Notizie su Israele 88 - 18 aprile 2002


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Molte volte mi hanno oppresso fin dalla mia gioventù - lo dica pure Israele - molte volte mi hanno oppresso fin dalla mia gioventù; eppure non hanno potuto vincermi. Degli aratori hanno arato sul mio dorso, vi hanno tracciato i loro lunghi solchi. Il SIGNORE è giusto; egli ha spezzato le funi degli empi. Siano confusi e voltino le spalle quanti odiano Sion!

(Salmo 129:1-5)


NEL GHETTO TUTTI INSIEME PER ISRAELE


Successo della manifestazione
in favore dello Stato ebraico:


«Mai vista tanta gente in piazza per noi»



    ROMA - «Quanta gente c'è, secondo te?». Quanta gente, già. La domanda fissa di ogni manifestazione si colora qui di una sfumatura di sorpresa. I vecchi commercianti del ghetto, ma anche i loro figli quarantenni, quelli che «l'ultima volta che ho pianto è stato per lo scudetto della Roma», pure loro, insomma, hanno occhi lucidi. «Ahò, che te devo dì, mai vista 'na cosa der genere» ammette uno, soffiando commozione dietro il fumo di una Marlboro. E guardano indietro, voltano la testa verso la distesa di bandiere con la stella dello Stato d'Israele, guardano il serpentone di gente che è già arrivata alla Sinagoga mentre la coda sta ancora davanti ai Fori. In fondo, è la prima volta per tutti, padri, figli, nipoti, mai hanno sentito, mai hanno visto tanta gente in piazza per loro e per quel Paese in guerra che qui è «sentito» come fosse dietro l'angolo. Romani, italiani e, per la maggior parte, non ebrei: «Glielo dovevamo, no? Dai tempi delle leggi razziali» sintetizza una signora che è venuta al corteo con il marito. E' lunedì sera, è «l'Israele Day» lanciato dal Foglio di Giuliano Ferrara con una lettera di Massimo Teodori. Ferrara, Teodori sono circondati, salutati come gli eroi della giornata. Ogni tanto, dai ragazzi del ghetto, parte un coro «Fe-rra-ra, Fe-rra-ra» o «Teo-do-ri, Teo-do-ri», ma per tutti i nomi noti che da subito hanno aderito ci sono mani da stringere, complimenti da ricevere: Paolo Mieli, Carlo Rossella, Gad Lerner hanno addosso le telecamere, i fotografi e, soprattutto, la riconoscenza degli ebrei romani e degli altri, dei cinquanta livornesi arrivati col pullman, di quelli di Trieste che, guidati dal rabbino, si sono svegliati all'alba per esserci e a sera sono già pronti a risalire sull'autobus.
    Ci sono anche i politici, certo. La gente li vede, incassa con presumibile soddisfazione la presenza. Niente di più, niente di meno. Il gruppo più numeroso è quello di Alleanza Nazionale, si fa prima a dire chi non c'era: La Russa è proprio dietro lo striscione «Israele deve vivere», Gustavo Selva marcia con i cronisti e, poi, Urso, Landolfi, Ronchi, Bocchino, il responsabile Esteri di An, Marco Zacchera, salutato con affetto da Amos Radian, numero due dell'ambasciata israeliana. Certo ne dimentichiamo qualcuno. Dicono che Gianfranco Fini, in missione all'Estero, si tenga in contatto via cellulare con i suoi che stanno sfilando. Vuole sapere come va. Va. Se non proprio circondati da un caldo affetto, quelli di An marciano come gli altri, come l'altro gruppo, quello di Forza Italia, numeroso, ma non al livello dei finiani. Tra i forzisti, non potevano mancare
  
filoisraeliani da sempre come Livio Caputo, Alfredo Biondi (salutatissimo) e Giorgio La Malfa. Né potevano mancare i radicali, guidati da Marco Pannella imbandierato. Marcia compatta la falange degli ex socialisti, da Cicchitto a De Michelis, a Ottaviano Del Turco. Il ministro Giovanardi, invece, non pare circondato da altri politici e, così pure, D'Onofrio, mentre i ds Umberto Ranieri e Giuseppe Caldarola si cercano e si segnalano l'un l'altro: «No, non è vero che dei Ds sono venuto solo io, c'è pure Caldarola» dice Ranieri. E Caldarola, poche file più in giù: «Non è vero che la sinistra non è presente, ho visto anche Umberto Ranieri».
    Per la sinistra, a dire il vero, sfila anche il senatore diessino Franco Debenedetti, ma con lo stile che gli è proprio, vale a dire un po' per conto suo. Lo accompagna l'economista Fiorella Padoa Schioppa Kostoris: «Era dal '68 che non partecipavo a una manifestazione - ammette lei -. Per farmi tornare in piazza ci voleva proprio una cosa così, davvero bipartisan». In effetti il corteo offre un singolare mescolarsi di facce che, vent'anni fa, avrebbero marciato in cortei opposti e contrari. L'editore alternativo Castelvecchi e l'ex giornalista del Manifesto Paola Tavella, a due passi da Urso, la scrittrice Gaia de Beaumont, il regista Francesco Rosi, Franca Fossati, ieri braccio destro dell'ex ministra diessina Livia Turco, a un passo da Ignazio La Russa. Il viceministro di An, Adolfo Urso, scherza con il diessino Umberto Ranieri: «Se non sto attento, mi sa che faccio la fine dei miglioristi dei Ds».
    Parlano tra loro, quelli che sfilano, perché non ci sono slogan da scandire ma, volendo, silenzio da dividere. «Vedi come siamo diversi, "noi". I "rossi" chissà che cagnara avrebbero fatto» si dicono l'un l'altro due distinti signori dall'accento straniero. Forse israeliani, chissà. Ogni tanto, i ragazzi del ghetto lanciano un canto della tradizione, «Hatikva» o «Am Israel Hae», ogni tanto fende la folla il camion che porta i sassolini da lasciare davanti alla Sinagoga in segno di lutto. La gente prende i sassi e se li porta dietro fino alla fine. E' sera quando, dal palco davanti al Tempio, organizzatori e promotori prendono la parola: Ferrara, Teodori, gli esponenti della comunità ebraica. Parla anche l'ambasciatore israeliano Ehud Gol e ha parole assai dure per l'Europa. Ma l'applauso più grande, l'ovazione più corale è tutta e solo per ringraziare qualcuno che non c'è. Oriana Fallaci.
   
Maria Latella

(Il Corriere della sera 17.4.02 )


VITA QUOTIDIANA IN ISRAELE


Aspettare senza mormorare

di Elisabeth Hausen

GERUSALEMME - In genere gli israeliani sono più rumorosi dei tedeschi. Imprecano spesso senza averne particolari motivi. Ma ci sono momenti in cui sanno aspettare per molto tempo senza lamentarsi, perché si tratta di vita o di morte.
    In città si vedono dappertutto bandiere israeliane. Nello Yom HaShoa gli ebrei di tutto il mondo ricordano quelli che sono stati uccisi sotto il regime di Hitler.
    Ho appena attraversato la via Melech Georde, per cercare nel centro della città una banca e un ufficio postale, quando suona la sirena. Le persone scendono dalla loro auto, i pedoni si fermano, i colloqui si interrompono. Intorno a me vedo facce serie. Non penso soltanto alle vittime della Shoa, ma anche ai molti europei di oggi che accettano senza criticare gli attentati terroristici contro gli ebrei.
    Passati due minuti, l'interruzione delle attività quotidiane finisce. Le auto e i pedoni si rimettono in movimento. Dopo tre quarti d'ora ho sbrigato le mie faccende e torno indietro per la via Giaffa. Improvvisamente sento un altoparlante. Un annuncio per il Giorno della Memoria? Un'auto della polizia è ferma di traverso sulla strada, nessun veicolo può passare. Anche i pedoni vengono fermati. "Non si può proseguire, tornate indietro all'autobus", ordina un ufficiale di polizia.
    Chiedo che cosa è successo. "Jesch chafetz chaschud", è la secca risposta che spiega tutto: c'è un oggetto sospetto. Torno indietro con gli altri pedoni.
    Autobus e pedoni aspettano pazientemente. Nessuno suona il clacson, nessuno urla o impreca. Per gli israeliani un simile comportamento è del tutto inusuale. Le forze di sicurezza ispezionano per vedere se nelle vicinanze della cosa sospetta ci sono altre possibili fonti di pericolo. La tensione si sente nell'aria.
    Chi arriva dopo chiede a quelli che stanno aspettando che cosa è successo. Chi ha un cellulare informa i parenti che sta bene. I poliziotti continuano a dirci di andare più indietro.
    Un po' in distanza si sente un botto.
    Dopo un paio di minuti i poliziotti liberano la strada. Alleggerito, ciascuno riprende la sua strada. In tutto abbiamo aspettato quasi una mezz'ora. Ma se questo è servito a sventare un attentato terroristico, ne è valsa la pena.

(israelnetz.de)



CON LE BOMBE E CON LA PROPAGANDA


La battaglia del campo di Jenin

di Tibi Schlosser, consigliere dell'ambasciata d'Israele

    Tutti sapevano che il campo di Jenin era il cuore del terrorismo palestinese. Questa e' la citta' da cui sono partiti 23 attentatori suicidi che hanno ucciso, ferito o mutilato centinaia di israeliani. Questa e' la citta' in cui Fatah (con le sue Brigate Al Aqsa), la Jihad Islamica e Hamas hanno attivamente cooperato fra loro per massacrare il maggior numero possibile di civili israeliani innocenti, compresi vecchi donne e bambini. Questa e' la citta' in cui sono stati sparsi a piene mani i semi dell'odio contro Israele e gli ebrei, alimentato nelle scuole e nelle moschee. Questa e' la citta' in cui un capo della Jihad, Ali Zafouri, dopo aver mandato alla morte numerosi suoi devoti fratelli, ha pensato bene di arrendersi agli israeliani vivo e vegeto.
    Anche noi sapevamo tutto questo. E sapevamo anche che a Jenin l'unica differenza fra un terrorista e un civile non combattente e' che il terrorista ha le armi in mano e propositi di morte nella testa, mentre il civile ha solo la testa piena di odio. Sapevamo che i terroristi si sarebbero mescolati ai loro concittadini e fratelli usandoli cinicamente prima come scudi umani, poi come materiale per la loro propaganda, per nascondere la loro responsabilita' d'aver mandato a morire i loro stessi fratelli provocando questa tragedia.
    Sapevamo tutto questo, ma ciononostante non potevamo fare altro che entrare nel campo di Jenin per combattere il terrorismo che da mesi ci infligge una "piazza Fontana" al giorno allo scopo

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di distruggerci e di cancellare ogni speranza nostra e dei nostri vicini palestinesi in un futuro diverso, un futuro di compromesso e di pace. Ormai sappiamo tutti che il vero ostacolo alla pace e' rappresentato dal terrorismo, e non dai territori che sono gia' stati offerti alla parte palestinese 20 mesi fa, e che Arafat ha rifiutato preferendo optare per la violenza e il terrore. Per questo non potevano fare altro che entrare nel campo di Jenin, cuore del terrorismo palestinese, per combattere i terroristi la' dove si nascondono, si armano e si organizzano. Anche se sapevamo quanto sarebbe stato difficile.
    Non siamo stati noi a scegliere il campo di battaglia, non siamo stati noi a decidere di trasformare case civili in trappole mortali imbottite con enormi quantita' di esplosivo, non siamo stati noi a farci saltare in aria con potenti cinture esplosive nei vicoli e fra le case, uccidendo insieme soldati israeliani e civili palestinesi.
    Abbiamo mandato nel campo di Jenin reparti di riservisti scelti: gente matura, padri di famiglia, addestrati e con i nervi saldi. Abbiamo proposto sin dall'inizio e chiaramente a tutti gli abitanti del campo di Jenin di consegnare le armi senza ingaggiare combattimenti, per risparmiare tante vite umane da entrambe le parti. Invano. Siamo entrati nel campo di Jenin passando tra le case con grande cautela, mettendo a rischio la vita dei nostri soldati, al solo scopo di distinguere fra terroristi e cittadini inermi. La battaglia e' durata otto giorni, 23 nostri soldati sono rimasti uccisi, 64 feriti. E' chiaro che, usando metodi piu' drastici, avremmo potuto prendere il controllo di questa piccola area in modo completamente diverso, rapido e senza subire perdite, come in passato non hanno esitato a fare i giordani nel "settembre nero" del 1970, il siriano Assad a Hama nel 1982, Saddam Hussein nel Kurdistan e in Kuwait. E che anche oggi non esiterebbero a farlo. Ma noi israeliani no.
    La battaglia del campo di Jenin e' finita sul terreno, ma giorni prima era gia' iniziata la battaglia della propaganda. Il primo colpo l'hanno sparato le autorita' sanitarie palestinesi che si sono rifiutate, anche dopo le nostre sollecitazioni e le nostre garanzie, di rimuovere i corpi dei loro morti. Preferiscono lasciarli li' per le strade, esposti al sole e all'arrivo di fotografi e cameramen. Sanno bene che quando arriveranno le immagini di morte e distruzione del dopo battaglia, quelle saranno le uniche immagini che si imprimeranno nella memoria di tutti. Nessuno verra' informato, nessuno si interessera' di sapere come si sia arrivati a quegli scontri e a quei morti, perche' si sia arrivati a combattere quella battaglia e come sia stata combattuta. Nessuno si chiedera' cosa si cela dietro a quei morti in abiti civili: come era difficile, durante i combattimenti, distinguere i civili inermi usati come scudi dai terroristi, ancora piu' difficile sara' distinguerli nelle immagini del dopo battaglia. Ma nonostante questo, nonostante l'uso cinicamente propagandistico che ne verra' fatto, la nostra Corte Suprema, massimo baluardo della democrazia israeliana, ha ordinato di non toccare piu' niente in attesa degli accertamenti e infine ha disposto che l'esercito israeliano cooperasse con le ONG presenti nell'area per rimuovere i cadaveri.
    Le immagini per loro natura riflettono una realta', ma non tutta la realta'. La verita' e' molto piu' ampia e sta dietro alle immagini, esattamente come i cecchini palestinesi stavano dietro ai bambini mandati allo sbaraglio nei primi mesi di questa cosiddetta intifada.
    Il capitolo conclusivo della battaglia del campo di Jenin e' di nuovo quello scritto da una giovane ragazza palestinese originaria di Jenin che, su ordine di Al Aqsa (cioe' Fatah, cioe' Arafat), si e' fatta esplodere a una fermata d'autobus nel centro di Gerusalemme, portando con se' nella morte sei innocenti cittadini israeliani.
    Purtroppo la battaglia contro il terrorismo dovra' dunque continuare, condizione necessaria per rendere possibile la riapertura della strada verso un negoziato autentico e una vera pace.

(www.israel-amb.it, 15.04.02)



MARWAN BARGHOUTI NELLE MANI DELLA GIUSTIZIA


Lunedi' a Ramallah, in un'abitazione di un membro di Fatah (il movimento presieduto da Arafat) non lontano dal quartier generale dove si trova asserragliato lo stesso Arafat, i soldati israeliani hanno tratto in arresto Marwan Barghouti, segretario generale dell'Alto Comitato del movimento Fatah in Cisgiordania e leader delle Brigate Al Aqsa (responsabili, anche per loro esplicita rivendicazione, di molti recenti attentati terroristici, anche suicidi).
    La firma di Barghouti, che e' anche membro del Consiglio Legislativo palestinese, compare su alcuni documenti rinvenuti dagli israeliani negli uffici di Arafat a Ramallah che dimostrano il finanziamento di attivita' terroristiche da parte dell'Autorita' Palestinese.
    Barghouti, considerato uno dei principali ispiratori dell'ondata di violenze e attentati palestinesi di questi ultimi 19 mesi, era uno dei piu' importanti ricercati dalle autorita' di sicurezza israeliane. In passato aveva piu' volte teorizzato che i palestinesi devono seguire l'esempio dei fondamentalisti Hezbollah libanesi: cacciare gli israeliani con le armi, senza tregue ne' accordi.
    Marwan Barghouti e' l'uomo che ha trasformato l'organizzazione armata Tanzim (illegale secondo tutti gli accordi israelo-palestinesi), legata a filo doppio con il movimento Fatah di Yasser Arafat, in uno dei gruppi terroristici piu' pericolosi, responsabile di tutti i tipi di attentati, compresi gli attentati suicidi commessi da donne e ragazze minorenni.

(Jerusalem Post, 15.04.02)


L'ISLAM INSEGNA: SI COMINCIA DA PICCOLI


   La polizia tedesca sta facendo indagini per una bambina che è stata vista a Berlino, in una manifestazione pro-Palestina, vestita da attentatrice suicida.
    La polizia sta cercando l'uomo che portava la bambina sulle spalle in quella manifestazione, probabilmente suo padre. Il procuratore ha aperto un'indagine che, a detta di un funzionario, potrebbe portare ad un'incriminazione dell'uomo per istigazione ad atti di violenza.
    Le foto pubblicate su un giornale tedesco mostrano la bambina, apparentemente di età sui cinque anni, con tre stecche assomiglianti a dinamite allacciate intorno alla vita.
    Otto Schilly, un alto esponente del governo tedesco, ha detto che questo è un "oltraggioso" abuso di bambina e un preannuncio di atti terroristici.
 "E' un invito all'omicidio", ha detto il consigliere comunale di Berlino, Eckart Koerting."

(ICEJ news service, 17.04.02)


LO DICONO TUTTI


Israele deve ritirarsi!

di  Barbara Mella

    Israele deve ritirarsi: lo dicono tutti. Lo dicono gli arabi, lo dice l'Europa, lo dice l'Onu, lo dice il Papa, lo dice Bush, lo dice la verduraia di Via Dante. Ci sono affermazioni che finiscono per acquistare forza di verità in virtù del numero e dell'intensità delle ripetizioni. C'è stato un tempo in cui è diventato vero che bisognava ammazzare gli ebrei perchè avevano assassinato Gesù Cristo, e poi un tempo in cui è diventato vero che bisognava ammazzarli perché scannavano i cristiani per impastare le azzime, e poi un tempo in cui è diventato vero che bisognava ammazzarli perché stavano portando alla rovina la Germania. Adesso è diventato vero che Israele deve ritirarsi. Lo dicono tutti. Provate a chiedere perché debba ritirarsi: vi guarderanno come un marziano e vi risponderanno: "Ma lo dicono tutti che deve ritirarsi!" E Israele si ritirerà, certo che si ritirerà. Prima o poi - e a giudicare da come si stanno mettendo le cose è facile prevedere che sarà piuttosto prima che poi - sarà costretto a farlo. E per portare a termine il compito che si è prefisso - smantellare il terrorismo - sarà costretto ad accelerare. Il problema, come sanno tutte le casalinghe, compresa quella di Voghera, è che a fare le cose in fretta difficilmente si riesce a farle anche in modo accurato. E dunque Israele non potrà permettersi di lavorare, come ha detto qualcuno, "con lente d'ingrandimento e pinzetta" per stanare i terroristi: dovrà andarci con la mano pesante, ogni tanto sarà anche costretto a sparare nel mucchio. Naturalmente ci saranno più morti civili. E naturalmente la colpa sarà di Israele. E il mondo, una volta di più, sarà riuscito a dimostrare che "gli ebrei sono proprio nazisti". Qualcuno si è mai chiesto che cosa sarebbe accaduto se qualche anima bella si fosse messa a fare pressione sugli alleati perché interrompessero la loro lotta contro il terrore nazista? Se qualche banda di pacifisti fosse andata a fare da scudi umani ai tedeschi? Se mezzo mondo si fosse messo a protestare contro l'uso sproporzionato della forza? Il bombardamento di Dresda è stato, indiscutibilmente, un lavoro di bassa macelleria e le critiche, anche pesanti, non sono mancate, ma nessuno si è mai sognato di invocare sanzioni, di chiedere la rottura delle relazioni diplomatiche, di mettere in atto bicottaggi. A nessuno è mai venuto in mente di equipararli ai nazisti. Cosa che invece, chissà perché, accade regolarmente quando a muoversi sono degli ebrei, che immancabilmente diventano "i nazisti con la stella di David". E pochi, a quanto pare, se ne chiedono il perché.

(da "informazione corretta")


LETTERA DI MINACCE ALL'AMBASCIATA D'ISRAELE IN FRANCIA


PARIGI - L'ambasciatore di Israele in Francia Elie Barnavi ha ricevuto una busta contenente un proiettile di revolver calibro 44 Magnum e una lettera di minacce. Il fatto è accaduto il 10 aprile scorso, ma la notizia è stata diffusa soltanto oggi.

"Mercoledì scorso, l'ambasciata ha ricevuto una lettera sospetta che è stata aperta dalla polizia francese. Gli agenti hanno trovato un proiettile di una Magnum 44 e una lettera di minacce indirizzata all'ambasciatore",

hanno riferito. Secondo la stessa fonte, nella lettera era scritto che, nel caso di minacce alla vita del leader palestinese Yasser Arafat, la comunità ebraica europea ne avrebbe subito le conseguenze, con aggressioni molto più gravi rispetto ai recenti attacchi antisemiti contro le sinagoghe a Marsiglia, Strasburgo e Tolosa in Francia e a Bruxelles. Scritta in arabo e spedita dalla Corsica, la missiva era firmata dal 'Fronte popolare islamico', organizzazione finora sconosciuta.

(Federazione delle Associazioni Amici Italia-Israele, 17.04.02)


INDIRIZZI INTERNET


Il Centenario Sionista