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Gerusalemme adesso teme un altro sgambetto di Obama
Il rischio è una nuova risoluzione Onu in settimana
di Giordano Stabile
GERUSALEMME - Un colpo di coda dell'Amministrazione Obama che «pianterà l'ultimo chiodo nella bara del processo di pace». Vista da Gerusalemme Parigi è lontana, e la Conferenza è il dispetto finale di un presidente che cerca soltanto di ostacolare i cambiamenti promessi da Donald Trump, primo fra tutti lo spostamento dell'ambasciata americana nella Città Santa. Israele ha cercato prima di ignorare, far passare sotto traccia il summit voluto dal presidente francese François Hollande. Ma nel giorno del vertice il fuoco di sbarramento si è fatto più intenso. Gli ambienti diplomatici temono una nuova risoluzione Onu prima della scadenza del mandato di Obama.
Per l'ex ambasciatore negli Stati Uniti Michael Oren la stessa conferenza «non sta in piedi, è assurda». È come, ha sintetizzato, «se Israele tenesse un summit sullo status di un dipartimento d'oltremare francese, ma senza la Francia, e dichiarasse che l'unica soluzione è l'indipendenza» di quel territorio.
Ma è soprattutto la possibile iniziativa all'Onu a destare preoccupazioni. Danny Danon, ambasciatore al Palazzo di Vetro ha avvertito che «i sostenitori dei palestinesi stanno cercando nuove misure anti-Israele».
Ma ci sono anche preoccupazioni per i contenuti della Conferenza. Soprattutto sulla rigidità per quanto riguarda i confini del 1967: «Non c'è niente di più assurdo che considerare il Muro del Pianto e il Quartiere ebraico nella città vecchia di Gerusalemme come "territori palestinesi occupati"», spiega una fonte diplomatica a Gerusalemme. E ci sono forti dubbi anche sulla reale volontà di Abu Mazen di arrivare a un accordo. Nel 2008 l'ex premier Ehud OLmert «aveva offerto il 97 per cento» della Cisgiordania, ricorda la fonte, e il presidente palestinese aveva rifiutato. Benjamin Netanyahu, che ha bollato come «futile» la Conferenza, non è certo disposto a offrire di più ma è anche vero che tutti i suoi inviti a far ripartire i colloqui bilaterali «sono caduti nel vuoto».
Il governo israeliano insiste sulla necessità di «scambi di territori». Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha proposto che avvenga anche con zone «degli arabo-israeliani» in modo da conservare però Gerusalemme Est, dove gli abitanti ebrei sono ormai 150 mila contro 250 mila palestinesi. Lieberman - che a differenza di Netanyahu è contrario alla soluzione «due popoli, due Stati» prevista dagli accordi di Oslo - ha anche offerto un «grande piano di sviluppo per la zona C», la parte dei Territori sotto controllo diretto israeliano, per «migliorare le condizioni di vita dei palestinesi».
Il vero nodo resta però Gerusalemme. La promessa di Trump di spostare qui l'ambasciata Usa è vista come primo passo del riconoscimento della Città Santa come capitale «unica e indivisibile» dello Stato Ebraico. La dichiarazione finale di Parigi, che non insiste sullo stop agli insediamenti ebraici nei Territori, è stata accolta con sollievo dal governo Netanyahu. Ma restano paure per il colpo di mano finale di Obama. L'ipotesi che circola, spiega l'editoralista Seth J.Frantzman del Jerusalem Post, è che «il testo finale di Parigi venga trasformato in una risoluzione e portata all'Onu». Kerry ieri sera ha tranquillizzato il premier israeliano su questo punto ma i cinque giorni che separano dall'avvento dell'era Trump sembrano ancora lunghissimi.
(La Stampa, 16 gennaio 2017)
L'ideologia di Obama contro Israele
Tutto si riduce a una guerra tra oppressori e oppressi
da The American Spectator (12/1)
Quando i giochi saranno fatti, ci sarò io a coprire le spalle di Israele, aveva promesso Obama all'Aipac", scrive Ziva Dhal, "Quattro anni dopo non ha più bisogno dei voti ebraici o dei dollari, e ha deciso di sostenere pubblicamente i palestinesi. Obama ha colpito al cuore Israele, consentendo il passaggio della risoluzione delle Nazioni unite 2334, dichiarando che i territori biblici di Giudea e Samaria (ovvero la Cisgiordania), la patria ancestrale in cui gli ebrei hanno vissuto e pregato per 3000 anni, sono tutti territorio palestinese. Qualsiasi insediamento ebraico è illegale e deve finire.
L'azione di Obama ha invertito 44 anni di politica americana che aveva usato il suo diritto di veto per proteggere Israele dagli sciacalli del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Settant'anni di rifiuto palestinese al diritto dello stato ebraico di esistere non importano a Obama. Certamente sa che gli arabi palestinesi hanno respinto le risoluzioni nel 1947, 2000, 2001, e nel 2008. Sa che l'Olp è stata fondata nel 1964 con lo scopo di liberare la Palestina attraverso la lotta armata, cioè eliminare Israele. Sa che Israele ha evacuato tutti i suoi insediamenti a Gaza, nella creazione di uno stato palestinese de facto, e che è stato premiato per questo con la creazione di uno stato di terrore da parte di Hamas. E sa che Israele ha rispettato la sua richiesta di fermare la costruzione degli insediamenti nel 2010, ma i palestinesi ancora si rifiutano di partecipare al tavolo dei negoziati.
Allora perché Obama agisce a dispetto dei fatti storici e della logica?". Scrive Dhal che nella sua autobiografia, "Dreams from My Father", il presidente americano "sceglie suo padre, Barack Hussein, un anticolonialista dichiarato e socialista, come modello. Abbraccia un'idea progressista che divide il mondo in colonizzatori e colonizzati, carnefici e vittime, potenti e impotenti. I deboli hanno l'illimitato diritto di 'resistere', con qualsiasi mezzo. Obama e gli altri postcolonialisti danno la colpa delle diseguaglianze del mondo al fallimento morale della civiltà occidentale- il suo nazionalismo, il colonialismo, il razzismo - e sostengono l'impegno politico a favore degli oppressi e degli sfruttati".
L'occidente quindi sarebbe "intrinsecamente malvagio, mentre la purezza e la bontà risiedono in altre culture. Vedono il mondo non come poveri contro ricchi o lavoratore contro capitalista, ma come 'persone di colore' contro 'l'uomo bianco'. I postcolonialisti considerano gli ebrei di Israele parte della classe di bianchi oppressori, 'coloni ebrei' e 'occupanti', e quindi quella parte di medio oriente arabo appartiene di diritto ai palestinesi oppressi. L'odio ossessivo contro Israele, di conseguenza, è 'giustificabile'. Visto attraverso questa lente, Obama, come altri di sinistra, considera sia Israele sia l'America colpevoli di quello che ritiene l'oppressione dei palestinesi e l'occupazione della loro terra. Ironia della sorte, anche se il suo obiettivo è quello di creare uno stato palestinese, le sue azioni presso le Nazioni unite fanno sì che sia più improbabile che mai".
(Il Foglio, 16 gennaio 2017)
Lettera aperta a Papa Bergoglio
di Deborah Fait
Le scrivo perché sento un gran peso sul cuore a causa delle enormi ingiustizie e delle menzogne di cui è oggetto Israele, il mio Paese, il Paese degli ebrei. C'è chi ha cercato di scoraggiarmi dicendo che Lei, occupato com'è, non leggerà mai questa lettera, può essere, ma io ho fiducia perché, come diceva l'ebreo Gesù (Ieshua in ebraico), le vie del Signore sono infinite.
Papa Francesco, Lei ieri ha ricevuto in Vaticano, con grande cordialità, abbracci e sorrisi di simpatia (e con i corpi dei nostri ragazzi ancora caldi dall'ultima strage a Gerusalemme) il mandante dell'attentato, Abu Mazen. Un uomo che ha iniziato la sua carriera con una tesi di laurea che negava la Shoà, che l'ha continuata come braccio destro di un terrorista seriale quale era Arafat, complice di ogni attentato organizzato dal suo capo contro gli ebrei in Europa, addirittura finanziatore della strage alle Olimpiadi di Monaco nel 1970. Quest'uomo, Mahmud Abbas (Abu Mazen è il nome di battaglia), è presidente dell'ANP dal 2005, doveva indire elezioni nel 2009 ma nel 2017 è sempre lui a capo dell'Autorità palestinese, impedendo con la forza di concedere il voto ai palestinesi. Quest'uomo, Papa Francesco, è un dittatore che sottomette la sua gente usando il pugno di ferro, le condanne e la galera per i giornalisti e la pena di morte per chiunque osi ribellarsi al regime, è un uomo corrotto che affama il popolo costruendo per sé ville principesche. Abu Mazen è l'uomo che dedica piazze e scuole ai terroristi, è l'uomo che mantiene a vita le loro famiglie, è l'uomo che ordina il lavaggio del cervello dei giovani palestinesi insegnando loro ad odiare Israele e gli ebrei, incominciando dalla scuola materna. I bambini palestinesi imparano che Israele non esiste, che gli ebrei sono scimmie e maiali da sgozzare.
Ogni bambino palestinese, se intervistato, ha tra i suoi sogni il voler diventare martire uccidendo gli ebrei. E' quasi sempre questa la risposta alla domanda "cosa farai da grande?" Eppure Lei, Papa Francesco, lo ha definito angelo della pace, uomo di pace, Lei ha celebrato messa a Betlemme sotto una gigantesca immagine di Gesù bambino avvolto in una kefiah ben sapendo che Gesù non poteva indossare nulla del genere perché all'epoca i cosiddetti palestinesi non esistevano, né esisteva l'islam e gli arabi erano solamente tribù idolatre disperse nell'immenso deserto arabico. Ieri , durante il vostro amichevole e allegro incontro, Abu Mazen Le ha regalato un quadro rappresentante Gesù e una pietra del Calvario, ancora una volta il dittatore palestinese ha voluto appropriarsi della figura dell'ebreo Gesù. Ha anche detto che mai permetterà che Trump trasferisca l'ambasciata USA a Gerusalemme e che, se lo facesse, arriveremmo sull'orlo del burrone. Minacce di un uomo che illegittimamente si arroga del titolo di presidente. Minacce e intimidazioni di un uomo dalle mani grondanti sangue. Ma Lei, il Papa, ha taciuto.
Mesi fa l'UNESCO ha decretato che tutti i luoghi santi del Popolo ebraico dovranno essere chiamati con nomi arabi, depredando così gli ebrei della loro cultura e della loro tradizione millenaria. Il Monte del Tempio, il Muro del Pianto (Kotel), le Tombe dei patriarchi e Matriarche, la Tomba di Rachele, la Tomba di Giuseppe, tutti i nostri luoghi sacri, luoghi non solo di fede ma di storia, 4000 anni di storia ebraica, sono stati cancellati. Preludio alla cancellazione di Israele. Lei, Papa Francesco, non ha detto una sola parola in difesa delle tradizioni ebraiche e dei diritti degli ebrei di andare a pregare nei luoghi che parlano della loro spiritualità e della loro storia. Se un ebreo riesce a salire sul Monte del Tempio, il sito più sacro in assoluto, non può avere nessun testo sacro né deve muovere le labbra, pena l'arresto immediato, se non peggio, tiri di pietre e violenza fisica. Sarebbe come impedire la preghiera ai fedeli cristiani in San Pietro.
Le sembra giusto Papa Francesco? Eppure Lei non ha mai proferito verbo, Lei non ha mai sprecato una sola parola in difesa del diritto degli ebrei. Lei, capo della Cristianità, una delle personalità più importanti, se non la più importante del mondo, ha permesso che la prepotenza, la dittatura, l'intolleranza e la prevaricazione palestinese avessero la meglio su giustizia, democrazia e libertà di culto. Lei ha permesso che la storia del popolo più perseguitato della terra venisse letteralmente stuprata togliendo volutamente ad ogni ebreo le proprie radici. Senza radici non esiste popolo, questo è l'obiettivo di chi vuole eliminarci.
E' mai possibile, Papa Francesco, che il male della Chiesa che poi è il male del mondo, l'antisemitismo, sia ancora così vivo al punto da voler distruggere Israele a 75 anni dal tentativo quasi riuscito con la Shoah di eliminare il popolo ebraico dalla faccia della terra. Come Lei saprà, il Vaticano si è sempre rifiutato di riconoscere l'esistenza di Israele, per 45 anni, a partire dal 1948. Il riconoscimento è arrivato, grazie a Giovanni Paolo II, solamente dopo gli accordi di Oslo.
Israele è, dal giorno della sua sua fondazione, uno stato sovrano, una democrazia, una nazione eletta con i voti delle Nazioni Unite, quando erano ancora un'istituzione democratica, più legittimo di così, eppure niente da fare, il Vaticano aveva Nunzi apostolici nelle teocrazie più terribili, nelle dittature più feroci mentre Israele non ne aveva il diritto. Una vergogna, ne conviene Papa Francesco? Eppure a fronte di tanta difficoltà ad accettare l'esistenza di un Paese democraticamente eletto, a fronte di tanta vergognosa ostilità, ecco la sollecitudine di aprire in Vaticano l'ambasciata di un paese che non esiste, di una nazione che mai è esistita nella storia del mondo, di un paese che, se esisterà in futuro, sarà una dittatura feroce e belligerante. Queste sono le ingiustizie che non è possibile accettare anche perché vanno sommate a una lunga storia di persecuzioni e massacri di un popolo innocente che non chiedeva altro che di vivere tranquillo professando la propria fede, in silenzio, stando ben attenti a non disturbare. Un popolo che non si è mai ribellato ai soprusi. E' mai possibile continuare a perseguitarci senza il pur minimo senso di colpa, senza vergogna?
Ieri, domenica, si è aperta a Parigi la conferenza per "la pace tra Israele e palestinesi". Sappiamo come finirà, i 70 paesi presenti, memori anche degli abbracci del Papa al sedicente presidente palestinese e dell'inaugurazione in Vaticano di un' ambasciata che rappresenta il paese che non c'è e un popolo inventato, metteranno Israele contro il muro, pronto per la fucilazione. E' tragico, la Shoà ha ammazzato 6 milioni di ebrei e, in Israele, dopo 75 anni, ve ne sono altri 6 da eliminare, complice il mondo intero, Vaticano compreso, esattamente come la volta scorsa quando Pio XII di fronte alla deportazione degli ebrei di Roma, si è voltato dall'altra parte. La storia si ripete, Papa Francesco, con tutti i suoi orrori, le sue terribili ingiustizie, la forza diabolica dei cattivi. Il 27 gennaio questo mondo ipocrita piangerà per il Popolo ebraico assassinato dal nazismo, io spero che Lei, Papa Bergoglio, dopo aver abbracciato con tanto affetto colui che auspica un secondo Olocausto, si astenga, come dovrebbero fare molti altri capi di stato, dal commemorare gli ebrei morti dal momento che non fate altro che offendere, minacciare, umiliare, desiderare la morte degli ebrei vivi in Israele. Le ricordo le due parole che noi ripetiamo spesso con molta decisione "MAI PIU'". E mai più sarà, Papa Bergoglio. I miei ossequi.
(Inviato dall'autrice, 16 gennaio 2017)
Un test sulla faziosità anti-israeliana
Ispirato al test di Sharansky per separare critica legittima da ostilità pregiudiziale, il test-MO indica se un'analisi del processo di pace è pregiudizialmente contro Israele.
Natan Sharansky, l'attivista per i diritti umani ex detenuto in Unione Sovietica, oggi presidente dell'Agenzia Ebraica, ha indicato un "test 3-D" per separare la legittima critica alle politiche d'Israele dall'antisemitismo pregiudiziale diretto contro lo stato ebraico. Israele viene demonizzato (ecco la prima D) quando le critiche "superano ogni proporzione ragionevole". Israele subisce una doppia morale (seconda D) quando viene criticato e condannato mentre non lo sono altri paesi colpevoli di azioni di gran lunga peggiori. Israele viene delegittimato (terza D) quando viene messo in discussione il suo stesso diritto di esistere. Questo test proposto da Sharansky è istruttivo, si concentra sulle giuste questioni ed è mnemonicamente pratico.
Nello spirito del test 3-D, propongo un "test-MO" per valutare analisi e prese di posizione che si propongono di affrontare i problemi legati al processo di pace israelo-palestinese. Applicare questo test-MO è semplice e può rivelare il modus operandi del medio-orientalista di turno, in particolare per quanto riguarda la possibilità che il suo approccio analitico sia macchiato da un iniquo pregiudizio contro Israele....
(israele.net, 16 gennaio 2017)
Ucid: una serata interreligiosa nella Sinagoga di Milano
MONZA - Incontri interessanti ne fa davvero tanti. Ma l'Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) di Monza e Brianza settimana scorsa ha vissuto un'esperienza unica con la visita in Sinagoga e la cena con il Rabbino Capo Rav Pedatzur Arbib
Visitare una sinagoga e cenare con un rabbino non è certo cosa da tutti i giorni. Una serata prestigiosa e indimenticabile quella vissuta dai soci dell'Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) di Monza e Brianza che giovedì sono stati ospiti a Milano della comunità ebraica di via della Guastalla.
Una serata insieme al Rabbino Capo Rav Pedatzur Arbib che dopo aver aperto le porte della Sinagoga nel cuore di Milano ha illustrato la storia e le tradizioni del popolo ebraico rispondendo alle numerose curiosità degli ospiti. Una serata iniziata con un aperitivo in tipico stile "kasher" e poi proseguita con la visita del Tempio. Un tempio che risale all'Ottocento ma che è stato sottoposto a diversi interventi di restauro, gli ultimi negli anni Novanta.
"La comunità ebraica milanese è tra le più giovani in Italia - ha spiegato - Il primo tempio a Milano è quello di via Della Stampa, ricavato inizialmente nella casa del Rabbino, per poi svilupparsi e ampliarsi nel corso del tempo".
A Milano gli ebrei sono circa 8 mila, seconda comunità dopo quella di Roma. Ben più piccole rispetto alle grandi comunità presenti in Europa, soprattutto a Parigi e a Londra.
Un tuffo nella storia, nelle tradizioni e soprattutto nella cultura e nella quotidianità del popolo ebraico quella regalata dal Rabbino Capo agli ospiti brianzoli. Rav Pedatzur Arbib ha spiegato le regole principali della religione, l'organizzazione interna del Tempio, della società e in particolare della famiglia, ripercorrendo anche - ma solo marginalmente - il dramma della Shoah che ha visto lo sterminio di milioni di ebrei e la diaspora dalla propria terra.
Grande l'interesse soprattutto quando ha illustrato le ferree regole all'interno della società ebraica. "Un vecchio ebreo russo vissuto a lungo a Milano diceva che in una comunità ebraica se sei povero non ti fanno morire ma sei ricco non ti fanno vivere - ha spiegato - C'è una grande solidarietà interna, il ricco sa che deve dare, che deve aiutare". Tra gli aspetti fondanti anche quello della cultura. "Studiare non è una scelta ma fa parte della vita ebraica - ha precisato - Lo studio è di fondamentale importanza e il Rabbino è uno studioso che deve insegnare". La centralità del sapere e della conoscenza sono state espresse perfettamente da un altro aneddoto raccontato dal Rabbino Capo "l'ambizione del ricco ebreo polacco è che la figlia sposasse un uomo studioso".
Sfatando anche stereotipi intorno al popolo d'Israele. "In primis quello sulla ricchezza. Non tutti gli ebrei sono ricchi. La ricchezza non viene demonizzata ma il ricco sa che deve dare alla comunità". Altra idea diffusa ma non veritiera è quella dell'unità. "Il popolo ebraico ha un profondo senso di appartenenza - ha precisato - Ma anche una straordinaria capacità di litigare su qualsiasi cosa".
Un tuffo in una storia millenaria e in una cultura tanto diversa dalla nostra e molto affascinante che ha catalizzato l'attenzione degli ospiti che al termine della visita in Sinagoga si sono riuniti in un'altra sala per la cena "kasher" introdotta dalla duplice benedizione: quella ebraica del Rabbino e quella cattolica di Monsignor Silvano Provasi.
Numerose le domande al termine della cena: i rapporti con Israele, le regole pratiche che ogni giorno gli ebrei devono rispettare e la condizione della donna. Con una concezione di differenza tra i due sessi, tra loro comunque complementari. Con una divisione anche fisica all'interno della Sinagoga, con ruoli ben distinti anche se, sempre più spesso, importanti cariche accademiche vengono ricoperte dalle donne.
(Qui Brianza, 15 gennaio 2017)
Gli ebrei nel Salento: tracce di un connubio
di Rosario Coluccia
Nell'ultimo decennio del sec. XIV Sabatino Russo, un mercante ebreo di Lecce (più volte si autodefinisce «judìo de Leze» ), organizza con il veneziano Biagio Dolfin una società per commerciare in Levante. Dopo un avvio favorevole, il rapporto va male perché una nave carica di frumento, di formaggio e di carne salata destinati a essere venduti viene assaltata dai predoni: si trovava «ìntru lu portu di Nyrdò» (verosimilmente l'odierna Santa Maria al Bagno, o forse Santa Caterina), salpa per rifugiarsi a Taranto (luogo più sicuro, il Mar Piccolo si difende meglio), viene raggiunta dagli assalitori perché «mancò lu ventu e ffo bynaza» ('mancò il vento e fu bonaccia'), viene depredata, con conseguente perdita dell'intero carico (e quindi delle somme investite). Questi fatti vengono riferiti dallo stesso Sabatino Russo in cinque lettere, verosimilmente autografe, indirizzate a Biagio Dolfin in Venezia, nel periodo compreso tra il 7 maggio 1392 e il 18 ottobre 1403. Ma forse le cose non andarono proprio così. Sulla verità delle affermazioni del Russo insinua pesantissimi dubbi una sesta lettera di un altro scrivente salentino, Mosè de Meli (anch'egli ebreo, a giudicare dal nome), il quale rivela al veneziano Dolfin come in realtà il Russo l'abbia truffato, fingendo che ci sia stato il furto della merce e appropriandosi invece dei denari della compagnia.
Non sapremo mai come sono effettivamente andate le cose tanti secoli addietro, non esiste altra documentazione, oltre alle lettere di Sabatino Russo e di Mosè de Meli conservate nell'Archivio di Stato di Venezia. Nulla che ci aiuti a capire si trova a Lecce e in Salento, questa è una costante della nostra storia: pochissime sono le memorie scritte o i documenti rimasti in sede, moltissimo è andato disperso o distrutto. Quello che si è salvato si deve, paradossalmente, al fatto che sia stato portato o trafugato altrove, dove altri hanno saputo custodire e conservare quello che questa terra ha trascurato. Conclusione. La storia linguistica e culturale del Salento medievale non si può fare in loco, i documenti salentini da leggere e da studiare si trovano altrove, nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, nella Biblioteca Comunale "Augusta'' di Perugia, nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, nella Bibliothèque Nationale de France a Parigi, o ancora più lontano.
In un'altra occasione spiegherò come questo sia accaduto: capire alcuni frammenti del passato serve a illuminare il presente, molto spesso la storia si ripete. Con questi presupposti potremmo chiederci se davvero oggi salvaguardiamo in maniera adeguata tradizioni, cultura e ambiente del Salento, di cui a parole meniamo vanto. Di questo vorrei che parlassero quelli che si candidano ad amministrare la città, ma non trovo nulla di concreto nei programmi dei possibili candidati. A proposito: sapranno esprimere candidati credibili ed efficienti i gruppi dirigenti delle parti in campo? Terranno alla larga arrivisti e imbroglioni? Non serve questo, più d'ogni cosa, alla città?
Torniamo ai nostri ebrei salentini dei secoli scorsi da cui siamo partiti. La storia dei gruppi di lingua ebraica stanziati in Salento si interseca di continuo con quella della popolazione locale e costituisce un fenomeno affascinante di convivenza, a volte non violenta a volte intollerante, di etnie diverse. Fin dall'alto Medio Evo (e anzi già da epoca tardo-latina), una fitta rete di insediamenti ebraici si dirama in tutto il Mezzogiorno e particolarmente in Puglia, terra che rappresenta un vero fulcro della vita culturale e religiosa degli ebrei italiani.
Nelle città pugliesi si esercita l'attività di grandi scuole talmudiche, si costituiscono importanti biblioteche, si scrivono opere cronachistiche e storiografiche, filosofiche, e nasce una poesia religiosa poco nota ma non indegna, dove affiora anche qualche personalità di un certo interesse. Alla fine del sec. XIII, sotto il governo degli Angioini, l'etnia ebraica viene sottoposta a persecuzione violenta. Il fatto determina la crisi di questo fiorente mondo culturale, in parte arginata nella seconda metà del Quattrocento, sotto il più tollerante dominio degli Aragonesi: al recupero del prestigio economico-sociale di tali comunità si accompagna una ripresa della produzione scrittoria.
Proprio in questo campo si segnala la figura del facoltoso leccese Abraham de Balmes, nel 1452 medico del principe Giovanni Antonio del Balzo Orsini (quello della Torre del Parco, per capirci), successivamente nelle grazie degli Aragonesi intorno al 1470 e morto nel 1488-89. Quasi sicuramente il personaggio va identificato in quel maestro Habraam medico leccese di cui il francescano Roberto Caracciolo (1425- 1495), uno dei più grandi predicatori del Quattrocento, amico di sovrani e di principesse, parla con tono greve in uno dei suoi accessi di polemica antiebraica contenuto in una sua opera teologica, lo Specchio della fede (1490). In questo scritto il Caracciolo insiste ripetutamente su temi antisemiti, e tra gli altri racconta il seguente episodio: «Ho provato io peccatore quanto puzano gli Iudei in due exempli. E lo primo exemplo fu trovandomi in Lezze: una donna Iudea mogliere di maestro Habraam medico, mi mandò a donare certe galline ben grasse, le quali io feci stare alcuni giorni e governarle bene, poi le volse mangiare. Quando furono poste in tavola mi venne tanto fetore che bisognò che le facesse portare via ( ... )». Considerate l'apologo. Gli ebrei, che non conoscono la vera fede, puzzano, addirittura puzzano le galline da loro donate: vanno insieme puzzo metaforico (la falsa fede) e puzzo reale (i corpi di uomini e di animali), tanto più repellenti se si pensa al profumo che si diffonde dal corpo incorrotto dei santi, anche dopo la morte.
Caracciolo faceva a suo modo il suo mestiere, si proponeva di difendere la fede cattolica denigrando volgarmente gli ebrei: non è un metodo elegante, ma ci siamo abituati. Nella vita reale, per interi secoli, gli ebrei hanno ricoperto a Lecce ruoli importanti nel contesto della vita cittadina, ce lo ricorda anche la toponomastica: via Abramo Balmes, via della Sinagoga, nell'area dell'antico ghetto ebraico ammiriamo ora la grandiosa basilica cattolica di Santa Croce. A un passo da Santa Croce sorge (e in parte s'interra) Palazzo Taurino, un bel museo che raccoglie le testimonianze della presenza ebraica in Salento, a partire dalle fasi remote.
Il museo è privato. Un gruppo di amici ha creato un allestimento permanente in grado di riportare alla luce le tracce dell'antico insediamento ebraico presente nella Lecce medievale; si è avvalso della collaborazione di esperti, in particolare di Fabrizio Lelli, che insegna Lingua e letteratura ebraica presso l'Università del Salento. I locali del museo sono quelli della antica Sinagoga. Il percorso del visitatore attraversa la sala delle vasche, la sala ipogea dei bagni, la sala del granaio, l'area dei laboratori; efficaci pannelli illustrativi bilingui in italiano e in inglese richiamano personaggi, testi, usanze, riti del popolo ebraico. In una sala in fondo, un video è dedicato alle vicende più recenti: alla fine della seconda guerra mondiale molti ebrei che si erano rifugiati in Salento coronarono il loro sogno, riuscirono a raggiungere il neonato stato d'Israele.
Ho consultato rapidamente un registro esposto al pubblico per raccogliere le firme e i commenti dei visitatori del museo. Molti stranieri, pochi italiani, ancor meno salentini e leccesi. Peccato, si può fare di più. La visita è interessante, mostra un pezzo semisconosciuto del nostro passato che è giusto conoscere. Per fortuna non sono poche le scuole che scelgono di visitare il museo, con l'aiuto dei responsabili del museo docenti illuminati guidano i ragazzi, spiegano, rispondono alle domande. Queste sì che sono gite d'istruzione.
(*) Professore Ordinario di Linguistica italiana e Accademico della Crusca
(Quotidiano di Puglia, 15 gennaio 2017)
Trovato in un campo di sterminio un ciondolo legato ad Anna Frank
Ricercatori dello Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, hanno reso noto oggi di aver trovato un ciondolo molto simile a quello di Anna Frank durante gli scavi nel campo di sterminio nazista a Sobibor, in Polonia.
Il ciondolo apparteneva a Karoline Cohn, nata, come la ragazzina del famoso e commovente diario, a Francoforte nel 1929 e morta proprio a Sobibor. I ricercatori fanno notare che non è mai stato trovato un altro ciondolo come questi due e ciò potrebbe far pensare che le due ragazzine siano state in qualche modo legate tra loro.
Il ciondolo di Karoline è triangolare e su un lato reca la scritta ebraica "Mazal Tov" ("Buona fortuna" in ebraico) e la sua data di nascita. Sull'altro lato ci sono tre Stelle di David e la lettera ebraica "?" che indica Dio.
L'Israel Antiquities Authority sta effettuando scavi a Sobibor dal 2007 e ha tra l'altro scoperto le fondamenta della camera a gas. Sono più di 250.000 gli ebrei che qui trovarono la morte.
(La Stampa, 15 gennaio 2017)
Netanyahu sulla Conferenza di Parigi: "Così non serve alla pace"
"Un completo caos su quale sarà la dichiarazione finale". Secondo le indiscrezioni riportate dai media israeliani, tra i diplomatici raccoltisi a Parigi in queste ore per la Conferenza di pace in Medio Oriente c'è una forte confusione su quale testo far emergere dal summit, organizzato dalla Francia e incentrato sulla questione del conflitto israelo-palestinese. Un vertice a cui partecipano i rappresentanti di oltre 70 paesi ma tra cui spicca l'assenza dei diretti interessati - israeliani e palestinesi - seppur per motivi diversi: se Abu Mazen ha appoggiato la Conferenza, definendola "l'ultima possibilità per portare avanti la soluzione dei due Stati", il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha invece sottolineato come si tratti di un incontro schiacciato sulle posizioni palestinesi e di fatto inutile. "L'unico scopo (della Conferenza) è quello di tentare di costringere Israele ad accettare condizioni in contrasto con i nostri interessi nazionali", ha affermato Netanyahu, spiegando che il summit "danneggia la possibilità della pace, in quanto rafforza il rifiuto dei palestinesi di negoziare e permette loro di ignorare la necessità di compromessi senza porre precondizioni". Il fatto che il ministro degli Esteri francesi Jean-Marc Ayrault abbia dichiarato che il punto di partenza della Conferenza sia la Risoluzione 2334 delle Nazioni Unite, - fortemente contestata da Gerusalemme e dalla larga maggioranza del mondo ebraico - evidenzia quale sia la direzione del summit e il perché delle affermazioni di Netanyahu.
Quello che chiede la diplomazia israeliana, anche attraverso i suoi canali social, è che da Parigi emerga una chiara dichiarazione contro l'istigazione alla violenza e al terrorismo da parte della realtà palestinese. Elemento su cui, tra le altre cose, la risoluzione 2334 dell'Onu non si è invece espressa.
(moked, 15 gennaio 2017)
Se il Papa abbraccia un falso uomo di pace
Aperta in Vaticano l'ambasciata di un Paese che non esiste e dove si vessano i cristiani
di Fiamma Nirenstein
Dopo lo stupefacente successo di pochi giorni fa all'Onu con la supervisione oculata di Obama, è difficile sottrarsi alla sensazione che la visita di Abu Mazen da Papa Francesco sulla strada per Parigi dove partecipa oggi alla Conferenza voluta dal presidente Hollande cui sono invitati più di 70 ministri degli esteri all'evidente scopo di mettere Israele all'angolo, non sia parte della medesima passeggiata trionfale per cui si sono mobilitati molti leader occidentali.
Perché per quanto si sventolino le bandiere della pace e della lotta al terrorismo, un'occhiata anche superficiale alla politica di Abu Mazen rende molto difficile pensare che papa Francesco possa credere, se ha dei consiglieri informati, di avere abbracciato ieri l'uomo della pace in Medio Oriente. Di più: che sia un gesto utile quello fatto ieri di aprire un'ambasciata della «Palestina» in Vaticano. Un Paese che per ora non esiste è stato riconosciuto con i crismi della diplomazia, mentre per riconoscere Israele ci sono voluti quasi cinquant'anni e la grande coscienza europea dolente di papa Giovanni Paolo.
Dunque Abu Mazen nell'ambito di un'offensiva diplomatica a 360 gradi ha varcato ieri le soglie del
Vaticano, ha ricevuto abbracci e doni e la garanzia che il Papa vede la Palestina come uno Stato già formato e Abu Mazen come un personaggio da sostenere, un capo di Stato. Ma il Papa, che è uomo di esperienza, sa bene di che Stato si tratta: Abu Mazen domina il suo popolo col pugno di ferro dal 2005, le elezioni si sarebbero dovute tenere nel 2009 e invece si sono perse di vista, nessun Paese moderno e democratico potrebbe sopportare il regime di milizie che domina i territori palestinesi. Il ministro degli esteri Angelino Alfano, anche lui incontratosi ieri con Abu Mazen, ha vantato il dono dell'Italia di 240 milioni dal 2005 in aiuti, ma è stato sempre impossibile verificarne a fondo l'autentico utilizzo, mentre la ricchezza della leadership palestinese è nota e ostentata.
La parola d'ordine sullo sfondo della visita è stata «pace» e lo slogan «guerra al terrorismo»: ma è impossibile credere a Abu Mazen come autentico sostenitore della guerra al terrore. Si possono, certo, riportare le citazioni del suo ufficiale cordoglio per le stragi dei camion di Nizza e di Berlino, ma niente del genere si è avuto per il camion di Gerusalemme. La società palestinese è impregnata dell'impronta filo terrorista datagli prima dalla politica di Arafat e poi da quella di Abu Mazen.
Altrettanto necessario quanto una vera richiesta di impegno di pace contro il terrorismo da parte del Papa, sarebbe stata una verifica migliore delle intenzioni palestinesi verso i cristiani: i rapporti sono drammatici anche se Abu Mazen va alla messa di Natale a Betlemme: qui i pochi superstiti (dall'86 per cento negli anni Cinquanta a circa il 10 per cento oggi) raccontano pesanti discriminazioni specie verso le donne. Tanti cronisti, fra cui la sottoscritta, ne hanno raccontato in presa diretta. È una storia che la Chiesa conosce bene. E tuttavia ha mandato Abu Mazen a Parigi con una nuova medaglia. Perché?
(il Giornale, 15 gennaio 2017)
Bergoglio ne ha combinata un'altra
di Riccardo Ghezzi
Ops, l'ha fatto di nuovo. Papa Francesco ne ha combinata un'altra delle sue. Bergoglio, voce dei cattolici di tutto il mondo, ha voluto entrare a gamba tesa nei delicati scenari politici internazionali, prendendo una posizione forte che ora, fatalmente, dovrà rappresentare la posizione di tutto il mondo cattolico.
No, non ci siamo. L'insistenza per incontrare il leader dell'Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, non è solo un colpo basso nei confronti di Israele e degli ebrei, ma una indebita ingerenza della Santa Sede in una questione in cui persino il diritto internazionale fatica a raccapezzarsi.
Papa Francesco infatti non ha voluto un semplice incontro di cortesia tra due leader mondiali, com'è prassi e anche bon ton, ma ha addirittura desiderato ufficializzare il riconoscimento dello stato palestinese da parte del Vaticano.
E' un atto simbolico, che non ha praticamente alcun valore. Ma che ha un significato preciso e importante. Riconoscere lo stato palestinese significa sostanzialmente uscire dalla neutralità nel conflitto arabo-israeliano, schierandosi dalla parte dei nemici di Israele.
Questo ad un anno dalla storica apertura tra cattolici ed ebrei, suffragata dalla visita di Papa Francesco alla sinagoga di Roma. Il riconoscimento dello stato palestinese non è un gesto di neutralità, perché significa anticipare il diritto internazionale e soprattutto riconoscere uno stato palestinese a prescindere, a scatola chiusa e senza garanzie. Ossia, riconoscerlo anche se non ci sarà certezza che i palestinesi abbandonino la strada del terrorismo e la politica di aggressione nei confronti di Israele, anche se non cesseranno i razzi di Hamas e non sarà smantellata l'organizzazione terroristica che governa a Gaza e neppure l'ala militare di Fatah che spadroneggia in West Bank. Significa riconoscere la legittimità della Palestina anche se i palestinesi si rifiuteranno di riconoscere Israele.
La Santa Sede non ha chiesto nulla in cambio ai palestinesi e ad Abu Mazen. Nessuna garanzia. Proprio per questo il riconoscimento dello stato palestinese è una pericolosa violazione della neutralità, oltre che un'indebita ingerenza politica.
(Sostenitori delle Forze dell'Ordine, 15 gennaio 2017)
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Nazioni buone e nazioni cattive
Per il bene di Israele e per la pace nel mondo
Riguardo a Israele le nazioni si dividono in due: quelle buone e quelle cattive. Le cattive lo vogliono distruggere, le buone lo vogliono educare. Al discoletto Israele le nazioni buone dicono: se non vuoi che le cattive ti distruggano, devi fare quello che ti diciamo noi. Col passare del tempo però le cattive diventano sempre più cattive e le buone sempre più preoccupate. Non della cattiveria delle cattive, perché loro, che sono buone, non si permettono di giudicare le cattive. Si preoccupano invece di quello che causa la cattiveria. E scoprono che la causa si trova in Israele.
Le nazioni buone però continuano a distinguersi dalle cattive, perché queste vogliono distruggere Israele, mentre loro lo vogliono salvare. Vogliono salvarlo da sé stesso, dalla sua insensatezza che lo porta ad irritare i suoi vicini e a renderli aggressivi, con il rischio di provocare una nuova strage di ebrei.
Le nazioni buone hanno due obiettivi, entrambi buoni: la salvezza degli ebrei e l'ottenimento della pace. Con la sua politica - dicono - Israele mette a rischio entrambe le cose. L'esempio più grave è l'ottusa caparbietà con cui si ostina a voler tenere nelle sue mani il governo dell'intera Gerusalemme. In questo modo gli israeliani mettono a repentaglio la stabilità del mondo e sé stessi, perché i primi a pagarne le spese sarebbero proprio loro.
Le nazioni buone avvertono allora l'obbligo morale di fare qualcosa, non per distruggere Israele, ma per il suo bene e per la pace nel mondo. Una cosa sembra a loro sempre più chiara: non è possibile continuare a lasciare nelle mani degli ebrei il governo di Gerusalemme perché - pensano - prima o poi le nazioni cattive si avventeranno contro Israele e cercheranno di strappargli di mano il governo della Città Santa, spiritualmente rivendicata da tre grandi religioni. Con insensata ostinazione gli israeliani continuano invece a considerare Gerusalemme l'unica, eterna e indivisibile capitale del loro stato, addossandosi così il carico di una tremenda responsabilità internazionale che può condurre alla distruzione del loro stato e alla fine della pace nel mondo.
Per sventare la minaccia di un'aggressione violenta a Israele da parte delle nazioni cattive, le nazioni buone si mobilitano allora per convincere le Nazioni Unite a farsi carico in proprio del governo di Gerusalemme, togliendolo dalle mani degli insensati ebrei. Naturalmente cercano di ottenere il risultato per vie pacifiche, perché loro sono buone, e quindi usano le usuali norme stabilite dal diritto internazionale per tentare di anticipare e sventare le iniziative violente delle nazioni cattive. Alla fine ci riescono e, sia pure con diverse motivazioni e diversi obiettivi, le Nazioni Unite, cioè quelle buone insieme a quelle cattive, chiedono a Israele di lasciare a loro il governo di Gerusalemme.
Anche in questo caso le nazioni buone cercano di ottenere il risultato con le buone, appunto perché sono buone. Le nazioni cattive invece dopo un po' di tempo perdono la pazienza e minacciano di ricorrere unilateralmente alle maniere cattive. Questo mette in allarme le nazioni buone, perché le nazioni cattive che, al contrario di loro, sono cattive, non vogliono la pace: loro vogliono semplicemente la distruzione di Israele. Le nazioni buone invece vogliono salvarlo, e salvare la pace nel mondo.
Alla fine le nazioni buone riescono a convincere le Nazioni Unite che per preservare la pace nel mondo minacciata dalla cocciutaggine di Israele non bisogna permettere che singole nazioni cattive si facciano giustizia da sé. Deve essere l'organizzazione delle Nazioni Unite, rappresentante legittima di tutti i popoli della terra, a farsi carico in proprio del governo di Gerusalemme, togliendolo dalle mani del ribelle Israele con un'operazione di polizia internazionale. Non saranno dunque singole nazioni cattive a scagliarsi contro Israele per motivi illegittimi, ma sarà l'insieme ordinato di tutte le Nazioni Unite della terra a muoversi in guerra contro Gerusalemme per motivi internazionalmente legittimi, cioè per il bene di Israele e per mantenere la pace nel mondo. M.C.
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Ferramenti, sopravvivere con la musica
Gli internati del campo in Calabria, uno dei più grandi voluti dal duce, svilupparono una vita comunitaria e artistica molto ricca
di Carlo Spartaco Capogreco (*)
In concomitanza con l'ingresso del Paese nella Seconda guerra mondiale, Mussolini fece internare in campi o in località appartate migliaia di individui, italiani e stranieri, "indesiderabili" o "pericolosi". In primo luogo "sudditi nemici", dissidenti ed appartenenti alle minoranze slovena e croata; ma anche gran parte degli ebrei fuggiti dalle persecuzioni hitleriane, ai quali, negli anni precedenti, il fascismo aveva consentito l'ingresso in Italia. Gli ebrei italiani, invece, non furono internati in quanto tali, ma solo se già segnalati per motivi politico-sociali. Peraltro, le leggi antisemite fasciste degli anni 1938-39, pur fortemente lesive dei diritti civili degli ebrei, non ne prevedevano, di per sé, l'internamento.
Nel dopoguerra italiano dalle tante rimozioni, gli studi sull'internamento fascista stentarono a farsi strada. E, tra essi, anche quelli su Ferramonti, il campo che accolse il maggior numero di ebrei. Difatti, la neonata Repubblica preferì avallare l'idea che i campi di concentramento - ricondotti, tutti quanti, al sito-archetipo del Lager - fossero, "di per sé", un fenomeno tedesco. Nel 1965, ad esempio, ad una delegazione slovena giunta in Italia per rendere omaggio alle spoglie mortali di 187 propri connazionali internati a Monigo, vicino a Treviso, le autorità locali non seppero dir nulla di quel campo, e neppure seppero indicare il luogo di sepoltura degli sloveni deceduti ... Negli anni Ottanta, finalmente, il dato storico dell'esistenza di campi italiani cominciò a farsi breccia nella coscienza civile e tra gli storici. Tuttavia, ricordo che nel 1987, quando l'editrice La Giuntina pubblicò il mio Ferramonti, tra quanti recensirono quel testo (il primo libro italiano che ricostruiva le vicende di un campo fascista), pochi riuscirono a sottrarsi al "filtro" dell'universo concentrazionario nazista; ad evitare di utilizzare termini come "Lager" o, addirittura, "campo di sterminio". «Un lager per ebrei, ma all'italiana»; «Così l'Italia "importò" i lager»; «Il lager della "buona sorte"»; «Un lager dal volto umano»; «Il lager della salvezza»; Una felice eccezione nei lager di sterminio»: questi, ad esempio, erano i titoli delle recensioni apparse, rispettivamente, sui quotidiani «Il Giorno» (il 17 maggio di quell'anno), «L'Unità» (il 25 maggio), «Il Giornale» (il 16 giugno), «Il Messaggero» (il 10 luglio), «La Nazione» (il 26 agosto), «il Manifesto» (il 10 dicembre). Iscrivendo, però, l'internamento fascista in un quadro "olocaustocentrico" (magari, solo per affermare che i campi italiani sono stati dei "non- Lager") non si può capire granché di Ferramonti e delle altre strutture d'internamento operanti in Italia negli anni 1940-1943. Che, semmai, andrebbero rapportate a Ventotene e all'istituto "autarchico" del confino di polizia, non certo al nazismo e ad Auschwitz.
Quello di Ferramonti, aperto il 20 giugno 1940 in un'area malarica del paesino di Tarsia (Cosenza), fu uno dei più grandi tra quei "campi del duce" gestiti dal ministero dell'Interno: in tutto 48, concepiti e strutturati dal capo della Polizia Bocchini sul modello delle colonie di confino, ma localizzati principalmente sulla terraferma. Costituito da novantadue baracche, il campo calabrese registrò una presenza media di circa 800 internati ed ebbe due principali peculiarità: fu uno dei pochi realizzati ad hoc, ed "accolse", in larga maggioranza, ebrei. Gli internati che vi passarono furono quasi quattromila, di entrambi i sessi, tra ebrei (più di tremilatrecento, stranieri o apolidi originari dell'Europa centro-orientale) ed "ariani" (cinesi, greci, francesi, ex jugoslavi, zingari e oppositori italiani). Complessivamente (per malattia o incidenti), persero la vita nel campo una quarantina d'internati, con tasso di mortalità (dell'ordine del cinque per mille annuo), non dissimile da quello medio dei paesi del circondario. Seppure non vadano trascurate le sofferenze psicologiche degli internati (in particolare degli ebrei, assillati dall'incertezza del domani e terrorizzati dall'idea della possibile deportazione), le condizioni di vita nei 48 campi del ministero dell'Interno, delineate dal Decreto del Duce del 4 settembre 1940, non furono particolarmente dure. Soprattutto se confrontate con quelle vigenti nei campi italiani a gestione militare, istituiti dopo l'occupazione della Jugoslavia (tra essi, quello di Monigo ), in alcuni dei quali si registrarono indici di mortalità, per fame e per stenti, davvero raccapriccianti.Nei campi del ministero dell'Interno, invece, gli internati poveri ricevevano un sussidio di sopravvivenza, e, salvo rare eccezioni, nessuno subì violenze da parte delle autorità e dei custodi. Gli internati ebrei, inoltre, potevano contare sull'aiuto della "Delasem", l'apposito ente assistenziale istituito dalle comunità israelitiche.
A Ferramonti, in particolare, nonostante la segregazione, la malaria e tante altre difficoltà, grazie alla presenza di pittori e musicisti di grande talento, si poté sviluppare una vita comunitaria ed artistico-musicale particolarmente ricca ed articolata. D'altronde, allora l'internamento fascista degli ebrei non era legato alla Shoah, come invece sarebbe stato, dal 10 novembre 1943, sotto il fascismo repubblicano di Salò e gli occupanti tedeschi, che avrebbero individuato in Fossoli il campo-crocevia della deportazione dall'Italia. Ferramonti, trovandosi al Sud, non visse, fortunatamente, quest'ultimo scenario: già il 14 settembre 1943, vi giunsero gli Alleati, e non pochi ebrei decisero di continuare a vivere nel campo, ora per displaced persons e gestito dagli angloamericani. Tra il 1943 e il 44, esso diventò la più fervente comunità ebraica d'Italia, ma cominciò subito a spopolarsi, a grandi gruppi o alla spicciolata: nel 1944, in particolare, 254 ebrei lasciarono il luogo per la Palestina ed altri 240 per gli Stati Uniti. Nel gennaio 1945, la prefettura di Cosenza dichiarò ufficialmente sciolto l'ex campo di concentramento, ma l'abbandono definitivo di Ferramonti, di fatto, si sarebbe realizzato alla fine dell'anno.
(*) Professore di Storia Contemporanea, Università della Calabria
(Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2017)
Israele teme che Trump possa spifferare i suoi segreti a Putin
L'intelligence israeliana teme Donald Trump possa fornire i dati sensibili che Tel Aviv ha condiviso con Washington negli ultimi 15 anni alla Russia. Lo riferisce il quotidiano britannico The Independent, citando il giornalista israeliano Ronen Bergman. Secondo un articolo di Bergman per il giornale israeliano Yediot Ahronot, i funzionari dei servizi segreti americani hanno recentemente incontrato in segreto le loro controparti israeliane per discutere lo stato attuale delle cose. Gli americani sostengono che Putin stia facendo leva su Trump, quindi le autorità israeliane dovrebbero prestare parecchia attenzione per quanto riguarda lo scambio di informazioni classificate con la Casa Bianca e il Consiglio Nazionale di Sicurezza. Inoltre, continua Bergman, agli israeliani è stato consigliato di non condividere tutti i dati confidenziali con la Casa Bianca fino a quando non sarà accertata la mancata esistenza di legami «inappropriati» tra Trump e Mosca. Israele è particolarmente preoccupato del fatto che i suoi segreti possano finire in Iran grazie ai buoni rapporti che Mosca ha con Teheran, sottolinea il giornalista.
(Sputnik Italia, 14 gennaio 2017)
Clusone come un campo di concentramento
di Nicola Andreoletti
«Internati liberi» è uno di quegli ossimori, contraddizioni in termini, che in certi casi gli uomini s'inventano forse nell'illusione di avere la coscienza meno sporca. Quale tipo di libertà possa avere un internato è facile da capire. E, difatti, gli ebrei che durante la seconda guerra mondiale in Italia avevano questo status erano stretti tra mille vincoli.
Dal 1941 al 1945 Clusone fu, in provincia di Bergamo, il centro abitato che ospitò il maggior numero di ebrei internati liberi. Ben 57. Il numero ha portato una ricercatrice cecoslovacca a scambiare la cittadina seriana per un campo di concentramento. Sulle vicende di queste persone getta per la prima volta un fascio di luce una ricerca curata da Mino Scandella. Il volume, pubblicato a fine 2016, è il decimo della collana «Quaderni di Clubi», della biblioteca di Clusone.
Come titolo è stato scelto «Ricordate che questo è stato», chiaro riferimento al «Meditate che questo è stato» della poesia con cui Primo Levi volle aprire il suo «Se questo è un uomo». Il lavoro di Mino Scandella è contestualizzato da una doppia introduzione: Mario Brusasco si concentra sulla «Persecuzione ebraica in Europa e in Italia»; Carla Polloni sugli «Ebrei nella Bergamasca tra persecuzione e accoglienza». Il volume è poi corredato dalle foto di Ilaria Poletti.
«La ricerca è iniziata abbastanza casualmente - spiega Mino Scandella -. Un gruppo di ciclisti clusonesi che ogni anno percorre itinerari piuttosto lunghi, anche in Europa, aveva deciso di andare ad Auschwitz. Mi ha chiesto qualche notizia sugli ebrei a Clusone. Sono andato nell'archivio comunale e ho trovato parecchi fascicoli sugli ebrei internati liberi. Prima ne ho parlato in una serata, poi il materiale è finito in questo volume».
Nel libro, Mino Scandella spiega anzitutto come queste persone giunsero a Clusone. «Nel giugno del 1941, pare su pressione del Vaticano, il regime fascista diede ai gruppi familiari internati nei campi di concentramento la possibilità di essere trasferiti in alcuni piccoli centri del nord Italia, come "internati liberi", con limitazioni della libertà personale e con una serie di altri divieti ma non più in campi di concentramento chiusi e custoditi».
Vennero scelti paesi lontani dalle vie di comunicazione principali, ma con la presenza di una caserma dei carabinieri. I centri turistici più importanti erano vietati agli ebrei, tranne in casi eccezionali, per motivi di salute. Ma, scarsi gli alloggi in altri paesi bergamaschi, la questura scelse anche Clusone, proprio per i posti disponibili in quanto centro di villeggiatura.
«Tutti gli internati al loro arrivo venivano schedati in una sorta di anagrafe provvisoria», si legge ancora nel libro. Proprio questi documenti, oltre settant'anni dopo, hanno permesso a Mino Scandella di ricostruire le loro vicende. L'autore si è fatto aiutare anche da libri che raccontano la storia di queste persone, da testimonianze, da cartoline e lettere. Come la corrispondenza tra Israel Zafran e l'allora parroco di Rovetta don Giuseppe Bravi, resa nota solo nel 2015 dalla nipote del sacerdote suor Carmela.
Don Bravi accolse due famiglie internate a Clusone e le protesse. «Non parlò mai con nessuno di ciò che aveva fatto per salvare gli ebrei in pericolo». Ma furono tante le persone che, a Clusone come nei paesi vicini, si comportarono allo stesso modo, «anteponendo alla prudenza, alla convenienza e al proprio interesse la voce della coscienza e il senso di umanità».
«Non ho potuto sapere quante furono, ma la loro generosità può avere aiutato gli ebrei "salvati" a riacquistare un po' di fiducia negli esseri umani», scrive ancora Mino Scandella. Allo stesso tempo, però, «Alice Redlich, la cui storia è stata raccontata in un libro dal figlio Riccardo Schwamenthal, «ricorda che a Clusone c'erano "tante carogne" che resero difficile il soggiorno ai confinati; si riferiva soprattutto ai notabili e alle autorità comunali».
Purtroppo, c'è stato anche chi non ha potuto raccontare la propria storia, perché la sua vita è finita sul binario morto di Auschwitz. È il caso del piccolo Harry Zeuger, che appena sceso dal treno finì direttamente alle camere a gas. Mino Scandella dedica a lui le ultime parole del libro: «Quando passo in Longarete penso a quel bambino che qui abitò e forse ebbe qualche momento felice giocando con i coetanei, prima del tragico epilogo della sua breve vita».
Il libro sarà presentato in occasione del Giorno della Memoria, venerdì 27 gennaio, alle 20,45, nella Sala Legrenzi di Palazzo Marinoni Barca (via Clara Maffei, 3).
(MyValley, 14 gennaio 2017)
Siena - Nuovo incontro in Sinagoga con il rabbino Crescenzo Piattelli
Domenica 15 gennaio un percorso di conoscenza su giustizia e responsabilità sociale nella tradizione ebraica.
Proseguono gli appuntamenti alla Sinagoga di Siena per approfondire la conoscenza dell'ebraismo. Domenica 15 gennaio alle 15.30 un incontro guidato dal rabbino Crescenzo Piattelli su Zedakà. Giustizia e responsabilità sociale nella tradizione ebraica.
Dopo la prima iniziativa dedicata al tema del calendario ebraico, questo nuovo incontro accende i riflettori sui precetti di Zedakà, (giustizia equilibratrice o equità) e Mishpàt (diritto), che ricoprono una straordinaria importanza nell'ebraismo e nella concezione ebraica del mondo.
(Siena Free, 14 gennaio 2017)
Perché Israele è contro la conferenza di Parigi sul Medio Oriente
Una fonte vicina al governo ci spiega perché boicottare il meeting francese che potrebbe diventare un processo a Gerusalemme.
di Daniel Mosseri
"Un'iniziativa controproducente. Quello di cui il mondo, noi e i palestinesi abbiamo bisogno è tutt'altro: e cioè il ritorno a negoziati diretti e senza precondizioni". Israele non partecipa alla Conferenza di pace per il medio oriente organizzata domenica 15 a Parigi dal governo francese. Al Foglio una fonte vicina al governo di Gerusalemme ha spiegato le non poche ragioni della decisione. Che non è ideologica: nella storia recente dello stato ebraico la partecipazione a forum internazionali sul medio oriente non è un tabù. Al contrario, il formato inaugurato nel 1991 con la conferenza di pace di Madrid ha portato in quattro anni alla ratifica del trattato di pace fra Israele e la Giordania. Da Madrid il negoziato diretto si trasferì in segreto a Oslo, sfociando nella creazione dell'Autorità palestinese (Ap) e la suddivisione di Gaza e West Bank in tre zone a diversi livelli di cogestione fra israeliani e palestinesi. Ancora nel 2007 le due parti sedevano una di fronte all'altra alla Conferenza di Annapolis, voluta da Condoleezza Rice. "Chiunque ci abbia portato a un tavolo negoziale, egiziani, giordani o americani, ci ha fatto parlare direttamente gli uni con gli altri". Ma se il presidente palestinese Mahmoud Abbas non è cambiato dal 2005, a cambiare è stata la sua strategia.
Oggi l'Ap punta alla creazione di uno stato palestinese non con il negoziato ma a suon di raccomandazioni dell'Onu. "A Parigi ci saranno una settantina di paesi; nel migliore dei casi molti di questi non hanno nulla a che vedere con il conflitto israelo-palestinese; nel peggiore, hanno invece interesse a che il problema non sia risolto". Il governo Netanyahu non salva nulla dell'appuntamento voluto dal Quai d'Orsay. La stessa scelta di Parigi, tradizionalmente vicina al mondo arabo, avvalora la tesi della pace imposta dall'alto. Anche i tempi dell'appuntamento sono considerati sbagliati: la conferenza si tiene cinque giorni prima dell'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Per l'America ci sarà il segretario di stato uscente John Kerry - reduce da uno scontro verbale all'arma bianca con il premier Netanyahu - "ma per noi l'opinione dell'Amministrazione entrante resta di grande importanza".
Israele teme un processo e una sentenza di condanna sulla falsariga di quelle ciclicamente comminate dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu. "Oggi è invece tempo che il mondo si rivolga ai palestinesi dicendo: se volete la pace dovete tornare al tavolo con Israele, riconoscerlo come stato ebraico e mettere fine alla propaganda d'odio" che informa le attività in arabo dell'Ap, dai programmi scolastici in poi. E' la stessa risoluzione 242 dell'Onu, ricorda ancora la fonte, a chiedere che lo stato palestinese sia fondato su relazioni pacifiche con Israele: "Diversamente vuol dire che stai preparando una nuova guerra". Gerusalemme respinge anche l'accusa di minare la pace con la politica degli insediamenti. "Non dobbiamo dimostrare a nessuno che siamo pronti al compromesso: abbiamo restituito il Sinai all'Egitto, siamo usciti dalla Striscia di Gaza. Quello che ci manca è un partner per la pace. Nel 2009 abbiamo congelato gli insediamenti per dieci mesi ma Abbas non è tornato al tavolo lo stesso". Rafforzata dai successi diplomatici all'Unesco e all'Onu, l'Ap chiede che l'espansione israeliana nella West Bank sia stralciata dal negoziato e bloccata dall'esterno. Per Israele, invece, gli insediamenti sono con i profughi, i confini e Gerusalemme "solo una delle questioni sulle quali dobbiamo discutere. Insieme".
(Il Foglio, 14 gennaio 2017)
Una conferenza sbagliata, nel momento sbagliato
Finché i palestinesi si rifiutano di negoziare, e di riconoscere Israele come stato ebraico, piani e conferenze internazionali non possono produrre la pace.
E' facile per il mondo dare la colpa di tutti i suoi problemi a Israele. E' facile, per molti leader, incolpare Israele per il fallimento del processo di pace con i palestinesi. E' facile, ma non è giusto. Ed è anche un grosso sbaglio.
E' facile anche pensare che la comunità internazionale, le organizzazioni multilaterali come l'Onu e le conferenze internazionali possano imporre una soluzione alle parti e, voilà, tutti i conflitti saranno risolti. Ma se le parti non sono disponibili, se i conflitti non sono al momento risolvibili, non c'è soluzione possibile. In realtà la pace, una vera pace duratura, non può che essere il risultato di negoziati diretti tra le parti coinvolte e di accordi da esse raggiunti liberamente. La pace tra israeliani e palestinesi non ha bisogno di altri piani o di conferenze come quella che si terrà a Parigi domenica 15 gennaio. Quello di cui ha bisogno è di due parti veramente impegnate e pronte a negoziare....
(israele.net, 13 gennaio 2017)
Francia sottomessa
Non oppressi ma oppressori, così gli islamici hanno conquistato culturalmente il paese. Un'inchiesta
di Giuliano Ferrara
La Le Pen è stata tenuta in caffetteria alla Trump Tower, meno di Salvini che riuscì a spacciarsi per amico selfista del Cialtrone in chief, ma per la sua campagna elettorale, non si sa mai. E' uscito con clamore un libro importante, che potrebbe pesare. "La Francia sottomessa" è il suo titolo. Autore Georges Bensoussan, un ebreo marocchino di grande talento, storico riconosciuto della Shoah, del sionismo e dell'antisemitismo europeo, e antropologo di rilievo non solo accademico, intellettuale combattivo ma estraneo al discrimine destra-sinistra, almeno nei suoi termini autentici (le caricature e le denigrazioni sono altra cosa). Bensoussan, con l'aiuto di un gruppo di collaboratori, ha cercato per diciotto mesi di dare voce a quelli che non hanno voce, che non è la solita solfa dei senza potere. E' roba seria. Sharia, costumi islamici dominanti, intolleranze salafite negli ospedali, nei tribunali, negli uffici pubblici, nelle scuole, nei territori delle banlieue che una volta erano rosse e ora sono verdi, come il verde dell'islam.
Un'inchiesta con i fiocchi, tra sociologia e giornalismo, qui la chiamano storia immediata. Gli oppressi e i discriminati, obiettivi del "razzismo" e dell'islamofobia, ritratti come potenziali o reali oppressori che si muovono all'ombra dell'ideologia che li vittimizza e mostra la debolezza di un'eredità culturale e di un'identità nazionale in ritirata. La prima puntata era stata un caso enorme. Si chiamava "I territori perduti della République", e sollevava il tema dell'antisemitismo islamista politico quattordici anni prima dell'attentato all'Hypercacher e quattro anni prima del rapimento, tortura e assassinio del giovane ebreo Ilan Halimi in una banlieue carceraria alle porte di Parigi. All'epoca Mohammed Merah, ricorda sul Figaro Alexandre Devecchio, frequentava le scuole di odio dei territori perduti, e nel 2012 ucciderà soldati francesi e bambini ebrei davanti a una scuola giudaica di Tolosa e a Montauban. Ora a due anni da Charlie Hebdo, a un anno e poco più dal massacro del 13 novembre, dopo Nizza e lo sventramento di padre Hamel a Saint-Etienne-du-Rouvray, e in vista dello scontro su chi comanderà le istituzioni in Francia, questa inchiesta promette di essere più che un caso, una bomba. Non è cambiato niente, dice Bensoussan, tutto è peggiorato. C'era già un ritardo di vent'anni, ora la Francia sottomessa si vede a occhio nudo, e fa paura. Si vede per chi vuole vedere. Un proverbio hindu, ricorda l'autore, dice: "Raccontami belle storie e io ti crederò".
Ecco, non sono belle storie. Tra le élite mediatiche, il ceto politico gauchiste e moderato e la massa del popolo, comprese le classi medie, secondo Bensoussan, si è scavato un fossato. L'accusa di islamofobia e di razzismo fa paura: ostracismo sociale e intellettuale. Fa paura la reazione violenta degli islamisti: la maggioranza delle testimonianze raccolte sul campo è sotto pseudonimo. Fa paura la crisi degli schemi intellettuali e morali sui quali tanti hanno costruito le loro vite, spesso protette in quartieri ancora impermeabili alla presa di potere, dal basso, sociale, di islamici che odiano la Francia e il suo modo di vita e vogliono sottometterla con una "contaminazione lenta", progressiva. Paura del pericolo: negarlo, nasconderlo sembra un modo di farlo sparire. La chiave interpretativa non è nuova, in particolare per i lettori di questo giornale e dei libri di Giulio Meotti: chi odia la società aperta, egualitaria, antirazzista, non sessista, liberale libertaria libertina, secolarizzata e illuminata fino alla completa scristianizzazione, sa usare le sue armi democratiche, persino quelle del jihad giudiziario, per scassinarla e sopprimerla.
Elisabeth Badinter, letterata, femminista, grande imprenditrice, musa ispiratrice di una gauche consapevole di sé, ha scritto la prefazione drammatica a un libro tragico e disperato. Finkielkraut lo accoglie con malinconia e passione. Vedremo come ne accoglieranno le diagnosi, i fatti accertati, il panorama tremendo che ne esce, gli elettori della presidenziale. Il silenzio, la denigrazione, il rifiuto pregiudiziale non sembrano più compatibili con la realtà del discorso pubblico in Francia. Ma c'è sempre modo di chiudere gli occhi, di voltarsi da un'altra parte e fare tante chiacchiere sul salario universale per tutti, il "farniente" come nuova prospettiva liberal-gauchista: "Proletari di tutti i paesi, riposatevi!".
(Il Foglio, 14 gennaio 2017)
"Solo un cieco può negare che nella Chiesa ci sia grande confusione"
Intervista al cardinale Caffarra. "La divisione tra pastori è la causa della lettera che abbiamo spedito a Francesco. Non il suo effetto. Insulti e minacce di sanzioni canoniche sono cose indegne". "Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è più pastorale, è solo più ignorante".
di Matteo Matzuzzi
BOLOGNA - "Credo che vadano chiarite diverse cose. La lettera - e i dubia allegati - è stata lungamente riflettuta, per mesi, e lungamente discussa tra di noi. Per quanto mi riguarda, è stata anche lungamente pregata davanti al Santissimo Sacramento". Il cardinale Carlo Caffarra premette questo, prima di iniziare la lunga conversazione con il Foglio sull'ormai celebre lettera "dei quattro cardinali" inviata al Papa per chiedergli chiarimenti in relazione ad Amoris laetitia, l'esortazione che ha tirato le somme del doppio Sinodo sulla famiglia e che tanto dibattito - non sempre con garbo ed eleganza - ha scatenato dentro e fuori le mura vaticane. "Eravamo consapevoli che il gesto che stavamo compiendo era molto serio. Le nostre preoccupazioni erano due. La prima era di non scandalizzare i piccoli nella fede. Per noi pastori questo è un dovere fondamentale. La seconda preoccupazione era che nessuna persona, credente o non credente, potesse trovare nella lettera espressioni che anche lontanamente suonassero come una benché minima mancanza di rispetto verso il Papa. Il testo finale quindi è il frutto di parecchie revisioni: testi rivisti, rigettati, corretti". Fatte queste premesse, Caffarra entra in materia.
"Che cosa ci ha spinto a questo gesto? Una considerazione di carattere generale-strutturale e una di carattere contingente-congiunturale. Iniziamo dalla prima. Esiste per noi cardinali il dovere grave di consigliare il Papa nel governo della Chiesa. E' un dovere, e i doveri obbligano. Di carattere più contingente, invece, vi è il fatto - che solo un cieco può negare - che nella Chiesa esiste una grande confusione, incertezza, insicurezza causate da alcuni paragrafi di Amoris laetitia. In questi mesi sta accadendo che sulle stesse questioni fondamentali riguardanti l'economia sacramentale (matrimonio, confessione ed eucaristia) e la vita cristiana, alcuni vescovi hanno detto A, altri hanno detto il contrario di A. Con l'intenzione di interpretare bene gli stessi testi".
E "questo è un fatto, innegabile, perché i fatti sono testardi, come diceva David Hume. La via di uscita da questo 'conflitto di interpretazioni' era il ricorso ai criteri interpretativi teologici fondamentali, usando i quali penso che si possa ragionevolmente mostrare che Amoris laetitia non contraddice Familiaris consortio. Personalmente, in incontri pubblici con laici e sacerdoti ho sempre seguito questa via". Non è bastato, osserva l'arcivescovo emerito di Bologna. "Ci siamo resi conto che questo modello epistemologico non era sufficiente. Il contrasto tra queste due interpretazioni continuava. C'era un solo modo per venirne a capo: chiedere all'autore del testo interpretato in due maniere contraddittorie qual è l'interpretazione giusta. Non c'è altra via. Si poneva, di seguito, il problema del modo con cui rivolgersi al Pontefice. Abbiamo scelto una via molto tradizionale nella Chiesa, i cosiddetti dubia".
Perché? "Perché si trattava di uno strumento che, nel caso in cui secondo il suo sovrano giudizio il Santo Padre avesse voluto rispondere, non lo impegnava in risposte elaborate e lunghe. Doveva solo rispondere Sì o No. E rimandare, come spesso i Papi hanno fatto, ai provati autori (in gergo: probati auctores) o chiedere alla Dottrina della fede di emanare una dichiarazione congiunta con cui spiegare il Sì o il No. Ci sembrava la via più semplice. L'altra questione che si poneva era se farlo in privato o in pubblico. Abbiamo ragionato e convenuto che sarebbe stata una mancanza di rispetto rendere tutto pubblico fin da subito. Così si è fatto in modo privato, e solo quando abbiamo avuto la certezza che il Santo Padre non avrebbe risposto, abbiamo deciso di pubblicare".
E' questo uno dei punti su cui maggiormente s'è discusso, con relative polemiche assortite. Da ultimo, è stato il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto dell'ex Sant'Uffizio, a giudicare sbagliata la pubblicazione della lettera. Caffarra spiega: "Abbiamo interpretato il silenzio come autorizzazione a proseguire il confronto teologico. E, inoltre, il problema coinvolge così profondamente sia il magistero dei vescovi (che, non dimentichiamolo, lo esercitano non per delega del Papa ma in forza del sacramento che hanno ricevuto) sia la vita dei fedeli. Gli uni e gli altri hanno diritto di sapere. Molti fedeli e sacerdoti dicevano 'ma voi cardinali in una situazione come questa avete l'obbligo di intervenire presso il Santo Padre. Altrimenti per che cosa esistete se non aiutate il Papa in questioni così gravi?'. Cominciava a farsi strada lo scandalo di molti fedeli, quasi che noi ci comportassimo come i cani che non abbaiano di cui parla il Profeta. Questo è quanto sta dietro a quelle due pagine".
Eppure le critiche sono piovute, anche da confratelli vescovi o monsignori di curia: "Alcune persone continuano a dire che noi non siamo docili al magistero del Papa. E' falso e calunnioso. Proprio perché non vogliamo essere indocili abbiamo scritto al Papa. Io posso essere docile al magistero del Papa se so cosa il Papa insegna in materia di fede e di vita cristiana. Ma il problema è esattamente questo: che su dei punti fondamentali non si capisce bene che cosa il Papa insegna, come dimostra il conflitto di interpretazioni fra vescovi. Noi vogliamo essere docili al magistero del Papa, però il magistero del Papa deve essere chiaro. Nessuno di noi - dice l'arcivescovo emerito di Bologna - ha voluto 'obbligare' il Santo Padre a rispondere: nella lettera abbiamo parlato di sovrano giudizio. Semplicemente e rispettosamente abbiamo fatto domande. Non meritano infine attenzione le accuse di voler dividere la Chiesa. La divisione, già esistente nella Chiesa, è la causa della lettera, non il suo effetto. Cose invece indegne dentro la Chiesa sono, in un contesto come questo soprattutto, gli insulti e le minacce di sanzioni canoniche". Nella premessa alla lettera si constata "un grave smarrimento di molti fedeli e una grande confusione in merito a questioni assai importanti per la vita della Chiesa".
In che cosa consistono, nello specifico, la confusione e lo smarrimento? Risponde Caffarra: "Ho ricevuto la lettera di un parroco che è una fotografia perfetta di ciò che sta accadendo. Mi scriveva: 'Nella direzione spirituale e nella confessione non so più che cosa dire. Al penitente che mi dice: vivo a tutti gli effetti come marito con una donna che è divorziata e ora mi accosto all'eucarestia, propongo un percorso, in ordine a correggere questa situazione. Ma il penitente mi ferma e risponde subito: guardi, padre, il Papa ha detto che posso ricevere l'eucaristia, senza il proposito di vivere in continenza. Io non ne posso più di questa situazione. La Chiesa mi può chiedere tutto, ma non di tradire la mia coscienza. E la mia coscienza fa obiezione a un supposto insegnamento pontificio di ammettere all'eucaristia, date certe circostanze, chi vive more uxorio senza essere sposato'. Così scriveva il parroco. La situazione di molti pastori d'anime, intendo soprattutto i parroci - osserva il cardinale - è questa: si ritrovano sulle spalle un peso che non sono in grado di portare. E' a questo che penso quando parlo di grande smarrimento. E parlo dei parroci, ma molti fedeli restano ancor più smarriti. Stiamo parlando di questioni che non sono secondarie. Non si sta discutendo se il pesce rompe o non rompe l'astinenza. Si tratta di questioni gravissime per la vita della Chiesa e per la salvezza eterna dei fedeli. Non dimentichiamolo mai: questa è la legge suprema nella Chiesa, la salvezza eterna dei fedeli. Non altre preoccupazioni. Gesù ha fondato la sua Chiesa perché i fedeli abbiano la vita eterna, e l'abbiano in abbondanza".
La divisione cui si riferisce il cardinale Carlo Caffarra è originata innanzitutto dall'interpretazione dei paragrafi di Amoris laetitia che vanno dal numero 300 al 305. Per molti, compresi diversi vescovi, qui si trova la conferma di una svolta non solo pastorale bensì anche dottrinale. Altri, invece, che il tutto sia perfettamente inserito e in continuità con il magistero precedente. Come si esce da tale equivoco? "Farei due premesse molto importanti. Pensare una prassi pastorale non fondata e radicata nella dottrina significa fondare e radicare la prassi pastorale sull'arbitrio. Una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante. La Verità di cui noi parliamo non è una verità formale, ma una Verità che dona salvezza eterna: Veritas salutaris, in termini teologici. Mi spiego. Esiste una verità formale. Per esempio, voglio sapere se il fiume più lungo del mondo è il Rio delle Amazzoni o il Nilo. Risulta che è il Rio delle Amazzoni. Questa è una verità formale. Formale significa che questa conoscenza non ha nessuna relazione con il mio modo di essere libero. Anche se la risposta fosse stata il contrario, non sarebbe cambiato nulla sul mio modo di essere libero. Ma ci sono verità che io chiamo esistenziali. Se è vero - come Socrate aveva già insegnato - che è meglio subire un'ingiustizia piuttosto che compierla, enuncio una verità che provoca la mia libertà ad agire in modo molto diverso che se fosse vero il contrario. Quando la Chiesa parla di verità - aggiunge Caffarra - parla di verità del secondo tipo, la quale, se obbedita dalla libertà, genera la vera vita. Quando sento dire che è solo un cambiamento pastorale e non dottrinale, o si pensa che il comandamento che proibisce l'adulterio sia una legge puramente positiva che può essere cambiata (e penso che nessuna persona retta possa ritenere questo), oppure significa ammettere sì che il triangolo ha generalmente tre lati, ma che c'è la possibilità di costruirne uno con quattro lati. Cioè, dico una cosa assurda. Già i medievali, dopotutto, dicevano: theoria sine praxi, currus sine axi; praxis sine theoria, caecus in via".
La seconda premessa che l'arcivescovo di Bologna fa riguarda "il grande tema dell'evoluzione della dottrina, che ha sempre accompagnato il pensiero cristiano. E che sappiamo è stato ripreso in maniera splendida dal beato John Henry Newman. Se c'è un punto chiaro, è che non c'è evoluzione laddove c'è contraddizione. Se io dico che s è p e poi dico che s non è p, la seconda proposizione non sviluppa la prima ma la contraddice. Già Aristotile aveva giustamente insegnato che enunciare una proposizione universale affermativa (e. g. ogni adulterio è ingiusto) e allo stesso tempo una proposizione particolare negativa avente lo stesso soggetto e predicato (e. g. qualche adulterio non è ingiusto), non si fa un'eccezione alla prima. La si contraddice. Alla fine, se volessi definire la logica della vita cristiana, userei l'espressione di Kierkegaard: 'Muoversi sempre, rimanendo sempre fermi nello stesso punto'".
Il problema, aggiunge il porporato, "è di vedere se i famosi paragrafi nn. 300-305 di Amoris laetitia e la famosa nota n. 351 sono o non sono in contraddizione con il magistero precedente dei Pontefici che hanno affrontato la stessa questione. Secondo molti vescovi, è in contraddizione. Secondo molti altri vescovi, non si tratta di contraddizione ma di uno sviluppo. Ed è per questo che abbiamo chiesto una risposta al Papa". Si arriva così al punto più conteso e che tanto ha animato le discussioni sinodali: la possibilità di concedere ai divorziati e risposati civilmente il riaccostamento all'eucaristia. Cosa che non trova esplicitamente spazio in Amoris laetitia, ma che a giudizio di molti è un fatto implicito che rappresenta nulla di più se non un'evoluzione rispetto al n. 84 dell'esortazione Familiaris consortio di Giovanni Paolo II.
"Il problema nel suo nodo è il seguente", argomenta Caffarra: "Il ministro dell'eucaristia (di solito il sacerdote) può dare l'eucaristia a una persona che vive more uxorio con una donna o con uomo che non è sua moglie o suo marito, e non intende vivere nella continenza? Le risposte sono solo due: Sì oppure No. Nessuno per altro mette in questione che Familiaris consortio, Sacramentum unitatis, il Codice di diritto canonico, e il Catechismo della Chiesa cattolica alla domanda suddetta rispondano No. Un No valido finché il fedele non propone di abbandonare lo stato di convivenza more uxorio. Amoris laetitia ha insegnato che, date certe circostanze precise e fatto un certo percorso, il fedele potrebbe accostarsi all'eucaristia senza impegnarsi alla continenza? Ci sono vescovi che hanno insegnato che si può. Per una semplice questione di logica, si deve allora anche insegnare che l'adulterio non è in sé e per sé male. Non è pertinente appellarsi all'ignoranza o all'errore a riguardo dell'indissolubilità del matrimonio: un fatto purtroppo molto diffuso. Questo appello ha un valore interpretativo, non orientativo. Deve essere usato come metodo per discernere l'imputabilità delle azioni già compiute, ma non può essere principio per le azioni da compiere. Il sacerdote - dice il cardinale - ha il dovere di illuminare l'ignorante e correggere l'errante".
"Ciò che invece Amoris laetitia ha portato di nuovo su tale questione, è il richiamo ai pastori d'anime di non accontentarsi di rispondere No (non accontentarsi però non significa rispondere Sì), ma di prendere per mano la persona e aiutarla a crescere fino al punto che essa capisca che si trova in una condizione tale da non poter ricevere l'eucaristia, se non cessa dalle intimità proprie degli sposi. Ma non è che il sacerdote possa dire 'aiuto il suo cammino dandogli anche i sacramenti'. Ed è su questo che nella nota n. 351 il testo è ambiguo. Se io dico alla persona che non può avere rapporti sessuali con colui che non è suo marito o sua moglie, però per intanto, visto che fa tanto fatica, può averne
solo uno anziché tre alla settimana, non ha senso; e non uso misericordia verso questa persona. Perché per porre fine a un comportamento abituale - un habitus, direbbero i teologi - occorre che ci sia il deciso proposito di non compiere più nessun atto proprio di quel comportamento. Nel bene c'è un progresso, ma fra il lasciare il male e iniziare a compiere il bene, c'è una scelta istantanea, anche se lungamente preparata. Per un certo periodo Agostino pregava: 'Signore, dammi la castità, ma non subito'". A scorrere i dubia, pare di comprendere che in gioco, forse più di Familiaris consortio, ci sia Veritatis splendor. E' così?
"Sì", risponde Carlo Caffarra. "Qui è in questione ciò che insegna Veritatis splendor. Questa enciclica (6 agosto 1993) è un documento altamente dottrinale, nelle intenzioni del Papa san Giovanni Paolo II, al punto che - cosa eccezionale ormai nelle encicliche - è indirizzata solo ai vescovi in quanto responsabili della fede che si deve credere e vivere (cfr. no 5). A essi, alla fine, il Papa raccomanda di essere vigilanti circa le dottrine condannate o insegnate dall'enciclica stessa. Le une perché non si diffondano nelle comunità cristiane, le altre perché siano insegnate (cfr. no 116). Uno degli insegnamenti fondamentali del documento è che esistono atti i quali possono per se stessi ed in se stessi, a prescindere dalle circostanze in cui sono compiuti e dallo scopo che l'agente si propone, essere qualificati disonesti. E aggiunge che negare questo fatto può comportare di negare senso al martirio (cfr. nn. 90-94). Ogni martire infatti - sottolinea l'arcivescovo emerito di Bologna - avrebbe potuto dire: 'Ma io mi trovo in una circostanza
in tali situazioni per cui il dovere grave di professare la mia fede, o di affermare l'intangibilità di un bene morale, non mi obbliga più'. Si pensi alle difficoltà che la moglie di Tommaso Moro faceva a suo marito già condannato in prigione: 'Hai doveri verso la famiglia, verso i figli'. Non è, quindi, solo un discorso di fede. Anche se uso la sola retta ragione, vedo che negando l'esistenza di atti intrinsecamente disonesti, nego che esista un confine oltre il quale i potenti di questo mondo non possono e non devono andare. Socrate è stato il primo in occidente a comprendere questo. La questione dunque è grave, e su questo non si possono lasciare incertezze. Per questo ci siamo permessi di chiedere al Papa di fare chiarezza, poiché ci sono vescovi che sembrano negare tale fatto, richiamandosi ad Amoris laetitia. L'adulterio infatti è sempre rientrato negli atti intrinsecamente cattivi. Basta leggere quanto dice Gesù al riguardo, san Paolo e i comandamenti dati a Mosè dal Signore". Ma c'è ancora spazio, oggi, per gli atti cosiddetti "intrinsecamente cattivi". O, forse, è tempo di guardare più all'altro lato della bilancia, al fatto che tutto, dinanzi a Dio, può essere perdonato?
Attenzione, dice Caffarra: "Qui si fa una grande confusione. Tutti i peccati e le scelte intrinsecamente disoneste possono essere perdonate. Dunque 'intrinsecamente disonesti' non significa 'imperdonabili'. Gesù tuttavia non si accontenta di dire all'adultera: 'Neanch'io ti condanno'. Le dice anche: 'Va' e d'ora in poi non peccare più' (Gv. 8,10). San Tommaso, ispirandosi a sant'Agostino, fa un commento bellissimo, quando scrive che 'Avrebbe potuto dire: va' e vivi come vuoi e sii certa del mio perdono. Nonostante tutti i tuoi peccati, io ti libererò dai tormenti dell'inferno. Ma il Signore che non ama la colpa e non favorisce il peccato, condanna la colpa
dicendo: e d'ora in poi non peccare più. Appare così quanto sia tenero il Signore nella sua misericordia e giusto nella sua Verità' (cfr. Comm. a Gv. 1139). Noi siamo veramente, non per modo di dire, liberi davanti al Signore. E quindi il Signore non ci butta dietro il suo perdono. Ci deve essere un mirabile e misterioso matrimonio tra l'infinita misericordia di Dio e la libertà dell'uomo, il quale deve convertirsi se vuole essere perdonato".
Chiediamo al cardinale Caffarra se una certa confusione non derivi anche dalla convinzione, radicata pure tra tanti pastori, che la coscienza sia una facoltà per decidere autonomamente riguardo ciò che è bene e ciò che è male, e che in ultima istanza la parola decisiva spetti alla coscienza del singolo. "Ritengo che questo sia il punto più importante di tutti", risponde. "E' il luogo dove ci incontriamo e scontriamo con la colonna portante della modernità. Cominciamo col chiarire il linguaggio. La coscienza non decide, perché essa è un atto della ragione; la decisione è un atto della libertà, della volontà. La coscienza è un giudizio in cui il soggetto della proposizione che lo esprime è la scelta che sto per compiere o che ho già compiuto, e il predicato è la qualificazione morale della scelta. E' dunque un giudizio, non una decisione. Naturalmente, ogni giudizio ragionevole si esercita alla luce di criteri, altrimenti non è un giudizio, ma qualcosa d'altro. Criterio è ciò in base a cui io affermo ciò che affermo e nego ciò che nego. A questo punto risulta particolarmente illuminante un passaggio del Trattato sulla coscienza morale del beato Rosmini: 'C'è una luce che è nell'uomo e c'è una luce che è l'uomo. La luce che è nell'uomo è la legge di Verità e la grazia. La luce che è l'uomo è la retta coscienza, poiché l'uomo diventa luce quando partecipa alla luce della legge di Verità mediante la coscienza a quella luce confermata'. Ora, di fronte a questa concezione della coscienza morale si oppone la concezione che erige come tribunale inappellabile della bontà o malizia delle proprie scelte la propria soggettività. Qui, per me - dice il porporato - c'è lo scontro decisivo tra la visione della vita che è propria della Chiesa (perché è propria della Rivelazione divina) e la concezione della coscienza propria della modernità".
"Chi ha visto questo in maniera lucidissima - aggiunge - è stato il beato Newman. Nella famosa Lettera al duca di Norfolk, dice: 'La coscienza è un vicario aborigeno del Cristo. Un profeta nelle sue informazioni, un monarca nei suoi ordini, un sacerdote nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi. Per il gran mondo della filosofia di oggi, queste parole non sono che verbosità vane e sterili, prive di un significato concreto. Al tempo nostro ferve una guerra accanita, direi quasi una specie di cospirazione contro i diritti della coscienza'. Più avanti aggiunge che 'nel nome della coscienza si distrugge la vera coscienza'. Ecco perché fra i cinque dubia il dubbio numero cinque è il più importante. C'è un passaggio di Amoris laetitia, al no 303, che non è chiaro; sembra - ripeto: sembra - ammettere la possibilità che ci sia un giudizio vero della coscienza (non invincibilmente erroneo; questo è sempre stato ammesso dalla Chiesa) in contraddizione con ciò che la Chiesa insegna come attinente al deposito della divina Rivelazione. Sembra. E perciò abbiamo posto il dubbio al Papa".
"Newman - ricorda Caffarra - dice che 'se il Papa parlasse contro la coscienza presa nel vero significato della parola, commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi'. Sono cose di una gravità sconvolgente. Si eleverebbe il giudizio privato a criterio ultimo della verità morale. Non dire mai a una persona: 'Segui sempre la tua coscienza', senza aggiungere sempre e subito: 'Ama e cerca la verità circa il bene'. Gli metteresti nelle mani l'arma più distruttiva della sua umanità".
(Il Foglio, 14 gennaio 2017)
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L'imprescindibile polisemia del linguaggio papale
di Marcello Cicchese
Il lungo articolo che precede mi è stato segnalato da un amico ebreo, e questo può sembrare strano perché il tema in questione è del tutto interno al cattolicesimo. Potrebbe invece essere un segno che gli ebrei cominciano a interessarsi del fenomeno cattolico non solo quando il papa cerca i loro abbracci, ma anche per capire meglio la poderosa entità mondiale che risponde al nome di Chiesa Cattolica Romana (CCR).
Nel 2006, commentando insieme ad altri la famosa visita di papa Ratzinger ad Auschwitz, scrivevo:
«Per quanto riguarda il rapporto della CCR con Israele e con il popolo ebraico in generale, gli amici ebrei che hanno illusioni ecumeniche farebbero bene a ricredersi. I laici "illuminati", ebrei e non ebrei, purtroppo si rifiutano di prendere in seria considerazione questioni "teologiche" e ritengono che gli atteggiamenti pragmatici siano i soli realistici. Ma non è vero, il pragmatismo può essere addirittura fatale nei rapporti con la CCR, la cui stessa esistenza è di natura intimamente teologica. Ed è una teologia che la pone in una contrapposizione strutturale e vitale con Israele. Non è una questione di atteggiamento, ma di identità. Una reale, fondamentale modifica su questo tema significherebbe per lei l'annientamento di sé. E non sembra proprio che una simile autodissoluzione stia per avvenire.»
Oggi, dopo undici anni, forse si comincia a vedere qualche sintomo di un inizio di dissoluzione, anche se non riferentesi direttamente a Israele. "Il testo è ambiguo", dicono i cardinali al papa, "ci siamo permessi di chiedere al Papa di fare chiarezza". Richiesta inopportuna, ingenua, teologicamente impossibile: il papa ovviamente l'ha ignorata. Quei cardinali non hanno ancora capito, e papa Francesco probabilmente pensa che non sia nemmeno il caso di provare a farglielo capire, che non è permesso chiedere al papa di essere chiaro, univoco e coerente, perché se lo facesse "commetterebbe un vero suicidio, si scaverebbe la fossa sotto i piedi", per usare le parole del "beato Newmann". I venerandi prelati dovrebbero ben conoscere qual è l'intima, naturale aspirazione della CCR: restare sempre al centro dell'interesse del mondo, adeguando continuamente dottrine e metodi alle variazioni della società. Per questo occorre un attento, abile uso dei gesti e del linguaggio, cosa che il gesuita Francesco ha ben capito e sa fare molto bene, ma adesso ha problemi seri con quelli dei suoi che sono rimasti indietro.
Mi permetto ancora di autocitarmi, per il solo fatto che vedo confermato quanto avevo scritto undici anni fa e penso che non valga la pena di faticare a cercare altre parole:
«L'intima natura della CCR è di essere veramente "cattolica", cioè universale, inglobante il tutto. La CCR può tollerare e sopportare quasi ogni cosa, ma non di essere emarginata, considerata irrilevante. Se si osserva la sua storia, si riconoscerà facilmente che la sua preoccupazione è sempre stata quella di mantenere o riconquistare il centro del mondo, perché questo considera essere il posto che le spetta di diritto. Le parole usate dai papi nelle loro allocuzioni devono dunque essere adeguate al raggiungimento di questo obiettivo "cattolico", universale: cioè devono contenere un po' di tutto. Tutte le corde del discorso devono essere toccate, quale in modo più forte, quale in modo più debole, in modo che le diversità di interpretazione possano essere spiegate come valutazioni diverse dell'intensità di vibrazione di tale o tal altra corda, e il continuo dibattito dei commentatori possa da una parte mantenere vivo l'interesse per la fonte delle dichiarazioni e dall'altra impedire che si attribuisca alla CCR una posizione troppo netta e precisa, con fastidiose richieste di coerenza, difficili da soddisfare. E questo è avvenuto anche in occasione della visita papale ad Auschwitz. Parole ambigue il primo giorno, pezze correttive qualche giorno dopo, naturalmente senza mai smentire nulla, conformemente al principio che un dogma, anche se imbarazzante, non si sconfessa mai: se necessario se ne aggiunge un altro e si fa scendere nella penombra il primo, mantenendone comunque la validità e tenendolo buono per un'altra occasione. Non si deve dimenticare che è parte integrante della dottrina cattolica il dogma dell'infallibilità papale. E anche se la si considera limitata ai casi in cui il papa parla "ex cathedra Petri", questo conferma che nell'autocoscienza cattolica la Cattedra di San Pietro è fonte di purissima verità. Come potrebbe allora il soglio pontificio non essere al centro dell'attenzione del mondo? Come potrebbero esserci avvenimenti di importanza mondiale che non inducano gli uomini a volgere i loro sguardi verso colui che siede al centro dell'umanità per chiedersi: che penserà? che dirà? che farà? Nel tentativo di capire, interpretare, commentare parole che cambiano continuamente di tonalità secondo il mutare delle stagioni, gli uomini saranno obbligati a correre sempre dietro al papa, senza naturalmente sperare mai di poterlo raggiungere, né tanto meno di poterlo in qualche modo influenzare.»
Papa Ratzinger, troppo teologico e cartesiano, non ce lha fatta a mantenere a lungo limprescindibile tonalità polisemica del linguaggio papale e ha ceduto le armi. Il gesuita papa Francesco indubbiamente lo sa fare molto meglio, ma non è detto che anche lui riesca a mantenersi a galla per molto tempo.
La CCR scricchiola.
(Notizie su Israele, 14 gennaio 2017)
Vaticano, il Papa incontra Abu Mazen:«Ama il popolo palestinese e la pace»
Il colloquio privato tra i due leader è durato 23 minuti. Bergoglio ha abbracciato il presidente palestinese che inaugura la sede dell'ambasciata presso la Santa Sede. Scambio di doni: al Pontefice una pietra del Golgota e una maglia di calcio
«Il Papa ama il popolo palestinese e ama la pace»: con queste parole il presidente palestinese Abu Mazen si è congedato da Francesco dopo un incontro privato in Vaticano durato 23 minuti. Un clima di grande cordialità tra i due, testimoniato da un abbraccio: «È un piacere riceverla», ha detto papa Bergoglio al suo ospite sulla soglia della biblioteca; «anche io sono contento di essere qui», ha replicato il presidente a Mahmoud Abbas.
La maglia di calcio
Al momento della presentazione del seguito, un giovane palestinese ha offerto al Papa una maglietta di calcio con i colori della Palestina, ha detto qualcosa sul San Lorenzo, la squadra argentina per cui tifa il Papa, che si è messo a ridere. Il giovane ha anche spiegato che sua moglie è argentina. Abu Mazen ha donato al Pontefice una pietra proveniente dal Golgota, una icona raffigurante il volto di Gesù, una icona raffigurante la Sacra famiglia, un documentario sulla ristrutturazione della basilica della Natività e un libro sulle relazioni tra Santa Sede e Palestina.
L'enciclica del Papa: «È tradotta?»
Il Papa ha ricambiato con la medaglia dell'anno giubilare, e copie in arabo della «Amoris laetitia» e della «Laudato sii». «È quello che ho scritto sull'amore e la famiglia, e l'altro riguarda la cura del creato», ha spiegato papa Francesco offrendo ad Abu Mazen la esortazione apostolica «Amoris laetitia» e l'enciclica «Laudato sii». «È anche tradotto?», ha chiesto il presidente, e il Papa ha risposto: «Sì, sono in arabo».
La nuova ambasciata
Tra foto e scambio di doni, Pontefice e presidente parlavano della ambasciata della Palestina presso la Santa Sede che Abu Mazen inaugura questa mattina in via di Porta Angelica.«Questo - ha commentato Abu Mazen - è il segno che il Papa ama il popolo palestinese e ama la pace». Al momento di congedarsi, papa Bergoglio e Abu Mazen si sono nuovamente abbracciati.
(Corriere della Sera, 14 gennaio 2017)
Il partigiano Edmond e i suoi sogni sul destino degli ebrei
Nel corso della Seconda guerra mondiale, il giovanissimo Edmond riesce a fuggire da un campo di sterminio e a raggiungere alcuni partigiani ebrei che tentano di resistere all'esercito tedesco nascondendosi nella foresta ucraina. Il loro scopo non è solo quello di sopravvivere, ma è anche, e soprattutto, quello di salvare il proprio popolo e raggiungere "la vetta", il luogo geografico e spirituale della loro realizzazione. E' il nuovo romanzo di Aharon Appelfeld in uscita per Guanda. Ne anticipiamo alcune pagine.
di Aharon Appelfeld
"I prossimi giorni saranno critici. L'Armata Rossa sta arrivando da noi. La questione è "se riusciremo a resistere un mese"
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Kamil non usa la parola "sacrificio". Alcune volte l'ha respinta con forza: "Noi non cerchiamo la morte ma la vita"
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I suoi genitori erano stati fra i primi a essere portati via dal ghetto. Non ne parla al passato, dice: "Mamma è puntigliosa ... "
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Stanotte usciremo per un'incursione. Le provviste si stanno esaurendo. Ora siamo centosettantatré anime. Se non ci procuriamo subito dei viveri gli scampati moriranno di fame. Hermann Cohen ha portato in cucina semola e farina in dosi razionate. Da quando gli scampati sono arrivati da noi, e da quando ha visto la figlia di sua sorella, non è più quello di prima. Fuma una sigaretta dopo l'altra. Una o due volte al giorno entra nella tenda in cui giace sua nipote e la guarda. Quell'uomo così solido, che ne ha viste di tutti i colori ed era un fantastico consigliere su questioni logistiche, ora sembra crollato. Kamil gli ha detto abbracciandolo: "Abbiamo fatto un lungo tratto di strada e ne faremo ancora. I prossimi giorni saranno critici. L'Armata Rossa sta arrivando da noi. La questione è se riusciremo a resistere un mese. Senza di te, e lo dico assumendomene la piena responsabilità, non ce la faremo". Hermann Cohen non ha reagito neanche a questo complimento. Si è coperto il volto con le mani.
Prima che partissimo per l'incursione Kamil ci ha detto così: "Quest'oggi, miei cari, il nostro destino è nelle vostre mani. Il nostro campo, che grazie a Dio è cresciuto incommensurabilmente, è ferito e dolorante, e se non la nutriremo questa gente morirà. La base ha bisogno di provviste. Di tende e bidoni da usare come stufe. Dobbiamo salvare i corpi tormentati affinché le anime possano farvi ritorno. Una volta eravamo pochi, ma oggi, grazie a Dio, siamo molti. Voi siete i messi di una buona azione, fedeli al Signore su questa terra".
Quando parla Kamil non ci si sente più soli al mondo, ma circondati di amici fedeli, e cresce il desiderio di fare di più . Kamil non usa la parola "sacrificio". Alcune volte l'ha respinta con forza: "Noi non cerchiamo la morte ma la vita. La nostra comunità è un insieme meraviglioso".
Kamil non ha rivendicazioni verso il Signore che non fa regnare la giustizia nel mondo, ma verso gli uomini che non sono degni della qualifica di esseri umani.
"I pensieri, anche quelli sublimi, non servono, bisogna concentrarsi sull'azione" dice Felix. Questo rigore, che in lui è naturale, per me è difficile. Da quando gli scampati sono arrivati da noi una parte della mia essenza è sparita. E a loro non mi sono ancora avvicinato.
Durante il giorno sono responsabile della bollitura dell'acqua e aiuto Salo, Maxi e Karl a lavare i corpi smunti degli scampati. Bisogna ammettere che si prova ribrezzo per quegli scheletri umani. Sembrano spettri spaventosi. Le mani si sforzano di fare il loro dovere, ma il cuore, come a farlo apposta, si rifiuta di immedesimarsi. Da loro emanano disperazione e morte e dentro di sé uno non trova la forza di dire che sono fratelli e sorelle e che bisogna gioire di loro.
La figura gigantesca di Danzig strappa quegli scampati all'angoscia, che levano gli occhi verso di lui come fosse un dio salvatore. Ma il più efficace per la loro resurrezione è, incredibile a dirsi, Victor, che non ha ribrezzo dell'urina e delle feci e ci insegna che cos'è l'amore per il prossimo.
Victor si sente vicino a quei sofferenti e fa di tutto per alleviare il loro dolore. Ha subito un grande cambiamento. Il contadino ucraino che è in lui trapela ancora e può darsi che in un campo di mais non ci sia alcuna differenza fra lui e i suoi compagni di tribù , ma qui, fra noi, alcuni suoi gesti fanno venire in mente un monaco che ha annullato il suo egoismo ed è dedito all'umanità, qualunque essa sia.
Kamil ogni tanto gli chiede del suo villaggio e dei paesi intorno, e di quell'ucraino e della sua compagna ammazzati, mentre la figlia è stata portata via. Victor cerca di ricordarsi, ma non gli viene in mente niente di più di quello che ha già raccontato.
Una volta sentii Kamil che gemeva:
"Pavel, Pavel, dove sei sparito?" Rividi subito Pavel, alto e agile, un combattente dai gesti precisi e pieni di un'eleganza discreta.
Facciamo un'incursione al giorno e portiamo alla base provviste, utensili, vestiti, tessuti e pelli di pecora. Nel bottino finiscono a volte una camicia da città o oggetti usati solo dagli ebrei. Durante un'incursione abbiamo trovato un paio di candelieri con sopra inciso "Sabato santo".
Per svariate ragioni non è possibile fare un'incursione in una casa dove siamo già stati. Ci spingiamo dunque sino alle dimore isolate sul costone del monte, o a quelle nascoste nei pendii.
Kamil aveva in programma di scendere ogni settimana in pianura e far deragliare i treni che portano gli ebrei ai campi. Al momento non possiamo farlo. Continuiamo con le pattuglie e gli agguati. Si annida in noi l'oscuro presentimento che d'ora in poi ci occuperemo solo di saccheggi e ruberie e i contadini alla fin fine si alleeranno, si metteranno con i tedeschi e ci stringeranno d'assedio. La loro ostilità non è da meno di quella dei tedeschi e hanno armi in abbondanza.
Il mio amico Emil si è ripreso, si regge in piedi e va al gabinetto, ma ha ancora lo sguardo fiacco e stordito. Non chiede dei miei genitori, ma mi ha raccontato dei suoi, ciechi, che passavano il tempo a intrecciare ceste e a tessere tappeti e faticavano a tirare avanti. Emil li aiutava sin da quando era bambino. Dopo la maggiorità religiosa, quando aveva cominciato a dare lezioni private, la povertà era stata scongiurata.
I suoi genitori erano stati fra i primi a essere portati via dal ghetto. Quando Emil parla dei suoi genitori si capisce che è legato a loro con tutte le fibre dell'anima. Non ne parla al passato, dice:
"Mamma è puntigliosa. Ogni tappeto che esce dalle sue mani è perfetto, senza il minimo difetto. Papà ama parlare mentre tesse. Perciò sbaglia e il prezzo della sua merce è molto inferiore".
Sin da quando era bambino osserva i genitori e qualcosa della loro cecità ha attecchito in lui. Persino adesso.
Che strano, sia noi sia quelli che sono arrivati da poco non parliamo molto delle famiglie che abbiamo lasciato. Siamo indaffarati con le incombenze quotidiane, ascoltiamo la radio, ma non ci illudiamo che presto la vita tornerà a essere quella di prima.
Nel frattempo le tende si sono piuttosto affollate. Salo e Maxi non hanno abbastanza medicine per alleviare il dolore di chi soffre. Il medico prigioniero brontola e accusa i suoi carcerieri di averlo portato via da casa e allontanato dai suoi pazienti. Felix lo ha minacciato più volte che se continua così lo uccideranno anche senza processo in tribunale.
"Non m'importa, non ho paura" dice lui senza guardare Felix negli occhi. Si fatica a capire una tale sfrontatezza, a meno di pensare che per lui occuparsi di ebrei sia una cosa umiliante. Meglio morire piuttosto che essere prigioniero degli ebrei e dover curare i loro malati.
Secondo Victor non bisogna disperare. A quindici chilometri di distanza c'è una farmacia, che fra l'altro apparteneva a un ebreo. E' ancora aperta e bisogna correre ad assalirla, guai a indugiare. Kamil ha aperto la mappa e indicato il punto preciso.
L'ufficiale tedesco continua ad avere la febbre. Non abbiamo medicine ma gli abbiamo aggiunto una coperta. Urla tutta la notte, continua a giurare che è stato fedele alla patria e al suo comandante, insulta la fidanzata mettendo in dubbio la sua fedeltà. Chiede ai genitori di darle una lezione. A quelle allucinazioni si aggiungono anche altre vicende, di donne e di onore. Tutto fra grida e ordini.
Io sono sempre stanco. Dormo in piedi, camminando a ogni occasione. Il mio sonno non è tranquillo, ma per fortuna le visioni se ne vanno quando apro gli occhi. Ieri ho visto chiaramente Anastasia, che è rimasta in me, solo che il suo corpo slanciato era coperto di una pelliccia marrone.
Volevo avvicinarmi e accarezzarla, ma capivo subito che mi avrebbe morso. In effetti si girava scoprendo i denti pieni e belli. "Anastasia" chiamavo, "non mi riconosci?" Lei mi rivolgeva uno sguardo animalesco. Non sapevo se fosse una minaccia o una offerta di intimità. Le domandavo di nuovo: "Non mi riconosci?" All'udire nuovamente la mia domanda lei sorrideva. No, mi sbagliavo. Mi fissava di nuovo con uno sguardo colmo di risentimento, come a dire: "Che ci fai qui? Tutti i segnali dicevano che te n'eri andato e non saresti tornato".
Al mio risveglio mi ricordavo benissimo il sogno. Avevo l'impressione che le truppe fossero uscite per un'azione e che io, siccome dormivo, me ne fossi scordato. Ormai non li avrei più raggiunti. Sono andato in cucina e ho visto che i combattenti erano distesi sul giaciglio di ramoscelli, a bere tè e a fumare, e mi sono sentito sollevato.
Penuria di provviste. Malgrado le poche informazioni raccolte sulla misteriosa farmacia si era deciso di assaltarla. Kamil era tutto infervorato, e dopo aver pronunciato la parola d'ordine "Medico dei malati" ci rammentò che le nostre missioni notturne servivano a salvare vite, nel vero senso della parola. "Al momento non siamo in grado di scendere in pianura a far deragliare i treni. Ma se riusciamo a prendere delle medicine, faremo del bene ai dolenti". Nevicava e il gelo faceva bruciare il viso. La limpida voce di Kamil riecheggiò nelle nostre orecchie ancora per un bel tratto di strada. Eravamo nel campo visivo della nostra pattuglia, che ci accompagnava, e se per caso fossimo caduti in un'imboscata ci avrebbe soccorso.
Non potevamo fare a meno di ripeterci, e sempre con un senso di colpa, che era più facile partire per un'operazione con Felix che con Kamil. Il suo silenzio, il suo passo regolare, le sue giuste direttive: con Felix al comando si aveva la certezza che l'operazione sarebbe andata esattamente come previsto, che saremmo tornati alla base senza esaltazione né entusiasmi soverchi, ma felici di quel che avevamo fatto.
Il tragitto fu più breve di quanto non immaginassimo. Ci fermammo a circa duecento metri da un edificio buio di modeste dimensioni che recava sulla facciata un'insegna con la scritta "Farmacia". Il nome del proprietario era stato cancellato, ma con un certo sforzo si riusciva ancora a leggere "Aharon Samuelevitch". Tutt'intorno regnava la quiete delle case circondate dalla neve alta.
Un attimo prima dell'attacco pare di saltare dentro dell'acqua scura. Il corpo trema, ma le mani si riempiono di energia e in un istante superano la paura.
Forzammo la porta sul retro senza fare alcun rumore. Penetrammo nell'oscurità e subito cominciammo a riempire i sacchi che avevamo portato con noi. Lo facemmo con metodo, uno scaffale dopo l'altro. Metà del plotone era rimasto fuori a fare la guardia. Dopo una mezz'oretta tutte le medicine erano ormai distribuite dentro sette sacchi. Uscimmo chiudendo la porta.
Felix era felice. Ma lui, diversamente da Kamil, non fa mostra della propria soddisfazione. I sacchi erano pieni, ma non pesanti. Emanavano odore di medicinali.
Quando mamma era a letto malata, papà correva da un medico all'altro, da una farmacia all'altra, e se riusciva a comprare una medicina correva a casa a perdifiato.
Mancava il denaro. All'inizio papà aveva venduto il suo orologio d'oro, poi i gioielli di mamma. Ai medici non importava, loro esigevano tutta la parcella. E anche i farmacisti non facevano sconti. Eravamo sempre stati una famiglia benestante e in un batter d'occhio eravamo finiti in rovina. Le mani di papà tremavano sul tavolo.
Io non avevo partecipato a quel dolore. Ero tutto preso della mia strana felicità e mi rifiutavo di condividere la disperata battaglia dei miei genitori.
Ora vidi improvvisamente mio padre come non l'avevo mai visto: seduto a tavola, la mano premuta contro la bocca, tutt'a un tratto alza la testa, mi guarda e domanda senza parole: "Edmond, che male ti abbiamo fatto che ti sei allontanato da noi? Non ti chiediamo di aiutarci, la tua felicità ci è assai preziosa. Ma se ti volti per un attimo e chiedi come sta mamma, fai una gran buona azione. E' molto malata, sta per essere operata, una buona parola le darà forza".
Sento lo sguardo di papà in tutte le parti del mio corpo, ma non ho la forza di fare quello che mi chiede. Lo sfuggo e corro fuori per incontrare Anastasia, che mi conquista subito con i suoi occhioni. Solo in seguito, sotto l'albero con le fronde curve sino a terra, vedo nitidamente lo sguardo di papà e la passione ardente che c'è in me si spegne, e mi prende freddo alle dita dei piedi.
Anche Isidore mi ha detto che ora non è più sicuro di aver fatto bene a scappare abbandonando i suoi genitori. La dizione di Isidore è talmente precisa da far male. Le sue preghiere provocano negli altri una grande emozione, ma evidentemente non fanno effetto su di lui. Mi ha già detto: "Le preghiere non sono mie ma di mio nonno". Io non volevo subissarlo di domande. Uno potrebbe ferire anche con una domanda prudente.
Qualche tempo fa un combattente ha alzato la voce, sembrava un grido spezzato, perché qualcuno gli aveva fatto una domanda inopportuna.
Persino Karl, robusto e taciturno com'è, ha sgridato uno che ingenuamente gli aveva chiesto quanto tempo era stato nel ghetto. Ormai sappiamo che è meglio tacere. [. . .]
Intanto in cielo si sentono dei forti tuoni. Dapprima sembravano annunciare una tempesta di neve, ma alcuni veterani della Prima guerra mondiale hanno capito subito che si tratta di cannonate.
Con il passare delle ore abbiamo avuto la certezza che è proprio l'artiglieria che risuona all'orizzonte. Kamil resta indifferente a quei segni inequivocabili. Ripete che l'attacco è imminente e che bisogna prepararsi. Felix è d'accordo con lui.
Non c'è logica, ripetono i suoi detrattori. L'Armata Rossa avanza all'attacco, l'esercito tedesco è troppo impegnato a ritirarsi per pensare che voglia continuare a far fuori gli ebrei.
"Ti sbagli, mio caro" dice Kamil rivolgendosi a un veterano, "per Hitler uccidere gli ebrei è un atto di fede. Ha giurato di annientarci. E' vero che questo contraddice la logica militare, ma che possiamo farci se la guerra contro gli ebrei proviene dalle profondità della loro tenebra, se le sue motivazioni sono incomprensibili?"
Kamil migliora in eloquenza via via che aumentano i suoi oppositori. Come ho detto, è bravo nella guerra dei pochi contro molti, e anche quando si tratta di guerra delle idee, la sua retorica è ineccepibile.
E' chiaro come il sole che l'Armata Rossa li ha colpiti e si sta avvicinando. Felix ha fatto un calcolo: sono a circa trecento chilometri da noi. Questi conti non riducono la vigilanza: alcune squadre si esercitano e altre pattugliano. Anche le incursioni vanno avanti quotidianamente. E Victor continua a ripetere: "L'uccisione degli ebrei per loro è in cima alla lista. Il loro odio non conosce freni, guai a cercare una logica nelle loro azioni".
La neve è già alta un metro. Scendere e salire dalla vetta è una fatica improba. Persino i combattenti tornano sfiniti da ogni incursione. Ma che possiamo farci? Le incursioni sono necessarie. Dobbiamo nutrire decine di persone.
Nel frattempo io ho avuto un permesso notturno e sono caduto all'istante in un sonno profondo. Nel sogno stavo andando a casa. Il timore e l'emozione mi rallentavano il passo. Notavo subito che nel sobborgo era tutto come prima. I due pioppi davanti a casa erano lì. Le foglie argentate che amavo guardare e di cui mi piaceva ascoltare il fruscio erano cadute mentre ero lontano. Dai comignoli delle case dei vicini ucraini usciva il fumo. Conoscevo bene quella pace. Al mio ritorno da scuola mi fermavo ad assaporarla. Noi eravamo diversi dagli altri vicini, nel nostro cortile non c'erano vacche o polli. Il nostro cortile aveva un tappeto erboso e delle aiuole di fiori. Nel pomeriggio ci sedevamo in veranda o in cortile. Era un'ora di grazia, tranquilla, le luci che calavano dalle acacie si confondevano nell'ombra.
Mi fermavo davanti a casa. Il cancello del cortile era chiuso ma non a chiave. Lo aprivo e non proseguivo oltre: il prato era grigio ai bordi, le acacie erano spoglie, la cuccia di Niki vuota, segno che lui se ne stava in salotto. Sentivo che mi aspettava una grande sorpresa, ma non sapevo di che genere.
Molti mesi erano passati da quando avevamo frettolosamente abbandonato casa. Temevo di entrare e chissà perché indugiavo. In cortile, comunque, non era cambiato nulla. Chissà se Nadia stava badando alla casa ... Era probabile di sì. Era molto devota a mamma. Durante la sua malattia le dava da mangiare, e diversamente da altre domestiche era rimasta a servizio anche quando era stato proibito di lavorare per gli ebrei.
Mi avvicinavo e bussavo. Nessun rumore, nessuna risposta. Bussavo di nuovo e senza rendermene conto aprivo la porta. L'ingresso era come sempre. Sull'attaccapanni erano appesi i cappotti di papà, di mamma e anche il mio berretto accanto a quello di papà: segno che la casa non era stata abbandonata e forse papà e mamma erano tornati e stavano riposando.
Avanzavo con prudenza. In salotto, comunque, qualcosa era cambiato. Invece dei disegni del famoso pittore Rosenberg c'erano appese tre icone. Questa sorpresa chissà perché non mi spaventava. Le altre cose invece erano al loro posto, anche il grammofono. In camera dei miei genitori era appesa un'icona ma il letto, il copriletto e i cuscini erano al loro posto. In camera mia non c'erano icone, tutto era al suo posto, la cartella ai piedi della scrivania.
"Mamma" chiamavo, e la voce si fermava un secondo prima di spezzarsi. Tornavo in salotto e mi sedevo sulla mia amata poltrona. E' tutto a posto, mi ripetevo. Ma dentro di me sapevo che il silenzio non era quello che avevamo lasciato noi.
La verità saltava subito fuori: sulla soglia che collegava il salotto alla cucina c'era Nadia. Mi sembrava più giovane e indossava il grembiule di mamma.
"Nadia" mi sfuggiva di bocca. "Chi sei?" domandava facendo un passo indietro. "Edmond" dicevo sottovoce. "Non mi riconosci?" Strizzava gli occhi, mi guardava, si avvicinava e fissandomi alla fine diceva: "Sei tu, e tuttavia non sei tu". "Non sono altri che Edmond" dicevo stupito di quelle mie parole. "Avevano detto che gli ebrei non sarebbero mai più tornati" diceva Nadia con la sua solita voce. "Chi l'ha detto?" "Tutti". "E tu ci hai creduto?" dicevo alzandomi in piedi. "Sinora non è tornato neanche un ebreo".
"E non mi permetteresti di entrare in casa?"
"No" diceva in tono piatto, "adesso è casa mia. Ho lavorato qui per più di vent'anni e sono l'erede legale. Il comune ha riconosciuto i miei diritti".
"E io?"
"Tu appartieni a un altro posto, il tuo posto qui è sparito. Voglio ricordarti una cosa: durante il periodo del ghetto eri preso da Anastasia. Non hai trovato neanche un quarto d'ora per stare accanto a tua madre malata e condividere le sue sofferenze".
"Anche ai miei genitori non permetterai di entrare?" "Come fai a sapere che torneranno?" "Lo suppongo". "Tu comunque non hai alcun diritto qui. Un figlio che si è estraniato dalla madre malata non ha diritto a ereditarne la casa. E' ovvio. Come se non bastasse, tutti i beni degli ebrei appartengono ora al comune. Consiglio a te e ai tuoi genitori, se torneranno, di non insistere. Il destino è questo: c'è chi vive e chi muore".
"Io sono vivo" dicevo puntando il fucile.
"Non spararmi" diceva Nadia con una voce roca e stridente che mi ha svegliato.
(Il Foglio, 14 gennaio 2017 - trad. Elena Loewenthal)
Shoah, mostra a Torino su Jan Karski
A Palazzo Cisterna dal 31 gennaio al 17 febbraio
TORINO - In occasione del Giorno della Memoria a Palazzo Dal Pozzo della Cisterna, sede della Città Metropolitana di Torino, sarà allestita una mostra dedicata a Jan Karski, il corriere dello Stato "segreto" polacco e del Governo in esilio della Repubblica Polacca durante la Seconda Guerra Mondiale. La mostra è itinerante ed stata realizzata dal Museo della Storia della Polonia e dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Polonia. L'allestimento a Torino verrà realizzato in collaborazione con la Città Metropolitana, il Consolato Generale di Polonia a Milano, il Consolato onorario di Polonia a Torino, la Comunità Ebraica di Torino e la Comunità Polacca di Torino-Ognisko Polskie w Turynie. L'inaugurazione della mostra è in programma il 30 gennaio e sarà visitabile dal 31 gennaio al 17 febbraio. Karski fu tra i primi a informare il mondo sulla politica tedesca di sterminio sistematico degli ebrei. I suoi interlocutori, purtroppo, non compresero le dimensioni dell'immane tragedia.
(ANSA, 13 gennaio 2017)
Gerusalemme - Obama tenta il colpo di coda
di Fiamma Nirenstein
Forza, veloci, non perdiamo tempo, Obama è ancora alla Casa Bianca per 10 giorni, il Consiglio di Sicurezza è là con le fauci spalancate, e chissà che non si riesca ad assestare un'altra bella botta a Israele contando sul!' eco alla risoluzione che verrà presa.
Diamogli giù adesso, è una bella occasione, un'altra grande, imponente, condanna internazionale proprio dopo l'attentato di Gerusalemme, con un'ipocrita esaltazione della famosa formula «due stati per due popoli» e la condanna della «politica degli insediamenti». Sarà una sventola a Netanyahu. Facciamolo subito. Parigi, da sempre antisraeliana, sarà di grande ispirazione: condanniamo Israele visto che mancano ancora pochi giorni prima che si cominci a ripensare, con l'insediamento di Trump il 20, la formula «due stati per due popoli». Sarebbe stato una bella idea se uno dei due non fosse tutto impregnato ideologia autoritaria, islamista e terrorista, se Hamas non fosse ormai vincente, se Abu Mazen non avesse basato il consenso sul rifiuto di ogni accordo con lo Stato d'Israele. La Conferenza di Parigi di domenica è forse l'ultima occasione per pestare lo Stato Ebraico prima che un cambiamento epocale induca a capire che quel rifiuto fatto di bombe, auto in corsa, pugnali, sequestri, rapimenti.. Comincia molto prima che i famosi «territori» fossero occupati nella guerra del '67, guerra di difesa indispensabile alla sopravvivenza contro gli aggressori, fra cui la Giordania che occupava quegli spazi, essa, e non i palestinesi che non sono mai stati una nazione.
La Conferenza di Parigi che inizia domenica riunisce nella capitale francese 77 nazioni, è accompagnata da un corteggio di «urrà» di ex ambasciatori francesi (hanno scritto un fondo su Le Monde di una vacuità sconcertante, nello stile del loro ambasciatore che a una serata londinese chiamò Israele «that shitty little country»], di intellettuali chic anche israeliani che adorano mescolarsi al politically correct che disprezza il problema della sicurezza: è lo sforzo del tramonto di Hollande, che cercò di evitare Netanyahu in corteo contro il terrorismo al tempo del Bataclan. La Francia è sempre stata antisemita, il Quai d'Orsay ha una storia d'affari e amore con il mondo arabo, sempre basati su accordi antisraeliani. Adesso, in un momento in cui sarebbe vitale una soluzione per la Siria, per la Libia, per l'Irak, per il terrorismo in Turchia, per la reviviscenza dell'Iran, ecco che la Francia si pavesa di bandiere palestinesi dopo l'attacco col camion a Gerusalemme. L'Europa crea l'alibi per i palestinesi per rifiutare qualsiasi colloquio, tanto riceveranno la pappa scodellata, e fomenta i loro attacchi nutrimento per il terrorismo in tutto il mondo. Paradosso ultimativo, l'assenza dei protagonisti: Israele sa che è una presa in giro, e i palestinesi perché esserci gli darà meno vantaggi del bla bla delle risoluzioni internazionali.
(il Giornale, 13 gennaio 2017)
I milioni del governo francese alle ong che boicottano Israele
La Piattaforma delle onlus palestinesi riceve il 40% del budget da Parigi. E spende i fondi facendo propaganda.
di Fausto Biloslavo
La Francia aiuta con milioni di euro ong palestinesi che si battono per il boicottaggio di Israele o sono collegate a gruppi del terrore. La denuncia è saltata fuori in vista della conferenza sul dialogo di pace fra palestinesi e israeliani, domenica a Parigi. Peccato che gli israeliani si siano rifiutati di partecipare e ieri il premier Netanyahu abbia bollato la conferenza come «una truffa palestinese sostenuta dalla Francia».
La Piattaforma delle Ong palestinesi in Francia riceve il 40% del suo budget dal governo per un progetto che punta a influenzare politici, media e pubblica opinione sul conflitto con Israele. E nello stesso tempo la Piattaforma appoggia il boicottaggio contro Israele violando la stessa legge francese. Nel mirino i beni prodotti negli insediamenti ebraici importati in Francia e le banche israeliane. Il governo di Parigi ha elargito 225mila euro alla Piattaforma, nel 2014, per il progetto «Meglio agire per il rispetto dei diritti in Palestina». Partner dell'iniziativa è pure l'associazione Ittijah. Il suo capo nel 2010, Amir Makhoul, è stato condannato a 9 anni di carcere per spionaggio a favore di Hezbollah. Altre 3 Ong coinvolte nel boicottaggio di Israele hanno ricevuto negli ultimi 5 anni quasi 2 milioni di euro dal governo come fondi per diversi progetti.
I l rapporto-denuncia è stato preparato da Ngo monitor un'associazione israeliana specializzata a radiografare gli aiuti, soprattutto europei, a organizzazioni palestinesi che usano come paravento i diritti e l'intervento umanitario per la lotta contro lo stato ebraico.
Le accuse più gravi riguardano i fondi del governo francese ad associazioni collegate al Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Pplp), organizzazione terroristica per gli Stati Uniti e l'Unione europea. L'Ong, Unione dei comitati di lavoro agricolo, ha potuto realizzare un ampio progetto nella zona di Hebron grazie al governo francese e al Consiglio regionale della Costa Azzurra, come principali donatori con 301.176 euro. L' associazione è stata addirittura fondata da membri dell'Fplp e considerata dall'ente di cooperazione Usa «il braccio agricolo» dell'organizzazione terroristica palestinese.
La Francia aiuta anche una nota Ong israeliana, il Centro di informazione alternativa, che accusa lo stato ebraico di «pulizia etnica» e appoggia il boicottaggio dei prodotti lanciato dai palestinesi. Anche questa Ong è accusata dagli israeliani, che controllano il mondo no profit, di collegamenti con il Fronte popolare. Fondi sono arrivati dal governo di Parigi e la presidenza della Repubblica ha insignito il Centro di informazione alternativa del premio «per i diritti dell'uomo».
Un altro caso riguarda la palestinese Al Haq, leader nella campagna di boicottaggio contro Israele. Il direttore generale, Shawan Jabarin, è stato accusato in Israele di collegamenti con il Fronte e non poteva lasciare il Paese. Nonostante ciò il ministero degli Esteri francese ha comunque donato 27.842 euro alla discussa Ong, nel 2015, per aiutarla in attività «nel campo privato e dei diritti umani».
Gerald Steinberg, presidente di Ngo monitor, è secco: «In un momento in cui la Francia è stata scelta per ospitare un vertice dedicato alla pace, questo tipo di sostegno finanziario getta dubbi significativi sulla sua capacità di imparzialità».
(il Giornale, 13 gennaio 2017)
Moretto contro il fascista. Il ghetto di Roma come un ring
Un giovane pugile ebreo e un rigattiere collaborazionista sullo sfondo della Resistenza dei perseguitati nella Capitale occupata. Un libro di Molinari e Osti Guerrazzi.
di Mirella Serri
A Roma nel dedalo di viuzze che circondano il Portico d'Ottavia, chiamato confidenzialmente la Piazza dagli ebrei romani, Elena era considerata una tipa un po' stramba, una visionaria. A tarda sera del 15 ottobre 1943, tutta scarmigliata, cominciò a bussare alle porte delle case. Il suo obiettivo? Convocare i capi famiglia. Ma quasi nessuno le diede retta. All'alba del mattino dopo, quando le SS bloccarono via di Sant'Angelo in Peschiera, via del Teatro di Marcello e gli altri accessi al Ghetto, gli ebrei romani capirono che la «matta» aveva ragione e che era in atto quella retata dei nazisti a cui la donna li sollecitava a reagire. Ma come?
Non era impossibile. C'era qualcuno in quelle strade e in quelle piazze che, fin dalla data dell'emanazione delle leggi razziali, aveva cercato di far capire ai correligionari che la rassegnazione era un passaporto per l'aldilà: si trattava di Moretto, al secolo Pacifico Di Consiglio. Questo pugile dilettante fu così uno dei pochi ebrei a mettere in atto un'eccezionale strategia di sopravvivenza: adesso a ripercorrere la vicenda di questo piccolo-grande ribelle sono Maurizio Molinari e Amedeo Osti Guerrazzi in Duello nel Ghetto (in uscita per Rizzoli, pp. 265, 6euro; 20). Un romanzo-verità che con materiali d'archivio e testimonianze inedite ricostruisce, come recita il sottotitolo, «La sfida di un ebreo contro le bande nazifasciste nella Roma occupata».
Tra i diseredati
Il libro di Molinari e Osti Guerrazzi ridà anima e corpo al prestante Pacifico e al suo scontro all'ultimo sangue con Luigi Roselli, uno dei più crudeli collaborazionisti dei nazisti. Ma la vicenda all'Ok Corral tra Moretto e il fascista s'intreccia con una narrazione corale di cui fanno parte gli Spizzichino, i Di Segni, i Pavoncello, i Di Porto e tutti gli altri esponenti della Comunità ebraica romana, costituita in gran parte da diseredati, da coloro che praticavano i mestieri più umili e vari, dagli «stracciaroli» ai «ricordari» o «urtìsti» (quelli che vendono cartoline-ricordo e statuette nel centro capitolino buttandosi «a urto» sui turisti).
È tutto un mondo unito, solidale e colorato che frequenta il bar di Monte Savello e il ristorante Il Fantino in via della Tribuna Campitelli, e che diventa protagonista di una storia fino a oggi mai raccontata: la resistenza dei «dannati della terra», dì coloro che non se ne vanno, fieri di essere italiani e ebrei. Che, quando viene applicata la legislazione antisemita, non hanno rapporti con gli alti papaveri dei ministeri, non hanno aderenze o amici importanti che permettano loro dì essere «discriminati» e di scapolarsela di fronte ai provvedimenti razziali. Che vogliono comunque dimostrare che Roma appartiene anche a loro e alla loro tradizione.
Se quindi, da un lato, l'ebreo Mario Fiorentini entra a far parte dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica del Partito comunista, Paolo Alatri da prima della guerra cela un deposito di armi e una tipografia clandestina e l'editore Ottolenghi crea un'organizzazione di combattenti, vi sono anche altri oppositori del regime, proprio come Moretto, ragazzo di bottega che dopo 1'8 settembre, privo di relazioni e di conoscenze, cerca senza riuscirci di aggregarsi ai primi gruppi di partigiani.
Da quando aveva compiuto 17 anni nel fatidico '38 dell'emanazione delle leggi razziali, Pacifico era un perseguitato speciale: le camicie nere del quartiere, come Roselli di professione rigattiere, non tolleravano il suo disprezzo. Il pugile Pacifico era tale di nome ma non di fatto, i suoi uppercut erano ben mirati e non chinò mai la testa di fronte alle più violente smargiassate.
Moderno Scaramouche
Dopo che è stata diffusa la notizia dell'armistizio con gli angloamericani, Moretto, impugnando una mitraglietta, è con tanti altri antifascisti a Porta San Paolo e cerca di ostacolare l'avanzata della Wehrmacht. Invece Elena «la matta», con un manipolo di ebrei, prova a procurarsi armi e munizioni. Sfuggito per un pelo al rastrellamento del 16 ottobre, Di Consiglio sarà nel mirino di Roselli il quale, dopo l'occupazione nazista della Capitale, aveva messo su una vera e propria industria della morte e del ricatto: in cambio di quattrini, prometteva agli ebrei la libertà e poi li denunciava al colonnello Kappler.
Pacifico elaborò un piano audace per aiutare gli abitanti del ghetto: sedusse la nipote di Roselli e, tramite le informazioni che gli passava la ragazza, da moderno Scaramouche si faceva beffe dei persecutori e strappava loro le vittime. L'ora fatale arrivò anche per lui: arrestato e picchiato a sangue venne portato in via Tasso e poi a Regina Coeli. Caricato su un camion con destinazione prima Fossoli e poi Auschwitz, riuscì a scappare. Però non abbandonò Roma e tornò sempre Iì dove erano le sue radici, a Portico d'Ottavia. La Comunità è falcidiata da deportazioni, lutti, miseria e Pacifico-lupo solitario sotto l'impermeabile bianco maschera la pistola per freddare nazisti e fascisti. Nel giugno 1944, quando le truppe alleate entrano nella capitale, combatte al loro fianco e aiuta i soldati americani a liberarsi degli ultimi cecchini tedeschi, quindi prenderà la tessera del Partito d'Azione. E gli aguzzini?
Un cazzotto al torturatore
Roselli e il suo gruppo di accoliti, di cui faceva parte la nota «Pantera nera», una bellissima ebrea che denunciava i correligionari, furono processati nel marzo del 1947: Moretto è uno dei testimoni determinanti per la condanna. Quando arriva in tribunale, alto un metro e ottanta e con le sue spalle possenti, si fa largo tra la folla, supera lo sbarramento dei carabinieri e molla un cazzotto in faccia a uno dei suoi ex torturatori. Gli imputati verranno condannati a pene dure ma l'amnistia voluta da Palmiro Togliatti cancellerà parecchi anni di carcere.
Nemmeno a guerra finita però Moretto «ha perso la voglia di lottare», scrivono gli autori, «e la battaglia ora si chiama memoria». Negli anni condividerà le proprie avventure e la propria esperienza con le nuove generazioni. Dunque anche grazie ai ricordi di Moretto (scomparso nel 2006) i due scrittori hanno potuto restituirci la voce e la superba Resistenza dei poveri e dannati in uno dei periodi più oscuri della storia italiana.
(La Stampa, 13 gennaio 2017)
"Israele garanzia della pace. A Parigi l'Italia sia d'esempio"
La Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni ha inteso ricapitolare, con un messaggio rivolto al Governo italiano alla vigilia della Conferenza di Parigi sulla pace in Medio Oriente, alcuni dei temi affrontati nelle scorse ore nel corso di un cordiale e approfondito incontro svoltosi alla Farnesina con il ministro degli Esteri Angelino Alfano.
"L'Italia - si legge nel documento - tramite il suo ministro degli Esteri Angelino Alfano, si appresta a partecipare alla Conferenza di Parigi dedicata al conflitto in Medio Oriente.
Al nostro governo rivolgiamo un appello che nasce dal cuore e dalla constatazione di quello che è il presente vissuto e il futuro che ci attende.
Un appello che nasce sulle due rive che si affacciano sul Mediterraneo - quella europea e quella mediorientale - quella italiana e quella israeliana.
Si tratta di un'iniziativa che si annuncia assai partecipata, con il coinvolgimento di delegazioni e rappresentanti di oltre settanta governi. In un contesto tanto affollato, mancheranno però i due principali protagonisti: Israele e i palestinesi. Un'assenza su cui è necessario riflettere.
Gli Stati nazionali e le Organizzazioni internazionali non potranno sostituirsi alle parti in causa nel definire il percorso che porterà alla necessaria convivenza, all'anelata pace, alla costruzione di uno spazio mediorientale di crescita e di sviluppo. Possono, tuttavia, assolvere un compito ineludibile: statuire i principi sulla base dei quali le parti debbano dialogare.
L'auspicio è che l'Italia, forte della sua sincera amicizia con Israele, forte del legame indissolubile saldamente incardinato nelle relazioni tra i due paesi su un piano storico, culturale e politico, possa chiaramente esprimere una posizione di sostegno al dialogo che non prescinda, ma al contrario sia fondato, sul diritto inequivocabile all'esistenza in pace e sicurezza dello Stato di Israele.
È necessario trovare il coraggio di dire che la vita viene prima di tutto. Sancire la categorica condanna del terrorismo, della cultura dell'odio sotto ogni forma.
Trovare il coraggio di dire che Israele oggi esiste. Israele ha il diritto di continuare ad esistere in sicurezza. E' un'affermazione basilare e doverosa proprio in un contesto così ampio, cosi condizionato. L'Europa e l'Italia devono prendere atto che Israele è la sola realtà che con la sua democrazia, con il suo amore per la vita, la scienza e la cultura rappresenta il futuro di ciascuno di noi che vive oggi in Europa. E' lo specchio che corrisponde alla nostra esistenza e ai nostri ideali di pace e di progresso.
Favorire un negoziato diretto, tra le due parti, senza che la comunità internazionale, e le logiche (illogiche) della strumentalizzazione prevalgano e generino distorsioni alle quali abbiamo disperatamente assistito.
Favorire i "sì" e la volontà di impegnarsi, senza precondizioni, e poi passare nelle successive fasi alla trattazione dei singoli dossier, singoli aspetti e temi. Difficili per quanto possano essere - dalle questioni idriche, alle questioni territoriali, alla questione Gerusalemme, capitale eterna di Israele - sono questioni successive.
È necessario raggiungere una soluzione che riconosca due Stati - lo Stato di Israele per il popolo ebraico, lo Stato palestinese per il popolo palestinese. Perché vogliamo vivere, vogliamo convivere, vogliamo condividere.
L'Italia con le sue radici religiose, i valori e la cultura mediterranea, con la sua vocazione, cura e impegno di garante della pace in diverse regioni, può veicolare questa sfida. Può assumere un ruolo di guida e di riferimento anche per le altre nazioni, e porsi quale interlocutore per la regione mediorientale oggi lacerata e logorata dalla guerra e dal conflitto permanente.
Attendiamo allora il domani e il dopodomani. Attendiamo fiduciosi che l'Italia, raccogliendo questo appello, sia protagonista della pace e della giustizia fra i popoli, che sappia diffonderlo e condividerlo con le numerose delegazioni presenti, che sappia affermarlo al di là di ogni esitazione".
Noemi Di Segni
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(moked, 12 gennaio 2017)
Israele-Sierra Leone: il presidente Koroma vuole recuperare le relazioni con Gerusalemme
GERUSALEMME - Il presidente della Sierra Leone, Ernest Bai Koroma è "rincuorato" dagli sforzi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di ricostruire le relazioni con l'Africa e spera di "ravvivare" la lunga "relazione fraterna" del suo paese con Israele. I commenti di Koroma sono arrivati poco prima dell'incontro con Netanyahu, nel secondo giorno della sua visita in Israele. Koroma ha auspicato la restaurazione delle relazioni che sussistevano tra i due paesi nel periodo dell'indipendenza della Sierra Leone, nel 1961, e ha osservato che sia prima che immediatamente dopo l'indipendenza, Israele ha fornito sostegno a quel paese, costruendo numerosi edifici pubblici nella capitale Freetown. La Sierra Leone ha fatto parte di quei paesi che in seguito alla Guerra dello Yom Kippur nel 1973 hanno interrotto le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.
(Agenzia Nova, 12 gennaio 2017)
Il soldato e il terrorista. Una condanna che fa discutere nella polveriera di Hebron
di Laura Rossi
L'opinione pubblica israeliana in questi giorni si trova drammaticamente spaccata in due a causa della condanna per omicidio colposo nei confronti del giovane soldato, oggi ventenne, Azarya Elor, decretata dalla corte marziale militare israeliana. Una condanna che fa discutere, anche perché, all'epoca dei terribili avvenimenti di Hebron (24 marzo 2016), il giovane soldato aveva solamente 19 anni e, trovandosi nel mezzo di un attentato in cui due militari suoi amici venivano accoltellati e ridotti in fin di vita, non ha esitato a sparare alla testa uccidendo il terrorista palestinese, seppur già ferito e a terra. I dubbi sulla condanna riguardano il fatto che il terrorista, nonostante gli fosse stato ordinato di non muoversi, secondo le ricostruzioni continuava a farlo destando timori sulle sue intenzioni: se avesse attivato un giubbotto esplosivo causando una carneficina? Tutti gli ufficiali presenti sulla scena hanno testimoniato a favore del giovane Azarya. Perché non si è voluto tener conto del fatto che le procedure - nel caso di un terrorista sospettato di indossare una cintura esplosiva - indicano di sparare alla testa se questo si muove o muove una mano?
Ma la giustizia israeliana ha voluto da prova di imparzialità, in un paese in cui vige lo stato di diritto retto da una magistratura indipendente, in cui anche Presidenti e i Primi Ministri vengono condannati alla galera. Resta il fatto che, a giudizio della maggior parte delle opinioni pubbliche, sia israeliane che italiane, questa condanna inflitta al giovane soldato è eccessiva.
Michael Sfaradi giornalista e scrittore, italiano di nascita ma residente in Israele da oltre 30 anni, spesso impegnato come corrispondente di guerra, in un'intervista ad un giornale svizzero afferma: "
Serviva un colpevole e un colpevole è stato servito senza attenuanti. Come attenuante non è servita la giovane età dell'imputato in servizio di leva messo in una situazione di ordine pubblico che sarebbe stato invece compito della polizia."
Sul web fanno eco altri commenti:
Silvia: "L'unico Stato al mondo dove un soldato che uccide un terrorista viene processato e condannato! Non ho parole".
Aldo:"Come si può condannare un ragazzo di 18/19 anni, che probabilmente era emozionalmente instabile
Sono dei giovani, non dei professionisti. Non è giusto, la sua condanna è surreale. Non tutti riescono a mantenere sangue freddo in condizioni di emergenza, e lui è ancora un ragazzo".
Anna:" Quando penso ai palestinesi che offrono caramelle e cioccolatini ogni volta che uccidono un ebreo mentre Israele condanna un giovane diciottenne che ha svolto il suo dovere di soldato
queste sono le contraddizioni che non capisco e che mi fanno saltare i nervi". Non è possibile non criticare certa stampa e Tg italiani che sull'uccisione del terrorista palestinese lo descrivono: "sdraiato a terra". Non stava prendendo il sole, aveva appena compiuto un attentato.
Gabriella:" Dire che era un terrorista era superfluo? Questi "giornalisti" diffusori di notizie che divulgano mezze verità".
Anna: "Non è conveniente scrivere la verità. Tutta la notizia in fondo era per ricordare agli italiani i cattivi soldati israeliani che ammazzano i poveri pacifici palestinesi! E' preferibile non leggere più certa stampa".
E proprio mentre sto per terminare questo articolo, apprendo la terribile notizia di un ennesimo attentato a Gerusalemme compiuto da un terrorista palestinese che, alla guida di un camion ha volutamente investito e ucciso quattro soldati tutti giovanissimi, appena ventenni. Tre di loro erano soldatesse. Il criminale palestinese, ha poi ingranato la retromarcia passando diverse volte sui poveri corpi, marciando avanti e indietro.
Il sangue versato oggi possiamo metterlo in relazione con i fatti accaduti e illustrati in questo articolo perché i soldati presenti oggi a Gerusalemme, si sono dimostrati talmente intimoriti da quella sentenza che hanno esitato a sparare
E' stato un civile, l'unico che ha sparato e ucciso il terrorista alla guida del camion. Le decine di soldati presenti non hanno sparato un solo colpo. Questo è il tragico effetto della condanna inflitta al giovane soldato Azarya.Altre notizie riportano che anche dei militari hanno sparato
(ferraraitalia, 12 gennaio 2017)
La Cina è il principale partner commerciale di Israele
La Cina è il principale partner commerciale di Israele. "Innovate the Future" è stato il tema di un forum che si è tenuto lo scorso mese di dicembre presso l'Università di Tel Aviv, dove decine di imprenditori, leader e innovatori provenienti dalla Cina e Israele si sono riuniti per dialogare sulla cooperazione tecnologica tra i due paesi.
Il forum ha evidenziato il fatto che la Cina sia diventata il principale partner commerciale di Israele per la somma di 11,4 miliardi di dollari all'anno.
Gli investimenti cinesi in Israele sono pari a circa 6 miliardi di dollari, mentre gli investimenti israeliani in Cina sono di circa 1 miliardo di dollari.
La Cina è particolarmente interessata all'innovazione tecnologica israeliana e al talento in campi quali cyber-sicurezza, agricoltura, intelligenza artificiale e Internet Of Things.
L'evento ha visto un dialogo tra Hu Shuli di Caixin ed il leggendario imprenditore israeliano Yossi Vardi, che ha fondato decine di aziende ed è considerato come il "braccio destro" della Startup Nation.
I partecipanti alla conferenza hanno parlato anche degli ingredienti del successo israeliano, trattando anche il tema della "hutzpah" (faccia tosta) - caratterizzata da una propensione al rischio - che dà agli israeliani un vantaggio imprenditoriale, ma non è sempre compreso nella cultura più riservata della Cina.
Amos Avner, socio fondatore a StartupEast - una piattaforma leader di gestione delle startup israeliane nei mercati asiatici - ha sottolineato come questo forum sia stato molto costruttivo grazie al "il dialogo diretto tra i responsabili politici di entrambe le parti".
(SiliconWadi, 12 gennaio 2017)
Netanyahu: la conferenza di Parigi è una 'truffa palestino-francese'
Ultimo tentativo di afferrare il passato prima che arrivi futuro
La Conferenza di Parigi per il Medio Oriente "è una truffa palestinese sotto egida francese, il cui scopo è di adottare altre posizioni anti-israeliane": lo ha affermato oggi il premier Benyamin Netanyahu ricevendo il ministro norvegese degli Esteri Borge Brende. "Dobbiamo far fronte alla grave minaccia di forze terroristiche che puntano non solo alla distruzione di Israele ma anche alla distruzione di ogni possibilità di pace", ha detto Netanyahu. "E ci sono altri sforzi che distruggono le possibilità di pace: uno di questi è la conferenza di Parigi", a cui hanno aderito una settantina di Paesi ma a cui Israele non si presenterà. "E' un residuo del passato, un ultimo tentativo di afferrare il passato, prima che arrivi il futuro", ha concluso il premier con un'allusione al prossimo ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump.
(ANSAmed, 12 gennaio 2017)
Il Monte del Tempio, dove oggi gli ebrei sono dei paria
di Niram Ferretti
E' arrivato il momento che agli ebrei sia concesso di pregare sul Monte del Tempio, ovvero sul luogo più sacro per la religione ebraica, il luogo che è conosciuto anche come Spianata delle Moschee in virtù delle due moschee musulmane edificate su di esso secoli e secoli dopo il primo e il secondo Tempio .
E' arrivato il momento che il cosiddetto status quo imposto dal 1967 è che impedisce agli ebrei di potere pregare là dove hanno ogni diritto di pregare, sia modificato. Non è più possibile, dopo 49 anni, continuare a tollerare il conculcamento di questo elementare diritto ebraico da parte di un Waqf Islamico il quale impone a un archeologo israeliano, Gabriel Barkay, di non usare le parole "Monte del Tempio" durante una conferenza a un gruppo di studenti americani. In realtà la vigilanza palestinese voleva fosse espulso, ma la polizia israeliana è giunta ad un compromesso, ed è questo, "Tu, ebreo-israeliano, non puoi qui, dove sorgeva il Tempio nemmeno citarlo se vuoi rimanere, se no te ne devi andare".
D'altronde non è stato forse l'Unesco a proclamare che la memoria ebraica sia cancellata completamente dal principale luogo santo dell'ebraismo decretando che esso venga solo chiamato con il suo nome arabo? Ed è tutto splendidamente conseguente. Coerentemente conseguente. Poiché gli ebrei "con i loro piedi sporchi" non possono "contaminare" il suolo dove si ergono le moschee di Al Aqsa e la Cupola della Roccia, come ha affermato nel 2015 il leader "moderato" dell'Autorità Palestinese, Abu Mazen, dando vita alla lunga serie di accoltellamenti che ha piagato Israele per mesi.
E sempre nel 2015, Lahav Harkov, una giornalista del Jerusalem Post che ha avuto l'ardire di manifestare un momento di commozione mentre si trovava sul Monte del Tempio, si è sentita dire sempre dalla polizia israeliana istigata dalla vigilanza palestinese, "Qui non puoi chiudere gli occhi e piangere perché chiudere gli occhi e piangere è come pregare, se lo fai te ne devi andare".
Sono solo due dei tanti episodi di bullismo e intimidazione nei confronti di ebrei che non salgono al Monte dei Tempio per provocare, e che la polizia israeliana non può fare altro che subire perché deve applicare una legge iniqua che impedisce agli ebrei di potere, in modo regolato, in giorni stabiliti, salire al proprio luogo sacro e pregare, come accade a Hebron, alla Tomba dei Patriarchi, dove ebrei e musulmani si alternano da decenni in preghiera in un luogo che entrambi considerano sacro.
Sul Monte del Tempio che è anche Spianata delle Moschee, i diritti religiosi degli ebrei sono violati da 49 anni e sono tutelati unicamente quelli musulmani. La concessione di Moshe Dayan fatta nel 1967 di garantire agli arabi il controllo amministrativo del sito nella convinzione che in questo modo esso non si sarebbe trasformato nel fulcro simbolico del nazionalismo palestinese, come tutte le concessioni fatte da Israele, si è rivelata una trappola. Oggi, il Monte del Tempio è stato di fatto requisito dalla protervia musulmana. Quello che all'epoca sembrava un saggio e doloroso accordo basato sulla realpolitik, seppure stipulato pagando un prezzo esorbitante, concedere la tutela del sito più santo per la religione ebraica all'Islam, per il quale esso rappresenta non il primo ma il terzo luogo santo della propria religione, oggi ha trasformato gli ebrei che salgono sul Monte del Tempio in paria protetti dalla polizia israeliana. Paria i quali non hanno nemmeno il diritto di pronunciare le parole "Monte del Tempio" e di commuoversi a rischio di essere cacciati.
Nell'ottobre del 2014, Yehuda Glick, uno dei sostenitori prominenti del diritto degli ebrei di potere pregare sul Monte del Tempio fu vittima di un tentativo di omicidio da parte di un giovane palestinese poi ucciso dalla polizia israeliana ed esaltato dal "moderato" Abu Mazen come un martire.
E' arrivato il momento, con il sostegno degli Stati Uniti, di concedere agli ebrei la fondamentale libertà di culto che gli spetta, là dove il primo e il secondo Tempio sono esistiti millenni prima che il conquistatore musulmano imponesse, come ha sempre fatto dove si è insediato, il proprio dominio incontrastato.
(L'informale, 11 gennaio 2017)
Falce e martello sulla tomba dell'ebreo socialista
Alla mostra a Palazzo Medici la storia del pisano Carlo Cammeo ucciso dai fascisti
di Adam Smulevich
Primavera del 1921. Molte nubi iniziano ad addensarsi sull'Italia in quella che si rivelerà l'ultima stagione di libero impegno politico e democratico per oltre un Ventennio.
Carlo Cammeo è un giovane insegnante e militante socialista. Crede nella sua militanza, ma avverte anche il pericolo di tirannia che incombe: questa almeno gli sarà risparmiata. Ma non la violenza. Vittima di un agguato, è ucciso da una squadraccia fascista fuori da scuola. Sono in tanti a piangerlo. Sulla sua tomba a Pisa, caso più unico che raro nella storia dell'ebraismo italiano, sono incisi una falce e un martello. L'ultimo omaggio del socialismo pisano al compagno caduto. Quella di Cammeo è una delle vicende meno conosciute e al tempo stesso più significative raccontate nella mostra Ebrei in Toscana (XX-XXI secolo) alla Galleria delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi, realizzata dall'Istoreco di Livorno con il sostegno della Regione Toscana. Già in giovane età Cammeo si distingue per il forte impegno politico nelle fila del partito socialista. Assume tra le altre la carica di segretario della Camera del Lavoro di Pisa ed è inoltre redattore del periodico L'Ora nostra. A risultargli fatali sono due brevi articoli. Nel primo, spiega Elena Mazzini, una delle curatrici della mostra, attacca la strumentalizzazione del concetto di patriottismo che alcuni fascisti fanno a proposito della morte di uno dei loro. Nel secondo ironizza su una grottesca sfilata di qualche giorno prima. La sentenza è scritta: a Cammeo va data una lezione che sia da esempio per tutti. La mattina del 13 aprile 1921 un gruppo di ragazze, fra cui Mary Rosselli Nissim, figlia di un'illustre famiglia ebraica di fede mazziniana e fervente nazionalista, si presenta davanti alla scuola in cui Cammeo insegna, invitandolo con prepotenza a uscire dall'aula. Giunto nel cortile, il maestro viene circondato da un gruppo di squadristi. Due spari, fatali, e in pochi istanti muore. Una vicenda emblematica per vari motivi, sottolinea Mazzini. «A mio avviso - afferma - il caso Cammeo ci dice molte cose sul periodo preMarcia su Roma, sulle violenze squadriste sul territorio toscano così come su quello nazionale. Ma ci dice qualcosa anche sugli ebrei italiani e il fascismo». L'integrazione della minoranza nella vita del paese, il suo diffuso patriottismo, il carattere prevalentemente borghese dell'ebraismo italiano e la mancanza, almeno nel fascismo delle origini, di aperte posizioni antisemite. Tutti fattori che, sostiene la studiosa, avrebbero portato i cittadini ebrei a sostenere o non sostenere Mussolini per ragioni del tutto analoghe a quelle che mossero gli altri italiani. Per la prima categoria, un tragico errore di valutazione. Il 5 settembre del '38, sempre a Pisa, nella tenuta di San Rossore, il re Vittorio Emanuele III firmò infatti le infami Leggi Razziali che esclusero gli ebrei dalla scuola, dalle professioni, dalla società. Quel giorno, anche i più ciechi sostenitori del fascismo capirono la portata del loro sbaglio.
(Corriere Fiorentino, 12 gennaio 2017)
Roma - Torna l'ottava edizione di "Memorie d'Inciampo"
Mercoledì 11 e giovedì 12 gennaio 2017 l'artista tedesco Gunter Demnig installerà 24 nuove Stolpersteine(pietre d'inciampo) nei marciapiedi antistanti le abitazioni di alcuni deportati razziali e politici
ROMA - Torna a Roma l'ottava edizione di Memorie d'Inciampo, l'appuntamento nel quale l'artista tedesco Gunter Demnig installerà 24 nuove Stolpersteine (pietre d'inciampo) nei marciapiedi antistanti le abitazioni di alcuni deportati razziali e politici. L'inaugurazione avrà luogo mercoledì 11 gennaio 2017 alle ore 16.00 in via Omero 14, presso l'Istituto Svedese di Studi Classici.
Come spiegato in una nota: "L'idea di Demnig risale al 1993 quando l'artista è invitato a Colonia per una installazione sulla deportazione di cittadini rom e sinti. All'obiezione di un'anziana signora secondo la quale a Colonia non avrebbero mai abitato rom, l'artista decide di dedicare tutto il suo lavoro alla ricerca e alla testimonianza dell'esistenza di cittadini scomparsi a seguito delle persecuzioni naziste: ebrei, politici, militari, rom, omosessuali, testimoni di Geova, disabili. Con un segno concreto e tangibile ma discreto e antimonumentale, a conferma che la memoria deve costituire parte integrante della nostra vita quotidiana. Sceglie dunque il marciapiede prospiciente la casa in cui hanno vissuto i deportati e vi installa altrettante "pietre d'inciampo", sampietrini del tipo comune e di dimensioni standard (10x10 cm.). Li distingue solo la superficie superiore, perché di ottone lucente. Su di essa sono incisi: nome e cognome del/lla deportato/a, età, data e luogo di deportazione e, quando nota, data di morte".
La definizione "inciampo" sta a sottolineare non certo un intralcio fisico, ma in qualche modo "l'obbligo" visivo e mentale a interrogarsi su quella diversità e agli attuali abitanti della casa a ricordare quanto accaduto in quel luogo e a quella data, intrecciando continuamente il passato e il presente, la memoria e l'attualità.
L'ottava edizione di Memorie d'inciampo a Roma ha, inoltre, il patrocinio dei sei municipi in cui verranno collocate le nuove 24 pietre d'inciampo: Municipio I, Municipio II, Municipio V, Municipio VIII, Municipio XII, Municipio XIII. Sommate a quelle delle sette edizioni precedenti, raggiungeranno il numero totale di 260. Il giorno e l'ora della collocazione delle pietre è annunciata agli inquilini da una lettera del Municipio in cui si spiega che il progetto vuole "ricordare abitanti del quartiere uccisi e perseguitati dai fascisti e dai nazisti, deportati, vittime del criminale programma di eutanasia o oggetto di persecuzione perché omosessuali".
Curato da Adachiara Zevi, il progetto si avvale di un comitato scientifico composto da Anna Maria Casavola, Annabella Gioia, Elisa Guida, Antonio Parisella, Liliana Picciotto, Micaela Procaccia, Michele Sarfatti e di un comitato organizzativo composto da Marina Levi Fiorentino, Annabella Gioia, Bice Migliau, Eugenio Iafrate, Sandra Terracina.
Il sito web www.memoriedinciampo.com, realizzato da Giovanni D'Ambrosio e Paolo La Farina, documenta tutte le edizioni precedenti.
Anche questa edizione sarà inoltre affiancata dal progetto didattico curato da Annabella Gioia e Sandra Terracina: ogni Municipio coinvolto sceglie una o più scuole cui affidare una ricerca storica sui perseguitati alla cui memoria sono dedicati i sampietrini. I risultati delle ricerche saranno pubblicati, come i precedenti, sul sito.
(artemagazine, 11 gennaio 2017)
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Roma - Gaffe alla Garbatella: il presidente inciampa sulla pietra d'inciampo
di Paolo Brogi
Via del Porto Fluviale 35, ieri ore 12. Niente «pietra d'inciampo» per la vittima della Shoah Alberto Di Segni ucciso a Sachsenhausen il primo gennaio del 1945. L'VIII Municipio non c'è e non ha mandato nessuno. Dalla presidenza dell'VIII, interpellata dai curatori di Arte e Memoria, giunge un laconico: «La vostra lettera? E' qua. Non l'abbiamo neanche aperta ... capita, con tutto quello che abbiamo da fare» ... Sconcerto e incredulità tra i presenti, per nulla mitigati dall'informale aggiunta fornita a Marina Levi Fiorentino di Arte e Memoria dal Municipio: «Ce ne occuperemo appena potremo, nei prossimi giorni...» Unico neo, è stato fatto osservare, è l'impossibilità di esserci per l'artista Gunter Demnig che tradizionalmente provvede in prima persona a sistemare le «pietre d'inciampo» (ne ha già messe 60 mila in tutta Europa): è venuto dalla Germania per questa nuova posa di 24 pietre prevista per ieri e oggi a Roma, poi dovrà ripartire ... La carovana della memoria ieri aveva già sistemato otto pietre in ricordo delle vittime della Shoah prima di essere costretta a dare forfait per la nona. Tutto è filato liscio nel XIII, XII e I Municipio con la partecipazione di familiari, studenti, rappresentanti municipali, esponenti della Comunità ebraica, polizia municipale. Poi in via del Porto Fluviale ecco l'intoppo. Giornataccia comunque quella di ieri all'VIII Municipio, dove la maggioranza del M5S è in piena fibrillazione, con consiglieri pro e contro la presidenza. E dove ieri, all'indomani di un incontro in Campidoglio di consiglieri in rotta con la Presidenza, il presidente Paolo Pace la ritirato le deleghe ai due assessori, Sandra Giuliani (Cultura), e Rodolfo Tisi (Urbanistica). L'atmosfera è incandescente ed è stato convocato un consiglio per venerdì. E Alberto Di Segni? Può attendere ancora.
(Corriere della Sera - Roma, 12 gennaio 2017)
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Parashà della settimana: Vayechì (Visse)
Genesi 47.28-50.26
- La parashà di Vayechì (visse) riferisce sulla vita di Giacobbe che chiude il libro della Genesi, dove si trova scritto il programma storico del popolo ebraico. Nella sua vita di peregrinazioni Giacobbe ha dovuto combattere contro Esaù per difendere la sua identità, contro Labano per mantenere il suo possesso e contro la violenza dei suoi stessi figli. La sua identità perché egli è il vero Israele, il suo possesso perché la terra d'Israele è sua proprietà e la violenza intesa come "odio gratuito"tra i fratelli.
Giacobbe scende in Egitto con la sua famiglia composta di 70 anime. In questa terra cresce e si moltiplica fino a diventare un popolo. Unico caso nella storia dei popoli di difficile comprensione umana, come pure le profezie di Giacobbe sulla fine dei tempi.
"Riunitevi e vi dirò quello che vi accadrà nei tempi a venire. Adunatevi e ascoltate" (Gen. 49.1). Rashì commenta che Giacobbe voleva rivelare ai suoi figli la fine dei tempi, ma la presenza divina si ritirò da lui e disse tutte altre parole. La tradizione orale spiega che Giacobbe ebbe un sentimento di reticenza nei confronti dei suoi figli che non avrebbero meritato di intendere questi segreti a causa dei loro "litigi" e della loro assimilazione ai costumi egiziani. Ma i figli gli risposero: "Ascolta, Israele, il Signore è nostro D-o, il Signore è Uno". Il tuo D-o è anche il nostro D-o e pertanto noi siamo meritevoli.
"Riunitevi" è il Kibbuz galuiot cioè la riunione degli esiliati e "ascoltate" è la riunione delle anime. Questo processo corrisponde alle due fasi della Redenzione. La prima consiste nel ritorno degli esiliati con la ricostruzione materiale della Nazione (Messiah figlio di Giuseppe) e una seconda fase (Messiah figlio di Davide) con la riunione "spirituale" del popolo ebraico, da cui nascerà il re Messiah. La Redenzione (Gheullà) si caratterizza in tre fasi: il ritorno, la riunione degli esiliati e l'indipendenza politica.
Il messaggio che Giacobbe trasmette ai suoi figli è chiaro. Nel momento in cui vi sarà questa riunione"spirituale" tra i fratelli, potrò svelarvi il segreto della fine dei giorni. Difatti il rapporto tra Giuseppe e Giuda è ancora un rapporto di facciata in quanto i fratelli temono la sua vendetta! La Redenzione pertanto è un processo lento e complicato, fatto di ombre e di luce, di sorprese e di miracoli. Per questa ragione Giacobbe sceglie la strada delle benedizioni, da cui si può intravedere la futura storia del popolo ebraico fino all'arrivo del Messiah figlio di Davide.
Ruben è il figlio primogenito e come tale destinato ad essere il capo. Ma Ruben non era all'altezza della situazione. Difatti nell'incidente di Bilhà (Gen. 35.22) concubina di suo padre, egli dimostra la sua mancanza di autocontrollo coabitando con questa donna.
Simone e Levi sono fratelli e le loro armi sono strumenti di violenza. "Nel loro conciliabolo non entri l'anima mia - dice Giacobbe - perché essi nella loro collera hanno ucciso un uomo" (Gen. 49.6). E' da notare che per questo crimine il testo biblico tace l'identità della vittima che secondo l'interpretazione della Chiesa cattolica è la profezia per l'uccisione di Cristo da parte degli ebrei. Invece secondo una tradizione ebraica più verosimile, la vittima sarebbe il figlio di Chamor, che Simone e Levi avevano passato a fil di spada per aver violentato la loro sorella Dina. La violenza che portano nel loro comportamento esige una precauzione e per questo vengono dispersi tra le tribù d'Israele. Simone nella futura Nazione ebraica sarà una enclave di Giuda e Levi non avrà territorio ma solo città di abitazione. Per contro l'attività spirituale di queste due tribù sarà esemplare. I leviti si occuperanno del Tempio del Signore e Simeone delle scuole di studio della santa Torah.
Giuda il quarto figlio di Lea sarà il destinato a tenere lo scettro regale. "A te i tuoi fratelli renderanno omaggio" (Gen. 49.8). Potenza politica e saggezza sono qualità necessarie perché il potere non si allontani dalle sue mani. Da Giuda verrà la linea ereditaria messianica che si trova nella benedizione pronunciata da Giacobbe nei suoi confronti.
Zavulun e Issaccar si aiuteranno a vicenda secondo le opinioni dei nostri Saggi. Il primo dominerà nei commerci e potrà sostenere il secondo agli studi di Torah per mezzo della sua ricchezza ottenuta dagli affari.
Dan sarà un serpente che morde ai talloni ed è per questo un aiuto prezioso per la Nazione. Difatti Israele si troverà obbligato nel corso della sua storia ad usare mezzi di fortuna per salvare la sua esistenza.
Gad e Ascher. Il primo sarà una sentinella sulle frontiere per prevenire ogni tentativo di violazione di confini e difendere i suoi fratelli dai pericoli, mentre il secondo avrà abbondanza di ricchezza dai prodotti della terra.
Naftalì sarà l'artista tra i suoi fratelli. Egli comunicherà con belle parole e sarà un "diplomatico" nato che non tradirà la sua missione che porterà a termine con abilità e dignità.
Giuseppe, un figlio fertile, ha mostrato una qualità rara: quella di saper dimenticare senza conservare rancore anche se giustificato. "I fratelli lo hanno amareggiato ma il suo arco è restato saldo" (Gen. 49.23). Giacobbe ha riconosciuto in Giuseppe colui che ha compreso il senso della missione dell'uomo e con l'aiuto di Giuda egli costruirà la Nazione ebraica. Una caratteristica poco nota di Giuseppe è il suo amore per la terra d'Israele, detta anima del popolo ebraico.
Beniamino è il figlio cadetto nato sulla via di Betlemme dove sua madre Rachele trovò la morte dopo il parto. E' chiamato da Giacobbe "un lupo che divora la sua preda" in riferimento ai sacrifici di animali che saranno immolati sull'altare del Signore. Difatti la tribù di Beniamino avrà in eredità il territorio di Gerusalemme dove sorgerà il Tempio. F.C.
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- Con l'ultimo capitolo del libro della Genesi si conclude la storia della famiglia patriarcale di Abramo. Quello che qui si descrive è indubbiamente un "lieto fine". Giacobbe non è "sceso con cordoglio nel soggiorno dei morti", ma in pace è stato "riunito al suo popolo" ed ha potuto essere sepolto dove desiderava: nella grotta del campo di Macpela, insieme ad Abramo, Sara, Isacco e Rebecca, accompagnato nella tomba, con grande solennità, non solo dai familiari ma anche dalle più alte autorità del paese d'Egitto.
Anche il grave dissidio tra Giuseppe e i suoi fratelli si è serenamente concluso con una esplicita richiesta di perdono da parte dei colpevoli.
Tutto bene quel che finisce bene? Tutto bene, sì, ma il bene consegnato da Giacobbe ai figli non è qualcosa che finisce con loro, perché è la benedizione che Dio ha dato ad Abramo affinché sia trasmessa alla sua progenie e diventi benedizione per tutte le famiglie della terra (Gen. 12:3).
La famiglia patriarcale di Abramo è il seme caduto in terra egiziana che porta frutto in tempi diversi: subito, con la benedizione dei granai pieni di Faraone; in seguito, con la crescita al suo interno del popolo di Dio destinato a diventare la nazione d'Israele.
Giacobbe benedice i suoi figli
Prima di essere "riunito al suo popolo", Giacobbe raduna i suoi figli intorno a sé e li benedice "dando a ciascuno la sua benedizione particolare" (Gen. 49:28).
Dunque è il popolo nella sua interezza che Giacobbe benedice: d'ora in poi sarà lui, il popolo, il collocutore di Dio; e anche se il riferimento genealogico ai padri continuerà ad avere un valore identitario fondamentale, gli intermediari di cui Dio in seguito si servirà per trattare con il popolo saranno scelti dal Lui stesso, direttamente, e in questa scelta si manifesterà sua volontà sovrana.
"Vi annuncerò ciò che avverrà nei giorni a venire" (Gen. 49:1), dice Giacobbe ai figli radunati intorno a lui. Quindi è lecito a noi, che siamo parte di questi "giorni a venire", cercare di spiegare queste parole alla luce di ciò che in seguito è avvenuto ed è presentato nel resto della Bibbia.
Sappiamo allora che nella predicazione e nelle invettive dei profeti comparirà sempre più spesso e più distintamente la figura di un personaggio particolarissimo che Dio sceglierà per la guida e la salvezza del suo popolo: il Messia.
Due benedizioni particolari
Giacobbe benedice tutti i suoi figli, ad uno ad uno, e come abbiamo già detto in questo si può vedere la benedizione per il popolo futuro nel suo complesso, anche nei suoi aspetti più fortemente negativi.
Ci sono però due benedizioni che si distinguono nettamente dalle altre: quelle di Giuda e di Giuseppe. Sono le più lunghe: 5 versetti per ciascuna delle due, mentre ogni altra ne ha al massimo 2; sono totalmente positive. E' naturale vedere in esse anticipazioni della benedizione che verrà a Israele e al mondo dalla persona del Messia.
Ma sono due benedizioni riguardanti due Messia diversi, come dice una corrente dell'ebraismo? Per comodità di esposizione e ricerca possiamo inizialmente assumere che in Giuda e Giuseppe la Scrittura abbia voluto alludere anticipatamente ai caratteri di due differenti Messia. Esaminiamoli allora.
Sovranità e grazia di Dio
Nel Messia di Giuda si distinguono chiaramente i caratteri della forza: "la tua mano sarà sulla cervice dei tuoi nemici"; e del dominio: "lo scettro non sarà rimosso da Giuda". Il riferimento poi a un misterioso "Shilo, a cui ubbidiranno i popoli" ha fatto pensare che fosse un riferimento al futuro Messia. Ed è questa l'interpretazione tradizionale in ambito ebraico, accolta anche dai cristiani.
Il Messia di Giuseppe si presenta invece in modo diverso. Lì si parla di un "ceppo di albero fruttifero... vicino a una sorgente... i suoi rami si estendono sopra il muro". E' il linguaggio del Salmo 1: un albero piantato presso a una sorgente d'acqua, quindi non bisognoso della pioggia; i suoi frutti sono a disposizione anche di altri, perché i suoi rami si estendono "sopra il muro". I nemici non vengono sconfitti e definitivamente soggiogati, anzi continuano a sparare: "Gli arcieri l'hanno provocato, gli hanno lanciato frecce, l'hanno perseguitato". Il Messia non risponde al fuoco, si dice soltanto che non è definitivamente atterrato: "ma il suo arco è rimasto saldo; le sue braccia e le sue mani sono state rinforzate dalle mani del Potente di Giacobbe, da colui che è il pastore e la roccia d'Israele".
Il riferimento alla roccia (אבן) rimanda alla pietra angolare (אבן לראש פנה) del Salmo 118: "La pietra che i costruttori hanno rigettata è diventata pietra angolare" (Sal. 118:22).
Si può notare inoltre che soltanto nelle parole rivolte a Giuseppe si parla di benedizione: per ben cinque volte si usa il termine "benedizioni" e una volta il verbo "benedire"
In entrambi i casi infine ci sono riferimenti ai fratelli. A Giuda si dice: "te loderanno i tuoi fratelli"; di Giuseppe invece si dice che sarà "il principe dei suoi fratelli". Di nessun altro si dice qualcosa di simile.
Sembra chiaro dunque che con il riferimento a queste due figure la Scrittura abbia voluto lasciare l'indicazione di qualcosa di molto particolare e importante che riguarda il futuro ed è collegato a Giuda e Giuseppe.
Si pensi per esempio a quello strano episodio, che sembra del tutto estraneo alla vicenda di Giuseppe, in cui Giuda si unisce alla sua nuora Tamar credendola una prostituta. E' un'altra penosa storia di inganni e controinganni, ma proprio di qui passerà la linea del Messia, come attesta anche l'evangelista Matteo, che nella sua genealogia cita soltanto tre donne: Tamar, Rahab e Rut (Mat. 1:1-17).
Chi scrive naturalmente non crede che nelle parole di Giacobbe si alluda a due Messia diversi, ma che ci sia un unico Messia comparso la prima volta in una forma che ha i caratteri di Giuseppe, per offrire la benedizione del perdono dei peccati a Israele e al mondo, e che apparirà una seconda volta con i caratteri di Giuda, per manifestare la sua signoria su tutti: Israele prima e nazioni poi. M.C.
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(Notizie su Israele, 12 gennaio 2017)
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