Un cuore calmo è la vita del corpo,
ma l'invidia è la carie delle ossa.
Proverbi 14:30  

Attualità



Israel: The Royal Tour
Peter Greenberg explores Israel with Prime Minister Benjamin Netanyahu


Iscriviti alla newsletter
Nome:     
Cognome:
Email:      
Cerca  
Inizio - Attualità »
Presentazione »
Approfondimenti »
Notizie archiviate »
Notiziari »
Arretrati »
Selezione in PDF »
Articoli vari »
Testimonianze »
Riflessioni »
Testi audio »
Libri »
Questionario »
Immagini »
Video »
Scrivici »

























Gli scrittori ebrei italiani non si accorgono dell'odio che monta contro Israele

Ebraismo e cultura. un problema di identità

di Emanuele Calò

Libri su libri su libri su libri. Una mia compagna della nostra scuola elementare sudamericana - con WhatsApp e Facebook si torna al passato remoto - mi domanda da Israele, dove è andata per il Bat Mitzvah della nipote ex sorore, se anch'io sia ebreo. La domanda mi sbilancia e mette in crisi la mia stessa identità. Vabbè, sì, sono ebreo: ma come Harrison Ford o come Moni Ovadia? Come Paul Newman o come Gad Lerner? Come Noam Chomsky o come Alan Dershowitz? Eppoi, non so una parola di ebraico. Però sono ebreo, un poco come sono romanista, ossia orgogliosissimo di esserlo. Il punto è che sono tanti, nel mondo, ebrei compresi, a dubitare che esistano gli ebrei italiani, per via della loro scarsa consistenza numerica. Io stesso inizio a dubitare della nostra esistenza, perché il fenomeno letterario/editoriale ci conduce in una dimensione mistica e finanche irreale. Un poco come Asterix, il personaggio ideato da un ebreo, il quale autore sarà finito per entrare nei fumetti assieme al suo personaggio, percorrendo la via inversa rispetto alla Rosa purpurea del Cairo; anziché passare dalla finzione alla realtà, qui è il mondo del reale a diventare cliché. Sarebbe impegnativo elaborare delle statistiche sui libri editi in Italia ad argomento ebraico; è una valanga incontenibile, ondate e ondate di volumi in cerca di lettori per un popolo, come quello italiano, che non legge moltissimo. Qualche fesso, però, dovrà pur esserci, perché non è possibile assumere che tutti gli editori siano votati al martirio. Eppoi, sì, l'argomento sarà pure interessante, ma né può essere l'unico né si può diventare ebreo-centrici. E invece così non è, perché quasi ogni volta che trovo un qualche cosa di così originale da rasentare la bizzarria, finisco per imbattermi in un correligionario. Che avesse ragione Paul Johnson, quando paragonava gli ebrei al lievito? Giacomo Debenedetti, nel suo saggio sul 16 Ottobre 1943, mette in luce la sostanziale ingenuità degli ebrei: diffidenti nelle cose piccole, disastrosamente ingenui in quelle grandi. Perché gli ebrei italiani che scrivono e scrivono, che recensiscono e recensiscono, non sembrano capire che accanto al fiume blu di libri a tema ebraico scorre il fiume nero dell'odio che finalmente ha trovato in Israele l'alveo dove scaricare la sua geometrica brigatistica potenza. Quel fiume nero non annulla il fiume blu, ma lo rende disinvoltamente ancillare, ponendolo al proprio servizio, contrapponendo la soave cultura diasporica, subdolamente bundista, alla furiosa vitalità israeliana, il cui paragone coi vicini scuote l'oriente medio. Non so se, e in quale misura, si abbia piena contezza che si tratta di una contrapposizione fra morti e vivi, che trova la sua Epifania nel Giorno della Memoria, dove non dovrebbe onorare i morti chi demonizza i vivi. E intanto il fiume blu continua a scorrere, tanto placido quanto inutile.

(Il Foglio, 21 novembre 2017)


"... la sostanziale ingenuità degli ebrei: diffidenti nelle cose piccole, disastrosamente ingenui in quelle grandi". Da non ebreo, concordo. La conferma si trova anche nella storia, se si guarda bene. E' ammirevole la disponibilità degli ebrei ad accogliere con gratitudine le manifestazioni di interesse e simpatia verso di loro, ma spesso non si accorgono della pericolosità minacciosa che sottende certe esposizioni in pubblico. Verrebbe voglia di avvertirli, ma non serve. Tanto più che la diffidenza potrebbe essere estesa anche a chi scrive. Un enigmatico intoppo. M.C.


Il tunisino Saïd cacciato dal festival del cinema per i legami con Israele

di Giulio Meotti

 
Saïd Ben Saïd
ROMA - Lo scorso settembre, il regista libanese Ziad Doueiri, il cui attore Kamel el Basha aveva appena vinto al Festival del cinema di Venezia il premio come miglior attore protagonista nel film "L'Insulto", fu atteso dalla polizia libanese all'aeroporto di Beirut di ritorno da Venezia. Doueiri venne arrestato e interrogato per tre ore dal tribunale militare, accusato di "collaborazionismo con Israele". La sua "colpa" fu di aver girato alcune scene della pellicola in territorio israeliano.
   Adesso qualcosa di simile succede a un grande produttore cinematografico tunisino. Saïd Ben Saïd aveva lavorato con David Cronenberg, Roman Polanski, Brian De Palma e Paul Verhoeven, fra gli altri. Per questo, onorando una lunga carriera, a Saïd Ben Saïd avevano offerto la direzione del Festival del cinema di Cartagine, in Tunisia (dal 4 all'11 novembre). Un incarico poi annullato a causa del liberalismo e del pluralismo professati e praticati da Saïd Ben Saïd. Ovvero la sua collaborazione con il regista israeliano Nadav Lapid ed essere un membro della giuria del Festival del cinema di Gerusalemme.
   Saïd Ben Saïd ha così scritto sul Monde un articolo di denuncia che costituisce uno dei più clamorosi atti d'accusa verso il mondo arabo-islamico. "Sono nato in Tunisia, sono cresciuto in una famiglia musulmana praticante e oggi affermo con lo stesso entusiasmo di essere musulmano, francese e tunisino" scrive sul Monde. "Nel mio paese e nel mondo arabo in generale c'è una ostilità (quando non odio) contro Israele. Nessuno può negare la sfortuna del popolo palestinese, ma dobbiamo ammettere che il mondo arabo è, nella sua maggioranza, antisemita e che l'odio degli ebrei ha raddoppiato in intensità e profondità non a causa del conflitto arabo-israeliano, ma dell'ascesa di una certa visione dell'islam. Certo, molte persone sono persuase che, essendo semiti, gli arabi non possono essere antisemiti. Ma niente è più sbagliato. Il termine 'antisemita', inventato in Europa nel Diciannovesimo secolo, non ha mai riguardato gli arabi. Ha designato esclusivamente gli ebrei".
   Saïd Ben Saïd poi ha accusato direttamente l'islam: "La lettura letterale del Corano, priva di qualsiasi contesto storico, è delirante sugli ebrei. Gli ebrei sono, per noi, traditori, falsificatori, immorali, cattivi, ecc. E, soprattutto, questi versi erano la parola di Dio. In una monarchia del Golfo Persico, ad esempio, oggi si legge nei libri di testo che gli ebrei discendono dalla scimmia". Anche l'età d'oro della condizione ebraica nel mondo arabo è un mito. "Gli ebrei vivevano in una situazione migliore rispetto a quella degli ebrei europei con periodi di relativa tolleranza, ma nel complesso, dal Marocco all'Iraq, sono stati disprezzati, vittime di bullismo e umiliati quando non massacrati in modo che non avevano altra scelta che lasciare le terre dei loro antenati per stabilirsi in Europa o in Israele". E' nel mondo arabo, infine, che i Protocolli dei savi anziani di Sion continuano a godere del loro più grande successo di vendite e pubblico. Conclude Saïd Ben Saïd; "L'antisemitismo degli arabi oggi è lo stesso del vecchio antisemitismo europeo". Un mix letale esploso proprio in Francia, la patria d'adozione di Saïd Ben Saïd.

(Il Foglio, 21 novembre 2017)


Destra israeliana scatenata contro il presidente Rivlin

Sul web circolano fotomontaggi del capo di stato coperto da una kefiah, gli stessi che furono riservati al'ex premier Rabin, ucciso da un estremista nel 1995

di Sara Volandri

La destra israeliana letteralmente scatenata contro il presidente Reuven Rivlin additato come nemico del popolo e sodale degli odiati palestinesi. Perché tanto livore? Rivlin è finito nel mirino dei nazionalisti per aver negato la grazia all'ex militare il 21enne Elor Azaria, condannato per aver ucciso nel 2016 un palestinese ferito, Abdel Fattah al Sharif a Hebron in Cisgiordania. Azaria aveva subito un'aggressione da al Sharif con un coltello, ma l'uomo era stato prontamente ferito e immobilizzato dai militari di Tel Aviv. Nessuna legittima difesa dunque: Azaria lo ha ucciso a sangue freddo con un colpo di rivoltella alla testa dalla distanza di due metri. La terribile sequenza era stata ripresa con un telefonino da un attivista di una Ong israeliana, B'Tselem, che è presente nei territori palestinesi per verificare il comportamento dell'esercito e proteggere i diritti dei cittadini arabi che vivono sotto occupazione. Il video ha fatto rapidamente il giro del web, inchiodando il giovane soldato di Tsahaal, considerato dal tribunale del tutto capace di intendere e di volere quando ha premuto il grilletto.
   A gennaio Azaria è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario e condannato a 18 mesi di reclusione in un carcere militare, considerando tutte le attenuanti. La pena gli era stata ridotta di 4 mesi dal capo di stato maggiore dell'esercito, Gadi Eizenkot. ll premier Benjamin Netanyahu ed altri politici di spicco avevano chiesto apertamente il perdono per Azaria.
   La mancata grazia ha aperto il vaso di Pandora di insulti e minacce nei confronti del presidente Rivlin che non ha perdonato il caporale Azaria per non scatenare una rivolta nei territori palestinesi, un gesto saggio considerando la lieve entità della pena, ma che sta mandando su tutte le furie la destra più radicale (e non solo).
   La polizia israeliana ha ieri aperto un'indagine dopo la comparsa di alcune immagini ritoccate con photoshop che ritraggono Rivlin con una kefiah, il tipico copricapo arabo, simbolo anche del nazionalismo palestinese. Questo tipo di fotomontaggi sono considerati tabù nella società israeliana, dopo che immagini simili che avevano per soggetto il premier Yitzhak Rabin vennero diffuse dagli estremisti di destra israeliani, prima del suo assassinio nel 1995. Un clima deleterio che lo stesso premier Natanyahu, pur favorevole alla grazia, è stato costretto a condannare: «In una democrazia chiunque può essere criticato. L'unica richiesta affinché queste critiche siano rilevanti e rispettose è che siano senza kefiah, senza corde da impiccagione e senza uniformi naziste», ha dichiarato.
Il rifiuto della grazia da parte di Rivlin, che è un esponente del Likud, il partito al governo, ha messo fine ad una vicenda giudiziaria che ha profondamente diviso Israele e che con ogni probabilità continuerà a farlo.

(Il dubbio, 21 novembre 2017)


L'India annulla un contratto di 500 milioni di dollari con Israele per l'acquisto di missili

NUOVA DELHI - L'India ha cancellato un accordo multi-milionario con Israele per l'acquisto di missili. Lo riferisce oggi il quotidiano indiano "The Indian Express". Secondo i media di Gerusalemme, l'annullamento del contratto del valore di circa 500 milioni di dollari rappresenta un duro colpo alle fiorenti relazioni israelo-indiane. Ad essere stato annullato è un accordo risalente al 2014 che prevedeva l'acquisto di oltre 300 missili anticarro Spike, prodotti dall'israeliana Rafael. Nel 2014 Nuova Delhi aveva scelto Rafael per la commessa, preferendola al sistema di difesa antimissile Javaelin, delle società statunitensi Raytheon e Lockheed Martin. In seguito alla commessa da parte del governo indiano, la Rafael aveva aperto una fabbrica di produzione nel paese asiatico insieme ad una società locale. La decisione della cancellazione sarebbe stata presa sulla base della considerazione che l'importazione di un missile anticarro straniero avrebbe un impatto negativo sul programma di sviluppo interno di tecnologie militari e armamenti di cui è responsabile l'agenzia pubblica Defence Research and Development Organisation (Drdo).
La notizia dell'annullamento dell'accordo giunge a pochi mesi dall'annuncio dell'acquisto da parte di Nuova Delhi di sistema di difesa navale Barak 8, prodotto dall'Industria aerospaziale israeliana (Iai). A testimonianza delle floride relazioni tra i due paesi, a gennaio 2018 è prevista la visita del premier israeliano Benjamin Netanyhu in India. La visita del capo dell'esecutivo israeliano, se confermata, avverrebbe circa sei mesi dopo quella dell'omologo indiano Narendra Modi nello Stato ebraico dello scorso luglio. Netanyahu dovrebbe arrivare il 14 gennaio e ripartire il 16, dopo essere stato ricevuto da Modi. Sarebbe il secondo premier israeliano in visita ufficiale in India dopo Ariel Sharon (2003). Il governo indiano si sta preparando per l'incontro bilaterale, sui temi del commercio, dell'innovazione, dell'agricoltura e della gestione delle risorse idriche. In agenda anche la difesa: i due paesi, infatti, stanno lavorando a una proposta riguardante il velivolo da ricognizione comandato a distanza Heorn Tp o Iai Eitan, prodotto dall'Industria aerospaziale israeliana (Iai). Gli scambi commerciali, escludendo la difesa, ammontano a circa cinque miliardi di dollari, al di sotto del potenziale secondo fonti governative indiane, che puntano a un accordo di libero scambio.

(Agenzia Nova, 21 novembre 2017)


Conferenza "Medicina e cultura ebraica in Puglia nel tardo antico e basso medioevo”

TRANI - Conferenza "Medicina e cultura ebraica in Puglia nel tardo antico e basso medioevo"che si terrà domani, 22 novembre alle ora 17.30 in biblioteca, organizzata dall'Assessorato alle Culture in collaborazione con l'A.M.M.I. (Associazione Mogli Medici Italiani) - Sezione di Andria, Barletta, Bisceglie, Canosa, Corato, Trani.
   Si parlerà dei paradossi della storia, in particolare sulla lunga e perdurante ambivalenza che ha investito gli Ebrei e i loro rapporti con il potere laico e religioso per secoli, nelle terre europee bagnate dal Mediterraneo.
   Una ambiguità che si è deteriorata con maggiore evidenza di fatti in tre grandi tornanti: dopo il Mille, intorno al secolo XIV e poi dal XVI in avanti verso la catastrofe del Novecento. Da una parte si firmavano decreti regi o papali di restrizioni e di espulsioni; dall'altra si corteggiavano i medici ebrei ed averli come medici personali era l'ambizione di qualunque re, feudatario, vescovo e persino papa. Come scrive Elia Benamozegh, grande erudito cabalista e rabbino livornese dell'Italia risorgimentale, "L'ebraismo non è solo una religione, una politica, una legislazione e una letteratura, ma è la cura sostanziale, un'arte e una scienza salutare tanto del corpo quanto dello spirito. […] È soprattutto opera di conoscenza e prevenzione verso le malattie."
   Nella seconda parte dell'incontro ci terrà la presentazione del libro "In viaggio per sinagoghe e giudecche" (Adda, 2017) di Maria Pia Scaltrito, storica della Filosofia, membro della Società di storia patria per la Puglia e collaboratrice de La Gazzetta del Mezzogiorno per la storia e la cultura ebraica, che converserà con Luisa Derosa, storica dell'Arte e docente di Storia dell'Arte medievale presso l'Università degli Studi di Bari. Il libro è un viaggio alla scoperta delle storie di un Sud ancora sconosciuto, storie a volte compiute, più spesso spezzate e finanche misteriose. Ma anche di sinagoghe. Da Bari a Lecce a Copertino a Trani a Venosa. Giungendo al ritrovamento dell'ultima: la sinagoga medievale di Andria che nelle pagine appare in assoluta anteprima.

(Puglia live, 21 novembre 2017)


Riad e Gerusalemme si parlano in chiave anti-Iran

di Emanuele Rossi

Il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz
Domenica il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, è stato il primo funzionario del gabinetto di governo a rivelare apertamente che Gerusalemme e Riad si parlano in funzione anti-Iran. Questo coordinamento è destinato a segnare i futuri equilibri nella regione più turbolenta del mondo, il Medio Oriente, con potenziali ricadute globali; vedere per esempio la mediazione francese sulle dimissioni del primo ministro libanese, vicenda che si allinea all'interno di questa scia di polarizzazione che vede Israele e gli stati sunniti del Golfo - capitanati dai sauditi - contro l'Iran e i satelliti regionali della repubblica sciita.

 Contatti e condivisioni strategiche
  Intervistato dalla radio dell'esercito, alla domanda perché questi contatti finora erano stati tenuti segreti, Steinitz ha ricordato che formalmente i due paesi non hanno relazioni diplomatiche (c'è enorme distanza culturale tra il paese che conserva i luoghi sacri islamici e lo stato ebraico, formalmente sfociata nella questione palestinese) e ha aggiunto: "Abbiamo legami che sono in effetti parzialmente coperti con molti paesi musulmani e arabi, e di solito [noi siamo] la parte che non si vergogna. È l'altra parte che è interessata a mantenere i legami tranquilli. Con noi, di solito, non c'è alcun problema, ma rispettiamo il desiderio dell'altro lato", però ha sottolineato che "i legami si stanno sviluppando, sia con l'Arabia Saudita che con altri paesi arabi o altri paesi musulmani, e c'è molto di più, [ma] noi li teniamo segreti". O tenevamo, forse. La scorsa settimana il capo delle forze armate israeliane, il potentissimo generale Gadi Eisenkot, si è fatto intervistare da un sito d'informazione saudita (abbastanza) indipendente con base a Londra e ha proposto l'inizio di una condivisione di informazioni di intelligence tra Riad e Gerusalemme con l'obiettivo di contrastare l'espansionismo di Teheran, nemico esistenziale comune. Questo genere di dichiarazioni non escono da un sistema di governo come quello israeliano senza un coordinamento ai massimi vertici, e dunque le parole del generale sono spin politico internazionale.

 La benedizione sulla partnership
  Questa partnership diventa ancora più interessante se si pensa che il collante tra i due mondi finora (in realtà i contatti sono iniziati da anni) distanti è Washington. L'amministrazione Trump, anche per segnare un'altra discontinuità col predecessore, ha ristretto i rapporti con i due alleati storici nella regione, precedentemente raffreddati dalla spinta propulsiva che Barack Obama diede all'accordo sul nucleare iraniano (che la Casa Bianca, appunto, ha deciso di decertificare poche settimane fa). Ora i più alti funzionari della Casa Bianca, come Jared Kushner, hanno costruito rapporti personali con le autorità israeliane e soprattutto vanno e vengono dalle corti del Golfo, principalmente quelle di Riad e Abu Dhabi, dove regnano due capi di stato giovani con la volontà esplicita di schiacciare politicamente l'Iran. Una visione condivisa anche dall'amministrazione americana. Teheran è il fulcro del Medio Oriente post-Califfato in costruzione, perché ha accumulato crediti in Siria, difendendo il regime di Damasco durante la guerra civile, anche attraverso il suo più affilato elemento di politica estera, le milizie-partito sciite mobilitate da (e su) tutta la regione.

 Il contesto regionale
  Quelle che hanno conquistato un ruolo di primo piano a Damasco col beneplacito russo, hanno lo stesso imprinting politico-ideologico della altre che hanno già potere a Beirut e Baghdad; e non va dimenticato che gli iraniani giocano un ruolo nella rivolta in Yemen, proiettando la loro presenza/influenza in tutta l'area mediorientale. "Dal Golfo Persico al Mar Rosso e dal Libano all'Iran", Teheran sta "cercando di prendere il controllo della regione", con la costruzione di questa "mezzaluna sciita", aveva detto il generale Eisenkot: "Dobbiamo evitare che questo accada". Sempre la scorsa settimana, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha effettuato una visita improvvisa al nord, dove il paese confina con la Siria: quella è un'area fortemente critica, perché è lì che lo stato ebraico è entrato in contatto col conflitto siriano. "Non permetteremo che la Siria diventi una base per l'Iran e degli sciiti contro Israele", ha detto Lieberman, e sono parole come queste che aprono lo scenario strategico. Gerusalemme non vuole la presenza di una minaccia esistenziale appicciata ai propri confini, sia in Siria che in Libano. Domenica il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, ha parlato apertamente di una riunione di emergenza guidata dai sauditi e tenutasi al Cairo per estrapolare i punti chiave di questo contrasto all'Iran. I sauditi si stanno facendo da portavoce per costruire all'interno della Lega una posizione unitaria contro Teheran e far combaciare il tutto con le posizioni israeliane.

(formiche.net, 20 novembre 2017)


Israele: 40 anni fa la visita di Sadat cambiò la regione

Retroscena, il viaggio fu preceduto da scenari allarmanti

di Aldo Baquis

 
Menachem Begin accoglie Anwar Sadat, novembre 1977
TEL AVIV - Quaranta anni fa il Medio Oriente voltò pagina quando Anwar Sadat atterrò all'aeroporto di Tel Aviv dove era atteso dal premier Menachem Begin e da Golda Meir. Israele si stava ancora riprendendo dalla traumatica guerra del Kippur (1973) ed ora, per la prima volta dalla fondazione, lo Stato ebraico stava per accogliere il presidente dell'Egitto, Paese guida nel mondo arabo.
Quando i motori del velivolo tacquero, il 19 novembre del 1977, gli occhi si puntarono sul portellone, che però per lunghi istanti rimase vuoto. ''La tensione era al massimo'', ha ricordato Yona Klimowitzky, la segretaria personale di Begin.
''C'era infatti chi temeva che dall'aereo potesse spuntare Yasser Arafat'', il leader dell'Olp. I cecchini erano appostati sul tetto dell'aeroporto Ben Gurion. Altri scenari di emergenza, ha rivelato oggi la radio militare, paventavano un nuovo 'Cavallo di Troia'. Ossia che dall'aereo egiziano balzasse a sorpresa un commando determinato a massacrare i leader di Israele schierati lungo il tappeto rosso.
Nel Sinai, in quelle ore, l'esercito israeliano era in massima allerta. In mattinata lungo il canale di Suez erano stati notati spostamenti di truppe come quattro anni prima, alla vigilia del blitz militare siro-egiziano che innescò la guerra del Kippur. Infine Sadat usci', sorridente, e subito scatenò l'entusiasmo degli israeliani.
''Noi comunque eravamo persuasi che da parte sua non ci fosse alcun inganno'', ha commentato oggi Arie Naor, allora segretario del governo israeliano. ''Nei mesi precedenti, Begin si era rivolto nel massimo segreto ai dirigenti di Stati Uniti, Romania, Iran e Marocco per garantire il successo della visita''. E nel 1978, a Camp David, Israele ed Egitto raggiunsero intese di pace. Begin fu costretto a smantellare nel Sinai la citta' di Yamit ed una ventina di colonie ebraiche.
''Per quella rinuncia avrebbe sofferto per il resto della vita - ha detto oggi Klimowitzki. - Ma comprendeva che la pace richiedeva un prezzo''. Sadat pagò un prezzo maggiore ancora nel 1981 quando, nell'anniversario della guerra del Kippur, fu assassinato da un terrorista islamico.
Quello di Sadat, ha osservato il premier Benyamin Netanyahu - ''fu un passo coraggioso e da allora, con alti e bassi, il trattato di pace ha tenuto''. ''Oggi - ha proseguito - Egitto ed Israele, cosi' come altri Paesi, sono fianco a fianco nella stessa barricata in una lotta ostinata all'Islam radicale''. Ieri alla Knesset si e' tenuta una commemorazione ufficiale.
L'Egitto era rappresentato dall'ambasciatore Hazem Khairat.
Secondo i media locali, tutti i tentativi di ospitare a Gerusalemme esponenti politici egiziani di rango non hanno avuto successo.

(ANSAmed, 20 novembre 2017)


Quegli ospedali israeliani che curano i siriani

ROMA - Ogni giorno, in Israele, civili siriani - uomini, donne e bambini - varcano i confini di un'antica inimicizia per trovare assistenza e cura negli ospedali israeliani. Poi vengono riaccompagnati segretamente oltre il confine, spesso forniti di protesi e presidi necessari per la riabilitazione.
Il tutto svolto nella più assoluta riservatezza agli occhi dei media internazionali.
L'Associazione Medica Ebraica, in collaborazione con l'Ambasciata di Israele in Italia, ha organizzato una serata per parlarne con i testimoni diretti.
A partire dal 2013, queste pratiche di sicurezza e sanità israeliane sono entrate a far parte anche della realtà italiana. Grazie al progetto "Abruzzo 2020 Sanità Sicura", la Regione Abruzzo ha dato il via alla creazione di un Centro di Addestramento e Formazione Permanente per l'intervento nelle grandi emergenze in collaborazione con il National Center for Trauma & Emergency Medicine Research del Gertner Institute for Health Policy.
Alla serata interverranno:
  • Min. Pl. Ofra Farhi Vice Capo Missione Ambasciata di Israele
  • Min.Cons. Rafi Erdreich Addetto agli Affari Pubblici Ambasciata di Israele
  • Dott. Gabriele Rossi Direttore Abruzzo 2020 Sanità Sicura Cooperazione Sociosanitaria Italia Israele
  • Prof. Franco Marinangeli Direttore Corso Emergenze Medico Chirurgiche Facoltà di Medicina e Chirurgia Università dell'Aquila
Circolo Montecitorio
Via dei Campi Sportivi 5, Roma
20 novembre 2017, ore 20

(AllEvents.in, 20 novembre 2017)


Marxista tendenza Groucho

L'uomo che sapeva troppo come divertire l'umanità. Del suo "rivale" Charlie Chaplin diceva: "È un tipo molto strano, per certi versi non ha nemmeno un barlume di senso dell'umorismo". Tornano in libreria l'autobiografia e le lettere, cariche di irresistibili menzogne, di un genio della comicità.

di Pietro Citati

Non saprei precisamente quando sia nato il cosiddetto umorismo ebraico, che ormai, almeno negli Stati Uniti, è la forma principale di comico. Bisogna attendere sedici o diciassette secoli dopo l'inizio dell'era cristiana: i tempi di Lurija e soprattutto quelli del chassidisrno, tra le plebi orientali sul punto di partire per gli Stati Uniti. Lì nacque, almeno in parte, il riso disperato e sottilissimo di Kafka. Gli ebrei ridevano e insieme piangevano: ridevano e piangevano perché le "Sefìrot", le emanazioni divine, erano sparse nel nostro mondo, in mezzo a noi, sotto i nostri occhi, vittime e prigioniere, ed essi potevano liberarle, lavorando amorosamente e precisamente la pietra od il cuoio, o qualsiasi oggetto. Oggi l'editore Adelphi ripubblica due bellissimi libri: Groucho ed io (traduzione di Franco Salvatorelli, pagine 316, euro 12) e Le lettere di Groucho Marx (traduzione di Davide Tortorella, pagine 376, euro 20): Groucho è il terzo dei cinque fratelli Marx, vissuto tra il 1890 e il 1977 negli Stati Uniti. Sono due libri deliziosi, follemente divertenti, che invito a leggere tuffandosi ora nella realtà più minuziosa ora nell'assurdo più inverosimile - le due strade che l'immaginazione ebraica ha sempre percorso. Sono impareggiabili giochi di teatro, scritti per venire recitati davanti al complice pubblico ebraico di New York: percepiamo quasi il suono di ogni battuta, il movimento di ogni gesto, e le risa che salgono irresistibili dalla platea.
  Con infinito piacere, Groucho Marx racconta. Racconta i tempi del proibizionismo e la crisi del 1929: a tratti, sembra di leggere Fitzgerald. Un giorno il suo consulente finanziario gli disse: «Groucho, la festa è finita». I suoi amici si gettavano dai grattacieli: i gangster impazzavano per le strade; e lui fu travolto dall'insonnia. I Marx erano una famiglia povera, venuta dalla Germania yiddish: la madre «da un Paese di circa trecento anime, comprese quattro vacche, che c'erano arrivate per sbaglio». A Brooklyn Groucho si trovò amorosamente e ferocemente avvolto dalla famiglia: nessuna famiglia è più avvolgente ed amorosa di una famiglia ebraica. Aveva uno zio pieno di debiti: ottantaquattro dollari soltanto con suo padre: possedeva una palla di biliardo numero nove (rubata), una scatola di pasticche per il fegato e uno sparato di celluloide; viveva a sbafo, e fece di Groucho il suo unico erede. Un altro zio era pedicure: dopo essersi invitato a pranzo, asportava con garbo i calli accumulati dal padre di Groucho battendo i marciapiedi in cerca di lavoro: il suo onorario era modesto; venticinque cents per entrambi i piedi. Un terzo zio, che ebbe uno straordinario successo, stirava pantaloni in una ditta di Manhattan.
  Come si conviene a un ebreo di Brooklyn, il padre faceva il sarto: o meglio immaginava di fare il sarto: non prendeva mai le misure a nessun cliente: gli bastava guardarlo; e i risultati delle sue previsioni erano più o meno esatti come le previsioni di Chamberlain sul conto di Hitler. Era facile riconoscere i suoi clienti: andavano in giro con un calzone più corto dell'altro, una manica più larga dell'altra, e il bavero della giacca incerto su dove posarsi. Non aveva mai due volte lo stesso cliente: doveva andare di continuo a caccia di clienti nuovi - sempre più lontano, a Hoboken, Pasaic, Nyact e altrove, finché molte settimane la spesa del tram superava il guadagno, e i suoi calli erano duri come pietre. Con la promessa di un gelato alla crema, Groucho era incaricato di consegnare il vestito, la domenica mattina, in tempo per la Pasqua, sulla Prima Avenue. Il reddito del padre oscillava tra diciotto dollari alla settimana e niente: Groucho non sapeva bene se se ne affliggeva; ma se si affliggeva non lo dava mai a vedere. Era un uomo felice: pieno della joie de vivre della sua Alsazia nativa. Amava ridere. Spesso rideva per una barzelletta che non capiva, e dopo che gliel'avevano spiegata rideva di nuovo fragorosamente. Sempre in attesa di miracolosi colpi di scena, un giorno, sfogliando la Bussola del sarto, vide l'annuncio di un nuovo tipo di macchina per stirare i calzoni. La comprò: era velocissima: stirava un paio di calzoni in quindici secondi, ed era pronta ad accogliere valanghe di calzoni. Soltanto che il padre non aveva clienti.
  Questa parte dei due libri è bellissima, per verità, saggezza e divertimento. I libri vanno a zig zag, avanti e indietro, indietro e avanti, perché Groucho non ha la più pallida idea, come Sterne, che un libro debba portare a una fine e a una conclusione. Quello che gli importa è raccontare menzogne: menzogne e menzogne; una più grande dell'altra; perché non c'è nessuna differenza tra verità e menzogna o tra i suoi libri e quelli copiati dagli altri. Scriveva rapidamente: molto rapidamente, come i gesti e le frasi dei film di Chaplin, che adorava, e al quale credeva di assomigliare. Fu felicissimo il giorno in cui Chaplin, vincendo la propria abituale avarizia, lo invitò a pranzo: gli disse di non essere ebreo, sebbene gli sarebbe molto piaciuto esserlo. Era scozzese, inglese, gitano: non lo sapeva nemmeno lui; odiava gli inglesi ma sperava che vincessero la guerra. «È un tipo molto strano - disse Groucho - per un certo verso non ha nemmeno un barlume di senso dell'umorismo». Alla fine del pranzo avvenne qualcosa di sbalorditivo: Chaplin afferrò il conto (ammontava a trenta dollari), e lo pagò di tasca sua.
  Sempre velocissimamente Groucho Marx parla di tutto. I libri che ha letto: Piccolo campo di Caldwell, Piccole donne di Louisa May Alcott, Ben Hur, Via col vento: Rembrandt, Beethoven e Van Gogh. Conosceva perfino Finnegans Wake: non era meno lontano dalla vita di quanto lo fosse Joyce. T. S. Eliot gli scrisse per mandargli un ritratto, «che faceva la sua debita figura accanto a quelli di altri amici - W. B. Yeats e Paul Valéry»: naturalmente la lettera di Eliot era falsa. «Quando ti chiamo Tom, vuol dire che sei un misto di peso medio-massimo, un gattaccio randagio e il terzo presidente degli Stati Uniti». «Eliot ed io abbiamo tre cose in comune: 1) la passione per i buoni sigari. 2) I gatti. 3) Un debole per le freddure - un debole che io cerco di vincere da molti anni, mentre Eliot è uno spudorato, un orgoglioso freddurista».
  Non smetterei mai di citare Groucho Marx, con lo stesso piacere con cui ricordo le battute delle commedie di Shakespeare. Il varietà della sua giovinezza gli piaceva moltissimo: era molto più assurdo e svitato di quello moderno. Adorava far ridere: «a paragone dell'impresa di far ridere, le parti drammatiche del teatro sono come una vacanza di due settimane in campagna». Una volta la posizione dell'attore nella società era una via di mezzo tra una zingara chiromante e un borsaiolo. Poi il varietà scomparve, ucciso prima dal cinema, poi dalla televisione: mentre lui avrebbe voluto tornare ad immergersi nella meravigliosa e rarefatta atmosfera dell'antica Broadway.
  Allora, in vetta a tutto, c'erano i fratelli Marx: Chico, Harpo, Groucho, Gummo e Zeppo. Groucho faceva gite ciclistiche al supermercato: appariva due volte alla settimana in televisione: scriveva lettere e, chissà perché, si faceva grattare i piedi. Gli altri lo descrivevano come uno sbragato pagliaccio, pronto a qualsiasi bassezza pur di strappare una risata. «In verità - diceva Groucho - io sono uno studente invecchiato, che ambisce alla conoscenza e alla solitudine, e conduco una vita esemplare e solitaria in un'atmosfera libresca e coltissima».
  Della sua vita Groucho ricorda specialmente un evento. Un giorno, a Chicago, camminava per la State Street quando una coppia di mezza età gli venne incontro e si mise a girargli intorno. Fecero due o tre giri, guardandolo come se fosse una cometa venuta dallo spazio. Poi la donna gli si avvicinò titubante e chiese: «È lei, vero? È Groucho?». Egli annuì. Allora gli toccò timidamente un braccio e disse: «Per favore, non muoia, continui a vivere». Nelle ultime righe del libro, Groucho commenta: «si può desiderare di più?», Certo, non si può desiderare di più.

(la Repubblica, 20 novembre 2017)


Re saudita abdicherà a giorni? Conseguenze economiche dirompenti

Mohammed bin Salman diverrebbe sovrano saudita a giorni. L'impatto sull'economia mondiale si farebbe sentire subito.

di Giuseppe Timpone

 
Mohammed bin Salman
Il Daily Mail ha riportato sabato scorso una notizia a dir poco sensazionale: Re Salman dell'Arabia Saudita abdicherà questa settimana in favore del figlio Mohammed bin Salman (MBS), già suo vicario e di fatto uomo più potente del regno a soli 32 anni. L'attuale sovrano manterrebbe solamente il titolo di "Custode delle Moschee Sacre". A riferirlo alla stampa britannica è stata una fonte vicina alla famiglia reale, anche se non esistono commenti ufficiali sul tema, se non la smentita da parte di altre fonti vicine al sovrano. Se la notizia fosse vera, saremmo a un passo da uno stravolgimento geopolitico nel Medio Oriente, le cui conseguenze sull'economia mondiale si farebbero sentire sin da subito.
  MBS ha iniziato la caccia contro decine tra ministri, alti funzionari, principi e sceicchi con l'accusa di corruzione. Tra questi è finito agli arresti il magnate Alwaleed bin Talal, accreditato di un patrimonio tra i 18 e i 32 miliardi di dollari, nonché membro della stessa famiglia reale, essendo nipote di Re Ibn Saud, fondatore del regno. L'ondata di arresti punta certamente a reprimere ogni forma di dissenso e di minaccia all'ascesa al trono di MBS, ma avrebbe cause anche molto economiche.
  Il giovane principe punta a sganciare l'Arabia Saudita dall'eccessiva dipendenza del petrolio con la sua "Saudi Vision 2030". Le riforme già parzialmente varate si pongono, in effetti, l'obiettivo di accrescere le entrate fiscali non petrolifere, che quest'anno stanno già registrando un boom dell'80%. E dall'anno prossimo sarà introdotta l'IVA del 5%, mentre vengono già tassati alcoolici e tabacchi. Per diversificare l'economia, MBS sta anche accelerando sulla concessione di maggiori diritti alle donne, come quello di guidare dal giugno dell'anno prossimo. In questo modo, spera di aumentare l'occupazione femminile dal 22% attuale, potenziando il settore privato non petrolifero.

 Lo scenario bellico
  La necessità di sganciarsi gradualmente dal petrolio si è palesata con il crollo delle quotazioni a partire dal 2014. In quell'anno, l'89% delle entrate fiscali era generato dal greggio, percentuale già scesa intorno ai due terzi. MBS ha anche assecondato la strategia di sostenere la risalita delle quotazioni con un accordo interno all'OPEC e con la Russia per tagliare la produzione, anche con il fine di massimizzare il valore di Aramco, la compagnia petrolifera statale, che entro la fine dell'anno prossimo sarà quotata in 2-3 borse mondiali, Riad inclusa, per il 5%.
  Quale impatto avrebbe sugli equilibri geopolitici ed economici l'ascesa al trono di MBS? Il giovane è acerrimo nemico dell'Iran e ha già avallato una "proxy war" nello Yemen, combattendo i ribelli Houthi, sostenuti da Teheran. Gli analisti temono che diventando sovrano forse a giorni, una guerra diretta tra i due storici nemici nel mondo mussulmano diverrebbe inevitabile. In più, Riad punterebbe a un'alleanza con Israele per eliminare i terroristi di Hezbollah dal Libano, promettendo a Tel Aviv "miliardi di finanziamenti diretti". A tale proposito, si pensi a quanto stia accadendo da giorni sulla vicenda che riguarda l'ex premier libanese Hariri.
  Ora, l'ascesa al trono di MBS avrebbe quale impatto immediato un aumento delle quotazioni di greggio e oro, in quanto il mercato sconterebbe con ogni probabilità un surriscaldamento delle già elevate tensioni geopolitiche nell'area. Si consideri che tra Iran e Arabia Saudita ballano oltre 13,5 milioni di barili al giorno di produzione e che dallo stretto yemenita di Bab el Mandeb transitano quotidianamente 3,8 milioni di barili. Un confronto bellico che impedisse le estrazioni anche solo in alcuni pozzi dei due paesi o che rendesse impraticabile il suddetto stretto provocherebbe uno shock dell'offerta, con relativa impennata delle quotazioni e con ripercussioni anche sull'oro. Infatti, un barile più caro implica in sé aspettative più elevate di inflazione tra le economie importatrici e aldilà di ciò, le stesse tensioni geopolitiche spingerebbero parte del mercato a rifugiarsi nei beni-rifugio, tra cui il metallo.

 Lo scenario di medio termine
  Nel medio termine, tuttavia, resta ambiguo l'impatto del nuovo possibile sovrano saudita sui mercati? Il principe è fautore proprio della linea riformatrice e studia il modo di guidare Riad verso un futuro senza petrolio o senza che esso sia vitale per l'economia nazionale. Per questo, intende mettere in campo investimenti per 100 miliardi a sostegno delle infrastrutture e ha presentato di recente il suo progetto "Neom", dal nome della città futuristica da 500 miliardi, che vorrebbe creare al confine con Egitto e Giordania per attirare capitali stranieri, garantendole uno status autonomo.
  In sostanza, Re MBS sarebbe interessato a sostenere le quotazioni del petrolio per qualche altro anno, il tempo di risanare il bilancio statale e di varare l'IPO di Aramco, la più grande di sempre. In un secondo momento, però, la diversificazione dell'economia saudita gli consentirebbe di gestire il settore petrolifero con margini di manovra ben maggiori, anche se la transizione all'era post-petrolifera non sarà facile, come dimostrano i dati di questi mesi: deficit in calo e potenzialmente in linea con il target inferiore ai 200 miliardi di rial per l'intero anno, ma pil in contrazione nel secondo trimestre, a causa della sfilza di tasse e dei tagli ai sussidi per la popolazione.
  Con MBS ufficialmente a capo del regno, le purghe di queste settimane potrebbero cessare, anche se centinaia o migliaia di conti bancari e patrimoni sarebbero intaccati, in conseguenza del baratto in corso tra arrestati e funzionari del regno, basato sullo scambio tra libertà e 70% degli assets in loro possesso. Anche questa appare una misura estrema per fare cassa e far guadagnare allo stato tempo prezioso per gestire la transizione economica.

(Investire Oggi, 20 novembre 2017)


Trump pensa al riconoscimento della Palestina

Sarà uno Stato indipendente accanto ad Israele ma non necessariamente lungo i confini del 1967

Il piano di pace attribuito all'amministrazione di Donald Trump sarà basato sul riconoscimento Usa di uno Stato palestinese indipendente accanto ad Israele ma non necessariamente lungo i confini del 1967.
Questo, secondo la tv israeliana "Israel news", uno dei punti basilari del piano in via di definizione a Washington anche se fonti Usa - riferite dai media - hanno già smentito le indiscrezioni. In base al piano, Trump intenderebbe proporre ai palestinesi di dichiarare la propria indipendenza e subito scatterebbe il riconoscimento Usa del nuovo stato al quale andrebbero robusti finanziamenti nell'ordine centinaia di milioni di dollari da parte degli stati arabi sunniti.
Gli Usa - secondo le indiscrezioni - accetterebbero il principio dello scambio di terre ma non necessariamente in base ai confini del 1967 e senza che nessun palestinese o ebreo debba lasciare le attuali abitazioni. Il piano fornirebbe a Israele le massime garanzie per la propria sicurezza e per ora sarebbe congelato il trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.

(tio.ch, 19 novembre 2017)


Nick Cave: «Sono qui in Israele per ribellarmi a chi cerca di censurare gli artisti»

Nick Cave - "Let it be"
TEL AVIV - Tra la sera di oggi, domenica 19 novembre, e quella di domani, Nick Cave terrà due concerti alla Menorah Mivtachim Arena di Tel Aviv, in Israele: la scelta del cantautore australiano di esibirsi nel paese mediorientale era stata contestata da artisti come Roger Waters e Thurston Moore, che - contestando la politica adottata dal governo presieduto da Benjamin Netanyahu nei confronti della questione palestinese - aveva invitato il leader dei Bad Seeds a cancellare i due appuntamenti con il pubblico israeliano.
Qualche ora prima di salire sul palco per il primo dei due concerti, Cave ha tenuto una conferenza stampa dove ha spiegato le ragioni della sua decisione: "Non vengo in Israele da vent'anni: sento un forte legame con questo paese, che non riesco a esprimere a parole". L'artista ha giustificato la sua prolungata assenza con l'insuccesso, sul mercato locale, del suo album del 1997 "The Boatman's Call", ma non solo: "Andare in tour è logorante, e - come se non bastasse - alla fine devi anche fare fronte alla pubblica umiliazione da parte di artisti come Roger Waters e compagnia".
"A nessuno piace venire umiliato pubblicamente. Credo, e me ne assumo la colpa, di non essere venuto in Israele per vent'anni per questa ragione", ha proseguito Cave, spiegando come a fargli cambiare idea in proposito sia stato il tentativo - da parte di Brian Eno - di coinvolgerlo nella campagna "Artisti per la Palestina": "C'era qualcosa che mi puzzava, in quell'iniziativa. Così ho deciso di non aderirvi, senza però suonare in Israele. E questa mia scelta credo sia stata molto codarda".
"Ci ho pensato molto. Poi ho chiamato il mio staff e gli ho detto: 'Andremo in tour in Europa e in Israele'. Perché, improvvisamente, ai miei occhi è diventato molto importante prendere posizione contro chi cerca di censurare, di usare prepotenza e ridurre al silenzio gli artisti. Alle fine, le ragioni per le quali sono qui sono due: la prima è che amo Israele e la sua gente, la seconda è che voglio prendere una chiara posizione contro chi vuole censurare e ridurre al silenzio i musicisti. Per certi versi si può dire che sì, sia stato il BDS a farmi suonare in Israele".

(Fonte: rockroll, 19 novembre 2017)


Negato il perdono ad Azaria, Rivlin nella bufera

Il presidente è stato attaccato dalla frangia nazionalista del governo

Il presidente israeliano Reuven Rivlin si è trovato al centro di una bufera politica dopo aver annunciato oggi di aver rifiutato il perdono a Elor Azaria.
Il caporale è stato condannato in prima istanza da un tribunale militare a 18 mesi di carcere per aver ucciso un assalitore palestinese già ferito mentre era impotente a terra.
Alcuni mesi fa il capo di Stato maggiore gen. Gady Eizenkot ha ridotto la pena a 14 mesi, ma il ministro della difesa Avigdor Lieberman si è dissociato sostenendo che il soldato meritava il perdono presidenziale e la liberazione immediata dal carcere militare dove È recluso.
Rivlin (Likud) ha invece concordato con il gen. Eisenkot: ha sostenuto che un ulteriore gesto di clemenza potrebbe essere malinteso ed avere in definitiva effetti nocivi sullo spirito dei soldati di Israele.
La decisione di Rivlin ha sollevato immediatamente le reazioni negative di alcuni ministri nazionalisti. Lieberman ha ribadito che Azaria, in quanto «soldato eccellente impegnato a colpire un terrorista giunto per uccidere» meritava la libertà.
Il ministro dell'istruzione Naftali Bennett ha pure criticato Rivlin e ha telefonato alla famiglia Azaria per confortarla. La ministra della cultura Miri Reghev ha accusato il Capo dello Stato di aver «abbandonato il soldato sul terreno» e di aver «perso l'occasione della sua vita» per fare buon uso del perdono presidenziale.
Sul web intanto, specialmente in siti di estrema destra, si moltiplicano gli insulti verso Rivlin. Alcuni analisti avvertono che «stanno raggiungendo un livello di guardia».

(tio.ch, 19 novembre 2017)


Perché Washington vuole chiudere la sede consolare dell'Anp?

L'avvertimento di Trump ad Abu Mazen

di Paolo Mastrolilli

L'amministrazione Trump vuole chiudere la missione consolare dell'Autorità palestinese a Washington, se non si impegnerà nei negoziati di pace con Israele. Una minaccia a cui il ministro degli Esteri dell'Autorità, Riyad Malki, ha risposto accusando il segretario di Stato Tillerson di ricatto, mentre il leader Abu Mazen ha detto di non essere disposto a cedere. E in serata Saeb Erekat, fedelissimo di Abu Mazen, ha minacciato di congelare i contatti con gli Usa. L'Autorità non ha una vera ambasciata a Washington, ma una missione consolare che serve a gestire passaporti, visti e altre pratiche dei palestinesi che vivono negli Usa. Il suo permesso di operare deve essere rinnovato ogni sei mesi, e stavolta Tillerson ha deciso di non farlo. La ragione sta in un cavillo di legge che impone la chiusura del consolato, se l'Autorità chiede alla Corte penale internazionale di processare cittadini israeliani per reati contro i palestinesi. Abu Mazen avrebbe violato questa regola durante il suo intervento all'Assemblea generale dell'Onu. In quella occasione aveva chiesto alla Corte di «aprire un'inchiesta e processare i funzionari israeliani per il loro coinvolgimento nella attività relative agli insediamenti e le aggressioni contro il nostro popolo». Per Tillerson queste parole costituiscono una violazione della legge, e ora Trump ha 90 giorni di tempo per decidere se chiudere il consolato. Una maniera per evitare il provvedimento sarebbe la ripresa dei negoziati di pace con Israele, sulla base delle linee generali a cui hanno lavorato negli ultimi tempi il genero del presidente, Jared Kushner, e l'inviato speciale Jason Greenblatt. Se i palestinesi avvieranno «trattative dirette e concrete con Israele», l'ufficio americano potrà restare aperto. Malki ha parlato di «ricatto», aggiungendo che non ha intenzione di piegarsi. Nabil Abu Rudeineh, portavoce di Abu Mazen, ha aggiunto che si tratta di «una minaccia pericolosa che fa perdere agli Usa lo status di mediatore. Dà un colpo agli sforzi per promuovere la pace, e un premio a Israele, che sta cercando di deragliare le iniziative Usa con gli insediamenti e opponendosi alla soluzione dei due stati. Noi non abbiamo ricevuto alcuna idea o documento dagli Usa riguardo i negoziati, nonostante i molti incontri avuti».

(La Stampa, 19 novembre 2017)


De Magistris sigla la pace con Israele

Il sindaco di Napoli promette il suo impegno per intitolare la strada ad Ascarelli

di Pietro Treccagnoli

Gaetano Azzariti
Il Comune ha provveduto a fare cambiare il nome alla strada del Borgo Orefici intitolata al giurista che fu il presidente della Commissione sulla Razza del regime fascista e che contribuì alla persecuzione degli ebrei italiani.
Giorgio Ascarelli
Il sindaco si è impegnato a far discutere rapidamente la petizione di Italia-Israele per far intitolare una strada cittadina all'imprenditore ebreo che negli anni Venti fu tra i promotori della fondazione del Calcio Napoli.

 
Ha provato ad aprire una nuova pagina e ha raccolto applausi convinti e prolungati, prima e dopo il suo intervento. Il sindaco Luigi de Magistris nella ricca giornata pubblica, è andato a salutare i partecipanti al 28mo Congresso nazionale della Federazione delle associazioni ltalia-Israele che ha aperto i lavori ieri mattina all'Hotel Renaissance (a pochi passi dal Municipio), alla presenza dell'ambasciatore Ofer Sachs, e che ancora oggi proseguirà con relazioni e dibattiti. De Magistris, al netto dei dieci minuti di stringata analisi ad ampio raggio sul Medio Oriente e sul Mediterraneo, è andato a porgere il ramoscello d'ulivo. In questi anni, alcune sue posizioni, accompagnate da scelte schierate, avevano creato malumori e polemiche fortemente divisive: la cittadinanza onoraria al presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, e la presenza nella lista del suo movimento, alle ultime elezioni comunali, di candidate sempre pronte ad aspre critiche verso lo Stato di Israele.
   De Magistris non ha fatto finta di niente, anzi ci ha tenuto a illustrare e chiarire. «A me non sfugge» ha detto «che alcune mie dichiarazioni e alcune mie posizioni (al di là delle strumentalizzazioni politiche e mediatiche) possano essere state equivocate e non siano state gradite. E non ho difficoltà a dire che sono disposto a compiere altri atti concreti, come invece in passato, al di là delle parole, non hanno fatto amministrazioni più vicine a voi che, a differenza di me, non hanno cancellato il nome della strada al Borgo Orefici intitolata a Gaetano Azzariti, giurista sì, ma anche presidente della Commissione sulla razza del regime fascista».
   Un atto concreto che il sindaco spera di poter ripetere presto. Da tempo l'associazione Italia-Israele e la Comunità ebraica di Napoli stanno raccogliendo firme per una petizione a favore dell'intitolazione di una strada a Giorgio Ascarelli, l'imprenditore ebreo che negli anni Venti fu il promotore principale della fondazione del Calcio Napoli. A lui era intitolato il primo stadio dove giocavano gli azzurri, e che fu distrutto durante la seconda guerra mondiale. Il suo nome continua a identificare il rione poi edificato nella zona in cui sorgeva lo stadio. Quando la petizione sarà pronta, De Magistris è impegnato a portarla immediatamente all'esame della Commissione toponomastica del Comune.
   Per il resto il leader arancione ha esposto diffusamente le proprie convinzioni abbastanza condivise, ma che non saranno di certo gradite a chi nella sua maggioranza vede come il fumo negli occhi la stessa esistenza dello Stato di Israele, quasi come se fosse un tema centrale nell'attività consiliare e che l'aula di via Verdi fosse una succursale della Farnesina. «Non dobbiamo rinunciare all'idea che un giorno possiamo festeggiare la coesistenza di due Stati, quello di Israele e quello della Palestina» ha dichiarato, nell'apprezzamento dei convegnisti, «uno accanto all'altro in sicurezza, con rispetto reciproco e in autonomia». Aggiungendo: «Non se ne possono occupare solo i governi, verso il cui operato non sono ottimista, ma soprattutto i popoli». Un altro importante passaggio, pure questo largamente condiviso, stavolta persino da chi potrà sentirsi in disaccordo con le parole mielate verso Israele, è stato quello sui rigurgiti antisemiti. «Non mancherà la mia solidarietà» ha sottolineato il primo cittadino «quando si proverà ancora a scrivere pagine di revisionismo o a riaprire stagioni che sono state cancellate per sempre, perché sta da tempo soffiando un vento di filo spinato, di muri, di rancore».
   Per il resto, de Magistris ha abbondato nell'abituale rivendicazione della costruzione di una città-rifugio «dove chiunque possa sentirsi a casa», perché Napoli è «una capitale che non alza mai bandiere pregiudiziali contro nessuno», perché prevale la convinzione che «le diversità siano una ricchezza», augurando che «il Mediterraneo sporco di sangue diventi mare di pace e di pescatori».
Il convegno napoletano, coordinato da Giuseppe Crimaldi, è poi proseguito con i lavori che hanno affrontato anche il Bds (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni), sigla di un movimento popolare che ha come obiettivo la discriminazione di Israele e la sua delegittimazione. Per questa mattina è prevista, tra le altre, la partecipazione del filosofo e politologo Biagio De Giovanni e di Ilan Brauner. La due-giorni si concluderà con una visita alla sinagoga e al quartiere ebraico, a cura di Daniele Coppin.

(Il Mattino, 19 novembre 2017)


Nick Cave conferma il tour in Israele: «Sono contrario al boicottaggio»

Nick Cave
«Suono in Israele perché sono contrario al boicottaggio». Dopo settimane di polemiche e appelli, alla fine il cantante australiano Nick Cave ha deciso di suonare nello stato ebraico. Cave ha spiegato le sue ragioni in una conferenza stampa, dove ha detto che si esibirà anche e soprattutto «a causa del Bds», il movimento che chiede il boicottaggio di Israele.
Nick Cave mancava da Israele da 20 anni e ha spiegato di aver compreso che «non avrebbe firmato» la petizione degli "Artisti per la Palestina" che lo invitava a non suonare nello stato ebraico. All'appello si erano uniti anche Roger Waters dei Pink Floyd e alcuni registi come Ken Loach e Mike Leigh, che avevano detto a Cave di non andare «finché rimarrà l'apartheid» e di «schierarsi con la libertà».
«Non voglio connettermi a questo - ha sottolineato Cave - e non mi piacciono le liste». «Questo - ha concluso - mi avrebbe fatto sentire un vigliacco e così ho programmato il tour. Per me era importante schierarmi contro questo zittire gli artisti. Amo gli Israele e gli israeliani ed era importante fare qualcosa di sostanza contro questo».

(Il Messaggero, 19 novembre 2017)


Ecco come re Mohammed cambierà l'Arabia

Salman, sul punto di abdicare, prenota il trono per il figlio che vuole investire sull'agricoltura e abbandonare il petrolio

di Carlo Panella

Mohammed bin Salman di 32 anni, si appresta a diventare il più giovane sovra - no del pianeta e a governare con pugno dispotico le immense ricchezze dell'Arabia Saudita. Voci concordanti da Ryad confermano infatti che re Salman si appresta ad abdicare a favore suo, che è suo figlio. Una svolta clamorosa perché è stata preparata da Mohammed bin Salman con feroce determinatezza, facendo saltare uno per uno tutti i bizantini equilibri che reggono da 60 anni la corte saudita.
   Nulla si comprende dell'irresistibile ascesa di questo spregiudicato principe trentenne se non si tiene presente un dato di fatto, con la morte di Re Abdullah e la salita al trono di re Salman, nel 2015, si è esaurita la possibilità di una successione «orizzontale», di fratello in fratello, al trono di Ryad. Il fondatore del regno, Abdulaziz al Saud, morto nel 1953, aveva costruito la solidità del suo regno nel talamo nuziale: una dopo l'altra, aveva sposato e poi ripudiato (ricoprendole d'oro) tutte le figlie di tutti i capi tribù della penisola arabica. Decine e decine i suoi figli e figlie, sì che una nutrita serie di eredi era in grado di passarsi il trono di fratello in fratello, meccanismo che ha funzionato per cinque volte (Saud, Feysal, Khalid, Abdullah e Salman).
   Ma questa dinamica, a causa della tarda età e delle morti dei figli del fondatore del regno, si è esaurita. Così il Consiglio della Corona, che stabilisce la successione attraverso regole imperscrutabili e non formalizzate, ha deciso nel momento in cui Salman è salito al trono nel 2015, di inaugurare una discendenza regale in «diagonale». Il suo successore è stato quindi indicato in Mohammed bin Najaf, figlio di Najaf, fratello di Salman ed erede predestinato, ma morto tre anni prima. Così si sarebbe evitato che uno dei figli del fondatore del regno eliminasse dalla successione al potere tutti i discendenti dei propri fratelli e imponesse la nascita di una dinastia, intronizzando il proprio figlio.
   Mohammed bin Salman ha fatto saltare questa logica e ha letteralmente conquistato con la forza prima la discendenza diretta e domani il trono con due «colpi di palazzo». Col primo, il 21 giugno scorso, approfittando del suo controllo sulle forze armate quale ministro della Difesa, ha arrestato e minacciato fisicamente il cugino Mohammed bin Najaf, erede designato al trono, obbligandolo a dimettersi. Divenuto primo in linea di successione, Mohammed, il 5 novembre scorso, ha effettuato la seconda mossa, decisiva: ha arrestato 11 principi sauditi, suoi cugini, e decine di ministri ed ex ministri. In più, altri due principi sono morti in circostanze violente ma misteriose.
   Due i suoi obiettivi: eliminare gli oppositori alla sua ascesa al trono (tra questi il multimiliardario Al Waleed, già socio di Berlusconi e Murdoch) e anche obbligarli con la forza, accusandoli di corruzione, a trasferire decine, centinaia di miliardi di dollari dalle loro tasche alle casse del regno, in crisi a causa della caduta del prezzo del greggio, con pesanti ricadute sul welfare, base del consenso popolare.
   Mohammed bin Salman ha così dimostrato di essere straordinariamente capace di muoversi nel ginepraio della immensa corte saudita (5.000 principi parassiti). Ma ha dimostrato una capacità ancora più importante: la scalata al potere gli può assicurare un grande consenso popolare, e non solo perché compiuta nel nome di una lotta alla corruzione. La sua strategia ha infatti due obbiettivi che affascinano i sudditi. Il primo è attuare il programma Saudi Vision 2030, cioè, investire ben 2.000 miliardi di dollari nell'industria e nell'agricoltura moderna, per fare sì che la produzione del petrolio diventi secondaria nell'economia del Paese (forse già dal 2020). Il secondo obbiettivo è contrastare con energia l'egemonia crescente dell'Iran sciita in Medio Oriente. Vedi la guerra in Yemen e un domani, forse, in Libano.
   Il suo problema è che questa strategia lo obbligherà a introdurre radicali riforme democratiche e partecipative, a passare dal feudalesimo alla democrazia. E qui può fallire.

(Libero, 19 novembre 2017)


I ceramisti in fuga da Hitler

Antonio Porcellino racconta l'epopea di Max e Flora Melamerson che portarono a Vietri la cultura delle avanguardie del Novecento, illudendosi di potersi salvare dall'antisemitismo.

di Susanna Nirenstein

Il partito nazista avanzava. Oltre trecentomila dei settecentomila ebrei tedeschi se ne andarono ai quattro angoli del globo. In Italia ne arrivarono cinquemila. Tra i primissimi - era il 1926 ma l'aria berlinese era già offuscata dalla propaganda antisemita - Max e Flora Melamerson, da poco sposati. Obiettivo, la costiera amalfitana, Vietri: in quel paradiso terrestre lontano dai rumori di ogni attualità avrebbero ridato spazio e vita agli ideali rivoluzionari di bellezza e creatività che avevano coltivato nella loro Berlino dell'espressionismo e del Bauhaus. E così fecero. La ceramica innovativa che presto inondò i migliori salotti internazionali nacque dalla loro passione.
   I due personaggi che Antonio Forcellino - architetto, storico dell'arte e grande esperto del Rinascimento, restauratore di alcuni dei più preziosi tesori del patrimonio italiano, come il Mosè di Michelangelo - da buon vietrese ha rintracciato negli archivi e nelle testimonianze e ha raccontato ne La ceramica sugli scogli sono straordinari, commoventi, tragici. La loro avventura inizia ad Amburgo. Max, nato nel 1881 da una famiglia religiosa in uno shtetl lituano, andato in Svizzera a studiare giurisprudenza, nel 1906 si trasferisce nella seconda città tedesca e conosce Flora Haag, dove Haag in quel momento e fino al nazismo vorrà dire grandi magazzini Wagner, ricca borghesia ebraica assimilata, patriottica. Flora, la più libertaria della famiglia, frequenta le avanguardie artistiche e studia disegno. Max e Flora si sposano nel 1910. Nel 1911 si trasferiscono a Berlino, ed è nella capitale al vertice della sua modernità che Melamerson si impegnerà insieme a Max Reinhardt nella costruzione di un teatro rivoluzionario per forme architettoniche e progetto drammaturgico, il Grosses Schauspielhaus. Flora segue un corso di ceramica. Conducono una vita frenetica, bruciante. Ma i tempi cambiano. L'antisemitismo avvelena tutto. Max fallisce. E la coppia decide di partire per una nuova pagina creativa.Nel Sud d'Italia, tra i profumi, in un paesaggio immobile da secoli, apparentemente senza questioni ebraiche di mezzo.
   Pare di leggere - ha ragione Forcellino - la stessa illusione di integrazione degli ebrei berlinesi raccontata da Israel Singer nella Famiglia Karnowski. Eccoli a Vietri, dove nel giro di tre mesi aprono la più grande fabbrica della Marina. Esaltano il talento degli artigiani locali sotto la guida di Flora e secondo l'insegnamento Bauhaus. Max crea uno smalto mielato per le nuove forme che avranno un successo straordinario, finiranno nei negozi di Milano e New York, sulle tavole di casa Savoia, sui pavimenti di Palazzo Venezia. Il sogno di una nuova vita sembra realizzato. Ma è un sogno, appunto. L'impreparazione con cui Max e Flora, mentre aiutano i parenti a fuggire dalla Germania nazista, accolgono le leggi razziali del '38 è totale. Increduli, si vedono espropriare l'azienda e aspettano anche il giorno in cui vengono a prelevarli per la deportazione nel campo di concentramento di Fossoli. Fortunatamente tornati a Vietri troveranno la fabbrica e la casa saccheggiati dai paesani.
   Un nipote continua ancora oggi a raccogliere in giro per la zona quel che resta dei Melamerson, fantastici piatti, vasi, dipinti, cocci di due vite così geniali, coraggiose e trascinate nel vortice nero della Storia. Se non fosse stato per Forcellino, sarebbero state dimenticate.

(Repubblica Robinson, 19 novembre 2017)



Chi cercate?

Dette queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Chedron, dov'era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Giuda, che lo tradiva, conosceva anche egli quel luogo, perché Gesù si era spesso riunito là con i suoi discepoli. Giuda dunque, presa la coorte e le guardie mandate dai capi dei sacerdoti e dai farisei, andò là con lanterne, torce e armi.
Ma Gesù, ben sapendo tutto quello che stava per accadergli, uscì e chiese loro: «Chi cercate?» Gli risposero: «Gesù il Nazareno!» Gesù disse loro: «Io sono». Giuda, che lo tradiva, era anch'egli là con loro. Appena Gesù ebbe detto loro: «Io sono», indietreggiarono e caddero in terra.
Egli dunque domandò loro di nuovo: «Chi cercate?» Essi dissero: «Gesù il Nazareno». Gesù rispose: «Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me, lasciate andare questi». E ciò affinché si adempisse la parola che egli aveva detta: «Di quelli che tu mi hai dati, non ne ho perduto nessuno».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la prese e colpì il servo del sommo sacerdote, recidendogli l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Ma Gesù disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero; non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?»

dal Vangelo di Giovanni, cap. 18


 


L'ambasciatore israeliano: non permetteremo alle forze iraniane di avvicinarsi al confine

NAPOLI - Israele non permetterà "alle forze iraniane in Siria di avvicinarsi al confine". E' quanto ha affermato l'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs, in occasione del Congresso nazionale dell'associazione Italia-Israele in corso oggi a Napoli. "L'Iran è più democratico sotto qualche aspetto rispetto ad altri paesi della regione, ma ha un regime fanatico che sta creando un corridoio diretto che collega Teheran e Beirut", ha spiegato l'ambasciatore israeliano. "Sicuramente - ha aggiunto - ho parlato di democrazia in maniera sarcastica. La situazione ora è semplice: Teheran vuole creare il corridoio sia per aumentare il controllo nella regione, sia per avere nuove opportunità economiche per far fronte alle sfide degli ultimi anni. L'Iran - ha spiegato Sachs - ha identificato subito questa opportunità nella Siria dove dopo anni di guerra civile si è aperta un'occasione per questi progetti, mentre gli Stati Uniti hanno deciso di ritirare la loro presenza nella regione creando un varco all'Iran e alla sua presenza. Abbiamo poi Hezbollah che è semplicemente un'emanazione dell'Iran. Un altro attore ha identificato l'opportunità nel vuoto che si è verificato, ed è la Russia, unica potenza internazionale presente in Siria".

(Agenzia Nova, 18 novembre 2017)


La 'sposa del Mossad' parla con Ofcs: "Vi racconto la mia storia"

Shalva Hessel, moglie di un agente segreto israeliano, si rivela in un libro autobiografico

di Maria Grazia Labellarte

Shalva Hessel
La vita di Shalva Hessel è un romanzo di spionaggio, esattamente ciò che ha scritto nel suo libro dal titolo "Married to the Mossad". Un resoconto, "leggermente velato", della sua stessa vita di moglie di un alto funzionario del Mossad, il servizio segreto estero israeliano, e dei suoi anni trascorsi con lui, sotto copertura, in un paese nemico. Il libro è una storia di coraggio, passione e intelligenza. Prima che fosse pubblicato è stato censurato per un decennio dalla comunità di intelligence israeliana. Finalmente uscito, però, ha ottenuto un enorme successo popolare, collocandosi nella lista dei "Best Sellers". Shalva Hessel è un ingegnere informatico, un'imprenditrice di successo, una leader coraggiosa e una Public Speaker internazionale

- Signora Hessel, vuole raccontarci come ha conosciuto suo marito?

  "All'epoca ero un ingegnere informatico. Mio marito, invece, stava frequentando un master a Londra. Durante una vacanza in Israele è venuto a trovare i suoi amici nel posto in cui lavoravo. Dopo quell'incontro, siamo usciti insieme per 3 giorni e una volta tornato a scuola in Inghilterra (io avevo quasi 19 anni), abbiamo iniziato a scriverci delle lettere e ho capito che lui era il mio uomo. Davvero bello, molto intelligente. Ho deciso di non lasciarmelo scappare, così sono andata a Londra e ho lasciato Israele per la prima volta nella mia vita. Una volta arrivata in Inghilterra, dopo una settimana che ero lì e ho visto tutte le donne corrergli dietro, gli ho chiesto di sposarmi subito altrimenti sarei tornata in Israele. Decise, quindi, di non lasciarmi andare via e di sposarmi".

- Quando ha capito che il suo matrimonio non sarebbe stato ordinario?
  "A quell'epoca eravamo a Londra e mi disse che lavorava part time per un' azienda che promuoveva Israele. Dopo aver vissuto con lui per alcune settimane, ha iniziato ad uscire a notte fonda o al mattino presto e nei fine settimana per vari incontri. Ho iniziato a sospettare che avesse un'altra donna e quindi non ha avuto altra scelta che dirmi dei legami con il Mossad. Nessuno credeva che il nostro matrimonio sarebbe durato. Non è facile essere sposati con un agente del Mossad, ma a suo tempo decisi di essere una "compagna a tempo pieno" nella sua vita e di prendere parte alle sue "avventure". Ero molto giovane allora, ma "Dio ha le sue vie". Ho iniziato a lavorare, ho trovato un buon lavoro come ingegnere informatico. Abbiamo iniziato a incontrare persone interessanti e vivere una doppia vita. Al mattino avevo una vita normale con i miei colleghi e quando non lavoravo appartenevo ad un altro mondo, una vita diversa con mio marito. Può leggere tutti i dettagli nel mio libro Married to the Mossad".

- Di recente ha scritto un articolo sul "NY Daily News" il cui titolo è molto interessante: "Perché le donne sono particolarmente adatte alla lotta contro il terrorismo". Cosa intende?
  "Credo profondamente che le donne siano indispensabili e senza di loro non possiamo vincere la lotta contro il terrorismo. Ad esempio, le donne possono accedere a zone che sono vietate agli uomini e pensano diversamente da loro. Dovrebbero prendere parte a tutti i livelli alle decisioni della comunità d' intelligence, come ad esempio accade nel Paese in cui sono nata e cresciuta, Israele. Qui le donne svolgono un ruolo importante di "decisori" nella comunità d' intelligence. Sappiamo tutti che al giorno d'oggi ci sono molte donne terroriste e per combattere quel mondo abbiamo bisogno di conoscerlo dall'interno. Innanzitutto, non hanno la mentalità dei paesi occidentali, è completamente diversa dalla nostra. Nel loro mondo, ad esempio, le mogli non godono di molta considerazione, ma le madri sono, invece, molto importanti. Sappiamo tutti che nessuna madre vuole che suo figlio sia un "attentatore suicida". Nella cultura del terrore, al contrario, una volta che un figlio compie un attentato facendosi esplodere viene considerato un eroe, quindi le donne musulmane istruite e intelligenti, che vivono nel mondo occidentale e che hanno una mentalità occidentale, dovrebbero cercare di influenzare le "sorelle" nei loro Paesi nel cambiare la mentalità, per difendere i loro diritti".

- Ha mai partecipato assieme a suo marito alle sue missioni segrete per il Mossad?
  "Nel mio libro Married to the Mossad, racconto di un'operazione che ho gestito io. In realtà, il libro è un thriller basato sulla mia vera storia. Vivere nel Mossad ti dà un profondo sentimento missionario, pieno di eccitazione e soddisfazione. Il Mossad non è un "posto di lavoro" ma un modo di vivere! Significa fare cose che hanno ripercussioni dirette sullo sviluppo e sulla sopravvivenza della nazione ebraica, in Israele e in tutto il mondo. Significa proteggere la sicurezza del mio Paese e proteggere la democrazia e la libertà nel mondo. Lavorare nel Mossad ha due facce: i benefici di avere nuovi e interessanti contatti, così come nuove e interessanti amicizie, viaggiare per il mondo e operare per il bene del mondo. Ma c'è un prezzo personale da pagare, rischi personali da correre,allontanarsi dalle persone che ami e correre continui pericoli. Gli agenti del Mossad devono essere persone con dei valori, devono saper lavorare con persone molto intelligenti e devono autodisciplinarsi, essere oneste, ordinate e avventurose".

- Per quale motivo ha scritto il suo libro "Married to the Mossad"?
  "Ho impiegato otto anni per scriverlo. Molti non volevano che lo pubblicassi: mio marito, il Mossad e altre persone coinvolte. Ho, comunque, deciso che era molto importante per me scrivere e dimostrare che "tutti possono compiere cose che sono più grandi di loro" e mostrare che una persona comune può compiere cose straordinarie che possono cambiare la vita degli altri. Mentre lo scrivevo, non potevo credere di aver vissuto quelle esperienze incredibili e situazioni pericolose. Non sono un James Bond o una Gal Gadot, la star del film "Wonder Woman", ma dopo aver scritto il mio libro, improvvisamente, ho pensato che forse sono portata per quel tipo di situazioni, perché sono coraggiosa, non ho paura, riesco ad improvvisare e trovare soluzioni sotto pressione".

- Signora Hessel, ha paura?
  "Ho ipotizzato diciotto regole che mi aiutano ad avere il controllo delle mie paure, tra le quali: scegliendo la fede sulla paura le persone crederanno in ciò che dirai, con una forte motivazione puoi ottenere qualsiasi cosa, nessuna missione è impossibile. Tutti hanno una missione nella vita e dovrebbero perseguirla, scegliere la vocazione e non un lavoro, solo quelli che osano possono avere successo, senza disciplina nulla di eccezionale è possibile. In Married to the Mossad, volevo dimostrare che se riesci a vivere al di sopra di te stesso (e non essere egoista ) e dei tuoi interessi personali, puoi ottenere qualsiasi cosa".

- Ha qualche rimpianto nella vita?
  "Niente affatto! Penso davvero di aver avuto e di avere ancora una vita piena, grazie ai miei contatti internazionali e ai miei legami con il Mossad. Insieme alla mia esperienza in paesi stranieri e il set di competenze che ho accumulato nel corso degli anni, ho costruito un unico gruppo di amici e contatti, in tutto il mondo. Al momento ho una società investigativa, credo una delle migliori al mondo nella soluzione dei casi sottoposti. Le persone mi contattano ogni giorno, anche se non lo pubblicizziamo. Mi piace risolvere molte dispute tra le aziende, tra le persone e rincorrere i "cattivi".

(Ofcsreport, 18 novembre 2017)


Riaperto il posto di frontiera di Rafah, fra Gaza e l'Egitto

Ha riaperto il valico di Rafah, fra l' Egitto e la Striscia di Gaza . La misura fa parte dell'accordo con Hamas che ha portato l' Autorità nazionale palestinese ad assumere il controllo amministrativo delle frontiere a partire dal primo novembre. Non succedeva dal 2007 e centinaia di persone si sono ammassate alla barriera.
Dice una donna: Chiedo a Dio di permettere che la frontiera rimanga aperta, così potrò farmi curare e poi tornare a casa dalla mia famiglia.
Negli ultimi mesi il ministero dell'interno palestinese ha registrato circa30mila richieste di uscita verso l'Egitto. Le autorità egiziane dovrebbero consentire l'accesso tre volte a settimana e sotto strette misure di sicurezza. Le fazioni palestinesi torneranno ad incontrarsi al Cairo il 21 novembre.

(euronews, 19 novembre 2017)


Italia-Israele: partnership in emergenza e disastri

A Cuneo incontro con il direttore regionale della maxi-emergenza e il presidente degli Amici del Maghem David Adom

di Vanna Pescatori

CUNEO - Martedì (21 novembre), alle 21, lo Spazio Incontri della Fondazione Crc, in via Roma 15 a Cuneo, ospiterà Mario Raviolo, direttore della maxi-emergenza «118» della Regione su invito dell'associazione Italia-Israele, che nell'ambito delle manifestazioni per i 25 anni della costituzione, ha programmato un calendario di iniziative, fra cui quella che si è tenuta l'8 novembre, davanti a un numeroso pubblico, nel Salone d'onore del municipio.
Il nuovo appuntamento affronterà il tema «Italia-Israele. Partnership in emergenza e disastri» (terrorismo compreso), attraverso la relazione di Raviolo la cui struttura intrattiene rapporti di stretta collaborazione con le omologhe strutture israeliane, leader negli interventi in caso di disastro. Alla serata interverrà Simi Sisa, presidente degli Amici del Maghem David Adom, la struttura israeliana di pronto soccorso che equivale alla Croce rossa. L'ingresso è libero.

(La Stampa, 18 novembre 2017)


L'aggressività di Teheran spezza i nervi dei sunniti. E Trump non ha un'idea

Oggi a Parigi il primo ministro dimissionario del Libano Saad Hariri incontrerà Macron.

di Fiamma Nirenstein

Macron ha estratto (intervenendo personalmente) Hariri da Riad, dove dal 3 novembre risiedeva in un esilio dichiarato volontario insieme alla famiglia. Ora afferma che dopo un giro per i Paesi arabi tornerà a Beirut a dimettersi di persona. Hariri, sunnita figlio di Rafik Hariri, anche lui primo ministro quando fu assassinato con un immane attentato probabilmente dagli Hezbollah, spiegò alla tv saudita che era stato deciso che era venuto il suo turno. E accusò direttamente l'Iran del caos sanguinoso e della sua tela di ragno sulla sovranità libanese. Erano parole preparate con i sauditi? Probabilmente, ma comunque erano vere.
   Subito la reazione del Libano, Paese piagato dallo scontro sciiti-sunniti, ha dimostrato che l'abbandono di Hariri poteva essere l'inizio di un caos contagioso, e il coro di richieste di tornare si è fatto assordante, insieme all'accusa di aver rapito il primo ministro. Certo le dimissioni portano il segno dell'attivismo diplomatico della famiglia regnante: dice che l'imperialismo iraniano di recente conio ha spezzato i nervi sunniti. Gli arabi non lo possono sopportare dai persiani, nemici storici. Hariri fonda, volente o meno, una svolta saudita pansunnita (nel Paese in cui per altro ha grandi business edilizi) e la Francia stessa ha qui dovuto interessarsi alla causa sunnita di Hariri e dei sauditi, pena il caos. Sempre il 3 novembre un missile balistico di fabbricazione iraniana è stato sparato contro l'aeroporto Re Khalid.
   C'è una vera guerra in corso, e l'Arabia Saudita compie passi decisi: un'altra mossa è l'intervista uscita su un giornale saudita (non israeliano, quindi fuori dall'abitudine di vantare buoni rapporti con gli arabi) a Gabi Eisenkot, capo di Stato maggiore dello Stato d'Israele. Eisenkot spiega di «essere pronti a condividere esperienze con l'Arabia Saudita e altri Paesi arabi moderati e informazioni di intelligence per fronteggiare l'Iran». E aggiunge che «sotto la presidenza Trump c'è la possibilità di formare una nuova alleanza nella regione... un piano strategico per fermare la minaccia iraniana».
   Insomma, la conclusione di questa fase della guerra siriana dei 6 anni, che lascia l'Iran con gli Hezbollah in posizione di forza senza precedenti, sul confine di Israele, con le gambe saldamente piantate in Siria, Libano, Iraq, Yemen... crea una situazione esplosiva per cui i Sauditi sentono di doversi dare un daffare senza precedenti. Sullo sfondo dell'intervista si intravede il piano di pace saudita, che Trump vorrebbe caldeggiare: l'atteggiamento benevolo di Eisenkot fa intuire che se ne parla. Ma martedì il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dichiarato che la presenza iraniana in Siria è legittima, aggiungendo che la Russia non ha mai promesso agli Usa che le forze iraniane o loro alleate lascino la Siria. Ciò che ha scosso i sauditi e anche Israele è che l'amministrazione americana non ha espresso nessun parere. L'impressione in casa saudita è quindi che quei tappeti rossi su cui Trump ha camminato nella sua visita in maggio siano stati consumati invano.

(il Giornale, 18 novembre 2017)


Gli Usa avvisano l’Olp che chiuderanno il loro ufficio

Il segretario di Stato Usa Rex Tillerson
L'amministrazione Trump ha avvisato i palestinesi che chiuderà il loro ufficio a Washington a meno che non avviino seri negoziati di pace con Israele. Lo riferisce l'Ap, citando dirigenti Usa.
Il segretario di Stato Usa Rex Tillerson ha stabilito che i palestinesi hanno violato una oscura previsione di una legge Usa secondo cui la missione dell'Olp deve essere chiusa se i palestinesi tentano di appellarsi alla Corte penale internazionale per perseguire gli israeliani per crimini contro i palestinesi.
Un dirigente del Dipartimento di Stato ha riferito che in settembre il presidente palestinese Abu Mazen ha varcato questo limite. Ma la legge consente una via di uscita al presidente, quindi la dichiarazione di Tillerson non significa necessariamente che l'ufficio chiuderà.
Ora Trump ha 90 giorni per valutare se i palestinesi sono "in negoziazioni dirette e significative con Israele". Una leva di pressione che potrebbe essere usata dal presidente Usa per riprendere il processo di pace, ma che potrebbe anche irritare i palestinesi.

(tvsvizzera.it, 18 novembre 2017)


Kuwait Airways: "No a israeliani". La Germania gli dà ragione

"Il verdetto rappresenta una vergogna per la democrazia", ha detto il legale del passeggero.

di Tonia Mastrobuoni

BERLINO - Gli israeliani non appartengono ad alcuna razza o religione o minoranza etnica e dunque la discriminazione nei loro confronti non esiste. Questa incredibile sentenza è stata espressa ieri da un tribunale tedesco, dopo che un cittadino israeliano, Adar M., aveva fatto ricorso contro la Kuwait Airways che si era rifiutata di imbarcarlo su un suo volo per Bangkok che faceva scalo in Kuwait.
La corte regionale di Francoforte ha dato ragione alla compagnia aerea perché non considera discriminante il fatto che un cittadino venga bandito da un aereo per il suo passaporto. Neanche se è israeliano. Neanche in Germania.
L'avvocato del passeggero, Nathan Gelbart, ha detto di essere «profondamente scioccato» di un verdetto che «rappresenta una vergogna per la democrazia e la Germania» e ha annunciato ricorso. Gelbart ha anche ricordato che ricorsi simili si sono sempre conclusi a favore dei passeggeri, negli Stati Uniti e in Svizzera.
Il Consiglio centrale degli ebrei tedeschi ha fatto appello al governo Merkel perché «esamini tutte le possibilità per evitare, per il futuro, casi di discriminazione del genere in Germania».
Il viceministro degli Esteri, Michael Roth, ha già fatto sapere che l'ambasciatore tedesco è stato investito del compito di chiedere spiegazione alle autorità kuwaitiane dell'accaduto. «Per me è incomprensibile - ha detto il politico socialdemocratico - che nella Germania di oggi un cittadino non possa salire su un aereo semplicemente in base alla sua nazionalità». E lo stesso ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, ha promesso di aumentare la pressione sul governo di Kuwait City.
Anche il sindaco di Francoforte è scandalizzato: Uwe Becker si è spinto sino a dire che «a una compagnia aerea che discrimina e si mostra antisemita rifiutandosi di imbarcare passeggeri israeliani non dovrebbe essere consentito di atterrare o partire da Francoforte», che è uno degli scali più grandi d'Europa.
Il caso era scoppiato perché Adar aveva prenotato un volo per la Thailandia che faceva scalo in Kuwait. In base a una legge del 1964 che vieta accordi con cittadini israeliani, la compagnia aerea ha cancellato il volo. Kuwait non ha mai riconosciuto Israele. Per il Consiglio degli ebrei «il boicottaggio kuwaitiano ricorda le peggiori fasi della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti». Ma la Corte di Francoforte non la pensa così, pensa che sia legittimo bandire le persone in base al loro passaporto, neanche quando il bando puzza di antisemitismo.

(la Repubblica, 18 novembre 2017)


*


I giudici tedeschi per il boicottaggio di Israele

Se sei israeliano non puoi volare con Kuwait Airways, dice la libera Germania.

Il boicottaggio di Israele sembra abbia appena acquistato un altro eccellente alleato: la Germania. Quantomeno i suoi giudici. Ieri una corte di Francoforte ha rigettato il ricorso di un cittadino israeliano al quale lo scorso anno, benché avesse un regolare biglietto, era stato impedito di salire su un volo della Kuwait Airways Francoforte-Bangkok. Il motivo? Una legge del 1964 del Kuwait, che impedisce alle aziende del paese di fare affari con i cittadini israeliani. E siccome, secondo i giudici tedeschi, un tribunale tedesco non può questionare su una legge di un paese altrui, allora la discriminazione subita dal libero cittadino israeliano in un paese dell'Unione europea è legittima. Ma non solo: il cittadino non è stato nemmeno compensato del costo del biglietto, perché la legge anti discriminazione tedesca, si legge su Haaretz, si applica soltanto sulla base di motivazioni di razza, di religione e di etnia, non di nazionalità. L'assurdità è che se un domani una compagnia aerea decidesse di non far salire sui propri aerei persone dalla pelle scura o di religione musulmana, la compagnia - giustamente - sarebbe sanzionata e probabilmente chiuderebbe dopo una manciata di minuti. Ma quando si tratta della discriminazione e del boicottaggio di un cittadino israeliano nessuno protesta. Nemmeno nella liberissima e apertissima Germania. A parte le motivazioni contestabili dei giudici tedeschi, c'è una riflessione da fare: quanto è forte, oggi, nel mondo del business, la legittimazione del boicottaggio di Israele? Di questo passo, fino a dove si può arrivare?

(Il Foglio, 18 novembre 2017)


Il Pitigliani Kolno'a Festival a Roma

ROMA - Commedie, drammi, documentari, panel con professionisti dell'animazione, del giornalismo documentario e della serialità televisiva, ospiti e anteprime italiane. Queste alcune delle varie anime del Pitigliani Kolno'a Festival - Ebraismo e Israele nel cinema, che, giunto alla dodicesima edizione, torna a Roma dal 18 al 23 novembre 2017. Consuete le location - Casa del Cinema e Centro Ebraico Italiano il Pitigliani - della kermesse a entrata gratuita fino a esaurimento posti e dedicata alla cinematografia israeliana e di argomento ebraico. Tra gli ospiti del festival, sarà presente Yonatan Peres figlio del Premio Nobel per la pace Shimon Peres, in rappresentanza del Centro Peres per la pace e l'innovazione.
  Con 20 anteprime italiane, prodotto dal Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani e diretto da Ariela Piattelli e Lirit Mash, il PKF2017 propone per la consueta sezione "Panorama sul nuovo cinema israeliano" opere che hanno riscosso successo sia in Israele che all'estero, e che rappresentano la varietà e il multiculturalismo che compone la società israeliana di oggi. Film di inaugurazione, Holy Air di Shadi Srour - ospite al festival con il produttore Ilan Moskovitch - presentato in anteprima italiana, una commedia che mostra un inedito spaccato delle diverse culture che convivono in Israele. Tra i partecipanti alla serata inaugurale - Bruno Sed Presidente de Il Pitigliani, Yonatan Peres rappresentante Fondazione Peres e figlio Premio Nobel Shimon Peres, Ofer Sachs Ambasciatore di Israele a Roma Nicola Zingaretti Presidente Regione Lazio, Noemi Di Segni Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane, Rav Riccardo Di Segni Capo Rabbino Comunità Ebraica Roma, Mons. Dario Edoardo Viganò Prefetto Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, Ariela Piattelli e Lirit Mash Direttrici del PKF.
  Tra i numerosi titoli in programma, per la prima volta sarà presentato al pubblico italiano The Legend of King Solomon, l'ultima opera del Maestro dell'animazione israeliana Hanan Kaminski - anche lui tra gli ospiti del festival - originale versione della storia di Re Salomone, che affronta i temi della convivenza tra culture diverse e del passaggio dalla giovinezza all'età adulta. Un film che ha impegnato 12 anni il regista israeliano che riceverà il Premio alla Carriera, per la prima volta assegnato dal festival. Quindi, Harmonia, di Ori Sivan, adattamento moderno della storia di Abramo, Sarah e la giovane Hagar. Nel film Sarah è arpista nella Filarmonica di Gerusalemme, Abramo è il suo "onnipotente" direttore e Hagar una giovane musicista di Gerusalemme Est. Altro film a stelle e strisce, The Pickle Recipe, di Michael Manasseri, commedia 'gastronomica' sul segreto dei cetriolini sottaceto di nonna Rose. Una ricetta alla cui caccia si mette Joey Miller, dj e re indiscusso delle feste a Detroit… Altra commedia, Longing, di Savi Gabizon, presentata alla recente Mostra del Cinema di Venezia, dove un uomo benestante e senza figli, riceve una telefonata da quella che vent'anni fa era la sua fidanzata, per un viaggio negli aspetti nascosti della paternità. An Israeli Love Story, di Dan Wolman, la vera storia d'amore tra Pnina Gary e Eli Ben-Zvi, figlio di Rachel Yanait e Yitzhak Ben-Zvi, il secondo presidente dello Stato d'Israele, si dipana invece sullo sfondo della fondazione dello Stato di Israele.
  Molto variegata la scelta dei documentari. Tra questi, l'avvincente On the Map di Dani Menkin, prodotto da Nancy Spielberg, che racconta una delle pagine più importanti della storia e dello sport israeliano, la partita di basket tra Maccabi Tel Aviv e la squadra dell'armata rossa CSKA Mosca nel Campionato Europeo di Pallacanestro del 1977, in piena Guerra Fredda. Due i documentari che raccontano gli ebrei d'Italia: Iom Romi, di Valerio Ciraci, prodotto dal Primo Levi Center di New York, che racconta uno spaccato della vita della Comunità ebraica di Roma e Shalom Italia, di Tamal Tan Anati, che racconta di tre fratelli ebrei israeliani, di origine italiana, in viaggio attraverso la Toscana, in cerca della caverna in cui da piccoli si erano nascosti per scappare ai nazisti.
  Quindi #uploading_holocaust, di Udi Nir e Sagi Bornstein racconta, attraverso le immagini realizzate con gli smartphone dai liceali israeliani in Polonia, il punto di vista della nuova generazione sulla Shoah e un'immagine commovente e inquietante del modo in cui la memoria collettiva si forma nell'era del web. E sempre Israele è protagonista di Ben Gurion, Epilogue, di Yariv Mozer. Il regista ha ritrovato una lunga e inedita intervista al padre dello Stato di Israele, per anni rimasta sepolta nell'Archivio Spielberg di Gerusalemme. Ormai fuori dalla scena politica, il grande statista guarda alla storia e agli eventi che lo hanno visto protagonista, tracciando la sua visione sul futuro di Israele.
  La sezione del festival dedicata alla fiction, "Serie TV da Israele", prevede - lunedì 20 novembre a partire dalle ore 18:15 - il panel "Non solo In Treatment. Serie TV da Israele: un fenomeno globale". Un vero e proprio dialogo aperto che vuole indagare l'incredibile exploit di esportazione di format e serie televisive israeliane degli ultimi anni, da In Treatment a Homeland, presentando tre serie drama alcune delle quali acquistate all'estero negli ultimi anni: Shtisel, sul mondo ultra-ortodosso di Gerusalemme; il medical drama Yellow Peppers, su un bambino autistico e Your Honor. Il panel vedrà al tavolo l'editorialista e docente universitario Massimiliano Panarari e Ram Landes, produttore e ideatore di molti format israeliani, che presenta al festival Your Honor (Kvodo), la serie da lui prodotta, che sarà adattata per l'Italia. Oscuro, affascinante e moralmente complessa, la serie racconta di un brillante giudice vicino a una importante promozione, il cui figlio adolescente fugge dopo essere stato coinvolto in un incidente automobilistico di cui è l'autore. Il panel è organizzato in collaborazione WGI - Writers Guild Italia, una delle più importanti organizzazioni di sceneggiatori, che sarà rappresentata da Giovanna Koch.
  A seguire, alle ore 19:00, il secondo panel, dal titolo "Raccontare il Medio Oriente attraverso il documentario", incontro a due voci tra Itai Anghel - il più grande reporter di guerra israeliano - e il direttore de La Stampa, Maurizio Molinari. Il panel sarà seguito dalla proiezione del docInvisible in Mosul, fresco vincitore del Premio per il Miglior Documentario in cui lo stesso Anghel si unisce con coraggio ai corpi speciali dell'esercito iracheno che avanzano verso Mosul sotto il fuoco nemico dell'ISIS e dei suoi terroristi suicidi. Anghel, infatti, è l'unico giornalista israeliano ad aver documentato la guerra in Iraq sino a spingersi nelle prime linee dei combattenti contro l'ISIS a Mosul. Per riservare un posto in entrambi i panel, scrivere a eventi@pitigliani.it
  Durante la kermesse si svolgerà anche la prima edizione del Premio Emanuele (Lele) Luzzati,che il 22 novembre presenterà in una 'non-stop' le opere finaliste e il 23 novembre premierà l'opera considerata meritevole da una giuria composta da intellettuali e artisti di rilievo.
  Per ricordare i 50 anni dall'arrivo degli ebrei libici in Italia, il festival chiude al Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani con Libia, l'ultimo esodo di Ruggero Gabbai.

(Roma Daily News, 17 novembre 2017)


Egitto, riapre per tre giorni il valico di Rafah con Gaza

DOHA - L'ambasciata palestinese al Cairo ha annunciato che le autorità egiziane apriranno a partire da oggi per tre giorni il valico di Rafah con la Striscia di Gaza. Dopo più di 100 giorni di chiusura sarà possibile attraversare il confine tra Gaza e il territorio palestinese da entrambe le direzioni. Si tratta della prima riapertura del valico dopo che l'Autorità nazionale palestinese è tornata nella Striscia in base agli accordi di riconciliazione nazionale firmati dai partiti di Fatah e Hamas al Cairo. Sono più di 20 mila le persone che si sono prenotate per attraversare il confine, in particolare per motivi medici e di studio.

(Agenzia Nova, 17 novembre 2017)


C'è un'idea italiana applicata in Israele per salvare le api (e quindi il mondo intero)

Così gli israeliani stanno applicando a passi giganti quel concetto di "Agricoltura di Precisione" che è stato al centro dell'Expo di Milano

di Maurizio Stefanini

"Il paese dove scorre il latte e il miele" è definita la Palestina nell'Esodo. Di api ce ne erano talmente tante, che Sansone trovò un favo nel cranio di un leone morto, e Giovanni il Battista poteva nutrirsi solo di locuste e miele selvatico. Oltre tre millenni sono passati, ma tuttora Israele è una delle nazioni che sta meglio sostenendo quella misteriosa sindrome Ccd (Colony Collapse Disorder) che dal 2007 ha già ucciso l'80 per cento delle api statunitensi e che anche nel resto del mondo sta facendo stragi. Il motivo è che anche all'apicoltura gli israeliani stanno applicando a passi giganti quel concetto di "Agricoltura di Precisione" che è stato al centro dell'Expo di Milano. Apicultura di Precisione dunque, e start up per l'Apicoltura di precisione, visto il ruolo che le start up hanno nell'economia israeliana: oltre il 4,3 per cento del pil investito nell'innovazione! A sorpresa, però, gli israeliani un'eccellenza in questo campo l'hanno trovata proprio in Italia. Si chiama infatti 3bee Hive-Tech la startup che col suo sistema per monitorarle e curare le api che ha vinto la competizione per essere la partecipante italiana all'evento per Startup in corso a Gerusalemme dal 5 all'11 novembre.
  L'idea è stata di tre ragazzi 28enni: Niccolò Calandri, dottorando in Elettronica al Politecnico di Milano; Riccardo Balzaretti, biologo; Elia Nipoti, tecnologo alimentare. Sono stati da poco premiati dall'Ambasciatore d'Israele in Italia, Ofer Sachs, al Luiss Enlabs di Roma, dove la loro idea ha prevalso su altre due: Goseemba, una mobile business platform che aiuta le piccole e medie imprese a sbarcare sul web; e Manet Mobile, un service provider per il settore della ricezione alberghiera. Ma prima ancora erano stati premiati dalla Fondazione Barilla: proprio in quel 2016 in cui la raccolta di miele aveva segnato in Italia un record negativo. "L'alveare tecnologico capace di valutare lo stato di salute delle api aiutando l'apicoltore a migliorare la gestione del proprio apiario e permettendogli di proporre un miele di qualità, 100 per cento Italiano", è la presentazione sul loro sito. "Siamo partiti da un dato di fatto: l'apicoltura attuale è fatta di trattamenti chimici più o meno invasivi e le api non riescono più a vivere senza questi sistemi", spiegano. Ma spesso questi interventi, pur necessari, sono fatti in maniera sbagliata, finendo per recare più danno che vantaggio: ecco spiegata l'attuale crisi mondiale del miele. L'Apicultura di Precisione di 3bee Hive-Tech ha messo a punto un innovativo sistema di monitoraggio elettronico che si applica all'alveare, e rileva lo stato di salute delle api all'interno. Tempestivamente comunicati all'apicoltore, danno modo di intervenire in modo rapido e efficace. E a parte il caso concreto, il sogno della start up è quello di creare un database mondiale per creare algoritmi di predizione delle malattie e delle cause di morte delle api, capire quali sono i parassiti che più le attaccano, elaborare le strategie per proteggerle". Miele e cera a parte, i tre promotori spiegano che le api sono un indicatore di quanto sia salutare l'ambiente che ci circonda, e che l'80 per cento della frutta e della verdura che mangiamo è prodotta grazie al loro lavoro di impollinazione. "150 milioni di miliardi di fiori impollinati dalle api giornalmente", è pure scritto nel loro sito. "30 per cento di perdite di colonie d'api nel 2016". "30 milioni/kg anno di miele importato in Italia non controllato". E ricordano quel che scrisse nel 1901 il Nobel per la Letteratura Maurice Maeterlinck nel suo celebre "La vita delle api": "Se l'ape scomparisse dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita".
  Il bello è che la tecnologia 3bee funziona con l'energia del sole e delle vibrazioni prodotte dagli stessi insetti. Oltre che a professionisti e ricercatori il dispositivo 3bee Hive-Tech si rivolge anche agli hobbisti alle prime armi, che grazie a un apposito Starter Kit possono imparare a produrre il proprio miele e ad allevare api sane. Ai consumatori, poi, si offre la possibilità di "adottare un alveare" il cui andamento potrà essere monitorato da smarthphone, tablet e pc, e da cui a fine stagione potranno ricevere i vasetti di miele così prodotti. Utilizzando la tecnologia 3bee sarà possibile analizzare la qualità dell'ambiente grazie al capillare e costante lavoro di impollinazione delle api: volando di fiore in fiore le api raccoglieranno infatti le eventuali sostanze nocive che successivamente verranno analizzate della tecnologia Hive-Tech.

(Il Foglio, 16 novembre 2017)


"Italia-Israele, legame stretto"

Quale lo stato dei rapporti tra Italia e Israele? È stato il tema di un incontro tenutosi al Bet Chabbad Bene Romì di Netanya. All'incontro, nato in seguito a un'idea di rav Roberto Della Rocca, direttore dell'area Cultura e Formazione dell'UCEI e organizzato dalla Comunità italiana di Netanya in collaborazione con l'Irgun Olei Italia e la Giovane Kehilà, ha partecipato anche l'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti.
Dopo il saluto dello shaliach della Comunità italiana di Netanya, rav Aaron Leotardi, Dario Di Cori, presidente della Comunità di Netanya e vicepresidente dell'Irgun Olei Italia, ha illustrato come è nata la Comunità. "Da un piccolo gruppo di amici siamo diventati una grande Comunità. Una realtà significativa per gli italiani in Israele" ha spiegato Di Cori indicando la sala piena. "Manteniamo la nostra tradizione millenaria ed il rito romano in Erez Israel" ha aggiunto.
L'ambasciatore Benedetti ha approfondito il tema "prospettive nel settore economico e tecnologico", illustrando i progetti dell'ambasciata italiana in Israele per rafforzare i rapporti economici, culturali e tecnologici, sottolineando l'importanza dell'investimento nei giovani e nel settore accademico.
Rav Roberto Della Rocca, parlando delle prospettive di collaborazione tra UCEI e Comunità italiana in Israele, si è collegato alla parasha di Chayei Sarah interogandosi sul perché Eliezer si definisce sia straniero e sia residente e perché Mosè chiama il proprio figlio Gershom. "Questa è la condizione ebraica di sempre" ha spiegato il rav. "Abbiamo sempre sognato di Eretz Israel e anche quando siamo qui in Israele abbiamo un collegamento con le tradizioni italiane" ha aggiunto.
Infine Michael Sierra, presidente della Giovane Kehilà, il movimento giovanile della comunità italiana in Israele, è intervenuto sul tema "sfide comuni dei giovani in Italia e in Israele" raccontando come è nata la Giovane Kehilà, come assiste e rappresenta i giovani ricordati già dall'ambasciatore e come preserva le tradizioni ebraiche italiane ricordate da rav Della Rocca e Di Cori.
All'incontro hanno partecipato anche 15 ragazzi del progetto di Ye'Ud, corso di leadership dell'UCEI.

(moked, 17 novembre 2017)



Due tipi di scrittori

Gli scrittori si suddividono in due categorie:
  1. quelli che scrivono per informare o istruire gli altri;
  2. quelli che scrivono per far sapere agli altri quanto sono bravi loro.
I primi fanno un servizio, i secondi fanno carriera.
La suddivisione è presente anche fra coloro che scrivono su Israele.

 


Spunta un patto tra Israele e Sauditi: «Scambio di informazioni anti-Iran»

L'annuncio del Capo di Stato Maggiore di Gerusalemme

ROMA - Prima le voci su una visita segreta in Israele dell'erede al trono saudita Mohammed bin Salman, poi le indiscrezioni su un viaggio a Riad di un emissario di Netanyahu. Infine, ieri, un'intervista del capo di Stato Maggiore israeliano, Gady Eisenko, a un giornale saudita. I rapporti tra Israele e Arabia Saudita, in funzione anti Iran, sembrano essere sempre più stretti. E anche se a Gerusalemme non si parla di un vero e proprio «asse», l'intervento del generale al sito "Elaph" rappresenta una novità assoluta. «L'Iran progetta di controllare il Medio Oriente con due "mezzelune sciite" - dice nell'intervista Eisenko - la prima dall'Iran, attraverso l'Iraq, fino in Siria e in Libano, e la seconda dal Bahrein attraverso lo Yemen fino al mar Rosso. Su questa faccenda noi e il regno dell'Arabia Saudita, che non è mai stato nostro nemico e con cui non abbiamo mai combattuto, concordiamo completamente». Il capo di stato maggiore israeliano ha quindi sottolineato che «occorre dar vita a un grande piano strategico per bloccare il pericolo iraniano».

 Le dichiarazioni
  Stando alle dichiarazioni del generale, e qui probabilmente c'è la novità più importante, Israele sarebbe pronto «a condividere informazioni con Paesi arabi moderati, comprese informazioni di intelligence, pur di far fronte all'Iran». Si tratta, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, che ha rilanciato l'articolo, della prima intervista mai rilasciata da un alto ufficiale israeliano ad un mezzo stampa saudita. Riferendosi alla situazione in Siria, Eisenkot ha ribadito che Israele insiste perché gli Hezbollah libanesi, nonché l'Iran e le milizie sciite alleate lascino quel Paese. «Non accetteremo che l'Iran si stabilisca in Siria, in modo speciale ad ovest dell'asse Damasco-Sueida ( cioè a circa 50 chilometri dalle alture del Golan, ndr). Non consentiremo alcuna presenza iraniana, e abbiamo già messo in guardia dalla costruzione di sue industrie o di basi militari». Quanto al Libano, il generale ha assicurato che Israele non ha alcuna intenzione di lanciare un attacco contro gli Hezbollah.

(Il Messaggero, 17 novembre 2017)


E' una lsrael Academy multietnica. Sogna il Giro

Un po' d'Italia nel team (24 atleti di 16 Paesi): Sbaragli e bici De Rosa

di Adam Smulevich

GERUSALEMME - E' notte fonda tra le colline attorno a Gerusalemme, quando un urlo squarcia la quiete: «Sveglia!». Volti smarriti, che vagano nel buio. Pochi hanno la giusta reattività. Poi, al secondo urlo, più o meno tutti escono dalle tende in pochi istanti. Nessun pericolo imminente, tutt'altro: di fronte un carico di lavoro non preventivato, e piuttosto sfiancante. Esercizi fisici durissimi, sul modello di quelli delle forze di sicurezza locali. E poi, dopo un paio d'ore, di nuovo tutti a nanna. Ma hai voglia a riaddormentarti dopo una scarica di adrenalina così.

 Per il giro
  Sogna la wild card al prossimo Giro d'Italia, che partirà proprio da Gerusalemme, la Israel Cicyling Academy, prima squadra professionistica d'Israele. Il raduno convocato per preparare la prossima stagione, la più importante nella storia di questo giovane team, è l'occasione per sperimentare tecniche non convenzionali lontano da questo fazzoletto di terra cui il mondo guarda ormai da millenni con interesse, coinvolgimento, preoccupazione.

 Sedici nazioni
  La lsrael Cycling Academy vuol tenere alto il nome di un Paese intero, e cercherà di farlo avvalendosi del contributo di atleti di 16 nazioni, cinque continenti, quattro religioni. La «squadra del dialogo», l'ha definita qualcuno. Non sorprende pertanto che a interessarsi alle vicende del team sia stata una delle realtà più significative ad operare nel rafforzamento di progetti che provano a far incontrare e convivere identità diverse: il Centro Peres per la Pace, la onlus nata con l'ex statista Shimon Peres in vita e che ancora oggi difende i suoi sogni.

 Con Sbaragli
  I 24 corridori della Academy sono stati convocati ieri pomeriggio per ricevere il certificato di «ambasciatore di pace». Il primo è stato un italiano, Kristian Sbaragli, che ha da poco firmato con gli israeliani. A consegnarglielo è stato l'ambasciatore «vero» da queste parti, Gianluigi Benedetti. Kristian ha sorriso, ma sa di avere le sue responsabilità. E questo perché è molto più di italiano, è toscano. E qua a un toscano in particolare vogliono molto bene: Gino Bartali dal 2013 «Giusto tra le nazioni» per il ruolo avuto nel salvataggio di molti ebrei sotto il nazifascismo. Sono andati a trovarli tutti insieme, Gino, allo Yad Vashem. I corridori della Academy sono arrivati fino alla collina dove si trova il Memoriale. Prima la visita al museo che racconta la deportazione e l'abisso della Shoah. Poi una lunga sosta davanti al muro dei Giusti, il nome di Bartali in testa a una colonna di eroi. «Siamo qua per ricordarci che lo sport è pure questo: trasmissione di valori positivi, in ogni sede» sottolinea Ran Margaliot, il manager che s'è letteralmente inventato da zero la squadra con l'imprenditore Ron Baron. Principi solidi, ma anche l'ambizione di far parlare di sé attraverso i risultati. In sella tra l'altro alle italianissime De Rosa, nuove bici del team.

(La Gazzetta dello Sport, 17 novembre 2017)


Roma e Vaticano nel mirino dell'Isis: "Vi aspetta un Natale di sangue"

Nessun rischio concreto, solo propaganda sul web secondo il Vaticano, ma nelle scorse ore molti media internazionali riportando il manifesto di San Pietro hanno ricordato che negli anni passati l'Isis ha più volte diffuso proclami sulla "conquista di Roma".

 
La sequenza è molto inquietante. Si vede un terrorista islamico intento a guidare un'auto su via della Conciliazione, nel cuore di Roma, diretto verso la Basilica di San Pietro, con un mitra e uno zainetto appoggiati al sedile anteriore, a fianco del conducente.
Lo specchietto retrovisore riflette un uomo con un passamontagna nero. In alto una grande scritta sovrasta l'immagine diffusa da Wafa Media Foundation, un'organizzazione ritenuta dagli analisti vicina all'Isis: Christmas blood, ovvero Natale di Sangue.
Nessun rischio concreto, solo propaganda sul web secondo il Vaticano, ma nelle scorse ore molti media internazionali riportando il manifesto di San Pietro hanno ricordato che negli anni passati l'Isis ha più volte diffuso proclami sulla "conquista di Roma".
Un messaggio, solo un invito. Ma nulla che possa essere sottovalutato.
L'inquietante scenario ricalca i canoni già utilizzati dal Daesh nel corso degli ultimi due anni, con minacce ricorrenti proprio in prossimità delle festività di fine anno.
Ma quello che colpisce, in sede di analisi, è la corrispondenza dell'armamentario del miliziano con quella degli attentatori di Belgio e Francia, ovvero, dei terroristi che colpirono Bruxelles e Parigi nel 2015 con attacchi coordinati e effettuati in contemporanea da diverse squadre di operativi.

(Today, 17 novembre 2017)


«Israele, il cancro», brivido antisemitismo nel liceo occupato

Retromarcia. Sul documentario dietrofront dei ragazzi. L'associazione Italia Israele aveva protestato.

di Antonio Passanese

FIRENZE - Proteste dell'associazione Italia-Israele dopo l'annuncio di alcuni studenti del liceo classico Michelangiolo di voler proiettare a scuola il documentario «Israele, il cancro». La proiezione, che sarebbe dovuta avvenire ieri nell'ambito delle iniziative organizzate in occasione dell'occupazione dell'istituto, è stata poi annullata dagli stessi ragazzi, dopo un colloquio con la preside Patrizia D'Incalci.
   Nella lettera inviata alla dirigente, il presidente dell'associazione Italia Israele di Firenze, Valentino Baldacci, definisce il documentario «un lavoro intriso del più ripugnante antisemitismo». Ieri, quindi, sono stati gli stessi studenti del Miche, venuti a conoscenza della natura del documentario, a decidere di non proiettarlo. «Non eravamo al corrente dei contenuti - spiega uno dei ragazzi che partecipano all'occupazione - cercavamo qualcosa che trattasse della questione israelo-palestinese».
   Sulla vicenda è intervenuta anche la vice sindaca di Firenze Cristina Giachi: «Bene la decisione dei ragazzi. La leggerezza con la quale di recente si è fatto riferimento alla vicenda di Anna Frank, così come altri episodi di violenza nazifascista rendono necessaria una vigilanza attenta, soprattutto con i più giovani, su ogni ricostruzione revisionista o che comunque possa aprire a interpretazioni antisemite». Intanto, il comitato studentesco del liceo di via della Colonna fa sapere che l'occupazione finirà domenica: «Lo abbiamo già comunicato alla preside - dicono i ragazzi - E dopo esserci confrontati con i docenti, abbiamo anche deciso di non bloccare la didattica: chi vuole seguire le lezioni può farlo senza alcun problema».

(Corriere Fiorentino, 17 novembre 2017)


La foto tra Miss Iraq e Miss Israele sta dividendo il mondo

C'è chi le critica e chi parla di un passo importante nei rapporti fra i due Paesi. Le due ragazze non immaginavano una reazione simile per il loro selfie.

Miss Israele (a sinistra) e Miss Iraq
Cosa accomuna Sarah Eedan e Adar Gandelsman? Sono entrambe more, bellissime, si trovano a Las Vegas e partecipano alle finali di Miss Universo. Quindi di sicuro ora vi chiederete: cosa ci può essere di tanto anomalo in una innocentissima foto postata sui social dalle due giovani?
Eppure un semplice selfie in cui le ragazze posano insieme ha fatto fioccare le critiche, ma anche la speranza di un futuro in cui la pace superi i conflitti di cultura e religione.
Quando hanno scattato la foto, forse Sarah e Adar non immaginavano di scatenare tali reazioni. Ma se Miss Iraq si fa fotografare con Miss Israele, non c'è da meravigliarsi che poi in Rete succeda un parapiglia. Migliaia di persone commentano, generano polemica, applausi e rullo di tamburi.
Conosciamo un po' meglio queste reginette: Sarah Eedan, Miss Iraq, è la prima a rappresentare il suo Paese a Miss Universo da 45 anni, mentre Adar Gandelsman gareggia con la fascia di Miss Israele.
Nello scatto incriminato sorridono felici, in vista delle finali del concorso.
«Pace e amore» è la didascalia che correda la foto.
Ecco le reazioni: una YouTuber twitta «Quest'immagine non rispetta la sensibilità di tutti»;
«La reginetta di bellezza irachena posta con la regina dell'occupazione e della brutalità» è il pensiero di un professore. E via discorrendo, nel consueto bla bla bla del web.
A rispondere alle critiche è proprio la Miss irachena, raccontando: «Miss Israele si è avvicinata, mi ha chiesto di fare una foto insieme e mi ha detto di sperare che ci sia presto la pace fra i nostri due popoli».
Un tentativo di calmare gli animi arriva da un portavoce del governo israeliano, il quale ha parlato di «un grande messaggio di speranza per tutta la regione. La pace inizia dalle persone».
Popolo del web, diamoci una calmata. Visto che la gara prevede l'incoronazione di una reginetta per le sue qualità estetiche e non per la provenienza geografica, non è il caso di fasciarsi la testa prima del tempo.

(105.net, 17 novembre 2017)


«Il corpo è un mirabile dono di Dio. Ma l'età mi sta fiaccando ... »

Questo testo è una parte dell'articolo che rav Giuseppe Laras ha scritto per il numero di "Luoghi dell'Infinito" in uscita il prossimo 5 dicembre e dedicato al tema "Attesa e grazia". Consegnato pochi giorni fa, è l'ultima testimonianza dell'ex rabbino capo d Milano. Si tratta di una lunga riflessione autobiografica che, oggi ancora di più, appare come condotta con lo sguardo sul limite della morte. Laras rievoca quando bambino aveva dovuto vivere da sfollato e in incognito tra i monti, il tradimento che condanna la madre al lager e, nonostante tutto, la bellezza della vita famigliare e dell'essere umano, la bellezza esteriore e quella, ancora più forte, interiore: una bellezza che però è vanitas vanìtatum, pronta a dissolversi nella morte. Solo la fede si oppone, nella certezza di un ritrovarsi di ogni cosa in Dio.

di Giuseppe Laras

Rav Giuseppe Laras
I miei ricordi di bambino sono stati traumatizzati dalla guerra e dalla persecuzione. Ricordo di aver vissuto, nascosto e braccato, in luoghi estremamente belli, in cui i colossi montani si stagliavano in tersi cieli color indaco oppure tra plumbee nubi. Si trattava delle magnifiche vette della Val Grande di Lanzo, con i loro picchi e declivi, boschi e radure, fieri rapaci e simpatici animaletti. Ricordo che avevo imparato a raccogliere i funghi, distinguendoli correttamente, inoltrandomi là dove gli alberi erano più folti. Ricordo anche che mi piaceva quella vita rustica ed essenziale.
   Purtroppo, per mia madre e me era sì un luogo di ricovero, ma era al contempo un posto estremamente pericoloso, irto di difficoltà. Richiedeva mille attenzioni, mille sotterfugi e nascondimenti. Eravamo ostaggio di infinite paure, che spesso si concretizzavano. I nazisti rastrellavano anche lassù ebrei e partigiani, di intesa con i loro molti complici italiani, non meno spietati. Lì iniziai ad apprendere che viltà e spietatezza sono spesso compagne e complici. Ho dei ricordi di quel che fu la mia famiglia e il nostro focolare domestico: l'essere amato da chi ti ha generato, la presenza di mia mamma, l'amore tra i miei genitori, la mamma di mia mamma che condivideva da vicino la nostra vita familiare. Ricordo la bellezza di tutto questo, una bellezza intima e discreta, tenera ed essenziale, romantica ma non sdolcinata, sincera e mai sfacciata. Ricordo quando le due SS italiane bussarono seccamente alla porta, dopo che la nostra devota portinaia, tante volte beneficata dalla mia famiglia, aveva venduto mia madre e mia nonna per cinquemila lire ciascuna. Ricordo la strada fatta a piedi, a sera inoltrata, per arrivare alla sede torinese della Gestapo. Ricordo l'ultimo rapido sguardo con mia mamma, che mai più rividi, e ricordo la corsa disperata, sconvolto, per trovare un luogo sicuro per nascondermi. Ricordo che rimasi muto per oltre sei mesi. Era bella mia madre, era la mia mamma. Era bella la nostra famiglia, con l'enormità di vita che è dolcemente ascosa e sintetizzata dalla parola "famiglia" Era bella la fanciullezza. Il due ottobre del 1944, a nove anni, persi tutto questo. Fu una perdita irreversibile. Quando sono molto agitato e sotto pressione mi capita ancora, mentre dormo, di sentire bussare forte alla porta, svegliandomi di soprassalto. Anni dopo, assieme a mia moglie, iniziammo l'edificazione della nostra famiglia. Pur con gli spettri del passato sempre presenti, ho goduto della bellezza intensa della vita familiare, con alti e bassi, con angosce e speranze, con entusiasmi e amarezze, come chiunque.
   L'età sta fiaccando il mio corpo e l'essere stato per alcune decadi un fumatore indefesso ha dato inoltre abbrivio a una serie di patologie respiratorie che rendono evidenti fragilità e rischi. Il corpo umano è meraviglioso: un prodigio di bellezza mirabile, che ti permette di accarezzare chi ami; di dare luce e spessore alle persone che incontri e che trascorreranno con te parti più o meno estese della tua e della loro vita; di assaporare l'aria fresca della pioggia che ha momentaneamente sconfitto la canicola estiva; di annusare i balsami delle piante e i manicaretti preparati da mani amorevoli. Il corpo umano ci attrae, catalizza la nostra attenzione e rende vera e concreta la nostra esistenza. Certuni cosiddetti "religiosi" hanno diffuso l'odiosa bestemmia per cui si ravvisa erroneamente nel corpo una prigione per l'anima e nella materialità un inganno. Bisogna diffidare dai pietisti che minimizzano - o, peggio ancora, sviliscono - questo dono di Dio, facendo del piacere fisico una tentazione e non una fondamentale espressione di umanità e potenzialità spirituali, del vigore del corpo un'insolenza e della malattia una benedizione. Mi trovo in una fase della vita, quella della senescenza ormai lambita e avviata, in cui si esperisce chiaramente, tangibilmente, che anche questa bellezza è destinata a esaurirsi.
   Esiste anche una bellezza interiore e nascosta, che riguarda silenziosamente noi stessi, tuttavia continuamente esposta sia alle parole sia al disordinato vociare del mondo esterno. E tutti abbiamo contezza di quanto ciascuno di noi abbia contribuito a inquinare la propria bellezza riposta e intima, peccando contro sé. Nel migliore dei casi, quando riusciamo a emendarci, a restaurare ciò che è andato infranto e a ricuperare le posizioni perdute, resta tuttavia la memoria, non certo entusiasmante, di quanto comunque occorso. E non è nemmeno detto che, drammaticamente, questo ricordo assurga a monito e che, d'altro canto, il monito poi funzioni al suo scopo dissuasivo. Ancora una volta una bellezza, che sappiamo riconoscere con certezza come tale, che va facilmente dissipandosi.
   La Bibbia, nel suo originale ebraico, ha un'unica parola per "buono" e "bello", sintetica e orientativa: "tou'. Il peccato di Adamo, secondo molti Maestri di Israele, fu proprio quello di aver scelto di comprendere e giudicare secondo criteri meramente apparenti ed estetizzanti e non secondo criteri "etici", ossia esistenziali e concreti.
   Ma che ne è della speranza in relazione alla fragilità e all'erosione della bellezza? Vi sono speranze personali e collettive, umane e messianiche, universali e particolari: le une sono avvinte alle altre, ma non confuse. Nulla può definitivamente fermare la morte in questo mondo, ma il progresso medico, tecnologico e scientifico ha saputo spesso arginarne con efficacia le manifestazioni più crude e grossolane. La bellezza può essere violentata e dissolta dalla morte, ma la medicina ha un certo margine d'azione per medicare, rinfrancare e risanare. La tecnologia è una speranza perché risponde a un'esigenza e a un compito posti dal Creatore nell'intimo dell'essere umano. La conoscenza è certamente responsabilità, ma l'ignoranza è sempre lontananza ulteriore da Dio e, più spesso di quanto si voglia ammettere o indulgere, una colpa molto grave. Nessuno in questo mondo ha il potere di ridare vita a mia madre e di restituirmela. Noi con ferma fede crediamo e speriamo, come da lettera biblica, che il Signore Dio «faccia morire e faccia vivere», ovvero che faccia risorgere i morti. Noi abbiamo però il potere e il comandamento di procreare, il che significa non consegnare completamente noi stessi alla morte, arrendendoci, lasciando che la cultura della morte, così triste eppur apparentemente così ragionevole e suadente, abbia l'ultima parola. La mia speranza sono i miei figli, i loro figli e i figli dei loro figli. La mia speranza sono i miei allievi, gli allievi dei miei allievi, chi insegna e chi apprende la Torah.

(Avvenire, 16 novembre 2017)


Università di Tel Aviv: due centri innovativi per il campo delle neuroscienze

 
La Scuola di Neuroscienze dell'Università di Tel Aviv ha lanciato due centri internazionali di ricerca e di imprenditorialità per permettere ai giovani ricercatori di sviluppare e realizzare le loro idee pionieristiche nel campo del trattamento delle malattie del cervello. Il centro è il primo in Israele e in tutto il mondo.
  Il primo è il BrainBoost, un centro imprenditoriale per la risoluzione dei problemi del sistema nervoso, si concentrerà sullo sviluppo di nuovi strumenti per il trattamento di varie malattie del cervello.
  Il secondo è Minducate, un centro il cui focus è la ricerca e l'imprenditorialità nel campo delle scienze di apprendimento, istituito su iniziativa del TAU on-line, il centro per l'innovazione nell'apprendimento dell'Università di Tel Aviv, guidato da Yuval Shraibman. L'obiettivo del centro è quello di esplorare l'interrelazione tra istruzione, apprendimento, cognizione e Neuroscienze.
  Questo il commento del Prof. Joseph Klafter, presidente dell'Università:
Crediamo che l'università sia la fonte più prolifica di sviluppo di tecnologie rivoluzionarie che hanno il potere di cambiare il futuro. Ma fino ad ora, le idee più innovative nate nei laboratori di ricerca sono in grado di sfuggire o rimanere intrappolate tra le mura dell'università.
  Per affrontare questa sfida e creare un ponte vitale tra il mondo accademico, industria e società, la Dott.ssa Dana Baron, Direttrice del settore dello sviluppo delle relazioni della Facoltà di Neuroscienze dell'Università di Tel Aviv, ha costruito un modello innovativo, pionieristico in Israele e nel mondo, basata sull'incoraggiamento dei ricercatori verso una imprenditoria giovanile nel capo delle neuroscienze all'interno dell'università stessa.
  I due nuovi centri, creati sulla base di questo modello incoraggeranno i giovani ricercatori, subito dopo il loro dottorato, a diventare imprenditori e trasformare le loro idee in prodotti e soluzioni reali.
  Dei 65 ricercatori provenienti da 28 paesi di tutto il mondo che hanno presentato proposte al centro BrainBoost, 5 sono stati selezionati nei settori del trattamento del morbo di Parkinson, delle lesioni derivanti da ictus, depressione, autismo e Alzheimer.
  I 10 giovani ricercatori selezionati (7 donne e 3 uomini) avranno accesso alle numerose risorse dell'Università:
  • 1.500 ricercatori;
  • 150 laboratori di ricerca in 8 facoltà;
  • Tutti gli ospedali affiliati;
  • Circa 30 aziende industriali israeliane ed internazionali.
(SiliconWadi, 17 novembre 2017)


Siamo noi che accusiamo l'Onu: insulta Israele e coccola i dittatori

Per le Nazioni Unite siamo troppo duri con gli immigrati. Lo dice un organismo che è in mano ai tiranni e in un giorno ha fatto 9 risoluzioni contro Gerusalemme.

di Giovanni Sallusti

Se volesse replicare con nerbo alle accuse di "disumanità" scaraventate addosso all'Italia dalle Nazioni Unite (ma ci rendiamo conto si tratti di un periodo ipotetico dell'irrealtà), il ministro Alfano in missione diplomatica a New York avrebbe una caterva impressionante di argomenti.
  E parliamo di questioncine assai più sostanziali di un accordo con la Libia per la gestione del flusso migratorio nel Mediterraneo (che al massimo è da approfondire, non certo da smantellare). L'Alto commissario per i diritti umani, il principe giordano Zeid Rad al-Hussein, dice che «la comunità internazionale non può continuare a chiudere gli occhi davanti agli orrori inimmaginabili sopportati dai migranti in Libia»? Benissimo, ecco una serie di casi in cui l'Onu gli occhi li tiene serrati, o peggio li muove con feroce strabismo.

 Le bastonate
  L'assemblea generale ha appena bastonato in un solo giorno lo Stato d'Israele con 9 risoluzioni di condanna. Nella stessa seduta, il resto del mondo si è beccato complessivamente 6 risoluzioni: una a testa per Paesi non propriamente fondati sulle libertà individuali come Corea del Nord, Iran, Siria e Myanmar. Una alla Crimea, e poi un grande classico, la censura agli Stati Uniti per l'embargo prolungato a Cuba (la censura a Cuba per i dissidenti torturati nelle carceri castriste anche questa volta si farà la prossima). Perché questa palese persecuzione dell'unica comprovata democrazia liberale esistente in Medio Oriente, perché Israele peggio di artisti della "disumanità" come Kim Jong Un e gli ayatollah di Teheran? Sarà mica che all'Onu scorrazza liberamente uno dei virus più "disumani" del pianeta, l'antisemitismo? Perché, esimio principe al-Hussein, la maggioranza nel Consiglio per i Diritti Umani (27 membri su 45) è saldamente in mano al blocco delle dittature, o comunque dei Paesi "parzialmente liberi" (grazioso ossimoro per alludere a quei luoghi dove lo Stato può farti sparire dalla sera alla mattina)?
  Guarda caso, questo Consiglio tramutato in ritrovo di tiranni è lo stesso che vuole inquisire Israele per crimini di guerra, e che ha stabilito la simmetria legale e morale tra lo Stato ebraico e i suoi nemici, i terroristi islamici di Hamas e altri praticanti della jihad.
  Ancora: perché da due anni la presidenza del Comitato per i Diritti Umani è appannaggio dell'Arabia Saudita, un Paese campione di "disumanità" dove puoi essere condannato alla decapitazione per i seguenti reati: consumo di stupefacenti, contrabbando, omosessualità, falsa profezia, apostasia, adulterio, stregoneria e magia?

 I campi di lavoro
  Perché al fianco dei sauditi in questo nobilissimo consesso siede la Cina, che tiene tuttora aperti più di 1400 laogai, campi di lavoro forzato e di rieducazione dove i prigionieri sono abitualmente seviziati con scariche elettriche, incatenati in posizioni dolorose, picchiati con bastoni e bruciati con sigarette, privati di cibo e sonno, mutilati anche negli organi genitali, e siede perfino il Qatar, conclamato apprendista stregone del terrorismo islamico più "disumano", vedi alla voce Isis? I piromani del diritto incaricati di stabilire quando esso brucia, a questo siamo?
  Infine, carissimi burocrati de luxe alloggiati al Palazzo di Vetro che vi scandalizzate se l'Italia accenna una timida reazione all'invasione incontrollata delle sue coste, la domanda delle domande: perché tollerate che esista una Dichiarazione islamica dei diritti umani alternativa a quella (non più) universale del 1948, in cui si dice che le libertà fondamentali valgono finché rimangono nel quadro dei limiti generali previsti dalla legge islamica, ovvero non valgono?
  La libertà al guinzaglio della sharia, è stata promulgata il 19 settembre 1981 in sede Unesco, agenzia delle N azioni Unite, la stessa da cui Donald Trump ha appena ritirato gli Stati Uniti in quanto infestata dal "pregiudizio antisraeliano": perché?
  È ora che rispondiate a queste domande, perché avete ragione, «non possiamo più chiudere gli occhi davanti agli orrori».

(il Giornale, 17 novembre 2017)


Shifra Hom narratrice di Israele

Ogni anno l'associazione Donne Ebree d'Italia, l' Adei-Wizo, assegna un premio letterario: l'israeliana Shifra Horn (1951) è entrata nella terna delle finaliste 2017 con "Scorpìon Dance" (Fazi editore, traduzione di Silvia Castaldi), e sarà oggi alle 18 alla Libreria Zanichelli, su invito della Comunità Ebraica di Bologna, proprio per parlare del libro assieme a Miriam Rebhun, Daniele De Paz e Ines Marach. Racconta la storia di Orion, un ragazzo che ha perso il padre durante la guerra dei Sei Giorni, senza poterlo conoscere, e che viene cresciuto da due donne nel quartiere di Old Katamon, a Gerusalemme. E affondando nel dolore dall'Olocausto all'attualità, racconta di un pappagallo dai sentimenti umani e di una nonna tedesca, Johanna, che parla un pessimo ebraico e odia la Germania.

(la Repubblica - Bologna, 16 novembre 2017)


Israel Cycling, ambasciatori di pace

Presentato l'organico, il team israeliano punta a correre il Giro d'Italia

 
Il roster della Israel Cycling Academy 2018 è stato presentato oggi: si tratta della formazione più forte di sempre del giovane sodalizio israeliano che spera in una wild card per il Giro d'Italia del 2018, che partirà da Gerusalemme.
  La prima e unica squadra ciclistica professionista d'Israele, è unica nel mondo degli sport professionistici: essendo un team no-profit, i suoi valori, la sua etica e l'impegno per il cambiamento sociale lo distinguono dai team rivali.
  Tra i membri della squadra ci sono quattro campioni nazionali tra cui Ahmet Örken, campione turco 2017. La sua presenza in seno al team israeliano è una ulteriore prova della capacità dello sport di abbattere le barriere. Tra le novità ci sono lo spagnolo Ruben Plaza e l'italiano Kristian Sbaragli che hanno vinto tappe del Tour de France e della Vuelta a Espana e cinque dei migliori ciclisti israeliani, tra cui il campione nazionale Roy Goldstein.
  In riconoscimento di questi valori, il Peres Center for Peace ha conferito ai membri del team Israel Cycling Academy, ai team manager e ai fondatori della squadra - Sylvan Adams e Roni Baron - il titolo di "Ambassador for Peace". Il premio, consegnato da Chemi Peres, presidente del Consiglio di amministrazione del Peres Center for Peace and Innovation, è una attestazione forte di quanto lo sport possa fare per la pace nel mondo.
  Ahmet Örken, campione nazionale turco della cronometro, spiega: «Per me, l'opportunità di vestire questa maglia è un grande onore e una grande sfida professionale. Nessun ciclista turco ha mai corso per un team di questo livello. Ma al di là di questo, non mi vedo solo come un ciclista. Insieme, abbiamo l'opportunità di emozionare le persone e cambiare il mondo che ci circonda. Il fatto che un ciclista turco gareggi fianco a fianco con i ciclisti israeliani e altri provenienti da tutto il mondo, lottando per gli stessi obiettivi, rappresenta per tutti un messaggio di convivenza e pace a tutti».
  Sylvan Adams, co-proprietario della Israel Cycling Academy e Presidente onorario di "Big Start Israel", ha dichiarato: «Nonostante l'attenzione per la crescita del ciclismo israeliano, ICA è una delle squadre ciclistiche più internazionali, con corridori di 16 nazioni diverse di 5 continenti. I nostri atleti sanno di essere in una squadra israeliana e quindi ambasciatori di questo Paese».
  Roni Baron, fondatore e co-proprietario della Israel Cycling Academy, a sua volta aggiunge: «La visione e l'obiettivo principale della squadra è quello di infondere amore per il ciclismo tra i giovani israeliani di ogni provenienza. Proprio ieri, il team ha annunciato la firma di un ciclista druso di 18 anni, Sanad Abu Faris per la nostra squadra giovanile. Crediamo che in un futuro non troppo lontano l'Accademia aprirà a ciclisti arabi e palestinesi».
  Chemi Peres, presidente del consiglio di amministrazione del Peres Center for Peace and Innovation, ha spiegato: «Mio padre (Shimon Peres, ndr) credeva nella capacità dello sport di gettare un ponte tra nazioni, culture e religioni. Amava dire "Quando sei in campo, sei un giocatore di una squadra, non un musulmano, un ebreo o un cristiano". Lo sport non conosce confini, parla una lingua internazionale che ci unisce tutti. Gli atleti hanno il potere di essere ambasciatori per la pace e di servire come modelli per le nuove generazioni».

IL ROSTER

Edwin Alvila (Colombia, 27)
Guillaume Boivin (Canada, 28)
Zak Dempster (Australia, 30)
Jose Manuel Diaz (Spain, 22)
Nathan Earle (Australia, 29)
Sondre Holst Enger (Norway, 23)
Omer Goldstein (Israel, 21)
Roy Goldstein (Israel, 24)
Ben Hermans (Belgium, 31)
August Jensen (Norway, 26)
Luis Lemus (Mexico, 25)
Krists Neilands (Latvia, 23)
Guy Niv (Israel, 23)
Ahmet Örken (Turkey, 24)
Ben Perry (Canada, 23)
Ruben Plaza (Spain, 37)
Mihkel Raim (Estonia, 24)
Guy Sagiv (Israel, 22)
Kristian Sbaragli (Italy, 27)
Hamish Schreurs (New Zealand, 23)
Daniel Turek (Czech Republic, 24)
Dennis van Winden (Netherlands, 29)
Tyler Williams (USA, 22)
Aviv Yechezkel (Israel, 23)


(tuttobiciweb.it, 16 novembre 2017)


L'ultima lettera del rabbino Laras: non inariditevi

Guidò la comunità milanese per 25 anni. «Credeva nel confronto in tempi di scontro»

di Paola D'Amico

Si è congedato con una lunga lettera testamento dalla sua Comunità milanese, il rabbino Giuseppe Laras. Consapevole della malattia che avanzava, l'ha richiamata a pensare «a un'architettura nuova», di fronte ai due pericoli di oggi: il sorgere di una «nuova ondata di antisemitismo, del tradimento delle sinistre, del rapido declino intellettuale e morale della civiltà occidentale» e la fase «consunzione e inaridimento» dell'ebraismo.
   Milano piange rav Laras, morto ieri a 82 anni, che fu rabbino capo dal 1980 al 2005 e con il cardinale Carlo Maria Martini - torinese come lui - fu promotore del dialogo di pace tra le religioni e tra credenti e non credenti, come ricorda Milo Hasbani, uno dei due presidenti della Comunità ebraica milanese. Rav Laras è stato un'autorità tra i rabbini europei. E ha dedicato buona parte della sua vita allo studio, la filosofia medievale e rinascimentale, il pensiero di Maimonide, fino alla Summa plurimillenaria del pensiero ebraico, dalla Bibbia a Hanna Arendt. Il Rav sarà sepolto in Eretz Israel, in Terra di Israele, come aveva chiesto. Dopo una cerimonia di commiato, oggi alle 13, nella sinagoga di via della Guastalla. Il sindaco Giuseppe Sala ha ricordato come Laras sia stato «una figura chiave nel dialogo ebraico-cristiano a Milano e in Italia». Si stringe alla Comunità anche la
   Casa della Carità che «è stata voluta dal cardinale Martini proprio come luogo di confronto, dove la parola è centrale. Per questo - scrive don Virginio Colmegna - in un tempo in cui spesso il confronto cede il passo allo scontro, la perdita del rabbino Laras ci addolora e interroga tutti noi». E lo ricorda Stefano Parisi, di Energie per l'Italia: «La sua scomparsa priva l'Europa di un maestro. Milano, che è stata la città elettiva di Laras, ha il dovere di promuovere la conoscenza del suo insegnamento». Nella sua lettera-testamento rav Laras ricorda che «la distruzione degli ebrei d'Europa ha sfiorato la mia esistenza, segnandola per sempre». Aveva nove anni: nel 1944 i fascisti bussarono alla porta della nonna, a Torino, dove con la mamma si era rifugiato. Si salvò per miracolo. «Con lui se ne va un maestro che ha vissuto da protagonista gli ultimi anni della nostra storia», conclude Davide Romano, assessore alla Cultura della comunità.

(Corriere della Sera - Milano, 16 novembre 2017)


«Mia madre, la signora dello zoo di Varsavia ha salvato tanti ebrei solo perché era giusta»

Teresa Zabinska è la figlia di Antonina, interpretata nel film da Jessica Chastain: «Non era un'eroina, ma una donna perbene».

di Francesca Nunberg

Una storia di speranza nel buio della Shoah, un'ambientazione insolita ma straordinariamente cinematografica e il coraggio nascosto nei dettagli quotidiani. «Jessica ha voluto sapere com'era mia madre, come si vestiva, le ho raccontato che non portava mai i pantaloni anche se lavorava con gli animali, che usava sempre il rossetto, che quando i tedeschi sparavano alle cornacchie per divertirsi, lei le raccoglieva e ne faceva conserve di carne per nutrire i suoi ospiti.;». Non erano ospiti qualsiasi quelli che a Varsavia dal 1939 al '45 si nascosero nella casa di Antonina e Jan Zabinski e di cui oggi la loro figlia Teresa parla ancora con commozione. Lei all'epoca era piccola e i suoi ricordi risalgono al dopoguerra, ma negli anni ha ascoltato e riascoltato queste storie. E Jessica Chastain le ha volute conoscere da lei prima di calarsi nel personaggio di Antonina Zabinski. Esce oggi, distribuito da M2 Pictures, La signora dello zoo di Varsavia diretto dalla regista neozelandese Niki Caro e interpretato da Jessica Chastain e Johan Heldenbergh nel ruolo di custodi dello zoo e Daniel Brühl in quello dello zoologo nazista.

 Animali in fuga
  Teresa Zabinska, che ha 73 anni e fino a 10 ha continuato ad abitare nella "villa" del giardino zoologico, è a Roma per la presentazione del film tratto dal best-seller di Diane Ackerman, a sua volta basato sui diari di Antonina. Quello che soprattutto tiene a dire è che i suoi genitori «non erano eroi ma persone oneste che hanno fatto solo quello che ritenevano giusto, e che ogni volta che qualcuno ha bisogno di aiuto abbiamo il dovere incondizionato di darglielo».
  Questa la storia: siamo nella Polonia del '39 invasa dai nazisti, le bombe su Varsavia non risparmiano lo zoo gestito da Antonina e Jan Zabinski. Elefanti, zebre e giaguari scappano (gli animali di scena sono tutti veri, tranne un elefantino appena nato) e la coppia si ritrova a salvare le poche bestie sopravvissute, nonché a subire le nuove politiche del capo zoologo del Reich, Lutz Heck, attratto dalla bella Antonina. Quando comincia la persecuzione degli ebrei, i due coniugi decidono di collaborare con la Resistenza: le gabbie e le gallerie sotterranee degli animali possono servire a nascondere fuggiaschi, così mettono in atto un piano per salvare gli ebrei del ghetto di Varsavia. Jan è autorizzato a entrare con un camion, nasconde i bambini sotto l'immondizia e li porta fuori, Antonina sistema i poveretti nei sotterranei, li accudisce, suona il piano come segnale di pericolo, mettendo a rischio la vita sua e dei suoi figli, il maschietto Ryszard e la piccola Teresa.
  «Non si sa esattamente quante persone riuscirono a salvare - spiega Teresa, che fa un piccolo carneo all'inizio del film - si parla di 300 ebrei, ma non erano solo ebrei, anche disabili e membri della resistenza polacca - Il numero è impreciso, alcuni stavano poche ore in attesa di documenti falsi, altri giorni, altri mesi. Comunque, tutti gli ospiti dello zoo si salvarono. Nonostante i tedeschi avessero proprio lì un magazzino di armi e fossero sempre di guardia». Dopo la guerra lo zoo ha riaperto, la villa degli Zabinski è diventata un museo, Antonina e Jan sono stati nominati da Israele "Giusti tra le Nazioni".

(Il Messaggero, 16 novembre 2017)


“Israele il cancro” colpisce ancora

Riceviamo e diffondiamo

Alla c.a. della Preside Prof. Patrizia D'Incalci

Gentile Preside,
siamo stati informati che oggi verrà proiettato nel Liceo Michelangiolo da Lei diretto il documentario "Israele il cancro". Si tratta di un lavoro intriso del più ripugnante antisemitismo, la cui proiezione è stata in molte occasioni bloccata dai responsabili delle istituzioni pubbliche presso le quali si voleva presentarlo. Ricordo in particolare l'intervento del Rettore dell'Università di Firenze Luigi Dei nell'autunno 2016, presso il Polo delle Scienze Sociali, che impedì la proiezione pubblica dell'ignobile documentario. Siamo certi che Lei farà tutto quanto in suo potere per impedire che di fronte ai giovani si metta in atto questo tentativo di incitamento all'odio razziale.
Con stima,
Prof. Valentino Baldacci
Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 16 novembre 2017)


Notizie archiviate



Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.