trattativa per il rilascio dell'ostaggio che aveva come intermediari i palestinesi. In un appunto del direttore del Sismi, Giuseppe Santovito, datato 28 aprile 1978, risulta che Nemr Hammad, rappresentante dell'Olp in Italia, aveva chiesto di essere ricevuto da Cossiga, allora ministro dell'Interno. La trattativa con i palestinesi aveva raggiunto i massimi vertici istituzionali.
Ancora. Durante il sequestro, perché come scriveva la giornalista Graziella De Palo, misteriosamente scomparsa in Libano nell'80 insieme al collega Italo Toni, già nel 1978 circolava la tesi che la strage di via Fani fosse stata compiuta con armi italiane destinate all'Egitto e "rientrate per vie tortuose in Italia".
Dopo l'omicidio Moro, perché, come puntualizza la relazione, in seguito il rapporto tra il nostro Paese e i movimenti palestinesi si rimodellò e le "Brigate Rosse realizzarono traffici d'armi tra Libano e Italia, ottenendo un'apertura di credito che ha probabilmente a che fare con i fatti avvenuti durante il sequestro". Il riferimento alla vicenda del "Papago" è chiaro: secondo le dichiarazioni fatte nel 1982 dell'ex brigatista Sandro Galletta ai Carabinieri, nell'estate del 1979 Mario Moretti, capo delle Br, a bordo della barca a vela "Papago" avrebbe imbarcato un carico d'armi direttamente da una motobarca libanese con equipaggio palestinese in prossimità del porto di Tripoli, in Libano. Di qui, con il carico, avrebbe fatto rientro in Italia.
Jawad Yassine è stato per anni il responsabile dell'ufficio stampa dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) a Roma: dalla fine del 1979 fino al 2010. Ma si trovava già in Italia dal 1976: lavorava presso l'ufficio della Lega Araba a Roma. Dal 1979 è stato in stretto contatto con Nemr Hammad. Jawad ricorda che l'incontro tra Hammad e Cossiga di cui parla l'appunto di Santovito ci fu. "L'incontro c'è stato e sono diventati amici" ricorda. "In seguito Hammad ebbe anche un incontro con Spadolini, all'epoca in cui era presidente del Consiglio: ma fu uno scambio informale, in un ristorante, perché Spadolini non voleva riceverlo ufficialmente".
Jawad si ricorda anche del colonnello Stefano Giovannone: "l'ho visto presso l'ambasciata italiana a Beirut quando chiesi il visto per l'Italia e poi di nuovo a Roma quando ho chiesto il permesso di soggiorno".
- Jawad, a te risulta che durante il sequestro Moro Yasser Arafat fosse in contatto con il colonnello Giovannone a Beirut?
"Arafat non aveva bisogno di parlare con Giovannone. Parlava direttamente con Andreotti. Sicuramente a Beirut Arafat chiese alle organizzazioni palestinesi se sapevano qualcosa sul sequestro Moro. Escludo, però, che qualche organizzazione palestinese avesse legami con le Br. Noi palestinesi eravamo a conoscenza del fatto che le Br avevano contatti non solo con i paesi dell'est ma anche con i servizi segreti dell'ovest: per questo non ci fidavamo di loro. All'epoca ci furono perfino alcuni giornali arabi come "As-Safir" e "Al-Hayat" che cercarono di analizzare i rapporti delle Br con americani e britannici. C'erano tanti sospetti su di loro. I nostri giornali parlarono del coinvolgimento di Gladio nel sequestro e omicidio di Aldo Moro".
- Ma allora come ci spieghiamo l'episodio del Papago di cui parla un ex brigatista?
"Si tratta di accuse false. Posso solo dire che all'epoca del sequestro Moro gli italiani si misero in contatto con Arafat. Ma le armi non avevano a che fare con il "Lodo Moro". Questi rapporti con le Br non avrebbero giovato alla causa palestinese. L'Olp sapeva che non aveva appoggi presso i paesi arabi. Per questo aveva bisogno dei paesi europei. Le domando: quando nel 1982 Arafat venne cacciato dal Libano, quanti l'accolsero? Dovette rifugiarsi in Tunisia. Avevamo bisogno dei paesi europei. L'accordo che chiamate 'Lodo Moro', c'era con tutti i paesi europei: noi palestinesi non dovevamo toccare gli interessi di nessuno all'interno dell'Europa. In cambio, gli europei non dovevano aiutare gli israeliani in Europa e in Libano".
- C'è una coincidenza che dà da pensare: il sequestro Moro avviene il 16 marzo 1978. Due giorni prima, il 14 marzo, inizia l'Operazione Litani: gli israeliani entrano nel sud del Libano per allontanare dal confine con Israele le organizzazioni armate palestinesi. Cosa ne pensa?
"Arafat sapeva che prima o poi gli israeliani sarebbero entrati in Libano. Già nel 1978 parlava dell'invasione israeliana che avverrà effettivamente nel 1982".
- Chi erano i migliori amici dei palestinesi in Italia?
"Andreotti, Berlinguer, Craxi e sicuramente Aldo Moro".
Ecco, Jawad dice una cosa che nessuno ha detto fino a oggi: in cambio della protezione da attacchi terroristici, gli europei non avrebbero dovuto aiutare gli israeliani non solo in Europa ma anche in Libano. Questi erano i termini del "Lodo Moro" con i paesi europei. Il Libano è un tema ricorrente nella vicenda Moro. Tra l'altro, c'è un successivo appunto del direttore del Sismi, Santovito, che la relazione della Commissione Moro non cita.
Ne parla il giornalista Gian Paolo Pelizzaro nel suo libro "Libano. Una polveriera nel Mediterraneo". Il 2 maggio 1978, prima dell'omicidio Moro, Giuseppe Santovito trasmette al capo di Gabinetto della presidenza del Consiglio dei ministri, professor Vincenzo Milazzo, una nota in cui dichiara che il 15 marzo, il giorno antecedente al sequestro di Moro, il servizio israeliano aveva segnalato che un gruppo di terroristi della forza speciale di Fatah si era diretto a Cipro a bordo di un mercantile e che il medesimo gruppo avrebbe avuto il compito di "attuare un'azione autonoma contro obiettivo sconosciuto". Il Sismi ritenne che la segnalazione degli israeliani poteva essere messa in relazione al rapimento di Moro. Furono fatte ricerche e fu individuata a Marina di Carrara una nave libica battente bandiera cipriota che era arrivata dalla Siria il 15 marzo ed era entrata in porto il 16. La nave fu perquisita il 21 marzo, ma non si trovò nulla. Ripartì per Beirut tre giorni dopo.
- Beirut, ancora Beirut
Il Libano e i palestinesi erano indubbiamente al centro delle attività dei servizi segreti italiani per la liberazione di Aldo Moro. E Jawad adesso ci ha detto una cosa fondamentale: secondo gli accordi del Lodo gli europei non avrebbero dovuto collaborare con gli israeliani in Libano.
Il sequestro Moro avviene due giorni dopo l'entrata dell'esercito israeliano nel paese. Forse Jawad ci ha messo sulla pista giusta.
(ArticoloTre, 13 marzo 2017)
Bosnia-Israele: incontro fra i presidenti Ivanic e Rivlin
Il P r e s i d e n t e d e l l a B o s n i a - E r z e g o v i n a , D r . M l a d e n I v a n ic, c o n i l p r e s i d e n t e R e u v e n R i v l i n , a G e r u s a l e m m e
SARAJEVO - La società contemporanea deve mantenere la stabilità delle comunità multietniche come quelle presenti in Bosnia e in Israele. E' quanto hanno convenuto oggi dal presidente israeliano Reuven Rilin e dal presidente di turno della presidenza tripartita bosniaca Mladen Ivanic durante la visita di quest'ultimo a Gerusalemme. Secondo la nota dell'ufficio di Ivanic, è stato inoltre constatato che "i rapporti bilaterali tra i due paesi sono buoni con molto spazio per promuoverli ulteriormente". La delegazione bosniaca, che comprende anche il ministro degli Esteri Igor Crnadak e Elvir Camdzic, rappresentante dell'esponente musulmano nella presidenza Bakir Izetbegovic, incontrerà nel corso della visita anche il premier Benjamin Netayahu e il ministro della Difesa Avigdor Lieberman.
(Agenzia Nova, 13 marzo 2017)
Alto rappresentante per i negoziati internazionali Usa in visita a Gerusalemme
di Marco Ricciardi
Il rappresentante speciale del presidente Usa Donald Trump per i negoziati internazionali, Jason Greenblatt, giungerà in Israele oggi, tre giorni dopo la telefonata di Trump al presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas per tentare di sbloccare il processo diplomatico in Medio Oriente. Greenblatt incontrerà il presidente israeliano, Reuven Rivlin, ed il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a Gerusalemme. Domani si recherà, invece, a Ramallah per incontrare Abbas. Tra i componenti della delegazione Usa in Medio Oriente, Yael Lempert, che ha mantenuto il portafoglio di Consigliere per la sicurezza nazionale alla Casa Bianca gia' ricoperto durante la precedente amministrazione Usa dell'ex presidente Barack Obama. La questione della costruzione degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi sarà uno dei temi principali al centro dei colloqui fra la delegazione Usa ed i funzionari di Gerusalemme.
L'obiettivo è ritornare al Congresso con una comprensione maggiore dell'eventuale spostamento della rappresentanza diplomatica, annunciato da Trump durante la campagna elettorale. La leadeship palestinese e quella giordana hanno sottolineato, per non dire 'minacciato', che lo spostamento dell'ambasciata Usa provocherebbe un'escalation di violenza sia in Israele che nei Territori palestinesi.
Lo scorso 8 marzo il capo del Comando Usa per l'Europa, il generale Curtis M. Scaparrotti, aveva incontrato i vertici delle Forze di difesa (Idf) israeliane. Al centro dei colloqui con il capo delle Idf, il generale Gadi Eisenkot, questioni legate alla sicurezza regionale e nazionale, tra cui la Striscia di Gaza. Si tratta della prima visita di un rappresentante di spicco delle Forze armate Usa da quando si è insediato Trump. In concomitanza, il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, si è recato nei giorni scorsi a Washington, dove ha incontrato il vice presidente, Mike Pence, il segretario alla Difesa, James Mattis e il segretario di Stato Rex Tillerson.
(l'Occidentale, 13 marzo 2017)
Start up tecnologiche, il modello israeliano
Esperti a confronto per provare a immaginare un futuro che è già adesso gestione classica passaparola
di Carlo Baroni
MILANO - Della tecnologia gli israeliani hanno fatto una risorsa. Di più, una forza. Al punto da essere diventati uno dei Paesi leader nel campo dell'innovazione ambientale. Di «Tecnologia israeliana, una porta per il futuro» si parlerà in un convegno, organizzato dal Kkl, domenica 19 marzo alle 17 al Palazzo della Regione Lombardia, in piazza Città di Lombardia 1. Ospitati dall'assessore regionale all'Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile della Regione Lombardia Claudia Maria Terzi, interverranno l'esperto di start up scientifiche e tecnologiche in Israele, Erez Tsur e il ministro per gli Affari commerciali Natalie Gutman-Chen. Un evento che va sul solco dell'esperienza di Israele ad Expo Milano 2015, con l'innovativo padiglione sul modo di coniugare agricoltura e modernità.
(Corriere della Sera, 13 marzo 2017)
Berto l'edicolante. Twitter
di Mario Pacifici
Berto non ama guardarsi indietro.
La vita è quello che è, pensa, ed ognuno la campa come può. Corri, ti barcameni, ti arrangi e alla fin fine ti guadagni ciò che ti compete. O almeno ci provi, dal momento che la vita gioca a volte con i dadi taroccati, distribuendo successi e sciagure senza soppesare né meriti né colpe. Inutile recriminare ad ogni modo, specie quando ormai ti avvicini al traguardo. Hai giocato le tue carte e conservi ancora qualche fiches da puntare. In fondo non ti è andata male. Nessuno ti ha buttato fuori dal tavolo.
Poi capitano quei giorni in cui la depressione ti assale e allora diventa difficile tenere ferma la razionalità dei pensieri. Entri in labirinti fatti di bilanci amari e ti perdi in riflessioni che ti lasciano stordito. Ti guardi intorno e cogli solo la solitudine che ti circonda.
Beh, deve essere stato in uno di quei giorni che Berto ha varcato la linea rossa che si era imposto con draconiana fermezza. Ma certo, si dice, perché no? e acquista d'impulso uno smartphone di ultima generazione.
Ora è lì come un bambino davanti al suo balocco, il giorno di Natale. Apre la confezione con religiosa attenzione e in un attimo è colto da quell'attrazione feticistica che cento volte ha irriso nel suo prossimo. Quel piccolo parallelepipedo è lì, di fronte a lui, nero e misterioso come la pietra lunare di Kubrik, foriero di inimmaginabili sorprese.
Esita prima di accenderlo, ma si fa forza e salta il Rubicone. Ora la nera ossidiana dello schermo si apre alla luce e ai colori e Berto si lascia adescare da quel mondo digitale da cui si sente al tempo stesso attratto e minacciato.
Non lo sa ancora, ma la dipendenza si è già insinuata in lui e si dirige inesorabile verso i gangli essenziali del suo essere. Passano i giorni e quell'alieno dal volto amico entra in simbiosi con lui e ne diviene parte. È con lui, sempre. Lo assiste, lo aiuta, lo informa, lo intrattiene e Berto, inconsapevole, lo ricambia: è per lui il primo pensiero la mattina, quando ancora assonnato lo ghermisce dal comodino per farsi aggiornare su ciò che lo attende. E poi durante il giorno non se ne separa mai. Meteo, politica, spettacoli, sport, traffico, mezzi pubblici
Ma come diavolo si faceva, prima?
Berto non saprebbe darsi una risposta ma ad ogni modo non ci pensa neppure. L'alieno è lì, con lui pronto a rispondere ad ogni domanda e ad assisterlo per ogni esigenza. Cosa potrebbe chiedere di meglio.
È questa la dipendenza che temevo? si chiede. Davvero non sapevo di cosa parlavo!
Poi gli capita di cogliere qualche segnale che in altri tempi lo avrebbe allarmato. Roba da poco. Una volta cerca un posto dove acquistare un buon Tiramisù e dopo, per una settimana, viene bombardato dalla pubblicità di ogni genere di pasticceria. Un'altra volta cerca da Decathlon una tuta e Google non la finisce più di proporgliene di ogni genere. Ma guarda che combinazione, pensa senza darci troppo peso.
Del resto sta già seriamente riflettendo sul suo rapporto con l'alieno. Bello ma un po' passivo. È sempre lui che guida il gioco, pensa Berto. Io leggo, ascolto, mi informo ma non è così che dovrebbe funzionare. Se internet è democrazia, perché mai io ne devo rimanere ai margini? Avrò pure il diritto di dire la mia! Detto fatto, apre un account su Twitter, @EdicolaBerto. Ora ho una voce anch'io pensa e si mette a twittare ad ogni piè sospinto. All'inizio twitta di attualità e mette nero su bianco le riflessioni cui è indotto dalla lettura dei giornali. Ma poi, a poco a poco, emergono i suoi interessi. Twitta di Israele e di ebrei, di minacce e di antisemitismo, di Iran, di Siria, di Hamas, di Hezbollah. Dice la sua e in men che non si dica ha centinaia di followers.
Berto se ne compiace. Per la prima volta nella vita, tanta gente condivide e apprezza i suoi pensieri, ma non fa in tempo a gustare quell'effimero successo che già scopre con disgusto l'altra faccia della medaglia: insulti, minacce, beceri slogan antisemiti. È uno spettacolo spudorato. Nella vita reale gli antisemiti e i razzisti si mimetizzano dietro i fraintendimenti e i doppi sensi ma qui, nel modo virtuale, coperti dai niknames, sparano a zero senza remore né vergogna.
In sessant'anni Berto non si è mai imbattuto in qualcuno che gli sputasse in faccia i suoi pregiudizi antisemiti. Li ha colti, li ha letti fra le righe, li ha riconosciuti nelle mezze frasi, dette e non dette. Ma il razzismo del mondo reale non si manifesta alla luce del sole: striscia piuttosto nel sottobosco dell'ignoranza e si camuffa per non infrangere quella barriera di political correctness, messa a guardia di un tabù sociale poderoso. E nessuno può professarsi antisemita, senza porsi fuori del coro, in un limbo di sociale reprimenda.
Quella barriera sociale si frantuma invece nel mondo virtuale dove in piena libertà emergono le frustrazioni di una marmaglia indecente, pronta a sventolare gli stereotipi dell'odio, del pregiudizio e dell'avversione razziale.
Berto è confuso, ma sa cosa fare. Userà Twitter per combattere e smascherare quei cialtroni nostalgici, per controbattere i loro slogan, per rendere loro la pariglia.
Inizia a twittare ma si accorge presto che è fatica sprecata. Quella non è gente che va per il sottile o che accetta un contradditorio: quella è gente che ti insulta e ti banna, lasciandoti con un palmo di naso. Quella è gente persa nei propri osceni ideali e refrattaria ad ogni tentativo di dialogo.
E allora?
Berto non vuole arrendersi. Ora che ha una voce, non vuole tacere.
Gli occorre un po' di tempo ma alla fine trova la sua strada. Si batterà contro le maschere e i camuffamenti che consentono all'antisemitismo di farsi gioco di qualunque tabù sociale. Mostrerà le connessioni fra antisionismo e antisemitismo. Mostrerà l'insipienza dell'Onu, la doppiezza di Abu Mazen, l'odio viscerale di Hamas, e accenderà i riflettori sulle manipolazioni che accompagnano ogni dibattito su Israele. E ancora, si batterà contro la fandonia dell'apartheid e contro i boicottaggi mostrando il vero volto di Israele e i suoi straordinari contributi al progresso. Ecco, si, ora ha una voce e sa per cosa usarla. Controinformazione, si diceva ai suoi tempi, negli anni sessanta. Farà controinformazione rimpiazzando con internet il ciclostile. All'improvviso è meno solo. La depressione può aspettare, lui adesso ha qualcosa da fare.
(Shalom, marzo 2017)
Kado: Il caricabatterie più sottile al mondo. Intervista al CMO Yariv Ganor
Per il nostro giro di interviste ad imprenditori israeliani oggi la redazione di siliconwadi.it ha contattato il CMO di Kado, Yariv Ganor.
La startup israeliana Kado Thin Technologies ha creato il più sottile caricabatterie mobile del mondo che può essere inserito in un portafoglio, al fine di liberare le persone dal portarsi sempre dietro fili e cavi.
1. Siete una startup israeliana che ha sviluppato Kado, il caricabatterie mobile più sottile al mondo: In cosa consiste questa tecnologia e quali passi la hanno condotta al successo? Kado è una società Thin-Tech, che ha come obiettivo fissare nuovi standard nel campo della conversione di potenza. La nostra tecnologia, in attesa di brevetto, si basa su un nuovo modo di ricarica che ci permette, per esempio, di produrre caricabatterie per telefoni delle dimensioni di una carta di credito, con uno spessore di soli 5 mm. Abbiamo già implementato la nostra tecnologia proprietaria per produrre un caricabatterie per pc portatili che ha uno spessore di soli 8 mm. Abbiamo anche ricevuto diverse proposte dai grandi brand e leader in vari settori per esplorare le applicazioni della nostra tecnologia ultra-sottile nei loro prodotti.
2. Siete una azienda israeliana: Qual è la differenza nel coltivare una startup nell'ecosistema israeliano rispetto a farlo negli altri paesi? La cultura israeliana è molto orientata a sostenere iniziative personali. A volte si sente che è proprio parte del nostro DNA. Portare nuove idee, migliorare quelle esistenti, ricercare partner per lo sviluppo di innovazioni o di infrastrutture per farle nascere - questa è solo una parte della nostra vita quotidiana. Il multiculturalismo, gli eventi quotidiani impegnativi, l'esperienza imprenditoriale e anche il servizio militare, contribuiscono a creare terreno fertile per il pensiero creativo che richiede una realizzazione pratica.
3. Indicaci 3 aggettivi che meglio descrivono un uomo d'affari che vuole entrare a far parte di questo innovativo ecosistema israeliano. Per fare i primi passi in questo campo frenetico è necessario prima di tutto essere audaci. Ci sono un sacco di ostacoli là fuori, occorre tirare fuori il coraggio. Quindi, è necessario avere la flessibilità per gestire le diverse esigenze di business, il mutevole timing di sviluppo e gli inevitabili alti e bassi. Infine, è necessario avere "testa tra le nuvole e i piedi per terra" per assicurarsi che l'idea prenda vita e che si possa tradurre in un qualcosa di innovativo e rilevante.
4. Yariv, dove sarete tu e Kado tra 5 anni? Kado è stato svelato solo 2 mesi fa e ha già ricevuto tante grandi risposte da parte dell'industria, della stampa e dai consumatori. Onestamente, è travolgente. Siamo consapevoli che la nostra tecnologia ha tanto da offrire e desideriamo di sfruttarla al meglio. 5 anni è un sacco di tempo in questo mondo sempre più connesso, e ci piacerebbe vedere Kado come la rivoluzione che trasformerà gli standard delle ricariche.
(SiliconWadi, 13 marzo 2017)
Giordania, la folle esultanza per il killer liberato
Giubilo per l'uscita di cella anticipata di Ahmed Daqamseh che uccise sette bimbe israeliane. Si dà ascolto all'odio popolare verso Israele per compiacere le opinioni dei più estremisti.
di Fiamma Nirenstein
È difficile non domandarsi in che cosa consista la pace fra Giordania e Israele firmata nel 1994 da Rabin e re Hussein quando si vedono le scene di entusiasmo della famiglia e della gente, i canti, gli slogan di odio e le caramelle per la liberazione di Ahmed Daqamseh, l'assassino di 7 bambine israeliane e feritore di altre 7, liberato anzitempo. Irbid suo paese natale, a nord di Amman, benché l'uomo sia stato rilasciato domenica alle due di notte, gli ha dedicato un'accoglienza trionfale. L'assassino giordano uccise col mitra d'ordinanza 7 bambine israeliane in gita ed è appena stato rilasciato con cinque anni di anticipo sui 25 anni che secondo la condanna all'ergastolo (sempre pari a 25 anni) avrebbe dovuto ancora trascorrere in carcere.
È l'incessante situazione di ambiguità e di sostanziale odio popolare che anche in un Paese in pace con Israele si seguita ad alimentare per compiacere l'opinione più bassa, sempre turbata dalla miseria e dall'estremismo, quella che certo con contribuisce al futuro di quello di uno dei Paesi meglio governati e meno estremisti grazie alla monarchia ashemita.
Mahmed Daqamseh era di guardia sul confine giordano insieme a altri militari in una bella giornata di marzo del 1997, la pace era vecchia di tre anni. Fu una tragedia scatenata dall'odio e dalla ribellione proprio alla pace: in un luogo scenografico, chiamato «Isola della Pace» a Naaraim sul fiume Giordano al confine fra i due Paesi, una classe di ragazzine di 13 anni si godeva la libertà della gita scolastica. Daqamseh impugnò il fucile e ne uccise sette ferendone altrettante. Chi scrive, che era stata all'Aravà per la pace, non può dimenticare lo choc di Israele, e neppure quello giordano: lo stesso re Hussein, un uomo di fascino e carisma speciale, venne in Israele per chiedere scusa e si mise in ginocchio visitando la famiglia Badayev che aveva perso la sua Shiri.
Quei tempi sono passati, la generazione degli Hussein e dei Mubarak che sembrava avere la convinzione della indispensabilità di una pace con Israele sembra aver fatto posto a un mondo spaventato, ossessionato dalla paura del terrorismo e quindi prono alle esigenze populistiche che lo possano tuttavia contenere o indirizzare lontano. Fatto sta che già nel 2013 una petizione firmata da 110 membri del parlamento giordano su 150 chiedeva la liberazione di Daqamseh, e la stessa cosa aveva fatto lo stesso ministro della giustizia Hussein Mjah nel 2011, tanto che Israele chiamò per un colloquio l'ambasciatore a Tel Aviv. Daqamseh ieri è stato messo in libertà, e i canti di gioia e la distribuzione di caramelle hanno festeggiato l'odio popolare anti israeliano che si esprime spesso tramite le proteste dei sindacati e delle organizzazioni professionali a ogni contatto fra israeliani e giordani, la mancanza di ogni stimolo a viaggi e contatti di turismo o studio. Questo è dovuto alla presenza di più di un 50% della popolazione che è di fatto palestinese, e alla crescita dell'integralismo sunnita terrorista che ha chiazzato il Paese di attentati. Questo porta le classi dirigenti a scaricare la paura dell'estremismo creandosi una verginità anti israeliana: è ancora vivo il trauma del pilota giordano bruciato in una gabbia dopo essere catturato in azione con le forze della coalizione anti Isis, e nel 2014 l'attacco finito nel castello di Karak che fece 10 morti. Ma è valida la domanda: può la Giordania combattere il terrrorismo dell'Isis se perdona quello che uccide 7 bambine per mano di un suo soldato?
(il Giornale, 13 marzo 2017)
Morto Adolfo Perugia, partigiano ebreo
Contribuì a liberare Roma dai nazisti. Il rabbino Di Segni: determinato e tenace la sua testimonianza non va dimenticata.
È scomparso nella notte di Shabbat (il sabato ebraico) Adolfo Perugia, partigiano ebreo che aderì alla Resistenza nel 1944 insieme al Fronte della Gioventù Antifascista. Nato a Roma nel 1931, contribuì a liberare la città dove era nato partecipando alla guerra di Liberazione. Presidente dell'Associazione Nazionale Miriam Novitch, Perugia è stato per la Comunità Ebraica di Roma e per la città intera una figura importante nella conservazione della memoria. «Una scomparsa particolarmente dolorosa per l'impegno profuso costantemente nel ricordare i valori dell'antifascismo - affermano il Rabbino Capo Riccardo Di Segni e la presidente della Comumtà ebraica di Roma Ruth Dureghello - Perugia è stato un uomo determinato e tenace la cui testimonianza non deve essere dimenticata. Che sia il suo ricordo di benedizione».
Il cordoglio
Cordoglio per la morte di Perugia è stato espresso dal comitato provinciale dell'Anpi, l'Associazione nazionale dei partigiani. «Di famiglia ebrea antifascista, quindi doppiamente perseguitata, nel '38, a 7 anni, fu espulso dalle scuole pubbliche per le leggi razziali. A causa dell'antifascismo familiare gli fu proibita anche la scuola ebraica - ricorda l'Anpi in una nota -. La sorella Virginia, espulsa dall'ospedale dove era ricoverata morì poco dopo. Nel '44, giovanissimo, militò nella formazione del Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà con Eugenio Curiel fino alla liberazione di Roma. Perugia ha costantemente e tenacemente operato per conservare la memoria e i valori dell'antifascismo».
(Il Messaggero, 13 marzo 2017)
Riham, 19 anni, comica a Gaza. «Fare ridere è una cosa seria»
La gag della poliziotta per svelare il sessismo della società (e di Hamas). Gli oltranzisti hanno minacciato lei e la famiglia. Lo show ha raggiunto 100mila abbonamenti e 17 milioni di visualizzazioni su Youtube
gestione classica passaparola.
di Davide Frattini
Riham al Kahlout
Riham
GERUSALEMME - Riham al Kahlout scherza su tutto tranne che sulla sua voglia di far ridere. I genitori l'hanno costretta a iscriversi alla facoltà di Legge, non credono nella carriera di comica, anche se i ruoli per una ragazza a Gaza non mancano: i fondamentalisti preferiscono vedere un uomo indossare la parrucca e il velo che una donna interpretare una donna.
Così Riham a 19 anni affronta la paura del palcoscenico e quella degli oltranzisti. Hanno minacciato lei e la famiglia che per ora la sostiene l'accusa è quella di dare scandalo, una giovane da sola in mezzo a un gruppo di maschi. Sono gli altri attori di uno show satirico che da cinque anni viene trasmesso su YouTube, ha raggiunto quasi 100 mila abbonati e 17 milioni di visualizzazioni.
A Gaza dove i semafori sono sempre spenti dalla mancanza di elettricità e gli autisti accesi dalla frenesia del traffico, le barzellette sui vigili possono diventare perfide. A Gaza dove le famiglie vivono accalcate in poche stanze, un matrimonio combinato può trasformarsi in farsa amara perché i tre cugini vogliono sposare la stessa ragazza (e lei ha scelto un altro). Riham e poche altre come Serine al Barkooni, 21 anni hanno scelto di mettere in ridicolo la società maschilista che le circonda.
In una scenetta è Riham la poliziotta (nella realtà non ne esistono) che non riesce a gestire l'incrocio perché tutti si fermano a guardarla, i colpi di clacson come apprezzamenti. «Quello che mi deprime di più dice al domenicale britannico Observer sono i commenti su YouTube. Quelli che mi attaccano non ammettono di essere sessisti e allora mi accusano di non saper recitare. "Mandatela a casa" scrivono. Io non mollo, il mio sogno è che le donne siano libere di essere quello che vogliono».
Nella Striscia schiacciata tra Israele e il Mediterraneo, il mestiere di giullare è pericoloso anche per gli uomini. Adel Meshoukhi è stato arrestato l'11 gennaio, ogni giorno la madre si è presentata alla prigione di Ansar per chiedere che fosse rilasciato, l'hanno tenuto per due settimane. Quel filmato in cui per un minuto e mezzo Adel urla a squarciagola «elettricità, elettricità, elettricità...» per finire «basta con Hamas» è stato visto in poco tempo da 150 mila persone, troppe per i miliziani islamisti. Troppe e su una questione troppo sensibile: per mesi il gruppo al potere ha garantito solo tre ore di energia al giorno per i 2 milioni di abitanti.
Per ragazze come Serine, laureata in Comunicazione all'Università Al Azhar, continuare a recitare è una forma di ribellione, voler impersonare l'umorismo nero che sbeffeggia la crisi economica e la miseria a Gaza il 60 per cento dei giovani è disoccupato è considerato vera insubordinazione. Il titolo del suo show «Nuvola estiva» ricorda i nomi in codice delle operazioni militari israeliane («Piombo fuso» è stata chiamata dai generali quella tra luglio e agosto del 2014) ma le critiche sono soprattutto per Hamas, l'organizzazione che spadroneggia nella Striscia da quando sette anni fa ha strappato il controllo all'Autorità palestinese.
«Non sono pronta ad accettare dice al giornale online Al Monitor il ruolo tradizionale destinato alle donne, aspettare un marito che ti scelgono i genitori. Se interpretassi drammi, sarebbe più accettato dalla gente. Qui sono convinti che la satira guasti la femminilità».
(Corriere della Sera, 13 marzo 2017)
Gaza adesso esporta le kippah: agli israeliani!
Cosa c'è di più gustoso di un fallimento epico del movimento internazionale che cerca in tutti i modi di screditare, danneggiare e colpire lo stato ebraico?
Uno delle consuetudini più simpatiche, per chi visita per la prima volta Israele, consiste nell'acquistare una kippah, il famoso copricapo ebraico. Le kippot sono disponibili ovunque e per tutte le tasche. Nei luoghi sacri, come il Muro Occidentale di Gerusalemme, sono prestate gratuitamente in occasione della visita; ma vale la pena di comprarne una nei tanti negozietti dei vicoli della capitale per portarla a casa come ricordo di questa straordinaria esperienza.
Succede talvolta che la produzione domestica è insufficiente a soddisfare la domanda; sicché Gerusalemme si rivolge all'estero, da cui importa una parte considerevole delle kippah. Fin qui nulla di strano, se non fosse che una parte di esse proviene dalla vicina Striscia di Gaza. Proprio così: in un campo profughi di al-Shati, assurto due anni fa agli onori della cronaca, le macchine lavorano incessantemente per produrre kippot che saranno vendute al vicino Israele.
È il massimo del paradosso, e mai ci si potrebbe immaginare che un territorio governato dai terroristi di Hamas possa collaborare economicamente con i vicini israeliani; ma la crisi fa miracoli. La qualità della manifattura è apprezzata, e la prossimità riduce drasticamente i costi di trasporto.
Le kippot giungono in Israele transitando dal valico di Kerem Shalom, attraverso il quale tutti i giorni generi di prima e seconda necessità raggiungono dallo stato ebraico l'enclave palestinese (il valico egiziano di Rafah essendo invece quasi sempre chiuso, creando non pochi disagi alla popolazione palestinese). La fabbrica in questione, situata per ironia della sorte vicino alla casa natale di Ismail Haniyeh, ex leader di Hamas, da' lavoro ad una cinquantina di dipendenti, e produce dalle 5 alle 10 mila kippah al mese. L'economia porterà la pace? chi lo sa, dopotutto un vecchio adagio sostiene che dove passano le merci non passano gli eserciti...
Speriamo che i boicottatori non se ne accorgano. Per i bene dei palestinesi, s'intende...
(Il Borghesino, 13 marzo 2017)
Mandorlo in Fiore. Il ''Tempio d'oro'' quest'anno va a Israele e Palestina
Si è conclusa ieri ai piedi del Tempio della Concordia con l'assegnazione del "Tempio d'oro" a Israele e Palestina la 72esima edizione del Mandorlo in Fiore. Evento a cui hanno partecipato davvero in tanti e che ha mostrato, ancora una volta, la bellezza e l'importanza dell'unione tra i popoli.
di Jona Dante
Per cultura e folklore, ma prima ancora per la fratellanza, sono stati i gruppi folk di Israele e Palestina a vincere ieri in ex equo il ''Tempio d'oro'' a conclusione della 72esima edizione del Mandorlo in Fiore. A vincere è stato dunque il messaggio di pace che da sempre è il cuore della kermesse più amata dagli agrigentini, messaggio che è stato lanciato quest'anno da due popoli che da tempo vivono in una situazione di conflitto.
L'evento conclusivo del festival ha avuto luogo ieri nella Città dei Templi ed è iniziato di buon ora. Già a partire dalle ore 9.00 una gran folla ha cominciato ad accorrere verso Porta di Ponte. La sfilata lungo le vie cittadine, complice anche un bel tempo molto invitante, ha visto partecipe un immenso corteo.
Location del gran finale è stata però la Valle dei Templi. Nel primo pomeriggio il tempio della Concordia ha fatto da spettatore all'esibizione finale dei gruppi alla quale è seguita la premiazione. Molto apprezzati sono stati i gruppi stranieri, ma non si sono dimostrati da meno i gruppi italiani. Quelli siciliani in particolare hanno omaggiato e dichiarato amore per la nostra tradizione folkloristica, riscuotendo molto favore da parte del pubblico.
Palestina e Israele però hanno letteralmente ''sbancato'', convincendo anche la sezione provinciale dell'Assostampa di Agrigento che ha deciso di assegnare loro la targa di premiazione dell'edizione 2017 del premio ''Ugo Re Capriata'' ''per il valore simbolico che la loro unione durante la medesima kermesse può rappresentare sotto un profilo internazionale''.
Cala il sipario dunque sulla 72esima edizione del Mandorlo in Fiore, la prima organizzata dall'Ente Parco Archeologico.
(Sicilia TV, 13 marzo 2017)
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Concluso il 72o Mandorlo in Fiore: vincono Israele e Palestina.
Da Agrigento un messaggio di pace e fratellanza
di Marcella Lattuca
Sono i gruppi di Israele e Palestina a vincere la 72^ edizione del Mandorlo in Fiore.
Da Agrigento, dal tempio della Concordia, un importante messaggio di pace e fratellanza. Palestina e Israele "insieme" che alzano al cielo, mano nella mano, il "Tempio d'Oro".
Due paesi che si sono ritrovati, in armonia, a condividere un momento di gioia uniti ai piedi del tempio della Concordia, da sempre sinonimo di pace tra i popoli. Una kermesse quella della festa del Mandorlo in Fiore 2017, tanto attesa e che decreta l'inizio della bella stagione, che verrà senza dubbio ricordata anche per il fiume di gente che si è riversato sulla via sacra proveniente da ogni parte della Sicilia e non solo.
Una immagine che resterà per sempre negli annali di un Mandorlo in Fiore che quest'anno ha avuto un importante significato "simbolico". Una festa che, al di là del folklore, rappresenta sempre più quell'icona di un messaggio da irradiare nel mondo: pace e concordia.
La squadra di Israele
"Diversità" che si incontrano e che nel segno dell'amore fra i popoli rendono più bella questa festa di antiche tradizioni. Una festa "internazionale" che, per la prima volta, quest'anno ha perso la dicitura di "Sagra". Probabilmente non solo nel nome, ma anche nell'idea di una "festa" che deve essere una "festa" dell'unione fra i popoli. A consegnare il premio è stato il sindaco di Agrigento, Lillo Firetto che dal tempio della Concordia ha voluto rilanciare forte il messaggio di pace e di fratellanza tra i popoli.
Premiati anche i gruppi locali del Val d'Akragas, Fiori del Mandorlo e Gergent. Appuntamento al prossimo anno.
Dipendenti e insegnanti Unrwa ricoprono alte cariche in Hamas e fanno propaganda antisemita on-line
Muhammad Abu Nasr, che si presenta sul suo profilo Facebook come insegnante dell'Unrwa, ha postato la foto di un "balilla" palestinese con arma collo, sovrapposta alla bandiera palestinese e affiancata dal simbolo di Hamas
Un palestinese di Gaza impiegato ad alto livello nell'Unrwa, l'agenzia Onu per i profughi palestinesi, è stato eletto nel politburo di Hamas. Uno dei 15 membri dell'ufficio politico dell'organizzazione terrorista islamista palestinese eletto lo scorso 13 febbraio risulta infatti essere Muhammad al-Jamassi, un ingegnere dipendente dell'Unrwa, stando a quanto riportato dal Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center. Dal 2007, Jamassi ha già ricoperto diverse posizioni all'interno di Hamas, fra l'altro nel dipartimento pubbliche relazioni del gruppo e in enti di beneficenza affiliati. Ma Jamassi attualmente presiede anche il Consiglio del Dipartimento di ingegneria dell'Unrwa a Gaza, e supervisiona tutti i progetti infrastrutturali dell'agenzia Onu nella zona....
(israele.net, 8 marzo 2017)
Baseball, nessuno li conosce ma loro vincono
"Il baseball fa presa sui fan per due elementi principali. Come molti altri sport, ha grande eleganza e c'è l'eroismo individuale. Come bambino americano sei ipnotizzato da entrambi. Da ragazzo giochi a baseball per tutta l'estate, per tutto il giorno, fino a sera, fino a quando c'è abbastanza luce per vedere la palla. Poi, come un adulto, lo guardi e lo segui per il resto della tua vita, ancora come fossi un bambino". Questa la descrizione del baseball da parte di Philip Roth, il celebre scrittore ebreo americano, che in diversi libri racconta la sua fascinazione per un gioco che in Italia non trova lo stesso successo. Così come accade in Israele, dove i bambini non crescono a pane e baseball, ma guardano calcio, basket, judo, fino al football americano ma dello sport tanto amato da Roth sanno molto poco. Eppure Israele, per la prima volta nella sua storia, sta sbalordendo tutti al World Baseball Classic, infilando vittoria dopo vittoria: nelle scorse ore ha battuto la quotata Cuba, dopo aver già surclassato Corea del Sud, Taiwan e Olanda. La cenerentola delle squadre sta impartendo lezioni a squadre che hanno una tradizione alle spalle, che hanno un tifo che le segue. Perché? Perché la squadra è formata per la maggior parte da ex professionisti ebrei americani e non ci sono sabra a vestire la casacca blu e bianca. Sono loro che stanno trascinando un team che fino a una settimana fa era 41esimo nel ranking mondiale a una sorprendente scalata verso il vertice del baseball: Israele ora si gioca i quarti di finale in quella che è la più importante competizione per nazionali di questo sport.
Come scrive il Washington Post, la maggior parte degli israeliani con tutta probabilità non sapeva nemmeno di avere una squadra nazionale di baseball e neanche conosce le regole del gioco. Strike e fuori campo sono parole sentite nei film americani ma nulla più: sono circa 1000 le persone che in Israele ci giocano. Nel 2007 degli ebrei americani avevano cercato di fondare la Israel Baseball League. Il progetto ha avuto vita breve: una stagione e tutto è finito nel dimenticatoio.
Ora i fari si sono riaccesi grazie alle impreviste vittorie della nazionale in giro per il mondo: i giocatori sono tutti ebrei americani (tranne due che sono nati in Israele) e hanno preso la nazionalità israeliana. I critici li hanno definiti come dei mercenari (alcuni hanno visitato il paese per la prima volta solo pochi mesi fa) e nemmeno il ministro dello Sport Miri Regev sembrava a conoscenza della loro esistenza. "Sono il ministro dello Sport ma non pretendo di sapere chi sia ogni giocatore o ogni squadra", le parole della Regev alla radio dell'esercito israeliano. Jerry Weinstein, coach della nazionale, ha spiegato che questa potrebbe essere l'occasione per far uscire dall'ombra questo sport, che in Israele non ha grandi sostenitori. "Smettiamola di fingere che questi giocatori realmente rappresentano Israele, perché ho dei dubbi che qualcuno che non vive in un paese e che non lo ha mai visitato possa veramente sviluppare un affetto verso di esso", ha scritto su Yedioth Ahronoth Guy Leiba. "Non vi è alcuna differenza tra questi giocatori e velocisti africani che scelgono di rappresentare i paesi arabi per pochi dollari", la sua aspra critica. Il Forward, giornale ebraico americano, non è d'accordo: "si tratta di ebrei che si sono organizzati sotto una bandiera e un inno comune, credendo nel valore collettivo, gareggiando su un palcoscenico mondiale, trovando le proprie eccellenze e superando ogni probabilità". Una storia che suona familiare.
(moked, 12 marzo 2017)
Libero il killer giordano che uccise sette alunne israeliane
La Giordania ha rilasciato in nottata il soldato che nel 1997 in un attacco terroristico uccise sette ragazzine israeliane in gita scolastica all'Isola della pace a Naharyim, località di confine tra i due paesi. Lo riferiscono i media israeliani spiegando che Ahmad Daqamseh è ritornato nel suo villaggio di Idivir nel nord della Giordania. L'uomo - che all'epoca era un soldato - attaccò il 13 marzo del 1997 le alunne di una scuola di Beit Shemesh in gita nel luogo turistico. Ne uccise sette prima di essere fermato dagli altri soldati giordani. Benché passibile di pena capitale, fu condannato al carcere a vita (che in Giordania significa 20 anni di prigione) in quanto i giudici lo definirono instabile di mente. L'assassinio delle ragazze suscitò un immenso clamore in Israele e l'allora re di Giordania Hussein si recò personalmente nello Stato ebraico per rendere omaggio ai parenti delle vittime. Daqamseh è diventato un eroe dell'opposizione giordana, guidata da islamisti e nazionalisti.
(ANSA, 12 marzo 2017)
Sull'orlo dell'inizio. Quando il pop abbatte i confini
Idan Raichel protagonista di un live acustico con le canzoni di «At the edge of the beginning»
di Laura Martellini
Idan Raichel
ROMA - La sua idea è costruire ponti con la musica. «Le canzoni - ha detto - possono educare i giovani ad attraversare i confini per incontrare l'altro. E' possibile creare un collegamento se dall'altra parte c'è un'apertura: io so che in Siria e Iraq c'è gente disponibile, anche se terrorizzata dall'Isis». Idan Raichel, nativo di Tel Aviv, leader del collettivo Idan Raichel Project, torna a Roma, stavolta per offrire una differente visione di sé, «Piano songs»: mercoledì sarà all'Auditorium solo sul palco, al pianoforte acustico e al piano elettrico, ma suonerà anche le percussioni, il drum pad & looper e strumenti giocattolo delle sue due figlie piccole. Un modo di celebrare la recente paternità.
Idan affronterà un repertorio vasto, fra cui brani tratti dall'ultimo «At the edge of the beginning» in cui riflette sui cicli della vita, sulle relazioni umane e sui nuovi inizi. «Qualche volta si sente il bisogno di tornare alle cose semplici della vita»: così ha spiegato a proposito dell'album, molto essenziale. Un momento di riflessione per la star della musica globale. L'opportunità di fare il punto sul passato e pensare solo a ciò che è veramente rilevante per il futuro: l'importanza della vita, dell'amore con le sue sfumature, della famiglia.
Il concerto segue un preciso copione nelle diverse tappe: Idan ospita sul palco musicisti locali in ogni città, invitandoli ad unirsi a lui sulle piattaforme digitali prima di ogni data. È il suo stile, l'incontro a tutto campo, al di là delle provenienze e dei generi: con pop star americane come India. Arie, Dave Matthews e Alicia Keys, con la portoghese Ana Moura, con il francese Patrick Bruel, con Andreas Scholl in Germania e con il maliano Vieux Parka Tourée. Da quest'ultimo incontro è nato l'album del 2012 «The Tel Aviv session»: «Un chitarrista musulmano e un pianista ebreo, Mali e Israele unite di fatto mentre non c'erano rapporti diplomatici. Un chiaro esempio di cosa io intenda per potere della musica. Come andare alle mie radici mettendo insieme mondi diversi».
Ha incontrato anche l'Italia, nella lunga strada percorsa: Ornella Vanoni («un mito, è stato per me un onore») e Riccardo Sinigallia con il quale ha composto per Mina e Celentano «Amami amami». Più volte ospite a Roma del festival di letteratura e cultura ebraica, considera ogni ritorno entusiasmante: «Ammiro i vostri film, la musica, il cibo - ha raccontato -. Mi piacciono il folk e la tarantella! Penso che la musica italiana sia influenzata dai ritmi del mondo, e che al contempo sia in grado di far sentire la sua voce oltre i confini. Imparo molto dai vostri artisti emergenti».
(Corriere della Sera, 12 marzo 2017)
Tra Hamas e Israele finiscono le ostilità. Forse
Verso un movimento islamico indipendente, ad aprile l'assemblea del cambiamento. Gli alleati arabi chiedono una posizione più pragmatica e meno aggressiva.
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Israele ed Hamas possono arrivare, senza riconoscersi, a uno stato di non belligeranza a tempo indeterminato? I dubbi sono molti. Tuttavia da qualche tempo si registrano segnali interessanti che fanno ipotizzare un compromesso non dichiarato, utile agli interessi delle due parti. Il primo segnale è la calma relativa seguita alla distruttiva offensiva israeliana «Margine protettivo» dell'estate 2014. Certo proseguono i lanci sporadici di razzi palestinesi e i raid aerei israeliani. Ma è una tensione a bassa intensità, sotto controllo, che non lascia immaginare l'inizio di un nuovo ampio conflitto, nonostante a gestire la situazione siano due «falchi», il ministro israeliano della difesa Avigdor Lieberman e il nuovo capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, uno dei fondatori dell'ala militare del movimento islamico.
Altri segnali sono la redazione in corso del nuovo statuto di Hamas più «moderato» (rispetto a quello annunciato il 18 agosto 1988) nei confronti di Israele e la proposta dell'influente ministro israeliano dei trasporti lsrael Katz per la costruzione davanti alle coste di Gaza di un'isola artificiale. Isola ( costo 5 miliardi di dollari) che dovrebbe ospitare un porto, un impianto di desalinizzazione e una centrale elettrica, per migliorare le condizioni di vita dei due milioni di palestinesi di Gaza che da più di 10 anni affrontano le conseguenze del blocco israeliano. L'idea a Gaza raccoglie interesse anche se Hamas non lo dice. A spiegare da qualche giorno il «Covenant» è Ahmad Yusef, in passato consigliere dell'ex primo ministro islamista Ismail Haniyeh. Hamas formulò il suo statuto nel 1988 poco dopo l'inizio della prima Intifada, quando era una organizzazione relativamente piccola, non ancora in contrapposizione aperta con l'Olp, e che il suo fondatore, lo sceicco Ahmad Yassin, non poteva certo immaginare forte militarmente, popolare e influente come oggi.
Yusef sostiene che il movimento islamico intende darsi uno statuto adeguato alla mutata realtà locale e regionale. Hamas non riconoscerà Israele, non lo farà mai spiega Yusef, ma intenderebbe proclamarsi «solo» contro il sionismo e non contro gli ebrei. Non c'è nulla di definito su tale punto ma questa possibilità, riferita da Ahmad Yusef, è stata confermata al manifesto da una fonte di Gaza, che vuole rimanere anonima, vicina ai vertici del movimento islamico.
«Hamas si percepisce ormai come una forza regionale, che deve tenere conto degli interessi e degli Stati arabi e islamici che lo appoggiano e lo finanziano» spiega la fonte «il Qatar e la Turchia (i maggior sponsor di Hamas, ndr) hanno rapporti con Israele e premono per cooptare il movimento islamico palestinese nell'alleanza sunnita che si è formata nella regione. Perciò chiedono una posizione più pragmatica e meno aggressiva nei confronti di Israele».
Per questo Hamas potrebbero rinunciare, almeno per un certo numero di anni, a «liberare tutta la Palestina» e proclamarsi a favore di uno Stato palestinese nei territori occupati da Israele nel 1967: Cisgiordania, Gaza, con capitale Gerusalemme Est. Non solo. «Nel nuovo statuto», aggiunge la fonte «Hamas si descriverà come un movimento islamico indipendente, non più parte della Fratellanza islamica egiziana, allo scopo di migliorare le sue relazioni con l'Egitto, l'Arabia saudita e gli Emirati, nemici dei Fratelli musulmani».
Le resistenze interne non mancano, soprattutto nell'ala militare. «I moderati comunque vinceranno, prevede la fonte, spiegando che «tra la fine di marzo e l'inizio di aprile la shura (assemblea di Hamas) nominerà l'esecutivo del movimento, che includerà dirigenti locali e in esilio, e il nuovo leader, con ogni probabilità Ismail Haniyeh favorevole alla svolta pragmatica». Nel frattempo sull'altro fronte Efraim Halevi, ex capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, esorta il governo ad avviare un «dialogo diretto» con Hamas e il capo dello stato Reuven Rivlin dice di non essere contrario «a parlare con chiunque voglia dialogare», quindi anche gli islamisti.
Una posizione non condivisa dal premier Netanyahu. Per il momento c'è un'unica certezza: l'Anp e il presidente palestinese Abu Mazen sono fuori dai giochi.
(manifesto, 12 marzo 2017)
Baseball: sorpresa Israele ai Mondiali
ROMA - Israele continua la sua sorprendente serie di vittorie nel World Baseball Classic. Ieri a Tokyo ha battuto anche la blasonata Cuba per 4-1, esordendo al meglio nella pool E del torneo. Ed ora il sogno di approdare in semifinale non è così impossibile: potrebbe bastare un successo contro uno dei prossimi avversari, ovvero Olanda e Giappone. Israele, solo 41/a nel rank mondiale, è ancora imbattuta e sta smentendo l'etichetta di Cenerentola della competizione. Prima di Cuba, aveva già sconfitto Corea del Sud, Taiwan e Olanda nella pool A. La corsa della squadra israeliana è definita dai media una grande sorpresa se si pensa che nel Paese ci sono soltanto tre campi da baseball e un migliaio di giocatori. Nella pool D dello stesso torneo, ospitata però in Messico, è presente anche l'Italia, che dopo la vittoria a sorpresa sui padroni di casa giovedì scorso (10-9), ieri è stata sconfitta dal Venezuela (11-10). In testa al girone, con due successi su due, c'è Porto Rico, oggi avversario degli azzurri.
(Brescia Oggi, 12 marzo 2017)
Sulla grande muraglia di Erdogan contro i curdi
In viaggio lungo il muro di Erdogan che vuole cancellare i curdi. La barriera di cemento sigilla ormai cinquecento chilometri di confine tra Turchia e Siria. Qui il nemico sono i guerriglieri del Pkk
di Domenico Quirico
Era mattina, una mattina di primavera. Il tempo era bello, un sole giallo, vecchio, usato avanzava prudentemente nel cielo ancora un po' grigio. Nel ristorante «Friends» a Gaziantep le tre ragazze siriane cinguettavano allegre, beccuzzando enormi piatti di pollo fritto, scambiandosi i telefonini, tra ammicchi e risa di gioia. Una era particolarmente bella, elegante, ricca, con un raffinato velo Burberry.
Il mio itinerario in Turchia non poteva che iniziare qui: come sei anni fa, e allora furono viaggi notturni, bisbigli nel buio, incontri furtivi con sconosciuti appena intravisti, attese silenziose. Attraversare il confine siriano era difficile. Il chilometro più lungo della frontiera era a Khilis, a poca distanza dalla città. Da questa parte la Turchia. Dall'altra i ribelli e i soldati di Bashar Assad, la guerra infiniti orrori. Il mostro cruento svelava la sua faccia feroce. Uomini e donne hanno impiegato anni per percorrerlo e sono morti prima di toccare la meta, prima di diventare profughi.
Adesso i campi dei rifugiati in Turchia sono quasi vuoti, in compenso si sono riempite le città di siriani, due milioni settecentomila, quartieri interi, come qui a Karatash. Case strade negozi aiuole tutto nuovo, persino tra le rotaie del tram hanno steso una moquette verde per dare l'illusione dell'erba. Ma comunque si giri ti sembra di essere nella periferia provvisoria di una provvisoria città, luogo di tappa di un popolo stanco di andar pellegrino. Aggrappati al presente, temono l'avvenire.
Una vita tra visti e fughe
Poi nel ristorante è entrata un'altra giovane, anche lei siriana. Quante ne ho viste così: che si sentono ovunque di troppo, misurano il tempo in visti e la propria biografia in timbri. Non hanno fatto nulla di male ma sono certi di essere inseguiti. Si vede dagli occhi stanchi, dal passo svelto, dai vestiti sporchi, consunti. Sorridono timidamente: per farsi accettare. Chiedono scusa sempre, di essere lì, di disturbare, di togliere posto al sole. Si è avvicinata alle tre senza esitare. Ha scelto la più bella per parlarle, quella con il velo firmato. Si sono guardate per un lungo momento, come per misurare l'abisso che questi anni e il destino hanno scavato fra di loro.
La ragazza povera stringeva i denti come se trattenesse le lacrime le immagini le parole. L'altra, la ricca, ha fatto un gesto al cameriere che ha raccolto gli avanzi del pasto e li ha fatti scivolare in una borsa di plastica. Un leggero trasalimento, la ragazza attendeva a capo chino, il tacere in fondo alla preghiera, quando dopo aver invocato tratteniamo il respiro, tendiamo l'orecchio. Ha preso il sacchetto ed è uscita mormorando brevi parole.
L'ho seguita con lo sguardo. Ha attraversato il viale che taglia il quartiere. Il pudore infinito della povertà. Si è seduta sul marciapiede e ha iniziato a mangiare, svelta, gli avanzi. La Siria fuggiasca, lì, tutta intera: i ricchi che hanno avviato in Turchia una nuova vita, vivono in quartieri loro, a fianco dei turchi che non li amano, senza integrarsi. Ho visitato una scuola pagata dai ricchi uomini d'affari siriani che sono emigrati negli Usa e in Canada: computer e proiettori in ogni aula, la musica che accompagna la pausa tra le lezioni. Da far invidia ai loro coetanei italiani.
E poi gli altri ... Come sono simili, gli altri, a quelli che incontrai sei anni fa nei campi, chiusi a tutte le speranze, convinti che ciò che li aveva tenuti insieme da sempre si fosse per sempre spezzato per la decisione di qualche presidente o fanatico o per un nero destino; che tanto valeva partire o restare, in entrambi i casi non rimaneva che rinchiudersi in se stessi. E scaricavano davanti alle tende le loro robe e le portavano dentro, prendevano mogli figli vecchi e li portavano dentro.
Documenti in regola
Son passati sei anni e misuriamo in loro la nostra colpa: la guerra infuria e gli esseri umani continuano ad essere coloro che hanno i documenti in regola, non gli altri, quelli non sono i corpi vivi che ci stanno davanti ma stanno dentro le pratiche e gli incartamenti. Età, provenienza mezzi per vivere progetti di emigrazione, perchè siete qui, perché? Che ne sarà della Turchia, dell'Europa se tutta la Siria viene a stabilirsi qui dai rispondi! E voi rispondete: quante volte ho sentito, abbiamo sentito queste parole?
Al quartiere di «Iran bazaar» mi aspettano i bambini siriani, i bambini che lavorano nei laboratori del tessile. La porta di un edifico si apre, un bimbo viene mandato in avanscoperta dall'interno giungono voci e rumori confusi di macchinari. Ci guarda incerto: il padrone non c'è. Poi lui spunta dalle scale. Ci fingiamo imprenditori italiani del tessile che vogliono approfittare del crollo della lira turca per spostare una parte della lavorazione a prezzi stracciati. L'avidità cancella anche i sospetti, saliamo tra scale sbrecciate, resti di stoffa, immondizie, in un stanzone molti bambini qualche donna un paio di vecchi, tutti siriani, tagliano e lavorano in lunghe file di macchine da cucire. Camicine per neonati si allungano in interminabili mucchi. Il padrone, turco, ci offre condizioni vantaggiose: una lira e 50 turca per capo, è in grado di assicurarci mille capi al giorno ottomila la settimana. Farà lavorare i suoi piccoli operai su due turni senza sosta, un buon affare. I bambini, rannicchiati nei loro fagotti di cenci, non alzano nemmeno il capo per scrutarci, attenti ai gesti di tagliare e cucire e unire i lembi dei vestitini con il ritmo di una danza, con la devozione alla macchina che hanno davanti di un cane sulla tomba del padrone. Nel quartiere in ogni soffitta e sottoscala, basta scendere gradini sudici addentrarsi in antri scuri da medioevo, ci sono decine di laboratori come questo, dove sono sfruttati i piccoli fuggiaschi della rivoluzione siriana. Tutta la produzione viene poi spedita a Istanbul e all'estero. Altri bambini ti incrociano trascinando penosamente carretti di legno sovraccarichi di stoffe e vestiti diretti verso i magazzini.
Nei cinema proiettano trionfalmente «Il Reiss», film epopea sulla vita e la carriera del presidente Erdogan, un misto tra Victor Hugo e le mille e una notte: l'infanzia di povero, la persecuzione politica, il trionfo. Il sedici aprile si voterà per il referendum che ne rafforza i poteri, fino al 2029. I sondaggi danno favorito il no. Ma c'è tempo, mezza opposizione è in galera dopo il fallito golpe del 15 luglio, c'è lo stato di emergenza che vieta i comizi, e poi funziona la semplificazione eterna: o noi o il caos, se voti no aiuti i terroristi. Il mito ossessivo della congiura di forze oscure contro la Turchia, che solo Lui può fermare. Martellante universale efficacissimo. Va bene sempre, come sempre.
Lascio Gaziantep, mi attende un lungo viaggio verso Est: la porta d'Oriente, uno dei confini più delicati del mondo. Impossibile sbagliare strada, ti accompagna per centinaia di chilometri il Muro di Erdogan. Sembra solo una regolare linea grigia sulla pianura. Talora si avvicina alla strada fino a qualche centinaio di metri, talora si allontana: ma sempre ben visibile, definitivo, cementizio, invalicabile, con la sua corona di filo spinato. L'ha tirato su in breve tempo, un anno e mezzo, la «Toki», azienda edilizia di stato, la stessa che costruisce gli orribili quartieri che deturpano le città turche. Da cinquecento dovrebbe arrivare a mille chilometri di tracciato, da Hatay ad Akkari fino a chiudere tutto il confine per sbarrare la strada ai guerriglieri curdi del Pkk. Sono blocchi di cemento di due metri di spessore, altri tre metri, ogni trecento metri una torretta dove i soldati turchi staranno a guardia tutto il tempo come sentinelle medioevali sul parapetto del castello scrutando perennemente il deserto siriano. A distanze regolari postazioni zeppe di tutto l'armamentario delle guerre moderne dove, si dice, verranno poste mitragliatrici automatiche.
I bulldozer sono al lavoro, senza soste, per completare i tratti che ancora mancano. Gruppi di contadini a poca distanza con immensa fatica raccolgono pietra su pietra, per liberare la terra scura, grassa della Mesopotamia al lavoro e alla semente.
Propaganda di pietra
Ci lasciamo dietro l'Eufrate, Adyaman con i suoi enigmatici idoli di pietra e poi Urfa, che è città più araba che turca. L'immensità di questa pianura è inesorabile, crudele, infinita. Ovunque, innumerevoli, sopra le basse case le cupole delle nuove moschee come ombrelli spalancati. La propaganda di pietra del partito di Erdogan. Anche se qui non è l'islamizzazione che conta, più attenta come è alla facciata che alla sostanza, ma il vecchio nazionalismo, ombroso e orgoglioso. Nella zona curda ci cadi dentro, di colpo: con la parlata della gente che il turco o ignora o corrompe come se fosse lingua esotica, straniera. E con l'apparire delle scritte bilingui, regalo del breve periodo di tregua tra Erdogan e la minoranza detestata. Tregua dai mille sottintesi in cui ognuno sperava di giocare l'altro, e sfruttarlo. I curdi: l'eterno problema dei turchi. Non l'Europa, la democrazia, la laicità, la Siria: i curdi.
A Musaybin agli angoli delle case, sulla via, i forni collettivi dove le famiglie cuociono il pane, uguali a quelli che vide Senofonte, nelle strade passano cavalli al galoppo, nei caffè vecchi curdi giocano a carte in silenzio. C'è la sicurezza di cose vecchie e stabilite, mestieri antichi: come un fabbricante di culle legno, tutte eguali da tempo immemorabile, l'artigiano degli zoccoli e quello dei setacci. Ma gli uomini, ti accorgi, ragionano sottovoce e stanno a guardarsi aspettando di udire nell'aria lo scoppio di qualche fucilata di guerra. In città l'ultimo rastrellamento risale ad appena sette giorni fa. Si combatte e duramente nei villaggi intorno, per punizione, raccontano, bruciano le case e uccidono il bestiame. Per tagliare i rifornimenti e vendicare la collaborazione con i «terroristi».
Ecco Cizre, la nostra meta, per riprenderla ai curdi hanno dovuto bombardarla con i carri armati, sottoporla a sette mesi di coprifuoco totale, almeno duecento persone sono morte per mancanza di cibo, di acqua e medicine. Il coprifuoco è ancora in vigore dalle ventitrè alle cinque del mattino. Soldati e poliziotti hanno diritto a un soprassoldo per restarvi di guarnigione. Un terrorista ucciso venne trascinato per le vie legato a un blindato, meccanizzato lo strazio di Achille al corpo di Ettore.
Mi indicano pieni di orgoglio cittadino, uno spiazzo, strani tumuli di pietra anneriti da fuoco: lì Noè secondo la leggenda costruì l'arca per salvare l'uomo dal diluvio. Incastri che non riescono tra passato e presente. Il Tigri scorre lento, indifferente, quasi il vigore di una osservanza e di una storia immutabile.
«Abbiano fatto seicento prigionieri, non uno è rimasto in vita,l'hanno pagata i terroristi!».
A capo curvo il velo chiuso sul mento da un pizzo bianco, nascoste in implacabili tabarri neri le donne scivolano in strada in chiuso gruppo con una strana leggerezza di andare. Vestono come nel vicino Iraq; alla frontiera di Harbur mancano pochi chilometri. Le sfiorano senza rallentare i convogli dei blindati che pattugliano incessantemente le strade. Agli incroci dei quartieri più irriducibili bambini fanno strani gesti al passaggio dei mezzi militari e di qualche auto civile: le sentinelle.
«Sono tutti traditori, questi, hanno aperto le porte per far passare i terroristi da una casa all'altra, da un cortile all'altro. Ma li abbiamo fottuti questi figli di cani». A un incrocio altri bambini armati di mazze spaccano i rottami di una casa abbattuta per estrarne il ferro: come in una miniera. Lavorano metodici, lenti, in una nube di polvere grigia.
Tutti bambini.
«Qui mandano gli agenti più pazzi di tutta la Turchia, quelli che rifiutano di indossare il giubbotto antiproiettile, che si gettano in ogni mischia».
Sui muri solo qualche scritta ribelle è sfuggita alla censura dell'intonaco: «Fotti la Turchia!». Rispondono, invece scintillati, le scritte di poliziotti e soldati: «La Turchia è qui!».
Saliamo su un rilievo che domina la città, una delicatissima luce blu avviluppa le montagne intorno. Celano quasi violette contr'ombra, con gelide nevi, le terre di oltrefrontiera dove i curdi hanno saldo in mano il potere e lo stanno allargando. Da lì ti accorgi di ampie chiazze vuote di edifici, il fondo del terreno ha il grigio del cemento come un inspiegabile eczema edilizio. Sono i quartieri irriducibili, li hanno rasi al suolo.
(La Stampa, 12 marzo 2017)
Barletta - "Mio padre era Giorgio Perlasca": coinvolgente incontro con il figlio Franco
Figura e ruolo di Giorgio Perlasca, un uomo che, pressoché da solo, nell'inverno del 1944-1945 a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ebrei ungheresi
BARLETTA - Nella serata di venerdì' 10 marzo, presso la Sala Rossa "Palumbieri" del Castello, il Rotary Club di Barletta, presieduto da Sabino Montenero, ha incontrato Franco Perlasca, che ha presentato il libro "Mio padre era Giorgio Perlasca".
Serata eccezionale e coinvolgente, aperta a tutta la cittadinanza, fortemente voluta dal Rotary Club di Barletta che ha affrontato e trattato da varie angolazioni, nella Sala Rossa" del Castello di Barletta, gremita di pubblico motivato ed interessato, un focus particolare sulla figura e il ruolo di Giorgio Perlasca, un uomo che, pressoché da solo, nell'inverno del 1944-1945 a Budapest riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di religione ebraica inventandosi un ruolo, quello di Console spagnolo, lui che non era né diplomatico né spagnolo, bensì un "magnifico impostore".
Dopo aver salutato e ringraziato tutto il pubblico intervenuto, gli ospiti e i soci presenti- tra cui gli Assessori Giuseppe Gammarota per il Turismo e Patrizia Mele per la Pubblica Istruzione, il delegato Confindustria BAT Sergio Fontana, le autorità militari e scolastiche del territorio, il dott. Nicola Barile per il suo collegamento prezioso con la famiglia Perlasca e la socia Nuccia Cafagna per il raccordo organizzativo finalizzato alla realizzazione dell'evento, il Presidente del Rotary Club Sabino Montenero con l'ausilio di Serena Sguera brillante moderatrice , entrano subito in empatia con il relatore Franco Perlasca e sua moglie Luciana visionando un filmato che orbita intorno al concetto di GIUSTO in cui, a detta del figlio , vengono abbinati 3 concetti: 1o le testimonianze del protagonista Giorgio Perlasca, 2o le testimonianze dei sopravissuti e 3o la contestualizzazione dal punto di vista storico.
UOMO GIUSTO semplicemente perché riteneva d'aver fatto il proprio dovere, nulla di più e nulla di meno. Per la prima volta dopo quasi 45 anni, il racconto del figlio Franco: " Pochi sapevano di quell' uomo, nato a Como nel 1910, forte sostenitore del partito fascista fino al 1938, cioè fino alla promulgazione delle leggi razziali e all' alleanza con Hitler. Pochi sapevano di come questo sconosciuto si finse un diplomatico spagnolo e rilasciò salvacondotti falsi salvando la vita a 5.200 ebrei. Molti di più, forse, visto che ogni documento valeva per un intero nucleo famigliare. Il Talmud racconta di come ogni generazione abbia 36 giusti. Uomini da cui dipende la salvezza dell'umanità. Uomini umili chiamati all' azione e che, dopo aver svolto il proprio compito, tornano nell' ombra dell' anonimato. «Mio padre era uno di questi, La mia famiglia, per quasi mezzo secolo, è rimasta all' oscuro di tutto. « Mio Padre raccontava piccoli episodi dell' Ungheria, di quanto aveva visto. Ma non avremmo mai immaginato, io e mia madre, che fosse un protagonista della Storia».
Poi, nel 1988, l' arrivo dei coniugi Lang a casa nostra Il racconto coinvolgente di Luciana: "Già nel 1987 il muro di Berlino stava virtualmente cedendo e l' Ungheria sentiva arrivare la libertà. Il regime allentava la morsa e le persone tornarono a pensare all' occupazione, alla guerra, alla memoria. Così, queste donne ebree misero insieme i pezzi, si fecero aiutare dalle ambasciate israeliane e arrivarono a casa nostra. In realtà la sua storia non era così sconosciuta".
Straordinaria narrazione dell'impresa di Giorgio Perlasca, con stimolanti interventi del pubblico presente visibilmente commosso dalla proiezione di uno spaccato di storia totalmente autentico in cui l'assassinio è legge di stato e il genocidio parte di un progetto politico. Al termine, il figlio Franco Perlasca e sua moglie Luciana ci hanno regalato una testimonianza non "istituzionale" ma profondamente vera, aprendosi al racconto di particolari personali, aneddoti privati come solo le persone vere sanno fare.
Il Presidente del Rotary Club di Barletta Sabino Montenero, ad ultimazione lavori, ha ringraziato calorosamente Franco e Luciana Perlasca per la loro partecipazione, che oltre a fornire un contributo eccezionale ai lavori della memoria storica, ha illuminato la platea travolta dalla grandezza di questo straordinario personaggio.
(Barlettalive.it, 12 marzo 2017)
La storia di Ester, esempio per le donne, raccontata in Sinagoga
Un incontro per valorizzare la Sinagoga di Alessandria non solo come luogo spirituale, ma anche come luogo di dibattito culturale
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ALESSANDRIA - Domenica 12 marzo alle 17, il Circolo Provinciale della Stampa organizza, presso la Sinagoga di Alessandria (Via Milano n.7), la conferenza dal titolo "Ester - nella giornata di Purim, un esempio per le donne di oggi".
L'evento ricorda dei fatti accaduti in Persia circa 2500 anni fa, durante il regno di Assuero. Haman, perfido consigliere del re, voleva sterminare tutti gli ebrei del regno. La regina Ester allora decise di digiunare tre giorni, invocando l'aiuto di Dio, prima di recarsi dal re della Persia e ottenere la grazia in favore del suo popolo. La donna, che era diventata moglie del re nascondendo la sua origine, intercesse presso suo marito e gli ebrei vennero salvati. Per ricordare il digiuno venne istituito il giorno di Ta'anit, che varia a seconda dell'anno, commemorato dagli ebrei proprio osservando il digiuno, durante il quale ci si astiene da cibo e bevande, compresa l'acqua, che diventa l'espressione tangibile di un pentimento, un modo per ricordare un lutto, oppure un mezzo di forte supplica per qualche preghiera particolare da rivolgere a Dio.
Interverranno la Dott.ssa Vittoria Acik, medico e scrittrice; il Dott. Fabio Tirelli, psicoterapeuta e studioso di Scienze Tradizionali; Barbara Rossi, esperta di linguaggi cinematografici ed infine, Fausta Dal Monte, giornalista. Con questo appuntamento, si intende valorizzare la Sinagoga di Alessandria non solo come luogo spirituale, ma anche come luogo di dibattito culturale. L'iniziativa è organizzata in collaborazione con Associazione SpazioIdea, Officina Città Solidale, la Comunità Ebraica di Torino - sezione di Alessandria e La Voce della Luna.
(RadioGold, 12 marzo 2017)
Trump a Abu Mazen: «La pace è possibile, è il momento»
Il capo della Casa Bianca telefona al presidente dell'Autorità nazionale palestinese e lo invita a Washington. E da Ramallah: «Dimostra coraggio, il viaggio sarà molto presto»
«La pace» fra israeliani e palestinesi «è possibile». Lo ha detto il presidente Donald Trump nel colloquio telefonico con Abu Mazen, sottolineando che la pace deve essere negoziata direttamente fra le due parti. «Gli Stati Uniti lavoreranno con la leadership israeliana e palestinese» perché «una soluzione» non può essere imposta. Trump ha invitato Abu Mazen alla Casa Bianca e da Ramallah un portavoce dell'Autorità nazionale palestinese, Nabil Abu Rdeneh, ha spiegato che il viaggio dovrebbe avere luogo «molto presto».
«È tempo per un accordo»
«Il presidente Trump - fa sapere la Casa Bianca in una nota - ha espresso la personale convinzione che la pace sia possibile e che sia giunto il tempo per arrivare ad un accordo tra le parti. Ha inoltre sottolineato che un'intesa garantirebbe a israeliani e palestinesi la pace che è loro dovuta e avrebbe ripercussioni positive sulla stabilità dell'intera area e del mondo intero». Trump ha rassicurato Abu Mazen sul fatto che gli Stati Uniti non prenderanno parte nella contesa, che l'accordo dovrà essere frutto di negoziati diretti tra Ramallah e Gerusalemme e che l'amministrazione americana farà quanto possibile per lavorare con entrambe le parti per il raggiungimento dell'obbiettivo.
«Trump onesto e coraggioso
«Noi siamo pronti a confrontarci con il presidente Trump e con il governo israeliano al fine di riprendere i negoziati - ha detto ancora Rdeneh -. Se gli israeliani sono pronti, il presidente Abbas ha già impegnato se stesso nella direzione di un accordo di pace». Dall'Anp arriva anche un apprezzamento al capo della Casa Bianca: «Il presidente Trump è un uomo onesto e si dimostra molto coraggioso nel volere questo accordo». Da parte di Israele non c'è stata ancora alcuna reazione.
Gli ultimi tentativi di mediazione statunitense erano falliti nel 2014. La telefonata è il primo contatto formale tra gli Usa e l'Anp dopo l'insediamento della nuova amministrazione ed è considerata molto importante nel segno di un'equidistanza tra le parti che nelle settimane scorse era sembrata venir meno dopo i dubbi espressi dallo stesso Trump sull'opzione dei due Stati che aveva fatto ipotizzare uno sbilanciamento americano a favore di Israele. Anche l'annuncio di uno spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme aveva fatto parlare di una svolta americana sulla questione mediorientale. Ma già nei giorni scorsi la Casa Bianca aveva espresso contrarietà all'ipotesi di annessione di alcuni dei territori occupati della Cisgiordania evocando una crisi diplomatica.
(Corriere della Sera, 11 marzo 2017)
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Cosa cambia dopo la telefonata a sorpresa fra Donald Trump e Abu Mazen
di Marco Orioles
A un mese circa dal caloroso incontro alla Casa Bianca tra Trump e il premier israeliano Netanyahu, il presidente Usa ha parlato al telefono col presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Una conversazione durata 20 minuti che ha risollevato le speranze di un "deal" sulla contesa territoriale più longeva della storia recente. La telefonata è culminata con l'invito a Washington per Abbas, che non ha nascosto il proprio entusiasmo. Sembra decollare dunque l'iniziativa dell'amministrazione Trump, intenzionata a smuovere le acque e a sigillare uno storico accordo tra le parti riottose.
Il processo di pace si era bruscamente interrotto nel 2014, anche per l'evidente irritazione di Obama per la linea inflessibile di Gerusalemme. Obama non nascondeva la propria antipatia nei confronti di Netanyahu, portando le relazioni tra i due paesi al minimo storico. L'avvento di Trump sembrava in principio destinato a mettere la pietra tombale sulla prospettiva dei "due Stati per due popoli", la linea storica di Washington e l'unica prospettiva considerata accettabile da una comunità internazionale che non perde mai l'occasione di attaccare Israele e di coccolare i palestinesi. In campagna elettorale The Donald aveva annunciato che, se eletto, avrebbe trasferito da Tel Aviv a Gerusalemme l'ambasciata Usa, una mossa ritenuta pericolosamente provocatoria.
Per ricoprire l'incarico di proprio rappresentante diplomatico in Israele, Trump ha inoltre scelto un avvocato favorevole alla politica degli insediamenti ebraici nella West Bank, altra benzina nel fuoco. Infine, Trump ha indicato nel genero Jared Kushner, suo consigliere alla Casa Bianca, come colui che avrebbe gestito il dossier della Terra Santa: Kushner è ebreo. Tutti questi segnali hanno suscitato allarme, così come l'abbraccio tra Netanyahu e Trump di febbraio e le clamorose dichiarazioni del neo-presidente secondo cui la soluzione dei due Stati poteva anche essere abbandonata ove israeliani e palestinesi decidessero altrimenti: "Due stati, uno stato, quel che va bene alle parti per me è ok", fu la bomba esplosa dall'ugola incendiaria del magnate newyorchese.
L'impressione di un netto sbilanciamento di Trump verso Israele fu però presto smentita da una dichiarazione ufficiale che esortava Israele a non perseverare con i controversi insediamenti, perché passibili di complicare il processo di pace. Trump lo disse direttamente, anche se cortesemente, a Netanyahu nella conferenza stampa a margine dell'incontro a Pennsylvania Avenue. Mentre Trump discuteva con Netanyahu, il capo della Cia Mike Pompeo incontrava Abu Mazen a Ramallah, in un evidente tentativo di rassicurazione.
Ora arriva il primo colloquio diretto tra il presidente degli Stati Uniti e il suo collega palestinese, un altro segnale in controtendenza che evidenzia l'approccio più equilibrato della Casa Bianca. Saranno i prossimi mesi a rivelare se l'agognata pace sarà raggiunta con il sostegno di un presidente amico di Israele ma non per questo ostinato a chiudere gli occhi di fronte alle responsabilità della storia.
(formiche.net, 11 marzo 2017)
«Israele è un tumore maligno»
«E come tale va estirpato», ha detto Khamenei, la guida suprema siriana a un summit a Teheran. «Dalla striscia di Gaza sarà sferrato l'attacco risolutivo».
di Daniele Capezzone
Ayatollah Ali Khamenei
Il 21-22 febbraio scorsi, nel silenzio pressoché totale dei media occidentali, si è tenuta a Teheran la sesta conferenza internazionale sull'Intifada palestinese. Non un evento minore o clandestino, ma un appuntamento organizzato in pompa magna dal regime iraniano, con 700 delegati da decine di paesi: tra i partecipanti, esponenti siriani, libanesi, iracheni, parlamentari di numerosissimi paesi africani, il vicepresidente del parlamento russo, più figure chiave del terrorismo mediorientale, da Hamas a Hezbollah, passando per la PIJ (Palestinian Islamic Jihad).
Come accade in circostanze simili, la conferenza è stata l'occasione per discorsi non improvvisati, ma strategici e di fondo da parte dei vertici di Teheran, dalla guida suprema Khamenei al presidente Rouhani, che qualcuno in Occidente si ostina ancora a descrivere come un moderato. A presiedere la conferenza è stato chiamato Larijani, che ordinariamente guida un organo chiamato dal regime, con macabra ironia, comitato per i diritti umani.
E' bene lasciare spazio alle citazioni, che parlano da sé. Kazem Jalali, portavoce della conferenza, ha denunciato la disattenzione del mondo islamico rispetto alla questione palestinese, e ha attaccato frontalmente i paesi che desiderino intrattenere con Israele relazioni normali. Al contrario, a suo avviso, la causa palestinese dovrebbe essere al primo posto dell'agenda panaraba, e anzi dovrebbe unificare il mondo musulmano - al di là delle sue differenze - contro il «regime sionista».
Tra le organizzazioni terroristiche, il rappresentante della PIJ Ramadan Abdallah Shalah ha elogiato la «resistenza» (cioè, appunto, l'attività terroristica) nella Striscia di Gaza, e, in un crescendo estremista, ha attaccato la stessa Autorità nazionale palestinese che, a suo dire, anziché sostenere adeguatamente la «resistenza», lavorerebbe per non nuocere a Israele.
Obama Hamdan, qualificato come capo delle relazioni esterne di Hamas, ha lungamente elogiato il «terrorismo di popolo» e l'«eroismo» dei giovani palestinesi. Ha chiesto un'escalation nella resistenza, e un generalizzato supporto con armi e mezzi per l'attività terroristica nella Striscia di Gaza, che deve divenire base per la resistenza.
Il vicesegretario generale di Hezbollah, Naim Qassem, ha annunciato che la Palestina sarà «liberata» e avrà per capitale Gerusalemme.
Ma veniamo ai discorsi delle figure chiave del regime iraniano. La guida suprema Khamenei, nel suo speech d'apertura, ha definito «sacro» l'obiettivo della «liberazione di Gerusalernme».
I palestinesi non hanno altra scelta se non quella di tenere accese le fiamme della battaglia contro Israele, definita testualmente un «tumore maligno», che va quindi estirpato. La lotta deve continuare - ha annunciato - fino alla completa «liberazione» della Palestina, ponendo fine all'illegittima esistenza del regime sionista». Nessun compromesso è dunque possibile per Khamenei. E qui la guida suprema ha a sua volta attaccato i «collaborazionisti», cioè i «cospiratori» che, trattando con i nemici, minano la causa palestinese.
Anche Rouhani ha insistito su questo punto, ammonendo contro il tentativo di Israele di normalizzare le relazioni con il mondo musulmano. Israele è un «fake regime», e tiene in ostaggio alcuni del leader occidentali. Nessuna mediazione è dunque accettabile per il mondo musulmano. Ho finora trascritto le parti essenziali del report in modo asciutto, perché mi pare che le citazioni siano autoesplicative.
Resta spazio per due sole considerazioni. La prima è relativa al tragico errore della presidenza Obama, che, attraverso l'Iran Deal, ha legittimato il regime di Teheran, offrendo una sponda internazionale a chi ha, come obiettivo esplicito, la cancellazione di Israele dalla faccia della terra.
È auspicabile che l'amministrazione Trump denunci quell'accordo, lo disconosca, e ne capovolga l'impostazione. E sarebbe utile che molti dei critici di Trump non applicassero un doppio standard intellettualmente poco onesto: sparare rumorosamente sulla nuova presidenza, e invece tacere sugli errori dell'amministrazione Obama.
Purtroppo, proprio il generale arretramento obamiano (una specie di ritiro morale, di withdrawal occidentale, insieme politico e culturale) ha creato un vuoto che è stato opportunisticamente sfruttato sia dal terrorismo sia dai player autoritari (Iran e Russia in testa), increduli del regalo ricevuto, quello di potersi presentare come major powerbroker, come «risolutori di problemi» in Medio Oriente e in altri teatri decisivi.
La seconda considerazione riguarda l'Italia. Chi scrive ha presentato in Parlamento, da mesi, un pacchetto di interrogazioni a cui il Governo si rifiuta di rispondere. Parliamoci chiaro: nel silenzio e nel plauso di gran parte delle opposizioni, il Governo Renzi prima e il Governo Gentiloni poi si inchinano a Teheran.
Non si tratta solo della ben nota gaffe delle statue incartate a Roma per non turbare - con i nudi - l'ospite Rouhani, ma di un insieme impressionante di collaborazioni militari, navali, politiche, e perfino sul terreno giudiziario e sanitario. Uno scenario opaco, tutto da chiarire. Tutto ciò da parte di esecutivi (e opposizioni) che costantemente dichiarano la propria amicizia verso Israele.
E così nei giorni pari si dichiara vicinanza a Gerusalemme, mentre in quelli dispari ci si inchina al naziislamismo di Teheran. Non è politica estera: è un comportamento da Pulcinella.
Nessuno silluda, quando arriverà il momento anche la nostra Italia offrirà Israele, e con essa gli ebrei, in pasto ai suoi nemici. Gli esperti stanno già lavorando agli argomenti giustificativi: nel 38 era la difesa della razza, oggi è la difesa della pace. M.C.
(ItaliaOggi, 11 marzo 2017)
Hamas diventerà un filo più moderato?
Il movimento politico-terrorista palestinese sta per approvare un nuovo programma dopo quasi trent'anni, con diverse concessioni.
Grafico che riassume le nuove posizioni di Hamas
Nei prossimi mesi Hamas, il gruppo politico-terrorista di stampo islamista che governa la Striscia di Gaza, diffonderà un nuovo programma politico più moderato di quello attualmente in vigore, introdotto nel 1988 e fra le altre cose dichiaratamente antisemita. Le modifiche sono state anticipate dal giornale arabo con sede a Londra Asharq al Awsat e da diversi giornali israeliani, e successivamente confermate da alcuni funzionari di Hamas al New York Times.
Fra le modifiche più importanti - e che ammorbidiscono vecchie posizioni più intransigenti - ci sono il riconoscimento dei cosiddetti "confini del 1967?, la base di molti negoziati per la pace fra Israele e Palestina, e una presa di distanza dai Fratelli Musulmani, il gruppo politico di cui Hamas era "rappresentante" in Palestina nei suoi primi anni di vita. Fra i nuovi punti però non c'è il riconoscimento ufficiale dello stato di Israele, posizione che invece è stata adottata più di vent'anni fa da Fatah, il partito "moderato" che assieme ad Hamas è fra i più popolari in Palestina e che da anni è il principale interlocutore internazionale sui temi che riguardano i palestinesi.
Il documento non è ancora stato introdotto ufficialmente: sarà approvato probabilmente alla fine di marzo o all'inizio di aprile, quando Hamas concluderà un ciclo di elezioni interne. Un funzionario della branca politica di Hamas ha spiegato ad Haaretz che il nuovo programma non conterrà posizioni "nuove" in assoluto, ma sviluppate negli ultimi anni dalla dirigenza. Gli stessi dirigenti però hanno sottolineato la rilevanza di alcune modifiche: Taher el Nounou, un portavoce di Hamas a Gaza, ha spiegato al New York Times che il documento chiarisce che «non combattiamo gli ebrei in quanto ebrei: la nostra lotta è solamente diretta a chi occupa la nostra terra». Anche la citazione dei confini del 1967 è notevole, anche perché è un riconoscimento indiretto del fatto che alcuni territori palestinesi possano appartenere a Israele (che nel vecchio programma è considerato il nemico da espellere dalla Palestina).
I punti relativi all'Egitto servono probabilmente a compiacere il governo egiziano di al Sisi, che per ragioni politiche quattro anni fa ha messo fuorilegge i Fratelli Musulmani. Avere buoni rapporti con l'Egitto è fondamentale, per Hamas: è il paese con cui la Striscia confina a sud, e con cui già in passato ci sono stati problemi di gestione della frontiera.
Più in generale, come hanno spiegato al New York Times alcuni funzionari di Hamas e analisti, il documento sembra avere come obiettivo quello di ridurre l'isolamento internazionale del movimento. Hamas è considerato un gruppo terrorista da buona parte del mondo occidentale - compresa l'Unione Europea e gli Stati Uniti - e nonostante stia cercando da anni di rappresentarsi come una forza più istituzionale rispetto al passato, dispone ancora di un potente apparato di sicurezza e di una branca militare (che Fatah ha sciolto ormai da decenni). E sebbene abbia ridotto di molto gli attentati contro Israele rispetto al passato, non li ha totalmente accantonati: l'attentato al centro commerciale Sarona di Tel Aviv, avvenuto nel giugno del 2016, è stato compiuto da due membri di Hamas e celebrati su Twitter da Ismail Haniyeh, dirigente di Hamas che è stato per breve tempo primo ministro palestinese ed è considerato il futuro capo del movimento.
Per questo e altri motivi - come l'elezione dell'ex capo dell'ala militare a leader del movimento a Gaza - diversi analisti ritengono che la volontà di diventare una forza "moderata" debba ancora essere realmente dimostrata.
(il Post, 11 marzo 2017)
Profondamente colpita e turbata dalla notizia della proiezione di "Israele, il cancro"
Lettera al Direttore di NewsBiella
Gentile Direttore, sono stata profondamente colpita e turbata dalla notizia della proiezione del film antisionista "Israele, il cancro", con relativo sostegno dell'Anpi e la presentazione dei promotori e dell'autrice.
Proiezione e conferenza organizzata a Biella contro lo Stato d'Israele definito cancro. Il cancro è una malattia che bisogna debellare e distruggere ad ogni costo. Associarla allo Stato di Israele mi fa pensare a quella Shoah a cui anche l'Italia ha contribuito. Vorrei così puntualizzare alcuni fatti riguardo l'ossessione contro Israele, che tra l'altro è l'unica democrazia del medio oriente ed è l'unico Paese in cui i cristiani possono vivere, lavorare e far suonare le loro campane in pace e sicurezza. L'ONU ha un intero reparto che si occupa dei palestinesi, ma non ha un reparto che si occupi dei missili illegali della Corea del Nord, non ha un reparto che si occupi della sovvenzione iraniana al terrorismo né dei missili balistici che invia, né ha un reparto che si occupi di Bashar al Assad che ha ammazzato centinaia di migliaia di suoi cittadini. È vero che i palestinesi si sono abituati a fare i profughi da 69 anni e da allora vivono a spese della comunità internazionale, ciò nonostante mi pare sia esagerato. In un mondo dove l'antisemitismo si rinforza, questo genere di conferenze e presentazioni non vanno sottovalutate. È chiaro che servono solo a seminare odio e a rendere gli approcci più difficili. Ciò nonostante Israele continua a offrire al mondo innovazione tecnologica e progresso. Molti Paesi, fino a poco fa nemici, hanno cambiato opinione e ora riconoscono che Israele è un elemento stabilizzante nel medio oriente. Checché ne pensino coloro che pregano e ne invocano la distruzione!
(NewsBiella, 11 marzo 2017)
Se questa è Torino
Nella città di Primo Levi, universitari e intellettuali si fanno "carnefici" di Israele. Benvenuti nella capitale del boicottaggio dello stato ebraico.
Ugo Volli: "Gli intellettuali qui seguono il motto 'mai nemici a sinistra', che li porta a essere complici degli estremismi
Scarpe contro il pupazzo di Peres, proteste contro i ballerini israeliani, seminari su "ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina"
Odifreddi e D'Orsi che chiedono una "Norimberga per Israele", l'attacco alla "docente sionista", il caso del Museo della Resistenza
Luca Ricolfi: "Domina la retorica dei palestinesi come 'gli ultimi', mentre gli israeliani sono un popolo senza cuore"
di Giulio Meotti
Quando, un anno fa, 350 docenti, ricercatori e assegnisti delle università italiane lanciarono un appello per il boicottaggio di Israele, in particolare dell'Università Technion di Haifa, ben 61 di loro provenivano dall'Università di Torino. Un anno prima, erano stati gli antropologi a produrre un manifesto simile per ostracizzare i colleghi israeliani. E anche in quel caso, molte firme arrivarono dall'Università di Torino. Città "impegnata", città antifascista, ma che spicca oggi in Italia per molte campagne contro lo stato ebraico, dal suo corpo studentesco, da molti suoi docenti, da tanti suoi intellettuali. Torino sembra diventata la capitale italiana del boicottaggio di Israele.
Nei giorni scorsi, l'Università di Torino è stata la prima (e finora unica) in Italia a votare ufficialmente una mozione di boicottaggio di Israele, sostenuta a maggioranza (sedici favorevoli e cinque contrari) dal Consiglio degli studenti. Chiedono che il rettore, Gianmaria Ajani, "receda agli accordi attualmente in vigore con il Technion" entro aprile. Nell'ottobre del 2015, quando Politecnico, Università di Torino e il Technion di Haifa tennero il loro primo incontro di interscambio al Campus di Agraria di Grugliasco, le contestazioni furono dure e a colpi di slogan osceni:
"Ladri di terra, criminali di guerra" fu la scritta sullo striscione sfoderato da un gruppo di studenti che riuscì a interrompere l'incontro. Adesso la mozione di boicottaggio dovrà essere votata dal Senato accademico e dal consiglio d'amministrazione, ed è la prima a essere approvata da un organo istituzionale di un ateneo italiano. Nel testo si sostiene che "lo stato di Israele abbia deliberatamente colpito obiettivi civili e si sia reso responsabile di crimini di guerra durante l'attacco condotto nell'estate 2014 contro Gaza". E gli studenti sposano la campagna di Bds, cioè boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele e le sue istituzioni. Nelle stesse ore, l'Associazione nazionale partigiani della Valle Elvo annunciava la proiezione del documentario "Israele, il cancro" di Samantha Comizzoli. L'Unione delle comunità ebraiche italiane con la presidente Noemi Di Segni ha scritto al Presidente nazionale dell'Anpi Carlo Smuraglia per chiedere che l'associazione degli ex partigiani impedisca a una propria sezione di patrocinare la proiezione "di un film di una nota attivista antisionista e antisemita". Torino e il Piemonte fermentano di episodi simili.
Un mese fa, in occasione della Giornata della memoria, il campus universitario Luigi Einaudi di Torino aveva tenuto un seminario dal titolo: "Ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina". "All'Università di
Ci sono professori e studenti che hanno trovato nell'antisraelismo una base propagandistica. A Tori- no c'è questa tradizione per cui l'intellettualità adotta il motto di 'non avere mai nemici a sinistra', essere sempre complici e tolleranti verso le manifestazioni dell'estre- ma sinistra.
Torino ci sono docenti, come Gianni Vattimo, che tuonano con una politica antisraeliana, e ci sono gli autonomi forti fra gli studenti, entrambi hanno capito che una mobilitazione antisraeliana possa essere
fonte di affermazione", racconta al Foglio Ugo Volli, semiologo di fama che insegna all'Università di Torino, dove spicca come una voce fieramente filoisraeliana. Quel Gianni Vattimo che ha paragonato Israele al nazismo e che ha chiesto di armare i gruppi palestinesi. "Ci sono vecchi rapporti fra i No Tav e le organizzazioni filopalestinesi più estreme", dice Volli. "Ci sono docenti, come Angelo D'Orsi, e una base tradizionale di sinistra, forte fra gli scienziati politici e gli antropologi, e che hanno fatto una serie di iniziative contro Israele. Non esiste una base di consenso nel corpo docente, anche se è tradizionalmente
di sinistra. Ci sono i ciellini, che sono minoranza, gli autonomi, e gli studenti indipendenti ex Pd. E' del tutto improbabile che il Senato accademico adotti la mozione di boicottaggio. Questi professori e studenti hanno trovato nell'antisraelismo una base propagandistica che considerano conveniente. A Torino c'è questa tradizione per cui l'intellettualità adotta il motto di 'non avere mai nemici a sinistra', essere sempre complici e tolleranti verso le manifestazioni dell'estrema sinistra. Succedeva anche con le Brigate Rosse: a Torino ci fu uno scarso rifiuto da parte del mondo intellettuale della violenza terroristica. L'Università di Torino ha avuto più docenti che si sono rifiutati di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo, cinque su quattrordici, è una cultura costruita attorno al mito della grande fabbrica, dell'impegno e dell'intellettualità. Negli anni delle Brigate Rosse ero a Milano: l'uccisione di Carlo Casalegno generò poco sdegno a Torino. Questa cosa in altri posti fu rapidamente superata alla fine degli anni Settanta. Oggi si ha l'impressione che lottare contro il capitalismo all'Università di Torino vada ancora bene. Quando ci fu il G7 a Torino e ci furono scontri, il rettore chiuse l'università per due giorni, il mio dipartimento 50 a 1 votò contro la chiusura 'repressiva' del rettore. Quell'uno ero io. Il fatto che ci sia un appoggio per i No Tav violenti, nella stampa e nell'università, che persino un meteorologo come Mercalli ne parli, che Erri De Luca venga ad appoggiarli, questa ideologia si rovescia su Israele come simbolo ai loro occhi dell'imperialismo capitalista. Questa cosa è pura ideologia di facciata, con scarso riferimento alla realtà. Io non ho mai avvertito un pericolo personale, una discriminazione, eppure questa bandiera porta loro titoli di giornali. E' un gioco di rappresentazioni, non credono di bloccare la ricerca israeliana".
Ma è un gioco che dovrebbe preoccupare le autorità in città. Due settimane fa, l'ateneo torinese aveva fatto notizia per un altro caso simile. "Rinuncio a fare ricerca per boicottare l'università di Tel Aviv e Israele". Questa la decisione di una giovane ricercatrice, Ilaria Bertazzi, che dopo il dottorato ha rifiutato la proposta di continuare a studiare le energie rinnovabili perché il progetto prevedeva la collaborazione con atenei israeliani. "Mi è stato proposto un contratto di collaborazione all'interno di un progetto finanziato dal fondo europeo Horizon 2020", ha spiegato dalla pagina del Collettivo universitario autonomo di Torino.
Qualche anno fa, in una intervista al quotidiano israeliano Maariv, uno studente israeliano, Amit Peer, disse che a Torino alcuni studenti universitari di origine ebraica preferivano celare la propria vera identità per
Alcuni studenti universitari di ori- gine ebraica preferiscono celare la propria vera identità per timore di sfottò o contestazioni violente. Molti studenti di nazionalità italiana preferiscono o celare l'identità, o far credere che il cognome non sia ebreo.
timore di sfottò o contestazioni violente. "A me personalmente non è accaduto mai nulla di serio - affermò Peer - ma conosco parecchi studenti di nazionalità italiana che preferiscono o celare l'identità, o far credere che il cognome non sia ebreo, ma provenga da etnie simili". Quando Amos Oz, scrittore e pacifista israeliano, andò a parlare al Teatro Regio, attivisti di "Free Palestine" lo contestarono come intellettuale "organico alla politica militare di Tel Aviv contro i palestinesi". I movimenti di Oz a Torino furono seguiti da una schiera di agenti di polizia che impedirono che si verificassero incidenti. In città spesso si verificano episodi di aperto antisemitismo.
Come quando al "Festival della cultura alternativa", promosso da centri sociali e autonomi al Parco Ruffini, per un euro si potevano tirare scarpe contro la sagoma del compianto presidente israeliano Shimon Peres, che teneva in mano una Stella di David. Proteste hanno cercato di fermare l'esibizione della compagnia israeliana di danza Batsheva nell'ambito del festival Mito Settembre musica. Davanti al Teatro Regio, in piazza Castello, una "contromanifestazione" venne organizzata da artisti e militanti del boicottaggio antisraeliano. Dissero che la Batsheva Dance Company "è finanziata dal governo di Israele e quindi svolge un ruolo di ambasciatrice culturale dell'occupazione e dell'apartheid". A maggio la protesta antisraeliana ha preso di mira il Torino Gay&Lesbian Film Festival. Attivisti dei comitati pro Palestina hanno manifestato davanti al cinema Massimo, che ospitava la kermesse. Protestavano contro la presenza, nel concorso cinematografico, di diverse pellicole di Israele.
Nel luglio 2014 Piero Pelù, nell'ambito del Traffic Free Festival, fece una dedica per la "Palestina libera!", mentre sul palco di piazza San Carlo veniva accolto un rappresentante dei comitati per il boicottaggio di Israele. Un anno fa, nell'aula magna del rettorato dell'Università di Torino, si tenne il seminario organizzato dal dipartimento di Lingue e letterature straniere moderne, in cui si parlò della questione israelo-palestinese. Protagonisti i docenti Michelguglielmo Torri e Diana Carminati. Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega Nord al consiglio comunale, parlò dell'Università di Torino come "carnefice di Israele". Carminati, autrice di "Boicottare Israele", è stata tra i docenti in prima linea per boicottare i rapporti delle università torinese con gli istituti israeliani.
Nel marzo 2015, Carminati aveva tenuto già un incontro al campus universitario Einaudi dal titolo "Il progetto del sionismo per un colonialismo d'insediamento in Palestina". Uno degli intellettuali e docenti torinesi protagonisti di queste battaglie, il celebre storico azionista Angelo D'Orsi, ha lanciato un appello a favore di "una Norimberga per Israele", dopo quella che definì "l'infame aggressione a Gaza" (evidente il paragone fra lo stato ebraico e il nazismo). Anche Diego Fusaro, giovane docente torinese, parla di Israele come di uno stato che commette un "genocidio" contro i palestinesi. E un altro intellettuale torinese, il matematico Piergiorgio Odifreddi, in alcuni post su Repubblica ha scritto, fra l'altro: "Si sta compiendo in Israele l'ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine".
Questo livore antisraeliano non è nuovo fra gli intellettuali torinesi. Ne fece sfoggio Natalia Ginzburg, autrice di numerosi articoli sulla Stampa contro lo stato ebraico fra il 1972 e il 1982, in quel fatale lasso di tempo fra la guerra del Kippur e la guerra del Libano. Un altro grande intellettuale, un torinese d'adozione come Italo Calvino, in una lettera datata "Torino, 1968" e mai dibattuta in Italia, rispondeva così a un giornalista giordano, Naouri Amman, in cerca di un editore italiano per gli scritti dei terroristi palestinesi in carcere:
"In noi europei il trauma della persecuzione dei palestinesi ha una speciale risonanza, perché i loro
A un anno dalla Guerra dei sei giorni, Calvino accusa gli ebrei israeliani di essere i nuovi nazisti: "Che le vittime del passato siano diventate gli oppressori di oggi è un fatto angosciante. Mi dispiace che nessuno ne parli".
attuali persecutori hanno sofferto le persecuzioni sotto il nazismo". Siamo a un anno dalla Guerra dei sei giorni, e Calvino accusa gli ebrei israeliani di essere i nuovi nazisti: "Che le vittime del passato siano diventate gli oppressori di oggi è un fatto angosciante. Mi dispiace che nessuno di questi poeti ne parli".
Ci sono docenti torinesi, come Daniela Santus, che hanno subito non poche contestazioni per le loro idee anticonformiste su Israele. La bacheca dell'Università di Torino è stata decorata da proteste contro la "Santus sionista". Quando invitò a parlare Elazar Cohen, vice-ambasciatore israeliano a Roma, la lezione poté regolarmente svolgersi soltanto grazie agli agenti di polizia. Fuori dallo studio di Daniela Santus sono comparse scritte "Palestina libera" e i muri di tre palazzi universitari sono stati ricoperti da collage di sue foto fuse con quella di Netanyahu.
Tre anni fa, una mostra ambiziosa del Museo della Resistenza in corso Valdocco, ha mostrato un video a flusso continuo con le principali capitali occidentali, da Parigi a Londra, e sullo sfondo "il muro" d'Israele. L'Arco di Trionfo messo in ombra dal fence israeliano in cemento. Nella mostra si parlava anche di Sabra e Shatila, la strage del 20 settembre 1982, in Libano, in cui furono uccisi centinaia di palestinesi per mano dei falangisti libanesi. Nella didascalia della mostra di Torino si leggeva che "diverse centinaia di rifugiati palestinesi furono massacrati nei distretti di Sabra e Shatila dalle forze armate israeliane tra il 16 e il 18 settembre". Mistificazione storica. Come Israele scompare e Gerusalemme diventa "città della Palestina" al Museo d'arte orientale di Torino, dove un anno fa un convegno, con la benedizione di comune e regione, glissava sull'esistenza di Israele, mentre il Santo Sepolcro e il Monte degli Ulivi venivano descritti "in Palestina".
Certi episodi succedono soltanto a Torino. Come quando, nel gennaio 2014, l'organizzazione antisionista Collettivo Boicotta Israele distribuì volantini antisemiti davanti al conservatorio dove si svolgeva un concerto organizzato dalla Comunità Ebraica di Torino per la Giornata della Memoria. Era la vignetta antisemita del marocchino Abdellah Derakaoui vincitrice del concorso dedicato alla Shoah indetto nel febbraio del 2006 dal regime iraniano, in cui si vede Auschwitz dipinto nella barriera antiterrorismo di Israele. Senza dimenticare quando nel 2008 Torino fece una figura penosa durante la Fiera del Libro, ospite d'onore Israele, e la città proliferava di eventi contro lo stato ebraico.
Paradossale, infine, che Torino abbia una delle comunità ebraiche in Italia più critiche di Israele. Un fenomeno messo in luce da Emanuel Segre Amar, a lungo vicepresidente della comunità ebraica torinese e
fondatore del Gruppo sionistico piemontese: "Oggi, come ben noto, ci sono tre fonti di antisemitismo: a quello tradizionale della chiesa e della destra (il primo solo parzialmente superato, il secondo presente, o
Emanuel Segre Amar: "Oggi ci sono tre fonti di antisemitismo: a quello tradizionale della chiesa e della destra si assommano quello del mondo musulmano e quello della sinistra, oggi pericolosamen- te prona verso gli immigrati e la 'cultura' dei loro paesi".
almeno dichiarato apertamente soprattutto da persone di bassa cultura), si assommano quello portato dal mondo musulmano, dove è tradizionale (basta leggere i libri di Georges Bensoussan o ascoltare l'imam Chalghoumi), e quello della sinistra, oggi pericolosamente prona verso gli immigrati e la 'cultura' dei loro paesi", dice Segre Amar al Foglio. "Torino, città che perse le proprie caratteristiche antiche (nobiltà e mondo contadino avevano insieme plasmato una regione tranquilla) nel momento della grande immigrazione operaia portata dalla Fiat, si è completamente trasformata e la sinistra ha soppiantato quella maggioranza liberale del dopoguerra. Come nel periodo fascista si doveva essere fedeli al Partito, così vale oggi, e, se non si segue questa regola aurea, si rimane fuori da tutto, cariche, cattedre e onori. Quale è la percentuale degli uomini pronti a combattere per i propri convincimenti sapendo di correre tale rischio? La stessa Comunità ebraica vuole aggrapparsi al mondo della sinistra nonostante tutte le realtà che dovrebbero farle capire i pericoli insiti in tale atteggiamento; oggi come sotto il fascismo vale, in fondo, la stessa logica. E gli ebrei a Torino ragionano come i loro concittadini".
"Qui è un misto di 'follemente corretto' tipico delle università, come a Oxford dove volevano abbattere la statua di Cecil Rhodes, di antisemitismo, ovvero una componente innata di ostilità verso gli ebrei, e di retorica dei palestinesi come 'gli ultimi', per cui i palestinesi sono il popolo oppresso dalla parte della ragione e gli israeliani sono un popolo spietato senza cuore", dice al Foglio Luca Ricolfi, anche lui docente a Torino e intellettuale di primo piano in città. Ricolfi si è occupato di terrorismo palestinese quando ha scritto per le edizioni di Oxford il capitolo di un libro su Israele e il terrorismo palestinese. "Fu allora che compresi dove stava la ragione e il torto". Ricolfi ha una spiegazione culturale sul perché di tanto odio per Israele. "Israele è l'unica società occidentale in cui il collettivo conta più dell'individuo, il modello opposto è la Scandinavia. In Israele, il noi prevale sull'io. Oscuramente, per ignoranza e per malafede, in occidente si sentono gli israeliani come estranei, diversi, per cui non saranno mai come noi europei".
E' forse allora da un giudizio prepolitico, morale, esoterico quasi, che nasce l'odio per Israele, che l'oscuro, irrazionale, primitivo appello alla sopraffazione degli ebrei prevale ancora una volta, contro ogni logica, contro ogni progresso. Così a Torino, città pacifista e antifascista, l'alba della pace per gli ebrei israeliani deve rimanere ben al di sotto dell'orizzonte.
(Il Foglio, 11 marzo 2017)
"Jerusalem Post": la Corea del Nord è una minaccia per Israele
GERUSALEMME - La Corea del Nord rappresenta una minaccia concreta, e solo apparentemente remota, alla sicurezza di Israele: a sostenerlo è un'analisi del quotidiano "Jerusalem Post", che ricorda gli stretti rapporti tra Pyongyang e Teheran. Pyongyang, scrive il quotidiano, ha rivestito un ruolo centrale nello sviluppo del programma nucleare iraniano, e potrebbe addirittura agire "come estensione clandestina" delle operazioni di Teheran, consentendo a quest'ultima di aggirare i vincoli dell'accordo sottoscritto lo scorso anno con le maggior potenze mondiali. Le prove delle relazioni sotterranee tra i due paesi, ammette il quotidiano, sono scarse, ma due ex ufficiali dell'intelligence israeliana - il tenente colonnello Refael Ofek e Dr. Dany Shoham, del Centro per gli studi strategici Begin-Sadat, "sono vicini a ricostruire le connessioni necessarie la reale profondità" delle relazioni. Tra gli elementi sottolineanti dai due esperti, ci sono le notevoli somiglianze esibite dai missili sviluppati dai due paesi per veicolare testate nucleari.
Con la crisi recentemente innescata dal lancio dei missili nel Mar del Giappone, scrive il quotidiano, Pyongyang potrebbe danneggiare Israele erodendo la credibilità degli Stati Uniti, che hanno reagito con durezza alle provocazioni nordcoreane, ma faticano a elaborare una risposta concreta. Quel che sembra certo, però, è che la Corea del Nord continua a rappresentare una minaccia di carattere non soltanto regionale: come riferito dal "Wall Street Journal" questa settimana, infatti, le nazioni Unite stanno indagando sui tentativi del regime nordcoreano, lo scorso anno, di vendere clandestinamente metalli di litio necessari alla miniaturizzazione delle testate atomiche.
(Agenzia Nova, 10 marzo 2017)
Tel Aviv: al via la corsa ad ostacoli nel fango
di Carlo Torriani
Migliaia di persone per la prima volta prenderanno parte il 24 marzo all'Hayarkon Park di Tel Aviv per partecipare alla famosa corsa a ostacoli nel fango, denominata MUD DAY.
Si tratta di un evento di fama internazionale all'insegna dello sport estremo che si svolge in 4 paesi e che finora ha riunito più di 200.000 concorrenti, i cosiddetti Mud Guy che dovranno completare una corsa di 13 km sfidando 23 ostacoli tra cui anche acquatici, strisciando sotto fili di ferro, tuffandosi in piscine di acqua gelata immersi in un mare di fango dove forza, resistenza mentale e fisica sono messe a dura prova. Molto prezioso e importante è il lavoro di squadra dove più dell'80% degli iscritti parteciperà in team.
Per la realizzazione dell'evento sono previsti l'impiego di 400 metri cubi di acqua, 60 tonnellate di paglia, un milione di cubetti di ghiaccio, 1.200 tonnellate di fango, 96 metri quadrati di strutture in legno e 80.000 chilometri di nastro adesivo. Inoltre sarà costruita una pista per i partecipanti amatoriali che prevede metà percorso rispetto all'originale (7 km e 11 ostacoli) e una pista per i più piccoli: The Mud Kids per bambini dai 7 ai 12 anni.
Per l'occasione verrà creato un apposito "villaggio" che sarà non solo il punto di partenza e di arrivo della gara, ma pure un luogo in cui intrattenersi durante il giorno con musica, birra ghiacciata, cibo in quantità e allenamenti vari.
L'offerta di Tel Aviv, città di mille volti, è sempre dinamica dove si alternano eventi sportivi come la maratona svoltasi recentemente nonché incontri culturali e turistici per soddisfare le esigenze di ogni tipologia di turista e viaggiatore.
Da segnalare che Tel Aviv è considerata la città dei record: con le migliori spiagge del Vicino Oriente e con la miglior città al mondo per l'offerta di cucina vegetariana e vegana. Insieme all'altra straordinaria eccellenza di Israele, Gerusalemme, Tel Aviv risulta perfetta anche nella formula city break con un motivo in più per essere visitata, ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia.
(Mondopressing, 10 marzo 2017)
Una mentalità diffusa
di Pierluigi Battista
Dunque, non c'è che da ribadire la domanda: come mai l'ostilità, l'indignazione, il furore sono tutti indirizzati contro le presunte abiezioni della storia sionista e israeliana e non suscitano reazioni nemmeno lontanamente paragonabili nel resto del mondo, e nella spaventosa storia del Novecento?
A me sembra che in questa «dismisura» non c'entri la storia, così come si è effettivamente svolta, ma il modo in cui funziona una mentalità diffusa. Diffusa anche al di là degli steccati ideologici più conosciuti e ovvi. Diffusa, intendo dire, pure in ambienti e tra persone che non appaiono particolarmente sensibili ai richiami di un terzomondismo perenne, di un antiamericanismo di maniera, e che non sono certo scossi da brividi di sdegno all'udire parole riprovevoli per un terzomondista doc, come «imperialismo», «capitalismo», «Occidente». Diffusa come un marchio appetibile, una divisa alla moda che fa indossare la kefiah palestinese come un accessorio attraente in grado di trasmettere a chi la indossa la sensazione di fare la cosa giusta, di segnalare l'adesione a una causa buona e commovente. Diffusa dove un'antica giudeofobia di matrice cristiana non ha ancora, malgrado svolte conciliari e ammirevoli impegni papali, smaltito le sue scorie millenarie: come si evince dalle rozzezze con cui, anche tra molti vescovi, viene liquidata la questione sionista ricorrendo a luoghi comuni vestiti da argomenti teologici.
Diffusa però, in Italia e in Europa, anche in una borghesia «perbene» e autocontrollata che mai pronuncerebbe una parola scortese o irriverente nei confronti degli ebrei e della cultura ebraica, ma nello stesso tempo ammicca compiaciuta a ogni severità riguardo lo Stato che storicamente gli ebrei hanno conquistato. Che dice di adorare l'ebreo della Diaspora (quello ancora oggi quantitativamente più numeroso nel mondo, peraltro), ma non l'ebreo guerriero specializzato nell'uso delle armi. Marc Chagall o Woody Allen, ma non Moshe Dayan. Che adora Elie Wiesel quando ricorda in lacrime, custode della memoria, le vittime della Shoah ma non quello, troppo politicamente esposto, che accampa diritti religiosi e storici sulla città di Gerusalemme. [...]
Un simile, plateale abbandono degli ebrei si giustifica solo con quella mentalità diffusa che ha fatto in questi anni e in questi decenni del Palestinese non un'entità storica, ma l'incarnazione, il paradigma, il simbolo della Vittima. L'emblema del reietto, la sintesi di tutti i «dannati della Terra». Il popolo per antonomasia che carica su di sé tutte le sofferenze, le atrocità, le angherie che i popoli oppressi subiscono. Un simbolo che necessariamente conduce al suo contrario, all'altro protagonista di questo dramma più cosmico che storico, più ideale che reale e concreto: la figura, l'incarnazione, il paradigma del Persecutore. E se ha preso piede una colossale sciocchezza sulla vittima di «ieri» che si trasforma nel carnefice di «oggi» è perché tu, voi antisionisti avete trovato motivo di rassicuranti certezze in questa rappresentazione grottesca del Bene e del Male che si scontrano in una contesa universale, dove la vittoria dell'uno non può che comportare la rovina dell'altro.
Sottrarsi a un tale tossico incanto manicheo è molto difficile. Così come è molto difficile confutare un istinto, una fede irriflessa e impermeabile alla smentita dei fatti. Ma, al contrario, non dovrebbe essere molto difficile capire le conseguenze catastrofiche che questo teatrale e arbitrario accostamento dell'ebreo alla figura immonda del Persecutore riverbera velenosamente su tutti gli ebrei, quelli della Diaspora e i sabra di Israele, senza distinzioni stavolta. Invece è in questo legame malato che prende forza e prepotenza la sovrapposizione sempre più frequente tra antisionismo e antisemitismo. Trasformare l'ebreo nel malvagio «sionista» non lo sottrae alla perversione morale di un marchio infamante, anzi carica tutta la vicenda ebraica di quello stesso marchio infamante.
Non capire tale nesso, caro amico antisionista, non spezzare questa micidiale catena che identifica il «nuovo» ebreo israeliano con la figura eterna del Persecutore, risveglia prepotentemente lo spettro dell'antisemitismo e gli dà nuova linfa, nuovo vigore, nuove giustificazioni, nuovi veleni. Fare di Israele la figura crudele della storia contemporanea indica l'«ebreo» come responsabile delle peggiori nefandezze, riversando l'odio sul nuovo mostro contro cui è legittimo rivoltarsi. Davvero nuovo? No, quello solito, quello di sempre.
Israele paese di spirito, vino e prodotti della terra
di Paolo Nucci
Spiritualità, avventura e tradizioni. Tradizioni fatte di usi, costume, ma anche di profumi, sapori unici e prodotti della terra che si mostrano in tutto il loro splendore come eccellenze assolute. Israele un po' come la nostra casa, la Toscana. Una terra affascinante e miracolosa, la le più floride al mondo.
Il nostro è un viaggio esclusivo, vero, nel cuore di questo prezioso patrimonio. Iniziamo così, il primo giorno, come di consueto la mattina. Subito si assaggiano le specialità enogastronomiche locali. Buonissime. Siamo a Tel Aviv, in una giornata di nebbia, e partiamo in un lungo viaggio verso il deserto del Negev. Dopo un'ora di strada siamo circondati da un piccolo paese che man mano che scorrono i chilometri, si fa sempre più spoglio e arido.
Superiamo la città di Be'er Sheva (letteralmente significa sette pozzi), città del sud di Israele, la più grande del deserto del Negev, e ci fermiamo a Karmei Yosef alla storica e importante cantina "Bravdo" dove viene prodotto vino certificato "kasher".
Dentro il deserto del Negev, non puoi non sostare alla fattoria Kornmehl, dove Daniel e la sua famiglia vivono allevando capre e producendo ottimi formaggi che, insieme a tante altre specialità, propongono nel loro ristorante allestito in due cabine a picco sull'altopiano. La vista da quassù è mozzafiato. Meravigliosa e imperante che mostra uno squarcio di Israele davverno unico e affascinante.
Ci troviamo in località Ramat Negev e scopriamo l'antica città di Avdat, una volta importante centro con la sua "via delle spezie" e quindi ci fermiamo a Makhtesh Ramon, spettacolare punto d'osservazione con un enorme cratere e sede del centro di storia naturale e geologia. La sera arriva e lo scenario è dai colori scuri, ma tenui. Si sembra avvolti in un quadro dalla bellezza elegante e misteriosa. È di nuovo il momento di mangiare e alla fattoria Carmel Avdat degustiamo i loro vini, prodotti da vitigni coltivati su terreni completamente rocciosi, grazie all'acqua che si poggia sulle rocce. Una vera specialità mondiale che riesce grazie a una tecnica di lavorazione che si può trovare solo in questo pezzo di terra di Istraele.
La notte è buia nel deserto. Il silenzio è spezzato da una piccolo brezza ventosa. Ma gli interminabili spazi di solitudine non ti fanno sentire indifeso. Anzi, lo spettacolo è unico in questi bungalow isolati nel deserto di Negev. Dormire così è più bello, perché sai che domani, al sorgere del sole, c'è un'altra pagina tutta da scrivere. Una pagina ricca di immagini e sensazioni che soltanto un paese ricco di magia e mistero come Israele può regalarti.
La conoscenza del vino in Israele sembra risalire a circa 5000 anni fa ed ebbe un suo periodo di splendore nell'era Bizantina e Romana per poi cessare completamente sotto il dominio musulmano in quanto l'alcool fu bandito per motivi religiosi. Fra il XII e il XIII secolo ci sono stati vari tentativi di reimpiantare le viti ma con le difficoltà date dai terreni aridi e sassosi del deserto era più semplice importarlo dall'Europa.
Per produrre vino in Israele si dovette aspettare fino alla fine del 1800 quando il Barone Edmond De Rothschild proprietario del Chateaux Lafite di Bordeaux finanziò la creazione della cantina Carmel per poter produrre vino "kasher" da distribuire agli ebrei in tutto il mondo. All'inizio questo vino era di bassa qualità e destinato principalmente a scopi religiosi poi, dal 1982 con la creazione di vigneti sulle alture del Golan si è arrivati allla produzione di ottimi Merlot, Cabernet Sauvignon, Bordeaux etc
Certificazione "kasher"
Per avere la certificazione kasher il vino deve essere prodotto seguendo le regole alimentari scritte nella Torah e fondamentalmente sono che le vigne devono essere tenute a riposo un anno ogni sette e che tutto il processo di lavorazione e imbottigliamento deve essere effettuato da persone di religione ebrea ortodossa. La produzione di vino in Israele è divisa fra 5 grosse aziende vitivinicole che producono l'80% del vino israeliano (circa 30 milioni di bottiglie di qui 5-6 milioni vengono esportate principalmentee in USA per le comunità ebraiche e il resto consumato in patria) e circa 150 "boutique winery" che sono principalmente a conduzione familiare e producono al massimo 100.000 bottiglie l'anno da destinare esclusivamente alla vendita diretta in azienda o presso piccoli negozi. Visitare queste piccole cantine e prendere parte alle loro degustazioni è una cosa assolutamente da non perdere durante una vacanza in Israele.
Bravdo - boutique winery
E' una "boutique winery" nella città di Karmey Yosef. Il fondatore e proprietario è Zory Arkin che, sui terreni di famiglia destinati storicamente ad altre coltivazioni, ha iniziato a impiantare vitigni e produrre ottimi Chardonnay e Shiraz. La produzione di questa piccola azienda è completamente certificata "kasher" e seguita in ogni suo passo da personale di religione ebraica ortodossa che ne garantisce la genuinità.
Carmey Avdat - farm
Questa piccola azienda è stata fondata da Hannah e Eyal Izrael sulla "Wine Route" nel deserto del Negev dove 1500 anni fa esistevano gli insediamenti agricoli sulla "Rotta delle Spezie" che gli arabi percorrevano per portare i loro prodotti verso l'Europa. Su di un terreno completamente roccioso, nel 1998 sono state impiantati i primi vitigni di Cabernet Sauvignon e Merlot, ma solo nel 2005 è arrivata la prima produzione di vini e adesso, nei sei ettari di vigneti, vengono prodotti ottimi Cabernet Sauvignon, Merlot, Barbera, Chardonnay oltre a un delizioso vino da dessert che non ha niente da invidiare al ben più famoso Porto. In queste zone completamente desertiche, che offrono inverni secchi ed estati molto calde, esiste da sempre il problema dell'irrigazione dei vigneti che i produttori hanno superato con un sistema ereditato dagli antichi contadini e che consiste nell'erigere piccoli cumuli di pietre sul terreno in modo che l'umidità dell'aria della notte, quando cala a terra, va a sciogliersi sulle pietre creando acqua che poi cola sotto le pietre e dentro il terreno sottostante.
(Must Review, 10 marzo 2017)
Biblisti italiani a convegno contro "l'ebraismo ambiguo"
Esclusiva del Foglio. Incontro a Venezia sulla religione ebraica dagli effetti "degeneranti". Protesta dei rabbini: "È antisemitismo".
di Giulio Meotti
ROMA - Dall'11 al 16 settembre a Venezia, l'Associazione biblica italiana organizza un convegno con studiosi italiani ed europei che sembra uscito dalle ombre del primo Novecento. "Israele popolo di un Dio geloso: coerenze e ambiguità di una religione elitaria". Niente meno. L'Associazione, riconosciuta dalla Cei, di cui fanno parte esponenti del clero cattolico e protestante, 800 studiosi e professori di cultura laica e che il Papa ha salutato a Roma lo scorso settembre, discuterà delle "radici di una religione che nella sua strutturazione può dare adito a manifestazioni ritenute degeneranti". Degeneranti? L'ebraismo avrebbe come conseguenze spesso il "fondamentalismo" e l'"assolutismo". "Il pensarsi come popolo appartenente in modo elitario a una divinità unica ha determinato un senso di superiorità della propria religione", recita il programma veneziano. Non si è fatta attendere la risposta, durissima, dei rabbini italiani. Giuseppe Laras, già rabbino capo di Milano e presidente emerito dell'Assemblea rabbinica italiana, ha scritto ai vertici dell'Associazione biblica, denunciandone le posizioni, ma senza ottenere risposta. "Sono, ed è un eufemismo, molto indignato e amareggiato!", scrive Laras nella lettera che il Foglio anticipa qui. "Certamente, indipendentemente da tutto, ivi incluse le possibili future scuse, ripensamenti e ritrattazioni, emergono lampanti alcuni dati inquietanti, che molti di noi avvertono nell'aria da non poco tempo e su cui vi dovrebbe essere da parte cattolica profonda introspezione: un sentore carsico di risentimento, insofferenza e fastidio da parte cristiana nei confronti dell'ebraismo; una sfiducia sostanziale nella Bibbia e un ridimensionamento conseguente delle radici bibliche ebraiche del cristianesimo; un abbraccio con l'islam che è tanto più forte quanto più si è critici da parte cristiana verso l'ebraismo, inclusa ora perfino la Bibbia e la teologia biblica". Secondo Laras, "questo programma dell'Associazione biblica italiana è la sconfitta dei presupposti e dei contenuti del dialogo ebraico-cristiano, ridotto ahimé da tempo a fuffa e aria fritta. Personalmente registro con dolore che uomini come Martini e il loro Magistero in relazione a Israele in seno alla chiesa siano stati evidentemente una meteora non recepita, checché tanto se ne dica". Questa teologia ha conseguenze politiche, dice Laras: "La causa dell'instabilità del medio oriente e dunque del mondo sarebbe Israele (colpa politica); la causa remota del fondamentalismo e dell'assolutismo dei monoteismi sarebbe la Torah, con ricadute persino sul povero islam (colpa archetipica, simbolica, etica e religiosa). Ergo siamo esecrabili, abbandonabili e sacrificabili. Questo permetterebbe un'ipotesi di pacificazione tra cristianesimo e islam e l'individuazione del comune problema, ossia noi. E stavolta si trova un patrigno nobile nella Bibbia e un araldo proprio nei biblisti". D'accordo con Laras i principali rabbini italiani, a cominciare da Roberto Della Rocca, responsabile dell'educazione nelle comunità ebraiche italiane. "Non voglio fare il processo alle intenzioni", dice al Foglio il rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib. "Ma o è uno scivolone o è qualcosa di preoccupante. Sono argomentazioni teologiche usate nel passato come arma antiebraica: il Dio vendicativo degli ebrei, il Dio della giustizia contrapposto al Dio dell'amore, usate come propaganda antiebraica. Quando si usano argomentazioni del genere a noi si alzano le antenne. La chiesa cattolica nel dialogo ebraico-cristiano ha superato queste argomentazioni. Sembra che ora vengano riprese. L'idea dell'ebraismo elitario che si sente superiore è stata usata nel passato in maniera preoccupante. E' chiaramente il sospetto che si voglia avere una ricaduta sull'attualità, su Israele". D'accordo con Arbib il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che al Foglio dice: "O è una cosa fatta con piena coscienza e quindi gravissima, oppure non si rendono conto. Non è solo una analisi teologica, biblica, ma un discorso che si presta a essere contestualizzato al medio oriente, con implicazioni micidiali in politica". Alla stesura della lettera di protesta dei rabbini ha partecipato anche un laico, David Meghnagi, docente a Roma Tre, esperto di didattica della Shoah e membro dell'Unione comunità ebraiche italiane. "Sono convinto che il convegno sia l'indice che dentro la chiesa, fra gli intellettuali e gli studiosi, gli elementi di marcionismo che l'hanno corrotta non sono stati superati", dice Meghnagi al Foglio. "E sono presenti anche nella cultura laica che legge la Bibbia. Lo si vede negli interventi di Eugenio Scalfari su Repubblica, la contrapposizione fra il Dio veterotestamentario e quello del Nuovo Testamento. Nel 1990, alla prima giornata dell'amicizia fra ebrei e cristiani della Cei, mentre piovevano i missili su Tel Aviv da parte dell'Iraq, mi si avvicina un vescovo e mi dice: 'Lo sa quanta fatica noi cristiani facciamo per nobilitare il Vecchio Testamento?'. Il linguaggio cristiano rispetto agli ebrei presenta diverse patologie, compresa la valutazione degli ebrei come popolo decaduto, di cui si eredita la primogenitura. Solo dopo la Shoah c'è stata una rivalutazione. Nella cultura più ampia di molti laici e democratici ci sono pregiudizi che arrivano da questa visione". Ecco allora che in tante, troppe guerre, Israele finisce per diventare "il nuovo Erode" e i palestinesi "il nuovo Gesù". "Siccome non viviamo nel vuoto, la scelta di privilegiare questa riflessione si incontra con una teologia palestinese e di matrice cristiano-orientale, che trova ascolto nei movimenti pacifisti e terzomondisti, che tende a vedere l'attuale contrapposizione in medio oriente come la riedizione su più vasta scala della violenza del Dio biblico, l'ebraismo della carne contrapposto allo spirito, i valori della terra contro quelli dello spirito", conclude Meghnagi. "Vorrei citare un articolo di Gianni Baget Bozzo uscito sul Manifesto sulla guerra di Israele come violenza biblica, o quello di Scalfari su Repubblica che parlò del Dio della vendetta. Lo si vede anche nelle vignette di Forattini. E' un elemento che è passato nella cultura attraverso la demonizzazione del sionismo, la falsa innocenza della diaspora rispetto allo stato-nazione ebraico da esecrare".
(Il Foglio, 10 marzo 2017)
Netanyahu incontra Putin a Mosca per discutere la crisi siriana
Un incontro quello che si è tenuto oggi a Mosca tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin per discutere soprattutto della crisi siriana, ma anche del conflitto israelo-palestinese, del ruolo dell'Iran e la stabilità della regione.
Nel corso dei colloqui Il premier israeliano ha anche evidenziato l'importanza del contributo russo nella lotta al terrorismo islamista.
(euronews, 10 marzo 2017)
Il primo ministro israeliano incontra il ministro degli esteri inglese
Le tematiche affrontate nell'incontro, avvenuto mercoledì 8 marzo, sono state la soluzione dei due Stati, il commercio tra i due paesi e gli insediamenti israeliani in Palestina.
Nell'accogliere Johnson, Netanyahu ha affermato di non vedere l'ora di tornare a Londra per celebrare il centenario della Dichiarazione di Balfour, documento che ha gettato le basi diplomatiche per la creazione di uno Stato ebraico.
Il ministro degli esteri inglese ha fatto presente che il primo ministro, Theresa May, e il resto del governo del Regno Unito sono "convinti sostenitori di Israele". "Quello che vogliamo vedere è uno stato israeliano in pace con i propri vicini", ha dichiarato Johnson, poco dopo un incontro con i funzionari palestinesi a Ramallah. "La politica del mio governo è a favore di una soluzione a due Stati, che è quello che vorremmo concorrere a realizzare, per quanto possibile. Ovviamente, vogliamo contribuire a rimuovere gli ostacoli alla pace". Egli ha poi affermato che Israele ha "il diritto assoluto di vivere in sicurezza, e il popolo di Israele merita di essere protetto dal terrorismo. Questa è la nostra priorità assoluta". Gerusalemme e Londra collaborano in vari ambiti per "garantire la stabilità di tutta la regione", ha dichiarato Johnson. "Naturalmente, dobbiamo anche cercare di rimuovere gli ostacoli alla pace e al progresso, un esempio sono gli insediamenti".
Il ministro degli esteri ha poi affrontato più nello specifico le relazioni che legano il suo paese e Israele, al fine di negoziare un nuovo accordo di libero scambio, in seguito alla decisione dello scorso anno di lasciare l'Unione europea. Netanyahu ha risposto affermando che lui e Johnson sono d'accordo "sulla maggior parte delle questioni, ma non su tutte". Il primo ministro ha spiegato che la ragione per cui in 100 anni non si è raggiunta la pace non dipende dagli insediamenti. "È il persistente rifiuto di riconoscere l'esistenza di uno Stato nazionale per il popolo ebraico. Se si vuole risolvere la questione, bisogna andare al cuore del problema".
(Sicurezza Internazionale, 10 marzo 2017)
Dichiarare che si vuole la pace, e che si è sostenitori di Israele, e che si è per la soluzione a due Stati, e che gli insediamenti sono un ostacolo alla pace, è un elegante modo per annunciare che ci si schiera contro Israele. Naturalmente per lodevoli motivi: perché Israele è un ostacolo alla pace. E possibile che a un atteggiamento simile ci arrivi prima o poi anche Trump. M.C.
Israele, sotto il sole di un nuovo rinascimento
Dopo la seconda Intifada, a partire dal 2010 è iniziata una ripresa che ha visto sorgere nuovi musei, riqualificare aree degradate con hipster e musica a tutto volume.
di Micaela De Medici
First Station, la più antica stazione di Gerusalemme
Un candore luminoso si sprigiona dalle mura di Gerusalemme nell'aria tersa del tramonto. Si riverbera dagli edifici in pietra calcarea e, per contrasto, si fa ancora più intenso durante l'ora blu, quando il giorno scivola nel crepuscolo. Per questo la chiamano "la città d'oro". Un'eredità di migliaia di anni fa, quando le case venivano costruite con la pietra bianca proveniente dal monti vicini, eredità raccolta nel 1921 da Herbert Samuel, Alto Commissario della Palestina durante il Mandato britannico, che rese obbligatorio ricoprire di questo materiale anche le nuove costruzioni Chi arriva a Gerusalemme non può non avvertirne, prepotente, il fascino. Città santa per le tre grandi religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo e islam -, luogo di difficili convivenze e di conflitti, qui più che altrove il legame tra passato e presente resta forte e denso di significato. Per rendersene conto, basta camminare per le vie della Città Vecchia che si estende su un'area di circa un chilometro quadrato, circondata dalle mura fatte costruire nel 16mo secolo da Solimano il Magnifico e divisa in quattro quartieri - ebraico, armeno, cristiano e musulmano. A pochi passi l'uno dall'altro convivono architetture che recano l'impronta di storie e culture differenti: il Muro Occidentale, dove gli ebrei offrono le loro preghiere infilando frammenti di carta nelle fessure tra le pietre; la Via Dolorosa, percorsa da Gesù per arrivare al Golgota, e la basilica del Santo Sepolcro; la Cupola della Roccia, santuario islamico completato nel 691. d.C. sul Monte del Tempio.
Un cambio di ritmo
Sarebbe però riduttivo pensare a Gerusalemme solo nella sua valenza sacra. In realtà, dopo una battuta d'arresto negli anni successivi al 2000 (quando esplose la Seconda Intifada), a partire dal 2010 la città è stata protagonista di una vera e propria rinascita, tutt'ora in corso. Una rinascita che passa attraverso musei, festival, spazi creativi, hub destinati all'innovazione, senza dimenticare la riqualificazione di aree fino a pochi anni fa dismesse o degradate, trasformate oggi in vivaci luoghi di shopping e di ritrovo, animati dalla mattina fino a tarda notte. Un esempio di questa metamorfosi è il Machane Yehuda Market, coloratissimo mercato dove, di giorno, ci si perde tra montagne dl generi alimentari di ogni tipo, dalla frutta secca ai falafel, dalle verdure alla chellah, il pane dello Shabbat; di notte, invece, lo "shuk" - come viene chiamato in modo informale - si anima di una folla di giovani, buongustai, hipster e turisti che tirano tardi nei localini con la musica a tutto volume. Un percorso analogo è quello che ha portato la First Station, ex stazione ottomana, la più antica della città, inaugurala nel 1892 con il primo treno che collegava Jaffa a Gerusalemme, a trasformarsi in un centro di cultura e svago dove hanno trovato posto ristoranti, bar e caffè, spazi per la musica dal vivo e giostre per bambini, nonché un mercato a chilometro zero.
Un nuovo linguaggio
Il processo di valorizzazione urbana ha coinvolto anche la Anna Ticho House e la Hansen House, entrambe risalenti al XIX secolo: la prima, un tempo residenza privata dell'oftalmologo Abraham Ticho e di sua moglie Anna, artista, ospita oggi esposizioni d'arte e fotografia e un caffè-ristorante sulla terrazza, la seconda invece, ex ospedale destinato ai malati del morbo di Hansen, è stata riconvertita in un centro culturale che ospita mostre, festival e residenze per artisti. Meta irrinunciabile per gli appassionati di architettura contemporanea è poi il Van Leer Institute, centro di studi e ricerche interdisciplinari (numerose le attività aperte al pubblico), risultato di un attento lavoro per ridisegnare il campus in armonia con i tre edifici originari degli Anni 60: una sorta di omaggio alle strutture storiche, "reinterpretate" attraverso un nuovo Linguaggio contemporaneo, nel quale le linee orizzontali e la luce che entra dalle enormi vetrate si fondono perfettamente con il verde che li circonda.