Notizie su Israele 66 - 15 gennaio 2002


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Essi avranno finito di portare il loro disonore e la pena di tutte le infedeltà che hanno commesse contro di me, quando abiteranno al sicuro nel loro paese e non vi sarà più nessuno che li spaventi; quando li ricondurrò dai popoli e li raccoglierò dai paesi dei loro nemici, e mi santificherò in loro davanti a molte nazioni. Essi conosceranno che io sono il SIGNORE, il loro Dio, quando, dopo averli fatti deportare fra le nazioni, li avrò raccolti nel loro paese e non lascerò là più nessuno di essi; non nasconderò più loro la mia faccia, perché avrò sparso il mio spirito sulla casa d'Israele, dice DIO, il Signore.

(Ezechiele 39.26-26)


INTESA ARAFAT-KHAMENEI

   
Stati Uniti ed Egitto convinti dalle prove israeliane

    Il capo della CIA George Tenet e altri importanti funzionari dei servizi di intelligence americani sono convinti che le informazioni fornite da Israele sul coinvolgimento personale del presidente dell'Autorita' Palestinese Yasser Arafat nella vicenda del cargo di armi illegali Karine-A sono credibili e accurate.
    Lo riferisce il generale israeliano Yossi Kuperwasser che la scorsa settimana ha guidato una delegazione dei servizi di sicurezza israeliani negli Stati Uniti con il compito di informare i colleghi americani. Gli Stati Uniti non hanno piu' dubbi che Arafat ha personalmente avviato i contatti con l'Iran che hanno condotto all'acquisto delle armi e al loro imbarco sulla nave, successivamente sequestrata dagli israeliani mentre faceva rotta verso Gaza.
    Stando alle prove raccolte da Israele e presentate agli americani, risulta che nell'estate 2001 Arafat prese la decisione strategica e si mise all'opera per stabilire un'alleanza palestinese-iraniana. L'iniziativa venne avviata mediante contatti tra emissari di fiducia di Arafat e dell'ayatollah Ali Khamenei, leader spirituale e vera eminenza grigia dell'Iran attuale. In seguito a questi contatti, Khamenei decise di lasciare cadere la tradizionale opposizione iraniana verso la dichiarata disponibilita' di Arafat a scendere a compromessi con Israele nel quadro del processo di Oslo, e di accrescere invece l'influenza di Teheran nell'Autorita' Palestinese. Per i governanti iraniani si trattava di sfruttare l'occasione offerta da Arafat per spostare il centro delle proprie attivita' anti-israeliane dal teatro libanese a quello palestinese.
    L'intesa Arafat-Khamenei, secondo i servizi israeliani, venne raggiunta prima dell'11 settembre e venne attuata nonostante le visite nella regione dell'inviato Usa Anthony Zinni, la dichiarazione di cessate il fuoco di Arafat alla televisione il 16 dicembre e la proposta di "hudna" (tregua) di fine dicembre.
    Una versione sintetica del rapporto presentato agli Stati Uniti e' stata presentata anche a funzionari egiziani e anche questi sarebbero rimasti convinti della fondatezza delle accuse israeliane. Secondo le fonti israeliane, il regime di Mubarak ha capito che Arafat ha lavorato alle sue spalle, sfruttando la possibilita' di usare lo stretto di Suez e i servizi portuali di Alessandria, e che ha persino sollecitato un maggiore coinvolgimento dell'Iran, accanito avversario dell'Egitto, in una zona di influenza tradizionalmente egiziana.
    I servizi israeliani sono convinti che anche vari paesi europei modificheranno il proprio atteggiamento circa l'aiuto finanziario all'Autorita' Palestinese una volta presentate le prove raccolte. L'Iran, infatti, pur dando luce verde alla richiesta di armi di Arafat, ha voluto che i palestinesi pagassero le armi ordinate, rifiutandosi di fornirle gratis come fa normalmente con gli Hezbollah nel Libano meridionale.

(Ha'aretz, 13.01.02)
    


L'ENNESIMO DOPPIO GIOCO DEL RAIS


L'ambiguità di Yasser e le omissioni dell'Europa

articolo di Ehud Gol, Ambasciatore d'Israele a Roma

Se c'è del vero nel detto «dimmi che amici hai e ti dirò chi sei», il circolo amicale del leader palestinese Yasser Arafat dovrebbe dirla lunga sulla sue reali intenzioni e sulla sua affidabilità. Il cargo sequestrato da Israele la settimana scorsa, acquistato dall'Autorità Palestinese e capitanato da un alto ufficiale della polizia marittima palestinese, trasportava armi di morte fornite dall'Iran e aveva a bordo un esponente dell'organizzazione terroristica Hezbollah, il Partito di Dio. Oltre a sofisticate armi d'offesa quali missili katiusha a lunga gittata e missili anticarro, la nave, che anche secondo le rivelazioni del suo comandante era destinata a rifornire l'Autorità Palestinese, conteneva 2200 chilogrammi di esplosivo, una quantità sufficiente ad imbottire cinture per 220 attentatori suicidi. Anche se solo una parte del carico fosse giunta a destinazione, le conseguenze sarebbero state devastanti.
      E' evidente che quelle armi, la cui acquisizione è in flagrante violazione degli accordi di Oslo, non potevano servire al mantenimento dell'ordine. Sarebbe infatti difficile immaginare un poliziotto palestinese intento a mantenere il controllo delle strade di Ramallah con dei katiusha capaci di colpire Tel Aviv. Ma per chi ha fatto il callo alle violazioni degli accordi, alle ambiguità e alle false promesse di Arafat, resta difficile sorprendersi dinnanzi all'ennesimo doppio gioco del Raìs il cui appello del 16 dicembre scorso per far cessare la «lotta armata contro Israele» altro non era, come ci insegna questa ultima vicenda, che l'ennesima foglia di fico per coprire i preparativi per una nuova escalation del terrorismo a uso e consumo esclusivo del pubblico europeo.
      Stavolta invece a sollevare particolare preoccupazione sono i profondi e crescenti legami di collaborazione che emergono tra i vari gruppi terroristici del Medio Oriente. Fino ad oggi era cosa nota che l'Iran fosse il padrino di Hezbollah, con il quale condivide una comune volontà di combattere le democrazie occidentali e di distruggere Israele. Nell'ultimo anno i contatti tra Iran, Hezbollah e palestinesi si sono intensificati.
      Questo Asse del Terrore trova conferma nelle parole del Presidente iraniano Rafsanjani il quale, in un discorso all'Università di Teheran il 14 dicembre scorso, dopo aver minacciato l'uso della bomba nucleare contro Israele «che non lascerà nulla sul terreno», ha elogiato la Jihad palestinese definendola «madre di molti movimenti islamici» dall'Iran al Libano, all'Afghanistan, alla Malesia, all'Asia Centrale. Per il terrorismo fondamentalista, che ha amici in ogni porto, il mondo è piccolo. Lo sa bene Rafsanjani che ha avvertito che «il confronto tra i pii e le forze che cercano il martirio contro le forze del colonialismo è estremamente pericoloso e potrebbe innescare una terza guerra mondiale».
      La prontezza con cui il regime degli ayatollah ha risposto alle esigenze bellicose di Arafat e, nel mezzo di una campagna internazionale contro il terrorismo, ha inviato un carico di armi da guerra nel punto più caldo della regione porta a due considerazioni. In primo luogo, si ha la riprova che le promesse di Arafat ai leader europei e mondiali di sradicare il terrorismo sono lettera morta e che il leader palestinese resta convinto della bontà della sua scelta strategica di usare il terrorismo per raggiungere i suoi obiettivi massimali. In secondo luogo, nonostante molti osservatori occidentali abbiano cercato di mettere in risalto i segnali di moderazione provenienti da Teheran, la vicenda del cargo e le parole di Rafsanjani hanno ricordato al mondo il vero contenuto dell'agenda politica iraniana: incendiare la regione seminando terrorismo e instabilità con la speranza di volgere gli equilibri internazionali a proprio vantaggio.
      Questa Coalizione del Terrore che crede di poter agire nell'impunità dovrebbe far riflettere coloro che nella comunità internazionale sono intenti a combattere il terrorismo. L'Unione Europea ha dato un esempio concreto della serietà del suo impegno pubblicando una lista di "persone, gruppi e entità" terroristiche nei confronti delle quali si applicheranno misure restrittive consistenti nel congelamento dei fondi e di altre risorse economiche. Tuttavia, la lista del Consiglio Europeo dovrebbe includere tutti gli Stati e le organizzazioni che praticano e sponsorizzano il terrorismo, senza eccezioni. La grave omissione di Hezbollah e del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina fa temere invece che alcuni possano cedere alla tentazione di interessi politici ed economici particolari. In tutta onestà, è difficile immaginare quali benefici possano trarre le democrazie occidentali dall'entrare in circoli di amicizie che minacciano l'avvento della "terza guerra mondiale".

(Il Messaggero, 12 gennaio 2002)



IL NODO DELLA QUESTIONE MEDIORIENTALE


L'antisemitismo dei paesi arabi

Articolo di Ernesto Galli della Loggia

    All'incirca una settimana fa, in una puntata della sua quotidiana rubrica sul Corriere, risposte ai lettori, Paolo Mieli ha ricordato un paio di episodi significativi del modo in cui i media arabi costruiscono e diffondono l'immagine degli ebrei. Ha citato per esempio una serie in trenta puntate trasmessa da una televisione saudita, tratta dal celebre pamphlet antisemita "I protocolli dei savi anziani di Sion"; ha citato un telequiz mandato in onda dalla Tv satellitare degli Emirati "Al Sharja" zeppa d'incredibili domande ispirate al piu' duro disprezzo contro gli ebrei; ha ricordato, infine, gli articoli 22 e 32 della carta costitutiva del movimento di resistenza islamico Hamas, infarcita di tutti i piu' demenziali e paranoici stereotipi sugli ebrei occulti padroni e manovratori dei principali poteri mondiali.
    Mieli si e' chiesto come mai neppure uno dei tanti intellettuali, scrittori, professori universitari, che da anni si ergono a custodi della memoria della Shoah, a difensori a ogni occasione del ricordo degli oltraggi e dei crimini commessi oltre mezzo secolo fa contro il popolo ebraico dai nazisti e dai fascisti, trovi modo di occuparsi, sia pure di sfuggita, degli oltraggi (per fortuna si tratta solo di oltraggi e non di crimini) commessi oggi contro lo stesso popolo da parte del mondo arabo.
    E' una domanda sacrosanta che farei pero' precedere da un'altra: mi chiederei, e mi chiedo cioe', come mai del genere di cose che riferisce Mieli ci siano in generale sulla stampa italiana poche o punto notizie, come mai sia dato di leggere su quella stampa cosi' poche informazioni dall'interno del mondo arabo, cosi' poche notizie che ci facciano capire quali sono gli orientamenti di quell'opinione pubblica, quale sia la sua cultura, cosa essa legga e scriva, quale siano i suoi modelli, i suoi miti, i suoi eroi. Voglio credere che questo buio informativo sia il frutto del fatto che neppure un quotidiano italiano - nemmeno il nostro Corriere - abbia un corrispondente stabile da qualche capitale araba (mentre quasi tutti, come si sa, hanno un corrispondente a Gerusalemme).
    Sta di fatto che l'assenza d'informazioni di questo tipo finisce per costituire, mi pare, un importante fattore di distorsione nella percezione che abbiamo della questione israelo-palestinese. In generale noi guardiamo a tale questione (e ce ne facciamo un giudizio) considerandola una tipica questione politico-diplomatico-territoriale, e dunque servendoci di categorie tutte riferite a quella dimensione. Consideriamo israeliani e palestinesi, cioe', come due parti alla stregua di tante altre della scena internazionale che, divise da interessi difficilmente componibili, non riescono a mettersi d'accordo. I motivi per cui non ci riescono sono ovviamente valutati in modo diverso a seconda dei punti di vista, ma, dal momento che Israele appare ( e oggettivamente e') in una posizione di straordinaria superiorita' di forze rispetto ai palestinesi, non meraviglia che la responsabilita' del protrarsi del conflitto venga addebitata in generale assai piu' a Israele stessa che ai suoi avversari. Se non si arriva a una pace, la colpa insomma, non puo' che essere dell'arroganza degli israeliani, i quali non vogliono rinunciare a nulla e cedere su nulla.
    Il punto e' che il conflitto israelo-palestinese va ben oltre il quadro convenzionalmente politico-diplomatico-territoriale entro il quale per lo piu' lo si pensa e con le cui categorie lo si interpreta. Le notizie dall'interno del mondo arabo di cui si diceva all'inizio ne sono per l'appunto un indizio e insieme una conferma.
    Sono un indizio che quel mondo e' pervaso in una misura che, temo, noi neppure sospettiamo, dal germe dell'antisemitismo, che dal punto di vista della piu' larga opinione pubblica araba (e dunque a maggior ragione palestinese, e' immaginabile) l'avversario non sono tanto gli israeliani quanto gli ebrei in generale, con tutto il corredo di stereotipi e di pregiudizi inestirpabili che l'immagine degli ebrei suscita negli antisemiti. E' una colpa non piccola dei democratici europei - colpa condivisa per intero dalle stesse istituzioni dell'Unione Europea - non aver mai voluto spingere lo sguardo sino in fondo in questo aspetto della questione, aver sempre chiuso gli occhi anzi sull'antisemitismo dominante dei Paesi arabi, antisemitismo che, per ricordare un altro aspetto significativo, spinse tanti di essi negli anni '40 e '50 a reclutare largamente personale ex-nazista da impiegare nei propri servizi di informazione e nelle proprie polizie politiche. Colpa non piccola perche' da un lato ha impedito di parlare con la necessaria chiarezza ai governi arabi, ammonendoli circa il carattere intollerabile dell'ideologia che esse direttamente e inderettamente propagano da decenni, dall'altra, come dicevo, ha impedito di capire i termini reali della questione israelo-palestinese. Che, sì, e' questione anche politico-diplomatico-territoriale, ma e' sopratutto questione culturale, legata all'impossibilita' da parte araba di accettare l'altro, il diverso, gli ebrei appunto, e alla consapevolezza di cio' da parte ebraica, con l'inevitabile e piu' che comprensibile effetto di radicale diffidenza antiaraba che ne deriva.
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Prima o poi si dovra' avere il coraggio pero' di guardare alla cose come stanno, di capire che il bandolo della questione mediorientale non sta nelle politiche di Israele, nelle sue piu' o meno autentiche o supposte intransigenze, sta invece nella tuttora assoluta indisponibilita' dell'immenso mondo islamico, al di la' delle parole, a convivere in pace con un piccolo popolo di cinque milioni di persone che il suo sguardo stravolto non riesce a percepire che come l'incarnazione di Satana.

("Sette", supplemento del Corriere della Sera, 10.01.02)
   

GLI EBREI ARGENTINI TORNANO IN ISRAELE


Delegazione israeliana in Argentina in aiuto agli immigranti potenziali

Articolo di Tovah Lazaroff

    Una delegazione speciale composta da sette funzionari israeliani si trova in questi giorni in Argentina, per aiutare gli ebrei che tentano di sfuggire alla crisi economica nel loro paese, immigrando in Israele.
    Il numero degli ebrei argentini che fanno richiesta di immigrazione si è moltiplicato per cinque-sei volte la norma, afferma Mike Rosenberg, direttore generale del dipartimento di immigrazione ed assorbimento dell'Agenzia Ebraica, in un'intervista rilasciata dall'Argentina al Jerusalem Post.
    "Vi è stato un appello generale per raccogliere finanziamenti in favore degli ebrei argentini – dice Rosenberg – Israele non può tenersi da parte".
    Fra i sette membri del gruppo si trovano il presidente dell'Agenzia Ebraica, Sallai Meridor e rappresentanti dei ministeri dell'Educazione, dell'Edilizia, del Lavoro ed Affari Sociali e dell'ufficio del Primo Ministro.
    L'Agenzia ha assunto forza lavoro locale per potenziare i suoi uffici in Argentina e sta inviando altra gente da Israele, a dare una mano per un periodo di dieci settimane. "Abbiamo una decina di persone in grado di intervistare i candidati all'immigrazione, ma ne abbiamo bisogno di una cinquantina - prosegue Rosenberg – Non è solo una questione di dar da mangiare alla gente.  Le organizzazioni umanitarie si preoccupano di farlo, noi offriamo loro una nuova vita".
    Rosenberg ha raccontato di aver assistito venerdì sera alle funzioni alla sinagoga Consevativa. Il rabbino ha detto ai presenti che questo è il momento in cui gli ebrei devono cercare di costruire il loro futuro in Israele, perchè lì vi è posto per tutti coloro che vogliono vivere una vita ebraica.
    "E' stata un'esperienza davvero commovente, ero sbalordito nel sentirlo fare un sermone del genere - afferma Rosenberg – Abbiamo avuto un grande appoggio dai membri della Comunità Ebraica. Sono felici di vedere che il governo israeliano esprime loro la propria solidarietà".
    "Molti di loro sono precipitati dalla classe media alla povertà. Non hanno di che mangiare. In ogni sinagoga argentina si distribuiscono pacchi di generi alimentari", continua Rosenberg.
    A causa della crisi economica nel paese, i cittadini argentini possono ritirare dalle banche solo 1.000 dollari al mese. Nel corso di questa settimana soltanto il Peso è stato svalutato del 30%.
    Rosenberg sostiene che, durante la loro settimana in Argentina, i funzionari governativi israeliani, che sono arrivati lo scorso giovedì, sperano di abbreviare i tempi e rendere più rapido il processo di immigrazione, apprendendo di prima mano dagli argentini stessi, quali sono gli ostacoli che devono superare.
    Inoltre, il direttore del dipartimento di immigrazione prevede che 3.000 ebrei argentini immigreranno nel corso di quest'anno, il doppio di quelli arrivati nel 2001: "Circa 6.000 ebrei argentini hanno espresso interesse per l'immigrazione. Molti di loro avranno bisogno di aiuto per una nuova formazione professionale, per l'ulpan ed il mutuo per la casa".
    "Il governo ha già approvato uno speciale 'pacchetto' economico di 40.000 Shekel (circa 9.000 dollari) per famiglia - afferma il portavoce del Ministero dell'Assorbimento Yehuda Glick - Altri 10.000 Shekel verranno dati loro all'arrivo all'aeroporto Ben Gurion".
    "La scorsa settimana, l'Agenzia ha organizzato un incontro di 40 sindaci di città israeliane, per esaminare le possibilità di aiutare gli ebrei argentini dal momento del loro arrivo – dice ancora Mike Rosenberg – L'Agenzia Ebraica può fare molto. Possiamo provvedere al viaggio aereo ed all'assistenza economica, ma è la gente in Israele che li deve fare sentire a casa".
    Secondo il portavoce Glick, gli immigrati dall'Argentina non sono i soli a godere dell'attenzione speciale del governo israeliano, che domenica ha approvato lo stesso stanziamento di 40.000 Shekel a famiglia anche per gli immigranti provenienti dal Sud Africa e dalla Francia. Altri 5.000 Shekel a famiglia verrano dati a tali immigranti al loro sbarco all'aeroporto Ben Gurion.
    Gli ebrei sud-africani si rivolgono ad Israele in reazione alla difficile situazione economica di quel paese, mentre gli ebrei francesi tentano di sfuggire al crescente anti-semitismo, dice Glick, facendo inoltre notare che il 40% dei 600.000 ebrei francesi vive in prossimità di quartieri musulmani.

(Jerusalem Post, 8 gennaio 2002, citato da Keren Hayesod,  10.01.2002)



L'ALIA' DEGLI EBREI ARGENTINI


Un nuovo inizio per gli immigranti dall'Argentina

Articolo di Orly Azoulay-Katz

Trenta famiglie di ebrei si sono lasciati alle spalle una vita di povertà e miseria, hanno impacchettato oggetti e ricordi e sono venute in  Israele per ricominciare da zero. Sull'autobus per l'aeroporto, le madri piangono in silenzio, attente a non svegliare i piccoli. "In Argentina non c'è né cibo né lavoro – dicono – In Israele potrò di nuovo guardare i miei figli in faccia".

Buenos Aires – L'autobus noleggiato dall'Agenzia Ebraica si ferma al no. 1177  dell'Avenida Concordias. Ruti Romeros ed i suoi due bambini piccoli, Yael e Uri, si avvicinano timorosi all'autobus: sono diretti verso una nuova vita in Israele.
    Ciascun bambino porta con se un ricordo della casa. Yael, di otto anni, stringe nelle manine un orsetto rosa. Uri, di otto anni, con la kippà in testa, ha scelto una palla da tennis, ruvida e verde. Ruti stringe i bambini ed evita di guardare indietro, all'appartamento che ha appena lasciato, per sempre.
    In quel monolocale, situato in uno dei quartieri miserabili di Buenos Aires, Ruti ed i suoi figli hanno dormito sul pavimento. "Sono sopravvissuta grazie alla carità fattami dalla scuola dei miei figli", ammette con vergogna. Ma gli amici dicono che, nei periodi più difficili, ha dovuto raccogliere avanzi dai bidoni della spazzatura per dare da mangiare ai suoi figli.
    Ruti, di 32 anni, divorziata, di professione programmatrice, è rimasta disoccupata oltre un anno fa. "Mi sono sentita come se qualcuno mi avesse strappato la dignità e l'avesse calpestata – mi ha detto tremando – Ho due mani, due gambe, occhi per vedere e forza per lavorare. Ho anche una professione, ma mi guardi: una donna di 32 anni che non può dare il pane ai suoi figli".
    Sono 200.000 gli ebrei che vivono a Buenos Aires. Secondo un recente sondaggio, 50.000 vivono in miseria, tentando di sopravvivere. Le prime trenta famiglie, che hanno perduto tutto ciò che avevano, sono andate all'aeroporto su un autobus dell'Agenzia Ebraica. Dovrebbero atterrare questo pomeriggio e arrivare al Centro di Asssorbimento di Beer Sheva. Hanno un desiderio in comune: che questa strada li conduca dalla disperazione alla speranza, dalla disgrazia all'occasione giusta.
    "Non ho dormito tutta la notte – dice Ruti – ieri sera ho detto addio ai miei genitori, ai miei fratelli, agli amici. Ho salutato tutti. Ci sono state molte lacrime, ma sento che all'improvviso dentro di me vi è qualcosa di così tranquillo, come se una sensazione di completezza mi accompagnasse in Israele".
    Quando Ruti è arrivata all'autobus, alcune delle famiglie vi avevano già preso posto. Una dopo l'altra, hanno chiuso le tendine dei finestrini. Non volevano guardare indietro, non volevano vedere le tracce dell'abbandono del paese dove sono nati, quel paese che hanno dovuto lasciare, con la tristezza dipinta in faccia.
    C'era un silenzio pesante nell'autobus. I più piccoli dormivano in braccio alle mamme, le mamme appoggiavano le gambe sulle borse, i pacchi e le valigie. La sera prima, l'Agenzia Ebraica aveva dato alle famiglie delle valigie, per aiutarli a fare i bagagli più facilmente. Rapidamente, vi hanno pigiato le poche cose necessarie: un po' di vestiti, i giocattoli per i bambini, i libri – preziosi – ed un po' di oggetti personali della loro terra natale.
    Durante il percorso, Beatriz ha cominciato a piangere silenziosamente, all'improvviso. Aveva gli occhi rossi e gonfi. Accanto a lei era seduto suo marito, Carlos, appoggiato su un fianco, con gli occhi chiusi, come se tentasse di dormire, ma senza riuscirvi. Beatriz ha perduto il suo impiego di commessa in un negozio di abbigliamento alcuni anni fa. Carlos ha perso il lavoro sei mesi fa. I loro figli, di 15 e 17 anni, erano seduti dietro, e guardavano impotenti, in silenzio, il pianto della madre. "Abbiamo comperato cibo con il denaro ricevuto in elemosina. Ne abbiamo ricevuto un po' dalla sinagoga ed un po' dai "Chabad" – mormora Beatriz – Avevamo una bella casa, due stipendi ed eravamo rispettati. La banca si è presa la casa. Ora vado in Israele, dove avrò lavoro e soprattutto una cosa più importante: il rispetto. Potrò guardare di nuovo i miei figli negli occhi e non vergognarmi perché il frigorifero è vuoto e non c'è nemmeno un pezzo di pane secco".
    Nella parte anteriore dell'autobus sta seduta Monica Gonzales, di 32 anni. Fino a sei mesi faceva la cucitrice in una fabbrica di tende. Tiene in braccio il piccolo Lucas, di 10 mesi. Lucas è nato con una malformazione al cuore, ma non ha potuto ricevere le cure adeguate in Argentina. Accanto a lei è seduto il marito con il figlio più grande, Adrian, di 5 anni.
    La situazione economica ha costretto la coppia a vivere separatamente. Sei mesi fa sono stati estromessi dalla loro casa. Monica è tornata a casa dai suoi genitori e Alberto dai suoi.
    Dieci giorni fa sono tornati insieme in un piccolo appartamento prestato loro dall'Agenzia Ebraica, così hanno potuto riunire la famiglia, in vista dell'emigrazione in Israele. "Ho perduto il lavoro – dice Monica – Mi ricordo quanto ho girato per cercarne un altro. Ho bussato alle porte, ma tutte mi sono state sbattute in faccia. Niente lavoro, niente cibo, sono stata fortunata che i miei genitori mi hanno aiutata il più possibile. Mio marito è stato a lungo disoccupato, cinque mesi fa ha trovato lavoro come sorvegliante in una scuola ebraica; è così che ci siamo arrangiati, giorno per giorno".
    "Avevo una dignità. Ora mi sento miserabile, una sensazione che vorrei evitare. Lei mi chiede che cosa mi mancherà dell'Argentina. Bene, avrò solo nostalgia dei miei genitori, che spero ci seguiranno, ma altrimenti, nulla. Penso solo ad Israele. Amo Israele perché mi ha aperto una porta e mi ha fatto sentire di nuovo un esssere umano. Mi lasci dire una cosa: persino quando avevo un lavoro, mi sentivo in trappola. I proprietari della fabbrica trattavano gli impiegati con arroganza e mancanza di rispetto. Sapevano che ci potevano umiliare e che non avremmo detto nulla, per poter continuare a lavorare. Avevano la sensazione che avrebbero potuto buttarci per strada, perché c'erano dieci altre persone in fila per ogni posto."
    "Negli ultimi giorni ho imparato alcune parole in ebraico: "madre", "famiglia", "lavoro" e  "shalom". Probabilemnte ci vorrà un po' di tempo, ma impareremo la lingua e con energia e determinazione ci ricostruiremo una vita famigliare normale in Israele".
    Ciascuna di queste famiglie ha la propria storia. Si considerano scampati all'inferno. "Ho lavorato con questo gruppo per diversi mesi – spiega la dott. Yael Walinsky, una psicoanalista che sta tentando di aiutare le famiglie a trasferirsi in Israele durante questo difficile periodo – ho tentato di dire loro che non è facile vivere nella situazione israeliana, a causa degli attentati, ma non mi hanno nemmeno ascoltata. Tutti hanno ripetuto la stessa frase: 'Non può essere peggio di così'."
    "Questa gente ha perduto tutto ciò che aveva. Abbiamo preparato per loro un programma speciale: rimarranno al Centro di Assorbimento di Beer Sheva per un anno, studieranno l'ebraico in un ulpan – poi continueranno indipendentemente. Presto, un secondo gruppo di famiglie verrà in Israele".
    Abbiamo accompagnato le famiglie nel tragitto verso l'aeroporto. Nessuno di loro ha scostato le tendine, nemmeno per un momento, per guardare indietro, alle case di Buenos Aires che fuggivano via. Arrivati all'aeroporto, hanno scaricato in silenzio i bagagli ed in silenzio si sono diretti verso il banco accettazione dell'Iberia.
    I parenti non hanno potuto mettere insieme abbastanza soldi per venire all'aeroporto a salutarli. Adriana, un'inviata dell'Agenzia Ebraica, che si occupa della logistica, era in attesa delle famiglie. Per loro, è stata come un angelo nel corso degli avvenimenti degli ultimi mesi.
    Ruti Romero incita i figli a camminare più in fretta. "Non mi guardo indietro con rabbia, ma con pietà per quelli che sono rimasti – dice – Io vado verso una nuova vita ed il mio cuore mi dice che finalmente troverò un po' di pace e di quiete in Israele".

(Yedioth Aharonoth, 25.12.2001, citato da Keren Hayesod, 31.12.01)


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