I giorni dell'uomo sono come l'erba;
egli fiorisce come il fiore del campo;
se un vento gli passa sopra ei non è più,
e il luogo dov'era non lo riconosce più.
Salmo 103:15-16  

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Rona Keinan




























Esiste la nazione ebraica?

Stato ebraico o stato democratico? Questo è il tema del momento quando si parla di Israele. Come sempre quando la gente parla di ebrei, tutti sanno già qual è il punto da cui partire, e di solito non si sente alcun bisogno di tornare indietro per verificare se è quello giusto e se si è arrivati correttamente al punto a cui si è arrivati. L’interesse principale sta nel combattere i sostenitori della parte opposta, contestandoli e ridicolizzandoli per quanto possibile. E i social oggi sono un campo di lotta meraviglioso: mai è accaduto prima nella storia di poter accapigliarsi a parole in modo così esteso e virulento e con così poco sforzo. Ogni tanto, magari solo per riprendere fiato, prima di rigettarsi nella mischia si potrebbe provare a fermarsi un po', documentarsi, e riflettere. Proponiamo a questo scopo, come semplice stimolo e ausilio, alcuni paragrafi iniziali del libro “Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo”.

di Marcello Cicchese

Per secoli gli ebrei sono stati considerati un gruppo sociale accomunato da una religione superata e opposta a quella vera, con un passato storico negativo e un presente politico che costringeva le nazioni in cui si trovavano a porsi ogni volta il problema della loro presenza su una terra che non apparteneva a loro. Dal 70 al 1948 d.C. gli ebrei non hanno più avuto una terra, non sono più stati una nazione e la loro presenza è stata considerata un continuo intralcio storico, qualche volta tollerato con benevolenza e con risvolti anche positivi, ma nella maggior parte dei casi subito come una specie di maledizione. «Gli ebrei sono la nostra disgrazia», è la conclusione che in molti casi si traeva quando le cose andavano male e la gente trovava conforto in una spiegazione semplice che accomunava tutti, a parte gli ebrei.
   L'avvento dell'Illuminismo, con il conseguente declino dell'influenza della Chiesa sulle società europee, rese sempre meno plausibile la diversificazione degli uomini sulla base della religione. Non si abolì del tutto l'idea di Dio: generosamente gli si lasciò il diritto all'esistenza, ma gli si tolse il diritto di parola. Da quel momento Dio, non potendo più parlare, non poté più dire qual è la religione giusta e quale quella sbagliata: dovette accontentarsi di aver creato il mondo e di continuare a produrre esseri umani tutti uguali tra loro quanto ai diritti, anche se suddivisi in vari gruppi socialmente e politicamente organizzati chiamati "nazioni".
   Attenzione però: la suddivisione in gruppi nazionali non doveva avere niente a che fare con Dio, come ai tempi della "cuius regio, eius religio": il riferimento a Dio doveva restare un fatto individuale, un diritto intangibile della singola persona che non doveva interferire con la struttura politica della nazione. Anche gli ebrei, quindi, da quel momento furono considerati come tutti gli altri: furono "emancipati". Non poterono più essere esclusi per il fatto che si riferivano a Mosè e alla Torà invece che a Gesù Cristo, ma neppure dovevano pensare di avere diritto a un trattamento particolare. Si poteva essere ebrei, cristiani, atei o altro ancora, ma bisognava essere leali verso la nazione di cui si faceva parte. Così si pensava, almeno fino a un secolo fa.
   La maggior parte degli ebrei, anche se non tutti, accettò questa situazione. Dopo tanti secoli di emarginazione e limitazioni, l'idea di avere - come i non ebrei - libertà d'azione in una terra da poter considerare - insieme ai non ebrei - come loro patria, era troppo attraente.
   La cosa cominciò con Napoleone.
    "Napoleone, ormai Imperatore dei Francesi (dal maggio 1804) vuole avere il dominio e il controllo su tutti. Siccome le popolazioni dell'Alsazia e Lorena presentarono all'Imperatore le loro lagnanze attribuendo agli Ebrei la causa di tutte le loro sciagure,
       Napoleone volle esaminare il problema ebraico: nel 1806 esso fu discusso due volte al Consiglio di Stato; e in lui maturò l'idea di convocare il Sinedrio. Un Napoleone non poteva accontentarsi di una semplice Assemblea rappresentativa; doveva essere il Sinedrio, come nei tempi antichi, autorevole e venerando come l'antico Sinedrio, di cui doveva essere una copia precisa. Nel luglio del 1806 si riunì a Parigi l'Assemblea dei notabili ebrei composta da 112 deputati [...] Al Sinedrio fu presentata la seguente dichiarazione: "L'Ebreo considera il suo paese natale come sua patria, e ritiene suo dovere difenderla" . E tutti i delegati, in piedi, gridarono: "Fino alla morte!"
Quasi mezzo secolo dopo, non più in Francia ma in Germania, nel 1848, il rabbino di Magdeburgo scrisse sul giornale "Allgemeine Zeitung des Judentums", di cui era direttore, parole accorate in difesa della fratellanza ebraico- tedesca:
    "Smetteremo di considerare il nostro un caso speciale; è tutt'uno con la causa della patria: insieme i due vinceranno; insieme falliranno. Siamo tedeschi e non desideriamo essere altro! Abbiamo una patria tedesca e non ne desideriamo altre! Non siamo più israeliti se non nella nostra fede religiosa - in ogni altro rispetto apparteniamo davvero allo stato in cui viviamo".
Quanto all'Italia, la situazione era ancora più chiara:
    "In realtà, dal 1870 in poi, sino al fascismo e ancora dopo - per molti sino quasi alle persecuzioni razziali - la maggioranza degli ebrei italiani imboccò con estrema decisione e percorse a grandi passi la via dell'assimilazione, fondendosi organicamente con il resto degli italiani. Abbandonati i ghetti, abbandonate le tradizionali attività, andati a vivere tra gli «altri», entrati e rapidamente affermatisi nelle attività sino allora precluse - la burocrazia, l'insegnamento, la carriera militare, ecc. - e ovunque accolti senza resistenze e addirittura con simpatia, i più di questi ebrei si italianizzarono anche psicologicamente ed intellettualmente."
Vi erano dunque francesi di religione ebraica, tedeschi di religione ebraica, italiani di religione ebraica. L'elemento primario a cui si prometteva lealtà era la nazione, mentre la religione restava un fatto individuale che non serviva più a delineare i contorni netti di un gruppo sociale, ma anzi era spesso causa di contrasti supplementari in seno alla nazione. Si videro dunque, durante la prima guerra mondiale, ebrei francesi, tedeschi e italiani ammazzarsi in piena coscienza fra di loro in quanto appartenenti a nazioni diverse in lotta, a cui ciascuno aveva giurato fedeltà. Lealmente mantennero la promessa di essere prima francesi poi ebrei, prima tedeschi poi ebrei, prima italiani poi ebrei. Il risultato fu che si trovarono insieme come ebrei, presi a calci da tutti: francesi, tedeschi e italiani.
    La motivazione di fondo addotta dai persecutori fu la scoperta che l'ebraismo non è soltanto una religione che regola il rapporto del singolo con Dio, ma è prima di tutto un'appartenenza a una realtà sociale che, non essendosi potuta chiamare per molti secoli "nazione", è stata chiamata con i nomi di "razza", "stirpe", "tribù", "genìa", "internazionale ebraica" e altri titoli dalla risonanza più o meno sinistra. Nei momenti cruciali sorge quindi nei nazionalisti il sospetto - o torna utile sollevare strumentalmente l'accusa - che l'ebreo finga di essere fedele alla nazione a cui appartiene, mentre in realtà rivolge la sua fedeltà primariamente alla comunità dei suoi fratelli ebrei. Con conseguenze altamente dannose per la nazione.
   Può essere portato ad esempio proprio il caso degli ebrei italiani, che per molti anni hanno partecipato attivamente e in modo convinto prima al risorgimento e poi anche al fascismo. Quando il governo fascista decise di imboccare la strada della discriminazione razziale, cominciarono ad uscire sulla stampa articoli che non volevano presentarsi come manifestamente antisemiti, ma esponevano "perplessità" sulla fedeltà degli ebrei alla causa nazionale fascista. Il 12 settembre 1936, il giornale del gerarca Roberto Farinacci, «Il regime fascista», pubblicò un fondo dal titolo Una tremenda inquisitoria, in cui a un certo punto vengono nominati gli ebrei.
    "Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono una infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nelle scuole, non hanno svolto un'opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Dobbiamo confessare che hanno sempre pagato i loro tributi, obbedito alle leggi, compiuto anche in guerra il loro dovere.
    Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo, che può suscitare qualche sospetto. Perché non hanno detto mai una parola che valga a persuadere tutti gli italiani ch'essi compiono il loro dovere di cittadini per amore, non per timore o per utilità?
    Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo della internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?...
    Si sta generando la sensazione che fra poco tutta l'Europa sarà teatro di una guerra di religione. Non se ne accorgono essi?
    Siamo già sicuri che da più parti si griderà: noi siamo ebrei fascisti. Non basta. Bisognerà dare la prova matematica di essere prima fascisti, poi ebrei."
Ecco dunque l'accusa periodicamente ricorrente: la doppia nazionalità dell'ebreo, di cui la più importante non sarebbe la nazione in cui vive, ma l'internazionale ebraica o, adesso, lo Stato d'Israele.
   Quanto alla tenebrosa internazionale ebraica, ci si potrebbe chiedere come mai non si è sentito il bisogno di parlare, con altrettanto alone di mistero, di internazionale cattolica o internazionale islamica, anche in considerazione del fatto che i fedeli di ciascuna di queste due religioni superano il miliardo, mentre gli ebrei in tutto il mondo non superano i 16 milioni. Se si trovasse un libello in cui fosse scritto che il Vaticano sta coltivando il progetto di dominare il mondo attraverso la sua rete bancaria, la sua struttura gerarchica piramidale, i suoi ordini religiosi, le sue società più o meno segrete come la Compagnia di Gesù o l'Opus Dei, il suo accesso ai media internazionali con cui il Papa influenza tutti i giorni l'opinione pubblica, non sarebbe più verosimile dei "Protocolli dei savi anziani di Sion"? Sarebbe ragionevole pensarlo, ma sembra che quando si tocca il tema "ebrei" o "Israele" molti smarriscano gli usuali punti di riferimento logici e si avventurino in uno mondo fantasioso in cui non valgono più gli usuali principi di razionalità. Potrebbe essere un'anticipazione della profezia biblica in cui Dio dice, riferendosi agli ultimi tempi: «Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti» (Zaccaria 12:2). Potrebbe essere, ma non è detto. Però si direbbe proprio che per qualcuno una certa forma di stordimento sia già cominciata.


NOSTALGIA DELLA NAZIONE EBRAICA

Le considerazioni fin qui fatte possono aiutare a rendersi conto che dalla fine dell'Ottocento la cosiddetta "questione ebraica" si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L'emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell'ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
   Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria in cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
   Le cose invece sono andate diversamente nell'Europa dell'est. Anche in quelle zone si era avviato, sia pure molto lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l'abbandono da parte degli ebrei dell'yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell'impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo "Auto-emancipazione". Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell'individuazione del motivo profondo che secondo l'autore sta alla base dell'antisemitismo moderno: l'assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
   Varrà la pena di fare lunghe citazioni di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.
    "Come nei tempi passati, l'eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
    Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
    Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo."
Qualcuno potrebbe osservare che se i popoli si trovano ad avere a che fare "sempre e soltanto con gli individui ebrei e non con la nazione ebraica, può dipendere dal fatto che questa nazione non esiste, che non è mai esistita, o che se un giorno è esistita adesso è scomparsa e non si sente alcun bisogno di farla ricomparire. Pinsker non argomenta su questo punto, non interroga il passato per trarne una dimostrazione di esistenza, ma sviluppa il suo ragionamento dando per scontato che la nazione è esistita e continua ad esistere, ma che l'allontanamento dalla patria e la dispersione nel mondo hanno fatto perdere ai suoi cittadini il sentimento della propria nazionalità, inducendoli a reprimere l'originario patriottismo per favorire il loro inserimento in altre nazioni.
    "Tale carattere nazionale non poteva certo svilupparsi nella dispersione: pare anzi che gli ebrei abbiano piuttosto smarrito ogni memoria della loro patria antica. Grazie alla loro pronta adattabilità, hanno potuto facilmente acquistare i caratteri dei popoli estranei, verso cui il destino li aveva spinti. È accaduto anzi che essi si spogliassero non di rado della loro individualità originale, tradizionale, per piacere ai loro protettori. Essi acquistarono, o credettero di acquistare, certe tendenze cosmopolite che non piacevano agli altri come non soddisfacevano agli ebrei stessi.
    Per il desiderio di fondersi con gli altri popoli, gli ebrei rinunciarono volontariamente, fino a un certo punto, alla loro nazionalità. Ma non riuscirono mai ad ottenere che i loro concittadini li considerassero eguali agli altri abitanti nativi del paese.
    Ma ciò che più di tutto impedisce agli ebrei di tendere alla riconquista di una esistenza nazionale indipendente, è che essi non sentono il bisogno di questa esistenza. E non solo non lo sentono, ma negano persino all'ebreo il diritto di sentirlo."
Pinsker parla di "riconquista di un'esistenza nazionale indipendente", dando dunque per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che adesso è arrivato il momento di riaverla. Questa riconquista dell'esistenza nazionale deve però essere ottenuta con le proprie forze e non per la benevolenza delle nazioni ospitanti, a cui l'assenza di una nazione ebraica non provoca alcuna nostalgia. E invece di attardarsi a piagnucolare o a imprecare contro la cattiveria degli altri, Pinsker lancia un appello critico ai suoi connazionali. Il suo libro infatti ha come sottotitolo: "Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli". La mancanza di una patria - dichiara Pinsker - è come una malattia. L'autore non discute su che cosa l'abbia provocata, ma invita a ricercare attivamente le vie della guarigione. Per guarire però bisogna avere la consapevolezza di essere malati e desiderare ardentemente la guarigione.
    "Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. Non sempre è possibile al medico evitargli tale pericolo. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri.
       Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad una esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione."
Va sottolineato che per Pinsker diventare nazione non significa far nascere la nazione, ma farla guarire. Non si tratta di un passaggio dall'inesistenza all'esistenza, ma dalla malattia alla sanità. E della malattia tutti sono responsabili, ebrei e non ebrei.
    "In questo fatto all'apparenza insignificante - cioè che gli ebrei non sono considerati dagli altri popoli come nazione a sé - sta in parte il segreto della loro situazione anormale e della loro miseria infinita. Il solo fatto di appartenere al popolo ebreo costituisce già di per sé una stigmate incancellabile, ripugnante per i non ebrei stessi. Questo fenomeno, nonostante la sua stranezza, ha la sua profonda base nella natura umana.
    Fra le nazioni viventi oggi sulla terra gli ebrei rimangono come i figli d'una nazione morta da tempo. Con la perdita della sua patria, il popolo ebraico ha perduto la sua indipendenza, ed è giunto ad un tale grado di disgregazione che è incompatibile con l'esistenza di un organismo integro e vivente. Lo Stato ebraico, crollato sotto il peso della dominazione romana, scomparve agli occhi delle nazioni. Ma il popolo ebraico, anche dopo che ebbe perduto la speranza di esistere nella forma fisica e positiva dello Stato, come un'entità politica, non poté con tutto ciò rassegnarsi alla distruzione totale; non cessò anche dopo di esistere spiritualmente come nazione. Il mondo vide, in questo popolo, lo spettro pauroso d'un morto che cammina fra i vivi.
Con un linguaggio che solo apparentemente è metaforico, Pinsker tocca qui un punto cruciale del problema ebraico presupponendo un dato di fatto che non molti sono disposti a riconoscere: la nazione ebraica costituisce un organismo unitario vivente e il suo popolo possiede una personalità corporativa.
   Non sono gli ebrei che costituiscono la nazione ebraica, ma è la nazione ebraica che genera i suoi figli; non sono gli ebrei che formano il popolo ebraico, ma è il popolo ebraico che iscrive gli ebrei tra i suoi membri. I figli della nazione possono essere degeneri, e i membri del popolo possono rivelarsi trasgressori, ma questo non altera né la posizione costitutiva della nazione, né la funzione statutaria del popolo.
    In una situazione di sana normalità una nazione è costituita da:
  1. cittadini (il popolo);
  2. patria (la terra);
  3. sovranità (lo stato).
La malattia della nazione ebraica sta nel fatto che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, ma non ha perso, né poteva perdere, l'elemento vitale unitario, che indirettamente Pinsker denota come parte "spirituale". Senza terra e senza sovranità, la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell'impossibilità di disgregarsi, di disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo continua a mantenere nei secoli la sua unità "spirituale", nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, e quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
    "Questa apparizione spettrale, questa figura d'un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
    La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
    Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di 'demonopatia': ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
    La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.
Per Pinsker dunque l'antisemitismo, che con linguaggio medico chiama giudeofobia, è un male incurabile fino a che permane la situazione storica in cui è costretto a vivere il popolo ebraico. L'emancipazione degli ebrei concessa dai governi di alcune nazioni è stato il massimo raggiungibile fino a quel momento, ma non ha risolto il problema perché non ha modificato il sentimento dei popoli, per i quali chi non è figlio della terra su cui vive è sempre considerato uno straniero. Affinché cambino i sentimenti, devono cambiare le cose. E il cambiamento non può essere soltanto un modo migliore di trattare i singoli ebrei nelle diverse nazioni. Quello che deve cambiare è il fatto che il popolo ebraico non ha una sua terra su cui possa vivere dignitosamente come nazione sovrana.
    "La nostra sventura maggiore è che noi non siamo costituiti in nazione, ma che siamo semplicemente degli ebrei. Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga. Nella migliore delle condizioni arriviamo al grado di quelle capre che, in Russia, si usa porre nelle stalle insieme con i cavalli di razza. E' il limite massimo della nostra ambizione.
    È vero che i nostri cari protettori hanno sempre fatto in modo che noi non avessimo mai un minuto di quiete e non potessimo riacquistare il rispetto di noi stessi. Abbiamo combattuto per secoli la dura ed ineguale lotta per l'esistenza nella nostra qualità di individui ebrei, e non nella veste di nazione ebraica. Ognuno per conto suo dovette, sprecare il suo ingegno e le sue energie per un po' di aria libera e per un pezzo di pane bagnato di lacrime. In questa lotta disperata non siamo stati vinti. Abbiamo resistito alla più gloriosa delle guerre di parte, contro tutti i popoli della terra, che, in un perfetto accordo, volevano sterminarci. Senonché questa lotta che combattemmo e che Dio sa fino a quando dovremo combattere ancora, non era fatta per conquistarci una patria ma per rendere possibile l'esistenza infelice a milioni di "Ebrei merciaiuoli ambulanti".
Pinsker sottolinea ancora una volta la distinzione tra piano individuale e piano nazionale. Rispetto al primo, gli ebrei hanno vinto la loro lotta per la sopravvivenza; rispetto al secondo, no.
    "Se tutti i popoli della terra non poterono impedire la nostra vita, essi riuscirono però a spegnere in noi il sentimento della nostra indipendenza nazionale. E così noi assistiamo con una indifferenza fatalistica, come se non si trattasse di noi, a questo spettacolo: che in molti paesi si negano agli ebrei quegli elementari diritti alla vita che non si negherebbero tanto facilmente neppure agli zulù. Nella dispersione abbiamo salvato, la nostra vita individuale abbiamo dimostrato la nostra forza di resistenza, ma abbiamo perduto il legame comune della coscienza nazionale. Nello sforzo di conservare la nostra esistenza materiale, fummo troppo spesso costretti, più di quanto non convenisse, a sacrificare la nostra dignità morale. Non ci siamo accorti che con questa tattica, indegna di noi ma che noi eravamo costretti ad adottare, ci abbassavamo sempre di più agli occhi dei nostri avversari e che essa ci esponeva sempre più all'umiliante disprezzo e alla proscrizione che diventavano ormai il triste retaggio secolare della nostra gente."
E continua con una constatazione realistica e amara che dovrebbe essere motivo di riflessione e vergogna per chi non appartiene a quel popolo:
    "Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi. E così, riducendo le nostre aspirazioni, abbiamo gradatamente abbassato anche la nostra dignità ai nostri occhi ed agli occhi altrui, fino a vederla scomparire del tutto.
    Siamo stati la palla da gioco che i popoli si sono fatti rimbalzare a vicenda l'uno contro l'altro. Questo gioco crudele era per noi divertente, sia che fossimo accolti o respinti ed è diventato sempre più piacevole quanto più elastica e molle è diventata la nostra dignità nazionale nelle mani dei popoli. In condizioni tali, come poteva esser possibile una vita nazionale specifica o uno sviluppo libero ed attivo della nostra energia nazionale o la rivelazione del nostro genio originale?"


EMANCIPAZIONE E ASSIMILAZIONE NON RISOLVONO IL PROBLEMA

I vantaggi ottenuti dagli ebrei a partire dalla fine del Settecento con i vari editti di emancipazione che li equiparavano agli altri cittadini fece pensare a molti di loro che la risoluzione del problema ebraico consistesse nel percorrere fino in fondo la via dell'assimilazione. Abbiamo già visto come, nei decenni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, molti ebrei di differenti nazioni europee erano fieri di poter essere cittadini a pieno titolo della nazione in cui vivevano, e in certi casi sembravano addirittura voler dimostrare di essere ancora più patrioti degli altri. La partecipazione convinta degli ebrei alla prima guerra mondiale, raccomandata dai dirigenti delle diverse comunità ebraiche come segno di fedeltà alla nazione, avrebbe dovuto sancire la definitiva omologazione degli ebrei facendo vedere chiaramente che per la loro patria erano pronti anche a morire. Si può citare, a conferma, la solenne frase con cui il giornale "Il Vessillo Israelitico" presentò l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915:
    "L'Italia è in guerra e noi all'Italia daremo noi stessi interamente. Ogni sacrificio ci parrà dolce, ogni privazione un dovere. Daremo tutto noi - ebrei - alla patria nostra: daremo i figli, le sostanze nostre, le nostre vite. Tutto l'Italia ha diritto a pretendere da noi e tutto noi le daremo".
Quanto al sionismo, ben pochi in Italia lo vivevano come un desiderio di raggiungere la propria vera patria. A riprova di questo si può portare il fatto che tra il 1926 e il 1938 solamente 151 ebrei italiani sono emigrati in Palestina. Quelli che appoggiavano il sionismo dicevano di farlo per scopi filantropici, cioè per solidarietà verso gli ebrei che fuggivano dall'est o dalla Germania nazista a causa della persecuzione. Gli ebrei che invece avevano la possibilità di essere cittadini a pieno titolo di una nazione, come gli italiani, non desideravano un'altra patria, ma agivano spinti dall'obbligo morale di aiutare i loro correligionari meno fortunati ancora privi di una patria. Altri vi aggiungevano che il sionismo, come aspirazione a ritornare in Sion, poteva anche servire a risvegliare certi valori tradizionali dell'ebraismo che molti assimilati tendevano a dimenticare e trascurare, ma questo tuttavia non doveva né voleva sminuire l'attaccamento alla patria degli ebrei italiani. Questa forma di sionismo all'italiana è ben espressa da un intervento del sionista C.A. Viterbo in una riunione del consiglio dell'Unione delle Comunità Israelitiche del 9 gennaio 1935:
    "... il nostro sionismo è un'appendice della nostra ebraicità... noi cerchiamo di essere onesti, chiari, fuori dell'equivoco, ma non possiamo combattere coloro che hanno la stessa nostra tradizione di fede tramandata dai nostri maestri... è errato, fuori del mondo, negare l'italianità dei sionisti, italianità della quale da millenni essi sono permeati, italianità che essi non possono strappare a loro stessi perché il loro attaccamento alla Patria non è fedeltà, ma amore... Molti sionisti hanno combattuto nella grande guerra e molti sono camicie nere. Ma noi sionisti amiamo anche Israele. Il sionismo lo intendiamo non soltanto filantropico, ma anche fatto per noi stessi, perché dalla rinascita d'Israele rifluisce una vivificazione della lingua, della cultura, delle nostre più nobili tradizioni."
Tre anni dopo, quella patria a cui gli ebrei italiani si sentivano attaccati non per sola fedeltà ma per amore, emetteva le leggi razziali precedute da un "Manifesto degli scienziati razzisti". Al punto 9) di questo documento si legge:
    "Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani."
Più di cinquant'anni prima Pinsker aveva previsto una situazione del genere:
    "Siamo scesi così in basso che esultiamo di giubilo quando in Occidente una piccola parte del nostro popolo viene posta allo stesso grado dei non ebrei. Però se qualcuno ha bisogno che altri lo tenga in piedi, vuol dire che la sua posizione è poco solida. Se non si bada alla nostra origine e ci si tratta al pari degli altri abitanti nati nel paese, siamo riconoscenti al punto da rinnegare completamente il nostro essere. Per vivere meglio, per godere in pace un piatto di carne, cerchiamo di far credere a noi e agli altri che non siamo più ebrei, ma figli legittimi ed autentici della patria. Vana illusione! Voi potete dimostrare di essere veri patrioti finché volete; vi ricorderanno ad ogni occasione la vostra origine semitica. Questo fatale memento mori non vi impedirà tuttavia di godere una larga ospitalità, finché un bel giorno non sarete cacciati dal paese e finché la plebe scettica della vostra legittimità non vi ricorderà che voi non siete, dopo tutto, altro che nomadi e parassiti, non protetti da nessuna legge. [...]
    Non vogliamo neppure ricominciare una nuova vita quale nazione a sé, onde vivere come gli altri popoli, perché i patrioti fanatici che sono fra noi credono necessario sacrificare ogni diritto all'esistenza nazionale indipendente, allo scopo di dimostrare una cosa che non ha bisogno di prove, cioè che sono leali cittadini delle terre in cui abitano. Questi patrioti fanatici negano il loro originale carattere etnico per mostrarsi figli di un'altra nazione qualunque essa sia, umile o alta. Ma essi non ingannano nessuno. Non si accorgono quanto impegno mettono gli altri per liberarsi da questa compagnia ebraica."

IL CONCETTO BIBLICO DI NAZIONE EBRAICA

E' noto che alla domanda "chi è ebreo?" sono state date innumerevoli risposte. E' un interrogativo che oggi travaglia in modo particolare lo Stato d'Israele, perché dalla risposta a questa domanda può dipendere l'ottenimento della cittadinanza israeliana. Ma prima ancora di questa domanda se ne può porre un'altra, che in forma volutamente piatta e banale può suonare così: chi viene prima, gli ebrei o il popolo ebraico? Di solito si procede così: dal magma confuso e disperso su tutta la faccia della terra di individui che per qualche motivo si dicono o sono detti "ebrei" alcuni scelgono una qualche proprietà comune a una parte di loro e arrivano alla conclusione che il vero popolo ebraico è costituito da coloro che soddisfano quella certa proprietà. E' un processo di generazione dal basso che pone prima i singoli, poi la società. E' chiaro che la quantità di "popoli ebraici" che si possono generare con procedimenti induttivi di questo tipo è «come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare» (Genesi 32:12).
   Anche gli italiani sono diversi fra loro sotto moltissimi aspetti, e tuttavia l'elemento unitario del popolo italiano non è costituito da qualche proprietà etnica o morale comune a tutti, ma dall'appartenenza ad un'unica nazione, esistente da prima che tutti gli attuali italiani fossero venuti al mondo ed espressa formalmente da una precisa persona: il Presidente della Repubblica.
   Si può dunque dire che sul piano giuridico, che non è pura formalità ma è il piano reale su cui avvengono i rapporti fra gli uomini, esiste prima la nazione, poi il popolo, poi i cittadini.
   La stessa cosa è vera per gli ebrei: prima viene la nazione ebraica, poi il popolo ebraico, poi gli ebrei. Avere sottolineato questo aspetto trascurato della questione ebraica costituisce il valido contributo al sionismo dato da persone come Pinsker e altri dopo di lui.
   Qualcuno dirà che la sottolineatura del concetto di nazione può condurre a fenomeni di fascismo. come in Italia e in Germania. E' vero: può avvenire, anzi è già avvenuto. Ma questo non significa che l'impostazione nazionale sia sbagliata. Si dice solitamente che il sionismo è un movimento che emerge e si sviluppa nella scia del generale risveglio dei sentimenti nazionali di vari popoli. Sul piano della mera osservazione dei fatti, questo è vero, ma sul piano dell'interpretazione della storia fornita dalla Bibbia, è il sionismo che ha prodotto, come necessità anticipatoria, il risveglio dei vari nazionalismi; ed è l'avvicinarsi dell'inevitabile ricostituzione politica e territoriale della nazione ebraica che ha provocato la diabolica contraffazione costituita dal Terzo Reich. Tra tutti gli studi fatti sul nazismo, sarebbe interessante trovarne qualcuno che esamini a fondo quella sorta di teologia della sostituzione presente nella falsificazione messianica dell'ideologia nazista. Le motivazioni di certe forme di antisemitismo risulterebbero più chiare se si capisse che si tratta dell'odio che l'imitazione sofisticata ha per il prodotto originale. Come beffa aggiuntiva, dopo il definitivo crollo di quella immonda falsificazione del regno di Dio messianico costituita dal Terzo Reich, la forza diabolica dell'equiparazione è ricomparsa nella nuova forma di ripetute accuse alla politica israeliana, a cui si rinfaccia di usare forme e metodi del nazismo!
   Non si vuole qui sostenere che l'attuale Stato d'Israele rappresenta il regno di Dio sulla terra, ma che la sua presenza oggi sulla scena politica mondiale è espressione di una precisa volontà di Dio all'interno del suo sovrano progetto storico. Di conseguenza, l'odio contro questo Stato, il tentativo o anche il solo desiderio di distruggerlo, sia che venga da ebrei laici o superortodossi, sia che venga da gentili cristiani, musulmani o di qualsiasi altra religione, è di natura diabolica. Ciascuno è libero di usare i criteri che ritiene più validi per interpretare la storia dei popoli, ma quando si tratta di Israele, i criteri più validi, quelli che anche a posteriori si confermano essere i più idonei a spiegare i fatti avvenuti e quindi in una certa misura anche a prevedere quelli futuri, sono i criteri biblici. Voler tentare di capire la storia del popolo d'Israele prescindendo dal Dio d'Israele che si è rivelato nella Sacra Scrittura, è impresa vana, destinata fin dall'inizio al fallimento.

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(Notizie su Israele, 23 agosto 2018)


Trump: i palestinesi otterranno "qualcosa di molto buono"

Il presidente sul piano di pace: «Israele pagherà un prezzo alto per lo spostamento dell'ambasciata».

di Giordano Stabile

Il presidente Donald Trump è tornato sul piano di pace per il Medio Oriente, "l'accordo del secolo" che aveva promesso all'inizio del suo mandato. Nella tarda serata di ieri ha precisato che i palestinesi otterranno «qualcosa di molto buono» e che «Israele pagherà un prezzo molto alto» in cambio dello spostamento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, cioè dovrà fare più concessioni alla controparte.

 Nessun dettaglio
  Ora «è il turno dei palestinesi», ha spiegato. Non ha però fornito dettagli. Al piano di pace lavorano l'inviato per il Medio Oriente Jason Greenblatt e il consigliere speciale della Casa Bianca Jared Kushner, assieme al principe saudita Mohammed bin Salman e all'Egitto. Il piano dovrebbe essere un'evoluzione della proposta saudita del 2002, con la nascita di uno Stato palestinese in parte dei Territori: Cisgiordania e Gaza.

 Bolton in Israele
  Del piano hanno discusso anche il governo israeliano e il consigliere alla Sicurezza della Casa Bianca John Bolton, arrivato ieri in Israele. Bolton ha soltanto detto che ci sono «molti progressi nella regione» e non ha fornito una data per l'annuncio del piano di pace. La visita coincide anche con il 25esimo anniversario degli Accordi di Oslo, firmati nell'agosto del 1993, che sembravano aver spianato la strada verso un'intesa ma poi si sono arenati.

 Il leader di Hamas
  Un no alle proposte americane è arrivato però subito dal leader di Hamas Ismail Haniyeh, che in un discorso per la festa del sacrificio, l'Aid al-Adha, ha detto che "l'accordo del secolo è clinicamente morto". Il leader islamista ha però confermato «il blocco di Gaza sta per finire» e quindi l'intesa per una tregua fra Hamas e Israele, raggiunta con la mediazione dell'Egitto ma senza la partecipazione dell'altra fazione palestinese, Al-Fatah, il partito del presidente dell'Autorità nazionale palestinese, con sede a Ramallah in Cisgiordania, Abu Mazen.

(La Stampa, 22 agosto 2018)


Il Grana Padano kosher seduce i palati di Israele

Il Grana Padano Dop conquista Israele. E lo fa grazie alla lavorazione kosher della latteria San Pietro di Goito (Mn). La cooperativa, 27 soci allevatori, 53 mila forme di Grana Padano prodotte in un anno, ha iniziato la produzione speciale nel 2015, poi nel 2017 l'espansione, e quest'anno ne ha già prodotte circa oltre 2 mila e altre sono programmate. «Quando produciamo grana padano kosher, lo facciamo per una intera settimana e ci dedichiamo esclusivamente a questo tipo di lavorazione. Tutta la filiera è dedicata a questa produzione e in una settimana realizziamo 700-800 forme. Quest'anno abbiamo già lavorato tre settimane e altre due sono programmate e dovremmo arrivare a 4 mila forme, il 7% della nostra produzione», spiega a ltalia Oggi il presidente della cooperativa, Stefano Pezzini.
   Nata in via sperimentale, la produzione kosher «è adesso una attività consolidata e abbiamo anche progetti di promozione anche negli Stati Uniti. Il Grana Padano Kosher va a colonizzare mercati che oggi non esistono. Il nostro export vale circa il 9% del fatturato e nel 2015 era zero». Quella che segue i dettami delle religione ebraica, «è una lavorazione molto complessa. Prevede la presenza di rabbini certificatori all'interno del caseificio e delle aziende agricole. Tutto il processo, dalla alimentazione, alla mungitura, alla stagionatura viene controllato. C'è un rabbino che mette lui stesso il caglio, a sua volta fatto alla presenza di un rabbino, che verifica e che alla fine firma in ebraico tutte le forme».
   Il termine kosher significa «adatto» o «corretto». Se applicato al cibo, il termine indica che un elemento è adatto per il consumo secondo la legge ebraica. «C'è una attenzione maniacale di tutte le fasi, non ci devono essere contaminazioni, tutto deve essere purificato. Anche la salamoia è nuova, appena fatta. Ci tengono a far capire che il grado di qualità cui sottendono è molto elevato, una qualità assoluta per una faccia di clienti particolare».
   Oltre al formaggio per la religione ebraica, latteria San Pietro ha anche produzioni particolari come il Grana bio, quello da fieno e uno povero di sale, ovvero con una concentrazione più bassa.

(ItaliaOggi, 22 agosto 2018)


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Un'azienda agricola di Medesano (PR) lancia il Parmigiano kosher

Specializzata nella produzione del Re dei Formaggi, l'azienda agricola Bertinelli di Medesano sarà la prima a ottenere la certificazione dei due enti più autorevoli al mondo in materia di cibo Kosher. A partire dallo scorso ottobre, infatti, l'azienda che opera sulle colline parmensi ha avviato la produzione di Parmigiano Reggiano dop Kosher: le prime forme saranno disponibili per il mercato a fine 2015. Formaggio prodotto nel segno della kasherut, la normativa ebraica sul cibo basata sull'interpretazione della Torah.
   "Nella religione ebraica, le regole alimentari e i cibi sono rigorosamente codificati dai Libri Sacri - spiega Nicola Bertinelli, che insieme con il padre guida oggi l'azienda agricola -. La sfida di conciliare il disciplinare di un prodotto unico al mondo come il Parmigiano Reggiano dop con la kasherut si è rivelata estremamente complessa: le fasi interessate sono tutte, dall'allevamento delle bovine, che deve seguire determinate regole, alla mungitura, eseguita sotto la supervisione di un rabbino che verifica la natura Chalav Yisrael del latte, che può provenire solo da animali kosher".

(ParmaQuotidiano.info, 2 marzo 2015)


"Uccidere Rushdie è ancora valido".

Così parla il ministro dell'Iran ospite d'onore della Fiera del libro di Torino. Tutto ok, Lagioia e Bray?

di Glulio Meotti

Abbas Salehi, ministro iraniano della Cultura e guida islamica
ROMA - A maggio Massimo Bray, già ministro della Cultura del governo Letta e da due anni presidente del Salone del libro di Torino, era volato a Teheran per incontrare il ministro iraniano della Cultura e guida islamica, Abbas Salehi, nell'ambito della Fiera del libro della Repubblica islamica. La scorsa settimana la Stampa ha annunciato che la Fiera del Libro, diretta dallo scrittore Nicola Lagioia, ha scelto l'Iran come ospite d'onore dell'edizione del 2020. Il curriculum di Salehi dovrebbe indurre Bray e Lagioia a rivedere la propria decisione.
   Nel 2016, gli ayatollah iraniani stanziarono altri 600 mila dollari per la fatwa con cui l'ayatollah Khomeini nel 1989 condannò a morte lo scrittore Salman Rushdie, l'autore dei "Versetti satanici", portando così la taglia a 3,4 milioni di dollari. Parlando con l'agenzia di stampa del regime Fars, l'allora viceministro della Cultura Salehi disse che "la fatwa dell'imam Khomeini è un decreto religioso, non perderà mai il suo potere né si abrogherà mai". Da Salehi arrivò la conferma della condanna a morte dello scrittore che vive ancora sotto protezione. Un decreto che avrebbe influenzato anche i fratelli Kouachi nella loro decisione di massacrare la redazione parigina di Charlie Hebdo (la fatwa iraniana fu trovata nel laptop dei due islamisti francesi). In quel terribile San Valentino del 1989, la condanna di Rushdie non costituiva soltanto l'ordine di distruggere un libro, ma anche il diritto alla vita del suo autore. Non c'era esilio in cui Rushdie potesse rifugiarsi.
   Nel 2015 toccò sempre a Salehi annunciare la decisione del regime iraniano di boicottare la Fiera del libro di Francoforte, "rea" di aver ospitato proprio Rushdie. "Questo è stato organizzato dalla Fiera del libro di Francoforte e varca una delle linee rosse del nostro sistema politico" disse Salehi. "Rushdie ha insultato la nostra fede. La fatwa dell'imam Khomeini riflette la nostra religione e non svanirà mai". Abbastanza chiaro. Se non bastasse, Salehi è stato il direttore della Fiera internazionale del libro di Teheran, dove numerosi libri sono stati confiscati dal regime nelle passate edizioni. Non solo, ma nel 2013 Salehi, allora in qualità di direttore della Fiera del libro, accompagnò il presidente Hassan Rohani all'inaugurazione. Negli stand del regime si esponevano i grandi classici dell'antisemitismo, come i "Protocolli degli anziani savi di Sion". Salehi avrebbe anche portato i "Protocolli" nello stand iraniano della Fiera del libro di Francoforte.
   Il mondo editoriale non spiccò certo per il proprio coraggio fin dall'inizio della fatwa Rushdie. La casa editrice francese Christian Bourgois rifiutò di pubblicarlo, come l'editore tedesco Kiepenheuer. L'editore greco rinviò la pubblicazione "a data da definirsi". In Olanda, Veen annunciò che si sarebbe consultato con il governo e le organizzazioni musulmane. Negli Stati Uniti molte librerie, come Walden Books, tennero per settimane il libro sotto il bancone, quasi fosse maledetto. La Oxford University Press decise di partecipare alla Fiera del libro di Teheran assieme a due case editrici americane, McGraw-Hill e John Wiley, nonostante la richiesta di Viking Penguin, editore di Rushdie, di boicottare gli iraniani.
   "Se non riusciamo a essere fermi su questo tema, è perché la nostra benedetta libertà di parola non vale uno spillo" disse all'epoca il romanziere John Updike. Vista Da Torino, che nel 2020 stenderà tappeti rossi agli esecutori della fatwa contro Rushdie, quella benedetta libertà di parola oggi sembra valere davvero molto poco.

(Il Foglio, 22 agosto 2018)


Una via a Roma per la famiglia che non tornò mai più a casa

La moglie e i figli di Settimio Calò furono deportati e uccisi a Auschwitz nel 1943. Che cosa aspetta la sindaca Raggi a dare un segnale?

di Gian Antonio Stella

«Settimio Calò uscì da questa casa dove abitava con la moglie Clelia Frascati e i nove figli. Quando vi tornò la trovò vuota per sempre. I suoi cari erano stati rastrellati il 16 ottobre 1943 e deportati ad Auschwitz insieme ad oltre mille ebrei in nome della politica razzista del Nazifascimo. Nessuno dei suoi familiari fece ritorno. Essi rappresentano tutte le famiglie distrutte dall'odio antisemita +S.P.Q.R. 2010»
   Forse Virginia Raggi, che ha giurato di depennare dalla toponomastica romana i sostenitori delle Leggi Razziali, non è mai passata in via Portico d'Ottavia 49, vicino al Campidoglio. Ma la targa messa otto anni fa da Gianni Alemanno dovrebbe mandarla a memoria. Perché, per quel sindaco di destra, fu una vittoria e insieme una sconfitta. Aveva promesso, per marcare la sua rottura con le canaglie razziste del neofascismo, di dedicare una via a quella famiglia che ricorda come forse nessuna altra la deportazione e la mattanza degli ebrei rastrellati nella capitale quel giorno di ottobre: non solo aveva poi ripiegato sulla targa, ma il giorno dell'annuncio, 27 gennaio 2010, «Giorno della memoria», Roma aveva muri tappezzati di scritte infami: «Alemanno verme sionista». Ecco, dopo la sparata del ministro giallo-verde Lorenzo Fontana per «abrogare la legge Mancino» (tweet di Salvini: «Sono d'accordo»); dopo la decisione del consiglio comunale grillino, stoppata in extremis, di dedicare una via a Giorgio Almirante, redattore capo de «La difesa della razza» dove scriveva che «il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti»; dopo l'appello di Liliana Segre a «salvare dall'oblio» tutti quelli che «a differenza di me, non sono tornati dai campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento»; ecco, dopo tutto questo la sindaca di Roma ha un dovere. Dare un segnale. E dedicare finalmente una strada, a 80 anni dalle Leggi Razziali del '38, alla moglie e ai figli di Settimio Calò uccisi ad Auschwitz dopo cinque giorni da incubo su un treno piombato partito dalla Tiburtina.
   Quel giorno, in lacrime sui binari, c'era anche Letizia Calò, la sorella di Settimio e mamma di un bambino di dodici anni, lui pure Settimio, che si era fermato a dormire dallo zio a Portico d'Ottavia. Racconterà il capofamiglia, unico sopravvissuto, al nostro Silvio Bertoldi: «il bambino si affacciò al finestrino del treno, scorse sua madre e gridò freddo: "A sìgno', e vada a casa, no? Vada a casa, che ci ha l'altri bambini da cresce". Era la sua mamma, capisce, e lui je disse così, e lei se lo ricorda sempre adesso, da quel finestrino del treno, co' quelle parole, co' quelle parole ... E io, nemmeno quelle, io».

(Corriere della Sera, 22 agosto 2018)


Espulso in Germania l'ex guardiano nazista

Si è conclusa la vicenda del 95enne Jakiw Palij, ex guardia nel campo nazista di Trawniki, in Polonia, nel quale più di seimila ebrei sono stati sterminati. L'ex nazista è stato espulso dagli Stati Uniti e accolto in Germania. Nato in Polonia, l'uomo era scappato negli Usa nel 1949 ottenendo il passaporto otto anni dopo. Nel 2003 un giudice federale gli ha ritirato la cittadinanza, dimostrando che Palij aveva mentito sul suo passato nazista.

(Corriere della Sera, 22 agosto 2018)


I neonazisti tornano a sfilare per le strade di Berlino

Il Jfda, il forum ebraico per la democrazia e contro l'antisemitismo, ha pubblicato su YouTube un riassunto della manifestazione che si è svolta sabato 18 agosto a Berlino. Qui, circa 700 neonazisti, hanno sfilato con regolare permesso da parte delle autorità cittadine competenti, per le vie della città. Si tratta di una marcia annuale in commemorazione di Rudolf Hess. Durante la manifestazione i partecipanti hanno scandito slogan antisemiti, provocando i giornalisti e cercando di attaccare i contromanifestanti lungo il percorso.

(Lettera43, 21 agosto 2018)


Liberman: a Gaza agiamo esclusivamente in base alla realtà sul terreno

GERUSALEMME - Nella gestione del confronto tra Israele e i palestinesi presso la linea di demarcazione della Striscia di Gaza, lo Stato ebraico sta agendo "esclusivamente in base alla realtà sul terreno ed è ciò che continuerà a fare". Lo ha dichiarato oggi il ministro della Difesa di Israele, Avigdor Liberman. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", con le sue affermazioni Liberman ha inteso smentire le notizie circolate negli ultimi giorni su un possibile accordo per il raggiungimento di una soluzione definitiva del conflitto che Israele e il movimento palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza dal 2006. "Ho ascoltato innumerevoli storie e voci su un accordo tra Israele e Hamas e, lo ripeto, stiamo parlando con Egitto, Onu e comunità internazionale", ha detto Liberman. Il ministro della Difesa israeliano ha aggiunto: "Per quanto mi riguarda, vi è un solo accordo in vigore, ed è la realtà effettiva sul terreno". Pertanto, secondo Liberman, a Gaza Israele sta agendo "esclusivamente in base alla realtà sul terreno ed è ciò che continuerà a fare". Sebbene vi sia "un notevole calo degli attacchi terroristici" presso la linea di demarcazione tra Israele e Striscia di Gaza, rimane "impossibile prevenire completamente" tali eventi, ha concluso Liberman.

(Agenzia Nova, 21 agosto 2018)


70 anni di Israele: gli Italkim e il loro contributo alla costruzione del paese

 
GERUSALEMME - Martedì prossimo, 28 agosto, il Museo Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme ospiterà una importante iniziativa, che si colloca nell'ambito delle celebrazioni del 70esimo anniversario di Israele.
Lo stesso museo ha infatti organizzato con la collaborazione dell'Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv la mostra "70 anni di Israele: Gli Italkim e il loro contributo alla costruzione del Paese", con cui si vuole mettere in risalto l'apporto culturale, accademico e scientifico degli Italkim alla costruzione dello Stato sionista.
Le eccezionali biografie di 23 italiani che fecero aliyà negli anni '20 e '30, tra cui sei vincitori del Premio Israel, fanno da filo conduttore nella narrazione della nascita di Israele.
La mostra, che gode del patrocinio dell'Ambasciata d'Italia in Israele, si inserisce nell'ambito del Festival "Piazza, Pasta, Vespa", una tre giorni di "Dolce Vita" italiana nella piazza antistante il Museo Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme.

(aise, 21 agosto 2018)


Hamas: "La tregua è vicina"

"Siamo sulla buona strada per rimuovere l'ingiusto assedio della Striscia di Gaza. Questo è il risultato della nostra lotta e della nostra risolutezza".
   Così Ismail Haniyeh, leader del gruppo terroristico Hamas, in un intervento pubblico a Gaza in cui, alla vigilia della festività islamica dell'Eid al-Adha, ha anche commentato gli sviluppi della mediazione egiziana per un cessate il fuoco con lo Stato di Israele. "Qualsiasi aiuto umanitario a Gaza - ha sottolineato il leader di Hamas, rivolgendosi ad alcune migliaia di fedeli all'esterno di una moschea - non sarà fatto a un prezzo diplomatico". Stando a fonti interne al gruppo terroristico, citate in queste ore dalla stampa israeliana, i progressi negoziali sarebbero rilevanti e la prospettiva è che un accordo tra le parti, con l'intermediazione del Cairo, possa essere firmato all'inizio della prossima settimana.
   Ha tra gli altri affermato Mahmoud Zahar, un alto ufficiale di Hamas: "Avremo dei benefici dalla tregua: le armi di cui disponiamo rimarranno nelle nostre mani. La tregua non richiede un prezzo politico da parte nostra".
   Negli scorsi giorni, dopo aver condannato l'ennesima provocazione di Hamas, il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman ha dichiarato: "I residenti di Gaza hanno tutto da guadagnare quando i cittadini di Israele godono di pace e sicurezza e molto da perdere quando invece la quiete è interrotta". Così invece il Premier Benjamin Netanyahu: "Siamo in mezzo a una campagna contro il terrore a Gaza. Non finirà in un colpo solo. La nostra richiesta è chiara: un cessate-il-fuoco totale. Non saremo soddisfatti con niente di meno".

(moked, 21 agosto 2018)


Estremisti palestinesi contro Lana Del Rey: «Non cantare aTel Aviv»

Lana Del Rey
«Ritengo che la musica sia universale e dovrebbe essere usata per avvicinarci»: così Lana Del Rey ha risposto alle critiche e agli appelli a boicottare Israele, dove si è esibita ieri sera. Per la cantante Usa, «esibirsi a Tel Aviv non è una presa di posizione politica, come cantare in California non significa che il mio punto di vista è allineato con le opinioni del mio attuale governo o a volte azioni inumane». «Cerco di fare del mio meglio per navigare nelle acque delle continue turbolenze nei Paesi devastati dalla guerra in tutto il mondo dove viaggio ogni mese», ha aggiunto su Twitter. La Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele non lo tollera: «Ti esortiamo a ripensarci», le hanno scritto. Il loro argomento nel tentativo di farla desistere, è un assurdo paragone con il «Sudafrica dell'apartheid», e le ricordano che «altri artisti si rifiutano di esibirsi in Israele dell'apartheid». Accettare inviti in Israele resta un tabù per artisti politicizzati come Peter Gabriel e Roger Waters. Ma altri, come i Radiohead che nel luglio 2017 hanno tenuto un concerto a Tel Aviv, sottolineano che «suonare in un Paese non significa dare un endorsement al suo governo, non sosteniamo Netanyahu più di quanto sosteniamo Donald Trump e continuiamo a esibirci in America».

(Libero, 21 agosto 2018)


Corbyn l' antisemita

Il leader del Labour che dialoga con i terroristi palestinesi responsabili della morte di cento israeliani.

di Giulio Meotti

ROMA - Molti ebrei inglesi, ha rivelato la Cnn la scorsa settimana, stanno pensando di andarsene, specie in caso si realizzasse il worst-case scenario: una eventuale vittoria di Jeremy Corbyn, il leader del Labour. Finora si era temuto che Corbyn fosse soltanto un vecchio arnese marxista incapace di scandire il diritto di Israele a esistere, reticente di fronte alla slavina giudeofoba presente nella sua nuova costituency di origine immigrata, infine un maestro di distinguo fra l'antisemitismo e l'antisionismo. Nell'ultima settimana, grazie a una serie di sensazionali inchieste giornalistiche, sembra che Corbyn abbia gettato la maschera. "Corbyn è un antisemita e deve scomparire dalla scena politica", ha detto Shaul Ladany, il sopravvissuto alla Shoah che scampò al massacro alle Olimpiadi di Monaco '72, quando undici atleti israeliani furono torturati e massacrati dai fedayn palestinesi. Era appena emerso che a Tunisi nel 2012 Corbyn aveva preso parte a una cerimonia sulla tomba di uno dei terroristi palestinesi di Monaco, Atef Bseiso. In quell'occasione (esclusiva del Times) Corbyn è stato anche fotografato con Maher al Taher, leader in esilio del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Un mese dopo l'incontro con Corbyn, Taher rivendicò la strage alla sinagoga di Har Nof a Gerusalemme, in cui quattro rabbini furono trucidati durante le preghiere del mattino. Tra le vittime c'era anche Avraham Shmuel Goldberg, un rabbino inglese, un concittadino del leader laburista.
  Ieri il Daily Telegraph ha messo un altro carico da novanta sul leader laburista inglese. Jeremy Corbyn ha partecipato a una conferenza con alcuni leader militari di Hamas condannati per aver orchestrato una serie di spaventosi attacchi terroristici durante la Seconda Intifada. Si tratta di una conferenza alla quale ha partecipato un certo numero di alti funzionari di Hamas, tra cui Khaled Meshaal, l'ex leader numero uno di Hamas, che è in una lista nera di terroristi del Regno Unito, e Husam Badran e Abdul Aziz Umar, condannati all'ergastolo in Israele per aver contribuito alla preparazione di numerosi attentati poi scambiati con il caporale Gilad Shalit. "La nakba (giorno della catastrofe, come gli arabi chiamano la nascita di Israele, ndr) che ci ha reso rifugiati è avvenuta tramite la forza e il ritorno sarà realizzabile soltanto attraverso la resistenza militare e armata e nient'altro", dice Badran alla conferenza in Qatar cui prese parte anche Corbyn. Tre giorni dopo la conferenza, Jeremy Corbyn ne scrive sulla sua rubrica che tiene per il Morning Star, dove spiega di aver ascoltato i discorsi tenuti dai palestinesi rilasciati "in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit", aggiungendo che "il loro contributo era affascinante ed elettrizzante".

 Quando rifiutò di andare a Yad Vashem
  Badran è responsabile per gli attentati alla discoteca Dolphinarium di Tel Aviv, a due ristoranti a Gerusalemme e Haifa, a una stazione ferroviaria, a due autobus e al Park Hotel a Netanya (il peggior attentato terroristico nella storia israeliana). Attacchi che in totale hanno provocato la morte di oltre cento civili israeliani. Se il leader del potenziale primo partito del Regno Unito non trova nulla di strano nell'omaggiare la tomba degli assassini di Monaco, nel farsi fotografare con chi ha ordinato la strage dei rabbini in una sinagoga di Gerusalemme e nel tenere conferenze con chi ha diretto micidiali attentati suicidi durante l'Intifada e assemblato cinture esplosive, significa che qualcosa non va soltanto in Corbyn, ma nell'Inghilterra che lo ha incoronato a capo del Labour. Nel settembre del 2016, Jeremy Corbyn rigettò una richiesta del Labour israeliano di Yitzhak Herzog di andare a Gerusalemme a deporre una corona di fiori al memoriale della Shoah,lo Yad Vashem. Corbyn li aveva usati tutti sulle tombe dei terroristi di Monaco.

(Il Foglio, 21 agosto 2018)


Eurovision 2019, un mecenate si offre di aiutare economicamente Israele

di Emanuele Lombardini

Sylvan Adams
Corsi e ricorsi che tornano, anche all'Eurovision. La notizia è che un milionario canadese di origini israeliane si sarebbe offerto di contribuire alle spese per l'organizzazione dell'evento in Israele. Sylvan Adams, questo il nome del mecenate, avrebbe espresso la volontà di "fare tutto quanto è in mio potere per aiutare la tv KAN nel trasformare in un successo l'Eurovision in Israele"
Adams non è nuovo a queste azioni di mecenatismo: c'era (anche) lui dietro l'organizzazione della partenza del Giro d'Italia in Israele lo scorso maggio ed ora sarebbe pronto a mettere di nuovo mano al portafogli, insieme al collega Daniel Ben Naim, attraverso una cosiddetta venture capital.
In sostanza, si tratta di una immissione di capitali ad alto rischio, contando sul fatto che se l'operazione funziona, questa possa apportare notevoli vantaggi economici, oltreché in questo caso, anche aumentare l'immagine di Israele nel mondo.
L'operazione ricorda quella del 1993, quando un altro mecenate, Noel Duggan, riuscì a convincere RTE, la tv irlandese organizzatrice dell'evento, a portarlo a casa sua, ovvero a Millstreet, un paese di 1500 abitanti a 40 chilometri, all'interno della Green Glens Arena, l'ippodromo di sua proprietà.
Nonostante le critiche per la location lontana dalle aree metropolitane, in quel caso l'evento fu un successo. Riuscirà Adams a convincere KAN e organizzare di fatto in solido la manifestazione? Non resta che attendere.

(Eurofestival News, 21 agosto 2018)


Israele, firmato documento che rende più facile avere accesso alle armi

Secondo il ministro della Pubblica sicurezza Gilad Erdan questa misura dovrebbe portare ad un aumento del livello di sicurezza nella società israeliana.

Il ministro della Pubblica sicurezza israeliano Gilad Erdan ha firmato un documento che modifica le istruzioni per il rilascio di una licenza per armi, alleggerendo le regole e permettendo ai militari in pensione di non restituire le armi anche dopo il rilascio dal servizio attivo.
"Secondo la nuova politica, i veterani delle unità di combattimento con la qualifica pertinente ... avranno il diritto di richiedere una patente di armi. Inoltre, il ministro Erdan ha deciso che gli ufficiali e i comandanti non sarebbero stati obbligati a restituire le loro armi e le loro licenze dopo essere stati liberati dal servizio attivo", ha detto il ministero.
Questa misura dovrebbe portare ad un aumento del livello di sicurezza nella società israeliana, ha aggiunto.
Secondo il ministero, circa 145.000 israeliani tra coloro che non sono in servizio attivo hanno armi al momento. Le nuove regole aumenteranno il numero di civili con il diritto di portare armi da "centinaia di migliaia", dato che esiste un servizio militare obbligatorio in Israele, ha osservato il ministero.
Oltre a questo, i volontari della polizia, i funzionari dei servizi di emergenza e i conducenti dei trasporti pubblici potranno richiedere un permesso per portare armi.

(Sputnik Italia, 21 agosto 2018)


Svolta salutista della Pepsi che compra l'israeliana Sodastream per tre miliardi

La società vende gli apparecchi per far diventare gasata l'acqua del rubinetto delle abitazioni.

ROMA - PepsiCo continua nella sua svolta salutista diversificando il portafoglio prodotti nel tentativo di conquistare i millennial. Il colosso americano acquista per 3,2 miliardi di dollari (circa 2,8 miliardi di euro) l'israeliana SodaStream, produttrice delle apparecchiature che permettono di "gasare" l'acqua del rubinetto di casa.
   L'acquisizione arriva a poche settimane dall'annuncio dell'addio dello storico amministratore delegato di Pepsi Indra Nooyi. E indica come anche sotto la guida del nuovo numero uno Ramon Laguarta la società intenda continuare sulla strada salutista, rispondendo così ai nuovi gusti dei consumatori.
   «Sodastream è complementare alle nostre attività, e ci consente di offrire soluzioni personalizzate nelle case dei nostri consumatori in tutto il mondo», afferma Laguarta. Per SodaStream, Pepsi mette sul piatto 144 dollari per azione in contanti, con un premio del 32% rispetto al prezzo medio degli ultimi 30 giorni. La chiave del successo di SodaStream è stato lo spostamento della sua fabbrica dall'insediamento in Cisgiordania di Màale Adumim, divenuto uno dei target della campagna 'Boycott, Divestment and Sanction' per cercare di convincere i consumatori a non acquistare beni prodotti negli insediamenti israeliani all'est della linea del cessate il fuoco del 1967. Volto pubblicitario della compagnia è stata l'attrice americana Scarlett Johanson, che a suo tempo decise di continuare nel suo impegno nonostante la campagna di boicottaggio del Bds dell'azienda. Sodastream spostò allora la sede nel Negev con la perdita di lavoro da parte di numerose famiglie palestinesi.
   SodaStream è la risposta di Pepsi all'acquisizione da parte di Coca-Cola di una quota di minoranza in BodyArmor, il produttore di bevande sportive sostenuto dalla star del basket americano Kobe Bryant. Coca-Cola da anni fatica a tenere il passo sulle bevande sportive con Pepsi, che può contare sul successo di Gatorade. Ma SodaStream è anche l'ultima in ordine temporale delle acquisizioni nel settore alimentare e delle bevande, con tutti i colossi che cercano di riposizionarsi di fronte alla rinnovata attenzione dei consumatori per cibi e bevande più salutari, ma anche per l'ambiente. Producendo la propria acqua gasata in casa i consumatori infatti usano meno plastica e inquinano quindi meno. Un concetto questo cavalcato da SodaStream nelle sue campagne pubblicitarie con critiche a Cica-Cola e in passato anche a Pepsi per l'uso di plastica: secondo i calcoli di SodaStream le sue macchine aiutano i consumatori a risparmiare fino a 1.000 bottiglie e lattine l'anno.
   «SodaStream è un'azienda straordinaria che offre ai consumatori la possibilità di produrre bevande dal gusto eccezionale riducendo al tempo stesso la quantità di rifiuti generati, in linea con la nostra filosofia di un pianeta più sano e più sostenibile», ha dichiarato Indra Nooyi, che lascerà a Laquarta la guida della multinazionale il prossimo 3 ottobre dopo 12 anni.

(Il Messaggero, 21 agosto 2018)


Tamimi e i bambini martiri palestinesi

La voce di un israeliano che ha perso la figlia in un attentato.

Scrive il Jerusalem Post (13/8)

La mia dolcissima figlia Malki, piena di empatia e generosità verso gli altri, sempre con un sorriso sulle labbra, aveva 15 anni quando fu assassinata nella strage della pizzeria Sbarro, in questi stessi giorni di 17 anni fa", scrive Arnold Roth. "L'esperienza di perderla, di cercare di riequilibrare la mia vita e quella della mia famiglia, e di cercare di dare un senso alle reazioni degli altri, ha forgiato in gran parte ciò che penso riguardo al terrorismo.
   Sappiamo chi ha progettato lo spietato massacro alla pizzeria Sbarro. Non è stata Ahed Tamimi (che nasceva proprio in quell'anno). Ma quando il suo clan, i Tamimi del villaggio di Nabi Saleh, si riunisce per celebrare il massacro, come sappiamo che fa regolarmente, lei partecipa entusiasta ai festeggiamenti. In un villaggio dove quasi tutti sono imparentati fra loro e si sposano fra loro, Ahed è parente stretta, in vario modo, di Ahlam Tamimi, uno dei diretti responsabili della carneficina in cui è stata trucidata mia figlia. Ahlam ora vive libera in Giordania. Sui social network, nei suoi interventi pubblici e (per cinque anni) nel suo programma televisivo, ha continuato a esortare gli altri a seguire il suo esempio.
   Quando Ahlam sposò Nizar Tamimi, un altro assassino originario dello stesso villaggio, pochi mesi dopo che entrambi erano stati scarcerati nel quadro del ricatto di Hamas per la liberazione dell'ostaggio israeliano Gilad Shalit, l'undicenne Ahed era lì a ballare e a rimirare in adorazione la sposa. I genitori di Ahed hanno fatto della propaganda violenta contro Israele una professione. Hanno plasmato e addestrato la piccola Ahed, sfruttando il suo aspetto accattivante, e l'hanno spinta in tutta una serie di messinscene conflittuali con i soldati israeliani sin da quando aveva 10 anni, deliberatamente mettendola quasi ogni settimana, per anni, in situazioni di concreto pericolo.
   Sebbene tutto quello che avevano per le mani erano le immagini in gran parte sceneggiate della piccola, patetica Ahed che levava i pugni contro soldati israeliani (che la sopportavano, guardandosi bene dal reagire), troppi giornalisti e capiredattori hanno proposto e continuano a proporre assurdi paragoni con Giovanna d'Arco e Malala Yousafzai. Il giorno in cui Ahed prese a schiaffi, calci e sputi due soldati, sua madre le puntò addosso una delle sue telecamere dicendole di parlare al mondo. E lei eseguì, con un messaggio rabbioso in cui esortava alla violenza contro Israele e a nuovi attentati suicidi (come quello che ha ucciso mia figlia).
   L'agghiacciante realtà che quel messaggio riflette era, e continua a essere, disconosciuta. L'uso dei bambini arabi palestinesi come armi per mano della loro stessa società, persino delle loro stesse famiglie, è così incomprensibile per gli estranei che molti preferiscono chiudere gli occhi e negare questa realtà, anche solo per questo motivo. E negare ciò che Ahed simboleggia: la totale immedesimazione con gli spietati assassini del suo clan famigliare, con l'odio deflagrante, con un orrendo fanatismo che induce le persone a spingere in prima linea i loro bambini innocenti".

(Il Foglio, 20 agosto 2018)


Ariel Cohen. "Io, ebreo ferrarese, combatto per Israele"

Dopo il diploma al 'Copernico-Carpeggiani', Ariel Cohen, 22enne ebreo ferrarese, decide di arruolarsi nell'IDF.

di Federico Di Bisceglie

FERRARA - Ariel Cohen, classe '96. Ebreo ferrarese, iscritto alla comunità della città estense. Dopo il percorso di studi al 'Copernico' , la svolta: arruolarsi nell'Israel defence Forces (IDF) per difendere i confini dello stato ebraico attanagliato dalla minaccia del terrorismo islamico.

- Quando hai maturato questa scelta?
  «La scelta l'ho maturata poco dopo l'anno 2016, sentivo il bisogno di servire il paese dei miei genitori».

- Che cosa comporta essere arruolato nell'IDF?
«Essere un soldato dell'IDF significa tanto per un ebreo. Sai sempre di essere in pericolo ma vivi con la consapevolezza di dare tutto quello che hai per lo stato d'Israele».

- Cosa pensano i coetanei e la tua famiglia di questa scelta?
  «Qualche amico era titubante quando ha saputo della mia decisione. Non capivano. Per la mia famiglia nessun problema: tutti i parenti hanno servito nell'IDF».

- Israele è un fronte aperto ovunque. Dalle strade ai bar, alle piazze alle sinagoghe. Come si vive anche al di la della divisa?
  «Quando torno a casa dall'esercito esco sempre con amici, andiamo nei bar, nei locali: la stessa vita dei giovani europei».

- Senti di essere in costante pericolo?
  «No, non mi sento di essere in costante pericolo. La prima volta che ho preso in mano un M16 (il fucile mitragliatore), ho sentito addosso una sensazione strana. Ma poi, col tempo, ci si fa l'abitudine».

- Come giudichi il comportamento del nostro Paese, nei confronti delle posizioni di politica estera che ha assunto sulla complessa questione mediorientale? E del comportamento di alcuni media?
  «All' Italia sarò sempre grato per aver accettato i miei genitori quando sono immigrati oramai 40 anni fa quando, dopo il servizio militare, mio padre decise di venire a studiare medicina a Roma. Penso purtroppo però che ci sia dell'informazione sbagliata in Europa che, molto spesso, porta l'opinione pubblica ad una visione sbagliata di noi ebrei. Storture e false rappresentazioni della realtà. E' vero anche che, la 'Questione Mediorientale', è molto complessa da capire e da raccontare».

- Pensi che questa esperienza ti stia rafforzando come persona e come appartenente al popolo ebraico?
  «Ovviamente essendo un soldato ti senti più attaccato alla terra d'Israele. In questo senso dunque mi sento rafforzato, come uomo e come ebreo».

- Come si vive la dimensione spirituale sotto le armi?
  «La dimensione spirituale sotto le armi si vive in modo forse un po' diverso dal normale. E' anche vero che, in Israele, la religione ha una forte pregnanza nella vita in generale e, francamente, credo sia giusto così».

- Cosa desidereresti per Israele?
  «Io desidererei per la mia terra, la pace. Come tutti gli Israeliani del resto. Purtroppo però, il Mondo pensa che noi ebrei vogliamo la guerra e che ci piaccia perdere soldati di 18, 19 e 20 anni. Ma non è così».

- Cosa ne pensi di una parte dell'ebraismo italiano fortemente critica nei confronti della politica e delle decisioni dello stato d'Israele?
  «Il grande errore dell'ebraismo italiano è che si da credito a molti dei soloni che sparano giudizi, senza mai essere stati in questi posti. Ovviamente, non sanno esattamente come va qui la vita e come funzionano certi meccanismi».

- Arriviamo a Ferrara. Sei mai stato al Meis? Cosa ne pensi dell' attività del museo?
  Sono stato varie volte al Meis. Penso che sia giusto avere un luogo del genere a Ferrara. Ritengo sia opportuno ampliarlo: serve a rafforzare il legame tra la città e la comunità ebraica».

- Qual è il tuo messaggio per i giovani e, in particolare, per i giovani ebrei italiani?
  «Il mio messaggio è che tutti i giovani ebrei dovrebbero seguire il mio esempio e servire nell'IDF. In generale, gli ebrei italiani dovrebbero venire più spesso in Israele per capire tante cose. Un dato molto importante è che, ogni anno, cresce sempre di più il numero di ebrei che vengono a servire nell'IDF e sono ebrei che provengono da tutto il Mondo».

(il Resto del Carlino - Ferrara, 19 agosto 2018)


"L'altra mia estate del 1938. L'orrore delle leggi razziali"

''Non potrai tornare a scuola, sei stata espulsa", Così a otto anni Liliana Segre scoprì di essere ebrea e che la sua vita, da lì a pochi mesi sarebbe stata sconvolta dalle proibizioni imposte dal regime fascista.

di Gianni Barbacetto

Era un giorno di fine estate del 1938. Io ero a tavola con il mio papà e i miei nonni paterni, che poi finirono tutti ad Auschwitz", racconta Liliana Segre. "Ricordo le loro facce. Serie. Tirate. Preoccupate. Mai visti così, 'Liliana, ti dobbiamo dire una cosa', mi disse papà. Eravamo a Premeno, alto Lago Maggiore, sopra Verbania. lo avevo 8 anni. Avevo avuto un'estate normale. Mio papà, molto attento alla nostra salute, ci portava ogni anno al mare, a Celle Ligure; poi in montagna, e ogni anno gli piaceva cambiare posto: Macugnaga, San Martino di Castrozza, Bormio ... A fine estate, concludevamo le vacanze al lago, a Premeno, luogo per me noiosissimo, in attesa che iniziasse la scuola, che allora apriva il 12 ottobre, giorno della scoperta dell' America da parte - ci insegnava la maestra - dell'italiano Cristoforo Colombo. Era stata per me - bambina che non veniva informata di quello che succedeva nella politica, degli annunci e delle tensioni che agitavano da mesi l'Italia - un'estate normale di una normale famiglia italiana, borghese e agiata. Ma quel giorno le facce di mio padre e dei miei nonni non erano normali, erano diverse dal solito. 'Ti dobbiamo dire una cosa', ripetè papà. 'Non potrai tornare a scuola, a ottobre. Sei stata espulsa"'.

 "Non andrai più a scuola Sei stata espulsa"
  Il racconto, oggi, esattamente 80 anni dopo, ancora increspa la voce di Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio e a gennaio 2018 nominata senatrice a vita dal presidente Sergio Mattarella. "lo non capivo. Sapevo che 'espulsa' era una parola pesante. Per essere 'espulsi' bisognava aver fatto qualcosa di grave. Di molto grave. Chiesi a mio padre che cosa avevo fatto, che cosa era successo. Mi rispose che c'erano delle nuove leggi, che le cose erano cambiate, che noi eravamo ebrei e che dunque non sarei potuta tornare alla mia scuola, la Ruffini di Milano, dove avrei dovuto iniziare la terza elementare. Non sarei più stata in classe con le mie compagne e con la mia maestra Bertani".
  Il racconto continua. "Quel giorno scoprii di essere ebrea. La mia era una famiglia laica, anzi di più, assolutamente non religiosa, direi proprio atea. Non avevo mai pensato di essere diversa dalle mie compagne di classe, dalle mie amiche di giochi. Invece quel giorno scoprii di essere 'diversa', che tutta la mia famiglia era 'diversa' e che questa 'diversità', non un mio comportamento, aveva provocato la mia espulsione da scuola. Il mio ricordo è legato alle facce di papà e dei nonni: volti segnati dalla preoccupazione come non li avevo mai visti prima".
  "Dopo quel giorno, a casa non si parlò più di questa faccenda. L'estate finì e ricominciò la scuola. Non rividi più né la mia classe né la mia maestra e le mie compagne non fecero a gara a mantenere rapporti con me. lo iniziai la terza elementare in una scuola privata. Mio padre, per difendermi, non volle mandarmi alla scuola ebraica di Milano, che sorse per permettere ai bambini ebrei di continuare gli studi e che era animata da insegnanti di grande valore. Di quell'estate del 1938 il ricordo più vivo che mi è restato è quello dei volti preoccupati di papà e dei nonni".
  Lo scoprì più tardi, l'orrore che nel '38 era stato scolpito dal fascismo fin dentro la legge. "Cinque anni dopo, nel 1943, mio padre decise - troppo tardi, purtroppo - di fuggire dall'Italia. Ci presentammo al confine svizzero: io, papà e due cugini. Fummo respinti: siamo stati richiedenti asilo respinti dalla Svizzera. Poco dopo fummo arrestati. Avevo 13 anni quando fummo rinchiusi nel carcere di Varese, poi di Como, infine di San Vittore a Milano".

 L'indifferenza, l'odio. Fino ad oggi
  Una mattina del 1944 Liliana fu caricata su un treno, viaggio di sola andata, verso il campo di Auschwitz. Partenza dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano: sotto i binari che conosciamo, ce n'erano altri sotterranei da cui partivano le merci e gli animali. "Da lì - dove ora è stato realizzato il Memoriale della Shoah - partimmo in centinaia, mentre attorno la città era silente, assente, indifferente".
  Per un anno ad Auschwitz fece lavoro da schiavo in una fabbrica di munizioni della Siemens. Aveva 14 anni. "Sono stata liberata nel maggio del 1945, unica sopravvissuta della mia famiglia. Ho compiuto 15 anni pochi giorni dopo il mio ritorno a Milano. Poi ho taciuto per molti anni: nessuno aveva voglia di ascoltarci, tutti avevano vissuto storie dolorose, chi mai aveva voglia di sentirne di ancor più dolorose? Ho ripreso la parola a 60 anni, quando sono diventata nonna. È stata la mia vittoria, senza odio, sulla morte, su Hitler e su Mussolini che avevano voluto le leggi razziali e lo sterminio: io ero viva, ero diventata mamma e perfino nonna. Aveva vinto la vita. Per questo ho deciso, dopo 45 anni di silenzio, di non restare più chiusa in casa, ma di testimoniare ciò che avevo vissuto affinché resti memoria".
  A settembre compirà 88 anni, Liliana Segre. È entrata in Senato- dice - "in punta di piedi" ed è uno dei cinque senatori a vita della Repubblica. "Oggi bisognerebbe avere la pazienza di leggere tutti gli articoli delle leggi razziali del 1938. Non solo quelli più noti, che ai cittadini italiani di religione ebraica proibivano di andare a scuola, di far parte dell'esercito, di lavorare nell'amministrazione pubblica ... Ci sono imposizioni minori, ma non per questo meno gravi. Agli italiani di religione ebraica era proibito tenere cavalli e perfino pezze di lana (così da impedire il lavoro agli stracciai di Roma). Le proibizioni minori volevano raggiungere l'effetto di farti sentire diverso, inferiore, sottomesso". È l'essenza di ogni razzismo, di ieri e di oggi, che non è mai una "goliardata".

(il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2018)


"Signor Segretario Generale, ha mai sentito parlare dell'allarme rosso?"

A 25 anni dalla firma di Oslo, Gaza è l'epitome del fallimento di quella generosa scommessa

Uriah Hatzroni, 15enne israeliano che abita nel moshav Yated, vicino al confine con la striscia di Gaza, ha scritto una lettera personale al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nella quale descrive la sua vita sotto la continua minaccia dei razzi palestinesi. "Ora siamo nel periodo delle vacanze estive - scrive Uriah - quando i ragazzini come me dovrebbero potersi divertire e stare con gli amici, e invece siamo costretti in casa o nei rifugi, con la paura di uscire nel caso vi siano lanci contro di noi di razzi o aquiloni incendiari. Signor Segretario Generale, i ragazzini dovrebbero avere il diritto di stare fuori a giocare, e non nei rifugi antiaerei. Negli ultimi mesi, io e la mia famiglia non abbiamo avuto un solo giorno tranquillo, una sola notte tranquilla. Sempre e solo allarme rosso. Signor Segretario Generale - continua Uriah - ha mai sentito parlare dell'allarme rosso? E' la sirena che ci avverte quando ci sparano addosso razzi e colpi di mortaio. Lo sapeva che abbiamo, quando suona l'allarme, 15 secondi di tempo (!!), a volte anche meno, per metterci al riparo: quindici secondi che separano la vita dalla morte"....

(israele.net, 20 agosto 2018)


Israele negli scatti di Rubinger

 
David Rubinger
 
Guerra d'Indipendenza 1948 - Una donna riceve l'addestramento di base nel lancio di granate
Scomparso nel 2017, David Rubinger è stato "il fotografo di Israele". Nato a Vienna nel 1924, emigrato nell'allora Palestina mandataria nel '39, scoprì la fotografia mentre, nel corso del secondo conflitto mondiale, prestava servizio nella Brigata ebraica dell'esercito britannico. Da allora non l'ha più abbandonata. Prima come fotoreporter per HaOlam HaZeh, quindi per Yedioth Aharonoth e Jerusalem Post. E quindi, per oltre mezzo secolo, per Life e Time. Unico fotografo ad avere l'autorizzazione per scattare nella mensa della Knesset, il Parlamento, nel '97 è stato insignito della più alta onorificenza nazionale: il Premio Israele.
   In occasione dei 70 anni dello Stato ebraico una mostra al Museo di Roma in Trastevere, organizzata da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Comunità ebraica di Roma e ambasciata israeliana lo celebra a partire dal prossimo 7 settembre.
   In mostra fino al 4 novembre oltre settanta fotografie in bianco e nero e a colori di dimensioni diverse. Ad essere raccontata, attraverso una speciale sensibilità artistica e umana che fu tratto costante del suo impegno artistico, i grandi eventi della storia contemporanea, fatti di persone e di luoghi significativi per la memoria dello Stato. Alcuni di questi scatti, si ricorda nella mostra, possono definirsi iconici. A partire dalla fotografia con tre paracadutisti in primo piano ripresi davanti al Muro Occidentale, il 7 giugno 1967. Un'immagine che, viene sottolineato, "ha contribuito a definire la coscienza nazionale dello Stato d'Israele". O ancora uomini, donne e bambini comuni, ma anche personaggi che hanno saputo cambiare il corso degli eventi. Come Golda Meir, quarto Premier d'Israele e prima donna al vertice del paese, qui ritratta insieme al pittore Marc Chagall.
In occasione della sua scomparsa il Presidente israeliano Reuven Rivlin aveva commentato: "Ci sono quelli che scrivono le pagine della storia, e ci sono quelli che le illustrano tramite l'obiettivo della loro macchina fotografica. Attraverso la sua fotografia, David ha immortalato la storia come sarà per sempre impressa nella nostra memoria".

(moked, 20 agosto 2018)


Il corbynismo, nuova malattia inglese

L 'antisemitismo scuote il Labour britannico

Scrive Politico Europe (7/8)

Dopo quasi tre anni della leadership di Corbyn, la crisi di antisemitismo nel partito [laburista britannico, ndt] continua a peggiorare", scrive James Kirchick su Politico Europe, in una lunga analisi intitolata "Il più pericoloso degli export britannici: il corbynismo". "Appena due settimane fa è emerso che Corbyn una volta ha comparato le azioni di Israele a Gaza a quelle della Germania nazista a Stalingrado, si è riferito ai terroristi di Hamas come suoi 'fratelli', ha ridicolizzato un collega deputato ebreo chiamandolo 'l'onorevole rappresentante per Tel Aviv' e instillato il dubbio - su una tv di stato iraniana, niente meno - che Israele possa aver avuto un ruolo nell'attacco terroristico contro l'Egitto.
   Corbyn è un sinistroide dogmatico che concepisce il razzismo esclusivamente attraverso il prisma del potere che, nella sua semplicistica e volgare visione del mondo marxista, è in mano agli ebrei. Nel gìorno della memoria dell'Olocausto, nel 2011, Corbyn si è unito al suo futuro cancelliere ombra, John McDonnell, nel sostenere una risoluzione parlamentare per cambiare il nome della commemorazione in 'Giorno della memoria dei genocidi'.
   Più di recente, Corbyn e i suoi alleati hanno tentato di modificare la definizione di antisemitismo dell'Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto, così da escludere gli esempi pertinenti a Israele. Invalidare questo tipo di retorica antisemita (come comparare Israele alla Germania nazista o imputare lealtà duplici agli ebrei) è un tentativo estremamente cinico, da parte di Corbyn e dei suoi alleati, di difendersi retro attivamente dall'accusa di antisemitismo, dopo decenni di attiva fomentazione.
   L'inevitabile conclusione è che Corbyn è un antisemita. Non nel modo crudo di gente come il Grande stregone del Kkk David Duke, la stella del British National Party Nick Griffin o il blogger neonazista Daily Stormer (che, guarda caso, sostengono il leader laburista). L'antisemitismo di Corbyn è più sottile e più sfumato, ed è una funzione del suo fervente antisionismo.
   E' difficile immaginare un politico col bagaglio antisemita di Corbyn fare carriera nel Partito socialista francese, figurarsi fra i socialdemocratici tedeschi. L'impegno di Corbyn dimostrato per rinominare la Giornata della memoria dell'Olocausto sarebbe stato sufficiente a farlo fuori, nella sinistra tedesca, che ha ammirevolmente posto l'Olocausto al centro della storia europea del Ventesimo secolo, un lavoro durato generazioni e intrapreso nell'indifferenza generale della società circostante. La volgarizzazione dell'Olocausto da parte di Corbyn, nella sua comparazione di crimini ben minori allo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei, o la più palese tattica antisemita di paragonare gli ebrei ai nazisti, è giustamente considerata un tabù da chiunque sia dotato di un'istruzione elementare, oltre che di una coscienza morale". (Tommaso Alberini)

(Il Foglio, 20 agosto 2018)


Chomsky: "Israele non potrà sempre contare sull'appoggio statunitense"

Noam Chomsky è uno dei non pochi intellettuali ebrei antisionisti che fa coprire dalla fama ottenuta in un altro campo della cultura la sua sostanziale ignoranza della recente storia dello stato d’Israele. Perché merita il nome di ignorante (se si esclude la precisa, menzognera volontà di colpire) chiunque parli con leggerezza di occupazione e apartheid in relazione allo Stato d’Israele. Tuttavia le notizie e le riflessioni che l’autore fornisce sulla situazione che sta intorno, in questo caso gli Stati Uniti, possono essere prese in considerazione. NsI

Il noto politologo Noam Chomsky prevede che il regime israeliano non sarà sempre in grado di beneficiare del sostegno degli Stati Uniti nella sua politica di continua usurpazione della terra palestinese.
   "Israele non sarà in grado di contare per sempre sul sostegno degli Stati Uniti", ha dichiarato Chomsky in un'intervista al sito web chiamato "themfadhel.com", citata, ieri, da diversi media palestinesi.
   Secondo l'intellettuale statunitense dal momento che Israele con le sue azioni negli ultimi anni si è messo in una posizione contraria all'opinione pubblica, tra cui i settori più liberali e la gioventù in generale, compresi gli ebrei americani, non è difficile immaginare che in un futuro, non troppo lontano, le autorità israeliane perderanno il sostegno incondizionato della Casa Bianca per quanto riguarda la politica di apartheid applicata alla popolazione dei territori palestinesi occupati.
   Ha spiegato che "il sostegno a Israele" negli Stati Uniti si trova sempre più nelle chiese evangeliche e in prevalenza tra i nazionalisti e razzisti, e contro di lei, ci sono le principali istituzioni, specialmente la Chiesa presbiteriana, dove di promuovono programmi di boicottaggio e disinvestimento , simile alla campagna internazionale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele (BDS).
   A questo proposito, ha spiegato che queste organizzazioni stanno adottando un approccio più critico nei confronti di quelle aziende statunitensi coinvolte nell'occupazione israeliana.
   In un'altra parte della sua intervista, Chomsky ha sottolineato che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nonostante tutto e ciascuno della sua propaganda sul cosiddetto "accordo del secolo", non ha alcuna soluzione per risolvere il conflitto israelo-palestinese.
   Dal suo punto di vista, se i palestinesi continuano a spingere come fanno a livello internazionale nella difesa della loro causa, saranno in grado di creare opportunità significative per ottenere importanti cambiamenti nelle politiche statunitensi per quanto riguarda la Palestina.

(l’Antidiplomatico, 18 agosto 2018)


L'Onu è ormai il covo dei terroristi di Hamas

La politica filo-islamica del Palazzo di Vetro. Il piano di pace per la Palestina è un tentativo di disarmare Israele finanziando le organizzazioni antiebraiche.

di Giovanni Sallusti

A breve l'Onu ingloberà nella propria Carta costitutiva la proposizione chiave dello Statuto di Hamas, «Israele sarà stabilito e rimarrà in esistenza finché l'islam non lo ponga nel nulla», e sarà il passo definitivo.
  Esageriamo? Prendete il contenuto dell'ultimo documento per «rafforzare la protezione dei palestinesi» nella Striscia di Gaza e nella West Bank presentato dal segretario generale Antonio Guterres, non dall'ultimo funzionario del Palazzo di Vetro, e fatene una laica valutazione.
  Già che il piano abbia l'intento esclusivo di proteggere i palestinesi, e non anche i cittadini israeliani oggetto quotidiano dell'amichevole pratica del lancio di razzi (solo pochi giorni fa sono stati sparati oltre 150 missili in una notte contro obiettivi civili) la dice lunga sull'approccio di Guterres e dei suoi burocrati alla questione, che è più o meno quello del dottor Goebbels: la vita di un ebreo vale sempre meno, nella scala morale. I quattro punti proposti, poi, sembrano dettati direttamente da Ismail Haniyeh, il capo di Hamas. Punto numero uno: la presenza di «esperti di Diritti Umani» delle Nazioni Unite, ovviamente per valutare i possibili crimini dei soldati israeliani, mica quelli del gruppo jihadista che usa donne e bambini come scudi umani ad uso e consumo delle bruttissime anime belle occidentali.
  Peccato che il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu sia ormai una dépendance di regimi islamisti o comunque di dittature che amerebbero assistere alla scomparsa dello Stato ebraico dalla carta geografica, come dimostra il grottesco bilancio del grottesco organismo: più di 70 risoluzioni approvate contro Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente, 7 contro la teocrazia omicida degli ayatollah iraniani, una contro i gentiluomini tagliateste dello Stato islamico. Pensate il livello d'imparzialità che avrebbero, questi inviati dell'ipocrisia.

 Soldi per i missili
  Seconda ideona di Guterres: aumentare ulteriormente i fondi destinati allo «sviluppo dei Territori palestinesi», Tradotto: più soldi ad Hamas per comprare più armi e scavare più tunnel dentro le viscere d'Israele, ancora meno sicurezza per i civili israeliani, identiche fame e miseria per i civili palestinesi. Come è sempre stato quando sono piovuti finanziamenti internazionali per gli islamisti che hanno monopolizzato la causa palestinese, e come sempre sarà finché durerà tale monopolio.
  Terzo punto: una missione di osservatori da schierare nei punti caldi, quindi «nei pressi dei checkpoint e degli insediamenti israeliani», per scovare eventuali abusi.

 Favori ai violenti
  Eccola, l'unidirezionalità ormai esplicita, il fiancheggiamento ormai privo di inibizioni nei confronti dei bombaroli di Hamas: gli unici luoghi dove possono darsi abusi sono quelli dove i militari di uno Stato sovrano e liberale difendono la loro popolazione dall'aggressione di una banda terrorista che, come da Statuto, vuole «porla nel nulla».
  Infine il quarto punto, con cui si arriva dove finora nemmeno quest'Onu biforcuta e filointegralista era mai arrivata, la dichiarazione diretta di bellicosità nei confronti di Israele. Guterres ipotizza infatti lo «schieramento di una forza armata internazionale e di una forza di polizia» sotto l'egida della Nazioni Unite con il compito di fornire «protezione fisica» ai palestinesi. Cioè, l'Onu prevede di mettersi in posizione di guerra contro le truppe israeliane? Da un lato fa ridere, a maggior ragione se si pensa all'ombrello protettivo americano che scatterebbe immediatamente, tanto più sotto la presidenza di Donald Trump, e già questo scenario è un buon motivo per rimuovere il segretario generale ed interdirlo, causa incapacità di intendere e di volere. Dall'altro, la boutade diventa inquietante nel momento storico in cui l'autocrate turco Erdogan resuscita il vecchio sogno panislamico della costruzione di un esercito unico maomettano che si precipiti a difendere la Palestina e soprattutto ad «estrarre il pugnale piantato nel cuore dell'lslam», cioè Israele. Parole recenti, terribili, ma passate come l'acqua fresca nella sede distaccata di Hamas, 760 United Nations Plaza, New York, Palazzo di Vetro.

(Libero, 19 agosto 2018)


Ferrara - Documenti, sigilli, statue, Ebrei: una storia italiana

di Chiara Pagani

Ritratto dello Pseudo-Seneca
Nel dicembre dello scorso anno a Ferrara è stato inaugurato il Meis, il Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah (meisweb.it), che fino al 16 settembre ospita la mostra Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni che, con oltre duecento oggetti tra cui manoscritti, documenti, anelli, sigilli, statue, ripercorre il primo millennio di ebraismo italiano, dall'età romana al Medioevo. Numerosi manufatti provengono dall'archivio della Genizah del Cairo ma sono notevoli anche i prestiti di musei italiani e di altre istituzioni straniere. Le cinque sezioni della mostra descrivono la provenienza e le rotte della diaspora dopo la distruzione del Tempio di Salomone, in un percorso segnato da integrazione o da intolleranza nei rapporti con la cultura pagana e nell'affermarsi del cristianesimo. L'esposizione documenta la storia di una comunità che forse non superò mai le 50 mila persone ma che ha profondamente influenzato la cultura italiana.

(Corriere della Sera, 19 agosto 2018)


Il genero «farfallone» di Nasser fu l'agente più prezioso d'Israele

In un saggio di Ahron Bregman (Einaudi) la storia dell'egiziano Ashraf Marwan, divenuto spia. Amico dell'autore, l'informatore è morto in modo misterioso nel 2007.

di Paolo Salom

Il 5 ottobre 1973 cinque palestinesi vengono arrestati dalla polizia in un appartamento di Ostia. Da un armadio saltano fuori due missili Sa-7 di fabbricazione sovietica, avvolti nei tappeti che erano serviti per trasportarli in treno da Roma: i terroristi intendevano usarli per abbattere un aereo della El Al in decollo da Fiumicino, nell'imminenza dello scoppio della guerra del Kippur. Come avevano fatto gli agenti italiani a sapere dell'attentato in preparazione e a sventare una strage? Risposta facile: furono informati dal Mossad.
   Quel che però è rimasto nell'ombra per decenni è l'origine della «soffiata»: una spia al servizio degli israeliani capace di rivelare i segreti del regime egiziano, allora il nemico più temibile dello Stato ebraico. Ashraf Marwan — questo il suo nome — non è stato un informatore qualsiasi. Il Mossad — con il governo di Gerusalemme — lo ha considerato «l'agente più prezioso della storia», l'uomo cui si deve (probabilmente) la sopravvivenza di Israele. A raccontare la sua incredibile vicenda è, in un agile saggio pubblicato da Einaudi, lo storico Ahron Bregman, docente al King's College di Londra (La spia che cadde sulla terra, pp. 102, e 14,50), diventato casualmente suo amico tanto da entrare lui stesso negli eventi che portarono alla sua morte nel 2007.
   Nato nel 1944 in una famiglia della media borghesia cairota, Ashraf Marwan salì rapidamente — ma non senza inciampi — i gradini del potere sposando Mona, la figlia più bella e prediletta di Gamal Abdel Nasser che, peraltro, non ebbe mai simpatia per quel genero «farfallone e inaffidabile». Ma dopo la morte del raìs, e l'ascesa del suo vice, Anwar Sadat, le cose cambiano rapidamente. Chiamato al fianco del nuovo presidente in «quota» della famiglia Nasser, Marwan nel 1970 contatta l'ambasciata israeliana a Londra, offrendo i suoi servigi. Se nei film le spie sono uomini (e donne) freddi, spietati, calcolatori, nella realtà — almeno quella raccontata da Bregman — emergono caratteri ben diversi. Intanto, da principio l'agente del Mossad che risponde per primo al telefono non riconosce il suo interlocutore e se lo lascia scappare. Marwan deve chiamare più volte prima di essere preso sul serio per la casuale presenza a Londra di due importanti funzionari del Mossad che ben sapevano chi fosse il «genero di Nasser». Cominciò così, nella diffidenza reciproca, il rapporto tra l'alto esponente del governo del Cairo e la struttura spionistica considerata la più efficiente al mondo. La spia che cadde sulla terra, per quasi trent'anni, rivelò piani e segreti capaci di spiegare e prevenire le mosse egiziane. Come l'attentato di Roma: voluto da Gheddafi in rappresaglia per l'abbattimento di un jet libico finito per errore sullo spazio aereo israeliano, fu prima organizzato dallo stesso Ashraf Marwan (fu lui a consegnare i missili ai palestinesi) e poi sventato grazie alle sue tempestive soffiate. Ma la spia fu in grado di avvertire il governo di Golda Meir dell'imminenza dell'attacco congiunto di Egitto e Siria (6 ottobre 1973) e, soprattutto, riuscì a fornire i piani di battaglia dell'esercito del Cairo così da consentire il contrattacco del generale Sharon e la sconfitta finale degli eserciti arabi.
   Resta da capire perché lo fece e come gli accadde di cadere dalla finestra del suo appartamento nel centro di Londra, il 27 giugno 2007, quando era ormai soltanto un ricco uomo d'affari che trafficava con immobili e armi. Alla prima domanda prova a rispondere Bregman, riportando la sua versione («dopo la Guerra dei sei giorni, del 1967, voleva essere dalla parte dei più forti») e immaginando che le ragioni fossero più semplici: bisogno di denaro, semplicioneria, desiderio di rivalsa. Alla seconda è ancora oggi difficile dare un senso: un'inchiesta ufficiale britannica si concluse senza una chiara versione dei fatti, omicidio e suicidio erano entrambi opzioni possibili. Certo, la «caccia» di cui era stato oggetto da parte dello storico israeliano non lo aveva aiutato: con il suo nome reso pubblico, era diventato inevitabilmente un «morto che cammina».

(Corriere della Sera, 19 agosto 2018)


Israele e l'apartheid

Lettera a L’Espresso

Nell'articolo su Israele (L'Espresso n. 33) Davide Lerner ci presenta Israele come uno Stato razzista e discriminatorio. In realtà nessuna delle disposizioni specifiche previste nella nuova legge è antidemocratica. Basta leggerla. Non c'è nessun articolo che priva gli arabi di tutti i diritti individuali all'interno di Israele. né impedisce la possibilità che gli arabi palestinesi esercitino l'autodeterminazione in Cisgiordania e Gaza, che non fanno parte dello Stato d'Israele. L'unica cosa che proibisce è uno stato arabo all'interno dei confini, di Israele.
Alessandro Parravlclnl

(l’Espresso, 19 agosto 2018)



I discepoli sulla via di Emmaus

“Due di loro se ne andavano in quello stesso giorno a un villaggio di nome Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi; e parlavano tra di loro di tutte le cose che erano accadute. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti a tal punto che non lo riconoscevano. Egli domandò loro: «Di che discorrete fra di voi lungo il cammino?» Ed essi si fermarono tutti tristi. Uno dei due, che si chiamava Cleopa, gli rispose: «Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?» Egli disse loro: «Quali?» Essi gli risposero: «Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose. È vero che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; andate la mattina di buon’ora al sepolcro, non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato tutto come avevano detto le donne; ma lui non lo hanno visto».
Allora Gesù disse loro: «O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette! Non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?» E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano.
Quando si furono avvicinati al villaggio dove andavano, egli fece come se volesse proseguire. Essi lo trattennero, dicendo: «Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire». Ed egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro. Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma egli scomparve alla loro vista. Ed essi dissero l’uno all’altro: «Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentr’egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?»
E, alzatisi in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli undici e quelli che erano con loro, i quali dicevano: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone». Essi pure raccontarono le cose avvenute loro per la via, e come era stato da loro riconosciuto nello spezzare il pane.”

Dal Vangelo di Luca, cap. 24

 


Abbas esorta i palestinesi alla resistenza popolare contro Israele

RAMALLAH - I palestinesi "continuino a infiammare la terra con la resistenza popolare" contro Israele. È questo l'appello lanciato dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas al termine della riunione del Comitato centrale dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), conclusa oggi a Ramallah in Cisgiordania. I palestinesi "continuino a infiammare la terra con la resistenza popolare" di cui "non devono sottovalutare l'importanza" ha affermato Abbas, secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post".
   Abbas è poi intervenuto sul contrasto che oppone il partito da lui presieduto, Fatah, e l'Anp ad Hamas, il movimento che controlla la Striscia di Gaza dal 2006. A tal riguardo, Abbas è tornato a chiedere ad Hamas di cedere il pieno controllo sulla Striscia di Gaza all'Anp. In caso contrario, ha evidenziato Abbas, Hamas "dovrà assumersi la piena responsabilità" dell'enclave costiera palestinese. A Gaza, secondo Abbas, "un solo Stato, una sola legge, un solo sistema e una sola forza di sicurezza". Inoltre, per Abbas i finanziamenti diretti alla Striscia di Gaza "devono essere amministrati dall'Anp".
   Durante il Comitato centrale dell'Olp è stata poi ribadita l'ostilità dei palestinesi al piano per la pace in Medio Oriente da tempo annunciato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e non ancora presentato. Abbas ha ripetuto la sua richiesta che Hamas abbia il pieno controllo della Striscia di Gaza al governo dell'Autorità Palestinese con sede a Ramallah. Altrimenti, ha detto, Hamas dovrebbe assumersi la piena responsabilità dell'enclave costiera. Nel comunicato pubblicato al termine della riunione, il Comitato centrale dell'Olp afferma che "l'amministrazione degli Stati Uniti è alleata con il governo di occupazione israeliano" e pertanto "è parte del problema, non della soluzione".

(Agenzia Nova, 18 agosto 2018)


«Militari a difesa dei palestinesi». Arriva il no di Israele

Il segretario generale dell'Onu ha avanzato quattro proposte per proteggere i civili: «Ma ci vuole una cooperazione fra le parti».

Antonio Guterres
NEW YORK - Una forza armata militare o di polizia, oppure una missione di osservatori civili in zone sensibili, come i checkpoint, e la recinzione di Gaza e delle aree vicino agli insediamenti: sono due delle quattro proposte di Antonio Guterres per proteggere i civili palestinesi nei Territori sotto occupazione israeliana.
   Il segretario generale dell'Onu ha sottolineato che, per ognuna di queste raccomandazioni, sarebbe necessaria una cooperazione fra israeliani e palestinesi ma l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Damon, ha bocciato subito il piano: «L'unica protezione di cui necessita il popolo palestinese è dalla sua leadership. L'Autorità palestinese incita la gente a demonizzare e ad attaccare gli ebrei e Hamas, organizzazione terrorista, sfrutta quelli sotto il suo controllo mettendoli intenzionalmente in pericolo».
   Lo stesso Guterres ha sottolineato d'altra parte che una nuova missione militare o di polizia stabilita dall'Onu o operante sotto mandato Onu richiederebbe l'approvazione del Consiglio di sicurezza. E qui il veto degli Usa, stretti alleati di Israele, sarebbe scontato.
   Nel suo rapporto il segretario generale delle Nazioni Unite suggerisce anche una più robusta presenza dell'Onu sul terreno, con ulteriori esperti politici e di diritti umani che potrebbero rafforzare le capacità di prevenzione delle Nazioni Unite, aumentarne la visibilità dell'organizzazione e «dimostrare l'attenzione e l'impegno della comunità internazionale» per proteggere i civili palestinesi.
   Guterres ha sollecitato anche di rafforzare i programmi e l'assistenza umanitaria dell'Onu ma ha denunciato che l'appello delle Nazioni Unite per circa 540 milioni di dollari destinati ai servizi di base e a sostenere 1,9 milioni di palestinesi vulnerabili ha raccolto finora solo un quarto dei fondi.
   Senza contare i forti tagli all'Unrwa, l'agenzia per i rifugiati palestinesi, che ha un deficit di 217 milioni di dollari dopo che gli Usa hanno congelato 300 milioni di finanziamenti per il "no" ai negoziati di pace da parte dell'autorità palestinese.
   Il rapporto di 14 pagine costituisce la risposta di Guterres alla richiesta contenuta in una risoluzione dell'Assemblea generale dell'Onu, sostenuta dai palestinesi e adottata a giugno, in cui si accusava Israele per le violenze a Gaza, dove il bilancio da fine marzo è di 171 palestinesi uccisi. La risoluzione chiedeva appunto al segretario generale di avanzare proposte per proteggere i civili palestinesi e raccomandazioni per un «meccanismo di protezione internazionale».
   Guterres ha sottolineato che 50 anni di occupazione militare israeliana, «le costanti minacce alla sicurezza, le deboli istituzioni politiche e un processo di pace in stallo, rappresentano per la protezione una sfida altamente complessa politicamente, legalmente e dal punto di vista pratico».
   Il segretario generale ha quindi invitato i 193 Stati membri dell'Assemblea generale a esplorare «tutte le misure pratiche e realizzabili che possano significativamente migliorare la protezione della popolazione palestinese» e anche «la sicurezza dei civili israeliani».

(tio.ch, 18 agosto 2018)


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Scandalosa proposta delle Nazioni Unite a favore di Hamas

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite torna alla carica con la proposta di una forza di interposizione a Gaza e in Cisgiordania sventolando l'ennesima risoluzione che condanna Israele ma che non nomina mai Hamas.

GERUSALEMME - Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha presentato ieri un documento contenente quattro opzioni volte a rafforzare la protezione dei palestinesi nella West Bank e nella Striscia di Gaza.
Con riferimento alla risoluzione dell'Assemblea della Nazioni Unite che lo scorso giugno condannava Israele per «uso eccessivo della forza» e che dava incarico al Segretario Generale di proporre una soluzione volta a garantire sicurezza per i cittadini palestinesi (non quelli israeliani), ieri Antonio Guterres ha avanzato l'ennesima proposta volta a proteggere i terroristi islamici più che la popolazione di Gaza che, a dire il vero, andrebbe protetta da Hamas piuttosto che da Israele....

(Rights Reporters, 18 agosto 2018)


Gli israeliani che lasciano il Paese sono più di quelli che ritornano

di Yossy Raav

Secondo il rapporto del Central Bureau of Statistics (CBS), il numero di israeliani che hanno lasciato Israele per più di un anno è stato inferiore a quello del decennio precedente. E questa è una buona notizia. Ma il numero di israeliani che sono tornati dopo aver risieduto all'estero per più di un anno è diminuito rispetto al periodo precedente. La differenza è di 6300 unità.
Secondo le cifre, il numero di israeliani all'estero alla fine del 2016 è stato stimato tra 560.000 - 596.000 residenti, esclusi i bambini nati all'estero da israeliani. Il rapporto rivela inoltre che la durata del soggiorno all'estero della maggior parte dei rimpatriati è relativamente breve. Circa il 65% è tornato in Israele dopo al massimo tre anni all'estero.
Circa 15.200 residenti israeliani, lo 0,18% della popolazione totale, hanno lasciato il paese nel 2016 e vi sono rimasti per più di un anno. Undicimilacento di loro erano ebrei, mentre 4.200 erano di altre etnie. L'età media di coloro che lasciano il paese è 28,5, il 53% dei quali sono uomini. Tra gli uomini sopra i 15 anni, la metà erano single.

(Italia Israele Today, 18 agosto 2018)


Le illusioni europee sull'Iran - Al Arabiya

di Giuseppe Sandro Mela

I problemi culturali, politici, economici e militari legati all'Iran sono complessi e sfaccettati. Difficile cercare di comprenderli senza aver anche valutato attentamente come le svariate componenti in gioco vedano la questione.
A seguito saranno riportate alcune considerazioni fatte dagli arabi.
Al Arabiya evidenzia alcune problematiche, diplomatiche e giuridiche, di non poco conto.
  1. In primo luogo, l'Iranian deal non esiste, né può esistere, da un punto di vista diplomatico e giuridico, non essendo le parti contraenti legalmente abilitate a firmare trattati internazionali. Non è lecito invocare the rule of laws per poi disattenderle.
  2. In secondo luogo, l'Unione Europea non compariva tra gli attori dell'Iranian deal, di conseguenza Mrs Mogherini non ha diritto di intervenire in materia, cercando di assumere il ruolo di parte contraente. Una cosa è esprimere pareri politici, ed un'altra invece il farlo con autorità giuridicamente legale.
  3. In terzo luogo, Mr Trump non ha violato nessun termine degli accordi: il provvedimento EO13846 stabilisce soltanto che le imprese che commercializzano o producono in Iran non saranno ammesse al mercato statunitense ed i loro beni confiscati. In altri termini, questo provvedimento inerisce le imprese europee, non i relativi governi né, tanto meno, l'Unione Europea.
  4. In quarto luogo, sta di fatto come l'Unione Europea si sia fatta cogliere del tutto impreparata dalle mosse del presidente Trump. I dirigenti europei dovrebbero prendere atto di come si possa ragionare ed agire anche in modo differente da come loro pensavano fosse l'unico modo possibile.
  5. In quinto luogo, quattro quinti del commercio europeo con l'Iran è sostenuto da imprese tedesche, francesi, inglesi ed italiane, sicuramente europee ma non per questo rappresentative dell'Unione Europea.
Sono tutte considerazioni che sembrerebbero esser degne di nota.

(Senza Nubi, 18 agosto 2018)


Hamas e Israele verso la tregua. "Valichi aperti per un anno"

di Giordano Stabile

Un anno di tregua, valichi aperti, acque accessibili ai pescatori e una linea di collegamento marittima con Cipro che consenta di far uscire la Striscia di Gaza dall'isolamento. Sono i termini dell'accordo fra Hamas e Israele, che sarebbe stato raggiunto con la mediazione dell'Egitto e anticipato da media israeliani e arabi. Una svolta che si spera possa interrompere cinque mesi di violenze, cominciate con le «marce del ritorno» i130 marzo scorso e segnati dalla dura reazione israeliana, oltre 160 palestinesi uccisi, due ancora ieri, e dai lanci di razzi dei militanti, con decine di feriti israeliani.
  La volontà di arrivare a una tregua, ed evitare un'altra operazione di terra come quella del 2014, era però condivisa sia da Hamas che dal governo di Benjamin Netanyahu. E dal Cairo, che vuole «disinnescare» la bomba umanitaria nella Striscia per stringere i rapporti di sicurezza con lo Stato ebraico e venire a capo dell'insorgenza islamista nel confinante Sinai. L'accordo, secondo l'Egitto, sarà annunciato la prossima settimana.

 Valichi aperti e acque accessibili
  Prevede un tregua di un anno, l'apertura di tutti i valichi di frontiera, l'estensione fino a 17 chilometri della zona di pesca davanti a Gaza e un collegamento marittimo fra il porto di Gaza e Cipro. La linea, un'idea del ministro delle Difesa israeliano Avigdor Lieberman, permetterà lo scambio di merci e l'arrivo di aiuti umanitari senza la strozzatura dei valichi, per favorire la ricostruzione.
  L'accordo è arrivato però senza il consenso dell'Autorità nazionale palestinese e di Al-Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. Azzam Al-Ahmad, dirigente di Al-Fatah, ha parlato ieri di «tradimento»l colloqui del Cairo, ha aggiunto, «non sono un negoziato ma un festival di annunci». A Ramallah è arrivato due giorni fa il capo dell'Intelligence egiziana Abbas Kamel, ma non ha convinto i vertici di Al-Fatah. Egitto e Israele hanno così deciso di andare avanti da soli. Il ritorno dell'Autorità nella Striscia e il disarmo dell'ala militare di Hamas sono stati per ora accantonati.
  L'Egitto garantirà che Hamas e i gruppi satelliti non compiano alcun attacco e questo basta a Netanyahu, che l'anno prossimo si gioca la rielezione. La polizia ha interrogato ieri per l'undicesima volta il premier, sospettato in tre casi di corruzione. Ma è la pace, non una nuova guerra, la carta vincente per allontanare l'ombra degli scandali: i cittadini non vogliono più dover correre verso i rifugi «entro 15 secondi», quando piovono i razzi sulle città del Sud. Ma non vogliono neanche contare i soldati caduti, come durante l'ultima operazione Protective Edge: 73 morti israeliani, 2125 palestinesi.

(La Stampa, 18 agosto 2018)


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Verso la tregua fra Israele e Hamas

Piano di Onu ed Egitto per scambiare i prigionieri con le salme dei soldati ebraici.

di Maurizio Stefanini

Niente da fare. Altri morti e feriti hanno interrotto il cessate il fuoco al confine della Striscia di Gaza, proprio mentre i media della regione davano per ormai partito un processo per arrivare a una tregua duratura tra Hamas e Israele. Una tregua di un anno; la riapertura del valico merci di Kerem Shalom e il ripristino a 9 miglia della zona di pesca; assistenza medica e umanitaria; uno scambio di prigionieri che porti alla restituzione delle salme di soldati israeliani uccisi nel conflitto del 2014 e dei civili trattenuti nella Striscia da Hamas; la ricostruzione delle infrastrutture di Gaza con fondi stranieri; l'introduzione di un corridoio navale per un traffico di cargo tra Cipro e la Striscia di Gaza sotto controllo israeliano: sarebbero questi i sei punti principali di quella possibile intesa a lunga scadenza tra Hamas e Israele sulla quale starebbero lavorando Onu ed Egitto, ma per la quale ci sarebbero state anche trattative dirette tra Israele e Qatar. Uno dei due protagonisti della trattativa sarebbe il capo dell'intelligence egiziana generale Abbas Kamel: mercoledì sarebbe andato a Tel Aviv e giovedì in Cisgiordania, a vedere Abu Mazen. Un altro sarebbe il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman, di cui sulla stampa israeliana è apparsa ieri la notizia che due mesi fa si sarebbe incontrato segretamente a Cipro con un inviato del Qatar, appunto per discutere a sua volta su Gaza.

 Il conflitto non cessa
  Il cessate il fuoco, in realtà, era entrato in vigore il 9 agosto. E anche il punto sulla riapertura del valico e sulla pesca è scattato dal 15 agosto. In effetti c'era stato un altro cessate il fuoco il 21 1uglio, che però era stato interrotto per 24 ore, con un fitto lancio da Gaza di 180 razzi che avevano fatto 11 feriti. Israele aveva risposto con raid in cui erano stati colpiti 150 obiettivi e per i quali erano morti 3 palestinesi. Di nuovo, però, scontri tra manifestanti palestinesi e forze israeliane lungo la barriera al confine tra la Striscia di Gaza e Israele hanno provocato ieri vittime: almeno due palestinesi morti, un 30enne e un 26enne, e 241 feriti, compresi gli intossicati dai gas lacrimogeni. Nel frattempo c'è stato pure un uomo che è stato ucciso dalla polizia israeliana dopo aver cercato di accoltellare un agente alla porta dei Leoni, nella Città Vecchia di Gerusalemme: si tratta di un arabo israeliano di 30 anni, proveniente dalla città di Umm al-Fahm. Negli ultimi due anni c'è stata un'ondata di attacchi con coltelli contro civili e membri delle forze di sicurezza israeliane, ma negli ultimi mesi erano considerevolmente diminuiti.

 Scontri al confine
  Gli scontri al confine sono avvenuti nell'ambito di una Marcia del Ritorno organizzata da Hamas. Hamas d'altronde ufficialmente nega ogni trattativa, affermando che gli incontri al Cairo di una sua delegazione riguardavano solo questioni interne palestinesi, e non una trattativa con Israele come affermato da tutti. L'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha preso posizione al riguardo, mentre il ministro della Difesa Lieberman ha negato ogni tipo d'accordo. Ma l'iniziativa di dialogo è stata approvata dal gabinetto israeliano, e il quotidiano Haaretz conferma, spiegando appunto dei sei punti da mettere in pratica gradualmente nell' ottica di un ripristino della situazione ante guerra del 2012 e di quella del 2014.
Un problema base è che Hamas non vuole una pace che comporterebbe un riconoscimento di principio di Israele - sul modello di quelle che lo Stato ebraico ha stipulato con l'Egitto, la Giordania e l'Anp. Invece parla di hudna: un tipo di tregua fuoco simile a quelle stipulati dal profeta Maometto con i suoi nemici, e che non comporta il loro riconoscimento. In effetti, dal momento che l'islam ritiene avere come propria missione la conquista del mondo in passato le potenze islamiche non firmavano mai con i non musulmani trattati che potessero comportare una rinuncia anche solo implicita a questo obiettivo. Le cose sono ovviamente cambiate con l'occidentalizzazione - e prima ancora con le sconfitte militari a catena che l'Impero Ottomano iniziò a inanellare a partire dalla fine del secolo XVlI, e che gli resero impossibile continuare a fare lo schizzinoso. Ma l'integralismo islamico pretende appunto di tornare a quella impostazione, e anche Hamas si attiene appunto a questa dottrina.

(Libero, 18 agosto 2018)


Gli omicidi mirati del Mossad: un'arma segreta per Israele

di Lorenzo Vita

L'omicidio di Aziz Asbar, lo scienziato siriano ucciso con l'esplosione della sua macchina a Masyaf, ha da subito attratto l'attenzione dei media. E in molti, immediatamente, hanno puntato il dito contro Israele. Troppi gli indizi a favore della tesi per cui dietro l'uccisione di Asbar vi fosse il Mossad.
L'importanza dello scienziato siriano, così come l'importanza del centro di ricerca che dirigeva, già bombardato da Israele, sono stati individuati subito come motivi per credere che i servizi israeliani avessero agito nell'ombra per eliminare un avversario scomodo. Perché questo era Asbar, soprattutto per i suoi legami con il programma missilistico iraniano.
Israele, come sempre, non ha smentito le accuse rivolte nei suoi confronti. È una politica che lo Stato ebraico segue da tempo. Lo fa per evitare di dare certezze ai nemici, ma anche per dare all'esterno un'immagine di potenza. Gli altri Paesi e le altre agenzie di intelligence devono credere che il Mossad possa arrivare ovunque vogliono, per colpire qualunque nemico.
Perché la morte di Asbar è solo l'ultimo di una serie di episodi controversi di cui sono stati incolpati i servizi segreti di Israele. E, come ricorda Al Monitor, questa uccisione ha ricordato due omicidi di cui era stato accusato il Mossad: l'assassinio del capo di stato maggiore di Hezbollah Imad Mugniyah, avvenuto a Damasco nel febbraio 2008; e l'omicidio del generale siriano Mohammed Suleiman nella sua villa a Tartous, nell'agosto dello stesso anno.

 L'uccisione di Mugniyah
  L'uccisione di Mugniyah è considerata ancora oggi uno degli attacchi più audaci del Mossad. Noto come "l'uomo senza volto", il leader di Hezbollah, considerato uno dei fondatori del movimento libanese, ha vissuto per decenni senza che il mondo ne conoscesse l'identità. Di lui si aveva soltanto una foto del 1985, dopodiché pochissimi hanno avuto modo di conoscere il suo volto.
Mugnyah dormiva ogni notte in un posto diverso, proprio perché sapeva che Israele e Stati Uniti lo avessero messo nel mirino. Una caccia senza interruzione terminata nel 2008, quando la sua automobile è esplosa nel centro di Damasco. Un assassinio complesso. Aver trovato il luogo in cui dormiva, individuato l'automobile e inserito un congegno esplosivo al suo interno (o secondo un'altra ipotesi un'autobomba vicino alla macchina del leader libanese), non furono azioni di un servizio qualsiasi. E proprio per questo tutti accusarono il Mossad.
I servizi israeliani negarono il coinvolgimento, ma il Dipartimento di Stato americano rilasciò una dichiarazione molto sibillina: "senza di lui, il mondo è un posto migliore", questo fu il commento di Sean McCormack, allora portavoce del Dipartimento Usa.

 L'omicidio di Suleiman
  L'assassinio di Muhammad Suleiman, invece, ha colpito direttamente il governo di Damasco. Secondo i media, il generale siriano, uno dei più stretti collaboratori di Bashar al-Assad, è stato freddato da un cecchino con un colpo alla testa e uno al collo mentre cenava nella sua villa al mare, a Tartous.
Anche in questo caso, l'importanza dell'uomo ucciso, unita alla precisione dell'operazione, fecero immediatamente pensare al Mossad. Alcune fonti parlano di Suleiman come il principale consigliere per la sicurezza del presidente. Altre fonti ritengono fosse il collegamento delle forze armate siriane con Hezbollah. Poi, nel 2010, Wikileaks ha pubblicato un cablogramma della National security agency che definiva Suleiman il "consigliere presidenziale per l'approvvigionamento di armi e per le armi strategiche".
Infine, un'indagine pubblicata da The Intercept, grazie alle confessioni di Edward Snowden, ha riferito che l'agenzia d'intelligence americana aveva intercettato le comunicazioni israeliane che confermavano che l'omicidio fosse opera dei servizi dello Stato ebraico. Lo si può leggere nei documenti pubblicati dallo stesso sito americano.Il motivo della morte era da ricercare nel fatto che Suleiman fosse uno dei personaggi di spicco del programma nucleare siriano.
E non a caso, un anno prima, Israele bombardò con un'operazione clandestina il reattore di Deir Ezzor. Proprio per questo motivo, in molti vedono la morte di Asbar come una perfetta ripetizione di quella morte, avvenuta 10 anni fa a Tartous.

 L'omicidio di Mahmoud al-Mabhouh
  Come scrivemmo su questa testata, di particolare importanza in questi ultimi anni è stato l'omicidio del Mahmoud al-Mabhouh, un alto funzionario di Hamas ucciso a Dubai. la sua morte, orchestrata direttamente da Parigi dai servizi segreti israeliani, è stata una delle operazioni più clamorose e forse anche meno riuscite da parte del Mossad.
La morte del dirigente palestinese, avvenuta per mano di sicari arrivati direttamente con un volo Air France dalla capitale francese a Dubai, è stata ripresa dalle telecamere di sicurezza del luogo dell'omicidio. In questo caso, la falla nel sistema è stata evidente. La polizia degli Emirati ha reso pubbliche le immagini dell'assassinio, di fatto facendo vedere a tutto il mondo un'operazione dei servizi israeliani.

 La recente escalation di omicidi
  A più di due anni dall'insediamento di Yossi Cohen come direttore del Mossad. E in questi due anni e mezzo, l'agenzia israeliana ha avuto un'impennata di questo tipo di operazioni. Dalla nomina di Choen per mano di Benjamin Netanyahu, il Mossad ha aumentato il numero degli omicidi mirati e sembra assolutamente intenzionata a non arretrare.
Una delle prime operazioni che si presume essere stata compiuta da Israele, è stata l'omicidio dell'ingegnere Mohamed Zoari. Fuggito dalla Tunisia, l'ingegnere, esperto di droni, si unì alle Brigate Ezzedin al-Qassam di Hamas. L'uomo venne freddato a Sfax da due assalitori che non lasciarono alcuna traccia, se non due passaporti bosniaci. Hamas incolpò subito il Mossad dell'omicidio. Israele, come sempre, non confermò né smentì, ma il ministro della Difesa Avigdor Lieberman commentò la smorte dell'esperto di droni di Hamas dicendo che "non avrebbe certo vinto il Nobel per la pace".
A gennaio di quest'anno, un altro attentato sospetto. Questa volta, ad essere coinvolto nell'esplosione un altro nemico dello Stato di Israele: l'attivista di Hamas, Mohammed Hamdan. Come scrivemmo su questa testata, in quel caso l'attentato avvenne attraverso l'esplosione di una bomba al passaggio dell'automobile del dirigente palestinese nel centro di Sidone. L'uomo è sopravvissuto all'attentato. In molti pensarono che in realtà l'obiettivo non fosse lui, ma il fratello, Osama, uno dei più importanti funzionari di Hamas. Ma potrebbe essere anche stato un avvertimento per entrambi.
Ad aprile, un nuovo omicidio. A morire, questa volta, un ricercatore palestinese legato ad Hamas, Fadi Mohammad al-Batsh, ucciso a Kuala Lumpur, in Malesia, da due sicari in motocicletta. Secondo Al Monitor, il ricercatore stava lavorando al "Precision Project", un presunto piano di creazione di un sistema balistico ideato da Hezbollah, Iran, Siria e Hamas.

 L'Iran al centro delle attenzioni di Israele
  Israele ha da molti anni un obiettivo: fare in modo che l'Iran non abbia più la capacità di possedere un'arma nucleare. Il programma nucleare iraniano è al centro dei pensieri di Netanyahu. E, come ha scritto la rivista americana Politico, il Mossad si era preso carico anche di un programma di eliminazione fisica di molti scienziati legati al programma atomico degli Ayatollah.
Adesso, significa semplicemente unire i puntini come un grande gioco di enigmistica. Tutti questi omicidi hanno effettivamente un denominatore comune. Tutti i morti erano persone che avrebbero sicuramente accresciuto le capacità militari degli avversari di Israele, nessuno escluso. Leader militari, ricercatori, ingegneri, chiunque era in grado di offrire un miglioramento sensibile alla potenza degli avversari dello Stato ebraico. E sono morti, tutti, in circostanze per cui si può credere che il Mossad abbia operato.
Chiaramente, come ogni operazione dei servizi che si rispetti, esse devono rimanere "anonime". La firma non c'è su nessuna di queste uccisioni. Ma è interessante che questa escalation di omicidi sia in atto proprio quando Israele ha avuto l'ok degli Stati Uniti ad applicare il massimo livello di pressione sull'Iran così come il placet a una serie di azioni nei confronti di Hamas. Netanyahu e Cohen si sentono evidentemente molto più sicuri.

(Gli occhi della guerra, 17 agosto 2018)


Atalanta - Hapoel Haifa 2-0

Parole sincere del tecnico israeliano, che riconosce la forza della squadra di Gasperini, definita "di almeno venti volte superiore tecnicamente".

Il tecnico israeliano, Nir Klinger, rende onore al merito dei nerazzurri: "Abbiamo commesso meno errori dell'andata, il primo tempo è stato ottimo, ma il divario tecnico è decisivo. Preferisco unirmi al cordoglio terribile per i morti sull'autostrada a Genova dell'altro ieri. Ci ha colpiti tutti".
"A casa nostra l'Atalanta era davvero di un altro livello rispetto a noi, ma noi le abbiamo facilitato la chiusura della pratica. Stavolta invece a livello tattico siamo andati bene e nel primo tempo i nerazzurri hanno chiuso sullo zero a zero, e potevamo anche segnare. Nella ripresa si sono rivisti sbagli sul piano difensivo e gli avversari hanno potuto far entrare giocatori freschi"
"Erano vent'anni che il mio club non giocava in Europa e queste due partite mi hanno regalato ottime sensazioni per i miei ragazzi e per il nostro futuro. Abbiamo fatto già tanto contro una squadra dal potenziale di almeno venti volte superiore al nostro".
"Questa esperienza ci è servita per crescere. Faccio i miei auguri al team di Gasperini, ottimo e competitivo".

(Calcio Atalanta, 17 agosto 2018)


Israele, ecco il nuovo "forziere" del gas mediterraneo

Il ruolo di Energean, i riverberi sulla geopolitica del mare nostrum e la possibilità di immaginare nuovi vettori, che esportino gas a Cipro o in Egitto

di Francesco De Palo

 
212 miliardi di metri cubi di gas e 101 barili di idrocarburi liquidi: sono il potenziale delle nuove risorse presenti nei giacimenti offshore israeliani. Significa che, al netto dei nuovi gasdotti e delle interferenze dei players contrari, è Israele che ha in mano il pallino delle nuove dinamiche legate agli idrocarburi. Fatti, analisi e scenari.

 Nuovo forziere
  Secondo il Ceo della compagnia greca Energean, Mathios Rigas, è stato identificato un potenziale elevatissimo di gas naturale nel territorio israeliano con una probabilità molto alta di successo. È la ragione per cui Energean ha già avviato tutte le fasi preliminari per condurre perforazioni esplorative, anche perché tutti i rilievi tecnici convergono nell'associare i nuovi giacimenti ai bacini di Karish e Tanin.
Lo scorso dicembre Energean si è aggiudicata alcune licenze esplorative per i blocchi 12, 21, 22, 23, 31 vicini ai "serbatoi" di Karish e Tanin secondo la procedura avviata dal ministero dell'Energia di Tel Aviv. Solo per Karish, le cui attività inizieranno nel marzo 2019, il costo è stimato tra i 15 e i 25 milioni di dollari.
Energean dispone al momento di 13 licenze di esplorazione, cinque delle quali fuori da Israele in Grecia e Montenegro. La compagnia greca, che ha acquisito Karish e Tanin in Israele, è appoggiata dal gruppo Delek di Yitzhak Tshuva e Noble Energy.

 Rotta sul gas
  Lo scorso marzo il Cda di Energean aveva approvato un investimento da 1,6 miliardi di dollari nello sviluppo dei giacimenti di gas naturale Karish e Tanin. La fornitura di gas dai siti israeliani offshore è prevista per l'inizio del 2021. Lo sviluppo del Karish includerà la collocazione di un gasdotto che parte dal bacino attraverso il sistema di trasporto del gas naturale israeliano.
Lo sviluppo di Tanin, che è previsto solo in un secondo momento, includerà la perforazione di sei pozzi che saranno collegati a una piattaforma di stoccaggio e scarico di produzione fluttuante (la cosiddetta FPSO).
Quattro le banche coinvolte nel finanziamento di 1,275 miliardi di dollari per Energean, con un consorzio formato da Bank Hapoalim, Morgan Stanley, Societe Generale e Natixis. Il senior partner del consorzio, Bank Hapoalim, investirà 375 milioni di dollari e le tre banche straniere investiranno 300 milioni ciascuna.

 Scenari
  In Israele il gruppo Energean detiene il 70% dei nuovi blocchi e per questo ha già firmato contratti di vendita per un ammontare di 4,2 miliardi di metri cubi all'anno di gas (dai giacimenti già scoperti). Pertanto, attraverso le nuove scoperte, vi sarà una prospettiva di canalizzazione per 3,8 miliardi di altri metri cubi di gas.
Tamar, che ha iniziato la produzione nel 2013, è al momento la principale fonte di approvvigionamento di gas naturale per Israele, anche in riferimento alle esportazioni verso la Giordania. Secondo l'amministratore delegato di Delek Drilling, Yossi Abu, i dati aggiornati sulle riserve indicano che il potenziale geologico del bacino non è stato ancora sfruttato pienamente.
Ma cosa porta in grembo questo report? In primis un allargamento del contesto nella macro regione che dal Mediterraneo orientale dialoga con il nord Africa e con le nuove tratte europee legate al gas. In secondo luogo la possibilità di immaginare nuovi vettori, che esportino gas a Cipro o in Egitto, legandosi con i giacimenti già esistenti Zohr e Leviathan.
Per definire al meglio potenzialità e perimetro di azione sarà però necessario attendere il prossimo marzo, quando si svolgerà la perforazione esplorativa di Karish Nord, dove secondo le prime stime vi sarebbero risorse potenziali per 38 miliardi di metri cubi, con il 69% di probabilità di scoperta.

 Energean
  La compagnia ellenica Energean ha iniziato le sue operazioni acquisendo le licenze Prinos, nel nord-est della Grecia orientale nel 2007. In due lustri ha creato un portafoglio bilanciato di attività di produzione e sviluppo. Israele è uno dei mercati di gas naturale a crescita più rapida al mondo, poiché la domanda di gas è aumentata in media del 15,5% dal 2006 al 2016. Il consumo è aumentato ulteriormente fino a 10,3 BCM nel 2017, mentre secondo il rapporto del comitato Adiri (datato luglio 2018), il consumo raggiungerà 14,1 BCM nel 2025 e 25,7 nel 2042.
Energean produce anche dai giacimenti di petrolio Prinos e North Prinos e dal giacimento di gas naturale South Kavala, offshore nel nord est della Grecia. Secondo Netherland Sewell & Associates, Energean ha 39,5 milioni di barili di petrolio e 6 BCF di gas naturale con riserve che ammontano a 22,9 milioni di barili di petrolio e 5,3 miliardi di metri cubi di gas.
La compagnia dispone anche di un potenziale esplorativo significativo grazie alle licenze detenute in Israele, nell'Adriatico e nella Grecia occidentale.

(formiche.net, 17 agosto 2018)


Ambasciatore USA in Israele: non c'è motivo per evacuare gli insediamenti in Giudea e Samaria

Secondo quanto si legge nei media israeliani, l'Ambasciatore Usa a Gerusalemme, parlando durante un incontro con Yehudah Glick, membro della Knesset, portavoce principale della comunità israelita in Giudea e Samaria, avrebbe detto che nel piano di pace che ha prodotto il Presidente USA Donald Trump, non si evince alcun motivo per evacuare gli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria.
All'incontro, voluto da Glick per informare il diplomatico su alcuni progetti economici israelo-palestinesi, hanno partecipato il presidente del Consiglio regionale Har Hebron, Yochai Damari e Muhammad Nasser, uomo d'affari palestinese.
Glick e Damari hanno illustrato a Friedman un progetto per la realizzazione di un centro sanitario ad uso di entrambe le comunità, israeliana e palestinesi, che, nelle intenzione dei due dovrebbe servire a creare migliaia di posti di lavoro per i palestinesi.
Per Glick pensare al futuro insieme è l'unico modo per poter vivere in pace.
A margine, la nota del Dipartimento di Stato USA con cui l'amministrazione Trump precisa che le dichiarazioni di Friedman, sostenitore delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria, e che in qualità di presidente della American Friends of Bet El Institutions sostiene la comunità di Bet El, non riflettono necessariamente la politica estera USA.

(Osservatorio Sicilia, 17 agosto 2018)


Iran: Dichiarazioni di Khamenei dopo settimane di silenzio

Le dichiarazioni di Khamenei dopo diverse settimane di silenzio, dimostrano che il regime non ha alcuna via d'uscita dal mortale impasse che sta affrontando

di Mahmoud Hakamian*

 
Ali Khamenei
Le dichiarazioni del 13 Agosto 2018, rese dal leader supremo Ali Khamenei dopo settimane di silenzio riguardo alla crescente ondata di proteste popolari e alla caduta libera della valuta iraniana, il rial, dimostrano che egli non ha nessuna soluzione o strategia di fuga dall'impasse mortale che sta attanagliando tutto il regime.
   Nel tentativo di impedire il diffondersi del disfattismo all'interno delle fila del regime, Khamenei ha detto: "Alcuni malignamente asseriscono che il paese è all'impasse e che non c'è altra via d'uscita se non unirsi a qualche Satana o al Grande Satana. Chiunque dica che siamo arrivati all'impasse o è un ignorante o le sue affermazioni sono sovversive".
   Nel tentativo disperato e patetico di nascondere la corruzione dilagante all'interno del regime, ha aggiunto: "Alcuni sono andati troppo oltre con le loro dichiarazioni, chiamando tutti corrotti e utilizzando espressioni come 'corruzione sistematica'… Alcuni sono imprudenti quando parlano e quando scrivono. Non si può estendere la corruzione presente in alcune agenzie o tra alcune persone a tutto il paese nel suo complesso".
   Fingendo di ignorare i furti delle ricchezze del popolo iraniano perpetrati dai funzionari del regime, il loro spreco per finanziare gli anti-patriottici programmi nucleare e missilistico e le attività belliche all'estero, Khamenei ha dato la colpa della catastrofica situazione economica dell'Iran al suo presidente, Hassan Rouhani. Criticando la mancanza di prontezza del governo nell'affrontare le sanzioni ha detto: "La maggior parte dei recenti problemi economici sono dovuti alle misure prese all'interno del paese. Se fossero state intraprese azioni più efficacemente, più prudentemente, più velocemente e più decisamente, le sanzioni non avrebbero potuto avere tanto effetto".
   Khamenei ha anche tacitamente incolpato il governo del furto di "18 miliardi di dollari della valuta esistente nel paese" ed ha avvertito che la magistratura punirà "coloro che hanno causato la caduta della valuta nazionale".
   Sebbene abbia supervisionato i negoziati sul nucleare con i P5+1, Khamenei ha detto: "Sulla questione dei negoziati ho fatto un errore e a causa dell'insistenza dei politici (Rouhani e Javad Zarif) ho permesso di provare. Ma limiti specifici sono stati superati".
   Ma terrorizzato che qualunque cambiamento dello status quo aggraverebbe la situazione esplosiva in cui si trova la società, Khamenei ha detto: "Quelli che dicono che il governo deve dimettersi fanno parte dei piani del nemico. Il governo deve restare al suo posto e fare il suo dovere per risolvere le difficoltà con forza".
   Khamenei è stato anche costretto a rompere il suo silenzio sulla nuova ondata di proteste scoppiata nel paese, che ha definito "incidenti di Agosto che, nonostante gli enormi investimenti finanziari e politici del nemico, si sono rivelati essere molto limitati". Le proteste anti-governative durate tutta la settimana in molte città iraniane come Teheran, Karaj, Isfahan e Mashhad, a grido di "A morte Khamenei!", "A morte il dittatore", hanno dimostrato ancora una volta la determinazione del popolo iraniano nel voler rovesciare il regime al potere.
   Ammettendo che il suo regime si trova in uno stato estremamente vulnerabile e fragile, Khamenei ha detto: "Noi non negozieremo con l'America". Aggiungendo "Noi potremo entrare in pericolose manovre di negoziazione con l'America solo quando avremo raggiunto la capacità economica, politica e culturale che immaginiamo… Ma negoziare ora andrebbe certamente a nostro discapito ed è proibito… Anche se volessimo negoziare con gli americani, questo sarebbe un presupposto impossibile di per sé. Di sicuro non negozieremo mai con l'attuale governo (U.S.A.)".
   Pertanto Khamenei ha chiarito ancora una volta che qualunque cambiamento nell'atteggiamento di questo regime, porterebbe ad un cambio di regime.
   Respingendo totalmente qualunque possibilità di una guerra, Khamenei ha guastato la festa a quelli che hanno cercato di far passare una politica decisa nei confronti di questo regime terrorista come una dichiarazione di guerra. Khamenei ha detto: "Loro sventolano lo spettro di una guerra, ma non ci sarà nessuna guerra. Assolutamente non ci sarà nessuna guerra".
   La paura della guerra diffusa da alcuni è il disperato tentativo di salvare il regime dei mullah dalla sua caduta per mano del popolo iraniano che anela ad avere democrazia e sovranità popolare invece che questa teocrazia al potere.
   In un momento in cui durante le sue proteste il popolo dell'Iran grida "Lasciate stare la Siria, pensate a noi!" Khamenei ha detto: "Noi abbiamo aiutato due paesi amici, Siria e Iraq ad affrontare le minacce dell'America e dei sauditi", sottolineando la continua e criminale ingerenza del regime nella regione del Medio Oriente.
* Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana

(politicamentecorretto.com, 17 agosto 2018)


La tregua tra Hamas e Israele spacca i partiti palestinesi

Il presidente dell'Anp Abu Mazen spara a zero sugli islamisti che dovrebbero firmare il cessate il fuoco con Tel Aviv oggi al Cairo. L'accordo di un anno dovrebbe prevedere infrastrutture a Gaza, negoziati per uno scambio di prigionieri e un corridoio navale tra la Striscia e Cipro.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il Per i media israeliani l'accordo di tregua tra il governo Netanyahu e Hamas, di un anno e non di cinque come si diceva qualche settimana fa, è cosa fatta e sarà messo nero su bianco oggi al Cairo. Il quotidiano Haaretz ieri scriveva che la prima della sei fasi dell'intesa -la calma lungo le linee tra Gaza e Israele e la riapertura del valico commerciale di Kerem Shalom - sarebbe già in atto da mercoledì. Da parte sua Hamas fa trapelare solo che l'intesa potrebbe essere raggiunta tra sabato e domenica.
   Le altre fazioni palestinesi, costrette ad accettare quello che hanno deciso gli islamisti, sbuffano e criticano Hamas che, affermano, in cambio di aiuti umanitari e un allentamento del blocco israeliano di Gaza ha concesso troppo, a cominciare dalla fine delle manifestazioni popolari della Grande Marcia del Ritorno. Nell'incertezza che regna intorno alla possibile tregua, l'unica cosa sicura è la rabbia del presidente dell'Anp Abu Mazen, furioso per un accordo che tende a relegarlo ai margini della diplomazia. Non ha avuto mezze parole per i suoi avversari Abu Mazen quando è intervenuto ai lavori del Consiglio centrale dell'Olp due giorni fa a Ramallah. Ha rivolto accuse pesanti all'amministrazione Usa e ha attaccato il «piano di pace», noto come Accordo del secolo, che Trump sostiene di poter realizzare tra israeliani e arabi (a scapito dei diritti dei palestinesi). Ha sparato a zero sul governo Netanyahu e affermato la volontà di lottare, assieme ai palestinesi con cittadinanza israeliana, contro la legge approvata dalla Knesset che definisce Israele Stato nazionale degli ebrei. E Abu Mazen non ha mancato di rivolgere attacchi al vetriolo anche ad Hamas che, a suo dire, ha silurato la riconciliazione con il suo partito, Fatah, e ora va a un'intesa separata con Israele senza aver ottenuto un granché per Gaza.
   Hamas replica che proprio «l'ostinazione» del presidente dell'Anp a voler raggiungere la riconciliazione interna solo alle sue condizioni finisce per dividere i palestinesi. U movimento islamico ricorda che le misure adottate dalla presidenza dell'Anp nell'ultimo anno hanno aggravato la condizione umanitaria di Gaza. Abu Mazen nel suo discorso al Consiglio Centrale ha evitato di attaccare frontalmente l'Egitto- il capo dell'intelligence egiziana Abbas Kamel è stato mercoledì a Tel Aviv e ieri a Ramallah - che pure dietro le quinte favorirebbe i disegni di Trump e, incurante delle perplessità della presidenza dell'Anp, ha deciso di mediare, assieme all'inviato dell'Onu Mladenov, un accordo separato tra Israele e Hamas. «Le preoccupazioni di Abu Mazen sono solo in parte comprensibili - spiega al manifesto l'analista di Gaza Saud Abu Ramadan - perché l'Egitto mentre lavora all'accordo di tregua allo stesso tempo ha invitato al Cairo le delegazioni di Fatah e delle altre formazioni palestinesi per arrivare alla riconciliazione». Tuttavia un pericolo per Abu Mazen è concreto, aggiunge Abu Ramadan: «È chiaro che se ci sarà un accordo tra Fatah e Hamas non sarà alle condizioni dettate dal presidente».
   A quel punto, prosegue l'analista, «Abu Mazen potrebbe essere costretto ad accettarlo perché rifiutando lo darebbe indirettamente luce verde a una separazione netta tra la Cisgiordania sotto la sua autorità e Gaza controllata da un Hamas più forte dopo l'intesa con Israele».
   I prossimi giorni o forse le prossime ore diranno se Gaza avrà a una "cessazione delle ostilità" di lungo periodo. Per ora si dice e si scrive un po' di tutto.
   La tregua sarebbe di un anno e prevederebbe la costruzione di infrastrutture civili a Gaza, negoziati per uno scambio di prigionieri che porti alla restituzione delle salme di due soldati morti in combattimento nel 2014 e di due civili israeliani trattenuti da Hamas in cambio della liberazione di prigionieri politici palestinesi. L'intesa potrebbe prevedere l'introduzione di un corridoio navale, sotto controllo israeliano, tra la Striscia di Gaza e Cipro con traffico di cargo.

(il manifesto, 17 agosto 2018)


Teheran non ci sta

Un rapporto della Agenzia Bloomberg rivela che durante il recente faccia a faccia tra Trump e Putin i due leader avrebbero concordato l'uscita delle forze iraniane dalla Siria, ma Teheran si oppone e Putin non insiste.

Sulla presenza iraniana in Siria gli Stati Uniti e la Russia avrebbero raggiunto un accordo di massima che prevede l'uscita delle forze iraniane dal territorio siriano. Lo rivela un rapporto dell'Agenzia Bloomberg (1) secondo il quale durante l'ultimo faccia a faccia tra Trunp e Putin i due presidenti avrebbero affrontato il problema che affligge Israele e che potrebbe portare a uno scontro diretto tra israeliani e iraniani.
Secondo Bloomberg, che cita come fonte un anonimo funzionario dell'amministrazione americana, il recente vertice di Helsinki tra il Presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin sarebbe stato dominato dalla discussione sulla attuale situazione in Siria e in particolare sulla presenza iraniana in territorio siriano.
I due leader mondiali avrebbero concordato sulla necessità che l'Iran e tutte le forze collegate a Teheran (Hezbollah e milizie sciite varie) debbano lasciare la Siria. Tuttavia il Presidente russo, Vladimir Putin, pur concordando con tale necessità si sarebbe detto "scettico" sul fatto che gli iraniani avrebbero accettato di buon grado il loro ritiro dalla Siria....

(Rights Reporters, 17 agosto 2018)


Eurovision: accordo governo-KAN sul deposito, sarà Israele 2019

di Federico Rossini

 
Netta e la delegazione israeliana
Alla fine, tutto è bene quel che finisce bene. Con un accordo tra il governo israeliano e la KAN, la tv di Stato, si è sbloccata la situazione legata ai 12 milioni di euro del deposito di garanzia da dare all'EBU affinché l'Eurovision Song Contest 2019 si svolga in Israele. Sono soldi che, lo ricordiamo, saranno restituiti a fine manifestazione.
   La KAN ha rilasciato un comunicato col quale ha assicurato che pagherà la somma necessaria affinché il concorso possa tenersi in Israele. In ogni caso, dovesse succedere qualcosa per la quale il Paese non fosse in grado di ospitare, facendo perdere così i soldi alla KAN, il Ministero delle Finanze interverrebbe per coprire la perdita. Secondo i media israeliani i 12 milioni sarebbero stati trovati tramite un prestito bancario.
   Nel frattempo, è ancora la stampa locale a gettarsi sulla questione che, a questo punto, preme più di tutte: in quale città si terrà il concorso? Gli indizi sembrano propendere sempre di più verso Tel Aviv, quasi a voler avverare la "profezia" che Nadav Guedj cantò nel 2015 in Golden Boy (un verso della canzone recita "and before I leave let me show you Tel Aviv"). Le altre città ufficialmente in corsa sono Gerusalemme, Eilat e Haifa. Dal momento che la Yad Eliyahu Arena (oggi Menora Mivtachim Arena) sarà perennemente occupata dal Maccabi Tel Aviv di basket, una soluzione alternativa ci sarebbe: il padiglione 2 del Centro Congressi di Tel Aviv, meglio noto come Fairgrounds. Questo padiglione, inaugurato nel 2015, ha recentemente ospitato gli Europei di judo.
   Israele ospiterà l'Eurovision 2019 a seguito della vittoria di Netta con Toy quest'anno, ottenuta a Lisbona con 529 punti. L'Italia è giunta quinta (e terza al televoto) con Non mi avete fatto niente di Ermal Meta e Fabrizio Moro.

(Eurofestival News, 16 agosto 2018)


Il «reality tv» dei calciatori israeliani

La famiglia di sportivi «Buzaglo» tra Duomo e Navigli

di Laura Vincenti

Sono un po' i Kardashian d'Israele: il docu-reality sulla loro vita, è uno dei più seguiti nel paese mediorientale. Solo che «I Buzaglo» sono una famiglia non di celebrità della tv bensì di calciatori, spesso in giro per il mondo. In questi giorni sono sbarcati anche qui in Italia in occasione della partita Atalanta-Hapoel Haifa in scena a Reggio Emilia e valida per il terzo turno di qualificazione di Europa League, Proprio nella squadra israeliana, infatti, gioca Almog, 26 anni, il più giovane del clan Buzaglo, che è composto anche da Yaakov, il capofamiglia, classe 1957, ex calciatore della nazionale israeliana negli anni '80, dalla mamma Hani e dai fratelli Maor e Asi, anch'essi calciatori, e da Oh ad, che, invece, è allenatore.
   Durante questa breve vacanza italiana, non poteva mancare una tappa a Milano, dove la sportivissima famiglia ha visitato i luoghi storici della città, dal Duomo alla Galleria Vittorio Emanuele, con tanto di partitella di calcio all'ombra della Madonnina e poi aperitivo e cena al nuovo ristorante di uno chef tv in Galleria. E poi tour sui Navigli, dove i Buzaglo, accompagnati dalla produttrice Ifat Shmueleviz e dalla regista Sigal Shavit, banno potuto gustare le specialità di uno dei ristoranti più rinomati della zona, vicino al Pont de Ferr. E non poteva mancare un giro di shopping nel Quadrilatero della moda e anche al nuovissimo store di abbigliamento sportivo vicino alla Galleria, dove la famiglia ha fatto incetta di maglie ufficiali, soprattutto di Milan e Inter. E chi vuole restare sempre aggiornato e vedere in diretta le avventure e gli spostamenti dei Buzaglo, può visitare le pagina Instagram dei protagonisti: in particolare Maor, che vanta 155 mila follower, è molto attivo nel postare fotografie, come quella davanti al Duomo di Milano, ma soprattutto nel realizzare stories, testimoniando così la sua vita e quella di tutta la sua grande fanti glia in tempo reale. E i tifosi dell'Inter probabilmente si ricordano di Maor, considerato uno dei migliori calciatori israeliani degli ultimi anni, perché nel 2016, quando indossava la maglietta dell'Hapoel Be'er Sheva, ha segnato un gol contro la squadra nerazzurra in Europa League.

(Corriere della Sera - Milano, 17 agosto 2018)


Egitto - Il capo dell’intelligence Abbas Kamel in Israele per colloqui su tregua

di Elena Panarella

Il cessate il fuoco sul campo tra Israele e Hamas, mediato da Egitto e Onu, si sta rafforzando sempre più. Il capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamel, avrebbe incontrato ieri a Tel Aviv funzionari israeliani nel tentativo di definire i dettagli di un accordo per una tregua tra Israele e Hamas che potrebbe essere annunciato già domani: lo scrive il quotidiano Al-Hayat che cita fonti palestinesi. Secondo l'articolo di Al-Hayat, rilanciato dai media israeliani, Kamel dovrebbe recarsi oggi a Ramallah per colloqui con il leader dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, che ieri ha aperto i lavori del Consiglio centrale palestinese.
Il piano egiziano, sottolinea il giornale, riguarda anche progetti umanitari nella Striscia di Gaza e futuri negoziati indiretti tra Israele e Hamas per uno scambio di prigionieri, oltre alla riconciliazione palestinese. Una fonte palestinese ha sostenuto che già «domani un accordo potrebbe essere annunciato al Cairo con la presenza di tutte le fazioni» palestinesi. Nelle scorse settimane delegazioni di Hamas e della Jihad Islamica si sono recate al Cairo per discutere i dettagli dell'accordo. Il 9 agosto Hamas ha annunciato di aver raggiunto con Israele un accordo per una tregua grazie alla mediazione egiziana e dell'Onu, ma lo Stato ebraico ha negato l'esistenza di un'intesa.

(Il Messaggero, 16 agosto 2018)


La metà degli adolescenti palestinesi non frequenta la scuola

«Non andare a scuola vuol dire farsi sfruttare da quell'odio che in quella terra provoca e genera conflitti senza fine»

di Geremia Acri
    «I ragazzi qui studiano e pensano, ma anche io studio e penso con loro. […] normalmente arriviamo alla verità insieme. Quando rimane qualche divergenza, il bene che ci vogliamo ci aiuta a risolverla e a convivere senza tragedie. Perché questo bene è fatto di rispetto reciproco» (Don L. Milani, Lettera ad un amico, Natale 1965).
 
In Palestina quasi tutti i bambini fra i 6 e i 9 anni frequentano la scuola, ma a 15 anni circa il 25% dei ragazzi e il 7% delle ragazze abbandona gli studi, divenendo, così facile preda di abusi, sfruttamento, schiavitù e reclutamento coatto in un territorio perennemente dilaniato dal conflitto armato.
  A svelare, questa triste realtà è il rapporto "State of Palestine: Country Report on Out-of-School Children" -Palestina: Rapporto sui bambini che non vanno a scuola-, realizzato dall'UNICEF Palestina e dall'Istituto di Statistica dell'UNESCO, in collaborazione con il Ministero per l'Istruzione.
  I dati preoccupano l'agenzia dell'Onu per l'infanzia che evidenzia anche l'alto tasso di disoccupazione giovanile, pari al 60%, come conseguenza principale dell'abbandono scolastico, fenomeno che riguarda il 18,3% dei giovani in Cisgiordania e il 14,7% nella Striscia di Gaza.

 I motivi dell'abbandono
  Il motivo per cui gli adolescenti abbandonano anticipatamente la scuola dell'obbligo - sottolinea Andrea Jacomini, portavoce di Unicef-Italia - «…include un'istruzione di scarsa qualità, che spesso è vista come un fattore non rilevante nelle loro vite, violenza fisica ed emotiva a scuola, sia da parte degli insegnanti che dei coetanei, e inevitabilmente il conflitto armato. Andare a scuola può anche rappresentare una sfida per gli adolescenti maschi, in Palestina, spesso costretti ad attraversare diversi checkpoint, blocchi stradali e ad aggirare gli insediamenti israeliani solo per raggiungere l'aula. È inaccettabile! Pensiamo se nostro figlio, mentre cammina, venisse fermato, interrogato, violentato psicologica in maniera non indifferente. E come se non bastasse, durante le lezioni ci sono incursioni dei militari nelle classi».
  Un altro dato che emerge dal rapporto è il sovraffollamento nelle classi. «Nella Striscia di Gaza - prosegue il portavoce di Unicef-Italia - le aule sono sovraffollate, con in media 37 alunni per classe. Fra coloro che sono iscritti dal primo al decimo anno scolastico, circa il 90% frequenta scuole organizzate su due turni. Ciò riduce le ore per l'apprendimento e la capacità degli insegnanti di supportare adeguatamente i bambini, soprattutto quelli che hanno difficoltà di apprendimento o comportamentali».

 Abusi, sfruttamento, violenze
  «I bambini rimasti indietro a scuola hanno maggiori probabilità di abbandono scolastico e quindi incorrono in un rischio maggiore di abusi e sfruttamento fuori dalla scuola - sottolinea - Genevieve Boutin, Rappresentante Speciale dell'Unicef in Palestina -. Essere a scuola non aiuta solo i bambini palestinesi a imparare e svilupparsi, ma fornisce inoltre una stabilità e delle abilità utili per la vita che sono di particolare importanza in questi ambienti». Il rapporto evidenzia, inoltre, che le violenze colpiscono l'istruzione in diversi modi. Oltre due terzi dei bambini che frequentano dal primo al decimo anno scolastico sono esposti a violenze emotive e fisiche nelle loro scuole e, a causa dei conflitti, per oltre 29.000 bambini nel 2017 il loro percorso scolastico è stato interrotto a causa di 170 attacchi e minacce di attacchi su scuole, studenti o insegnanti, che colpiscono ulteriormente la frequenza scolastica».

 L'Unicef lancia delle proposte
  Per realizzare il diritto all'istruzione di ogni bambino in Palestina, l'Unicef chiede di migliorare la qualità dell'istruzione nelle scuole che hanno basso rendimento; aumentare l'accesso a servizi per l'istruzione su misura, fuori e dentro la scuola, migliorare la formazione e il supporto tecnico agli insegnanti per un'istruzione che sia inclusiva; migliorare e ampliare i programmi di prevenzione alla violenza, ma soprattutto proteggere le scuole dalla violenza legata al conflitto. «Non andare a scuola - conclude Jacomini - vuol dire farsi sfruttare da quell'odio che in quella terra provoca e genera conflitti senza fine».

(andrialive.it, 16 agosto 2018)


L'odio contro Israele

di Francesco Lucrezi

Ho già avuto modo di commentare la perfida e serpentina astuzia con cui l'antisemitismo mondiale, a partire dal 1967, ha trasformato il piccolo e coraggioso Israele, Davide aggredito da nemici cento volte più forti e numerosi, nel grosso e violento Golia, contrapposto al nuovo, minuscolo Davide-Palestina, fragile e indifeso (anche se non propriamente inoffensivo). I vecchi nemici di sempre, giocando abilmente a nascondino, si sono nascosti dietro il pargolo, e fanno finta di essersi dileguati nel nulla, e il nuovo Davide, qualsiasi cosa faccia, non può non essere, sempre e comunque, innocente. Più che normale, perciò, che il nuovo simbolo degli odiatori di tutto il mondo sia il volto grazioso di una ragazza diciassettenne dagli occhi di ghiaccio, che, picchiando soldati nemici armati fino ai denti, riscatta l'onore del suo popolo oppresso.
   Un soldato ebreo, che difende uno Stato ebraico, è un ossimoro, e chi lo colpisce ripristina l'ordine naturale. E se a farlo è una ragazzina - degna figlia di una madre orgogliosa, che si rammarica del numero troppo esiguo dei corpi dilaniati da una bomba in un ristorante - è il massimo. Il suo successo mediatico è fin troppo scontato. Qualche mese di prigione, poi, non poteva non farne una star internazionale, ovvio che tutti i giornali del mondo facciano la fila per intervistarla. Lei non si nega, e dice di volere rendere giustizia a tutti i bambini palestinesi, vittime di ingiustizia come lei. Lei è piccola, inerme, ma rappresenta soggetti ancora più piccoli e fragili di lei, così come il soldataccio israeliano da lei giustamente picchiato rappresenta un esercito potentissimo, zeppo di cingolati, caccia bombardieri, bombe atomiche. La sproporzione di forze tra Davide e Golia viene esaltata alla millesima, milionesima potenza, mai visto, nella storia, qualcosa di simile.
   Che dire? Nulla, solo due domande, a proposito dell'unico, vero protagonista di tutto ciò, che è l'odio.
   La prima domanda riguarda la possibilità di analizzare l'odio secondo le categorie della medicina. È contagioso, come una malattia infettiva. Può avere lunghe incubazioni, prima di manifestarsi. Ha i "portatori sani". Cresce e divora come un cancro. È un morbo autoimmune. E, soprattutto, pare spesso una malattia genetica, ereditaria, per la quale la parentela assume un'importanza essenziale (madre e figlia…). Mi rendo conto che quest'idea può apparire razzista, ma allora anche la natura lo è. Sono i medici a chiederci quanti casi di infarto o di neoplasia contiamo in famiglia, per poi dirci quanto siamo soggetti a rischio. Solo che noi - a differenza della giovanissima giustiziera - non ci rallegriamo delle malattie dei nostri genitori. Sì, l'odio somiglia, decisamente, a una malattia. Ma è una malattia particolare, dalla quale, molto spesso, i pazienti non hanno la minima intenzione di curarsi. E perché dovrebbero, poi? Non solo di odio non si muore, ma esso può dare un senso alla vita, può elargire fama, gloria, successo.
   La seconda domanda - che mi è capitato di pormi molte volte in vita mia - è cosa sia il contrario dell'odio, cosa si possa utilmente contrapporre ad esso. Certamente non l'amore, che all'odio, tante volte, appare alquanto vicino, o simile. Forse (omeopaticamente) altro odio, odio dell'odio? Per carità, ce n'è già fin troppo. E neanche la parola 'bontà' mi pare adatta, così retorica e melensa. Forse l'indifferenza? Non direi, non è il contrario di niente. La razionalità? Questa, forse, sì, perché l'odio è certamente irrazionale. Ma oggi mi verrebbe da dire, soprattutto, tristezza. Di fronte al bel viso della giovane 'Davida', e al suo immenso oceano di odio, non ho da contrapporre nulla, all'infuori di una minuscola goccia di tristezza. Che, ovviamente, non è una medicina, e non cura nulla.
   
(moked, 16 agosto 2018)


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