Come un affamato sogna di mangiare
poi si sveglia e ha lo stomaco vuoto;
come un assetato sogna di bere
poi si sveglia ed è stanco e assetato,
così avverrà alla folla di tutte le nazioni
che marciano contro il monte Sion.
Isaia 29:8  

Attualità



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Motty Steinmetz New Song
























Il grande ritorno in Germania degli odiosi stereotipi contro gli ebrei
   Articolo OTTIMO!


Più ci si allontana dagli anni orribili della Shoah più ritornano a galla gli stereotipi più odiosi nei confronti degli ebrei, non solo degli israeliani. La denuncia in un libro-inchiesta. Perché non è solo xenofobia.

di Antonio Donno

"Io non sono antisemita, è soltanto Israele che aborrisco", afferma l'antisemita di oggi per difendersi dall'accusa di antisemitismo. In realtà, come i fatti dimostrano, giudeofobia e anti-israelismo sono ormai praticamente indistinguibili, cioè a dire che la "questione ebraica" e la "questione israeliana" sono perfettamente sovrapponibili. Ciò comporta uno sviluppo dell'antisemitismo in Europa come mai si era avuto nei decenni dopo la Shoah. Gli antisemiti odierni "hanno reindirizzato la 'Soluzione Finale' dagli ebrei allo stato di Israele, che considerano l'incarnazione del male". Questa orrenda constatazione ben esprime il senso della fondamentale opera di Monika Schwarz-Friesel e Jehuda Reinharz, Inside the Antisemitic Mind: The Language of Jew-Hatred in Contemporary Germany, pubblicato in Germania nel 2013 e quest'anno negli Stati Uniti dalla Brandeis University Press. Il libro non è uno studio teorico sull'antisemitismo; i due ricercatori tedeschi hanno vagliato, a partire dal 2002, migliaia di email, lettere, cartoline postali e fax inviati da tutte le regioni della Germania al Central Council of Jews tedesco e all'Ambasciata di Israele a Berlino. Si tratta, quindi, di un libro fondato su una massa imponente di documentazione, di dati empirici che rivelano il permanere, e anzi il rafforzarsi, di un odio irrazionale e ossessivo verso gli ebrei, coniugato con la ripresa di antichi stereotipi, erroneamente ritenuti ormai estinti dopo la Shoah.
  Invece, sta avvenendo il contrario. L'antisemitismo non è più tipico della destra; la sua modificazione nella critica verso Israele è oggi propria della sinistra, a livello popolare come dei circoli più elitari. All'interno di questo contesto, il conflitto tra Israele e il mondo arabo, che risale alla fondazione stessa dello stato ebraico, è oggi rinverdito dagli antisemiti nella forma più "accettabile" di un'opposizione alla politica del governo di Israele, ma si nutre quasi sempre degli stereotipi più odiosi della tradizionale giudeofobia. Così, scrivono gli autori, oggi si è di fronte a una "israelizzazione della moderna giudeofobia", moderna all'apparenza, antica nella sostanza. Più ci si allontana dagli anni orribili della Shoah - pare di capire - più ritornano a galla gli stereotipi più odiosi nei confronti degli ebrei, non solo degli israeliani. Non si tratta di pura e semplice xenofobia, come alcuni affermano al fine di alleggerire il peso dell'accusa di antisemitismo, ma di un odio specifico contro gli ebrei, demonizzati come espressione assoluta del male. Ritorna in auge uno degli aspetti più radicati della civiltà occidentale, una sua componente sempre viva e vitale, che si diffonde non solo tra la gente comune, ma ora anche nelle componenti più elitarie del mondo politico internazionale.
  Il caso della Germania è assunto dagli autori come l'esempio probante di questo ritorno massiccio dell'antisemitismo. Secondo Schwarz-Friesel e Reinharz, per i quali la demonizzazione degli ebrei prescinde oggi dall'esperienza atroce della Shoah, si è andato definendo un codice linguistico antisemita, che si serve di termini che una volta erano utilizzati per condannare gli antisemiti e che oggi, invece, gli antisemiti usano per bollare gli ebrei e i loro sostenitori. Il web è la sede principale in cui gli argomenti e le stesse forme linguistiche si ripetono ossessivamente, creando un circuito imitativo che si riproduce continuamente. Così, in questo nuovo codice il termine "nazista" ha subìto un rovesciamento d'attribuzione: sono gli antisemiti e i sostenitori del terrorismo anti-israeliano a servirsene per condannare Israele e i suoi amici, definendoli nazisti. Nel caso tedesco, ciò può attenuare il senso di colpa legato al passato nazista: "L'argomentazione giudeofobica nella Germania odierna combina il rigetto della condanna per il passato con l'attribuzione della condanna agli ebrei per il presente (grazie al rovesciamento assassino/vittima)".
  "Il linguaggio - concludono gli autori - deve perciò essere considerato uno strumento di manipolazione". Considerazione ovvia, ma che assume connotati di estrema rilevanza per lo specifico caso dell'antisemitismo, una piaga che attraversa i secoli senza soluzione di continuità. Allo stesso modo, nei paesi che non hanno avuto un passato nazista i libri intrisi di antisemitismo sono spacciati per critica nei confronti di Israele e l'ostilità verso lo stato ebraico è giustificata in questi termini. In questo modo, l'odio verso Israele e verso gli ebrei si coniuga concettualmente e verbalmente; la conseguenza è che "oggi Israele è condannato come un ebreo collettivo" e perciò si tende "a escluderlo dalla comunità dei popoli o delle nazioni".

(Il Foglio, 31 maggio 2017)


«... la "questione ebraica" e la "questione israeliana" sono perfettamente sovrapponibili». È una tesi che condividiamo pienamente e ripetiamo da anni. La sua negazione costituisce oggi la viscida premessa di un atteggiamento antisemita. M.C.


Donald Trump e Israele: abbozzo di un bilancio temporaneo

di Niram Ferretti

 
Festosamente ricevuto in Israele, Donald Trump è ripartito portandosi appresso molti sorrisi, benevolenze, auspici. La sintonia con Benjamin Netanyahu è ottima. A vederli insieme sembrano due vecchi compagni di liceo felici di essersi ritrovati dopo molti anni e tutto questo fa piacere, soprattutto fa piacere vedere Trump, primo presidente americano nella storia che, nella sua veste istituzionale, visita il Kotel e si raccoglie in preghiera nel luogo più santo per l'ebraismo.
   Riguardo ai contenuti della visita, il presidente americano ha esplicitamente indicato che ci sono condizioni favorevoli alla ripresa del processo di pace in stallo da tre anni, spiegando che a Riad, dove si è recato prima di arrivare a Gerusalemme, "c'è molto amore". Ecco sì, l'amore è un ingrediente essenziale per portare a casa la pace, anche se c'è ragionevolmente da avanzare qualche dubbio sullo slancio affettivo wahabita nei confronti dello Stato ebraico. Ma Trump è così, lessicalmente saccarino con chi percepisce affine. Lancia il cuore oltre l'ostacolo, anche se poi non lascia trapelare nulla sui modi in cui l'amore (All you need is love), sì concreterà nell'empiria.
   Di fatto non vi è un solo fattore specifico che indichi che da parte dell'Autorità Palestinese, per non parlare della popolazione palestinese, vi sia un mutato atteggiamento nei confronti di Israele. Anzi. Abu Mazen continua a essere assai impopolare e Hamas non ha retrocesso di un millimetro nella sua intenzione di liberare tutta la Palestina dall' "usurpatore" sionista. All'interno dello stesso Fatah la retorica anti-israeliana non si discosta molto da quella del gruppo rivale che controlla Gaza, e con il quale ormai da tempo si è giunti ai ferri corti. Per non parlare della cultura dell'odio per l'ebreo e il sionista, che da decenni l'OLP, Fatah e Hamas hanno instillato nelle giovani generazioni palestinesi, partendo dalla prima educazione in cui ai bambini vengono forniti libri di testo nei quali la mappa della Palestina è priva di Israele per proseguire con l'esaltazione dei terroristi come martiri, meritevoli di strade intitolate a loro nome.
   Da parte israeliana la vecchia volpe Netanyahu, assai sollevata dal feeling con l'amico americano dopo otto anni di frizioni con Obama, sa benissimo che fuori dalla retorica ottimista, dalle parole alate, la realtà suona un'altra musica, meno carezzevole e piena di dissonanze timbriche.
   La domanda che ci si inizia a porre è, quanto sarà veramente vantaggioso per Israele, Donald Trump? Non ci sono dubbi che, rispetto al suo predecessore, le dichiarazioni di affetto e vicinanza siano notevolmente più marcate, ma al momento, di concreto Israele non porta a casa nulla. L'ambasciata americana che da Tel Aviv doveva essere spostata a Gerusalemme resta dove è, gli insediamenti permangono nello status quo e di annessioni non è nemmeno il caso di parlarne.
   L'ottimismo non è un obbligo ma una scommessa assai azzardata in questa situazione irta di complessità estreme e di ostacoli a ogni angolo. Israele intanto incassa la benevolenza di Trump, ed è già qualcosa rispetto all'ostilità di Obama ma è ancora assai poco per pensare che sia fatto un reale passo avanti. Il rischio grande è uno, che la politica americana nei confronti di Israele si incanali sui binari arrugginiti degli ultimi trent'anni. E i segnali, a meno di eventi positivamente clamorosi, sembrano essere esattamente questi.

(La Voce, 31 maggio 2017)


Israele - Gli autobus elettrici si ricaricano su strade speciali tramite wifi

Grazie alla tecnologia della startup ElectRoads, Israele avrà la sua prima linea di trasporto pubblico alimentata da un sistema wireless

di Sara Moraca

 Il primo esperimento
I veicoli elettrici rappresentano da tempo un'opzione per la mobilità sostenibile, anche se spesso pongono problemi di ordine pratico legati al costo e all'ingombro delle batterie. Israele sta cercando di aggirare questo ostacolo, grazie alla realizzazione di strade che alimentano i bus elettrici tramite tecnologia wifi.
Il governo israeliano sta collaborando con la startup ElectRoad per realizzare il primo prototipo di sistema wifi per la ricarica di autobus elettrici a Tel Aviv. La tecnologia, che prevede l'allocazione di sistemi di trasmissione wireless sotto la pavimentazione stradale, eliminerebbe il bisogno di creare delle stazioni di ricarica plugin per i mezzi di trasporto. Al momento, il progetto è in fase iniziale e - per poter essere adottato su larga scala - ElectRoad dovrà dimostrare che la sua tecnologia è scalabile.

 Linea attiva entro il 2018
Finora, l'unico banco di prova per la startup è stato un percorso di 80 metri nella propria sede di Cesarea. La tecnologia ha però convinto il ministero dei trasporti israeliano, che ha deciso di investire 120.000 dollari nella startup per installare la tecnologia su una parte del percorso cittadino effettuato dagli autobus. Il primo tratto sarà ultimato entro il 2018 e sarà lungo circa 800 metri. Se questo primo tentativo darà risultati positivi, l'intenzione è quella di realizzare una seconda linea che colleghi la città di Eliat all'aeroporto internazionale di Ramon.
Il meccanismo alla base della tecnologia prevede l'allocazione di inverter a lato della carreggiata, che caricano le piastre di rame poste sotto la pavimentazione stradale. Altre piastre di rame sono installate sotto l'autobus. Quando il veicolo passa sopra la carreggiata, i due campi interagiscono e generano potenza. L'ausilio di alcune piccole batterie si rende ancora necessaria per l'avviamento del veicolo, che prevede una quantità di energia maggiore rispetto a quella che serve per il movimento dell'autobus lungo la carreggiata, e per quei tratti di strada su cui non è stata ancora installata la tecnologia di ElectRoad.

 Energie rinnovabili
Israele si unisce così a quel gruppo di paesi che sta cercando di sfruttare le potenzialità delle reti wireless, come la Corea del Sud, che vanta percorsi wireless per autobus su tutto il territorio nazionale. Alcuni esperti hanno osservato che - data la progressiva diminuzione del prezzo delle batterie - la tecnologia di ElectRoads potrebbe presto rivelarsi obsoleta; la startup ha però precisato che la propria tecnologia è stata realizzata per poter essere adatta più a un'infrastruttura di trasporti che al singolo veicolo. L'obiettivo della startup è ora quello di aumentare le sinergie esistenti tra la propria tecnologia ed eventuali fonti di energia rinnovabile.

(Corriere della Sera, 31 maggio 2017)


Netanyahu: "Il mondo arabo sta mutando il suo atteggiamento su Israele"

Il premier dello Stato ebraico: "Stanno capendo che non siamo nemici ma alleati potenziali contro l'Isis e l'Iran"

di Luana Pollini

"In alcuni settori del mondo arabo c'è un cambiamento nei confronti di Israele, dovuto alla comprensione che non siamo suoi nemici ma anzi alleati potenziali di fronte all'Iran e all'Isis". Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu alla radio militare israeliana. "Forse - ha aggiunto - una riconciliazione avverrà dall'esterno verso l'interno", ossia saranno appunto Paesi arabi a spronare i palestinesi ad un accordo con Israele. I palestinesi, secondo Netanyahu, in questa fase sono ancora "prigionieri delle loro concezioni" tese a negare la legittimità di Israele. La assenza di pace - ha rilevato - è da imputarsi a questo atteggiamento palestinese e non al controllo da parte di Israele dei Territori, o alla costruzione di colonie: "Prima del 1967 non c'erano né l'uno né le altre eppure cercarono di sloggiarci da Tel Aviv e da Jaffa". Netanyahu ha infine osservato che se Israele rinunciasse al controllo militare sulla Cisgiordania essa presto diventerebbe "una rampa di lancio di missili" verso la fascia costiera israeliana.
   Intanto un reportage di Haaretz riporta che migliaia di palestinesi sono fuggiti negli ultimi anni da Gaza ed ora vivono in condizioni precarie ad Atene, nella speranza di ricevere asilo. La fuga da Gaza è costosa, hanno detto questi profughi, sia che si passi dal valico di Rafah, sia che si scelgano i tunnel di contrabbando scavati sotto al confine verso il Sinai. Nel primo caso, hanno aggiunto, occorre corrompere funzionari di Hamas perché mettano i loro nomi all'inizio della lista di quanti avranno accesso in Egitto con la sporadica apertura del valico. Attualmente la lista di attesa include 25 mila nomi, e chi non ha risorse finanziarie comprende che non avrà possibilità di entrare in Egitto anche perché - secondo i profughi - una volta varcato il valico di Rafah occorre corrompere anche i militari egiziani. Egualmente esosa, la opzione del tunnel di contrabbando. Secondo stime ufficiose, i palestinesi fuggiti da Gaza sono in Grecia 4.500-6.000. Alcuni profughi hanno spiegato a Haaretz di aver deciso la fuga avendo patito sevizie nelle prigioni di Hamas.

(In Terris, 31 maggio 2017)


La protagonista è l'israeliana Gal Gadot: il Libano vuole vietare «Wonder Woman»

La modella, 32 anni, ha prestato servizio nell'esercito quando aveva 18 anni e ha più volte ribadito le sue posizioni anti Hamas. Le autorità di Beirut avevano già cercato di bloccare «Batman vs Superman» perché l'attrice appare in qualche scena.

di Davide Frattini

 Il precedente
 
Gal Gadot in «Wonder Woman»
  Gadot è stata incoranata Miss Israele tredici anni fa, è una delle modelle più famose, ormai vive tra Tel Aviv e Los Angeles, Wonder Woman è il primo ruolo da protagonista. Le autorità libanesi avevano già cercato di bloccare Batman vs Superman perché l'attrice appare in qualche scena, il film era uscito nelle sale - anche se per pochi giorni - nonostante le proteste.

 La legge e il boicottaggio
  Le leggi impongono di boicottare i prodotti israeliani, ma secondo Ayman Mhanna, direttore dell'organizzazione libanese SKeyes per le libertà mediatiche e culturali, il bando voluto dal ministro sarebbe valido solo se Gadot non avesse ancora ricevuto tutto il compenso e dovesse guadagnare dagli incassi in Libano. Perché il film venga bloccato è necessario il voto di un comitato composto da sei ministri e alla fine è possibile che la pellicola venga proiettata, le copie pirata - scrive l'agenzia Ansa - sono già in vendita al mercato per un euro.

 Il messaggio di Gal
  I gruppi che sostengono la campagna per il boicottaggio ricordano che Gald Gadot, durante il conflitto tra Israele e Hamas nell'estate del 2014, ha scritto un messaggio su Facebook per sostenere le operazioni dell'esercito: «Il mio amore e le mie preghiere vanno ai ragazzi e alle ragazze che stanno rischiando la vita per proteggere la nazione dagli attacchi orrendi di Hamas, i cui miliziani si nascondono come vigliacchi dietro a donne e bambini».

(Corriere della Sera, 31 maggio 2017)


La delegazione israeliana al vertice della Comunità economica dei paesi dell'Africa occidentale

GERUSALEMME - Il Marocco non è la sola a voler affermare la sua presenza al vertice della (Cedeao) di Monrovia il 4 giugno prossimo tra i paesi non membri. Israele ha lanciato un'offensiva diplomatica in Africa negli ultimi anni e vuole promuovere la cooperazione con i quindici paesi della regione. Netanyahu stesso sarà nella capitale liberiana. Mentre il premier israeliano è ai ferri corti con il Senegal sulla questione palestinese, Israele è in buoni rapporti con la maggior parte degli altri 14 paesi della Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale. Netanyahu non vuole perdere una tale opportunità di sedersi con i 15 capi di stato africani. L'obiettivo sarà quello di vendere la sua proposta di cooperazione nei settori dell'agricoltura e della lotta contro il terrorismo. Il primo ministro israeliano può riuscire nel suo intento secondo la stampa marocchina, anche se quasi tutti i paesi dell'Africa occidentale sono a maggioranza musulmana e molto sensibili alla causa palestinese. In molti però preferiscono la "realpolitik" alla questione dei diritti umani nei Territori palestinesi e sono due i temi di interesse: uno è una soluzione per l'insicurezza alimentare e l'altro aiutare a superare il terrorismo nel Sahel. Negli ultimi anni, Israele ha moltiplicato le attività di avvicinamento verso i paesi africani. L'anno scorso, i rapporti con la Guinea sono stati ristabiliti dopo decenni di congelamento.

(Agenzia Nova, 31 maggio 2017)


Cooperazione scientifica fra Italia e Israele: un futuro da sviluppare

di Gabriele Caramellino

Alcuni dei relatori del convegno Italia - Israele. Guidati dal futuro. Da sinistra: Olga Dolburt (Ministro Consigliere per gli Affari Economici e Scientifici dell'Ambasciata di Israele in Italia), Eugenio Cipolla (collaboratore e co-organizzatore del convegno Italia - Israele. Guidati dal futuro), Silvia Fregolent (deputata PD, membro della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele), Antonio Palmieri (deputato Forza Italia, membro della Commissione Cultura, Scienza, Istruzione della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele). Roma, 30 maggio 2017, Camera dei Deputati, sala della Lupa.

Una mattinata di riflessioni importanti, oggi a Roma, alla Camera dei Deputati, durante il convegno Italia - Israele. Guidati dal futuro, organizzato dall'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica su iniziativa di Antonio Palmieri (deputato Forza Italia, membro della Commissione Cultura, Scienza, Istruzione della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele), in collaborazione con Mario Pagliaro (chimico al CNR - Consiglio Nazionale delle Ricerche di Palermo e fondatore del Polo di ricerca sull'Energia Solare in Sicilia).
La collaborazione scientifica fra Italia e Israele ha margini di sviluppo rilevanti, e ancora poco noti.
Certamente, il sistema della ricerca in Israele ha una struttura diversa da quello italiano.

Mario Pagliaro (chimico al CNR - Consiglio Nazionale delle Ricerche di Palermo e fondatore del Polo di ricerca sull'Energia Solare in Sicilia) ha spiegato: "Durante gli anni Novanta, ho svolto il mio dottorato di ricerca in Israele, a Gerusalemme. La capacità di innovazione di Israele è dovuta ad alcuni fattori strategici, come il mix fra ricerca di base e applicata, e la competizione per l'ottenimento di finanziamenti per la ricerca. In epoche diverse, Italia e Israele sono stati Paesi pionieri dell'energia solare. Il futuro della collaborazione fra Italia e Israele può continuare nell'area della formazione internazionale congiunta".

Olga Dolburt (Ministro Consigliere per gli Affari Economici e Scientifici dell'Ambasciata di Israele in Italia) ha affermato: "In Israele, la ricerca e l'economia sono molto collegate. L'Italia è il nono partner commerciale per l'export israeliano. Fra Italia e Israele ci sono potenzialità ancora da sviluppare. Fra le duecentocinquanta aziende non israeliane che hanno un innovation office in Israele, ce ne sono soltanto due italiane: Enel e Intesa Sanpaolo. L'Ambasciata di Israele in Italia è disponibile a dialogare con le aziende italiane, anche con quelle piccole, per favorire rapporti di ricerca e di business".

Silvia Fregolent (deputata PD, membro della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele) ha dichiarato: "In Italia, ancora non si comprende appieno la cultura israeliana. Bisogna fare conoscere alle imprese italiane le opportunità offerte da Israele".

Antonio Palmieri (deputato Forza Italia, membro della Commissione Cultura, Scienza, Istruzione della Camera dei Deputati, membro dell'Intergruppo Parlamentare sull'Innovazione Tecnologica, membro dell'Intergruppo Parlamentare Amici di Israele) ha affermato: "Il Piano Industria 4.0 ha aumentato i benefici fiscali per chi investe in startups, ed è un passo in avanti per cercare di rendere lo Stato più amico di chi vuole fare impresa. Stiamo vivendo una era di cambiamento".

Fra Italia e Israele, dunque, c'è un futuro da sviluppare.

(Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2017)


Dall'Arabia Saudita arriva lo spot anti-terrorismo

La compagnia telefonica 'Zain' vuole combattere il terrore con "canzoni d'amore"

Quest'anno la compagnia telefonica 'Zain', dell'Arabia Saudita, dedica la sua pubblicità per l'inizio del mese del Ramadan alla lotta al terrorismo.
La canzone canta di «bombardare la violenza con la misericordia» e «venerare il tuo dio con amore e non con il terrore», mostrando un terrorista pronto a farsi esplodere che incontra le famiglie e le vittime degli attacchi passati. Nel video è presente anche un attore che interpreta Omran Daqneesh, il bambino sopravvissuto al bombardamento di Aleppo la cui foto è diventata virale.
L'endorsement arriva anche da Hussain al-Jassmi, cantante pop degli Emirati Arabi Uniti. «Dirò tutto ad Allah», recita la voce di un bambino mentre il terrorista prepara l'esplosivo, «che hai riempito i cimiteri con i nostri bambini, e vuotato le nostre scuole, che hai provocato il caos e gettato le nostre strade nell'oscurità, che hai mentito. Allah conosce tutti i segreti dei nostri cuori».
«Reagiremo ai loro attacchi con canzoni d'amore. Da adesso fino alla felicità», si legge nel messaggio conclusivo del video della compagnia telefonica.

(L'Indro, 31 maggio 2017)


L'Anp non ci sta: «Israele si prende Gerusalemme»

Proteste per la riunione al Muro del Pianto. Reazione palestinese alla seduta del governo Netanyahu nel luogo sacro. Ad acuire lo scontro l'annuncio di una funivia nell'area.

di Luca Geronico

Indiscrezioni, fatte filtrare ad arte, e subito smentite dalla controparte. Salgono, al di sotto dell'ufficialità diplomatica, i segnali di tensione fra Israele a Autorità nazionale palestinese (Anp) dopo la visita di Donald Trump. rincontro avvenuto la scorsa settimana a Betlemme fra Donald Trump e Abu Mazen, si apprende dalla stampa israeliana, ha avuto momenti di forte contrapposizione. Il presidente degli Stati Uniti avrebbe anche alzato la voce con il presidente dell'Anp, perché lo avrebbe «ingannato». È questa la ricostruzione dell'incontro di lsrael ha-Yom e Maariv, subito smentita da un portavoce del presidente dell'Anp. Trump, secondo i giornali israeliani, si è detto «ingannato» da Abu Mazen per la sua proclamata volontà di pace mentre, avrebbe lamentato ad alta voce, l'Anp paga i familiari di palestinesi catturati da Israele per attività violente legate all'Intifada. Da parte sua, un collaboratore di Abu Mazen, Taleb a-Sana, ha replicato che Trump ha effettivamente criticato durante la sua visita l'Anp per il sostegno economico alle famiglie dei detenuti, ma anche ribadito che Abu Mazen è un partner di pace per Israele. Queste le ultime scintille dopo una domenica già di forte tensione tra Israele e Anp. Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, infatti, domenica ha voluto celebrare il 50esimo anniversario della Guerra dei sei giorni con una riunione del suo governo all'interno del tunnel del Muro del Pianto.
   «Rafforzeremo» Gerusalemme, ha promesso Netanyahu, citando diversi progetti di sviluppo fra cui una funicolare per portare turisti e fedeli al muro del Pianto, il luogo più santo dell'ebraismo. Cinquant'anni fa, nel 1967, Israele sconfisse i Paesi arabi che l'avevano attaccato nella Guerra dei Sei Giorni, conquistando Gerusalemme est e la Cisgiordania. Israele considera Gerusalemme sua capitale «eterna e indivisa». la comunità internazionale non riconosce, però, la sovranità israeliana su Gerusalemme est, che i palestinesi rivendicano come loro futura capitale.
   Il tunnel archeologico dove si è riunito domenica il governo israeliano fu aperto nel 1996 su ordine di Netanyahu, quando diventò per la prima volta capo del governo israeliano. Gli scavi provocarono violente proteste palestinesi, come accade per ogni intervento che riguarda l'area. E come si verifica ora con l'annunciata funivia che collegherà un rione residenziale alla porta della Città Vecchia più vicina al Muro del Pianto. Dura reazione domenica del negoziatore capo palestinese Saeb Erekat. «Il governo israeliano - ha affermato ancora il dirigente palestinese, citato dal Jerusalem Post - ha deciso di celebrare i 50 anni di occupazione e l'inizio del mese islamico del Ramadan inviando al popolo palestinese un chiaro messaggio, ossia che le violazioni sistematiche dei suoi diritti sono destinate a continuare». Con queste azioni, ha affermato il ministero degli Esteri palestinese, Israele «mira ad ebraicizzare» Gerusalemme est e di conseguenza «mina alla base ogni speranza per una pace basata sulla soluzione dei Due Stati». L'Anp ha inoltre fatto appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché costringa Israele a bloccare i suoi progetti di «espansione dei rioni ebraici a Gerusalemme est».
   Nel corso della seduta di domenica Netanyahu ha annunciato che il suo governo ha approvato ingenti finanziamenti per lo sviluppo di Gerusalemme.

(Avvenire, 30 maggio 2017)


“Gerusalemme è capitale unica e indivisibile dello Stato d’Israele”. E’ questo il nodo, è questo lo spartiacque. Chi non accetta questo, è contro l’esistenza di Israele. M.C.


Quando Jeremy Corbyn portava fiori ai terroristi di Monaco '72

Il "commovente" viaggio in Tunisia sulla tomba di uno degli assassini degli israeliani ai Giochi Olimpici.

di Giulio Meotti

Jeremy Corbyn, leader del Labour inglese,
ROMA - Prima ha collegato il massacro di Manchester, in cui 23 inglesi sono stati trucidati dall'islamista Salman Abedi, alle "guerre che il nostro governo ha sostenuto o combattuto". Poi su Jeremy Corbyn, leader del Labour inglese, è caduta una tegola a dir poco imbarazzante. Nel weekend, il Sunday Times ha scoperto che, un anno dopo la sua elezione alla guida del Partito laburista, Corbyn ha deposto una corona di fiori sulla tomba di uno dei terroristi palestinesi responsabili del massacro degli atleti israeliani a Monaco nel 1972.
  Nell'ottobre 2014, Corbyn fece visita in Tunisia per commemorare l'anniversario dell'attacco di Israele nel 1985 alla sede centrale dell'Organizzazione di liberazione della Palestina, omaggiando anche il cimitero. "Dopo che le corone furono poste sulle tombe dei morti di quel giorno (a Sabra e Shatila, ndr) e sulle tombe di altri uccisi dagli agenti del Mossad a Parigi nel 1991, ci trasferimmo alla statua nel viale principale della città costiera di Ben Arous", scrisse Corbyn dopo il viaggio. Il riferimento è alla tomba del funzionario dell'Olp, Atef Bseiso, capo dell'intelligence palestinese negli anni Settanta, ritenuto un importante pianificatore del massacro di Monaco in cui furono trucidati gli atleti israeliani alle Olimpiadi. Non esiste alcuna prova che l'agenzia di intelligence di Israele abbia effettuato un assassinio nella capitale francese a quel tempo, ma l'uccisione di Bseiso a Parigi nel giugno del 1992 è stata da molti attribuita allo stato ebraico.
  Ma il nome di Atef Bseiso è anche legato a una vicenda tutta italiana. Il 5 ottobre 1973 vengono arrestati in un appartamento di Ostia cinque palestinesi. C'erano anche due missili terra-aria Sam-7 di fabbricazione sovietica. Dalla terrazza dell'appartamento si dominava il "corridoio aereo" di accesso all'aeroporto di Fiumicino. Lo scopo dei cinque terroristi era quello di centrare un velivolo della El Al, la compagnia di bandiera israeliana, in fase di decollo. Atef Bseiso fu uno tre arabi "accompagnati" dagli uomini dei servizi segreti fuori dal territorio italiano. Corbyn ha definito come "commovente" la deposizione della corona di fiori sulla tomba del terrorista palestinese.
  Non è la prima volta che a Corbyn viene imputata una responsabilità diretta nel sostenere l'incitamento all'odio contro Israele. C'era stato il caso di Interpal, Palestinian Relief and Development Fund, la ong inglese finanziata da Corbyn, che è apparso anche in numerose sue serate di raccolta fondi. Questa ong ha finanziato il "Festival palestinese per l'infanzia e l'istruzione" nella Striscia di Gaza, dove fu girato un video di propaganda in cui si vedono numerosi bimbi palestinesi con indosso la mimetica che simulano l'uccisione di soldati israeliani con coltelli e mitragliatrici giocattolo. Nel 2013 Corbyn e consorte accettarono pure un tour a Gaza finanziato da Interpal con tremila sterline. Uno dei migliori amici di Corbyn, Ibrahim Hewitt, è il portavoce di Interpal. Corbyn ha anche difeso il fratello Piers, reo di aver detto che "i sionisti non tollerano nessuno che difenda i diritti dei palestinesi". E non si contano più i politici e consiglieri comunali del Labour che danno voce al peggior sentimento antiebraico. Come il parlamentare Vicki Kirby, secondo cui Hitler era "un dio sionista", gli ebrei "hanno grandi nasi" e che si è chiesto perché lo Stato islamico non attacchi Israele. Jennifer Gerber, a capo del gruppo di parlamentari laburisti Amici di Israele, ha dichiarato: "È quasi incredibile che un deputato del Labour possa partecipare a una cerimonia per onorare un uomo coinvolto nell'omicidio di atleti israeliani innocenti". Sajid Javid, ministro inglese delle Attività produttive, ha puntato il dito contro "le cene antisemite", un fenomeno tipico dei dinner parties nei quartieri benestanti di Londra, animate da "persone rispettabili della classe media che avrebbero un sussulto di orrore se fossero accusate di razzismo sono molto felici di ripetere calunnie sugli ebrei". E ora, si scopre, anche di portare fiori sulla tomba di chi ha castrato Yossef Romano, una delle undici vittime del commando di Monaco, torturato prima di essere ucciso. Perché ebreo israeliano.

(Il Foglio, 30 maggio 2017)


Cari Manconi e Locatelli, chiamateli terroristi, non prigionieri politici

L'ambasciatore israeliano scrive ai due parlamentari

 
Ofer Sachs
Egregia Presidente On. Pia Locatelli,
Egregio Presidente Sen. Luigi Manconi,
Con la presente, faccio seguito alla Vostra lettera inviatami il 10 maggio scorso, relativamente allo sciopero della fame dichiarato da alcuni prigionieri palestinesi, detenuti nelle carceri israeliane.
   In primis, ci tengo a precisare che, i prigionieri di cui stiamo parlando, non sono detenuti per reati derivati dalle loro posizioni politiche o di coscienza. Ci riferiamo a persone coinvolte in tragiche azioni terroristiche che, purtroppo, hanno portato alla morte di centinaia di israeliani. Il primo di questi è proprio Marwan Barghouti, autoproclamatosi leader di questa protesta.
   Come credo Voi saprete già, Marwan Barghouti è un terrorista che si è reso responsabile di atti criminali gravissimi tra il 2001 e il 2005, determinando la morte di civili innocenti. Per queste ragioni, Barghouti è stato condannato a cinque ergastoli, da cinque Tribunali israeliani differenti. A riprova dell'imparzialità dei processi svolti nei suoi confronti, faccio qui presente che lo stesso Barghouti è stato assolto da 21 dei 33 capi di imputazione per omicidio di cui è stato accusato, per insufficienza di prove.
   Per quanto concerne la situazione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, la lettera di Marwan Barghouti pubblicata dal New York Times, contiene una serie di falsità e di affermazioni prime di fondamento. Ai detenuti incarcerati nelle prigioni israeliane, infatti, vengono garantiti tutti i diritti previsti dalle normative internazionali. Anzi, in diversi casi, i prigionieri palestinesi godono di diritti che vanno oltre quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra. Lo stesso Marwan Barghouti, ad esempio, ha completato proprio nelle carceri israeliane, il suo dottorato di ricerca accademico.
   Parlando di numeri, quelli forniti da Barghouti relativamente alla situazione dei prigionieri palestinesi, sono completamente falsi. Barghouti sostiene che almeno duecento palestinesi sono morti nelle carceri israeliane dal 1967 ad oggi. Un numero inventato: da quella data, infatti, un solo detenuto palestinese è morto nelle carceri israeliane per motivazioni legate alla violenza (un decesso accaduto durante una protesta). Ancora: Barghouti sostiene che, in cinquant'anni, 800 mila palestinesi sono stati detenuti in Israele, una media di 16 mila detenuti l'anno. Nuovamente, si tratta di un numero inventato: nella Seconda Intifada, periodo che ha fatto registrare il maggior numero di fermi, i palestinesi arrestati da Israele per reati legati alla violenza sono stati 9.516.
   Infine la questione politica: la protesta dichiarata da Marwan Barghouti ha ben poco a che vedere con i diritti umani e con il processo di pace. Barghouti, dipinto da una minoranza estremista in occidente come un nuovo Nelson Mandela, è un terrorista senza scrupoli, che non ha mai mostrato alcun rimorso per le sue spregevoli azioni. Peggio, non ha mai dimostrato alcun interesse verso la pace, avendo pubblicamente descritto Israele come "una potenza occupante da 70 anni" (ovvero dal 1948, anno di nascita dello Stato ebraico di Israele). Affermazione che chiaramente prova come Marwan Barghouti disconosca lo stesso diritto di Israele ad esistere. Lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi, invece, andrebbe letto alla luce della lotta di potere interna all'establishment palestinese per la prossima successione ad Abu Mazen.
   Piuttosto, se veramente s'intende favorire la pace tra i due popoli, è necessario smettere di restare indifferenti davanti all'incitamento all'odio da parte delle fazioni politiche e armate palestinesi, primariamente della stessa Autorità nazionale palestinese. In particolare, è necessario condannare la decisione dell'Anp di versare un salario mensile ai prigionieri palestinesi, spesso pagato anche dai contribuenti di numerosi paesi democratici. Soldi donati con intenti positivi che, invece di essere usati per favorire lo sviluppo economico delle aree sotto amministrazione dell'Anp, finanziano coloro che si sono macchiati di reati di sangue, favorendo la perpetuazione dell'educazione all'odio e alla violenza.
   Ritengo che sia soprattutto su questo punto che le forze politiche e le opinioni pubbliche occidentali devono riflettere attentamente.
   Distinti saluti
   Ofer Sachs
   Ambasciatore di Israele in Italia

(Il Foglio, 30 maggio 2017)


La casa dei viventi

di Rav Alberto Moshe Somekh

 
Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso. The Jewish Museum, New York
Una ventina d'anni fa fui fermato dalla polizia all'esterno del cimitero ebraico di Acqui Terme. La Comunità di Torino me l'aveva segnalato fra quelli soggetti alla sua giurisdizione e aspettavo i partecipanti a una cerimonia prima di Rosh ha-Shanah. Più della mia carta d'identità fece fede il tesserino dell'Assemblea Rabbinica che portavo con me. Gli agenti se ne andarono. L'indomani lessi sul giornale di messe nere nel sacro recinto: evidentemente avevo convinto la pattuglia che ero il padrone di casa. Casa? Si fa per dire. Una sceneggiatura da Harry Fotter accoglieva i visitatori che, in mancanza di un viottolo, erano costretti a farsi largo fra le sterpaglie anche solo per raggiungere il cancello d'ingresso. I cimiteri sono la voce più difficile dei nostri bilanci. Le spese di manutenzione sono chessed shel emèt, "misericordia autentica". Sono a fondo perduto, se si eccettua un fondamentale ritorno d' immagine: evitare la "profanazione del Nome" conseguente allo spettacolo non sempre edificante fornito ai non ebrei di passaggio. La perpetuità delle sepolture non fluidifica certamente la situazione. In presenza di famiglie direttamente interessate, siamo loro grati per il contributo che danno al decoro dei cimiteri: esempi notevoli si trovano anche in Piemonte. Ma dove le famiglie sono ormai estinte, di tombe talvolta secolari deve farsi carico la Comunità.
   Più che alla scarsità di uomini e mezzi la vera responsabilità va attribuita alla mancanza di cultura e di spiritualità. La battuta: "se l'Ebraismo avesse coltivato una fede nell'Aldilà avrebbe avuto molti più clienti" ha reso famoso l'ultimo film di Woody Allen. Molti credono infatti che l'idea della vita ultraterrena sia uno degli elementi che contrappongono i cristiani agli ebrei e invece non è così. La resurrezione dei morti è postulata da Maimonide fra i tredici principi della fede d'Israele. Il cimitero è significativamente chiamato Bet ha-Chaim, "casa della vita" o "dei viventi": lungi dall'essere un semplice eufemismo, tale denominazione riflette la visione ebraica della morte come preludio alla "vita del Mondo a Venire". I cimiteri antichi sono autentici famedi, per merito delle figure che vi sono sepolte e che hanno alimentato il prestigio di cui l'ebraismo italiano ha goduto per secoli. In alcune Comunità la consapevolezza di questo lustro, associato a un eccellente rapporto con le istituzioni cittadine, ha dato risultati degni di nota nella conservazione di queste tombe. A Livorno, per esempio, una recente pubblicazione ("Il Cimitero Ebraico Monumentale di Livorno - Beth ha-Chaim: primi interventi di restauro e di catalogazione", Debatte Editore, 2014) testimonia il lavoro intrapreso. La prefazione è addirittura affidata alla penna del sindaco della città. Nell'esprimere la propria soddisfazione per "aver contribuito a finanziare i rilevanti lavori adesso completati dalla Comunità Ebraica", il primo cittadino di Livorno si dichiara consapevole che "il restauro interessa un'area sepolcrale dove il ricordo di personalità livornesi illustri, primi fra tutti i numerosi rabbini come Elia Benamozegh, esorta a proseguire in un'opera di miglioramento sociale e culturale". In Emilia-Romagna un gruppo di studiosi si è dedicato alla schedatura dei piccoli cimiteri del Finale e di Lugo, inaugurando l'assai ambizioso progetto di pubblicare un "Corpus Epitaphiorum Hebraicorum Italiae" ("Sigilli di eternità", La Giuntina, Firenze, 2011). Ma non è dato trovare dappertutto una simile coscienza.
   Nel suo Responsum n. 56 R. Menachem 'Azaryah da Fano tratta della qedushah delle nostre sepolture. In una città del Nord Italia la pubblica autorità aveva requisito il terreno del cimitero e si cercava di trovare una soluzione di compromesso. Il Rav risponde che la pietra tombale appartiene al morto e che anche sul terreno di riporto che ricopre la fossa molti pensano che non si possa più invocare il principio per cui "la terra è universale" (qarqa' 'olam), Di più, al cimitero pubblico si applica la stessa qedushah della Sinagoga, per cui non vi sono ammessi comportamenti frivoli o men che rispettosi: non vi si mangia né si beve e ci si deve vestire in modo acconcio. Non può essere destinato a pascolo (occorre una solida recinzione!), né lo si può sfruttare come terreno di transito per lavori di canalizzazione. Procedure speciali sono previste per il taglio dell'erba e per l'eventuale piantagione d'alberi. Persino quelle aree già individuate ma non ancora materialmente servite per l'inumazione sono soggette a queste norme. In alcune Comunità si rinnova tuttora a ogni nuova sepoltura l'uso di stampigliare nel terreno alcune lettere ebraiche e di collocare tale contrassegno sotto la protezione di una tegola, a scanso di vilipendi (R.I. Lampronti, Pachad Itzchaq s.v. qevurah). In linea di principio le nostre sepolture sono perpetue e inalienabili. Per una tragica ironia della sorte proprio l'antico cimitero ebraico di Mantova che ospitava la tomba di R. Menachem 'Azaryah sembra destinato a una "riqualificazione" a quasi quattrocento anni dalla sepoltura del grande talmudista e cabalista (morì nel 1620). La notizia ha suscitato il più che giusto sdegno di tutto il mondo ortodosso. Che posizione prendono le nostre istituzioni comunitarie al riguardo? Prima di perorare una simile causa presso la pubblica autorità è tuttavia d'uopo portare a termine il censimento delle aree cimiteriali ebraiche esistenti nel nostro paese e verificare le loro effettive condizioni. Domandiamoci se gli interventi di "pulizia" non siano la conseguenza del degrado delle aree medesime. Come insegnava Reish Laqish: "rimprovera (lett. adorna) te stesso prima di rimproverare gli altri" (Sanhedrin 19a).

(Pagine Ebraiche, giugno 2017)



I sadducei e la risurrezione

Poi vennero a lui dei Sadducei, i quali dicono che non v'è risurrezione, e gli domandarono: Maestro, Mosè ci lasciò scritto che se il fratello di uno muore e lascia moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie e susciti progenie a suo fratello. Or v'erano sette fratelli. Il primo prese moglie; e morendo, non lasciò progenie. E il secondo la prese e morì senza lasciar progenie. Così il terzo. E i sette non lasciarono progenie. Infine, dopo tutti, morì anche la donna. Nella risurrezione, quando saranno risuscitati, di chi di loro sarà ella moglie? Poiché tutti i sette l'hanno avuta per moglie. Gesù disse loro: Non errate voi per questo, che non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? Poiché quando gli uomini risuscitano dai morti, né prendono né danno moglie, ma sono come angeli nei cieli. Quanto poi ai morti ed alla loro risurrezione, non avete voi letto nel libro di Mosè, nel passo del «pruno», come Dio gli parlò dicendo: Io sono l'Iddio d'Abramo e l'Iddio d'Isacco e l'Iddio di Giacobbe? Egli non è un Dio di morti, ma di viventi. Voi errate grandemente.
Or uno degli scribi che li aveva uditi discutere, visto che avea loro ben risposto, si accostò e gli domandò: Qual è il comandamento primo fra tutti? E Gesù rispose: Il primo è: Ascolta, Israele: Il Signore Iddio nostro è l'unico Signore: ama dunque il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua e con tutta la mente tua e con tutta la forza tua. Il secondo è questo: Ama il tuo prossimo come te stesso. Non v'è alcun altro comandamento maggiore di questi. E lo scriba gli disse: Maestro, ben hai detto secondo verità che v'è un Dio solo e che fuori di lui non ve n'è alcun altro; e che amarlo con tutto il cuore, con tutto l'intelletto e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso, è assai più che tutti gli olocausti e i sacrifici. E Gesù, vedendo ch'egli avea risposto avvedutamente, gli disse: Tu non sei lontano dal regno di Dio. E nessuno ardiva più interrogarlo.
Evangelo di Marco, cap . 12

 


Da Gerusalemme all'Olimpico

"Il nostro omaggio a Totti"

 
Son venuti fino da Israele per l'ultimo omaggio al Capitano. In curva, all'Olimpico, c'erano anche loro. I ragazzi del Roma Club Gerusalemme, guidati da Fabio Sonnino e Samuele Giannetti. Un appuntamento immancabile, per questo club che ha fatto dell'attaccamento ai colori giallorossi e di innumerevoli progetti per il dialogo un motivo di vanto. Anche al fianco e nel nome di Francesco Totti, la grande bandiera che alla soglia dei 41 anni ieri ha detto addio al calcio giocato.
Il ritiro del 10 romanista ha fatto parlare anche la stampa israeliana. Tra gli altri, il quotidiano Yediot Ahronot ha oggi titolato: "Accidenti a te, tempo!".

(moked, 29 maggio 2017)


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Totti spleen

di Paola Caridi

 
...che poi per me (e per un buon pezzo della mia generazione) il calcio è finito nello stadio di Heysel. Da quel momento, l'incantesimo si è rotto, l'età dell'innocenza è finita e siamo diventati grandi.
Totti, però, è un'altra storia. O meglio, lo è diventata con gli anni, con l'assommarsi degli anni, uno sopra all'altro. Anni sempre più pesanti sulle spalle di un ragazzo romano che ha incarnato molte cose. Una certa Roma, anzitutto. Quella che fu, la Roma di provenienza, e la Roma difficile di oggi. Francesco Totti ce l'ha ricordata con il suo dialetto, la cadenza, i modi di dire: veri, soprattutto popolari senza ostentazione.
Cosa avrebbe dovuto significare Totti per me, che dalla mia Roma me ne sono andata via presto, che il mio rapporto col calcio si è concluso seccamente allo Heysel, che poi mio padre (immigrato) era laziale? Un campione, certo. Un figlio di Roma, per quella bella dose di ironia che solo i veri romani hanno. L'ottavo re di Roma, una delle poche icone rimaste in una città slabbrata.
Poi è la vita a decidere per noi. E mio figlio è nato il 27 settembre. Non sapevo fosse anche il compleanno di Totti. L'ho scoperto anni dopo, quando vivevo a Gerusalemme. Lo ha scoperto, anzi, mio figlio che porta lo stesso nome, Francesco. Nome dettato da un santo e da un papà. Coincidenza nella coincidenza. Data di nascita e nome di battesimo. E a complicare le cose, la vita a Gerusalemme. 'Come si chiama tuo figlio?', mi hanno chiesto più di una volta a Gerusalemme. 'Francesco!', rispondevo prontamente con tanto di punto esclamativo. Ero sicura che chi mi aveva posto la domanda avrebbe apprezzato la scelta di un nome così legato alla storia della città e alla presenza dei francescani.
Non bisogna, però, mai prendersi troppo sul serio. E l'ho capito quando, invece, i miei interlocutori, israeliani o palestinesi, si aprivano in un gran sorriso. 'Francescooo? Totti!' altro che San Francesco!
Suo malgrado, er Capitano ci ha aggiunto riferimenti culturali.
E un po' ha commosso pure me, nel suo addio così vero a un pezzo fondamentale della sua vita, e della vita della sua città.

(Invisible Arabs, 29 maggio 2017)


Altro che san Francesco! Altro che papa Francesco! A Roma de Francesco ce n’è uno solo: Totti!


Tre prospettive sul moderno Stato d’Israele nelle profezie bibliche

Presentiamo qui un estratto dell’articolo “Il moderno Stato di Israele nella profezia biblica” di Arnold Fruchtenbaum, tratto dal sito “Ariel Ministries”. L’articolista si pone la domanda: lo Stato di Israele di oggi ha un posto nella profezia biblica o è un puro incidente della storia senza nessun riferimento alla Bibbia? L’autore inizia elencando tre risposte, che nomina soltanto per scartarle. La sua tesi, ampiamente documentata biblicamente, si trova nel resto dell’articolo.

di Arnold G. Fruchtenbaum

 La prima prospettiva: Teologia della sostituzione
  La prima prospettiva è il punto di vista della Teologia della sostituzione, in particolar modo l’Amillenarismo, che considera il moderno Stato ebraico come un mero incidente storico, del tutto scollegato da ogni tipo di profezia biblica. Questa prima veduta crede che quando Israele rigettò il Messia Gesù, Dio chiuse con il popolo d’Israele. Quindi non ci sono profezie incompiute per il popolo ebraico e non c’è un futuro ristabilimento finale. Quando Israele respinse il Messia, tutte le promesse del patto di Dio furono trasferite alla Chiesa; dunque è una teologia di trasferimento. Si può anche dire in altro modo: da quando Israele respinse il Messia, la Chiesa ha sostituito Israele davanti a Dio; dunque è una teologia della sostituzione. La Chiesa quindi sta adempiendo le promesse d’Israele. Se si chiede qualcosa su tutte quelle profezie che parlano di una riunificazione mondiale del popolo ebraico, la risposta è che queste non devono essere interpretate alla lettera, ma che lì si parla in modo allegorico degli eletti che sono entrati nella Chiesa, fino a che non sia completa. Gli ebrei oggi possono essere salvati, ma questo significa semplicemente che sono amalgamati nella grande Chiesa. Dio non pensa a un futuro per Israele come popolo etnico, quindi quello che succede oggi riguardo a Israele non è in nessun modo collegato con le profezie. Per Israele non c’è alcun futuro profetico, quindi, ancora una volta, il moderno Stato ebraico non è altro che un incidente della storia.

 La seconda prospettiva
  La seconda prospettiva presenta il punto di vista opposto, perché in essa si crede che ci sarà una restaurazione finale di Israele. Si prendono alla lettera le profezie che parlano di una riunificazione mondiale del popolo ebraico e si crede che ci sarà una futura restaurazione finale di questo popolo nella Terra promessa. Tuttavia, quando si guarda al moderno Stato ebraico, si ha difficoltà a collocarlo nelle profezie bibliche. La ragione è che queste profezie presentano la riunificazione finale di Israele come una nazione che crede nel Messia. La successione cronologica delle profezie sarebbe questa: pentimento nazionale seguito da restaurazione nazionale. Quando si guarda al presente Stato ebraico, si vede che la grande maggioranza della popolazione è costituita da persone che non credono nel Messia; infatti, dei 5.1 milioni di ebrei che sono presenti oggi nel paese [qualche anno fa, ndr], soltanto da quattro a cinquemila al massimo sono ebrei credenti. A peggiorare la cosa c’è anche il fatto che in grande maggioranza gli Israeliani non sono neppure ortodossi; preferiscono autodefinirsi secolari, sia gli atei che gli agnostici. Questo però non si accorda con le profezie, per come vanno lette. Tra le profezie che parlano chiaramente di una salvezza nazionale che precede una restaurazione nazionale nel paese si trovano: Deuteronomio 30:1-5; Isaia 27:12-13; ed Ezechiele 39:25-29, fra le altre.
Questo secondo punto di vista non concorda con il primo, perché crede che ci sarà una futura restaurazione finale, ma concorda con esso nel fatto di ritenere che il moderno Stato ebraico è un incidente della storia, di nessuna importanza per la profezia biblica.

 La terza prospettiva
  La terza prospettiva sostiene che quello che oggi accade è la restaurazione finale d’Israele: è l’inizio del compimento di tutte quelle profezie. Ci saranno sempre più ebrei che ritorneranno nella loro terra fino al momento in cui saranno ritornati tutti. Ad un certo punto passeranno per un processo di rigenerazione e salvezza nazionale, e in quel momento ritornerà il Messia. Se si chiede qualcosa sulle profezie che parlano di un periodo di ira divina e tribolazione che precede questo tempo, si risponde che le profezie sulla Tribolazione si sono già avverate durante l’Olocausto nazista. Dunque non ci sarà una Tribolazione futura, perché c’è già stata, e quello che si vede oggi è la restaurazione finale.
I sostenitori di questa veduta girano per il mondo e incoraggiano gli ebrei a ritornare. Vanno ad invitare anche gruppi di ebrei credenti, comunità e congregazioni messianiche, e mettono in loro complessi di colpa, dicendo che se non ritornano subito in Israele vivono nel peccato. Dicono che Dio adesso sta chiamando tutti gli ebrei, in particolare quelli che credono nel Messia, a ritornare nella loro terra. Vivere fuori di Israele, come “nelle pentole di carne dell’America”, significherebbe vivere nel peccato. Se si chiede di provare questo punto di vista con brani biblici, si fa riferimento a quelle profezie in cui i profeti invitano gli ebrei a lasciare Babilonia. Si interpretano i passi su Babilonia non come la reale Babilonia del passato o del futuro, ma come la Babilonia rappresentata dagli Stati Uniti d’America.
Se si fa notare che queste profezie menzionano il fiume Eufrate, che è in Babilonia, si risponde che quel fiume non è realmente l’Eufrate, ma il fiume Hudson della città di New York! Questo certamente sorprenderebbe profeti come Geremia, tra gli altri.
Quindi, nella terza prospettiva è questa la restaurazione finale, è questo il compimento di quelle profezie, almeno allo stadio iniziale.
L’articolo completo

(Notizie su Israele, 29 maggio 2017)


Gal Gadot: modella, soldato e attrice

 
Rara foto di Gal Gadot arruolata nelle Forze di Difesa Israeliane
Gal Gadot
Decretata dalla rivista Shalom life una tra le 50 donne più talentuose, intelligenti, divertenti ed attraenti al mondo. Molte sono le curiosità su Gal Gadot in quanto la sua è una vita costellata da colpi di scena. Ma impariamo a conoscerla meglio.

 Gal Gadot : biografia di una vera guerriera
  Nasce in Israele nel 1985 da una famiglia molto comune e che non fa parte del mondo dello spettacolo.
Appassionata di molti sport tra cui Karate Shotokan riesce sempre a gareggiare a livello agonistico. Il suo corpo statuario le è d'aiuto per partecipare al concorso nazionale di Miss Israele. Vince il titolo a soli 19 anni e vola in Ecuador lo stesso anno per partecipare a Miss Universo.
Non rientrando in finale rientra in patria e cambia totalmente settore.
La biografia di Gal Gadot infatti è ricca di sfaccettature contrastanti tra loro. In Israele si arruola presso le Forze di Difesa Israeliana e diventa istruttrice di combattimento. Nel frattempo fa la modella dato che ciò le è permesso per legge in Israele.
Il sogno nel cassetto dell'attrice però è quello di diventare un'avvocato e di iscrive a legge. Però non terminerà mai gli studi perché comincia ben presto la sua carriera da attrice.

 Gal Gadot : TV e Cinema
  Nel 2007 inizia la carriera da attrice della Gadot con un ruolo nella miniserie israeliana Bubot. La sua gavetta però non dura molto e la filmografia di Gal Gadot si arricchisce ben presto di pellicole importanti. Passa dalla Tv al cinema.
Affronta un provino andato male per interpretare la Bond Girl in 007 Quantum of Solace accanto a Daniel Craig. Nell'occasione viene notata dal direttore di casting e proposta per un'altra pellicola hollywoodiana: Fast & Fourious. Grazie alle sue doti militari, la Gadot ottiene la parte ed entra nel cast.
Si susseguono una serie di pellicole tra commedie e film d'azione. Ricordiamo Innocenti Bugie e Fast & Fourious 5 e 6 oltre a partecipazioni in serie televisive.
Nel 2016 è la volta della vera svolta con il suo ruolo di Wonder Woman in Batman VS Superman. Gal si appresta nel 2017 a recitare nel ruolo di Diana Prince per un film totalmente a lei dedicato. Sempre nei panni di Wonder Woman vedremo l'attrice nel 2017 nel film Justice League.

(PlayMovie4, 30 maggio 2017)


La ferrovia Gerusalemme Tel Aviv diventa un caso diplomatico

Gli ambasciatori europei hanno declinato l'invito a visitare i cantieri del percorso, pronto per l'anno prossimo perché il tracciato è sulle terre catturate agli arabi durante la Guerra dei sei giorni.

di Davide Frattini

Il treno da Gerusalemme a Jaffa impiegava sei ore, quando fu inaugurato la Palestina era ancora parte dell'impero ottomano. La vecchia stazione verso il porto sul Mediterraneo, rinnovata durante il mandato britannico, è diventata un parco commerciale con ristoranti e negozi. La fermata adesso è alla periferia di Tel Aviv, i vagoni viaggiano più lenti delle auto in corsa sulle autostrade che salgono dal mare verso le montagne.

 L'evento
  Da nove anni gli ingegneri e le scavatrici lavorano alla nuova linea veloce che taglia i tempi ma taglia anche attraverso la roccia della Cisgiordania: parte dei trentotto chilometri di gallerie perforano le terre catturate agli arabi nella Guerra dei Sei giorni. In particolare passano attraverso l'Area C, la zona che secondo gli accordi di Oslo è sotto il controllo civile e militare degli israeliani, territori che la comunità internazionale considera occupati. Così gli ambasciatori europei - rivela il quotidiano Haaretz - hanno declinato l'invito a visitare i cantieri del percorso, pronto per l'anno prossimo, perché considerano il tracciato un problema diplomatico. Il ministero dei Trasporti ha preferito cancellare l'evento che avrebbe dovuto svolgersi agli inizi di giugno, a pochi giorni dalle celebrazioni organizzate dagli israeliani per il cinquantesimo anniversario della vittoria. Laars Faaborg-Andersen, ambasciatore dell'Unione Europea, avrebbe precisato che i Paesi non intendono boicottare il progetto della ferrovia. Nel 2011 la società tedesca Deutsche Ban ha interrotto la partecipazione ai lavori perché il tragitto «è controverso da un punto di vista politico».

(Corriere della Sera, 29 maggio 2017)


Il futuro delle tecnologie automobilistiche è Israele

 
Macchine autonome, batterie per auto che si caricano in cinque minuti, un sensore in grado di analizzare l'ambiente circostante e auto che "dialogano" tra loro sulle condizioni stradali. Questi sono solo alcuni dei progetti a cui stanno lavorando le aziende tecnologiche israeliane per migliorare l'esperienza di guida.
  La reputazione di Israele come l'hub high-tech del Medio Oriente si è consolidata ormai dal alcuni anni, ma le sue recenti innovazioni nel settore automotive sono un fenomeno relativamente nuovo.
  Nel mese di marzo, la statunitense Intel ha acquistato la startup Mobileye per circa 15 miliardi di dollari, diventando così il più grande affare concluso nella storia dell'high-tech israeliano.
  Altre aziende di tecnologia stanno facendo incetta di investimenti. Otonomo ha recentemente raccolto 20 milioni di dollari per la sua tecnologia che consente il passaggio di dati tra macchine. Foresight Autonomous Holdings, che realizza videocamere per la sicurezza in auto, ha recentemente ricevuto 12 milioni di dollari, secondo Globes.
  Secondo Lior Zeno-Zamansky, direttrice esecutiva di Ecomotion, che promuove in Israele le imprese di trasporto intelligente, ha rivelato che gli investitori negli ultimi 4 anni hanno speso 4 miliardi di dollari in tecnologie automobilistiche israeliane.
  Questo il commento di Zeno-Zamansky:
Negli ultimi 12 mesi, l'interesse globale verso la tecnologia israeliana è in aumento. Ognuno è alla ricerca del prossimo Mobileye.
  La tecnologia israeliana è diventata un punto di riferimento globale, Drive ad esempio è un centro e un incubatore per l'innovazione automobilistica in Israele, fondata a febbraio con l'aiuto delle case automobilistiche Honda e Volvo.

(SiliconWadi, 29 maggio 2017)


La guerra dei sei giorni

Viaggio nei luoghi di Israele dove cinquant'anni fa morì il nazionalismo arabo. Dopo i conflitti con gli Stati ora le minacce arrivano dai gruppi islamici

di Domenico Quirico

Governo riunito al Muro del Pianto
Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha voluto celebrare il cin- quantenario della «riunificazione» di Gerusalemme con una riunione del suo governo all'interno del tunnel del Muro del Pianto. «Rafforzeremo» Gerusalemme, ha promesso Netanyahu, citando diversi progetti di sviluppo fra cui una funicolare per portare turisti e fedeli al muro del Pianto, il luogo più santo dell'ebraismo. Cinquant'anni fa, nel 1967, Israele sconfisse i Paesi arabi che l'avevano attaccato nella Guerra dei Sei Giorni, conquistando Gerusalemme est e la Cisgiordania. Israele considera Gerusalemme sua capitale «eterna e indivisa».

    
TEL AVIV - Passata avanti la guerra non si possono riconoscere i luoghi. Ai luoghi restano i nomi della geografia, e alle battaglie la data.
Quello che conta non sono le battaglie, ma i giorni e i mesi e gli anni che sono durate con gli uomini aggrappati alla terra, alla sabbia, alle pietre in una lotta sepolta. Qui cinquanta anni fa, sei giugno 1967, una data densa della storia del mondo, tutto durò appena sei giorni. Una guerra breve, un lampo, eppure in un tempo così breve molte cose che sembravano eterne morirono: il nazionalismo arabo, innanzitutto, sconfitto e archiviato. Su quelle rovine l'Islam politico iniziò a costruire i suoi disegni. E anche Israele cominciò a morire: sì, il trionfatore. Quello eroico dei pionieri, degli irriducibili sopravvissuti fondatori di uno Stato, nel momento della vittoria, come spesso il ghigno della Storia decide, raggiunsero l'apogeo e iniziarono il declino. Israele invincibile peccò della greca hybris, l'arroganza.
Mezzo secolo fa Israele sconfisse alcuni Stati, la Siria l'Egitto la Giordania. Oggi combatte con Daesh, Hamas, Hezbollah, Al Nusra, gente che prescrive e dogmatizza, perseguita e punisce, dà degli esempi. Messi, investiti, scomunicatori, giustizieri: l'abiezione fanatica. Con gli Stati, seppure autocrazie spietate, si poteva trattare, fare la pace come è accaduto, faticosamente. Ma oggi?
   Percorro luoghi delle guerre di ieri per capire le ragioni di quelle di oggi. Il tempo si vendica come si vendica di chi non riesce ad adoperarlo o lo usa per uccidersi. La guerra è purtroppo la cosa più semplice del mondo. Se non fosse così, se i soldati dovessero conservare a giustificarla un'ombra solo dei discorsi e delle polemiche, gli resterebbe in mente di aver patito il più grande sopruso, l'inganno più scellerato. Ma alla guerra si dimentica tutto. Gli israeliani 50 anni fa, rialzando il capo dopo la mischia breve e crudele, guardando il Canale e l'Egitto davanti a loro, e il Muro di Gerusalemme riconquistato, e Damasco laggiù nella bruma calda a un passo dal monte Hermon, dissero: è finita. E invece le nazioni, vinte e vincitrici, hanno i loro fornitori di miserie e di illusioni e dopo quella vennero altre guerre, il '73 il giorno più lungo di Israele, e Beirut, e ancora il Libano e l'intifada. La guerra così diventa un mestiere e una obbedienza.
   Salgo dalla Galilea verso il Golan, sfioro il monte delle beatitudini e il lago di Tiberiade folgorato dalla luce sciancata dell'alba. Il Golan è paese proprio alla guerra. Non ci sono distrazioni di cieli, albe e tramonti vi sono lenti, le acque se le bevono le rocce e i calcari, le quote si allineano per lungo e per largo guardate dalle nevi ormai minime del monte Hermon e dalla rocca crociata di Nimrud, castello ariostesco tra boschi fitti e piantagioni. È un paese che permette soltanto lontani orizzonti di pianura di mare e di montagne, privo di vicinanze. Quel che fa l'idea di andare sono le strade. Qui le strade spariscono alle svolte oppure lontane conducono a quei luoghi di orizzonte, borghi di cui si chiede il nome con cautela. Lì comincia il Libano laggiù è Siria qui la Galilea con la sua campagna sfruttata di tutti i suoi succhi. Paese adatto a viverci nelle pietre fino al mento e che nasconde due eserciti l'uno all'altro. Sembra fatto da dio con i sassi avanzati dalla fabbrica del mondo, mi ha detto un kibuzzin guardando soddisfatto l'opera sua che ha corretto e fecondato quella distratta di dio.
   «Il confine è a un passo» mi hanno avvertito, venti minuti a piedi e sei davanti alla Siria. E pure quando il dirupo finisce e mi affaccio sulla pianura siriana mi manca il respiro. La valle a perdita d'occhio ben spezzata di campi segnati e macchie di verde e di giallo, è piena di aria cruda, di estraneità e di sofferenza. In quello spazio stanno palesi le ragioni di una tragedia infinita. Sotto di me, li tocco, due villaggi con grida di bimbi e minareti. E poi, di colpo, in mezzo a un gregge, un uomo comincia a gridare e a fare segni verso di me, sì verso di me, agita uno straccio per richiamare l'attenzione, le sue parole arabe me le porta via il vento. Rispondo agitando la mano e allora lui grida grida con gioia e ripete, e stavolta lo sento, in inglese grazie grazie.
   In quei villaggi, nel mistero che li avvolge, non c'è l'esercito siriano ma le sigle nere del califfato. Ogni tanto qualche colpo che scambiano con i soldati di Bashar Assad cade per errore nella zona controllata di Israele. Per sbaglio: non hanno tempo per occuparsi dei sionisti, devono regolare i conti tra loro. E forse il calcolo israeliano è questo e non so se sia segno di lungimiranza. Ogni guerra sosta di tanto in tanto. Il sole accolto risale e trabocca dai sassi del Golan. Colonne di blindati candidi, i mezzi della annosa missione Onu di interposizione, risalgono le strade degli escursionisti e dei gitanti, salutano con larghi cenni chi accosta per lasciarli passare.
   Oltre questa frontiera di guerra sospesa è diventato indebito il mio contegno con gli uomini e le cose di questa parte di mondo. L'appello di quel pastore siriano oltre la griglia di questo confine di odio mi spoglia di guerra e di passione, anzi di umanità di qua e di là del fronte troppo stanca. Come loro non saprei dire cosa mi duole, come loro, ebrei e arabi, ho nella mia costituzione il dolore.
   Appena dentro la frontiera dell'armistizio c'è il moshav, che è una versione addolcita del kibbuz, di Majdal Shams. Religiosi, anche se non ultra-ortodossi che ormai hanno in ostaggio la politica di Israele. Questa era Siria fino al '67, l'unico confine dove la guerra non è mai finita con un accordo di pace. Ci aspetta Rifka, Rebecca, che è arrivata bambina da Parigi. E ha vissuto prima in una colonia a Hebron, terra dura e feroce di scontro. Mi parla con entusiasmo goloso del fatto che sta per iniziare la raccolta delle fragole, la stagione è buona e ricca, e dice che non lascerà mai questo posto perché qui può ascoltare gli uccelli e il vento. E capisci che non potrebbe mai accettare la relegazione in un altro posto che la escluda dalla cornice dei frutteti, dei poggi e delle casette del moshav con il suo rifugio antibombe. Poiché ha compreso che quei contorni sono i soli, gli unici a poter racchiudere i suoi giorni futuri.
   Ora pieghiamo di nuovo verso Ovest e questa è frontiera del Libano, che ormai per gli israeliani equivale a Hezbollah, il partito-esercito sciita. Siamo al punto 105, ogni sezione della frontiera è segnata per consentire in caso di infiltrazione ai soldati di intervenire più rapidamente. Solo qui ho sentito voci preoccupate, sguardi farsi attenti scrutando i villaggi sciiti sulle colline di fronte. Hezbollah è l'unico nemico di cui Israele ha rispetto, forse paura: più dell'Isis, più dei siriani. Davanti a me c'è Marum Harash dove nel 2006 i combattimenti costarono a Israele molti inutili morti. Le montagne fitte di boschi impenetrabili sono come scalpate dalle scavatrici, affiorano ferite larghe, lingue di terra rossa e nuda al sole. Non sono cave o disboscamenti. Israele scoperchia gli angoli morti della frontiera dove possono passare gli uomini di Hezbollah senza essere scorti, li costringe al terreno aperto. Un muro anche questo, fatto di amputazioni e non di reticolati o blocchi di cemento.
   Scendiamo di nuovo verso il mare, si sente la cadenza delle onde del Mediterraneo, delle onde che battono contro la Palestina come contro una parete, il bordo estremo della grande vasca d'acqua fra Europa Asia e Africa. Penso che non ci sia Paese al mondo lungo come Israele, lungo nel tempo intendo, non nello spazio. Non esiste Paese i cui lineamenti abbiano la lunghezza di tempo che va dalla nascita di Abramo alle biotecnologie. Lineamenti concreti limpidi vivi da toccare con il dito: vivo il vecchio Testamento con le sue valli coperte di erbe e di fiori, con le colline fitte di agrumeti e di viti; e viva la modernità più avanzata e audace. Mi raccontano di un progetto di quindici miliardi di dollari per costruire l'auto robot, di ricerche per creare serre dove per risparmiare energia si scalderanno solo le radici delle piante e ahimè anche di nuovi carri armati e cannoni. Se il tempo è davvero una dimensione non esiste paese più esteso di Israele. Dove la fisica e la biologia fino alla partenogenesi convivono con chi vuole ricostruire il sinedrio e il terzo tempio di Salomone (spianando le moschee musulmane!).
   Il deserto nasconde i fatti di guerra, il tempo fa alla memoria quello che gli anni fanno al vino. Nasconde i morti. La sabbia è gialla e monda, come la cenere, come la polvere antica. I morti son troppo lontani e vicini qui, al confine con Gaza e Hamas.
   Al kibbuz di Nirim oggi è iniziata la stagione dei bagni, ha aperto la piscina, incontri ragazzi forti. Come tutti i contadini del mondo hanno il viso bruno, meta carne e metà cuoio, lo sguardo duro, le mani nodose, come tutti i contadini del mondo parlano con frasi corte secche e hanno risate profonde.
   Adel, americana, fragile e antica, con un gran cappello di paglia contro il sole mi racconta la regola dei dieci secondi: il tempo in cui bisogna esser pronti a fuggire, in caso di allarme per il lancio di razzi di Hamas, nella stanza blindata di casa o rannicchiarsi a terra come le mani serrate attorno ala testa. Sono gesti che conosco, come conosco luoghi dove le vittime non hanno nemmeno la possibilità dei dieci secondi perché nessuno farà mai suonare la sirena o un appello sul telefonino. Gaza è lì, appena oltre il reticolato e i campi di grano: due minareti come matite verdi puntate verso il cielo. Gaza con i suoi ventimila combattenti ormai ben addestrati e armati, dove il radicalismo politico religioso si insinua e fa proseliti e non rispetta la tregua tacita con Israele: la prova di come la guerra di 50 anni fa non risolse nessun problema.
   Sui confini Israele dei pionieri che esportavano il comunismo, un comunismo puramente empirico al di fuori di ogni enunciato razionale, anche se le punte di collettivismo integrale sono state uccise dal tempo, pare ancora vitale. Giovani famiglie, a decine, fanno domanda per venire nel kibbuz. Nel resto del Paese, invece, ho l'impressione di una sorta di smobilitazione dell'animo degli ebrei in Israele: alla fine della loro alta tensione. Non so quanto sia giusto rimproverarli per non essere rimasti se stessi come avremmo voluto, quelli della epopea del 1948, quelli che abbiamo ammirato increduli nel '67: rimproverarli per l'arroganza, per aver scambiato la potenza per virtù. In fondo la perdita della loro eccezionalità per forza maggiore, al loro ingresso nella media di virtù e difetti comuni a tutti i popoli che hanno una patria, è inevitabile. Il male di cui soffrono, la mediocrità della classe politica rispetto alla vivacità della società e alla grandezza dei problemi, è il difetto di tutto quello che un tempo chiamavamo Occidente.
   Adele, che mi racconta come è sopravvissuta ai razzi, aggiunge: «Perché dovrei odiare i palestinesi? Non sono miei nemici sono miei fratelli». L'eterna, splendida ragionevolezza delle minoranze che sono ahimè! minoranze.
   Se devii dalla autostrada che porta al Mar Morto verso il tranquillo confine giordano in pochi minuti arrivi alla tomba di Ben Gurion, sul ciglio di una montagna che guarda il deserto. Gazzelle brucano l'erba senza paura, un battaglione di giovani soldati seduti all'ombra ascolta la lezione di storia del suo ufficiale. Tagliato dal sole a picco il paesaggio offre il fascino triplo della bellezza, del mistero e della minaccia. Forse qui si comprende che la forza di questo popolo, con i suoi innumerevoli errori, è in questa pazienza inesauribile, tessuta, intrecciata nel corso dei secoli con il destino nemico, le sue ombre, il suo frastuono che ritmano l'esistenza. Una pazienza di cui nessuno è riuscito ad avere ragione, che niente ha potuto incrinare. Sanno soffrire come nessun popolo ha sofferto e sanno sperare contro ogni speranza.

(La Stampa, 29 maggio 2017)


Quando Ibrahim costrinse Avraham all'esilio

Con la cacciata degli ebrei il nazionalismo arabo si è condannato a un destino di intolleranza permanente.

di Piero Di Nepi

 
Partita a scacchi tra un ebreo e un musulmano - Andalusia XIII sec.
Damasco, 5 febbraio 1840: il Superiore del convento francescano e il suo domestico scompaiono. Sulla fiorente comunità ebraica della città si abbatte l'accusa di omicidio rituale. Del tutto estranea, peraltro, alla periodica intolleranza antigiudaica dell'Islam caratterizzata da altre forme e altre radici. L'accusa del sangue l'avevano portata in Siria, purtroppo, gli occidentali. Tredici maggiorenti ebrei vengono arrestati, tre muoiono sotto tortura, uno si converte all'Islam. Le autorità imperiali turche lasciano fare, bisogna dare qualcuno in pasto alla violenza che già cova sotto il nascente nazionalismo arabo e lo segnerà per i successivi 170 anni, fino a noi. Le potenze europee intervengono. Il caso si risolve, i superstiti vengono liberati e riabilitati. L'Impero Ottomano è già "il grande malato" destinato a dissolversi sotto i colpi di Lawrence d'Arabia e del patto Sykes-Picot.
   Nulla è fuorviante in materia quanto l'attuale dibattito sul Corano e sulla vita stessa del Profeta. Anche le vicende legate ai rapporti dell'Islam delle origini con le tribù ebraiche della Penisola Arabica vengono sottoposte a interpretazioni di parte condizionate dall'attualità. Senza sfumature, tutto bianco o tutto nero. I testi sacri delle grandi religioni contengono passi in apparenza contraddittori, e l'analisi è soggetta alle più diverse correnti di pensiero. Se il testo è anche fonte di diritto, la legislazione e l'applicazione giurisprudenziale di essa risultano ovviamente legate alle concrete condizioni storiche.
   Nel secolo passato il nazionalismo arabo fu incoraggiato dalla Germania hitleriana in funzione antibritannica. Durante il mezzo secolo della guerra fredda l'Unione Sovietica decise di alimentarlo in modo assolutamente dissennato. In tale contesto la nakba degli ebrei, dalla Libia all'Irak passando per l'Egitto e per la Siria, cominciò molto presto. Cominciò con i massacri del 1945, a guerra già conclusa in Europa. Con la parola "nakba" (catastrofe, distruzione) gli arabi palestinesi definiscono l'indipendenza dello Stato di Israele proclamata nel 1948. Ma la nakba degli ebrei nelle terre arabe aveva avuto inizio tre anni prima e certo non fu determinata dalla spartizione del mandato britannico votata all'ONU il 29 novembre del 1947.
   Una nakba che non si fermò fino a quando 850.000 ebrei non furono espulsi, spogliati di tutto. Costretti a fuggire in circostanze terribili, incalzati dai pogrom. Neppure la Russia degli Zar aveva assistito alle persecuzioni antiebraiche con l'impassibilità che invece contraddistinse le borghesie arabe. Nazisti e fascisti, oltre naturalmente ai francesi di Vichy, avevano seminato molto bene immediatamente prima della Seconda guerra mondiale, e poi nel corso delle campagne di Graziani e di Rommel sulle coste nordafricane tra l'estate del 1940 e la primavera del 1943. Ma l'odio antiebraico mai aveva caratterizzato le società islamiche in qualità di elemento strutturale e fattore identitario per contrapposizione. Sicuramente l'Islam non aveva creato per gli ebrei il paradiso che qualche storico ha voluto raccontare. Non fu neppure l'inferno che le società organizzate d'Europa - le grandi monarchie cristiane d'Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo - scatenavano periodicamente contro le comunità ebraiche. Solo con i fermenti di libertà dell'ultimo Seicento l'Europa protestante avviò un dibattito sulla condizione degli ebrei, che gradualmente si estese ai paesi cattolici e all'impero asburgico, cerniera decisiva tra Roma e i luterani, in attrito permanente con il Turco. Che i propri ebrei li proteggeva, e molto bene. Anche se, come tutti i regnanti, il Sultano di Istanbul ogni tanto scaricava su di loro le tensioni interne.
   Gli ebrei in fuga dalla Spagna dei Re Cattolici preferivano gli Ottomani, quando in Italia i profughi ebrei potevano finire bruciati sul rogo come i marrani di Ancona. Roma era ridotta a un borgo di 15.000 abitanti, al tempo di Carlo Magno, mentre nella cosmopolita Baghdad si poteva leggere e commentare liberamente il Talmud Babilonese sotto il forte governo di Harun al-Rashid (766-809, e il nome vale Aron il Giusto). Jehuda Ha-Levi completò in arabo il suo Kuzarì (1140), mentre Rambam Maimonide dovette abbandonare Cordova quando gli Almohadi introdussero proprio in Al-Andalus l'Islam dei fondamentalisti, come oggi si direbbe, precursore di Isis-Daesh. Rambam non fuggì verso Roma, era il 1148, e neppure a Parigi o Bologna, bensì prima a Fez e poi al Cairo.Per la storia degli ebrei nel mondo islamico sono stati versati torrenti d'inchiostro, e molti ne scorrono tuttora.
   Inquinati, come è naturale e inevitabile, da innumerevoli dibattiti sul conflitto arabo-israeliano, sulla difficile coabitazione dello Stato di Israele con i Palestinesi e sui conflitti fratricidi tra Gaza e Ramallah, sul terrorismo islamista, sull'emigrazione di milioni di musulmani in Europa. Parlare di ebrei nel mondo islamico è materia da specialisti, materia che non si piega alle semplificazioni giornalistiche e neppure alla divulgazione degli instant-books.
   La maggioranza del mondo islamico oggi nulla ha in comune con i paesi arabi, se non la fede. E anche questa segnata dalla spietata rivalità che contrappone sunniti e sciiti. Sono oggi soltanto quattro i paesi islamici che conservano minoranze ebraiche autoctone: la Repubblica di Turchia (18.000), la Repubblica Islamica dell'Iran (10.000), il Regno del Marocco (6.500) e la Repubblica Tunisina (1.500). Inutile addentrarsi nell'analisi di paradossi e situazioni molto particolari. Chi vuole può emigrare, anche dall'Iran. In Marocco il Re Mohammed VI, che vanta nella propria dinastia alawide una discendenza diretta da Maometto, fa delle garanzie offerte agli ebrei un pilastro della politica interna e internazionale. Naturalmente nel 2001 ha interrotto i rapporti diplomatici con Israele, avviati dopo gli accordi di Oslo, in segno di appoggio alla cosiddetta seconda intifada in Giudea e Samaria. Tuttavia le periodiche visite del sovrano presso istituzioni e sinagoghe lasciano forse intendere che una lettura corretta del Corano deve garantire agli ebrei tutti i privilegi riservati al popolo del Libro (la Torà) e non la condizione giuridicamente discriminatoria del dhimmi (letteralmente "persona protetta", suddito non musulmano). Bisogna infine notare che la Turchia di Erdogan si è oggi trasformata in baluardo dell'Islam sunnita, mentre gli ayatollah di Teheran alimentano il risentimento sciita contro le maggioranze ortodosse che fanno oggi capo alla monarchia di Riyad. Ed è un risentimento vecchio di 1.400 anni, caratterizzato dalla più sanguinosa e reciproca intolleranza.

(Shalom, maggio 2017)


"Insultato dai manifestanti contro Israele mentre ero con mia figlia: non hanno proprio dignità"

Esemplare di arte filopalestinese
Quello che mi è successo ieri mi ha lasciato davvero basito. Stavo accompagnando mia figlia al Palazzo dei Congressi per vedere sua sorellina cantare al coro della conferenza Svizzera Israele, mentre i manifestanti dicevano di tutto a chi entrava con insulti di ogni genere.
Francamente sono abbastanza neutrale su quanto succede in Israele anche perché non ne so molto, mi chiedo però come si possa fare i pacifisti o quelli dalla parte della ragione, se poi il massimo che sai fare è insultare le altre persone, incuranti del fatto che magari ci siano i propri figli a sentire.
Ma non hanno un po' di dignità? Ma non hanno altro di meglio da fare la domenica pomeriggio?

(mattinonline, 29 maggio 2017)


Ordinata la chiusura del centro di stoccaggio di ammoniaca di Haifa Chemicals

GERUSALEMME - La Corte suprema israeliana ha stabilito la chiusura del centro di stoccaggio di ammoniaca di Haifa Chemicals entro la fine di luglio. Lo scorso febbraio la municipalità di Haifa aveva chiesto la chiusura dell'impianto, dopo che un rapporto aveva rivelato gravi deficit strutturali che metterebbero a rischio la vita di decine di migliaia di persone. Da anni attivisti e politici si battono per la chiusura dell'impianto. Sebbene, secondo la Corte, la probabilità di una perdita della cisterna sia minima, il danno che potrebbe provocare è elevato. La sentenza dovrebbe esser eil capitolo finale di una saga durata circa dieci anni, evidenzia il quotidiano israeliano "Times of Israel". Nel documento prodotto dai giudici, infatti, si legge che "la cisterna non ha avuto la licenza edilizia e Haifa Chemicals funziona senza una licenza d'impresa".

(Agenzia Nova, 29 maggio 2017)


Chiedevano alla Regione 42 milioni per cure odontoiatriche: mai fatte

Lo dice il tribunale. Era l'ultima richiesta dell'ex direttore dell'Israelitico Mastrapasqua.

di Ilaria Saccehttoni

 
Era solo l'ultimo escamotage: è stato disinnescato.
Al grido di: «Facciamo un po' di Cinecittà» gli ex vertici dell'Ospedale israelitico avevano dato l'abbordaggio alle casse regionali. Almeno fino all'arresto il 21 ottobre 2015 dell'ex direttore Antonio Mastrapasqua impegnato, secondo la procura, con altri dirigenti e funzionari, nella manipolazione quasi sistematica della contabilità e degli spazi a disposizione pur di lucrare sui rimborsi regionali.
   Ora, tempo dopo, con una sentenza ampiamente motivata i giudici della seconda sezione civile del Tribunale di Roma hanno respinto la pretesa, avanzata all'epoca, di ottenere altri soldi pubblici.
   Stavolta si trattava di una richiesta monstre di 42milioni di euro di rimborsi per operazioni odontoiatriche teoricamente effettuate fra il 20o6 e il 2011, ma in realtà, così scrive il giudice Alfredo Matteo Sacco, mai erogate.
   La richiesta era solo uno dei vecchi azzardi dell'ex manager che però ora rischia di aggravare la sua posizione, perché i pubblici ministeri Corrado Fasanelli e Maria Cristina Palaia, a questo punto, potrebbero depositare questa sentenza al processo nei suoi confronti.
   Sfrontate le anomalie e le carenze della documentazione contabile allegata alla causa.
   Per dirne una i giudici si sono trovati alle prese con ricevute dai codici sballati che contrassegnavano le teoricamente avvenute prestazioni con il codice 36 anziché 35, ossia quello comunemente utilizzato per l'ortopedia anziché per le cure dentistiche. Non bastasse il tribunale fa notare anche in merito all'accreditamento una serie di inadempienze da parte dei vertici ospedalieri: «Quanto al rapporto di accreditamento l'ospedale non è stato in grado di dimostrarne la sussistenza in relazione alle prestazioni di natura odontoiatrica e di natura odonstostomatologica erogate in regime di ricovero ospedaliero (day hospital». E ancora: «La sistematica trasmissione dei dati utilizzando un codice branca non appropriato e l'altrettanto sistematica fatturazione di servizi medico assistenziali diversi da quelli effettivamente erogati (se effettivamente erogati) costituiscono anomalie indicative di condotte certamente non informate a criteri di legalità».
   Insomma gli ex vertici dell'ospedale hanno inanellato una vistosa serie di anomalie e omissioni, trascurando di far presente, fra l'altro, l'assenza di accordi con la Regione Lazio in merito all'accreditamento. Stupefatti i giudici che concludono così: «Invero l'Ospedale Israelitico non soltanto non è stato in grado di dimostrare l'effettiva ed esatta esecuzione qualitativa e quantitativa delle prestazioni sanitarie in discussione ma neppure è stato in grado di individuarle e indicarle analiticamente». Non solo il tribunale ha rigettato le richieste ma ha anche condannato l'ospedale a «pagare immediatamente in favore delle convenute Regione Lazio, Asl di Roma A e Asl D le spese processuali liquidate per ciascuna in euro 85mila». Soldi che però a questo punto ricadono sulle casse della nuova gestione ospedaliera.
   La richiesta di processo per truffa nei confronti di Mastrapasqua e di altre sedici persone, risale a fine 2016. L'ex manager dai molti incarichi era accusato fra le altre cose di aver depistato sistematicamente gli ispettori della sanità nel corso delle verifiche. Secondo gli approfondimenti dei carabinieri del Nas: «in qualità di direttore generale e amministrativo di aver alterato lo stato dei luoghi, la destinazione degli ambienti e le attività sanitarie, per indurre in errore il personale ispettivo circa la rispondenza del presidio ospedaliero alle prescrizioni impartite nell'ambito della procedura di conferma dell'autorizzazione». L'udienza preliminare è prevista a giorni.

(Corriere della Sera - Roma, 29 maggio 2017)


Gaza - Hamas: 'niente cani in spiaggia'

GAZA - Con un provvedimento che ha colto di sorpresa la popolazione, da questo mese Hamas ha deciso di impedire che i cani siano portati a passeggio sul lungomare di Gaza. Quanti ancora lo fanno sono fermati da agenti che per il momento si limitano ad illustrare la nuova norma, senza fare multe ne' confiscare animali. Fonti locali aggiungono che il passeggio con cani - di tutte le dimensioni - è impedito anche nella centrale via Omar al-Mukhtar, mentre è tollerato nelle strade secondarie e nei quartieri periferici, dove è più raro imbattersi in agenti. Nelle famiglie di Gaza la presenza di cani non è diffusa, anche perché negli ultimi anni mantenere condizioni igieniche nelle abitazioni è divenuto più difficile. Tuttavia nei negozi di animali si afferma che, oltre ad uccellini e gatti, adesso anche i cani vengono richiesti con maggiore frequenza da clienti in cerca di distrazione, dato che la maggior parte del giorno manca loro la corrente elettrica.

(ANSAmed, 28 maggio 2017)


La società Energean sigla un contratto per forniture da giacimenti offshore di Tanin e Karish

ATENE - La società greca Energean ha siglato un contratto per fornire fino a 23 miliardi di metri cubi di gas naturale dai giacimenti offshore israeliani di Tanin e Karish. L'accordo è stato siglato oggi dalla società Energean con Dalia Power, compagnia che opera nella più grande stazione energetica privata di Israele, e con Or Power, che sta pianificando la creazione di nuovi impianti nel paese. Lo riferisce oggi un comunicato della società greca Energean, che aggiunge di contare di poter avviare la produzione a Tanin e Karish nel 2020. "L'accordo è un passo sostanziale verso la concorrenza e per rendere più economica l'energia sul mercato a beneficio dei consumatori israeliani e per l'economia del paese", ha dichiarato l'amministratore delegato di Energean Mathios Rigas. Energean è una società privata greca, molto attiva anche in Montenegro, a Cipro e Israele. Per quanto riguarda Israele, Energean ha trovato alla fine del 2016 un accordo per la cessione dei giacimenti di gas naturale di Karish e Tanin; tale intesa prevede il versamento di 150 milioni di dollari alle società del consorzio, Noble Energy e Delek Group. I giacimenti di Karish e Tanin contengono circa 60 miliardi di metri cubi di gas.

(Agenzia Nova, 28 maggio 2017)


Giugno 1967, la settitnana che abbatté il mondo arabo

Comunicazioni, addestramento, logistica Così Israele vinse la Guerra dei sei giorni. Le pressioni dell'Egitto e dei suoi alleati erano insostenibili. E la risposta fu poderosa e fulminea.

di Matteo Sacchi

 
La guerra dei sei giorni
Per il mondo la Guerra dei sei giorni iniziò con un rombo cupo e improvviso. Quello dei cacciabombardieri israeliani che, dopo un lungo volo radente, salivano di quota per buttarsi in picchiata sopra gli aeroporti militari egiziani, alle 7 e 45 (ora israeliana) del 5 giugno del 1967 (siamo quasi al cinquantenario). Era l'operazione Moked che l'Idf, le forze di difesa israeliane, avevano pianificato in ogni dettaglio per cinque anni.
  Per gli avieri egiziani che correvano verso i veicoli fu questione di pochi secondi prima di essere investiti dal fuoco nemico. Per l'aviazione israeliana invece quella manciata di attimi fu il coronamento di una lunga progettazione. Era iniziata con il dispendiosissimo (200 milioni di dollari) acquisto dall'aviazione francese di 76 Dassault Mirage IIICI. La «J» che stava per juif, ebreo in francese, indicava speciali modifiche. L'aggiunta di due cannoni da 30 millimetri e di agganci subalari per bombe da attacco al suolo. Lì andavano agganciate le speciali bombe a razzo pensate per distruggere le piste degli aeroporti nemici. La progettazione era poi proseguita con un addestramento forsennato dei piloti (nel deserto del Negev bombardavano a ripetizione perfette copie delle basi aeree egiziane) e del personale di terra, che riusciva a riarmare e rimettere in volo un aereo in soli 10 minuti. In pratica ogni aereo poteva così svolgere otto missioni al giorno. Per fare un confronto, in condizioni normali, gli egiziani erano in grado di fare alzare in volo soltanto il 30 per cento dei loro aerei.
  Ma anche così le cose avrebbero potuto andare storte: i giordani, dotati di un sistema radar avanzato ed efficiente, acquistato dagli inglesi, cercarono di avvertire gli egiziani del fatto che da Israele si erano alzati in volo quasi tutti gli aerei. Ma gli egiziani avevano appena cambiato i loro codici di trasmissione segreti senza avvertirli e il messaggio non poté essere decifrato. Il risultato fu che la forza aerea del più potente dei Paesi arabi che circondano Israele fu annientata in meno di mezz' ora. Ogni base subì tre attacchi in meno di 20 minuti. Poi seguì una seconda ondata. Nello spazio di due ore e mezza gli egiziani persero 293 aerei. Gli israeliani soltanto 16, abbattuti o gravemente danneggiati. Intanto anche nel Sinai le truppe di terra di Tel Aviv avevano iniziato ad avanzare. Ma era soltanto una delle direttive d'azione di questa macchina bellica precisa come un cronometro. Alle 12 e 45 l'aviazione israeliana iniziò a colpire Giordania, Siria e Irak. In breve vennero distrutti altri 119 aerei. A quel punto restava da combattere quello che sarebbe stato un duro scontro di terra, uno scontro ormai completamente sbilanciato. Come dimostrano anche i numeri: alla fine del conflitto i morti israeliani furono 679, quelli arabi circa 21mila.
  Di come si sia svolto il conflitto, di come si sia originato e di quali siano state le sue conseguenze si discute oggi alle 15 sotto la tenda Erodoto al festival goriziano è Storia. A farlo saranno Ahron Bregman, storico del conflitto arabo-israeliano che insegna studi strategici a Londra ed è autore de La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati (appena pubblicato da Einaudi), e Simon Dunstan, storico militare autore de La Guerra dei sei giorni. 1967: Sinai, Giordania e Siria (Leg). Dunstan nel suo lavoro ha ricostruito in maniera certosina i motivi che portarono alla guerra. Perché, se l' attacco partì da Israele, il livello delle pressioni da parte dell'Egitto e dei suoi alleati era diventato davvero intollerabile. Anche a causa degli errori della diplomazia internazionale. Nel maggio 1967 Nasser aveva ricevuto falsi rapporti dall'Unione Sovietica secondo cui Israele - che aveva subito non pochi attacchi contro i civili sui confini con l'Egitto e la Siria - stava ammassando truppe al confine settentrionale. I rapporti erano gonfiati, ma gli egiziani non se ne accorsero. Il presidente egiziano, anima del panarabismo, fece la voce grossa e chiese l'allontanamento delle forze di interposizione internazionali da Gaza, dal Sinai e da Sharm el-Sheikh. Era più che altro una mossa propagandistica. Però il segretario generale dell'Onu, il birmano Maha Thray Sithu U Thant, lo accontentò a sorpresa, incastrando il presidente egiziano nella sua stessa propaganda militarista e impedendogli di fare marcia indietro. Il 22 maggio Nasser chiuse alle navi israeliane gli stretti di Tiran, azione che, sin dal 1957, Israele aveva dichiarato che sarebbe stata considerata né più né meno che un atto di guerra. E a quella mossa l'attacco israeliano rispose. Gli arabi vennero travolti non perché l'armamento israeliano fosse di molto superiore, anzi, in certi settori, come i carri armati, era addirittura abbastanza obsoleto (mezzi della Seconda guerra mondiale un po' modernizzati). Ma perché Israele aveva investito in comunicazioni, addestramento e logistica. Per citare le parole del brigadiere generale egiziano Tahsin Zaki, «Israele si era preparato per anni a questa guerra mentre noi ci preparavamo alle parate. Le esercitazioni per la parata annuale del giorno della rivoluzione duravano settimane ... ma non si parlava di prepararsi alla guerra».
  Ma basta vincere? È questo il tema su cui si interroga invece Bregmano. Forse quella guerra era inevitabile, ma il retaggio dei Territori occupati ha avvelenato per anni, e non ha ancora smesso di avvelenare, la vita quotidiana degli israeliani. Lo sapeva bene l'uomo che fu comandante in capo dello stato maggiore durante quella guerra, Yitzhak Rabin, ecco perché continuò sempre a perseguire una pace sostenibile. Gli costò la vita e forse potremmo considerarlo una delle vittime di quella grande e spettacolare vittoria di cui fu, assieme a Moshe Dayan, tra i principali artefici.

(il Giornale, 28 maggio 2017)


Finito lo sciopero della fame palestinese. Una farsa nella farsa

E' finita ieri mattina la farsa dello sciopero della fame palestinese, o meglio, del finto sciopero della fame palestinese (almeno per quanto riguarda Barghouti) perché a quanto pare il capo dei terroristi lo sciopero della fame lo faceva fare agli altri.
Comunque, Fatah e i terroristi palestinesi gridano alla grande vittoria sul "terribile" sistema detentivo israeliano e dichiarano di interrompere lo sciopero della fame in quanto avrebbero raggiunto i loro obiettivi, che per essere chiari erano questi....

(Right Reporters, 28 maggio 2017)


Israele, vivere in questa terra da italiano: cosa significa ?

di Riccardo Palleschi

Lo Stato di Israele è stato creato dopo la Seconda Guerra Mondiale nel 1948, in una zona da sempre luogo di scontro e contatto fra diverse culture e religioni, visto che questa terra ha avuto un ruolo chiave per giudaismo, cristianesimo ed islamismo. Israele però è anche meta di emigrazione per alcuni italiani, siamo riusciti ad intercettare una signora italiana che ci vive da tantissimo tempo, Mirella.

- Ciao Mirella, grazie per aver accettato l'intervista, raccontaci un po' di te e delle tue origini.
  Sono nata a Roma il 5/10/1944 a Trastevere le mie origini molto modeste, 7 figli mamma e papa' abitavamo insieme ai nonni materni. Anche la mia famiglia ha subito le leggi razziali e 4 miei zii deportati sei quali una zia diciottenne incinta di 5 mesi nessuno di loro ha fatto ritorno… scomparsi nel nulla. Questa immane tragedia influi' molto nel modo di vivere della mia famiglia, sarebbe troppo lungo spiegare. Alla fine degli anni 50 ci furono rigurgiti di antisemitismo molto violenti, per ben tre volte sono stata aggredita umiliata e percossa per il mio essere ebrea. Nel 1963 iniziai a pensare di andarmene ero troppo delusa e amareggiata, iniziai a frequentare il movimento di giovani ebrei italiani di dottrina socialista e non religiosa. Nel 1965 emigrai in Israele insieme ad in gruppo europeo a Maghen, kibbutz al sud di Israele sul confine di Gaza. Dopo soli tre mesi ci arruolarono, non finii il mio servizio militare perche' mi sposai ma feci in tempo a dare il mio piccolo aiuto durante la mia permanenza sulla linea di demarcazione esattamente 400 metri dall'allora ostile Egitto.
  1967 la Guerra dei sei giorni, ero incinta di 8 mesi, ero a Maghen, ho vissuto quei momenti molto da vicino. Dopo poco tempo lasciammo il Kibbutz, mio marito si arruolo' in polizia e ne e' uscito con il grado di colonnello. Abbiamo vissuto amare esperienze, attentati, uno dei quali nel 1972, salto' in aria in autobus accanto a noi. Mio marito si e' trovato in situazioni molto difficili che non sto a spiegare, insomma di tutto e di più, guerre, attentati, missili, ecc. ecc. eppure non mi e' mai sfiorata l'idea di andarmene, e' vero non e' facile ma non impossibile, amo Israele e questo e' tutto.

- So che vivi da tantissimi anni in Israele, perché hai scelto di vivere qui ? Solo motivi religiosi ?
  No, non sono religiosa anzi il contrario, sento di appartenere a questo popolo e questo popolo deve vivere qui, senza se e senza ma. Volente o nolente il mondo dovra' capirlo, boicottassero quanto vogliono, finito il tempo "Dell'ebreo errante". Forse sembrerò arrogante e se cosi fosse me ne scuso, una cosa e' certa credo molto alle istituzioni mi sento tutelata e difesa, e questo non e' poca cosa.

- Israele è un territorio che balza agli onori della cronaca spesso per i brutti fatti che avvengono lungo il confine con la Palestina. Come la vivi questa situazione ?
  Di orrori ce ne sono stati tanti da ambo le parti e me ne dolgo, ormai Israele e' stato etichettato come "Il male assoluto". Ok ce ne faremo una ragione... solo una precisazione, gli Israeliani non vanno nelle pizzeria, nelle discoteche, nei cinema, negli autobus, nelle scuole e si fanno saltare in aria, noi amiamo la vita, la loro dottrina spargere sangue crocifiggere i cattolici tagliare le teste e cosi via, differenza di pensiero e di civiltà, se poi difendersi equivale ad essere "Il male assoluto"!
Beh non posso farci niente, il tempo e' galantuomo prima poi l'occidente si ricrederà. I primi bagliori cominciano a fare strada... gli attentati in Europa, non ne gioisco perché ci sono vittime innocenti, ma anche qui sono stati colpiti e uccisI civili inermi, meditate gente!!!!

- Qual è il costo della vita in Israele? Affitto, utenze, cibo, etc..
  Il costo della vita e' abbastanza caro ma badate bene che la maggior parte delle tasse va alla sicurezza, quasi tutti hanno una casa comprata perché il governo aiuta sia gli emigranti che I giovani con una sorta di punteggio si prende il muto a lungo distanza e cosi invece di pagare l'affitto si paga il mutuo.

- Un italiano che volesse emigrare in Israele per motivi lavorativi deve per forza conoscere l'ebraico moderno ?
  Sarebbe preferibile parlare l'ebraico ma se parla l'inglese va bene anche così quasi tutti lo parlano, nelle scuola si inizia ad insegnarlo dalla terza elementare. I giovani hanno quasi tutti la maturita' classica poi vanno per 3 anni militare e dopo tantissimi vanno all'università, si punta molto sulla cultura.

- Quali sono per te le differenze principali, aspetti positivi e negativi, tra Italia e Israele ?
  Positivi per l'Italia molto volontariato, ottima cucina, paese pieno di cultura, ma ahime' da come vedo dalle trasmissioni in italiano via satellite i cittadini non si sentono tutelati e questo lo dico con profondo dispiacere. Ogni nazione ha la sua piaga sociale ma quello che vedo in TV mi rattrista, come dire "Ad ognuno il suo, noi circondati da nemici che giurano di cancellare Israele dalla carta geografica e l'Italia con l'ondata emigratoria che ha portato gli italiani a sentirsi insicuri e allo sbando".

Grazie Mirella per averci dedicato il tuo tempo, ti auguro di proseguire la tua strada con pace e serenità. A presto.

(Il portale degli italiani emigrati, 27 maggio 2017)


Il presidente Trump ribadisce volontà dei leader israeliani e palestinesi di raggiungere la pace

ROMA - Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha ribadito la volontà dei leader palestinesi e israeliani di raggiungere la pace e porre fine al conflitto israelo-palestinese. In un discorso pronunciato oggi davanti ai militari statunitensi nella base aerea di Sigonella al termine del G7 di Taormina, Trump ha ripercorso le tappe del suo primo viaggio all'estero dall'insediamento come presidente Usa. Parlando della tappa in Terra santa, seconda visita del suo viaggio iniziato in Arabia Saudita, Trump ha sottolineato di aver ribadito "il legame indistruttibile con lo Stato di Israele". "Qui ho proseguito la mia discussione (iniziata a Riad, ndr) riguardo alla lotta contro il terrorismo, alla distruzione di queste organizzazioni e al sradicamento della loro ideologia", ha detto Trump. "Sono andato al Muro occidentale - ha continuato - un monumento della perseveranza del popolo ebraico o anche pregato nella Chiesa del Santo sepolcro. Ho visto la bellezza della Terra Santa e la fede delle persone che vi vivono, persone che desiderano un futuro di sicurezza e prosperità. Tutti i bambini di tutte le fede meritano un futuro di speranza e pace". In merito Trump ha ricordato la visita a Betlemme e l'incontro con il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas il quale ha "assicurato la sua volontà di raggiungere una pace con Israele, in buona fede". "Anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu mi ha assicurato che è pronto a raggiungere una pace", ha aggiunto Trump ricordando l'amicizia che lo lega al capo del governo israeliano.

(Agenzia Nova, 27 maggio 2017)


Giro d'Italia 2018: Israele sorpassa la Polonia

Gerusalemme vuole la partenza della corsa rosa. Poi Sicilia e lo Zoncolan, che per l'occasione raddoppierà

di Antonio Simeoli (inviato ad Asiago)

 
La partenza del Giro da Pordenone
ASIAGO - Giro 2018, più di qualcosa si muove. Intanto la partenza. Tutti gli indizi fino a poche settimane fa portavano in Polonia, l'invito (tecnicamente alquanto misterioso) della Ccc Sprandi alla corsa rosa e le dichiarazioni dell'ex pro Lang, sembravano più di un accordo firmato. Invece le carte si sono mescolate nelle ultime settimane e per la prossima edizione sta salendo vertiginosamente la candidatura di Israele e in particolare di Gerusalemme quale sede di partenza della prossima corsa rosa. Sarebbe la prima volta nella sua storia che il Giro parte da fuori Europa.
   Dopo gli abboccamenti con gli Usa e in particolare con Washington, una decina d'anni fa quando il padrone del vapore di Rcs era Angelo Zomegnan e il quasi-accordo con il Giappone, per una partenza dal Sol Levante e quattro giorni di gara, l'ultimo dei quali con arrivo in quota sul Monte Fuji, ecco la Terra Santa. Una location altamente suggestiva, capace, come vuole il nuovo capo di Rcs, Urbano Cairo, di dare visibilità mondiale alla corsa e di lanciare il turismo israeliano nel mondo.
   Si deciderà entro giugno, ma la pista è molto calda. Come anche quella che porta, anzi, riporta la carovana in Sicilia, a soltanto 12 mesi dalla due giorni appena conclusa sull'isola. La carovana, quindi, da Israele si trasferirebbe sull'isola per una frazione della memoria, dedicata al ricordo delle vittime del terremoto della valle del Belice. Il prossimo anno sarà passato mezzo secolo da quella tragedia.
   Ma c'è un altro anniversario pesante che incombe sulla corsa rosa 2018: quello della vittoria della Grande Guerra. Per ricordare quel successo nel 1988 il Giro si concluse nella città della vittoria, Vittorio Veneto. Accadrà anche nel 2018? Al momento non è stato ancora deciso perché restano calde le sedi finali di Milano con anche però la suggestione di Roma, dopo il mancato accordo per l'arrivo nella capitale dell'edizione 100. E le salite? Pratonevoso in Piemonte e, a proposito di Grande Guerra, le Sorgenti del Piave. Una salita che strizza l'occhio da anni alla corsa rosa e un arrivo all'origine del fiume Sacro alla Patria sarebbe sportivamente un modo impeccabile per ricordare il sacrificio di milioni di soldati.
   Vicino alle Sorgenti del Piave c'è un'altra salita che preme per tornare, a 4 anni di distanza nella mappa della corsa rosa. È la salita: lo Zoncolan. Enzo Cainero, il patron che quella salita micidiale l'ha esportata nel mondo, è ritornato alla carica con Mauro Vegni, il direttore della corsa rosa: vuole riproporre il piano 2014, quello saltato all'ultimo momento per il "gran rifiuto" dei corridori, la doppia scalata allo Zoncolan. Previsto il debutto del terzo versante, inedito, ma micidiale almeno quanto quello da Ovaro, di Priola.
   Salita dalla frazione di Sutrio, Duron, Sella Valcalda e arrivo classico sullo Zoncolan una ipotesi di percorso. Pensate a un clamoroso toboga di salite e i tifosi (nel 2007 furono oltre centomila) saliti in quota che potrebbero vedere la corsa in diretta per ore con gruppi che si intravedono nella vallate ed elicotteri delle riprese che impazzano in cielo.
   Cainero si fa forte del successo della tappa di venerdì a Piancavallo. Un trionfo anche per la Rai (nonostante alcune discutibili scelte di palinsesto con programmi inutili) che ha fatto registrare uno share per la tappa friulana del 24,29% pari a 2.613.542 telespettatori nel minuto medio. Il programma, che ha realizzato con picchi del 27,15% di share e 2.863.485, è stato l'evento tv più visto nella propria fascia di messa in onda.
   Niente a che vedere con il record di 4,5 milioni di telespettatori registrato nel 2010 per la cavalcata di Basso guarda caso sempre sullo Zoncolan ma un grande risultato. Anche perché il pubblico è stato correttissimo sul percorso, specie sulla salita finale. Ricordate il tifoso-teppista che nel 2014 fece mettere il piede a terra al malcapitato Manuel Buongiono sullo Zoncolan nel 2014.
   Bene, per evitare sorprese del genere Cainero nei punti più stretti e critici della salita del Piancavallo ha piazzato una sorta di "task force" di vigilantes in incognito pronti a mettere fuori uso i tifosi più irrequieti. Un nuovo metodo che ha fatto centro e ha aperto una via sulle strade del giro, proprio come fecero gli alpini messi a guardia dei ciclisti nell'ultimo km dello Zoncolan dieci anni va. Gira e rigira la Carnia fa scuola al Giro d'Italia insomma.

(il mattino di Padova, 27 maggio 2017)


Ute Lemper, la tedesca che accusa i tedeschi

"Non abbiamo mai fatto i conti con il nostro vergognoso passato". Intervista alla cantante e attrice tedesca che per la prima volta porterà in Italia "Songs for Etemity", spettacolo toccante sulle canzoni composte dagli ebrei nei campi di concentramento

 
Ute Lemper
Si intitola "Songs for Eternity", "Canzoni per l'Etemità" ed è uno degli spettacoli più toccanti e coinvolgenti che offra attualmente il panorama mondiale. Perché quelle canzoni capaci di sfidare il tempo che passa, prima di giungere sui palcoscenici di tutto il mondo hanno sfidato la prigionia e le camere a gas, la privazione di ogni dignità umana e il gelo della follia criminale dei campi di concentramento nazisti. Sono infatti le canzoni scritte dagli ebrei deportati ad Auschwitz e negli altri lager nazisti, molti dei quali morirono nelle camere a gas. Canzoni struggenti ma anche piene di speranza, ninne nanne e brani di ribellione, che ora arrivano per la prima volta in Italia insieme con la loro straordinaria interprete, Ute Lemper, cantante e attrice tedesca, famosa per le sue intense interpretazioni delle Canzoni del Cabaret di Berlino, delle opere di Kurt Weill e della canzone francese e per le sue performance a Broadway e nel West End di Londra. Questo spettacolo, però, è un'altra cosa perché quelle parole sono incise nel suo animo grazie al senso di responsabilità e alla caparbia volontà di non dimenticare. Come donna, come tedesca. Tiscali.it l'ha raggiunta al telefono nella sua casa di New York dove vive insieme con i suoi quattro figli.

- Ute Lemper, perché ha scelto di far conoscere queste canzoni?
  "È la mia missione, come donna e come artista, quella di far conoscere un repertorio così difficile e imbarazzante per il passato tedesco. È cominciata negli anni Ottanta quando ho registrato l'intero catalogo di Kurt Weill, un catalogo vietato e bandito dai nazisti che sopravvisse grazie all'emigrazione del suo autore all'estero. Ora, attraverso "Songs for Etemity" esploro l'altro lato di questo divieto. Questi compositori ebrei avevano infatti la stessa storia e la stessa fede religiosa e non avrebbero potuto credere di finire assassinati, dopo essere stati rinchiusi nei ghetti e deportati nei campi di concentramento. "Songs for Etemity" è anche uno spaccato della vita all'interno dei ghetti nei quali erano costretti a vivere. Piccole canzoni cantate nelle strade mentre si emigrava, oppure nelle case mentre si aspettava la cena, o ancora sussurrate ai bambini spaventati durante la notte".

- Qual è la canzone tra quelle che canta in questo spettacolo che la tocca in maniera più profonda?
  "Ce n'è una che racconta il momento in cui le mamme nel ghetto cercavano delle famiglie non ebree per affidare i loro bambini e per dare a questi bimbi una possibilità di sopravvivenza. È una canzone straziante. Descrive una mamma che nella notte esce dal ghetto con il suo bimbo sapendo che non lo avrebbe mai più rivisto. E gli dice non parlare mai più la lingua ebrea: "Da ora tu non sei più ebreo, da ora in poi avrai dei nuovi genitori e giocherai che dei nuovi fratelli e sorelle. Ora tu devi dirmi arrivederci e cercare di sopravvivere anche per me". C'è poi un'altra canzone che si chiama "Auschwitz Tango" basata su un vecchio tango polacco. Le parole invece descrivono la tortura e la vita miserabile dentro i campi di concentramento, ma allo stesso tempo anche il coraggio di ribellarsi e di non lasciarsi umiliare dalle guardie e dai soldati nazisti. L'unico modo di ribellarsi era quello di non soccombere alla speranza".

- Lei è tedesca. Immagino che per lei occuparsi di Olocausto e di crimini nazisti abbia un significato ancora più profondo e tormentato. Sente un senso di colpa? Sente l'imperativo di fare qualcosa?
  "Per me è molto importante parlarne sempre e non dimenticare mai. È stato un crimine talmente enorme in brutalità e in sofferenza che è davvero difficile immaginarne la reale portata. È quasi impossibile rendersi conto che i nazisti hanno ucciso un milione di bambini, cinque milioni di adulti, donne, anziani. Non si può immaginare l'enorme peso di questo crimine organizzato e burocratizzato dai nazisti. lo non trovo nemmeno le parole e tantomeno le risposte: come una nazione abbia potuto seguire un profeta nero come Hitler nel suo antisemitismo che era diffuso ovunque nella popolazione. Non trovo risposte e continuo a soffrire che una nazione abbia potuto fare questo. La mia missione nella vita come artista è di non fermare mai il dialogo e "Songs for Etemity" è una continuazione di questa missione".

- In Germania, secondo voi, com'è vissuta la memoria dell'Olocausto dai tedeschi? Si cerca di dimenticare o c'è al contrario la voglia di ricordare e di fare qualcosa rispetto a ciò che si è vissuto durante la seconda guerra mondiale?
  "Ci sono diversi capitoli nel lavoro che i tedeschi hanno fatto sulla memoria. lo sono nata negli Anni Sessanta, quando la memoria rispetto all'Olocausto era pressoché morta e paralizzata. Mi ricordo che i genitori non ne parlavano con i figli, era troppo vergognoso e terribile farlo Era una società molto nazionalista, con i primi emigrati che giungevano soprattutto dall'Italia, malgrado lo Stato fosse occupato dagli inglesi, dai francesi e dagli americani con una Guerra Fredda che era già stabilita attraverso la costruzione del Muro di Berlino. Allora si parlava di quella situazione lì, piuttosto che di Olocausto. Poi la Germania ha fatto tutto ciò che si doveva fare per ricompattarsi ma ciò che mi è mancato come essere umano è il dolore. È la sofferenza personale di capire ciò che si era compiuto come popolo. Il mio primo marito era ebreo, il mio secondo marito è ebreo. lo ho lasciato la Germania negli Anni Ottanta. Poi finalmente nel 1989 un nuovo capitolo è cominciato, il Muro è caduto. A quel punto si sono trovati nuovi colpevoli, la persone della Stasi, della polizia della Germania dell'Est con i crimini contro l'umanità che si sono perpetrati in quello Stato. Negli Anni Duemila, ci siamo messi alle spalle anche quel periodo e francamente penso che le giovani generazioni abbiano messo sotto il tappeto la grande questione, quella dell'Olocausto con la grande sofferenza e il confronto personale. Di sicuro non si sono mai trovate delle risposte. lo sono certa che i tedeschi sapevano ciò che accadeva nei campi di concentramento. In molti continuano a ripetere che non si sapeva niente. Ma non è così. Forse nelle campagne si poteva ignorare Ma di sicuro chi viveva nelle città sapeva benissimo cosa stava accadendo. Ecco, io trovo che anche in Germania sia arrivato il momento di parlarne".

- Come è cominciata la sua ricerca delle canzoni composte nei campi di sterminio?
  "Tre anni fa, proprio mentre si celebrava il 70o anniversario della liberazione di Auschwitz. Ho preso in mano un libro che mi era stato regalato dieci anni prima dalla mia cara amica Orly Beigel, che è per metà messicana e per metà israeliana e figlia di una persona sopravvissuta all'Olocausto. Si tratta della raccolta di canzoni di Vevel Pasternak e di quella di lise Weber, pubblicata dal marito negli anni Novanta, dopo essere sopravvissuto ad Auschwitz. Si racconta della sofferenza, si racconta dei bambini nei campi di concentramento, si racconta dei viaggi in treno. E poi ho continuato la ricerca grazie a un italiano che si chiama Francesco Lotoro, un musicista che ha dedicato la sua vita alla ricerca delle canzoni e delle musiche scritte nei campi di concentramento. E così è venuta fuori una straordinaria raccolta di canzoni che meritano di essere cantante e conosciute per l'etemità".

(Tiscali, 25 maggio 2017)


I detenuti palestinesi terminano sciopero della fame dopo l'accordo con le autorità israeliane

GERUSALEMME - È terminato oggi lo sciopero della fame iniziato lo scorso 17 aprile da parte dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. La protesta è terminata dopo che 30 detenuti, su oltre 800 che hanno presto parte allo sciopero, sono stati condotti in ospedale nei giorni scorsi in gravi condizioni di salute. Secondo quanto riferito dal responsabile del Club dei prigionieri palestinesi, Qaddura Fares, un accordo è stato raggiunto tra gli scioperanti e le autorità israeliane per migliorare le condizioni di detenzione. L'accordo è stato confermato anche dal Servizio israeliano per i prigionieri, secondo cui l'intesa sarebbe stata raggiunta non con i rappresentanti dei prigionieri ma con l'Autorità palestinese e il Comitato internazionale della Croce Rossa. Le autorità israeliane hanno concesso una delle principali richieste dei detenuti: la possibilità di due visite familiari al mese invece di una. La fine della protesta coincide inoltre con l'inizio del mese sacro musulmano del Ramadan.
   Il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha sollevato la questione delle condizioni dei detenuti durante l'incontro avvenuto a inizio settimana con il capo dello Stato statunitense Donald Trump, in visita in Israele e Territori palestinesi, invitandolo ad affrontare il tema con il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Abbas è inoltre tornato sul tema delle condizioni dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane durante una riunione con l'inviato del presidente Usa, Jason Greenblatt, avvenuta lo scorso 25 maggio a Ramallah. In oltre 30 giorni di sciopero della fame, la popolazione palestinese ha organizzato diverse manifestazioni a sostegno dei detenuti in Cisgiordania, molte delle quali sfociate in scontri con le forze di sicurezza israeliane.

(Agenzia Nova, 27 maggio 2017)


In bici dall'Italia ad Israele

Il viaggio per non dimenticare del ciclista della Memoria

di Valeria Arnaldi

 
Giovanni Bloisi
«Quando sono arrivato In Israele, mi sono emozionato. Ho pensato: ce l'ho fatta. Sono anni che vado nei luoghi della memoria per il bisogno personale di rendere omaggio alle vittime. Pedalando, ho raccontato storie e le persone si sono fermate ad ascoltare». Giovanni Bloisi, "ciclista della memoria" come si definisce, ha affrontato diverse "pedalate" nei luoghi della Shoah. L'ultima, incentrata sulla vicenda di Sciesopoli, colonia fascista a Selvino che alla fine della guerra è stata convertita in struttura di accoglienza per i bambini ebrei rimasti orfani. Circa ottocento i bimbi che furono ospitati, una sessantina quelli ancora vivi. Un viaggio di quasi 2400 chilometri, dal 19 marzo al 24 aprile, attraverso Italia, Grecia, Israele, nei luoghi di Shoah, guerra, resistenza.
   «Ho raccontato una storia di accoglienza - spiega Bloisi, in un incontro a Roma ospitato dall'ambasciatore di Israele in Italia, Ofer Sachs, nella sua residenza - Io non so parlare, so pedalare. Un docente universitario di Perugia, però, mi ha detto che aveva tentato tutti i mezzi e le strategie di comunicazione per sollecitare attenzione sul tema ma non pensava che una bicicletta potesse suscitare tanto interesse. La gente vede e chiede, si ferma, vuole sapere».
   «Tra pochi anni - dice l'ambasciatore Sachs - non ci sarà più nessuno che ricorda la Shoah e ci sono molti, in Israele, che non sanno cosa accadde in Italia dopo la guerra. Grazie all'impresa di Giovanni, hanno studiato la storia di Sciesopoli».
   Bloisi è partito da Tradate, passando poi per Magenta, Milano e ovviamente Selvino. E ancora Cremona, Reggio Emilia, Modena, Fossoli, Nonantola, Ferrara, Piangipane, Colfiorito, Casoli, Casacalenda, Gioia del Colle, Manfredonia, Santa Maria al Bagno. Poi da Brindisi la partenza per Patrasso, dove ha avuto problemi con la bici - «Avevo consumato le ruote», ricorda - e l'arrivo in Israele, dove ha dovuto trovare una nuova bici, perché la sua, imbarcata, era stata persa. Nel mezzo, incontri, emozioni e altri "traguardi". A Casoli, sentita la storia di Bloisi, la proprietaria di un Palazzo usato per internare ebrei ha deciso di trasformare la dependance in Palazzina della Memoria. A Gioia del Colle, su un ex-mulino pastificio, anche questo usato per l'internamento, si è deciso di apporre una targa. Per non dimenticare.

(Il Messaggero, 27 maggio 2017)


Il credo wahabita. La radice dell' odio è nella loro fede

Anche Stati «presentabili» come Arabia e Pakistan perseguitano chi non è musulmano

di Carlo Panella

In un mondo devastato dagli attentati, la strage dei copti di Anba Samuel colpisce per la sua incredibile ferocia. Abbiamo negli occhi la strage dei ragazzini di Manchester e ora ci dobbiamo confrontare con il racconto da incubo del commando jihadista che blocca due autobus di fedeli cristiani, quanto di più pacifico e mite si possa dare, vi sale e con sventagliate di mitra ad alzo d'uomo ne uccide 35 - di nuovo, anche bambini - e ne ferisce decine. n tutto nel nome di Allah, per punire con una morte atroce chi non venera il vero, unico, dio e anzi professa la «idolatria» del culto dei santi.
  Solo i nazisti sono stati capaci di simili e folli atrocità nel nome della loro ideologia e della loro «purezza». Questa strage e le sue vittime, ci dicono tutto sugli autori, venga o non venga una rivendicazione ufficiale: sono i membri di quella non piccola parte dell'Islam che si rifà agli insegnamenti di Mohammed Wahab, che considera i cristiani «nemici della Vera Fede», apostati e degni di morte per il loro culto dei santi, della Madonna e della Santa Trinità. Un Islam egemone in Arabia Saudita, dove sei arrestato e condannato se solo porti una croce al collo, ma anche in Pakistan e Afghanistan, come pure in Indonesia, nello Stato di Anceh. Un Islam che non è sicuramente maggioritario, ma che ha centinaia di migliaia di seguaci nel mondo. Un Islam che è causa della persecuzione dei cristiani nel mondo islamico che fa una media di tre nostri - e uso volutamente questo termine - martiri ogni giorno. In Egitto poi, e in specie nell'Alto Egitto, dove si è consumata la strage, queste follie islamiche si intrecciano con millenarie tensioni etniche, tra le popolazioni autoctone, appunto i copti, e le successive migrazioni di ceppi arabi.
  Ma queste stragi si ripetono anche perché è totalmente fallita la promessa del presidente Fattah al Sisi di proteggere i cristiani e sconfiggere il terrorismo. Quella stessa arrogante e crudele inefficienza dei dirigenti delle forze di sicurezza, degli uomini di maggior fiducia di al Sisi, che abbiamo visto operare nel «caso Regeni», caratterizza l'azione dell'antiterrorismo egiziano. A tre anni dalla presa del potere, al Sisi non è minimamente riuscito a sradicare i gruppi di jihadisti che non solo fanno saltare l'una via l'altra le chiese cristiane durante le sacre funzioni, ma che tengono in scacco l'esercito egiziano nelle poche e delimitate zone abitate del Sinai, provocando la morte in attentati e persino in combattimenti diretti di più di 500 militari egiziani. Regime corrotto, come quelli precedenti, nonostante il suo autoritarismo, nel contrasto al jihadismo quello di al Sisi si dimostra uguale o peggiore di quello di Hosni Mubarak, o di quello dei Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi, che ha detronizzato. Un'inefficacia, una debolezza, che hanno dello spaventoso e che ci riportano al dato drammatico: questo terrorismo jihadista nasce dentro un Islam che non ha in sé la forza, la capacità e la determinazione per espellerlo dal suo corpo, anche se a parole lo condanna.

(Libero, 27 maggio 2017)


Quella chiesa convertita in moschea dove pregava il kamikaze di Manchester

Parla Scruton: "Il cristianesimo scende, l'islam sale".

di Giulio Meotti

ROMA - Ogni giorno, entrando in quella che un tempo era la Albert Park Methodist Chapel, consacrata nel 1883 e sconsacrata negli anni Sessanta, durante la grande ondata di secolarizzazione, Salman Abedi poteva ancora osservare l'architettura tipica di una chiesa anglicana, dal campanile alle vetrate. Ma anziché l'altare, ora c'è un mihrab, la nicchia che nella moschea indica la direzione della Mecca. Il pulpito è rimasto. Però lo usa un imam per lakhutba, l'allocuzione islamica. Fuori dalla chiesa-moschea di Didsbury c'è un grande cartellone che annuncia: "Vuoi saperne di più sull'islam? Vieni a socializzare". Su YouTube, un'organizzazione islamista la celebra come "The church converted to a mosque". Fuori, la moschea che si affaccia su Burton Road ricorda ancora la chiesa metodista che era fino agli anni Sessanta, quando venne acquistata dalla comunità musulmana locale per farne un luogo di culto islamico. Anziché gli orari per la messa, oggi c'è un'altra insegna: "Sala da preghiera per gli uomini". Nella chiesa-moschea, rivela ieri la Bbc, viene distribuito materiale sul fatto che "la modestia, il pudore e l'onore non hanno posto nella civiltà occidentale".
  Qui pregava Salman Abedi, il ventiduenne inglese che ha massacrato venti due coetanei alla Manchester Arena. La chiesa venne abbandonata in un momento di fervore secolarista, quando in Inghilterra scomparvero d'improvviso grandi masse di fedeli cristiani. La diocesi cattolica di Salford ha appena annunciato che altre venti chiese nell'area di Manchester saranno chiuse. Lord Carey, ex arcivescovo di Canterbury, ha detto che la Church ofEngland è "a una generazione" dall'estinzione. "In vent'anni, i musulmani praticanti saranno più dei cristiani praticanti", ha spiegato Keith Porteous Wood, direttore della National Secular Society, Dal 2001, cinquecento chiese della sola Londra sono state trasformate in case private. Nello stesso periodo, le moschee sono proliferate fino alle 423 di oggi. I fedeli cristiani stanno diminuendo a una tale velocità che entro una generazione il loro numero sarà tre volte inferiore a quello dei musulmani che vanno in moschea di venerdì.
  "La storia della chiesa di Didsbury convertita in moschea è la storia del mio paese, l'Inghilterra", dice al Foglio da Parigi Roger Scruton, saggista e filosofo britannico, fellow della British Academy e della Royal Society of Literature. "Stiamo perdendo la nostra fede cristiana, la nostra cultura, e una nuova fede la sta soppiantando, l'islam. E' il momento di parlare e agire. E' la perdita della pratica cristiana, debolissima, per cui la gente non si relaziona più in nome di una cultura comune, ma di una cultura pop. Molti laici non comprendono questo a causa della illusione della prosperità e della sicurezza. Ma la religione è parte della condizione umana".
  Lo ha detto anche il cardinale Béchara Boutros Raì, Patriarca di Antiochia dei maroniti: "I musulmani sono convinti che conquisteranno l'occidente, anche quelli fra loro che non sono jihadisti o estremisti. Gliel'ho sentito dire molte volte: 'Conquisteremo l'Europa con la fede e con la fecondità'. Quando vengono in Europa e vedono le chiese vuote, immediatamente pensano che loro riempiranno quel vuoto". Forse è questo che deve aver pensato anche Salman Abedi, prima di macellare ventidue adolescenti.

(Il Foglio, 27 maggio 2017)


Germoglio di speranza per Israele in una selva di dubbi

La visita del presidente degli Stati Uniti scatena pareri contrastanti tra scetticismo e potenzialità imprevedibili.

di Maurizio Ribechini

Il Jerusalem Post ha pubblicato un ampio resoconto della visita in #Israele effettuata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump ed emergono luci e ombre. Il quotidiano riferisce che Trump ha rassicurato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in merito agli sforzi americani per impedire che l'Iran si doti di una bomba nucleare, ha ribadito che senza contrasto al terrorismo non ci sarà pace e ha commemorato i sei milioni di vittime dell'#Olocausto rendendo omaggio all'ente nazionale per la memoria della Shoa Yad Vashem, ma sembra scansare i temi più caldi.

 Strategia americana e israeliana a confronto
  Netanyahu apprezza che Trump non spinga in favore della soluzione dei due stati, come il predecessore Barack Obama, considerando il ruolo chiave esercitato da Hamas nell'influenzare le scelte politiche palestinesi in funzione antisraeliana, ma la speranza di un patto tra ebrei, cristiani e musulmani per costruire la pace stroncando il terrorismo islamista, sembra sia prioritaria nell'amministrazione americana, rispetto alla proposta di un piano di pace più concreto.
  Il premier israeliano non condivide però l'idea di Trump che auspica un accordo bilaterale diretto tra israeliani e palestinesi, a causa dei frequenti arroccamenti sulle rispettive posizioni. Di conseguenza, privilegia la tattica opposta per coinvolgere un certo numero di paesi arabi moderati a supporto dei negoziati, esercitando una "moral suasion", specie sui palestinesi, e forgiare un patto duraturo.

 Punti di contatto e nodi da sciogliere
  Il Jerusalem Post sottolinea lo scetticismo di molti in Israele sulle reali intenzioni saudite di seguire l'invito di Trump a cacciare i terroristi e far parte seriamente di una coalizione internazionale, ma si apprezza che il presidente abbia escluso un'azione diretta statunitense per forzare le tappe, considerando che la trattativa israelo-palestinese deve svilupparsi in ambito mediorientale.
  Il quotidiano israeliano sottolinea però che Netanyahu e il presidente dell'autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non sono così pronti a fare la pace come Trump afferma. In effetti, i nodi da sciogliere restano molti, a partire dalla sicurezza, gli insediamenti in Cisgiordania e il controllo politico e militare di Hamas sulla striscia di Gaza.

 La svolta di Donald Trump al Muro del Pianto
  La giornalista e scrittrice ebrea Fiamma Nirenstein, inviata in Medio Oriente di lungo corso, offre una narrazione molto particolare della visita del presidente americano al Muro del pianto che definisce un gesto semplice ma rivoluzionario perché quel biglietto di preghiera, che tradizionalmente i fedeli inseriscono nel muro, non è solo un gesto rituale ma acquista significato politico se lo compie il primo presidente americano che si avventura in quella zona di Gerusalemme.
  Fiamma Nirenstein afferma che l'iniziativa di Trump può cambiare la storia mediorientale e forse quella del mondo, nonostante il presidente degli Stati Uniti abbia agito con la prudenza del caso, rinunciando all'accompagnamento di Netanyahu per sottolineare l'aspetto religioso ed evitare il riconoscimento esplicito della sovranità israeliana su Gerusalemme, città che le Nazioni Unite considerano oggetto di disputa dal 1967.
  In ogni caso, i discorsi di Trump hanno messo al centro Gerusalemme, cardine del patrimonio storico, religioso e culturale per il popolo ebraico.
  Nirenstein conclude sostenendo che il gesto di Trump è altrettanto rivoluzionario al pari della visita ai Sauditi con l'offerta al mondo arabo di una solida alleanza contro il terrorismo e nel contrasto alle mire espansionistiche iraniane. I due aspetti sono quindi strettamente legati e forse possono gettare le basi di un terreno comune nella lotta al terrorismo, con l'avvio di un processo di pace realistico per l'intera area anche se ancora tutto da definire.

(blastingnews, 26 maggio 2017)


Mara Carfagna in missione nella Striscia di Gaza

A faccia a faccia con il "mostro islamico"

 
Mara Carfagna
Il dramma di Israele e della Palestina l'ha visto in faccia, Mara Carfagna, nella lingua di terra più calda del mondo. La big di Forza Italia ha indossato di nuovo i panni della reporter per il Tempo e ha trascorso alcuni giorni nella Striscia di Gaza, il luogo in cui i musulmani palestinesi alimentano il loro odio per gli ebrei e gli israeliani imparano a difendersi con le unghie e con i denti. "I leader di Hamas non vogliono un deserto senza alberi, ma senza ebrei", le spiega un abitante locale, mentre a Gaza, scrive la Carfagna, "i bambini imparano già sui libri di scuola che Israele è un nemico da abbattere".
Tra i tanti giovani israeliani arruolati nell'esercito per difendere la Patria ci sono tanti ragazzi e ragazze arrivati qui da altri Paesi. La Carfagna ne ha incontrate due, entrambe italiane, Lea Calderoni e Micol Debash. "Hanno deciso di arruolarsi e hanno ottenuto addirittura il più alto riconoscimento che lo stato ebraico riconosce ai suoi militari più valorosi". Sognano di lavorare nella cooperazione internazionale e nella sicurezza nazionale anti-terrorismo. "Oggi questa è casa nostra - le raccontano -. E se qualcuno minaccia di abbattere la tua casa, non stai lì a pensarci. Devi difenderla e basta". A chi accusa Israele di segregare gli arabi e i musulmani, la deputata forzista risponde con le parole di un ebreo di Tel Aviv: "Qui vivono tanti arabi (ce ne sono un milione e mezzo in tutto il Paese, ndr). Siedono in Parlamento, dirigono aziende, fanno i medici o gli avvocati. E ricevono gli stessi servizi degli israeliani, a cominciare dagli ospedali. Chi dice che qui c'è l' apartheid, non sa di che parla". La speranza ora si chiama Donald Trump: "Riavviare il processo di pace per garantire sicurezza e libertà, verso la costituzione di due Stati per due popoli. Questa è la grande sfida che attende Trump dopo gli anni bui di Obama", è l'auspicio della Carfagna.

(Libero, 26 maggio 2017)


Italia e Israele puntano sulla ricerca e tecnologia

ROMA - Una cooperazione già oggi intensa e proficua: nove laboratori congiunti, quasi 200 fra ricercatori, manager e imprenditori italiani che ogni anno prendono parte alle conferenze organizzate dall'Ambasciata italiana in Israele nei più svariati settori della scienza e della tecnologia, il 14% di medici israeliani che ha studiato o si è specializzato in Italia. Al primo dei due panel previsti per il convegno prendono parte: Stefano Dambruoso, Silvia Fregolent e Antonio Palmieri dell'Intergruppo Parlamentare 'Amici di Israele'; Olga Dolburt, ministro consigliere per gli affari economici e scientifici dell'Ambasciata di Israele; Francesco Nicoletti, direttore per l'innovazione e la ricerca del Ministero degli affari esteri e della cooperazione Internazionale. Il secondo panel vedrà gli interventi di: Mario Cunial, presidente della Cunial; Antonio Israel Artile Rooof, che in uno stabilimento nella regione del Negev produce tegole ad elevate prestazioni energetiche; Paola Vita-Finzi Zalman, professore emerito di Chimica organica all'Università di Pavia, membro dell'Associazione italiana Amici dell'Università di Gerusalemme; Maurizio De Rosa del Cnr, responsabile italiano del nuovo Laboratorio congiunto di ottica non lineare fra Cnr e Università di Tel Aviv; Paolo De Natale, direttore a Firenze dell'Istituto nazionale di ottica del Cnr; Mario Pagliaro, chimico e docente di nuove tecnologie dell'energia, che al Cnr di Palermo coordina un Gruppo di ricerca sulla nanochimica per lo sviluppo delle tecnologie della bioeconomia e dell'energia solare, in collaborazione anche con importanti scienziati israeliani.

(Prima Pagina News, 26 maggio 2017)


Galeazzi: "ad Ay dovrebbe piacere Israele..."

Questa domenica, ospite dello Swiss Israel Day, ci sarà l'ex ministra Israeliana Tzipi Livni, sul cui arrivo il Partito comunista (Pc) ha interrogato il Governo, chiedendo di "dichiarare Tzipi Livni persona non grata sul nostro territorio". Il granconsigliere Udc Tiziano Galeazzi ha risposto al granconsigliere Pc Massimiliano Ay, criticando il suo atto parlamentare e spiegando i motivi per cui l'ex ministra debba essere la benvenuta, e perché, secondo lui, anche ad Ay potrebbe piacere Israele...

 
                                    Tzipi Livni                                                                       Massimiliano Ay
Il prossimo 28 maggio a Lugano, in occasione dello Swiss Israel Day, promosso dall'Associazione Svizzera Israele, si svolgerà a Lugano una conferenza che avrà quale ospite l'ex ministro e parlamentare israeliana Tzipi Livni. L'arrivo della politica israeliana ha recentemente suscitato la disapprovazione del granconsigliere del Partito comunista Massimiliano Ay, che con un'interpellanza al Consiglio di Stato ha chiesto di "dichiarare Tzipi Livni persona non grata (probabilmente il segretario del Pc intendeva "persona non gradita", ndr) sul nostro territorio", poiché "la ex-ministra Livni era parte del consiglio di guerra di Tel Aviv durante l'aggressione militare israeliana alla Striscia di Gaza nell'inverno 2008/09".
   A rispondere ad Ay, con un post pubblicato su Facebook, era stato fra glia altri il grancosigliere Udc Tiziano Galeazzi, che aveva dichiarato che lui alla conferenza avrebbe presenziato. "Parteciperò", ci dice Galeazzi, "prima di tutto perché sono stato invitato, come lo sono stati probabilmente altri deputati, e perché mi interessa sempre sentire, sapere e conoscere". "Mi è dispiaciuto", ci dice il granconsigliere, "che un parlamentare, seppur di un'area molto chiara, interroghi il Consiglio di Stato per un evento che da quanto ne quanto so, nasce da un invito privato. Il ministro Livni può essere criticata, come altre leader mondiali, ma è comunque una persona e va rispettata".
   Tiziano Galeazzi, che precisa che esprime la sua posizione a titolo strettamente personale, e non per il partito in cui milita, ci dice che non parteggia "né per Israele, né per la Palestina". "Credo che quello israelo-palestinese sia un conflitto che è da 2000 anni che sussiste, in cui non si è mai riusciti a trovare un'intesa". "Sappiamo che Israele, a differenza della Palestina", dichiara Galeazzi, "è riuscito dal nulla a creare uno Stato, mentre dall'altra parte non è stato così. Sappiamo anche che la Palestina è sotto il giogo di altre nazioni che non vedono di buon occhio, e che da questi Paesi è stata utilizzata come una sorta di 'fanteria'". Israele tuttavia, facciamo notare noi, è il Paese con più risoluzioni di condanna da parte dell'Onu. "Bisognerebbe vedere quali altre nazioni che hanno commesso dei crimini non hanno mai ricevuto delle sanzioni", ci risponde Galeazzi. "Il mondo è pieno di guerre e ci sono molte altre nazioni su cui nessuno ha mai detto nulla. Ricorderei inoltre ad Ay che la massima applicazione del socialismo in termini pratici sono i Kibbutz della comunità ebraica".
   Ma non pensa Galeazzi che parte dell'ostilità verso l'Occidente del mondo islamico sia dovuta anche al conflitto israelo-palestinese, gli chiediamo. "Addebitare le colpe ad Israele a mio giudizio non è corretto", ci dice. "Fino ad oggi non c'è stato un attentato dell'Isis in Israele. L'Isis combatte l'Occidente in territorio europeo. Probabilmente hanno capito che con Israele non possono alzare troppo la cresta. Il terreno molle l'hanno trovato in Europa, con le nostre politiche migratorie e con le nostre politiche troppo permissive".

(Ticino Today, 26 maggio 2017)


Albania: L'importanza della "besa" e i precetti del Kanun

di Stefania Morreale

Norman H. Gershman (a sin.)
La besa rappresenta uno dei principi cardine del Kanun, il più importante codice consuetudinario albanese. Il lemma besa potrebbe essere tradotto in 'parola d'onore' o 'promessa' o ancora 'parola data'. In realtà si tratta di un termine così strettamente legato al contesto all'interno del quale è nato e si è diffuso, da non poter essere trasposto in maniera chiara in nessun'altra lingua.
   Per gli albanesi besa ha un significato molto preciso: non si tratta di una semplice promessa, ma piuttosto di una garanzia di veridicità, un comportamento attraverso il quale chiunque voglia liberarsi da un debito, deve dare un segno di fede, chiamando il Signore a testimonianza della verità' (Kanun, III capitolo). Se si considera che la società albanese è stata una società regolata dall'oralità, che ha tramandato oralmente le proprie regole invece di affidarsi alla scrittura, è facile immaginare quanto peso doveva avere la parola data. Soprattutto nei piccoli villaggi tra le montagne del nord dell'Albania, la besa aveva e ha tutt'oggi un grande valore; si tratta di una parola irrevocabile che presuppone l'assumersi un impegno che dovrà essere portato a termine ad ogni costo.
   Il concetto di besa, indissolubilmente legato ad un alto senso dell'onore e della giustizia umana, può trascendere le leggi statali o religiose. Grazie a questo codice morale l'Albania ha salvato numerosi ebrei durante l'Olocausto e gli albanesi sono stati insigniti del titolo di 'Giusti delle Nazioni'. Al legame tra besa e deportazione ebraica si è ispirata la mostra fotografica di Norman H. Gershman, allestita per la prima volta nel 2008. Il fotografo americano, che per cinque anni è stato in Albania recuperando le testimonianze del salvataggio di duemila ebrei, ha ripercorso un viaggio nella memoria attraverso i suoi suggestivi scatti.
   L'idea di besa è così presente all'interno del sentire comune albanese che compare in diverse fiabe popolari, che ne spiegano al meglio l'importanza e il significato. La più famosa tra queste storie è quella che vede come protagonista la famiglia Vranaj, composta da una madre vedova, una figlia (Doruntina) e nove fratelli (tra cui uno, il più piccolo, di nome Costantino). La storia racconta del matrimonio di Doruntina, voluto dal fratello Costantino, con un uomo che viveva molto lontano dalla madre della ragazza. L'anziana vedova fa promettere al figlio che ogni volta in cui sentirà il bisogno di vedere Doruntina, lui gliela riporterà. In realtà poco dopo Costantino e i suoi fratelli moriranno in una sanguinosa battaglia. La madre allora maledice il giovane figlio, ricordandogli di non aver tenuto fede alla sua besa. Dopo questo rimprovero, Costantino uscirà dalla tomba e riporterà Doruntina dalla anziana madre.
   Il noto scrittore albanese Ismail Kadare si ispira a questo racconto popolare per scrivere 'Chi ha riportato Doruntina?', romanzo giallo che narra delle indagini del Capitano Stres, incaricato di trovare chi ha riportato la fanciulla dalla madre. Al termine delle indagini Stres affermerà: "Ecco perché affermo e ribadisco che Doruntina non è stata riportata da altri che dal fratello Costantino, in virtù della parola data, della sua besa. Quel viaggio non si spiega né potrebbe spiegarsi altrimenti […] Ciascuno di noi ha la sua parte in questo viaggio, perché la besa di Costantino, colui che ha riportato Doruntina, è germogliata qui fra noi. E dunque, per essere più precisi, si può dire che, attraverso Costantino, siamo stati noi tutti, voi, io, i nostri morti che riposano nel cimitero accanto alla chiesa, a riportare Doruntina."

(East Journal, 26 maggio 2017)


Italia-Israele: guidati dal futuro

 
Si terrà la mattina di martedì 30 maggio presso la Sala 'Aldo Moro' di Montecitorio il convegno 'Italia-Israele: Guidati dal futuro'. Organizzato dall'Intergruppo Parlamentare per l'Innovazione su iniziativa dell'on. Antonio Palmieri, il convegno si propone di offrire uno sguardo orientato al futuro della cooperazione scientifica e tecnologica fra i due paesi, attraverso la testimonianza di ricercatori, rappresentanti dell'imprenditoria, parlamentari e funzionari diplomatici. Una cooperazione già oggi intensa e proficua: nove laboratori congiunti, quasi 200 fra ricercatori, manager e imprenditori italiani che ogni anno prendono parte alle conferenze organizzate dall'Ambasciata italiana in Israele nei più svariati settori della scienza e della tecnologia, il 14% di medici israeliani che ha studiato o si è specializzato in Italia.
   Al primo dei due panel previsti per il convegno prendono parte: Stefano Dambruoso, Silvia Fregolent e Antonio Palmieri dell'Intergruppo Parlamentare 'Amici di Israele'; Olga Dolburt, ministro consigliere per gli affari economici e scientifici dell'Ambasciata di Israele; Francesco Nicoletti, direttore per l'innovazione e la ricerca del Ministero degli affari esteri e della cooperazione Internazionale. Il secondo panel vedrà gli interventi di: Mario Cunial, presidente della Cunial; Antonio Israel Artile Rooof, che in uno stabilimento nella regione del Negev produce tegole ad elevate prestazioni energetiche; Paola Vita-Finzi Zalman, professore emerito di Chimica organica all'Università di Pavia, membro dell'Associazione italiana Amici dell'Università di Gerusalemme; Maurizio De Rosa del Cnr, responsabile italiano del nuovo Laboratorio congiunto di ottica non lineare fra Cnr e Università di Tel Aviv; Paolo De Natale, direttore a Firenze dell'Istituto nazionale di ottica del Cnr; Mario Pagliaro, chimico e docente di nuove tecnologie dell'energia, che al Cnr di Palermo coordina un Gruppo di ricerca sulla nanochimica per lo sviluppo delle tecnologie della bioeconomia e dell'energia solare, in collaborazione anche con importanti scienziati israeliani.
   "I risultati della collaborazione scientifica fra Italia ed Israele sono tanto rilevanti quanto poco noti", dice l'on. Palmieri. "Con questo incontro fra l'altro li vorremmo diffondere anche al di fuori della comunità scientifica". "Nella lunga e proficua collaborazione scientifica tra Italia e Israele il Cnr ha un ruolo di primo piano - afferma il presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, Massimo Inguscio. "Molte delle nostre migliori ricercatrici e molti dei nostri migliori ricercatori, che lavorano presso diversi istituti del Cnr presenti sul territorio, hanno vinto bandi e attratto finanziamenti europei per laboratori e progetti congiunti con i colleghi delle università e centri di ricerca in Israele, in aree fondamentali per la salute delle persone e dell'ambiente, nel campo dell'innovazione. Si va dalle neuroscienze all'ottica non lineare, in temi di qualità alimentare, alle tecnologie per la protezione dell'acqua e il suolo, alla cyber security, alla farma-genetica. In particolare nel quadro dei bandi accademici, il Cnr risulta l'Ente di ricerca italiano con il maggior numero di progetti finanziati con Israele negli ultimi tre anni".
   La partecipazione alla Giornata di studi è libera e gratuita. Per partecipare occorre registrarsi online alla pagina web eventbrite.it

Per informazioni:
Mario Pagliaro
Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati, Ismn-Cnr Palermo
mario.pagliaro@cnr.it

(Consiglio Nazionale delle Ricerche, 26 maggio 2017)


Il 78 per cento degli israeliani non crede alla pace, ma vuole la ripresa dei negoziati

GERUSALEMME - Circa il 78 per cento dei cittadini israeliani crede che non esista alcuna possibilità di raggiungere un accordo di pace definitivo con i palestinesi, nonostante gli sforzi profusi dal presidente statunitense Donald Trump: lo rivela un sondaggio effettuato dal quotidiano israeliano "Maariv". Solo il 18 per cento pensa che sia possibile raggiungere un accordo, mentre il 4 per cento ancora non si sbilancia. Il sondaggio è stato effettuato su un campione di 542 adulti israeliani, con un margine di errore statistico del 4,3 per cento. Anche tra gli israeliani che si definiscono di sinistra, solo il 21 per cento ha dichiarato di ritenere possibile un accordo di pace, mentre il 76 per cento sostiene che non vi sia alcuna possibilità e il 3 per cento non sa rispondere. Nonostante lo scetticismo sul successo dei negoziati, la maggior parte degli israeliani vuole che i colloqui riprendano: il 58 per cento afferma di essere favorevole, il 33 per cento si oppone e il 9 per cento sostiene di non sapere. Alla domanda se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sia obbligato a raggiungere un accordo diplomatico con i palestinesi, gli intervistati si sono divisi: il 46 per cento si è detto a favore, il 46 per cento non ha saputo rispondere, mentre l'8 per cento si è detto contrario.

(Agenzia Nova, 26 maggio 2017)


Tra le nuove generazioni d'Israele. Attese e sogni al confine con Gaza
      Articolo OTTIMO!


Il reportage di Mara Carfagna. «Nella lotta al terrorismo speriamo in Trump».

Le italiane arruolate
«Questo Paese ci ha accolto. È nostro dovere difenderlo»
L'alta natalità
«Si fanno tanti figli perché ognuno ha subito lutti improvvisi»

di Mara Carfagna

La strada che da Tel Aviv porta a Sderot è un esempio di quell'efficienza israeliana che, in meno di un secolo, è riuscita a costruire infrastrutture all'avanguardia dove prima c'era il deserto. E pare incredibile che al posto della terra arida e brulla, quella che agli occhi di De Amicis appariva come una landa desertica e paludosa, ci siano oggi coltivazioni rigogliose, campi fioriti, palme e alberi di ogni genere.
  Arrivati a Sderot, a fare da padrone di casa è un ufficiale dell'esercito israeliano che nel 2002, dopo sette anni in Cile, è ritornato in Israele ed è diventato vicesindaco di questa cittadina al confine con Gaza. «Era mio dovere ritornare per dare speranza al mio popolo»,
  Da lontano si intravede benissimo quella striscia di terra da cui nel 2005 gli israeliani furono fatti evacuare su decisione di Ariel Sharon, nella speranza che questo potesse aiutare gli accordi di pace. Ma la storia purtroppo ci racconta che servì a poco. «I leader di Hamas (che governa la striscia di Gaza) non vogliono un deserto senza alberi, ma senza ebrei», ci racconta Shai mentre ci indica una valle desolata che fino a qualche anno fa era talmente ricca di vegetazione da rendere impossibile la vista di Gaza.
  I kibbutz che arrivano quasi fino al valico di Erez sono circondati da filo spinato e difese elettroniche per scongiurare il rischio di assalti e da lontano è facile intravedere un muro alto sette metri che separa Israele da Gaza, costruito dopo che «dalla Striscia i missili venivano puntati direttamente sulle scuole e sugli asili».
  E mentre i bambini a Gaza imparano già sui libri di scuola che Israele è un nemico da abbattere, i bambini israeliani imparano l'importanza di servire la Patria e difenderla da chi in tutti questi anni ha provato a cancellarla dalle cartine geografiche.
  Accanto a loro, anche tanti stranieri e tanti italiani che, arrivati in Israele per un periodo di vacanza, per studiare o lavorare, restano affascinati da questo Stato giovane, dinamico e accogliente e sentono il dovere di arruolarsi per difendere il diritto a esistere della Nazione che li ha accolti come figli.
  Lea e Micol sono due ragazze italiane che, arrivate in Israele per completare un percorso di studi, hanno deciso di arruolarsi e hanno ottenuto addirittura il più alto riconoscimento che lo stato ebraico riconosce ai suoi militari più valorosi.
  Hanno gli occhi di chi ha vissuto quella che definiscono un'esperienza indimenticabile, ma faticosa. «L'addestramento dura tre mesi ed è una palestra di vita. Sveglia all'alba, flessioni e solo un'ora al giorno per mangiare, farsi la doccia e parlare con i propri cari». Lea oggi studia Business all'Idc di Herzliya, Tel Aviv, sperando di lavorare un giorno nell'ambito della cooperazione internazionale. «Il servizio militare mi ha fatto capire molte cose su me stessa e che direzione prendere nel futuro» racconta Lea, che ha avuto la responsabilità di comandare, in diverse basi militari, gruppi di volontari provenienti da tutto il mondo.
  Micol, invece, è ancora in servizio e terminerà tra pochi mesi. Arrivata in Israele per fare un tirocinio in un giornale israeliano, sogna di continuare a occuparsi di difesa e sicurezza nazionale e inizierà un masterin sicurezza e controterrorismo all'Idc di Herzliya. Le guardi, due facce belle e solari, e ti chiedi cosa le abbia spinte a indossare una divisa dell'esercito israeliano per due anni. «Oggi questa è casa nostra. E se qualcuno minaccia di abbattere la tua casa, non stai lì a pensarci. Devi difenderla e basta». Servire la Patria è una missione per tutti i figli legittimi o adottivi di questa terra. «Mio figlio Nassim partirà tra sei mesi, ma noi non siamo preoccupati, anzi, siamo orgogliosi di questo» dice David, che dalla Francia si è trasferito in Israele nel 20lD, con moglie e quattro figli, sull'onda di quell'antisemitismo che ha costretto molti ebrei in Europa e soprattutto in Francia a fare l'aliya (il ritorno in Israele). «Noi vogliamo vivere in pace, abbiamo subito guerre di aggressione sin dal 1948, ogni volta ci siamo difesi e siamo riusciti a sopravvivere, nonostante volessero annientarci. A Tel Aviv vivono tanti arabi (ce ne sono un milione e mezzo in tutto il Paese, ndr). Siedono in Parlamento, dirigono aziende, fanno i medici o gli avvocati. E ricevono gli stessi servizi degli israeliani, a cominciare dagli ospedali. Chi dice che qui c'è l'apartheid, non sa di che parla».
  In effetti, non è difficile imbattersi per le strade di Tel Aviv in donne con il velo islamico. «Per noi è normale. Qui vivono ebrei, musulmani e cristiani. Questo Paese accoglie tutti e anche l'ultimo arrivato ha opportunità che in Italia si sognerebbe» racconta Alan, arrivato due anni fa con moglie e due bambine. «Mia moglie vorrebbe almeno altri due figli, dice che rispetto alle famiglie numerose che ci sono qui, siamo sotto la media».
  Viene da chiedersi come mai qui si facciano così tanti bambini. E i sussidi che il governo riconosce per ogni figlio, indipendentemente dal reddito, così come i tanti spazi verdi attrezzati per loro, non possono essere l'unica spiegazione. «No, qui si fanno tanti figli perché in tante famiglie si piange il lutto di chi è morto per difendersi dal terrorismo», Tutto questo mentre Donald Trump sceglie proprio Israele come prima tappa al suo esordio sulla scena internazionale. «Speriamo che Trump ci dia una mano. Non è possibile che dopo settant'anni ci sia ancora qualcuno che vuole cancellarci dalla faccia della Terra», dice Sassi, di origine libica, residente qui da più di quarant'anni.
  Riavviare il processo di pace per garantire sicurezza e libertà, verso la costituzione di due Stati per due popoli. Questa è lagrande sfida che attende Trump dopo gli anni bui di Obama. «È un'intesa difficile» ha detto il presidente americano «ma alla fine ci arriveremo». Questo è il messaggio di speranza che Micol, Lea, Alan, Nassim e tutti quelli come loro vogliono ascoltare. Perché per loro, servire il Paese significa costruire la pace, non preparare la guerra.

(Il Tempo, 26 maggio 2017)


Chi salvare? O cosa? La lezione del rabbino durante l'alluvione

Un ricordo del 1966

di Adam Smulevich

 
Fernando David Shlomò Belgrado
«Quando ho visto che l'acqua cresceva, da ebreo mi sono posto il problema se prima dovevo salvare la Torah, la Legge, oppure i miei figli. Però ho avuto un istinto primario e ho salvato i rotoli. Dio mi ha illuminato, e mi ha dato la forza per salvare anche i miei figli». Novembre 1966. Nella città colpita al cuore dall'alluvione, le parole pronunciate dal più esperto rabbino aprono la mente del giovane viceparroco di San Salvi, che lo incontra nel giardino della sinagoga. Il viceparroco era Gualtiero Bassetti, da mercoledì guida dei vescovi italiani. Quelle parole gli sono rimaste cucite addosso. La traccia viva, ha detto incontrando i giornalisti in Vaticano, «di un uomo di eccezionale spiritualità». Quell'uomo, quel Maestro, si chiamava Fernando Belgrado. Nato a Firenze nel 1913, ne fu a lungo rabbino capo e in questa veste fu anche un simbolo del commovente tentativo di salvataggio intrapreso dalla Comunità ebraica per sottrarre il proprio patrimonio, sia liturgico che documentale, alla devastazione. In prima linea, in quell'azione di soccorso, c'era proprio lui. Stanco, stravolto, lo sguardo provato dall'incessante lavoro fisico. Ma, raccontano testimoni dell'epoca, mai piegato del tutto. Molto andò perduto, con l'alluvione. Tra gli altri diversi rotoli della Torah, poi seppelliti nel cimitero ebraico. Ma se tanto pure fu salvato, lo si deve al suo esempio. L'esempio di un uomo che aveva già dato prova di saper superare ostacoli e diversi livelli di emergenza. Nei giorni delle retate antiebralche, Belgrado è infatti al fianco dell'allora rabbino capo Nathan Cassuto (poi deportato nei campi di sterminio, da cui non farà ritorno) nella rete di assistenza clandestina ai perseguitati. Sarà poi lui, nell'agosto del '44, a riaprire i luoghi e le istituzioni della Firenze ebraica. Già vicerabbino con Cassuto, con la vacanza della cattedra assume quindi le funzioni di rabbino capo. Lascerà l'incarico nel 1978, restando fino alla morte (avvenuta nel 1998) un punto di riferimento per tutti gli iscritti.

(Corriere Fiorentino, 26 maggio 2017)


«Uccisero capo di Hamas»

Messi a morte a Gaza i tre palestinesi accusati

GAZA CITY - In un'installazione di Hamas a Gaza ieri sono state eseguite, davanti un folto "pubblico" di "invitati", le condanne a morte di tre palestinesi giudicati responsabili dell'uccisione, a marzo, di un comandante militare di Hamas, Mazen Fuqaha, che aveva scontato una lunga detenzione in Israele. Uno dei condannati è stato impiccato, mentre gli altri due sono stati fucilati da un plotone di esecuzione. I tre palestinesi, che secondo Hamas hanno agito per conto di Israele erano stati condannati a morte dopo che - secondo la versione ufficiale - avevano confessato le proprie responsabilità.
   Alle esecuzioni hanno assistito un migliaio di persone, fra cui i familiari di Fuqaha e dei tre condannati (di cui non sono state divulgate ufficialmente le generalità), nonché alti ufficiali, funzionari e giornalisti. Nei giorni scorsi i condannati avevano chiesto, ma invano, che le esecuzioni fossero rinviate fino al termine del Ramadan, ormai imminente.
   Una Ong locale, "PchrGaza", ha denunciato il fatto che le condanne a morte sono state emesse (il 21 maggio) dalla "Corte militare Al Maydan" dopo sole quattro udienze, che si sono concluse nel giro di una settimana. I tre condannati, secondo "PchrGaza", non hanno dunque avuto la possibilità di difendersi in maniera adeguata. Un documento di forte critica a queste condanne è stato emesso nei giorni scorsi anche dalle rappresentanze a Gerusalemme e a Ramallah dell'Unione Europea.
   Intanto, Hamas ha indetto per oggi in Cisgiordania una "Giornata di collera" contro Israele in sostegno con lo sciopero della fame ad oltranza intrapreso il 17 aprile scorso - su iniziativa del dirigente di al-Fatah Marwan Barghouti - da un migliaio di palestinesi reclusi in Israele per reati legati all'Intifada. Hamas ha fatto appello ai palestinesi della Cisgiordania a «scontrarsi con gli occupanti israeliani». (R.E.)

(Avvenire, 26 maggio 2017)


Oltre ad Avvenire, questa notizia è stata riportata in poche righe soltanto dal Corriere della Sera, senza nessun commento. Ovviamente. Perché Hamas non si discute. Ad Hamas non si chiede niente. Da Hamas non si pretende niente. Ad Hamas non si rinfaccia niente. Hamas è. Hamas non è mai colpevole, non può per sua natura essere colpevole. Per i benpensanti di sinistra Hamas è come la grandine e Netanyahu è come il governo. Si può accusare la grandine di qualcosa? Ovviamente no. Si può accusare il governo per non aver saputo limitarne i danni? Ovviamente sì. Si cerchino dunque le colpe del governo di Netanyahu. Qualcuno certamente le troverà. M.C.


Saluzzo ebraica, il giorno del ricordo

La sinagoga di Saluzzo
Commosso ricordo questa mattina, nella sinagoga di Torino, al termine della preghiera mattutina dello Shachrit, degli ebrei saluzzesi deportati nei campi di sterminio. L'ultimo gruppo partì da Fossoli il 16 maggio del 1944, allora Rosh Chodesh Sivan (il primo giorno del mese ebraico di Sivan, come oggi).
Gli ebrei deportati da Saluzzo furono 30, 29 uccisi ad Auschwitz. "Tornò, unica dai lager, con il corpo e l'anima piagati, Natalia Tedeschi, sopravvissuta ad una via crucis tremenda attraverso Birkenau, Bergen Belsen, Dessau, Terezienstadt, suo fratello Vittorio aveva perso la vita a Mauthausen il 25 aprile 1945, mentre tendeva la mano alla libertà" ha scritto la storica Adriana Muncinelli.
Fu una pagina terribile per una piccola Comunità quale quella saluzzese che rimase letteralmente distrutta e piegata dalla furia nazista: un tributo enorme se si pensa che il nucleo ebraico nella città contava una cinquantina di membri all'inizio della guerra.
Nel dopoguerra si consumerà il declino della Comunità con la caduta in disuso dal 1964 della sinagoga, il cui patrimonio librario fu trasferito nel 1983 all'Archivio Terracini di Torino. Resta a Saluzzo, oltre alla splendida sinagoga ottocentesca, restaurata di recente, un cimitero ebraico, acquistato nel 1795 e nel quale furono trasportate anche le vecchie lapidi di due precedenti cimiteri.

(moked, 26 maggio 2017)


Delera e la solitudine degli ebrei di sinistra

di Goffredo Fofi

Poche sere fa, nella Casa della cultura di Milano, si sono radunati diversi amici per ricordare un giornalista molto amato, morto due anni fa. Roberto Delera è stato in gioventù un militante di Lotta continua che, per la militanza (soprattutto in Sicilia) rinunciò a proseguire gli studi e si laureò già adulto, mentre si occupava di esteri al Corriere della sera. Non ha scritto molto, fuori dal mestiere, ma la sua tesi, che si spera di veder presto pubblicata e di cui nella serata in questione erano stampate copie destinate agli amici, mi è parso un testo appassionante e attualissimo. Il tema: «La solitudine degli ebrei di sinistra in Italia, dal dopoguerra all'attentato a Rabin», il titolo: L'asinello di Elisha, da un testo di Martin Buber presente nel Midrash che vale la pena di citare: un rabbi «pilastro dell'ortodossia, aveva per maestro di teologia un eretico» noto come Asher, che significa "lo straniero". Discutono muovendosi l'eretico in groppa un asino e il rabbi, essendo sabato, a piedi, fino a un confine che gli osservanti non potevano attraversare nel giorno di festa, ma l'eretico prosegue, lo attraversa. Questo aneddoto appassionò Isaac Deutscher e di esso hanno scritto Arnaldo Momigliano e Alberto Cavaglion. Delera parla dell' «uomo di frontiera che rompe con il passato, dell'ebreo che supera la tradizione e che s'incammina a esplorare nuovi orizzonti». Roberto non era ebreo, ma aveva sposato un' ebrea e ha avuto di conseguenza un figlio ebreo. La sua tesi si sofferma soprattutto su due episodi cruciali per la storia degli ebrei post-Shoah: la "guerra dei sei giorni" (1967) che vide il trionfo di Israele ma anche la crisi e fine della speranza sionista, di uno stato socialista, e l'uccisione di Rabin, fautore della pace con i palestinesi e dell'incontro tra i due popoli, per mano di un giovane fanatico ebreo (1995). La solitudine degli ebrei di sinistra (ben rappresentata dal gruppo italiano che prese il nome da Martin Buber) e che al fondo di un libro recente di Enzo Traverso (Feltrinelli) che si interroga sul ruolo fondamentale avuto dagli intellettuali ebrei nella storia delle sinistra, un ruolo caduto in crisi con l'avvento dello stato di Israele, ha una lunga storia che Delera ricostruisce con ammirevole precisione e misura, con la sapienza dello storico vero e originale. La solitudine di cui parla, è stato detto da Luigi Manconi e Gad Lerner nella serata che lo ha ricordato, non è affatto diversa oggi da quella di chi «non ha sbrigativamente voltato le spalle ai valori in cui aveva creduto».

(Avvenire, 26 maggio 2017)


Israele: non solo storia e spiritualità, ma anche mare e relax.

Eilat, con la sua posizione sul Mar Rosso è una delle località balneari più esclusive del Medio Oriente. Ingresso gratuito in tutte le spiagge e grande rispetto dell'ambiente.

di Carlo Sacchettoni

 
 
 
Eilat
Con 360 giornate di sole all'anno e quasi tre milioni di visitatori in tutte le stagioni, Eilat è una vivace cittadina balneare che conta 12.500 camere nei suoi hotel di ogni livello, 150 ristoranti e una ventina di spiagge perfettamente attrezzate. Oltre ad essere un paradiso per gli amanti del mare e del divertimento, Eilat è molto conosciuta per la sua ricca offerta di attività, svago ed escursioni. La sua posizione a metà fra il deserto e il mare e il suo habitat naturale si prestano a numerose attività turistiche e sportive, nei dintorni, in mare e anche sott'acqua. Molte sono le attività sportive acquatiche che vi si possono praticare: kayak, windsurf, sci nautico. Tutte offerte dai prezzi molto accessibili che rendono la vacanza esclusiva. Per i più dinamici, è da provare una lezione di moto d'acqua o un'immersione, per esempio seguendo un corso nello splendido centro ubicato all'interno dell'hotel Yam Suf, proprio il luogo dove è nata la tradizione che consente di ottenere il brevetto Padi.
   Il Mar Rosso, così invitante, consentirà a chiunque lo desideri ed abbia i minimi requisiti fisici di conseguire questo brevetto in breve tempo e in tutta sicurezza. Per chi invece ama la vita comoda, ci sono crociere nei luoghi vicini della durata di due ore, adatte alle famiglie o romantici tour privati in barca, perfetti per le coppie innamorate.
   Ci sono poi anche altri modi per godersi la città. Tra le altre attività più popolari all'aria saperta, spiccano i tour sui quattro ruote, le escursioni in quad e gli eventi culturali, come il Red Sea Jazz Festival, un importante festival internazionale di jazz che si svolge dal 27 al 30 agosto 2017. Il programma completo è online. Tre delle principali attrazioni di Eilat da non perdere, ci sono la Marina di Eilat: una bellissima spiaggia con ottimi ristoranti, bazar di sera e un'atmosfera vivace. La Coral Beach Natural Reserve: una barriera corallina lunga 1200 metri popolata da numerose specie di pesci, coralli e altre forme di vita marina da ammirare durante le immersioni o facendo snorkeling, noleggiando le attrezzature in loco.
   E infine, il Giardino Botanico di Eilat, con cascate e altalene in legno: perfetto per i più piccoli. Agli amanti del deserto, Eilat offre la possibilità di fare escursioni al tramonto, sui cammelli, gite in fuoristrada e camminate. La cittadina è rinomata per l'elevata qualità dei servizi e per la grande varietà di sistemazioni, adatte per tutte le tasche dei viaggiatori: dalle piccole pensioni più economiche fino agli hotel più eleganti.
   La balneazione non comporta costi aggiuntivi e questo è un vantaggio unico al mondo e premiati con la Bandiera Blu da parte della FEE, la Foundation for Environmental Education, l'ente preposto alla verifica della eccellenza ambientale. Tra le spiagge prescelte possono essere ricordate, tra le altre, quella di Hukuk; la spiaggia Dado ad Haifa; Chanz, Onot, Amfy, Herzl, Sironit Nord, Sironit Sud, Laguna-Argaman e le spiagge Poleg a Netanya; le spiagge Metzizim e Gerusalemme a Tel Aviv; la spiaggia HaKachol a Rishon Lezion; Mei Ami, Oranim, Lido, Kshatot, Yod Alef, Riveria ad Ashdod e la Hash'hafim Beach a Eilat. Anche i porti turistici di Herzeliya e di Tel Aviv sono stati premiati da EcoOcean con la Bandiera Blu.
   Le spiagge di Netanya e Herzliya sono dotate di ascensori per l'accesso al mare sotto le scogliere. Per la conservazione dell'ambiente e nel pieno rispetto della natura, non sono ammesse né moto d'acqua né barche in prossimità delle rive, e non è consentita la circolazione con veicoli a motore sulle spiagge e sul lungomare, così come l'accensione di falò. La balneazione è vietata qualora non sia presente un bagnino o la bandiera nera sia stata issata.
   Ci sono 13 spiagge lungo la costa di Tel Aviv-Jaffa, con oltre 8 milioni di bagnanti che si godono ogni anno le rive sabbiose e l'acqua pulita. Ci sono quattro spiagge con accessi speciali per le persone con disabilità: Tzuk, Tzuk Nord, Metzizim e Hilton, tutte nella parte settentrionale della città. Tel Aviv-Jaffa vanta un tratto di 8,7 miglia con ampie vedute, orizzonti blu, spiagge di sabbia bianca attrezzate con ombrelloni e lettini, ristoranti, palestre all'aperto, giochi per bambini e una passeggiata sul lungomare percorsa continuamente da chi desidera camminare, correre o semplicemente godersi dei paesaggi. Le spiagge della città sono ben equipaggiate con spogliatoi, docce e servizi igienici e non c'è pericolo di annoiarsi.

(Turismo Informazioni, 26 maggio 2017)


Adebi, strana parabola. Ministeri, ambasciate e i legami con gli ebrei

Il clan uno dei più noti della Cirenaica. Sempre conservatori, mai estremisti.

di Daniel Mosseri

Alcuni membri della famiglia avevano preso da tempo le distanze da Salman Abedi, il 22enne di origine libica responsabile della strage di Manchester. Nelle ore successive all'esplosione suo padre e un fratello sono stati arrestati con l'accusa di essere affiliati all'Isis. Intanto è iniziata la corsa sui giornali a prendere le distanze dagli Abedi, indicati come «molto religiosi» poiché originari di Derna, sulle Montagne Verdi, «una delle zone più conservatrici della Cirenaica». Conservatori non significa estremisti: al contrario, con re Idris al-Senussi (1951-'69) prima, e con Muammar Gheddafi ('69-2011) poi, gli al-Abedi si sono distinti come servitori dello Stato.
   Lo ricorda qualcuno che li conosce da tempo. «Quando il capo dei capi della tribù, Alì Pascia Abedi, morì, mio padre inviò un telegramma di condoglianze al figlio». Lo racconta al Giornale Samuel Zarrugh, ebreo libico bengasino che ha lasciato il suo Paese natale nel 1967, sull'onda dei pogrom riesplosi in Libia dopo la Guerra dei Sei Giorni. Il telegramma, della fine degli anni '50, è la prova dei rapporti rispettosi che esistevano fra la tribù e la comunità ebraica della Cirenaica: un concetto lontano anni-luce dal fanatismo dell'Isis e degli estremisti islamici in genere. Quella degli «Abeidat» - questo il nome arabo della tribù - non era l'eccezione che conferma la regola: «La loro non era forse la più importante, ma di certo la tribù più numerosa della Cirenaica». Alla morte di Alì Pascià, il figlio Hamed assunse la leadership degli Abeidat, continuando a servire il sovrano islamico moderato, aperto all'Occidente. Fra i numerosi incarichi ricoperti da Hamed al-Abedi ci fu anche quello di ministro dell'Agricoltura. «Sarà stato il 1957 o il 1958, quando al-Abedi concesse a una famiglia ebraica bengasina il monopolio della produzione del vino rosé di Sussa Apollonia, imponendo una sola condizione: non venderlo a fedeli islamici». La regolare frequentazione fra ebrei e musulmani in Cirenaica non era invece monopolio di nessuno: anche Abdelhamid El Aabbar, capo degli Awaghir - premiato con la presidenza del Senato da re Idris per aver combattuto contro gli italiani - «era sempre ospite della famiglia Bidussa». Zarrugh, già presidente della comunità ebraica di Livorno, continua a coltivare l'antica amicizia e parla al Giornale dopo aver fatto gli auguri ai suoi amici libici di Manchester per l'inizio del Ramadan. «L'imbarazzo è grande, e grande la condanna nei confronti di questo ragazzo e della famiglia che non l'ha educato bene». La rete di contatti con la diaspora libica, ebraica o musulmana, intessuta da Zarrugh è fitta: «Anche i Barata sono contrariatissimi», racconta menzionando il nome di un'altra tribù di Cirenaica, il cui leader era stato capo della polizia sotto re Idris.
   Lo sguardo di Zarrugh sulla Libia copre anche tempi molto più recenti. Nel 2004, con altri ebrei libici in Italia, incontra a Perugia Saadi Gheddafi, terzo figlio del Colonnello. La Libia subisce le sanzioni per Lockerbie, e Gheddafi cerca di migliorare la propria immagine invitando i suoi ex connazionali ebrei a discutere con lui di riparazioni per le violenze e le espropriazioni subite. A organizzare l'incontro è l'allora ambasciatore a Roma Abdelati Laabedi, esponente della stessa tribù tornata alla ribalta per i fatti di Manchester. L'incontro con il volubile Colonnello non ci sarà mai, ma la carriera di Laabedi non si interrompe. Nel 2011, poco prima del golpe anti Gheddafi, è ministro degli Esteri. Incarcerato e processato, a marzo 2015 Laabedi è stato prosciolto da ogni accusa, «è adesso è tornato a vivere sulle Montagne Verdi in Cirenaica».

(il Giornale, 26 maggio 2017)


L'amico ritrovato di Israele

In Arabia Saudita Donald Trump ha chiamato i musulmani a ribellarsi al terrorismo. A Tel Aviv ha confermato che l'America non tradirà lo Stato ebraico. E così, spiega una corrispondente da Gerusalemme, il presidente americano ha trasformato una visita piena d'incognite in un inatteso successo diplomatico.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Le chiome bionde scintillanti sotto il sole dell'Arabia Saudita sono il segno della visita del presidente americano Donald Trump in Medio Oriente: le teste delle donne non sono stare coperte come dalla tradizione musulmana, il re ha persino stretto la mano della first lady Melania (e le donne non si possono toccare in pubblico).
   Era sbarcato non solo Trump, ma lo stile trumpiano: affermativo, diretto, rivoluzionario rispetto agli accattivanti toni del predecessore Barack Obama, che in Arabia Saudita è stato quattro volte, sempre con la scelta strategica di mostrare una sua amicizia incondizionata verso il mondo arabo e, sullo sfondo, il disegno di fare dell'Iran e quindi degli sciiti persiani, la sua chiave di volta di rapporto con l'Islam. Invece l'amicizia di Trump è rude, diretta e si è dimostrata piena di scopi espliciti. Primo fra questi: una lotta senza quartiere al terrorismo arruolando un vero e proprio esercito musulmano, con lo scopo sottinteso anche di battere le interferenze iraniane. L'accoglienza è stata entusiasta sia a Riad il 21 maggio, sia il giorno dopo a Gerusalemme.
   Anche in Israele l'atterraggio è stato simbolico, una full immersion immediata nella cultura occidentale: oltre al primo ministro Benjamin Netanyahu e a tutti i suoi ministri, fuori dall'aeroporto lo aspettava con iniziativa propria una processione di moto Harley Davidson, la passione di Trump.
Il milionario punta a un accordo fra palestinesi e israeliani e ha intrapreso una strada in gran parte nuova rispetto a quella tentata da Obama, il quale pensava che una terribile pressione avrebbe piegato Netanyahu ad abbandonare i territori in favore di uno Stato Palestinese. Ignorava del tutto il pericolo che ne sarebbe derivato a fronte di un'Autonomia Palestinese in cui il terrorismo è considerato ancora un'arma strategica e la determinazione a non riconoscere lo Stato ebraico altrettanto definitiva. Trump dà segni di capire questo problema anche se vuole da Netanyahu dei segnali di buona volontà che consentano di riprendere le trattative di pace.
   Il presidente ha chiesto al mondo arabo sunnita moderato di dichiarare guerra al terrorismo definendo i terroristi «barbari e delinquenti» e riabilitando cosi l'insieme della religione musulmana: in campagna elettorale aveva disegnato un Islam aspro e aggressivo, stabilendo poi che l'ingresso in America fosse vietato ai cittadini di parecchi Stati. Il presidente Obama aveva proposto un rapporto basato sulle scuse del mondo occidentale per i torti fatti agli arabi: con molti inchini, molti salamelecchi, molti errori aveva individuato un possibile alleato nella Fratellanza Musulmana, nominando l'Iran il suo interlocutore per eccellenza. L'accordo di Obama con Teheran per frenare la corsa al nucleare è stato definito da Trump il peggiore mai firmato. Adesso fra un tintinnare di cristalli nelle sale sfarzose della reggia saudita e poi la calorosa accoglienza di Netanyahu è un totale rovesciamento della politica del predecessore: l'alleanza con un mondo finora in bilico fra l'integralismo islamico e l'Occidente per una guerra senza quartiere contro il terrorismo. «Buttateli fuori dai centri di studio, dalle loro case, dai vostri Paesi», ha ruggito Trump, C'è qualche garanzia che questo appello all'insurrezione dell'Islam contro il terrore che nasce nel suo seno non resti una pura aspirazione: l'accordo per la vendita di armi americane ai sauditi, e l'altolà molto serio all'Iran perché non minacci con una nuova corsa sotterranea all'atomica tutto il mondo, e in particolare Israele. Qui, nonostante la difficoltà dci processo di pace coi palestinesi e gli ostacoli nel realizzare la promessa di trasportare a Gerusalemme l'ambasciata degli Stati Uniti, Trump porta un cambiamento: quello di un presidente che ha un evidente affetto per Israele. Da questo deriva un sincero desiderio di creare una pace effettiva fra le due parti e di un coinvolgimento del mondo arabo moderato.
   
(Grazia, 25 maggio 2017)


Egitto: chiusi siti web e quotidiani legati ai Fratelli musulmani

IL CAIRO - Le autorità egiziane hanno chiuso temporaneamente 21 siti internet e quotidiani per aver pubblicato contenuti inneggianti al terrorismo e all'estremismo. Lo riferisce l'agenzia di stampa statale "Mena". I siti interessati dal provvedimento includono "al Jazeera Net", "Sharq Channel", "Misr al Arabia" "al Shaab" "Arabi 21", Rasd", "Hamas Online" e "Mada Misr", il cui reporter investigativo Hossam Bahgat ha ricevuto il premio Anna Politkovskaya nel 2016 dalla rivista italiana "Internazionale". Molti di questi siti sono riconducibili ai Fratelli musulmani o a reti che li sostengono contro il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi. Le attività della Fratellanza in Egitto sono state bandite nel settembre del 2013, dopo la deposizione dell'ex presidente Mohammed Morsi, esponente di spicco del gruppo islamico. Nell'ottobre dello stesso 2013 il governo ha formato un comitato "ad hoc" incaricato di gestire i fondi e le proprietà della Fratellanza. Tale organismo ha sequestrato finora decine di strutture - come aziende, scuole e centri islamici - del valore di miliardi di sterline egiziane come parte del giro di vite contro il gruppo considerato ormai fuorilegge. I Fratelli musulmani egiziani hanno respinto qualsiasi ipotesi di avviare un processo di riconciliazione con il governo del presidente Abdel Fatah al Sisi.

(Agenzia Nova, 25 maggio 2017)


25 maggio 1944 - Il Vaticano non accetta la proposta Usa di un'azione comune verso gli ebrei

di Enrico Gregori

In Vaticano, monsignor Domenico Tardini risponde a nome della segreteria di Stato alla proposta americana di un'azione comune a favore degli ebrei, scrivendo: "Non è opportuno che la S. Sede si metta su questa strada: la Santa Sede non si deve legare (né comunque apparire legata) al carro americano, soprattutto sulla questione ebraica. L'azione della Santa Sede deve essere indipendente e sua propria".
Dal 1923 al 1929 Tardini fu assistente dell'Azione Cattolica, per poi ritornare nel 1929 alla Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari quale Sotto-Segretario, dal 1937 come Segretario. Insieme con mons. Montini (il futuro Paolo VI) fu Sostituto Segretario di Stato e dal 1944 Pro-Segretario.

(Il Messaggero, 25 maggio 2017)


Gigante dell'aeronautica Airbus progetta l'apertura di un centro di ricerca in Israele

 
Gigante dell'aeronautica Airbus progetta apertura di un centro ricerca in Israele. Airbus, il gigante mondo dell'aeronautica ha annunciato l'intenzione di aprire un centro di ricerca e sviluppo in Israele. Questo centro non sarà dedicato solo ai velivoli, ma anche alla ricerca e allo sviluppo di soluzioni di intelligenza artificiale e informatica, due aree in cui Israele eccelle a livello globale.
L'annuncio è stato comunicato durante la conferenza Innovatech 2017 che si è recentemente tenuta a Parigi, da François Auque, a capo di Airbus Ventures. L'obiettivo è quello di individuare le più innovative startup nel settore ed incoraggiare la cooperazione tecnologica tra Francia e Israele in termini di innovazione.
François Auque non ha ancora rilasciato la data di inizio lavori, ma fonti anonime sottolineano che il progetto si svilupperà a breve.
Airbus non è il primo costruttore di velivoli a scegliere Israele. Nel 2014, la società americana Lockheed Martin ha aperto un centro di ricerca e sviluppo a Beersheva.

(SiliconWadi, 25 maggio 2017)


Quando l'Egitto cacciò le truppe Onu e ammassò truppe nel Sinai

Sei giorni, cinquant'anni fa: il secondo video che ripercorre passo dopo passo gli avvenimenti che nel maggio 1967 portarono allo scoppio della guerra.

L'11 maggio 1967 le Nazioni Unite avevano condannato gli attacchi arabi contro Israele come deprecabili e una minaccia alla pace. Ma anziché calmare la situazione, gli stati arabi stavano per imprimere un'escalation al conflitto.
Il 14 maggio il presidente egiziano Nasser iniziò a spostare truppe e carri armati nella penisola del Sinai, unico cuscinetto fra Egitto e Israele. Dopo la guerra di Suez del 1956 questa area era già stata smilitarizzata, con truppe Onu schierate lungo il confine israelo-egiziano per contribuire al mantenimento della pace. La decisione iniziale di Nasser di spostare truppe e mezzi corazzati nel Sinai fu in parte alimentata da false informazioni fornite dall'Unione Sovietica, la potenza alleata e sponsor dell'Egitto, che sosteneva che Israele stava per invadere la Siria. Entro un giorno Nasser seppe che l'informazione era falsa, ma decise di continuare con il concentramento di forze militari che minacciavano Israele....

(israele.net, 25 maggio 2017)


Gli Usa aggiungono altri 75 milioni di dollari al programma missilistico di Israele

GERUSALEMME - Gli Stati Uniti hanno aggiunto altri 75 milioni di dollari al pacchetto di aiuti militari per rafforzare il programma missilistico dello Stato di Israele. A dare l'annuncio è stato il premier israeliano Benjamin Netanyahu in un discorso pronunciato oggi in occasione della cerimonia per i 50 anni dalla Guerra dei sei giorni. Il primo ministro ha sottolineato l'importanza degli aiuti di Washington al settore della difesa israeliana, osservando la volontà degli Stati Uniti di mantenere il vantaggio strategico dello Stato ebraico in Medio Oriente. "Abbiamo appena terminato la visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il nostro più grande alleato", ha dichiarato Netanyahu facendo riferimento alla visita dell'inquilino della Casa Bianca nel paese avvenuta dal 22 al 23 maggio scorso. "Tre giorni fa - ha aggiunto Netanyahu - gli Stati Uniti hanno aggiunto al pacchetto di aiuti altri 75 milioni per il nostro programma di difesa missilistica. Noi apprezziamo questo aiuto che rappresenta un importante sostegno e voglio ancora sottolineare che la storia dimostra che la sicurezza di Israele dipende dalla nostra abilità nel difenderci con le nostre forze contro tutte le possibili minacce". Ieri durante il suo discorso pronunciato all'Israel Museum, Trump ha promesso di sostenere Israele di fronte alla minaccia iraniana: "I leader dell'Iran chiedono continuamente la distruzione di Israele. Non con Donald Trump, credetemi".

(Agenzia Nova, 24 maggio 2017)


Israele sulla sinagoga di Vercelli: "Non fu odio razziale"

Il giudice ha ritenuto che la protesta di due antagonisti non rappresentasse un caso di antisemitismo

di Federica Cravero

Lo striscione al centro della polemica
Il tribunale di Vercelli ha assolto dall'accusa di incitamento all'odio razziale Alessandro Jacassi e Sergio Caobianco, due vercellesi che nel luglio 2014 avevano appeso uno striscione sulla sinagoga di via Foa con le scritte "Stop bombing Gaza", "Free Palestine" e "Israele Assassini". Assistiti dagli avvocati Gianluca Vitale e Laura Martinelli, i due avevano rivendicato la protesta, che era avvenuta nei giorni dell'operazione Margine protettivo condotta dall'esercito israeliano contro Hamas ma avevano anche spiegato che "l'azione non era a sfondo razzista: era un grido di dolore di fronte al bombardamento di Gaza. Non aveva assolutamente niente a che fare con il popolo ebraico, la cui storia amiamo e rispettiamo più di chiunque altro".
La procura, invece, aveva chiesto per loro quattro mesi di reclusione. La Comunità ebraica di Vercelli, assistita dall'avvocato Tommaso Levi, si era costituita parte civile. All'indomani dell'episodio i responsabili della sinagiga avevano presentato una denuncia per diffamazione, mentre il reato contestato dalla procura era stato di istigazione all'odio razziale. "Dal nostro punto di vista - spiega la presidente della comunità, Rossella Bottini Treves - non è mai stato un processo di natura politica né un processo sul conflitto israelo-palestinese, ma il gesto è ritenuto grave perché possibile oggetto di pericolose strumentalizzazioni. Riteniamo, infatti, che il tempio israelita sia un luogo sacro e inviolabile e quindi sarà nostro compito tutelarne l'integrità, la sicurezza e denunciare qualsiasi tipo di oltraggio si dovesse verificare in futuro".

(la Repubblica - Torino, 24 maggio 2017)


Festival Viktor Ullmann 2017: musica liturgica ebraica alla Sinagoga di Trieste

TRIESTE - Secondo appuntamento per la quarta edizione del Festival Viktor Ullmann - rassegna dedicata, unica in Europa, alla musica concentrazionaria, degenerata e dell'esilio - che, dopo un prologo al Kulturni Dom di Gorizia (in un appuntamento organizzato in collaborazione con l'ERT (Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia) prosegue domenica 28 maggio, alle ore 18.00, spostandosi alla Sinagoga di Trieste (via San Francesco, 19) con un concerto, in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste, dedicato alla musica liturgica ebraica con l'esecuzione - in prima assoluta per l'Italia - del Servizio Sacro per Coro, Orchestra, Baritono solista e Narratore, servizio del sabato mattina e preghiere del venerdì sera di Darius Milhaud.
   Saranno di scena l'Orchestra Giovanile San Giusto e il Coro Nuovo Accordo con la partecipazione del Gruppo Vocale Femminile Polivoice (Baritono: Eugenio Leggiadri, Narratore: Nathan Neumann, Maestro del Coro: Andrea Mistaro). Direttore: Davide Casali.
   Il Servizio Sacro è un brano di musica religiosa scritta da Darius Milhaud nel 1947 e commissionato dalla Congregazione Emanu-El, una sinagoga di San Francisco. La cantata è in ebraico e il testo del narratore è stato tradotto in italiano. Il brano fu eseguito per la prima volta il 18 maggio del 1949, sotto la direzione dello stesso compositore, dall'Università della California, il Berkeley coro e la San Francisco Sinphony.
   Darius Milhaud (1892 - 1974), dopo avere studiato musica a Parigi, si trasferì per due anni in Brasile come segretario dell'ambasciatore Paul Claudel a Rio de Janeiro. Rientrato nella capitale francese, conobbe Claude Debussy, Erik Satie e Jean Cocteau ed entrò a far parte del Gruppo dei Sei (con Honegger, Auric, Tailleferre, Durey e Poulenc). La sua produzione creativa, intensa dal 1920 in poi, andò progressivamente affrancandosi dalla poetica del "gruppo", accogliendo in una sintesi del tutto inedita diverse suggestioni musicali, da quelle del folklore sudamericano, che il musicista aveva avuto modo di studiare, a quelle del jazz, dalla musica politonale al neoclassicismo.
   Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Milhaud, di religione ebraica, dovette fuggire dalla Germania nazista e si trasferì negli Stati Uniti, dove rimase fino al 1947. Nel 1956 fu nominato presidente dell'Académie du Disque Français. La sua vastissima produzione comprende anche venti opere teatrali.
   Organizzato dall'Associazione Musica Libera di Trieste, il Festival Viktor Ullmann è l'unico festival in Europa dedicato alla musica concentrazionaria (così definita perché composta nei campi di concentramento e nei ghetti), alla musica degenerata (la musica proibita nella Germania nazista e nell'Italia fascista perché ritenuta decadente e dannosa) e alla musica d'esilio. L'intento del festival è riscoprire quelle pagine musicali per far rivivere il genio creativo dei loro compositori e riflettere sulla Shoah da un diverso punto di osservazione.

(fvgNews.net, 24 maggio 2017)


Chi deve pagare per la sicurezza degli ebrei in Svizzera?

Gli ebrei svizzeri hanno paura di essere vittime di un attentato. Garantire la sicurezza nelle sinagoghe, nelle scuole e in altri edifici costa milioni di franchi alle comunità ebree. Ma ci sono anche altri motivi che potrebbero favorire la loro emigrazione dalla Svizzera.

di Sibilla Bondolfi

Una famiglia ebrea a Zurigo celebra il Sukkot
Gli ebrei hanno un futuro in Europa? È questo l'interrogativo a cui cercheranno di dare una risposta i delegati della Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) durante la loro assemblea del 24-25 maggio. «La sicurezza è un tema molto sentito dagli ebrei svizzeri», spiega Herbert Winter, presidente della FSCI.
I motivi della loro crescente paura: di recente, in Europa alcuni gravi attentati terroristici hanno preso di mira edifici ebrei, per esempio una sinagoga a Copenaghen, una scuola a Tolosa, il museo ebreo a Bruxelles e un supermercato kosher a Parigi.

 Neonazisti e islamisti
  Negli ultimi anni, in Svizzera non si sono verificati avvenimenti tanto drammatici. Tuttavia gli ebrei svizzeri sono preoccupati. «Vediamo ciò che avviene all'estero. E la Svizzera non è un'isola felice», dice Winter. «In generale, la Svizzera è più a rischio rispetto al passato».
Stando al Rapporto sull'antisemitismo 2016, il pericolo maggiore per gli ebrei svizzeri è rappresentato attualmente da neonazisti e islamisti. Dal terrore di matrice palestinese degli anni Settanta, le comunità ebree in Svizzera hanno adottato varie misure per garantire la sicurezza nelle sinagoghe, nelle scuole, nelle case anziani e in altri edifici. A questo proposito hanno installato camere di sorveglianza, impiegato personale addetto alla sicurezza e realizzato accessi più sicuri.
Tali misure sono state rafforzate negli ultimi anni. Finora, gli stessi ebrei si sono accollati i costi di questi provvedimenti preventivi. «La spesa è diventata astronomica», rileva Winter. La fattura annuale per tutta la Svizzera supera i cinque milioni di franchi. A ciò, a scadenze irregolari si aggiungono opere di ristrutturazione che ammontano a diversi milioni di franchi. «I costi per la sicurezza sono quasi raddoppiati negli ultimi due anni e vengono assunti dai singoli membri delle comunità, tramite le quote di adesione».

 La Confederazione liquida gli ebrei con un consiglio finanziario
  Winter chiede che sia lo Stato ad assumersi parte dei costi. Nel 2016, la Confederazione ha indicato in un rapporto che sebbene gli ebrei siano particolarmente a rischio, «al momento non esiste né una base costituzionale né una base legale per la partecipazione della Confederazione ai costi delle misure di sicurezza per le istituzioni ebraiche». Inoltre liquida la questione con un consiglio: «Le organizzazioni ebraiche potrebbero istituire una fondazione per il finanziamento delle loro spese».
Il rapporto, afferma Winter, ha ampiamente deluso gli ebrei in Svizzera. «Molti si sono sentiti abbandonati». Per il presidente della FSCI rimane un mistero come la creazione di una fondazione possa migliorare la situazione. Stando al rapporto sarebbero le stesse comunità ebraiche a finanziare la fondazione, le stesse che già ora saldano le fatture per la sicurezza.
Le comunità ebraiche non sono quasi più in grado di assumersi questa spesa. Tra l'altro, anche perché il numero di membri continua a diminuire a causa di matrimoni misti, assimilazione e defezioni. È un fenomeno analogo a quello che stanno vivendo le comunità cristiane in Svizzera. Per questo motivo, durante l'assemblea della FCSI si parlerà anche di «Demografia e sicurezza».

 Protezione delle minoranze
  In occasione di grandi eventi, come l'anniversario del congresso sionista (previsto anche quest'anno), viene allestito sempre un enorme dispositivo di sicurezza, mentre le autorità lasciano a sé stessi i cittadini ebrei. Lo stesso discorso vale anche per i musulmani che a loro volta vivono momenti difficili a causa dell'islamofobia o dell'estremismo di destra. Per esempio, lo scorso dicembre un uomo ha sparato a caso in una moschea a Zurigo.
Di recente si sono registrate alcune novità. Il 10 aprile, la Confederazione ha comunicato che intende proteggere meglio le minoranze a rischio, come ebrei e musulmani. Per questo motivo intende elaborare entro la fine del 2017 un relativo piano d'azione nel quale affronterà anche l'argomento del finanziamento della sicurezza.
«Sembra di essere vicini a una svolta rispetto al passato», dice Winter. La Confederazione si è resa conto che ha un obbligo di coordinazione. «Spero in una soluzione in tempi brevi e in una sensata ripartizione dei costi».

 Gli ebrei hanno un futuro in Svizzera?
  In Francia dopo gli attentati si è registrata un'emigrazione record di ebrei verso Israele. L'Ufficio federale di statistica non è in grado di quantificare il numero di ebrei che di recente ha lasciato la Svizzera. Stando al presidente della FSCI non c'è stata un'emigrazione a causa del timore di attentati. In Svizzera si può ancora vivere. C'è qualcos'altro che lo preoccupa. «Se la Svizzera, come a volte si discute, introdurrà il divieto di portare il velo, di circoncidere i ragazzi o di importare carne kosher, allora un numero maggiore di ebrei lascerà il nostro paese».

(swissinfo.ch, 24 maggio 2017)


Associazioni Ungheria-Israele. La delegazione italiana al congresso di Szekszard

Il sesto congresso della "Federazione delle Associazioni ungheresi di amicizia con Israele" si è svolto nel bell'edificio ottocentesco della ex sinagoga di Szekszard, ristrutturato dal comune della città ungherese ed adibito a centro culturale cittadino. Nella mattinata si è svolta, a porte chiuse, l'assemblea della Federazione con la partecipazione dei rappresentanti di 15 associazioni su 23 associate, la presenza di una delegazione composta da 3 persone dell'associazione pro Israele serba di Subotica (gemellata con la contigua associazione ungherese di Seghedino) e della delegazione della Federazione italiana composta da Edmondo Monti (membro dell'Ufficio di Presidenza) e Judit Gal (rappresentante della Federazione italiana presso quella ungherese)....

(Italia Israele Today, 24maggio 2017)


Roma e Vaticano, il giorno dei Trump. E per Ivanka è toto-ristorante

La domanda che corre sulla bocca di molti è: e stasera, dove mangerà?
   Dal Cortile di San Damaso, nel cuore del Vaticano, a Sant'Egidio, l'Onu di Trastevere. Centinaia di giornalisti alla ricerca di uno spunto per raccontare la visita dei Trump a Roma, oltre le note e i comunicati ufficiali emessi. Grande protagonista lei, Ivanka, la figlia del presidente degli Stati Uniti.
Ieri, come noto, è stata con il marito Jared in un noto locale a due passi dal Pantheon dove è stata loro riservata una sala apposita. Ma stanotte, quando Donald e gli altri saranno a Bruxelles, dove si recherà? E così, immancabile, è toto-ristorante.
   Nel quartiere ebraico qualche speranza c'è. Tanto che goliardicamente c'è già chi, tra ristoratori e addetti ai lavori di 'Piazza', afferma sicuro che sarà il prescelto. La fama di alcuni esercizi è nota anche negli States, e già in passato sono stati serviti fior di ospiti. In fondo, anche per questa ragione, una visita di un'ebrea osservante come Ivanka (anche se qualche dubbio sul suo rispetto delle norme della Casherut sembra esserci) non sarebbe così sorprendente.
   Ma intanto i fatti. "La pace in Medio Oriente è uno degli accordi più duri da raggiungere, ma sento che ci arriveremo" ha detto Trump in occasione della sua recente visita in Israele. Un tema su cui, a quanto trapela dalle stanze vaticane, lo stesso The Donald e Bergoglio si sarebbero lungamente soffermati questa mattina. "C'è stato uno scambio di vedute su alcuni temi attinenti all'attualità internazionale e alla promozione della pace nel mondo tramite il negoziato politico e il dialogo interreligioso, con particolare riferimento alla situazione in Medio Oriente e alla tutela delle comunità cristiane" riporta una nota della Sala Stampa. Temi che, a quanto si apprende, sarebbero stati centrali anche nei successivi vertici con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.
   Mentre il marito accompagnava il padre nei suoi diversi incontri con le autorità dello Stato italiano, Ivanka si recava invece in Trastevere per incontrare la Comunità di Sant'Egidio. Al centro, un confronto sul tema della lotta al traffico di esseri umani e un dialogo con un gruppo di donne africane strappate a questa piaga. "Faremo di tutto per combatterla" ha assicurato Ivanka, incontrando la stampa per qualche istante in giardino. Ad accoglierla i vertici di Sant'Egidio, in testa l'attuale presidente Marco Impagliazzo e il fondatore Andrea Riccardi.

(moked, 24 maggio 2017)

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Trump: Ivanka e marito a cena in un ristorante al centro Roma

La coppia è andata al ristorante "Le cave di Sant'Ignazio", locale a due passi dal Pantheon

La figlia del presidente degli Stati Uniti, Ivanka Trump, ed il marito, Jared Kushner, hanno cenato in un ristorante nel cuore di Roma, a piazza di Sant'Ignazio. La coppia è stata al ristorante "Le cave di Sant'Ignazio", locale a due passi dal Pantheon. I due sono arrivati ieri nella Capitale insieme con Donald Trump e la first Lady Melania in occasione della visita in Italia dell'inquilino della Casa Bianca.
Le strade adiacenti a piazza di Sant'Ignazio, dove erano a cena Ivanka Trump ed il marito Jared Kushner, sono state chiuse dai vigili urbani. La coppia avrebbe cenato all'interno del ristorante, in una saletta a loro dedicata.

(ANSA, 24 maggio 2017)


Asse con Israele, spiraglio per i colloqui di pace

Il presidente Usa ribadisce il legame tra ebrei e Gerusalemme. Ma apre al dialogo con i palestinesi.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Sostegno incondizionato a Israele, promessa che l'Iran non avrà nessuna bomba atomica, apertura di un fronte antiterrorista comune col mondo arabo che porti a un nuovo tipo di processo di pace coi palestinesi. È valsa la pena per Benjamin Netanyahu di resistere con determinazione a otto anni di punizione da parte della presidenza Obama senza fare passi indietro: Trump ha rovesciato la posizione americana con una visita in Medio Oriente. L'opinione pubblica internazionale, l'Onu, l'Ue, erano stati plasmati dagli stilemi obamiani, quelli di un mondo islamico in cui la Fratellanza Musulmana è un alleato, mentre l'Arabia Saudita, l'Egitto e i Paesi del Golfo venivano messi da parte; in cui l'Iran era l'alleato strategico dell'Occidente; e soprattutto Israele veniva trasformato in uno stato paria.
   Trump ieri prima che i tappeti rossi venissero riarrotolati e Air Force One riprendesse, enorme e azzurrino, il volo, ha tenuto al Museo d'Israele un discorso che ha esordito con il cordoglio per l'attentato di Manchester per avventurarsi di nuovo nel tema del terrorismo: è il grande nemico del mondo intero, senza nessuna differenza fra l'Inghilterra o il suo stesso Paese e Israele, e nemmeno il mondo islamico tormentato dal continuo bagno di sangue. La guerra contro l'Isis è comune, come deve esserla quella contro Hamas e gli Hezbollah. Inoltre, l'Iran ambizioso e violento trascina il mondo sciita verso la nuclearizzazione e un ruolo imperiale. Trump ha giurato sia a Ryiadh che in Israele che l'Iran non avrà la bomba. Lo sfondo strategico sul quale si costruisce il disegno della nuova amministrazione americana è quello di un'alleanza onnicomprensiva di tutti gli uomini di buona volontà contro le forze del male. C'è per Trump un mondo che ama la morte e che deve essere battuto.
   «Not with D. J. Trump», ha detto il presidente, un'uscita fra Iohn Wayne e Lawrence d'Arabia: l'unica licenza trumpiana. Per il resto ha usato toni da pacificatore e da statista: Israele, che si è sentito ripetere senza sosta che Gerusalemme non gli appartiene, ha goduto per la prima volta di una ricostruzione storica realistica. La Gerusalemme che Trump ha descritto con toni incantati è tornata ad essere la patria ideale, religiosa, storica di quattromila anni di storia del popolo ebraico. Nel discorso del presidente è stata disegnata per ciò che è, con le sue strade, con la gente di tutto il mondo che visita tranquilla e rispettata il Santo Sepolcro, le Moschee, il Muro del Pianto: una città dove le tre religioni possono finalmente vivere nel rispetto reciproco, nell'educazione pluralistica. La prospettiva di pace fra Israele e i Palestinesi non è stata disegnata nei particolari: è apparsa piuttosto come una prospettiva, un comma della generale guerra appena dichiarata contro il terrorismo.
   Abu Mazen, che Trump ha incontrato durante la mattinata a Betlemme, è stato descritto come un leader che vuole la pace. E così Netanyahu. Probabilmente i leader si sono promessi molte cose, molti accordi sono intercorsi di cui ancora non si sa: probabilmente Trump punta a ottenere una riapertura dei colloqui fra le due parti in cambio di facilitazioni economiche e di sicurezza, consolidando intanto lo sfondo del sostegno del mondo arabo sunnita al progetto generale.

(il Giornale, 24 maggio 2017)


Cyber security, in Israele un nuovo studio del CcdCoe Nato

ROMA - Un nuovo report del Nato Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence (CcdCoe), il centro Nato per la difesa dagli attacchi informatici situato in Estonia e che ha tra i suoi membri anche l'Italia, ha preso come oggetto di studio le strutture israeliane deputate alla sicurezza informatica e gli ultimi sviluppi in materia. Il documento, intitolato 'National Cyber Security Organization: Israel' descrive una tendenza verso una maggiore trasparenza e un'innovazione istituzionale in atto nella sicurezza informatica del Paese.Nell'ultimo, spiega l'analisi, Israele è diventata sempre più una nazione all'avanguardia nell'innovazione digitale e nella cyber security. Infatti, l'implementazione di misure e istituzioni nazionali in materia di sicurezza cibernetica è avvenuta relativamente in anticipo e con maggiori vigore ed efficacia rispetto ad altri Paesi. Le banche israeliane, le istituzioni finanziarie, le società di servizi pubblici e altre infrastrutture critiche sono tra quelle più frequentemente oggetto di attacchi cyber a livello mondiale.L'autrice dello studio, Deborah Housen-Couriel, sottolinea che "in generale, l'attuazione degli obiettivi e delle priorità nazionali in materia di cyber sicurezza in Israele è caratterizzata da una maggiore trasparenza pubblica, un'innovazione istituzionale e un investimento governativo sia negli obiettivi a breve sia a lungo termine".Israele è stato anche tra i pionieri della cooperazione nazionale multi-stakeholder in tema di sicurezza, con il coinvolgimento e l'interazione tra diversi attori come governo, università e settore privato. Ad ogni modo, per il Paese, la cooperazione nel campo della cyber security rappresenta secondo gli esperti un'estensione naturale del paradigma di collaborazione già esistente in altre aree.

(askanews, 24 maggio 2017)


Attacco alle culle della nostra civiltà

Parla Abdel-Samad. "Il 'fascismo islamico' all'assalto della cultura occidentale. Stiamo perdendo".

di Giulio Meotti

ROMA - Alcuni giorni fa, le autorità turche hanno raso al suolo il night club Reina di Istanbul, teatro della strage di Capodanno rivendicata dall'Isis, in cui furono uccise 39 persone. "Violazione della normativa edilizia". Questa la motivazione. Quasi che le autorità neoislamiche della Turchia non aspettassero altro per liberarsi di quella sentina del vizio. Dall'11 settembre, i terroristi islamici hanno colpito una dopo l'altra le sale da ballo. Il Bataclan di Parigi, il Pulse di Orlando, le discoteche di Bali, il Dolphinarium di Tel Aviv. "Sono puro occidente ed è questo che i terroristi vogliono distruggere, la società aperta", dice al Foglio Hamed Abdel-Samad, scrittore egiziano che vive sotto scorta in Germania e che in Italia ha appena pubblicato il suo libro più noto, "Fascismo Islamico" (Garzanti), dove spiega che l'islam soddisfa i quattordici punti dell'Ur-Fascismo di Umberto Eco. E dell'ideologia islamista è vittima lui stesso da quando, per un discorso tenuto al Cairo il 4 giugno 2013, un gruppo terroristico chiese la sua morte. "I terroristi colpiscono questi luoghi, come le discoteche, perché sono i soft target. Ma sono anche i luoghi dove gli occidentali si godono la vita". Ilterrorismo islamico è sempre più all'offensiva. "In passato, da un grande attacco a un altro, passavano uno, due anni. Un anno dopo l'11 settembre ci fu Bali. Due anni dopo ci fu Madrid e poi Londra un anno dopo. Adesso passano una, due settimane fra un attacco e l'altro. Prendiamo gli ultimi sei mesi: Berlino, Londra, Stoccolma, Parigi e ora Manchester. L'Isis è sotto pressione e, perdendo terreno, porta la sua guerra al cuore dell'occidente.Non possono sconfiggere gli eserciti, ma possono sconfiggere la cultura occidentale. Così attaccano l'Europa che considerano 'decadente' e moralmente debole. Sperano di far collassare il sistema".
  Secondo Hamed Abdel-Samad, l'occidente porge il suo volto peggiore dopo ogni attacco. "Ogni volta so esattamente quale sarà il rituale politico in tv e sui giornali. Una organizzazione islamica che si presenta per dire che 'questo non è il vero islam'. I politici che ci ripetono che 'no, non cambieranno il nostro stile di vita'. Ma l'Europa non ha aperto gli occhi sull'ideologia islamica. L'Inghilterra ha ospitato tanti terroristi fuggiti dai paesi arabi e paesi come Stati Uniti e Germania stringono ora grandi patti militari ed economici con l'Arabia Saudita. Stiamo tollerando questi attentati perché l'establishment pensa nel breve termine, cinque sei anni. E' nel lungo periodo che pagheremo il prezzo più terribile. Intanto parliamo di 'valori valori valori'. Ma stiamo perdendo la guerra. E' vero che preveniamo molti attacchi, ma altri saranno messi a segno. Perdiamo la guerra ideologica. L'islam radicale avanza ovunque, pure in Indonesia. Con l'11 settembre, il mondo islamico si aspettava risposte ma noi abbiamo tradito pure i dissidenti, i liberali nell'islam, abbracciando il mantra dell'islam 'religione di pace' e quello sullo 'stile di vita"'.
  Il fondatore dell'islam radicale è un egiziano come Hamed Abdel-Samad, lo scrittore e pedagogista Sayyid Qutb. Trascorse un lungo periodo in America, dove si convertì al fondamentalismo. "La sala da ballo era decorata con luci gialle, rosse e azzurre", scriveva Qutb. "La stanza era terremotata dalla musica febbrile che usciva dal grammofono. Gambe nude in movimento riempivano lo spazio, le braccia allacciavano le vite, i petti incontravano i petti, le labbra incontravano le labbra, e l'atmosfera era satura d'amore". Il martire islamico come "testimone" della fine della città moderna, del brechtiano "Im Dickicht der Stàdte", della Nuova Canaan di Dvorak che Qutb, padre del fondamentalismo islamico contemporaneo, vide a New York "satura di lussuria". Qutb rimase sconcertato dalla donna americana, "che conosce benissimo le bellezze del suo corpo: il volto, gli occhi ammiccanti, le labbra piene, il seno florido, le natiche rotonde e le gambe lisce. Si veste con colori vivaci che risvegliano istinti sessuali primitivi, non nasconde niente, e aggiunge al tutto la risata eccitante e lo sguardo ardito".
  "Sayyid Qutb è il simbolo dei musulmani occidentali di oggi", continua al Foglio Hamed Abdel-Samad, intellettuale egiziano sotto scorta in Germania e che in Italia ha appena pubblicato per Garzanti il libro "Fascismo islamico". "Quando andò in America, Qutb era un egiziano laico. Ma entrò in contatto con il materialismo dell'occidente ed ebbe paura della libertà. Qutb si sentì sconfitto. La sua storia si ripete oggi con i musulmani europei. Le famiglie non li preparano al mondo, dicono loro che 'gli occidentali dormono con più donne, usano droghe, bevono, non hanno valori'. Questi musulmani non riescono a gestire questa tensione e proteggono la loro visione del mondo ricorrendo spesso alla violenza. Il problema dell'occidente è di non credere invece in se stesso. L'Isis è molto onesto nel suo odio per i valori occidentali. Poi c'è Erdogan, quello che chiamo il 'fascismo light', e che dietro ha lo stesso odio. Tutti questi musulmani vogliono morire per il loro Dio e per purificare il mondo".
  Intanto, proliferano i veli islamici in Europa, scompaiono le vignette dai giornali e nei tribunali torna in auge il delitto d'opinione sull'islam. "Oggi sono l'unico in Germania a pubblicare libri critici sull'islam, e per questo ho sempre con me dei poliziotti, non ho più una casa e anche quando devo comprare il pane sono protetto", continua Abdel-Samad al Foglio. "Ma la sinistra liberal è concentrata a denunciare la 'islamofobia'. In Francia la casa editrice Piranha ha rifiutato il mio libro dopo averlo acquistato, come tre case editrici tedesche si sono rifiutate (il libro a Parigi è uscito di recente per la casa editrice Grasset, ndr). E' ovvio che la maggioranza dei musulmani è pacifica, ma anche i tedeschi lo erano nel 1933. La maggioranza non conta".
  Secondo Abdel-Samad, il problema non è la falla dell'intelligence o le bombe intelligenti, ma il nostro fronte interno. E' lì che l'occidente deve vincere la sua guerra con l'islam radicale. "Non siamo pronti a difendere i nostri valori così come i terroristi sono pronti a uccidere per i loro. All'islam radicale è stato consentito di crescere fino a diventare un mostro, con l'Europa che ha relativizzato il pericolo. Cosa altro deve accadere? Ho paura che sia troppo tardi. Che abbiano già considerato come chiusa questa partita".

(Il Foglio, 24 maggio 2017)


Il lodo Moro-Arafat per ora ci protegge

Quell'intesa siglata da Moro che fino ad ora ha protetto l'Italia.

di Franco Bechis.

Il nome per cui è passato alla storia è "lodo Moro", perché a parlarne fu lo stesso presidente della Democrazia cristiana durante i giorni di prigionia nelle mani delle Brigate Rosse. Qualche conferma è arrivata da dirigenti palestinesi dell'epoca - sia pure molti anni dopo - e qualche altra traspare dalle carte solo parzialmente desecretate del "Lawrence D'Arabia" italiano, vale a dire il colonnello Stefano Giovannone, agente segreto italiano assai attivo sul fronte arabo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Il lodo Moro sarebbe l'intesa che a livello alto sarebbe stata raggiunta fra l'Italia e l'Olp di Yasser Arafat per evitare attentati sul suolo della penisola dopo la strage di Fiumicino del 1973. Un accordo che avrebbe resistito decenni, anche se non poche ombre ancora persistono su stragi e regie che hanno visto negli anni di piombo ufficialmente protagonisti terrorismo nero e rosso nostrano. Ma sarebbe quell'accordo che per decenni avrebbe reso l'Italia immune dal sangue delle stragi medio-orientali. In cambio di un appoggio politico ai palestinesi che ufficialmente in effetti arrivò nel 1980, e della possibilità di utilizzare per loro e per altri gruppi di fuoco medioorientali l'Italia come una sorta di terra di passaggio immune per loro e anche per il passaggio di soldi e armi per operazioni di altro tipo.
  Quel lodo è stato ricostruito da indizi e testimonianze anche autorevoli negli anni, e pare illuminato dai pizzini di Giovannoni ora in mano ai membri della commissione di inchiesta su Moro, che ha potuto leggerle ma non renderle pubbliche. Secondo autorevoli fonti di intelligence sarebbe ancora oggi alla base di una sorta di immunità italiana, proseguita sia negli anni di Al Qaeda che in quelli dell'Isis: nessuna strage si è svolta dentro questi confini, e l'unica che abbia espressamente riguardato gli italiani è stata quella di Nassiriya. Certo il terrorismo arabo è profondamente mutato da quelle origini, in cui la componente politica era assai prevalente rispetto a quella religiosa. Ma secondo le stesse fonti di intelligence l'Italia ha continuato al di là di eventuali patti taciti, ad essere considerata dai gruppi terroristici arabi una sorta di hub ideale dove riparare, organizzarsi e restare sotto copertura prima di compiere attentati altrove. Un paese in cui è facile arrivare, in cui si può dispone di una rete efficiente per essere sostenuti e nascosti, dove gruppi etnici della stessa origine sono riusciti a stringere accordi con la criminalità organizzata nazionale che rendono abbastanza sicura la permanenza anche di terroristi sotto copertura. E dove un eventuale attentato metterebbe fortemente a rischio questa relativa tranquillità di cui la loro rete organizzata può oggi godere. Sarebbe in questa la radice della lunga immunità dalle stragi arabe di cui l'Italia fin qui ha goduto. Una convenienza temporanea - a lungo temporanea - su cui però non si può contare all'infinito. Gran parte degli attentati che si sono verificati nell'ultimo biennio sono infatti stati compiuti da lupi solitari che non po ano stabilmente sulla organizzazione dell'Isis, e che quindi fanno ben pochi calcoli. Vero che per molte ragioni storiche e forse anche per quel lodo, la capacità di infiltrazione dei servizi italiani è alta in quel mondo, e non sono pochi i successi nel reclutamento e nella strutturazione di tunisini, marocchini ed egiziani assai vicini alla rete Isis. Ma azioni di singoli come quella di Manchester sono difficilmente evitabili anche dall'intelligence. Per quelli non c'è lodo che tenga...

(Libero, 24 maggio 2017)


Lugano - Una serata per parlare di Israele.

"Ma Tzipi Livni sia dichiarata persona non gradita sul nostro territorio". L'ex Ministra di Israele sarà presente a Lugano, i comunisti non sono d'accordo: "In numerosi paese è accusata di crimini di guerra, la Svizzera non ne ha il coraggio."

 
Tzipi Livni
BELLINZONA - Una giornata per parlare di Israele e per celebrare i 69 anni della fondazione dello Stato di Israele e i 68 anni delle relazioni diplomatiche tra Svizzera e Israele. Denominato "Swiss Israel Day", si terrà il 28 maggio al Palazzo dei Congressi di Lugano. Il momento clou sarà un'intervista da parte di Marcello Foa di Tzipi Livni, definita nel comunicato degli organizzatori "un personaggio di spicco della politica israeliana. Una carriera militare alle spalle, è stata ministro degli Esteri e della Giustizia, vice Primo ministro e per un breve periodo primo ministro ad interim. Oggi è leader del partito HaTnuah, da lei stessa fondato, e membro della Knesset"
Una presenza che non piace ai comunisti, i quali in un comunicato che il Consiglio di Stato la dichiari persona non gradita sul territorio svizzero.
"Ricordiamo che la ex-ministra Livni era parte del consiglio di guerra di Tel Aviv durante l'aggressione militare israeliana alla Striscia di Gaza nell'inverno 2008/09. In quell'occasione furono sganciate 1500 tonnellate di bombe in centri abitati, furono usate armi al fosforo bianco e, secondo l'ONU, circa mille civili rimasero uccisi, fra cui 400 bambini", scrive il Partito Comunista. "Contro questa "ospite d'onore" in numerosi paesi sono stati aperti procedimenti giuridici per crimini di guerra e Livni ha dovuto rinunciare in passato a viaggiare in Gran Bretagna e in Belgio per evitare il rischio di finire agli arresti. Evidentemente in Svizzera non si ha questo coraggio".
Inoltre, "tramite una interrogazione urgente del proprio deputato Massimiliano Ay, chiederà che la Banca dello Stato del Canton Ticino ritiri il proprio sostegno a questo evento, che rappresenta una grave provocazione nei confronti della comunità palestinese e araba che vive nel nostro Paese, costretta alla fuga spesso proprio dai crimini perpetrati dal governo di cui Livni faceva parte".
Nel corso della serata interverranno anche il sindaco di Lugano, Marco Borradori, e il consigliere di Stato Christian Vitta.

(Ticino Libero, 24 maggio 2017)


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